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Massimo Pozzato
Tempo lontano
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Prefazione Non dirò di politica, di immigrazione, di criminalità, di crisi, di contestazioni o del tempo che fa. Non dirò di covid-19, sue varianti e conseguenze, da mesi quasi unico argomento. Voglio parlare a me stesso dei miei ricordi: abbastanza chiari ma frammisti in quel tempo così lontano, certo del dove ma dubbioso del quando. Visto che per governanti, politici e giornalisti è lecito usare nei testi italiani termini inglesi, io userò quelli vicentini, di regola scritti in corsivo e con eventuale traduzione. Scrivendo in dialetto “baccalà, gallinacci, fazzoletti” potrei: 1. usare la grafia italiana da pronunciare alla veneta; 2. scrivere, se possibile, come si pronuncia in italiano; 3. usare caratteri speciali per la pronuncia veneta. Scriverei rispettivamente: 1. baccalà, gialletti, fazzoletti; 2. bacaeà, zaeti, fassoeti; 3. bacaℓà, xa·eti, fa§o·eti. Cercherò di usare il terzo caso con: x=s dolce\ s=s dura\ §=quasi ss\ ℓ=l veneta\ ·=l muta\ sc=s-c Mi piace pensare che in Veneto ℓ rimpicciolisce e diventa ℓ o sparisce del tutto (·). A volte però è anche detta L. Uso § e non ss perché non suona come ss in italiano. Per la giusta pronuncia uso s per s di sole e x per s si rosa. Alcuni e in alcune zone invece di x usano z (pronuncia italiana o spagnola) o th (pronuncia inglese) o d. Non esiste sc di sci e sc è sempre s+c.
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Indice generale
Prefazione..........................................................................1 Africa.................................................................................3 Dai nonni...........................................................................5 Le ceste..............................................................................8 Vita rusticana...................................................................10 El seciaro.........................................................................14 Guerra e pace......................................................................16 Vicenza...............................................................................19 Il latte..................................................................................22 La vaca mora......................................................................25 La scuola............................................................................27 Cortili.................................................................................29 Strasse, ossi, fero vecio......................................................33 Un altro mondo...................................................................35 Divagazioni........................................................................39 Venezia...............................................................................43 I cavalieri.........................................................................60 Canpo de Nane................................................................62 La discesa........................................................................64 Ricordi.............................................................................66 Acqua...............................................................................67 Radici...............................................................................69 Ritorni..............................................................................72 Merluzzo..........................................................................76 A proposito .....................................................................78 Passato remoto.................................................................79 Nomi impropri.................................................................82 Mnemonica......................................................................85 Ponte degli Angeli...........................................................86
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Abbondanza.....................................................................88 La Rua.............................................................................91 Natale...............................................................................93 Nebbia..............................................................................97 Accadde.........................................................................101 Anni fa...........................................................................102 Schei .............................................................................104 Afra................................................................................106 Le scalette di Monte Berico ..........................................109 La polenta......................................................................110 Un bel posto...................................................................112 Le cose cambiano .........................................................114 Scuole............................................................................116 Date................................................................................120 El ciucio.........................................................................122 Bellissimo......................................................................124 A Valdagno, Ponte Briscola...........................................125 Interiezioni ....................................................................127 Radici, 2.........................................................................128 Nostalgia........................................................................131 Vecchiaia........................................................................132 Bilinguismo...................................................................134 Ciao!..............................................................................135 Padoan...........................................................................136 Paese natale......................................................................137 Giovani .........................................................................139
Africa
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Finita la guerra eravamo tornati a Vicenza, in Viale Margherita, a venti passi dal crocevia di Porta Padova. In una stanza del nostro appartamento si era installato un abusivo: Orazio. La stanza era l'ultima del nostro appartamento, quella con la porta sul pianerottolo proprio di fronte alla nostra porta di entrata. Si salivano quattro rampe di scale e si arrivava al pianerottolo del secondo piano: davanti era la finestra, a destra la porta di quella stanza e a sinistra la nostra entrata. Tornavamo da un paese a una quindicina di chilometri. Vi avevo frequentato le prime classi delle elementari e vissuto gli ultimi anni di guerra. Durante la Campagna di Tunisia mio padre era là, “militarizzato”: guidava un camion cisterna per i rifornimenti del Regio Esercito Italiano. Era stato qualche tempo a Roma e mia madre ed io eravamo andati a trovarlo prima che traghettasse in Africa: il mio primo viaggio, per molto tempo unico e memorabile. Avevo 4 anni, ma credo di ricordare ancora le lunghe ore in treno, le fermate in stazioni di città mai viste, una lunghissima galleria. Nelle foto mi sono visto in giro per Roma, mi ricordo in piedi in un ristorante. Da mia madre ho poi sentito che mi avevano complimentato per avere cantato “Lili Marleen” in tedesco: io non lo ricordo. So che la si sentiva cantare alla radio tutti i giorni ma so anche che all’asilo la suora mi dava una caramella da succhiare mentre gli altri cantavano. Dalla Tunisia mio padre scriveva lettere rassicuranti,
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chiudendole con un “vinceremo“: arrivavano aperte, censurate. Erano veline leggere in buste leggere, posta aerea. Restarono rassicuranti ma col passar del tempo sempre più gravi. Scriveva che sotto bombardamento si metteva in una buca di bomba perché era impossibile che due bombe cadessero nello stesso posto. Scriveva di amici feriti o peggio. Scriveva che doveva ritornare ma non c'erano navi per farlo: il Mediterraneo era dominato dall'aviazione nemica e le navi italiane erano continuamente sotto tiro. Ma alla fine tornò, indenne e dimagrito..
Dai nonni
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Dopo i primi bombardamenti in città siamo sfollati dai nonni paterni. La casa aveva una grande cucina con un grande focolare, la cucina economica, ca§on (madia), credenza , tante sedie, la macchina per cucire, una grande tavola su cui mangiavamo noi cinque, i nonni, tre zie e talvolta altri zii e cugini. Contro il freddo invernale la stanza veniva ridotta con provvisori tramezzi di legno e veniva posta una pedana nell’angolo dove le zie lavoravano. A ovest della cucina c’era un largo corridoio: varie cose alle pareti, la porta a sud. Nell’angolo nord-ovest, nel sottoscala, c’era il seciaro, una vasca di pietra di grande superficie e piccola profondità sopra la quale erano appesi quattro secchi e la ca§a, il mestolo dalla tazza capace e quasi cilindrica; a destra la scala di legno saliva a camere e granaio; poco prima, a destra, era l’entrata del “tinello”, diventato allora la nostra camera da letto. Sopra il soffitto di tavole di cucina, tinello e corridoio c’erano tre camere al primo piano; al secondo si trovava il granaio con i mucchi di mele, di noci, di frumento, di pannocchie e la macchina per sgranarle facendo girare la grande ruota-manovella. Dalla nostra camera si passava per una stanza ingombra di non so cosa, si finiva nella stalla dov’erano un asino e due mucche e si usciva nel portico per un grande portone. Sopra il solaio di stanza e stalla un ampio spazio conteneva il deposito delle ceste, utensili vari, cose vecchie e, sopra la stalla, il fieno. Davanti ad esse il portico si apriva a sud con due luci divise da un pilastro centrale, a
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Ovest lo chiudeva la cucina e a Est il muro perimetrale. In cucina si entrava dal portico. Seci e ca§a (secchi e mestolo) del seciaro erano di rame: l’acqua presa e bevuta direttamente con la ca§a era fresca e di sapore speciale. Di rame era anche il caliero (paiolo) appeso alla catena sul focolare. Vi si cuoceva la polenta, rimestandola per lungo tempo con la mescola di legno, badando che non facesse i munari (grumi) e non prendesse el brustolin (sapore di bruciato). Una volta cotta veniva subito versata sul panaro, il grande tagliere circolare con annodato un tratto di gaveta (spago sottile) per affettarla. Di ottone erano invece i bossoli di proiettili d’artiglieria , decorati e non, usati a ornamento del focolare o come soprammobili, vasi da fiori, fermaporte e altro. Ne avevano in tutte le case, ricordo della Grande Guerra. Tutto quello che era di rame o di ottone veniva lucidato col soldame (pomice); i pavimenti (portico compreso) lavati con acqua, varechina, segatura. Nel seciaro si broava su (si lavavano le stoviglie); per la biancheria si faceva la li§ia o broa con acqua bollente e cenere; per certe pulizie si adoperava con grande attenzione anche l’ oio fumante (vetriolo?). Spesso d’inverno ci si rifugiava nella stalla, odorosa ma calda senza consumare legna: il nonno faceva ceste, le donne lavoravano faxendo filò (chiacchierando), noi guardavamo, ascoltavamo, se capaci aiutavamo. Filavano la lana (di pecora o di coniglio d'Angora?); lavorando a feri facevano maglie, berretti, sciarpe, guanti, manopole,
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calzini. La nonna, agilissima, con quattro corti ferri a due punte confezionava senza guardare le maglie tubolari, mentre parlava velocemente o ci raccontava favole o storie di santi o contava i punti. Era piccola e magra, sempre indaffarata, sempre veloce ed efficiente, vestita di scuro, sancheta (mancina). Aveva un fratello maniscalco che chiamavano Cajenna (per dire cattivo come il pepe); lei invece era molto buona, si chiamava Maria e aveva avuto 11 figli dei quali allora viventi Giuseppe (Beparle), Anna (Neta), Rosina, Teresa, Maria: mio padre e le quattro zie “Stivane”. Il nonno Antonio (Toni Stivàn) era invece flemmatico e se la scattante nonna lo sollecitava a qualche lavoro rispondeva serafico “Calma, calma Maria: spunta el sol anca domàn“, vale a dire “c’è sempre tempo”. D’estate lui amava fare un pisolino pomeridiano: se noi ragazzi giocavamo troppo rumorosamente, se non badando al “ssss” della nonna gli impedivamo di dormire, poteva scendere e burberamente minacciarci con la scùria, la frusta che usava con l’asino. Non ricordo una sola volta che ci abbia davvero colpiti, ma per qualche giorno poteva dormire in pace.
Le ceste
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Quando, d’inverno, non c’erano lavori nei campi il nonno faceva ceste. Lavorava nella stalla, al caldo. Con il carro (la careta a quattro ruote cerchiate di ferro sormontate da un ampio pianale senza sponde) tirato dall’asinello andava a prendere i pali di castagno a Caltràn e le strope (vimini) a Fimon, un giorno di viaggio di quà e uno di là, uno ai piedi dell’altopiano e l’altro oltre Vicenza, sul piccolo lago. Ci sono andato anch’io con lui ma non so se durante o dopo la guerra. Metteva i pali in ammollo nell’albio (el labio), la grande vasca di pietra, e li lasciava nell’acqua qualche tempo; poi piegati a U e induriti col fuoco diventavano manici e i pezzi avanzati corte gambe, tagliati in sottili liste servivano per l’ossatura delle ceste. Per fare manici e liste cavalcava la cavalla, una panca di legno con un’asse verticale su cui erano infissi tre pioli usati per curvare o appoggio; sagomava gambe e manici in modo che fosse facile metterli e difficile toglierli, facendo due o tre denti a cuneo. Incrociava le liste formando una stella dai molti raggi; partendo dal centro infilava i vimini e creava la base facendoli passare alternativamente sotto e sopra le strisce; piegava in su i raggi e continuava a intrecciare fino all’altezza voluta terminando con un giro sopra e sotto il bordo superiore. La cesta appariva allora come un grosso riccio, con le punte di ciascun vimine che fuoriusciva a intervalli regolari; con una lama affilata le tagliava alla base, infilava le due estremità del manico tra i vimini e i due raggi della stessa lista; a volte inseriva tre o quattro gambe di 5-10 cm.
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Le ceste erano finite, scure. Se si volevano chiare erano poste sotto un grosso telone e sbiancate bruciandovi zolfo. Talvolta usando vimini scuri e chiari faceva ceste, più spesso cestelli, con righe nere su sfondo bianco o viceversa. Tutte finivano su nel deposito, pronte per le consegne di primavera fatte con carro e asino. Ne ricordo una a un grande emporio di Thiene, passando l’Astico a Montècio (Montecchio Precalcino) dove la strada entrava nel torrente quasi sempre asciutto: un viaggio che allora mi pareva lunghissimo.
Vita rusticana
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In cucina si entrava dal portico, attraversata la cucina si entrava nel corridoio e girando subito a destra passando per la nostra camera e per l’altra stanza si finiva nella stalla e da lì (girando ancora a destra) si tornava nel portico per un grande portone di legno, l’entrata delle bestie (due vacche e un asino). Vista dal cortile a sud, nella metà a sinistra erano i due piani abitativi mentre a destra la parte inferiore era aperta e divisa in due da un pilastro: un ampio portico sul quale si affacciava la finestra dell’altra stanza e il portone della stalla. Sopra i due piani abitativi c’era il granaio. Sopra l’altra stanza c’era una specie di magazzino e sopra la stalla il fienile, in un unico spazio libero fino al tetto. Nel portico una grossa trave andava dal fienile al muro opposto, dove era il pilastro; un soppalco di tavole era sistemato tra il centro della trave, il muro sud e il muro est; al di sopra di magazzino-fienile, soppalco e portico si vedevano i coppi del tetto; dentro e fuori per sei mesi volavano le rondini e per sei restavano i nidi vuoti. Una volta all'anno la trave veniva usata per appendervi e squartare il maiale, ma quando non serviva a quello scopo spesso vi si legavano i due capi di una corda per fare el brìscoℓo (l’altalena). Una scala a pioli portava al fienile, da lì passavo al soppalco camminando sulla trave: tanta incoscienza bambinesca provocava il terrore negli adulti e conseguenti sgridate e punizioni; ma spesso durante la siesta non c’era nessuno a vedermi. Un’ altra scala a pioli saliva a una sporgenza della parete est ed al soppalco che sosteneva: là mi era permesso andare a raccogliere le uova di gallina;
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altri posti per le uova erano nel fienile e dentro il pagliaio, ma si cercavano e trovavano anche altrove. Sull’angolo sud-est del portico, poggiata all’interno del muro c’era la pompa dal lungo manico e abbondante getto con sotto un grande contenitore (el seciòn): a volte dovevamo, più spesso ci divertivamo a pompare l’acqua, lì per le bestie o nei secchi per gli usi domestici; all’esterno del muro c’era el labio (l'albio); la latrina era un casotto di legno sopra il letamaio, laggiù oltre la casetta col porcile sotto al pollaio e poco lontana dal pagliaio conico, ai confini con l’orto del vicino. In quella zona, ma vicino alla strada, cresceva un moraro, un gelso dalle tenere foglie che servivano anche a sfamare i voraci rumorosi vermetti sulle arelle stese sopra cavalletti nel granaio, fino a quando, silenziosi, si rinchiudevano nei loro bozzoli dorati: calava il silenzio in granaio e cominciava il ciacoℓare delle zie in cucina, intente a bollire i bozzoli e a trarne la seta. Qualcuno ci veniva lasciato, ne usciva la farfalla. Le arelle tornavano sul soppalco. Altri ricordi mi fanno dubitare d’avere sempre dormito nella stanza al pianterreno. Oltre la porta del granaio c’era il sacco con le ciope de pan biscoto, il pane biscottato a lunga conservazione: ricordo che ne prendevo e, scendendo al mattino, con quello rubavo un po’ della panna formatasi sopra il latte nel bacile (piana) che la nonna metteva alla sera sul davanzale della finestra a tramontana, a metà scala, per fare burro. La finestra a tramontana era il frigo di mia nonna e il burro lo faceva sbattendo la panna in un fiasco
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spagliato. Frutta e verdura si prendevano nell’orto, quand’era la stagione. Cominciava presto la giornata: governare la stalla, mungere le vacche, raccogliere uova e verdure, preparare il mangiare. Si andava nei campi a volte in bicicletta, più spesso sul carro a quattro ruote tirato dall’asino, al passo o al piccolo trotto. Anche a far pasquetta si andava così, tranquillamente. Invece quanto correva el mu§eto (l’asinello) sotto un cielo nero, minacciante acqua e grandine, per portare al sicuro un carico di fieno! Il nonno aveva lavorato uno o due giorni di falce e poi, per alcuni giorni, tutti con forche e rastrelli per spargerlo al mattino e riunirlo in marèi alla sera. C'era il sole, il fieno doveva essere bello asciutto, pronto per essere messo nel fienile, dopo la siesta. E arriva quel tempaccio; il nonno attacca l’asino al carro e di corsa ai campi (1 o 1,5 Km da casa) e tutti, in bicicletta o sul carro andiamo là per raccoglierlo velocemente, prendere fiato guardando il cielo e riprendere ancora più alacremente a metterlo sul carro, sempre più in alto, forcata dopo forcata: è tutto, altissimo, legato, bloccato sotto una lunga pertica. Svelto sul carro, sopra il fieno, col nonno: “iii” e l’asino parte, corre il poverino, schiocca la frusta, lo colpisce e corre, guardiamo il cielo, forse ce la farà, arriviamo, il cancello è aperto, c’infiliamo nel portico. “Ooo”, l’asino si ferma, il fieno è salvo, fuori inizia il diluvio. Anche i nonni materni abitavano in quel paese, nella piazza, un 300 metri dagli altri ed io ero spesso da loro,
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nipote preferito o quasi. Tre cugini doppi (figli di sorella di mio padre e fratello di mia madre) avevano gli stessi nostri nonni, zii e cinque cugini, che si adeguavano considerando loro parenti anche quelli che erano solo nostri. Pianta approssimativa della casa dei nonni paterni NORD
El seciaro
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Nell’angolo nord-ovest della casa dei nonni paterni, nel sottoscala, c’era il seciaro, una vasca di pietra di grande superficie e piccola profondità sopra la quale erano appesi quattro secchi e la ca§a, il mestolo dalla tazza capace e quasi cilindrica. Seci e ca§a (secchi e mestolo) erano di rame: l’acqua presa e bevuta direttamente con la ca§a era fresca e di sapore speciale. L’acqua veniva messa nei seci direttamente dalla pompa a mano e i seci portati nel seciaro. La pompa era nell’angolo SE della casa, nel portico. Praticamente nell'angolo opposto al seciaro, piuttosto lontana ma sempre a pianterreno. I nonni materni invece avevano il seciaro al primo piano e la pompa al pianterreno: bisognava portare i secchi pieni d’acqua per una rampa di scale. In tutti i casi arrivati al seciaro bisognava sollevare i pesanti secchi per appenderli agli appositi ganci in alto sopra la vasca di pietra. Anche a casa mia c’era el seciaro, in tutto simile a quelli dei nonni tranne che non c’erano i secchi pieni d’acqua ma il rubinetto dell’acqua corrente, ovviamente solo fredda (ma d’estate non lo era abbastanza). A destra del seciaro c'era la sgio§arola, un piano inclinato dello stesso materiale sul quale, dopo averle lavate, si mettevano le stoviglie in modo che l'acqua della sgocciolatura finisse nella grande bassa vasca. Sopra seciaro e sgio§arola c'era una lunga mensola, sulla mensola c'erano sempre dei capaci vasi di vetro, contenitori per cipolline e peperoncini sotto aceto. Nella giusta stagione noi fratelli aiutavamo la mamma a sbucciare
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le cipolline e a mondare i peperoncini. La famiglia era numerosa (7 persone), i vasi erano tanti e grandi (4~5 litri) e grande era la quantità di cipolline o peperoncini. Non ricordo confetture, marmellate o altre verdure. Ma peperoncini e cipolline non mancavano mai. Quando a carnevale mi rimpinzavo di grusto·i o frito·e immancabilmente finivo col smorbarmi la bocca con sio·ete o, preferibilmente, pevaroni. La casa in città era vecchia e non aveva le comodità moderne ma a differenza di quella dei nonni aveva acqua corrente e il cesso non in cortile. Di rame era anche il caliero (paiolo) appeso alla catena sul focolare. Vi si cuoceva la polenta, rimestandola per lungo tempo con la mescoℓa di legno, badando che non facesse i munari (grumi) e non prendesse el brusto·in (sapore di bruciato). Una volta cotta veniva subito versate sul panaro, il grande tagliere circolare con annodato un tratto di gaveta (spago sottile) per affettarla. Di ottone erano invece i bossoli di proiettili d’artiglieria, decorati e non, usati a ornamento del focolare o come soprammobili, vasi da fiori, fermaporte e altro. Ne avevano in tutte le case, ricordo della Grande Guerra. Tutto quello che era di rame o di ottone veniva lucidato col soldame (pomice); i pavimenti (portico compreso) lavati con acqua, varechina, segatura; si broava su (si lavavano le stoviglie) nel seciaro e per la biancheria si faceva la broa , acqua bollente e cenere, la li§ia; per certe pulizie si adoperava con grande attenzione anche l’oio fumante (vetriolo?). Guerra e pace
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Di notte c’era Pippo a terrorizzare i grandi e noi con loro, di giorno i bombardieri ad affascinarmi, una volta un sibilo vicino (una scheggia?) a inorgoglirmi; nei campi raccoglievamo bossoli di mitragliatrice. Mio padre girava col camion e spesso non c’era (era allora che dormivo al pianterreno?); i tedeschi nella vicina Bassano avevano impiccato non so quanti partigiani; al paese si diceva che ricercavano un uomo alto, magro; mio padre era alto, magro. Mia madre era quasi sempre spaventata e ora aveva un figlio di pochi mesi: su tutti i pannolini* e fasce aveva ricamato una “S”: dopo maschio femmina maschio doveva essere Silvana e così fu Sergio. E anche i tre cugini doppi erano diventati quattro. Ora i tedeschi fuggivano, cercavano biciclette e la gente le nascondeva. Un ragazzino di loro – pistola in mano – ne pretendeva una da noi: non si poteva dargli quel capitale, nemmeno per la vita, ma poi se ne andò e restammo con bici e vita. Si ascoltava ancora guardinghi Radio Londra, ci parve di capire che gli alleati erano a Piacenza: sul tardi udimmo un gran colpo; mio padre ci fece stendere tutti a terra, mia madre terrorizzata voleva uscire ma fu stesa con la forza. Poco dopo un altro boato e un altro: ne contammo nove, poi silenzio; attesa, silenzio; ci trasferimmo velocemente nel rifugio scavato presso la casa dei Scàraba (la famiglia del fratello di mio nonno), appena al di là della strada e aspettammo, grandi e piccoli svegli e tesi.
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Gli uomini andavano e venivano; prima dell’alba entrò qualcuno annunciandoci che erano arrivati gli “americani”: non erano a Piacenza, ma a Vicenza. Uscimmo, tornammo nella casa dei nonni, guardinghi e allegri; il primo “americano” che ho visto disse, in qualche modo, di essere polacco e cattolico e mostrava corona e santini; nella cucina c’era un Sacro Cuore con un lumino elettrico sempre acceso. Poi ne arrivarono altri, molti altri; ce n’erano ovunque, bivaccavano sulla strada, nell’aia, nel portico; scambiavano il loro scatolame con patate, cipolle e altri prodotti dell’orto che nel muro di cinta aveva ora una larga breccia; schegge metalliche erano conficcate nel portico, ma mamma non era uscita; usarono le nostre pentole più grandi per cucinare, bruciando le loro scatole cerate; distribuirono sigarette ai grandi, cioccolata ai piccoli; qualcuno provava goffamente ad andare in bicicletta. Le campane suonarono; andammo in piazza: eravamo euforici attorno a due mitragliatrici (contraeree da 20, disse mio padre), attorno al carro armato abbandonato. C’era gente, americani a piedi e sulle jeep, tanti; arrivò qualcuno, gridò qualcosa e corsero via: dei tedeschi erano stati visti in qualche posto. Noi tornammo a casa, mio padre mi mostrò una pistola e seppi che l’aveva presa a un autiere tedesco, nella piazza del paese, fingendosi armato e minacciandolo con le dita in tasca: l’incoscienza non era solo dei bimbi, in casa nostra. Era lui che cercavano.
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Volli provare la pistola: me la dette, pesava e non riuscii a premere il grilletto; per anni pensai che non ero abbastanza forte, non che aveva messo la sicura. Qualche anno prima scriveva “vinceremo”, qualche giorno prima aveva fatto quella pazzia: senza mai pensare di trarne vantaggio, solo seguendo l'impulso del momento come quando anni prima aveva salvato un uomo dalla folgorazione o aiutato mesi dopo la moglie di un “repubblichino” incarcerato a Vicenza: lei ci regalò un grazioso cagnolino, la nostra “Boba”. Qualche tempo dopo tornammo a Vicenza. La Boba al chiuso era un disastro; fu riportata dai nonni paterni, ma spesso andava a trovare gli altri nonni, come facevamo noi.
(*) I pannolini di tela non si gettavano ma venivano lavati, asciugati, riutilizzati e conservati per altri figli. I neonati erano stretti in fasce. •
Vicenza
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Orazio occupò parte del nostro appartamento per un po’, poi scese di un piano: quello che era stato il suo pavimento era diventato il suo soffitto. Era un “borsanerista”, contrabbandiere dei dazi comunali, maledetto e benemerito. La sua stanza (con porta sul pianerottolo) era piena di generi che non si trovavano nei negozi (quasi niente c’era allora nei negozi). Riempiva due sporte, le appendeva a destra e a sinistra sul manubrio della bici e se ne andava in giro a vendere la sua merce: per me è stato il primo “lavoratore in nero” oltre che primo “abusivo”. Mi metteva un po’ di paura con quel suo fare misterioso: non parlava, sussurrava; vestiva di scuro, portava il cappello, fumava, Orazio. Davanti, un po’ a sinistra (ovest) c’era Vicenza. Di là della strada Severino D******* ex corridore ciclista, vendeva e aggiustava biciclette; il negozio dava su Contra' Porta Padova, l’officina su Viale Margherita e da questa strada si scendeva nel cortile-officina. Poi c’era un prato (el prà de C******, el becaro) con gli orti, le basse casette della corte, i resti delle mura cittadine e sulla destra la palazzina con l’entrata, la latteria e la macelleria in Contra' Porta Padova, dopo il negozio di biciclette e il muretto che ne sovrastava il cortile. Non vedevo la cupola della Basilica, era stata distrutta: l’avrei rivista qualche tempo dopo, rame rosseggiante sotto il sole fino a quando è tornata di un colore più sobrio e consono. Anche la parte terminale della Torre mancava. Al tramonto il sole calava oltre la città; di notte le strade tornarono a illuminarsi; d’estate l’asfalto molle cedeva sotto
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i piedi; d’inverno mondo e rumori quasi sparivano nella densa nebbia, poco contrastata dalla gialla luce del crocevia. Dalle finestre dietro si poteva vedere il primo sole, un grande ciliegio, il nostro piccolo cortile, una serie di orti fra le case di Corso Padova e Borgo Casale. La fabbrica di Giocondo P** (birra e vino) dall’una all’altra via chiudeva l’orizzonte davanti. A destra era il cortile della ditta Pietro L*** Legna&Carboni e, più lontano, sul colle l’altra Basilica, il Santuario della Madonna di Monte Berico mille volte implorata nei triboli della guerra. “Oh! Maria Vergine Santi§ima de Monte Berico” detto con toni di afflizione, di meraviglia, di gioia, d’invocazione, di sorpresa era tipico e frequente nel vicentino, quasi quanto il ciò (bello, ciò/ ecco, ciò/ ciò, viento?/che caldo,ciò!), l’ equivalente del tèi o toi dei trentini. Il bocciodromo (ℓa corte de·e ba·e) di Borgo Casale si sentiva molto ma si vedeva poco. Dei danni subiti dalla città e dalla casa dove abitavo il ricordo è vago, forse sono stati riparati presto: c’erano di sicuro, perché mio padre parlava di uno spezzone incendiario finito nel nostro sottotetto e quindici anni dopo lavoravo per accelerare il rimborso dei danni di guerra subiti dai fabbricati dell’Ente che mi stipendiava. Sergio cresceva ma viaggiava ancora in carrozzella; anche Renzo, il fratello di un’amica di mia sorella, era piccolo. La carrozzella poteva portare due bimbi, uno di fronte all’altro. Mia sorella e l’amica la spingevano e io
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camminavo con loro per il viale dai grossi platani lungo il fosso. Superato el canpo de Nane – un semi selvatico terreno di giochi – dopo il ponte girammo a destra, nella strada tra Retrone e Bacchiglione. Dopo un po’ le due ragazze videro dei fiori, laggiù sulla riva. Mi lasciarono a guardia dei bimbi e scesero a coglierli. La carrozzella era ferma sul ciglio della strada, vicinissima alla scarpata che finiva nel fiume. I bimbi sono curiosi, si sa: io guardavo le due ragazze, anche i due più piccoli le guardavano. Per meglio vedere entrambi si sporsero, la carrozzella si ribaltò, rotolò nella scarpata e ... si fermò in una buca di bomba: non ebbero danni, la guerra li aveva salvati.
Il latte
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Il latte ci voleva, a casa nostra: il latte e il pane. Non ricordo problemi per il pane, che compravamo a credito (mio padre lavorava, ma solo di tanto in tanto la ditta poteva dargli i soldi che gli doveva). Per comprare il latte si andava dalla latara. Bisognava andarci presto, con le bottiglie: finché non c’era molta gente si poteva aspettare sul muretto, poi fare la fila e attendere. La fila di due o tre persone affiancate a volte finiva oltre la confinante macelleria e si aspettava. Si aspettava l’arrivo della lattaia, che apriva la porta. I primi entravano facendo la fila a destra, lungo la vetrina, il muro, il bancone; poi si aspettava che arrivasse il latte. Arrivava un camioncino, prendevano alcuni bidoni (zare) e li portavano dentro. Qualche manovra per versare il latte nel bidone fornito di rubinetto che veniva posto sul bancone e poi cominciava la vendita: la lattaia riempiva di latte il misurino (¼, ½, 1 litro) e lo versava con l’imbuto nella bottiglia del cliente, si pagava con AMlire quadrate e avanti un altro. Spesso capitava che il latte finiva, ma la coda no: molti rimanevano senza, noi non potevamo permettercelo* e facevamo le lunghe attese. Ma anche così poteva capitare di rimanere senza latte. Soluzione: latte in polvere o latte condensato. Così mi avviavo verso Levà degli Angeli per comprare l’uno o l’altro, mai che ce ne fosse una scorta in casa. Il latte condensato era dolce, appiccicoso e si poteva mangiarlo usando un dito o un cucchiaio; il latte in polvere
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mangiato così si ingrumava in bocca, allungato con l’acqua sapeva più di acqua che di latte, il latte fresco si doveva bollire. Quando cominciò a essere più abbondante, pastorizzato, venduto in bottiglie di vetro dalla larga bocca tappata con l’alluminio (vuoto a rendere) e la lattaia averne per tutti, in casa non arrivava mai tutto quello comprato: due buchetti sull’ alluminio e succhiavo camminando. Camminavo piano, ma abitavo molto vicino. (*) A fine guerra noi bimbi avevamo 11, 9, 7 e meno di 1 anno, ovviamente non c’era frigorifero e il latte andava sempre bollito.
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La vaca mora Proprio sotto casa passava la vaca mora. Così erano detti la locomotiva nera e fumosa e il treno delle ferrovie locali che da Vicenza andava a “Recoaro, Arzignano, Chiampo (a Montecchio si cambia)”, “Marostica-Bassano” (la prendevamo per andare dai nonni: capitava di dover scendere per permetterle di superare un cavalcavia), “Noventa, Montagnana“. Quest'ultima linea andava dalla stazione a Porta Monte passando per S. Croce, S. Bortolo, S. Lucia, Porta Padova e Viale Margherita: un cerchio quasi completo attorno alla città, all'esterno delle antiche mura con fermata ad ogni loro Porta. Quando arrivava la casa tremava e si dovevano chiudere le finestre per non riempirci di fumo. Sferragliava e fischiava; anche il capotreno fischiava, perché davanti casa c’era la fermata. Fino a Porta Padova il binario era sul lato destro della strada, ma lì passava a sinistra tagliando in diagonale il crocevia. I più fortunati allora avevano la bicicletta, ma quasi tutti in famiglia ne avevano almeno una e la usavano a turno. Andando da Porta Monte a S. Bortolo, in Viale Margherita le rotaie erano a destra e subito dopo l’incrocio a sinistra: i ciclisti nell’incrocio dovevano sterzare a destra e tagliare le doppie rotaie per non infilare una ruota in mezzo e cadere. Erano tutti esperti, quasi nessuno cadeva e quelli che cadevano più che farsi male facevano una figuraccia. Nonostante il fumo il rumore e le doppie rotaie
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lazzarone, la vaca mora – locomotiva e vagoni – mi era simpatica e utile: vedevo un sacco di gente alla fermata, salivo sui respingenti dell’ultimo vagone per un passaggio fino al non lontano ricreatorio, i finestrini aperti erano bersagli dei cartacei proiettili (pìro·e) della cerbottana, sulle rotaie facevo schiacciare barattoli o altri contenitori quasi sempre vuoti. Più birichinate che cattiverie.
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La scuola Tutto questo discorso è nato considerando che quasi nessuno dei bambini va oggi a scuola a piedi, da solo, non accompagnato in macchina dai genitori, mentre ai nostri tempi era il contrario. Ho ripensato alla scuola nel paese, alla sberla che mi sono preso dall’insegnante, ai sassi caldi che tenevamo nelle tasche d’inverno camminando su strade ghiacciate, alle sli§egade (scivolate) sulle lunghe lastre di ghiaccio (sli§egaro·e) naturali o provocate con secchiate d’acqua, alle grandi stufe della scuola e alla poca legna, a quanto fosse vicina a casa la scuola a Vicenza: volevo parlare di questo ma ho parlato di tante altre cose e mi accorgo che sulla scuola non ho molto da dire. La sberla dall’insegnante nella scuola del paese è giunta inaspettata ma forse non immeritata. Eravamo in classe, si sentivano gli aerei volare bassi, ripetutamente. Siamo corsi tutti alle finestre a guardare (ma perché non ce l’ha impedito?). Io guardavo, ammiravo, ho espresso ad alta voce la mia ammirazione – “che picchiata!” – e mi sono preso un sonoro schiaffo in faccia: i caccia “americani” stavano mitragliando la stazione, un due-trecento metri davanti a noi … proprio dove l’insegnante abitava. Magari oggi i genitori la denuncerebbero: i miei non lo fecero, anche perché prudentemente non ne parlai, allora. Alla scuola di Vicenza anche se avessimo avuto l’automobile mai ci sarei andato non a piedi. Nelle strade non c’era gran traffico: biciclette, qualche carro trainato da
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cavallo o asino, qualche rara vettura, il filobus (el tran co·e tirache). Per i passaggi pedonali non c’erano strisce ma borchie, si diceva inventate a Trieste per impedire alla bora di portar via le strade; con un po’ di attenzione si passava da un marciapiede all’altro senza pericolo. Attraversavo la strada e andavo verso il centro per un centinaio di metri. Lì c’era il castagnaciaro, il primo extracomunitario che ho conosciuto. Forse extracomunitario è un po’ esagerato: era solo toscano, ma tutti gli altri erano vicentini, veneti. Faceva castagnaccio semplice, con i pinoli e non so con cos’altro, buono e caldo. Faceva anche il barbiere: nella bottega del barbiere titolare più di una volta è stato lui a tagliarmi i capelli e siccome mamma non diceva niente, credo fosse bravo anche in quello. In sua assenza c’era la castagnaciara, sua moglie: non credo facesse anche la parrucchiera, ma qualche tempo dopo oltre al castagnaccio vendeva panna montata d’inverno e gelati d’estate. Attraversavo la via e mi trovavo in uno spiazzo in fondo al quale c’era il cancello della scuola: si entrava in un vasto cortile con grandi alberi. Se si usciva dalla parte opposta si era davanti al ricreatorio, confinante con la scuola. Credo di non essere mai arrivato in ritardo, sia perché abitavo vicino sia perché in quel cortile si poteva giocare fino a quando i maestri non ci dicevano di fare le file per entrare sia perché – nella giusta stagione – dai grandi alberi cadevano dolcissime pàpo·e. Non chiedetemi cosa sono: non lo so, ma mi piacevano. PS - Mi dicono che le pàpo·e sono il frutto del bagolàro.
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Cortili Non era grande il cortile sul retro. Da quella parte avevamo le finestre di camera dei genitori, cucina, corridoio e camera nostra, di noi maschietti più giovani. Un lato del cortile quadrato coincideva con i primi tre vani. Dall'altra parte al corridoio corrispondeva il vano scale. Entrati dalla strada, subito a destra la porta della Cal**** (poi del signor Mi****) e a sinistra la porta della signora Bo*** e la prima rampa delle scale a destra di essa, sotto la seconda rampa un corridoio andava dalla porta sulla strada diritto alla porta sul cortile: con entrambe le porte aperte potevamo soffiare con la cerbottana i nostri proiettili di carta (piro·e) contro la vaca mora ed eclissarci immediatamente. Le finestre delle camere erano di normale grandezza, con gli scuri che scorrevano su rotaia dentro il muro. Quelle di cucina e corridoio erano molto grandi, ognuna munita di avvolgibile di stecche di legno che si srotolava allungando la corda di sostegno; barre di ferro sagomato reggevano all’esterno fili per stendere e tavole di legno con sopra innumerevoli vasi di fiori: tanti gerani, tanti colori , tante qualità, primo e ultimo pensiero della giornata materna. Al centro del cortile una piccola aiuola rotonda con una bassa palma; piccoli orticelli di guerra occupavano qualche metro dal muro su tre lati. Sul lato Sud-Ovest, all’ombra del fabbricato confinante, c’era solo una piccola pianta dalla bianche tenere bacche. Da quella parte un po’ del nostro orto per qualche tempo divenne recinto per poche galline.
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Il terreno non coltivato del cortile era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “mama” fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un gioco, una protesta, una lamentela, la merenda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse pan, buro e sucaro e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta. A Nord-Est un muro, alto meno di due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quel cortile. Non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A Sud-Est un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e poi sparirono del tutto. Ora che eravamo più grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini (specialmente la siora Cal****) protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa. Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No******* (Ico) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di un alto palazzo affacciato su Porta Padova, passava sotto le basse case sopra i garage e al successivo muretto (mureta) affacciati su Via Legione Gallieno,
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salendo fino al cancello quasi sempre aperto. Tante volte ci si sedeva sulla mureta, all’ombra delle case d’estate o al sole d’inverno. As****** (Adriano) aveva la corte al di là della strada, poco prima, ma era inutilizzabile: vi lavorava il maniscalco ed era ingombra di tante cose. Dalla mureta si poteva proseguire avendo alla sinistra, al di là del fosso e di un terreno più o meno coltivato, il cortile e l’edificio scolastico; poi ancora qualche decina di metri, si girava a sinistra e si arrivava al cortile del ricreatorio per giocare con amici vicini e lontani, ma non più bimbi. A fianco della corte di No*******, qualche metro più alta, c’era la corte di Pi*** (Toni), molto più piccola. Scendeva in un orto sovrastato dal cortile della scuola.Tra corte e orto c’era un fico, palestra di arrampicate e motivo d’imprecazioni del padre di Pi*** contro noi probabili distruttori delle opere di madre natura, considerando che i rami del fico sono molto fragili. La terrazza di Pa**** (Piero) dava su quel cortile mentre, dal lato oppoato, le finestre della sua sala dominavano un vasto piazzale in terra battuta, altro terreno di gioco. Da quel piazzale si entrava nel cortile della scuola e si usciva al ricreatorio, ma non sempre era possibile. Nel cortile del ricreatorio si entrava solo negli orari stabiliti, ma erano molto estesi. Cortili piccoli o grandi ma assolutamente liberi da autovetture, allora. Sulla terra dei cortili tracciavamo le “piste” – spesso complicate con curve, salite, discese,
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ostacoli – sulle quali facevamo correre i “querceti” (coperchietti), i tappi a corona delle bibite con incastrata la faccia dei nostri ciclisti favoriti ricavata dalle “figurine”. Le figurine erano o comprate – non molte – o frutto di “scambio” dei doppioni o vinte. C’erano diversi modi per vincere o perdere figurine. Nel cortile si lanciavano in vari giochi che non ricordo o si scommettevano sulle gare dei “querceti”. Seduti sulla muretta si puntavano sulle partite a carte: rubamazzetto, briscola, scopa, cavacamixa o anche a poker ma il più delle volte al ricreatorio: sulla muretta si poteva star seduti uno di fronte all’altro solo in due e il terzo o quarto doveva stare in piedi.
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Strasse, ossi, fero vecio Non si stava benissimo molti anni fa, si viveva con il poco essenziale e niente superfluo, ma si poteva giocare nelle strade quasi vuote di auto e girando in bicicletta l’unico pericolo era costituito dalle doppie rotaie della vaca mora negli incroci: se non le “tagliavi”, potevi infilarci una ruota e cadere. Ora penso che non si viveva poi così poveramente come credevo: il pane era cosa comune, ora è quasi un lusso; polenta e baccalà alla vicentina c’era tutti i venerdì, ora mi pare una leccornia da gustare qualche volta all’anno; pane e salame, pane e pancetta, pane e lardo, minestron, minestra di verze erano il nostro povero cibo e sognavamo pollo con polenta. Ora, per me, è il contrario. Nella giusta stagione non era un lusso avere ciliegie, prugne (bronbi e amo·i), piccole pere (peri sanpiero·i, perché maturavano a fine giugno, San Pietro), fragole di bosco, castagne, patate dolci. Ora è sempre stagione e prezzi alti. Ad una cert’ora passava el scoa§aro sul suo triciclo a pedali con due bidoni sopra, soffiava nella sua trombetta e mamma mi mandava giù a portare il sacchettino delle scoa§e. Non c’erano e non servivano cassonetti né camion con due uomini sulle predelle posteriori o braccio meccanico su un lato: bastava un sacchettino da consegnare al scoa§aro quando suonava la trombetta, ma le strade erano mai ingombre di rifiuti, pulite dal spa§in con la lunga ramazza.
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Non c’erano oggetti di plastica ma di legno che, una volta inadatti all’uso, finivano nella stua; i vestiti venivano aggiustati, rigirati, passati al fratello minore (c’erano fratelli). Non c’erano rifiuti in giro e non ricordo se si pagava la tassa specifica, ma si poteva raggranellare qualche soldo consegnando giornali e materiale vario a quel tale che, pure su triciclo a pedali, girava per le strade di città e paesi gridando “Strasse, o§i, fero vecio!“. Nessuna emergenza rifiuti. NOTE. Vaca mora= locomotiva delle FTV Stua= stufa, serviva per cucinare e scaldare la stanza Scoasse=spazzatura (da scoa=scopa), rifiuti Scoa§aro=operatore ecologico un tempo detto netturbino, chi raccoglieva le scoa§e Spa§in=operatore ecologico un tempo detto spazzino Minestron=minestra di pasta, fagioli, patate, aromi Stra§e, ossi fero vecio=stracci, ossa, ferro vecchio.
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Un altro mondo Molti anni fa, quand’ero ragazzino, vivevo in un altro mondo. Non ero mai a casa, o quasi mai, ma mia madre sapeva sempre dove trovarmi, come lo sapevano quasi tutte le nostre madri. Lo sapeva e non mi veniva a cercare, non temeva che usassi droga (nessuno lo faceva), che subissi un incidente d’auto (quasi nessuno l’aveva) o con il motorino (il Mosquito andava più adagio della bici). Per l’ora di cena ero sempre a casa, in tempo per cenare. Magari potevo tornare a casa senza una maglietta, tolta e dimenticata o (com'è capitato) senza i calzini che avevo perduto pur essendo assolutamente certo di non essermi tolto le scarpe. Lo affermavo e ancora lo affermo, ma non so spiegarmi come possa essere successo. Passavo – passavamo – la maggior parte del tempo al ricreatorio parrocchiale de San Piero. Molto tempo, avevo molti impegni. Si giocava a calcio su un terreno senza erba (mai esistita) e con molti sassi; ma non mi entusiasmava, non ero molto bravo e preferivo altri giochi. Sullo stesso terreno si giocava anche a “pallacanestro” (mai chiamato basket), più o meno con lo stesso entusiasmo e gli stessi risultati. Era il tempo che nel mondo imperversava la “canasta” e anche noi facevamo interminabili partite a quel gioco con due mazzi di carte che ora non saprei forse più giocare. Si giocava fra quattro amici in una delle sale o, d’estate, all’ombra degli striminziti alberi posti su un lato del campo di calcio e di pallacanestro che, di domenica, era anche la platea del cinema all’aperto parrocchiale.
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Il ricreatorio aveva anche un biliardo in una sala e in altre dei biliardini, un paio di “calcio balilla” e due ambitissimi tavoli da ping pong che d’estate spostavamo nel portico o sotto gli alberi. Per giocare al tennis da tavolo c’erano di sicuro anche le spato·e, le racchette di legno; credo ci venisse fornita anche la pallina, ma potrei sbagliarmi. Qualcuno di noi aveva la racchetta personale, rivestita di gomma, un lusso per pochi: io e molti altri usavamo quello che ci passava la parrocchia. Ping e pong erano suoni quasi immancabili, al ricreatorio. I primi arrivati cominciavano a giocare; chi vinceva continuava e chi perdeva lasciava la spatola a chi veniva dopo e così via. Nessuno era imbattibile, ma qualcuno faceva molte partite qualcun altro poche. A me qualche volta andava bene altre meno: c’era qualcuno che raramente riuscivo a vincere ma magari potevo battere chi lo vinceva. Se eravamo in pochi le partite di singolo andavano ai 21 punti, altrimenti si facevano partite di doppio ai 21 punti o di singolo agli 11. Chi perdeva, aspettando il suo nuovo turno poteva consolarsi giocando al calceto, il vecchio calcio balilla in edizione moderna: campo di vetro su panno verde, con gli undici giocatori di plastica manovrati con quattro aste di 1, 2, 5, 3 giocatori: credo non siano cambiati da allora. Anche lì vigeva la stessa regola: chi vince resta, chi perde lascia; anche lì i giocatori potevano essere due ma di solito erano quattro; anche lì non ero imbattibile ma nemmeno sempre battuto, giocando in coppia dipendeva
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anche dal compagno; anche lì credo che giocare fosse gratuito, ma potrei sbagliarmi. Non sempre si poteva passare da un gioco all’altro, dipendeva da quanti eravamo e di solito eravamo in molti; non sempre si preferiva l’uno o l’altro gioco, di solito ci si accontentava di quello disponibile al momento. Normalmente chi vinceva non cambiava gioco a meno che non se ne fosse stufato, volesse fare un favore ad un amico o che fosse richiesto per fare coppia. Poi arrivò la televisione e Mike Bongiorno. E il ricreatorio si munì di un aggeggio che faceva vedere le immagini TV su uno schermo piuttosto grande: al giovedì sera nella sala cinematografica la proiezioni del film si interrompeva e la gente vedeva Lascia e Raddoppia. Negli altri giorni nella sala del biliardo potevamo vedere “il Giro d’ Italia”, “Non è mai troppo tardi” e poco altro. Avevo molto da giocare, me ne restava poco per studiare e mia madre di questo non era contenta. Anche dopo cena avevo impegni: non so quali, ma ne avevo. A maggio, per esempio, mi piaceva andare ai “Fioretti” – le funzioni della Madonna – perché prima e dopo sul piazzale sterrato della chiesa si poteva giocare a grosta ossia a ciaparse (acchiapparello) o a sconderse (nascondino) o a poncio (lippa) o altro. Erano le prime serate calde, era bello anche solo girare a piedi o in bici per la città e comprare i primi gelati ai carrettini sagomati a gondola e con due lampade a carburo, i gelati de Brustoℓon, la gelateria al ponte Pusterla. Quei
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carrettini andavano in tutta la città e ovunque si poteva sentire forte il grido “gee·atii”. Una volta, a Ponte degli Angeli, eravamo in tre e avevo dieci lire: chiesi ed ottenni un “gelato da dieci ripartito in tre coni”. Per qualche tempo studiavo (o dicevo di studiare) dalle 4 alle 7,30 del mattino.
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Divagazioni F.T.V. Ho già detto che per noi la vaca mora (o vacamora, il treno delle ferrovie locali) era una di casa: passava sotto casa nostra, la faceva tremare, vi entrava col fumo e col rumore, il nostro marciapiedi era la sua banchina. La vedevamo fermarsi e passare: non l’abbiamo mai usata per andare verso Noventa, ma nell’altra direzione - a parte i brevi passaggi de sfroxo – qualche volta sì. Andavamo spesso dai nonni con il treno per Bassano e alla stazione FTV (Ferrovie Tramvie Vicentine) andavamo o a piedi o col “tran co·e tirache”. Le tirache sono le bretelle e il filobus era collegato alla linea elettrica aerea con due aste, due bretelle. La linea 1 da Porta Castello alla Stanga percorreva tutto Corso Palladio e tutta Porta Padova (Contra' e Corso), con fermata a quattro passi da casa nostra, all’andata e al ritorno. Sia la “vacamora” per Bassano che quella per Noventa dopo Santa Croce fermavano a San Bortolo, ma solo pochissime volte siamo scesi o saliti a questa fermata e forse una sola volta abbiamo preso il treno da o per Porta Padova, la fermata davanti casa. L’abbiamo invece usato per andare a Santa Croce a prendere combustibile per casa, non ricordo bene se sacchi di segatura o casate (vinacce pressate). Non ricordo se là c’era una segheria o una distilleria o vendita di combustibili: su quel tragitto non c’erano filobus e in città autobus non c’erano, ma c’era la vacamora.
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Della stazione FTV davanti al Campo Marzo ricordo che appena finita la guerra era un enorme, alto, freddo salone in cui spiccava una grande figura di diavolo (Super Iride, credo) e che vi si arrivava per una disastrata strada male illuminata, costeggiante lo spazio vuoto dove prima era il distrutto Teatro Verdi. Una sera tardi camminando in questa strada, mia madre per un bel tratto era convinta di mettere ripetutamente il piede in una delle tante buche, prima di accorgersi di avere perso un tacco. Inverno D’inverno faceva freddo, al mattino freddissimo, ma poi la casa veniva riscaldata. Non tutta: solo la cucina (dove si viveva la maggior parte del tempo) e al massimo anche una stanza contigua. Non c’erano “termosifoni”, come allora chiamavamo i radiatori: in cucina, oltre al fornello a gas per l’uso immediato, c’erano la “cucina economica” che poteva funzionare a legna, carbone o “caxate” e, d’inverno, la stua, la stufa a segatura. Segatura, legna (tranne una piccola scorta sempre a portata di mano), carbone, casate erano in cantina, cinque rampe di scale più sotto e lì si andavano a prendere ogni giorno. La cucina economica era una benedizione: c’era sempre l’acqua bollente nell’apposita vasca con la parte inferiore incassata e la superiore in bella mostra, sopra il fornello una serie concentrica di anelli (piastre) permetteva di regolare l’apertura superiore a seconda della misura delle pentole e delle necessità di cottura. Sulle piastre centrali si poteva
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abbrustolire la polenta e scaldare la soppressa sopra la carta velina e altro, ai margini il baccalà alla vicentina pipava per ore e veniva buonissimo. E il forno per la putana (dolce vicentino) e arrosti vari, e le bronse per la fogara (braciere in terracotta) che messa nella monega ci scaldava il letto, e la cenere per coprire quelle braci troppo ardenti. Bastava accenderla al mattino e alimentarla secondo occorrenza, ma per cuocere qualsiasi cosa necessitava abilità ed esperienza togliendo o mettendo piastre, posando i tegami al centro o ai margini per regolare la temperatura ed evitare che il cibo ciapa§e el brustolin, sapesse di bruciato. La stua era un bidone con sotto uno sportello e sopra cerchi di ferro come quelli della cucina economica: si toglievano i cerchi e si estraeva un bidone leggermente più piccolo. Sopra era aperto e sotto aveva un buco in centro: si metteva nel buco al centro un palo (la mescoℓa, il lungo mattarello usato per tirare la sfoglia) e si riempiva di segatura, pressandola con i piedi tutta attorno al palo che doveva rimanere in centro. Una volta ben pressata la segatura, si rimetteva il bidone dentro dov’era prima e si toglieva il palo lasciando un foro al centro. Il bidone interno poggiava su mattoni e il portello su quello esterno permetteva di mettere un fuoco sotto, la fiamma saliva lungo il foro e la segatura attorno bruciava. Faceva un bel caldo e durava piuttosto a lungo. Man mano che bruciava il buco diventava sempre più grande e il calore più forte, ma non si poteva regolare se non un poco agendo sulla manetta che regolava l’apertura del canon de‘a stua, il canale da fumo che collegava la stufa al camino. Era allora che si
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apriva la porta della stanza contigua, così il caldo diveniva tollerabile in cucina e il freddo accettabile nell’altra stanza. L’operazione di caricamento della stufa era piuttosto lungo e solitamente si faceva una volta al giorno, non di primo mattino, e a volte prima che bruciasse tutta la segatura vi si aggiungeva un pezzo di caxata. Le caxate erano vinacce pressate, quello che restava dopo la spremitura dell’uva nel torchio e dopo averne ricavato la grappa: scuri dischi di circa due spanne di diametro e 5 cm di spessore, se ben ricordo. Bruciavano meravigliosamente con fiamma costante, tutto il contrario della segatura dalle fiammate esagerate. Al culmine della sua attività la stufa era caldissima, bisognava starne alla larga. L’ultimo dei miei fratelli era molto piccolo allora e mentre mia madre si preparava per sostituire il pannolino appena tolto lui girava per la casa col sederino scoperto: si avvicinò alla stufa, si girò, si piegò per raccogliere non so cosa e cominciò ad urlare e mia madre ad agitarsi, a controllare l’effetto del caloroso contatto, a mandarci di corsa alla vicina farmacia: fu quella volta che scopersi la Vegetallumina.
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Venezia Mio padre mi aveva promesso che se fossi stato promosso mi avrebbe comprato la bicicletta ed ero stato promosso. Davanti casa nostra vendevano biciclette e mi conoscevano: prima di andare a casa passai per quel negozio, scelsi la bicicletta, la presi e andai a dirlo a mio padre. Era una Dei, col cambio a tre velocità … e costava più di uno o forse due mesi di paga: mio padre si congratulò per la promozione, la bici l’avrebbe pagata a rate. Così facevo giri in bici, secondo le mie possibilità che non erano gran che: non ero veloce ma testardo sì e con pazienza andavo qua e là, quasi sempre da solo. Andavo dai nonni abbastanza spesso, una quindicina di Km andare e altrettanti tornare: tutti in piano tranne un cavalcavia (quello dove ci avevano fatti scendere dalla vacamora perché lo superasse) e un ponte. Ogni tanto – negli anni - qualche giro più impegnativo: Padova, Asiago, Lavarone, Arcugnano, Montebelluna, Valsugana e altri. L’impresa più memorabile è stata andare da Vicenza a Merano, presentarmi a casa di un omonimo e amico di gioventù di mio padre che molto gentilmente mi ha ospitato quantunque fossi arrivato senza preavviso, avesse la moglie (amica di gioventù di mia madre) impegnata non so più dove e lui dovesse ogni giorno recarsi al lavoro. Vi sono rimasto quasi una settimana: un giorno da lì sono salito verso lo Stelvio (gran caldo a Merano, calzoncini e camicia leggera, inizia la salita, strada sterrata, sale la quota: ad un certo punto non ce la faccio più per il freddo e giro la bici), un altro giorno su a Passo Giovo, giù a Vipiteno e poi
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Bolzano, un altro Passo delle Palade e Bolzano, un altro in giro per Merano e alla fine ritorno a Vicenza: ero andato per il Passo della Fricca, tornavo per la Valsugana. A pensarci ora fu poco meno di una pazzia. Ma quello che ancora ricordo per la sofferenza è la mia prima visita a Venezia, quando avevo da poco la bici. Non è lontana da Vicenza, pensavo: una trentina di Km e sono a Padova, più o meno altrettanti e sono a Venezia. Semplicissimo. Allora non c’erano contachilometri elettronici, non avevo idea della mia velocità di crociera, non sapevo quanta strada potevo fare e in quanto tempo: un’occhiata alla carta stradale di mio padre, un calcolo approssimativo della distanza e considerato che i corridori ciclisti facevano molta più strada in tempi ragionevoli ho pensato che se per loro era facilissimo per me non doveva essere impossibile. Salito in bici e via, calzoncini corti e maglietta di tutti i giorni, cento lire in tasca. Arrivo a Venezia nel tempo che mi è voluto e comincio a girare per la città, in bici (non sapevo che fosse vietato). Forse non siamo in molti ad averlo fatto, escludendo i ciclisti che vi sono giunti in un giro d’Italia. Dopo avere girato un bel po’ per Venezia penso sia ora di tornare a casa. Ovviamente non sapevo quale strada avevo fatto e non avevo cartina, così un po’ a naso prendevo una via, poi un’altra e poi mi trovavo davanti un canale: frenata, dietro front e di nuovo strada, stradina, canale. Finalmente mi decido di chiedere a qualcuno la via per andare a Padova, per tornare a Vicenza: e mi dicono che devo andare a Piazzale Roma, passare il
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ponte e seguire le indicazioni. Piazzale Roma! Avevo visto diverse indicazioni per Piazzale Roma, ma non sapevo che fosse quello dove finiva il ponte dalla terraferma! Fatta la scoperta, sempre in bici sul piano e con la bici in spalla sui ponti, seguendo le indicazioni sono arrivato a Piazzale Roma, al ponte, alla terraferma, alla strada per Padova (e per Vicenza). Non avevo mangiato nulla, avevo bevuto acqua alle fontanelle, non avevo borraccia: poco prima di Padova ero sfinito, avevo 100 lire, sapevo che un Mottarello ne costava 80, comprai il gelato e mi restavano 20 lire. Fu l’unica fonte energetica della giornata e mancavano parecchi km a Vicenza. Soffrendo non poco giunsi a Torri di Quartesolo che era buio, ma ormai – pensavo – sono arrivato, ancora pochi Km e sono a casa. Dal ponte sul Tesina a casa mia sono davvero pochi Km, forse 6: sono stati i chilometri più faticosi della mia vita ciclistica. Non arrivavo mai alla Stanga, andavo lentissimo, faticavo moltissimo, non arrivavo mai alle Casermette, non arrivavo mai al cavalcavia e a Viale della Pace, a Villa Berica, a San Giuliano, al crocevia di Porta Padova. Ma alla fine vi arrivo, giro in Viale Margherita, sono davanti alla porta di casa e sono esausto morto ma non è finita: devo mettermi la bici in spalla e portarla al secondo piano. Suono il campanello, mi aprono (non esisteva citofono), entro, faccio la prima rampa di scale e la seconda, sono al primo piano, prendo fiato, faccio la terza e vedo l’agognato pianerottolo di casa, faccio l’ultima rampa e arrivo davanti alla porta di casa mia, poggio la bici, entro, vado in camera
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e mi butto sul letto del tutto esausto. Finalmente salvo e affidato alle cure di mamma: una giornata indimenticabile.
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Cren Riporto da “il Giornale di Vicenza”. “Come il crepitìo degli sci sulla pista ghiacciata o il rumore gracchiante del gesso sulla lavagna. Cren: l’onomatopeico apostrofo acidulo tra le parole “carne” e “lessata” era accompagnamento irrinunciabile di certi secondi, soprattutto degli ossi de màscio o del cotechino. Una sferzata di sgrassante ottimismo iniettata nei solchi pastosi delle pietanze principali. Ma quanta fatica per arrivare a metterlo in tavola! Tra gli ortaggi di casa non mancavano mai le piante di cren (rafano o barbaforte, secondo l’accezione italiana) e vari erano i modi per coltivarlo. Il più diffuso nel Vicentino era quello di scavare in profondità un solco e di sistemarvi pezzi di radice di circa 5 centimetri; trascorso il tempo necessario, le radici si sviluppavano e, nei mesi con la “r” preferibilmente però tra novembre e febbraio – si levavano, pulivano e grattugiavano. E qui veniva il bello: chi non è più giovanissimo ricorderà i volti sdruciti e rigati di lacrime della mamma o del babbo di turno sul quale ricadeva l’ingrato compito di passare la radice su e giù per la grattugia, dando il la a un persistente stato di agitazione oftalmica. Terminata, con spreco di fazzoletti e ferme rassicurazioni (“Cosa galo Menego? Ghe xe morto el gato? No, el gà ‘pena finìo de gratare el cren”) la seconda, delicata fase, il cren veniva posto in vasetti di vetro, in compagnia di aceto e sale. Talvolta se ne consumava anche la radice sminuzzata, sempre condita con aceto. Non solo:
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la medicina popolare lo includeva anche tra i rimedi prêt-àporter per dolori muscolari, sciatica e lombalgie varie. Che ne è oggi del cren? Sopravvive in piccole produzioni industriali che tuttavia col sapore del prodotto di una volta poco hanno a che fare, mentre sempre più rare sono le coltivazioni artigianali o casalinghe. Un po’ perché i tempi cambiano e anche il cren subisce il declassamento nel reparto antiquariato, un po’ perché soppiantato da parenti che rispondono al nome molto più cool di mostarda, senape o vinaigrette. Ma qualche ristorante di ampie vedute ancora si fila questo saporito accompagnamento il cui nome, diffuso in tutte le Tre Venezie, giunge nel nostro vocabolario attraverso il germanico Kren, termine a sua volta derivato dal ceco (probabile patria d’origine anche della pianta). Lontano dalle dolci acidità della mostarda, dalla cremosa quanto aspra texture della senape e diverso nello spirito dalla transalpina sofisticatezza della vinaigrette, il cren rivendica la sua ruvida autonomia di genuino prodotto della terra e come tale andrebbe riscoperto. Pochi sono ancora disposti a piangere per lui, ma nel suo piccolo è un pezzo della nostra storia contadina: perché dimenticarlo?” Di solito ero io a usare la grataroℓa, la grattugia. Lo grattugiavo poco prima di pranzo, davanti alla finestra aperta (così non lacrimavo, se non un poco), lo mettevo nel vasetto, lo coprivo d’aceto e nel giro di mezz’ora era in tavola, terribilmente piccante. A me piaceva così, col lesso; se c’era la polenta ne attutiva la potenza, ma capitava anche
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che ne prendessi più del necessario .. e lacrimando giravo attorno alla tavola finché finiva di becare , di pungere, di irritare: era magnifico.
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Merano Non è che ricordi molto dell’altra per me memorabile impresa ciclistica, ma cerco di ricordare. Devo essere partito di mattina presto se fu quella volta che arrivato all’inizio della Valdastico avevo freddo ai piedi. Molto freddo ed ebbi la pensata di prendere non so dove del fieno e con quello foderare le scarpe. E deve essere stata quella volta che un camionista impietosito mi ha dato un passaggio per un tratto di strada. Poi Passo della Fricca e giù a Trento, da Trento a Bolzano e da Bolzano a Merano. Probabilmente ero stanco ma non ricordo di avere sofferto per la stanchezza, probabilmente il pur lungo viaggio l’avevo fatto senza fretta impiegandoci il tempo che per me ci voleva, con la mia bicicletta sportiva con cambio a tre ingranaggi. Non so nemmeno in base a quale informazioni ho saputo arrivare dove volevo. Ovviamente non avevo il telefonino con me, ma forse nemmeno il telefono a casa. Un indirizzo penso me l’avesse dato mia madre, ma nessun appuntamento o preavviso. So che sapevo di dovere andare a Merano, Maia Bassa. E lì sono andato, ho trovato la casa dove abitavano due compaesani dei miei genitori, lui amico di mio padre e lei amica di mia madre. Ricordo benissimo che mi pareva di essere a casa mia: la targhetta sulla porta era uguale, stesso cognome e nome di mio padre. Non ricordo se quell’amico era in casa o se ho dovuto aspettare che tornasse dal lavoro, so solo che l’ho trovato, mi sono presentato e m’ha accolto generosamente in casa sua. Mi pareva normale, in nome dell’antica
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amicizia paterna, ma a pensarci ora mi sembra piuttosto eccezionale. La moglie non c’era, era andata non so dove per qualche impegno che non so. Ma probabilmente anche lei mi avrebbe accolto in nome dell’amicizia materna. Forse oggi non sarebbe più così. Lui doveva andare al lavoro e io dovevo fare i miei giri in bici, così ci si vedeva solo alla sera a cena. Magari non era una gran cena, ma c’era una gran fame e ottimi pomidoro dell’orto accompagnati da formaggio, carne in scatola e altro compatibile con l’assenza della padrona di casa. E poi dormivo magnificamente. E da quella casa di Maia Bassa/Untermais partivo e in quella ritornavo. Ricordo tre giri nei “dintorni”, un giorno di riposo e il ritorno a Vicenza. Primo obiettivo Passo dello Stelvio. Avevo una vaga idea delle distanze e delle difficoltà, pensavo fosse a una cinquantina di chilometri. Faceva caldo e io ero vestito di conseguenza: calzoncini corti e camicia leggera con manica corta. Solitamente non avevo né cibo, né borraccia, né borse, né zainetto. A quel tempo nessuno portava lo zaino se non per andare in montagna, di sicuro nessuno a Vicenza. Ma qualche anno dopo a Brunico ho constatato che lo usavano in molti, sicuramente i ragazzi che si servivano anche di slitte d’inverno e carrettini d’estate. È vero che lì è montagna o quasi, ma allora ho pensato che erano molto più pragmatici dei miei concittadini che solo molto più tardi hanno adottato quel pratico uso. Mangiavo quando tornavo e bevevo alle fontanelle. Penso che anche quella volta fosse così. Dopo qualche ora
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ho visto che ero a una cinquantina di chilometri da Merano ma non avevo ancora iniziato a salire. La meta era più lontano di quanto pensassi, ma sullo Stelvio volevo andare. Comincia la salita e la strada sterrata. Se ben ricordo la stavano asfaltando allora, un po’ alla volta, non velocemente come succede oggi. Continuo a salire e comincio a patire freddo. Un freddo davvero insopportabile, non ricordo la stanchezza che pur non doveva essere poca ma ricordo il freddo. Arrivato ad un tornante dove c’era una sorta di bar mi sono fermato, ho comprato una bandierina souvenir a testimonianza della mia impresa, ho inforcato la bici, cambiato direzione e giù fino a Prato allo Stelvio e avanti fino a Merano senza più patire freddo. Un altro giorno sono andato nella direzione opposta: non la val Venosta ma la val Passiria, da Merano a Vipiteno passando per Passo Giovo. Allora non sapevo bene quanta strada fosse e non avevo contachilometri sulla bici, si era negli anni ’50. Ma ero giovane e avevo tanta imprudenza o balordaggine e voglia di girare. Così, seguendo le indicazioni, mi avvio verso il Giovo. Ricordo di essermi fermato dopo un po’ di salita per raccogliere fragole. Tutti vedono le fragole perché sono rosse in mezzo al verde io invece le vedo solo per la forma e non ne trovo moltissime. Ma quella volta le ho viste e ne ho mangiate. Pedalando del mio passo alla fine sono giunto al Passo del Giovo, che ora vedo essere a 2094 m.s.l.. Da lì tutta discesa fino a Vipiteno/Sterzing, nella valle dell’Isarco. Avevo fame e qualche soldo in tasca, sono entrato in un negozio per comprare pane e asiago, il formaggio. Dato che
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l’acqua scende penso che non ho faticato moltissimo per arrivare a Bolzano ma da lì a Merano non poteva esserci discesa. Scesa la valle dell’Isarco e risalita la valle dell’Adige alla fine sono arrivato a Meran Untermais. Stanco e affamato. E nella casa del generoso Giuseppe P. ho mangiato con appetito e dormito come un sasso. Ora trovo che sono 58 km fino a Vipiteno e altri 100 km il ritorno passando per Bolzano per non rifare il Passo. Credo sia stato il giorno dopo che ho pensato di fare una giornata di riposo: niente faticosi giri nei “dintorni”, ma riposo a Merano. E così quando il mio anfitrione è andato a lavorare ho preso la bici per una ricognizione del luogo: centro della cittadina, passeggiata d’inverno, passeggiata d’estate, Maia Alta (volevo vedere la zona dove abitava “die alte Suzanne”, l’insegnante di tedesco), ritorno a Maia Bassa. Lì vicino c’era il famoso Ippodromo di Merano e vi sono andato. Poi gironzolavo per la zona, un po’ in bici e un po’ camminando. Probabilmente per la strada fatta nei giorni precedenti e il caldo sentivo un grande non so che nelle gambe. So solo che per avere un po’ di sollievo ebbi una geniale idea: lungo il bordo della strada fra le case scorreva nel fosso un’invitante limpida acqua. Un refrigerio, pensai, e misi i piedi nella fresca acqua. Per essere fresca era fredda davvero e come le immersi sentii nelle gambe un lancinante dolore. Capii allora di avere fatto una grandissima fesseria: stetti zitto e feci una faccia sorridente temendo che qualcuno vedendomi quasi lacrimante avrebbe pensato
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quanto ero stato stupido. E me ne stetti lì seduto in terra, apparentemente tranquillo fino a che finalmente il dolore divenne più sopportabile. Di quei giorni la giornata di “riposo” è stato il giorno peggiore, quello per me più doloroso. Il giorno dopo avevo un’altra meta: il passo delle Palade. Un piccolo Passo a soli 1518 m.s.l.m. partendo dai 325 di Merano. Ricordo quel giro come il meno faticoso: dalle Palade alla Mendola (1352 m slm), una lunghissima piacevole discesa fino a Bolzano (262 m slm) per finire con la trentina di km verso Merano (325 m slm), forse quelli più faticosi. Poi il ritorno a casa: tutta la Valsugana e nella valle del Brenta fino a Bassano. La strada era più tortuosa di come l’ho vista anni dopo ma complessivamente piuttosto pianeggiante, considerato che seguiva il corso del Brenta, tendente a scendere. Molto probabilmente poi mi sono fermato a Sandrigo, dai nonni materni, come spesso facevo ma alla fine sono arrivato a Vicenza (39 m slm). Forse ero stanco ma sicuramente soddisfatto. Pensandoci adesso, credo che mia madre non sia stata molto felice per questa mia avventura, ma che sia stata in apprensione durante tutti quei giorni. Non ricordo se l'ho lasciata senza mie notizie per tutto il tempo. Allora mi meravigliavo se la sentivo urlare dallo spavento vedendomi seduto sul davanzale della finestra al 2° piano con la schiena contro uno stipite e i piedi contro l’altro come abitualmente facevo. Magari non ero mato patoco ma strambo forse sì.
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Il ricreatorio Di giorno era sicuramente molto di più il tempo che passavo al Ricreatorio di quello che passavo in casa. Per qualche tempo è stato troppo, se alle quattro del mattino mi dovevo alzare dal letto per studiare un po’, non avendo trovato il tempo di farlo il giorno prima. Ma normalmente, se non era tempo di vacanza, un po’ di tempo per studiare lo trovavo anche di giorno, senza esagerare. Il restante o ero sulla mureta (muretto) o al Ricreatorio. La mureta si trovava appena finito il primo caseggiato a sinistra di Via Legione Gallieno ed era la parte terminale del muro di sostegno del cortile di Ico No*******, qualche metro sottostante. Dalla parte della strada era quasi davanti al cortile di Adriano As******. e l’altezza era giusta per sedercisi sopra. Era il punto di ritrovo di quattro o cinque amici abitanti non lontano dal crocevia tra Porta Padova, Corso Padova, Viale Margherita e Via Legione Gallieno. Un tempo tra la mureta e la strada passavano le rotaie della linea per Noventa. Nelle mappe trovo Contra' Porta Padova fino all’incrocio e Corso Porta Padova dopo: per me il tutto era Porta Padova. Per molti anni in quell’incrocio le rotaie della vacamora (il treno delle Ferrovie Tramvie Vicentine) passavano da destra in Via Legione Gallieno a sinistra in Viale Margherita ed erano il terrore dei ciclisti che dovevano andare dall’una all’altra strada. Ovviamente nell’attraversare la strada le rotaie erano “doppie” e se non si tagliavano correttamente c’era il rischio d’infilarvi la ruota e cadere. A quel tempo molti andavano in bicicletta, ma tutti sapevano
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come comportarsi e non ricordo d’avere visto cadute. Nel primo pomeriggio (o anche al mattino se eravamo in vacanza) restavamo seduti sulla mureta a chiacchierare, giocare con le carte da briscola e con le figurine. Quando era l’ora che aprivano il Ricreatorio, normalmente si lasciava la mureta e proseguendo per via Legione Gallieno si arrivava in Via San Domenico. Per tutto il breve percorso (nei primi anni lungo le rotaie) si vedeva a sinistra, al di là dei campi, la Scuola “Giacomo Zanella”. E al Ricreatorio ci si ricreava. Arrivava il don pro tempore, apriva la porta del cinema e poi il portone del cortile dove solitamente si giocava a calcio. Io non amavo quel gioco ma ricordo che il terreno era terra battuta dove era bello e sassi dov’era brutto. Nessuno si sognava di farvi esultanti scivolate quando segnava goal. Le squadre erano a formazione variabile, dipendeva da quanti volevano giocare. Le porte erano sotto i tabelloni dei canestri, approssimativamente segnate, senza pali né traversa: una dalla parte della sala cinematografica e una dalla parte della scuola Zanella. Dalla parte del cinema per quanto alto si tirasse il pallone tornava sempre in campo. Dall’altra parte poteva superare il muro e finire tra scuola e ricreatorio. Qualche volenteroso doveva allora salire sul muro, scendere dall’altra parte in una pericolosa e selvatica terra di nessuno, trovare e recuperare il pallone, rinviarlo in campo. Entrando, il lato sinistro del campetto era delimitato dal nuovo fabbricato e quello destro da una fila di alberelli oltre
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la quale d'estate si facevano giochi da tavolo. Sul lato sinistro il pallone non “usciva” mai, si faceva rimbalzare sul muro e si proseguiva l’azione. Dall’altra parte qualche volta poteva esserci rimessa laterale, se si concordava. E su quel campetto capitava di vedere giocare anche giovanotti come Mirko Pavinato e Gigi Menti che fino a mezz’ora prima si allenavano sul campo del Vicenza. Non ricordo bene cosa ci fosse sul lato sinistro prima della costruzione del nuovo edificio. Forse un’immobile con un portico al centro e dei locali usati anche per le domenicali lezioni di catechismo. E sì: alla domenica si andava alla messa del fanciullo alle 10 e poi a “dottrina”. Una lunga fila di ragazzi dalla chiesa di San Pietro percorreva Stradella San Pietro, attraversava Contra' Porta Padova, girava per Contra' San Domenico e arrivava al Ricreatorio dove c’erano i locali per “la dottrina”. Ma non solo lì: sono stato “a dottrina” anche nell’Oratorio dei Boccalotti e nell’orfanotrofio di Via San Domenico. Alla domenica mattina messa e catechismo, al pomeriggio sante funzioni e cinema. Nei giorni festivi si andava al ricreatorio di mattino per il catechismo e al pomeriggio per il cinema a poco prezzo, tutti i giorni per giocare. Sempre in quel cortile c’erano le settimanali riunioni e esercitazioni dei lupetti, sotto la Guida di Akela, un tipo piuttosto logorroico, uno dei figli del caxo·in (pizzicagnolo) di inizio Corso Padova. Non so molto di quelle riunioni perché, contrariamente ai miei fratelli minori e sorella, non sono mai stato scout. Però facevano gran scena.
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Nel campetto si giocava talvolta anche a pallacanestro ma non praticavo né questo sport né calcio. Però al coperto c’erano uno o due tavoli da ping pong: le racchette (spato·e) erano fornite dalla parrocchia, le palline no e quando si rompevano (capitava abbastanza spesso) si dovevano comprare. I più fortunati avevano spatole personali ricoperte di gomma, gli altri si accontentavano di quelle in semplice compensato. A me piaceva giocare a ping pong, ma c’era la regola che chi vinceva continuava a giocare e ad affrontare nuovi sfidanti. I meno bravi dovevano solo sperare che non ci fossero molti giocatori e che non ci fossero i più bravi. Nell’attesa si poteva giocare a calcio balilla o a biliardino, ma valeva la stessa regola. Spesso dovevo attendere, ma non sempre. Quando eravamo in molti ad aspettare di giocare a pingpong una buona soluzione era di giocare in coppia per accontentarne di più e dimezzare i tempi d’attesa. Ma solitamente c’era anche la consuetudine che giocando singolo si andava agli 11 punti e in coppia ai 21, annullando il vantaggio nei tempi . Se si era in pochi si poteva andare ai 21 anche nel singolo. C’era anche un biliardo regolare, nella stanza a destra prima della sala cinematografica, ma non mi ricordo fosse molto usato. In quella stanza c’era anche lo schermo che il giovedì sera veniva portato nella sala del cinema per far vedere Lascia o Raddoppia a un pubblico numeroso: quasi nessuno aveva la tv in casa.
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Se non si voleva o non si poteva giocare altro c’erano sempre la scacchiera per giocare a dama o trea (tria), le carte venete per partite a briscola, tressette, ecc. e anche quelle francesi per altri giochi. D’estate, quando faceva troppo caldo per i giochi di movimento, ho passato ore all’ombra degli alberelli a giocare a canasta, gioco che non finiva mai e che non ricordo più com’era. Si giocava anche a poker puntando figurine. Come se non fosse tanto il tempo che vi passavo a giocare, al ricreatorio andavo anche per “lavorare”, fare volontariato per la parrocchia: vendere i biglietti del cinema, compilare il borderò per la SIAE, vendere granatine d’estate. Tra la sala del cinema e i gabinetti c’era una stanza con porta che dava sul campetto che d’estate diventava cinema all’aperto. Affacciati a quella porta si vendevano granatine agli spettatori. Prima però bisognava rifornirsi del ghiaccio: un parallelepipedo di ghiaccio di circa 30x30x100 centimetri. Lo si andava a comprare a Porta Monte, lo si avvolgeva in panni per evitare che si sciogliesse e lo si portava al Ricreatorio usando un carrettino a due ruote trainato con la bicicletta. Con una specie di pialla da quel pezzo di ghiaccio si ricavava il ghiaccio minuto, lo si metteva nel bicchiere e si aggiungeva lo sciroppo per dargli gusto. Di sicuro c’era menta e granatina ma forse anche altri gusti. Non c'erano bicchieri di carta e cucchiaini di plastica ma non ricordo come avveniva il riciclo. Settimanalmente nella sala al primo piano c’erano le adunanze degli “aspiranti” e anche in quell’ambito collaboravo in vari modi.
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I cavalieri Chi sa più cosa sono i cavalieri. Un tempo erano in tutte le case di campagna. In tutte quelle che avevano un gelso. E tutte avevano un gelso. Il gelso non serviva per avere le more per fare marmellata. Anche per quello, ma sopratutto per dare da mangiare ai cavalieri, ai bachi da seta. Non ricordo la stagione, ma penso a primavera quando il gelso aveva le foglie, mio nonno mi mandava in farmacia a comprare non so quante once di semensa de cavaliere, piccolissimi ovetti dai quali sarebbero nati i bachi. Su nel granaio aveva già messo le arelle con sopra una strato di foglie di gelso e sopra queste metteva con cura le semense che avevo comprato. All’inizio in granaio c’era un gran silenzio e nessun movimento, Dopo qualche giorno c’era invece un gran brusio, una specie di chiacchierio a bassa voce e le arelle erano coperte da piccoli vermetti che giravano la testa e mangiavano le foglie di gelso. Si aggiungevano altre foglie e quelli continuavano a mangiarsele e a diventare sempre più grossi. Ancora qualche tempo e i vermetti un po’ alla volta sparivano dentro il bozzolo che si facevano attorno. Bisognava che finissero di farlo, ma non si doveva aspettare troppo altrimenti il baco faceva un buco e veniva fuori una farfalla. E se il bozzolo era bucato non serviva più per quello cui doveva servire. Posso anche sbagliarmi, ma penso fosse proprio così. E i bozzoli belli gialli servivano a fare la seta. Le mie zie andavano su in granaio, portavano giù tutti i
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bozzoli, li buttavano nell’acqua bollente. Così il bruco moriva e si poteva filare la seta. Qualche bozzolo non lo mettevano a bollire, lo davano a noi bambini perché vedessimo uscire la farfalla. Due o tre ciascuno. Non ricordo bene, ma mi pare che da alcuni bozzoli nel catino si tirasse su il filo con un qualche macchinario. Non so cosa si facesse quando uno o più bozzoli non avevano più filo e il bruco morto restava nel catino e nemmeno cosa si facesse dopo. Ma ci saranno molti che sanno o ricordano più di me.
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Canpo de Nane Ma qualcuno si ricorda di com’era il Canpo de Nane? Forse non c’è nessuno che l’ha visto com’era, al massimo ne avrà sentito parlare da qualcuno più vecchio. Parlo del Canpo de Nane prima che facessero nei pressi case e strade, quand’era quasi la fine del mio mondo: terra selvaggia appena oltre Borgo Casale. Ci si passava davanti per andare allo Stadio o a Monte Berico o sugli argini di Retrone e Bacchiglione. Magari si passava davanti anche per andare al macello o all’asilo (vicino, non dentro) e da lì in qualsiasi altro posto. Ma solo per fare una camminata: di solito per andare in centro si prendeva Porta Padova e su. Anche per andare a scuola in Piarda Fanton non si passava davanti perché c’era il ponte sul Bacchiglione appena dopo Campo de Nane ma quello sul Retrone era solo in fondo a Porta Monte. Al Canpo de Nane andavamo per giocare. Terreno pericoloso era, pieno di buche, sassi, spighe di graminacee selvatiche, ru§e e ru§ari (rovi), barbadochi (bardane, lappole). Prendevamo i barbadochi e ne facevamo una palla, ce la tiravamo contro. Prendevamo le spighe, le infilavamo sotto il polsino della maglia affinché muovendoci salissero fino alla spalla. Non ho mai saputo se Nane (Giovanni) era il nome di un antico padrone del campo o si diceva Nane così per dire, come Pici del can de Pici, un campo di nessuno. Noi si andava per giocare e si giocavano i giochi di una volta: rincorrersi, nascondino e non so che altri e nessuno si lamentava se gridavamo. E nemmeno che rompessimo i
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calzoni si potevano lamentare: qualche graffio sui ginocchi o sulle gambe, una crosta per pochi giorni e poi più niente. Non avevamo calzoni lunghi. Per andare al Ricreatorio, dall’altra parte, c’era un pezzettino di terreno come il Campo de Nane, prima di arrivare a Via San Domenico. Aveva buche, sassi, spighe, rovi, bardane ma era piccolissimo, solo pochi passi giù e su. Tutti e due erano a sinistra, arrivando da casa, al di là delle rotaie del treno locale, quando c'erano.
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La discesa La sgaruia non l’avevo sentita nominare a Vicenza: forse la chiamavamo slitta, forse non si usava perché le strade restavano poco tempo innevate o ghiacciate. Restavano però poco trafficate e così si usava el carete·o a cusineti a sfera (il carrettino con i cuscinetti a sfera). Si costruiva con un’asse e due travetti di legno, tre o quattro cuscinetti a sfera, un bullone con relative rondelle e dadi, un pezzo di spago. Materiale che non ricordo come ci procuravamo. I cuscinetti a sfera si inserivano ai lati dei travetti, un travetto con chiodi o viti si fissava trasversale alla tavola dietro, usando il bullone l’altro s’imperniava davanti e alle sue estremità si fissava lo spago per guidarlo: un carrettino alto mezza spanna, largo due e lungo il doppio. Con 4 cuscinetti mi pare sia il modo più semplice per fare un carrettino. In realtà quelli che si usavano credo fossero un po più sofisticati. Al centro del travetto anteriore si faceva un incavo. Si diminuiva così lo spessore dove poi passava il bullone che faceva da perno e si aveva lo spazio per il terzo cuscinetto, infilato su un pezzo di legno che veniva fissato al travetto. Il carrettino risultava così con due cuscinetti laterali posteriori e uno centrale sul travetto di guida. Con un veicolo del genere una volta mi è venuta la grande idea di scendere da Monte Berico. Così, col carete·o sotto braccio, io e un amico siamo saliti alla Basilica della Madonna, passando per i 192 gradini de·e sca·ete de Monte (la scalinata per Monte Berico) .
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Abbiamo posizionato il veicolo sulla strada e ci siamo sistemati per scendere, io davanti a guidare e lui dietro in piedi. Appena partiti il carete·o ha cominciato a prendere velocità ed io a spaventarmi: non saremmo stati capaci di rallentare e magari al Cristo anche tirando dritto saremmo giunti alle scalette e finiti in fondo a Porta Monte. Per evitare questo possibile disastro, spaventatissimo mi sono spostato a destra sul margine sterrato della discesa. Geniale idea, solo che fuori dall’asfalto il carete·o si è bloccato di colpo: per me nessun problema, ma l’amico che era dietro in piedi mi ha sorvolato ed è finito malamente a terra. Niente di grave, per fortuna. Io non ricordo chi era né se era con me per sua o mia richiesta, ma credo che lui sicuramente si sarà ricordato di quel volo maledicendomi. Col carete·o sottobraccio siamo tornati a casa. Non sono stato più tentato di riprovare l’esperienza ma magari qualcuno più bravo e coraggioso di me è riuscito nell’impresa. ——– Con 4 cuscinetti mi pare sia il modo più semplice per fare un carrettino. In realtà quelli che si usavano credo fossero un po più sofisticati. Al centro del travetto anteriore si faceva un incavo. Si diminuiva così lo spessore dove poi passva il bullone che faceva da perno e si aveva lo spazio per il terzo cuscinetto, infilato su un pezzo di legno che veniva fissato al travetto. Il carrettino risultava così con due cuscinetti laterali posteriori e uno centrale sul travetto di guida. .
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Ricordi Chi si ricorda di quando sulle banconote era scritto Lire e in Veneto leggevamo Franchi? Chi si ricorda di quando per le strade di Vicenza gli uomini di colore erano solo militari USA ed erano chiaramente detti negri? Chi si ricorda di quando ASL o ASSL o USL o altro era “La Mutua”? Chi si ricorda di quando i non vedenti erano ciechi, i non udenti sordi, i non parlanti muti e magari i non intelligenti stupidi? Chi si ricorda di quando si parlava in dialetto e ci si capiva benissimo o si parlava in italiano e ci si capiva lo stesso? Chi si ricorda di quando lockdown era confinamento e le parole inglesi usate erano rare e pronunciate come erano scritte? Chi si ricorda di quando si pregava in latino (magari maccheronico) ma nessuno se era scritto Jesus avrebbe letto Gisas o plas se era scritto plus? Chi si ricorda di quando c’era la naja? Chi si ricorda di quando passava la “Mille Miglia” con le vetture numerate con l’ora di partenza da Brescia? Chi si ricorda di quando ci si tappava in casa per paura di Pippo e non di Covid-19?
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Acqua Magari era solo una mia impressione, ma nell’alto vicentino non c’era carenza d’acqua. Non ci sono grossi fiumi: escluso il Brenta che diventa presto padovano, le sponde degli altri fiumi non distano tra loro più di un tiro di sasso, compresi Bacchiglione e Retrone nonostante l’accrescitivo del nome. Nel paese dei miei nonni tutte le case avevano una pompa a mano per tirar su l’acqua da falde non molto profonde. Dicevano che era acqua de l’Astego (Astico) che in pianura era sì piuttosto largo ma quasi sempre asciutto. Lo si guadava verso Montecchio Precalcino e Lupiola, rispettivamente a monte e a valle del ponte per Vicenza. Quel ponte era stato distrutto verso la fine della guerra e per qualche tempo anche li si passava sul greto del torrente. L'Astico era quasi sempre senza acqua, ma quella che aveva più a monte in qualche posto doveva pur essere finita ed era quella che usciva dalle pompe a mano. Poi c’erano fossi con acqua e marsoni un po’ dovunque e qualche corso d'acqua era detto Asteghe·o, piccolo Astico. A circa metà strada verso Vicenza ricordo un grosso tubo metallico dal quale usciva abbondante acqua freschissima e d’estate lì c’era una me·onara. Abbondante acqua usciva anche dalla fontana al centro di Lupia, tra Astico e Tesina. D’altronde è zona di risorgive e un po’ ovunque c’erano fontanelle. A proposito di acqua si citava un detto: “Valdagno, Recoaro e Schio orinal de Dio”, per dire che in quei posti pioveva sempre o quasi.
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Non so di Schio, ma forse un motivo ci sarà se l’acqua del Bacchiglione proviene anche da quelle parti. So però che a Valdagno quasi ogni giorno a mezzogiorno arrivava un temporale. Dicevano che veniva dal Garda, impiegando giusto il tempo per essere a Valdagno quando la gente usciva dalle fabbriche per la pausa pranzo. E se arrivava a Valdagno probabilmente arrivava anche a Recoaro e sui suoi monti. Oltre a quei tre posti per me avevano relazione con l’acqua anche i nomi di altri due: Tonezza (VI) ho sempre pensato avesse a che fare con i tuoni e Lavarone (TN) con slavaiare (piovere a dirotto). E dove ci sono tuoni o slavaia solitamente c’è pioggia e tanta acqua.
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Radici Di ciascuno di noi conoscevamo padre e madre, i loro genitori, i loro fratelli e i figli di questi per tutti noi fratelli i parenti erano gli stessi, come si usava a quel tempo. Incontravamo i cugini in casa nostra o loro, ma più spesso in quelle dei nonni comuni, che erano state anche dei genitori e di zii e zie. Fra noi c'era chi preferiva i nonni con orto e animali, chi quelli nella piazza del paese; le loro case per noi non avevano segreti, erano casa nostra. In quel piccolo paese c’erano – vivi o morti – i nonni e le zie nubili di tutti noi cugini, conoscevamo i parenti dei nonni, gli amici dei genitori e alcuni loro parenti; di tutti sapevamo nome e soprannome e perfino anche il cognome ed essi ci conoscevano. Noi cugini e le nostre famiglie vivevamo un po’ sparpagliati ma non molto lontano e per noi tutti in quel piccolo paese erano le nostre radici, quelle più profonde. Ma c’erano radici più recenti e non meno importanti nella città dov’ero nato e vivevo. Conoscevo compagni di scuola e di gioco – miei o dei miei fratelli – e di molti anche i genitori; da anni si frequentava la stessa chiesa, lo stesso ricreatorio, lo stesso bar; si affondavano le nostre radici, se non nello stesso paese, nella stessa cultura, nella stessa storia, nella stessa lingua, più o meno negli stessi valori; si parlava con e delle stesse persone nello stesso dialetto, ci si capiva al volo quasi con tutti. Parlare italiano era un’eccezione che finiva ben presto: qualche raro figlio unico che non aveva avuto modo d’imparare dai fratelli la lingua comune, prima dell’età scolare.
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Si conoscevano tutti gli abitanti del fabbricato, ci si incontrava sulle scale o nel cortile, si parlava da un piano all’altro, giovani e vecchi. Di giorno nessuno chiudeva la porta a chiave e non mancava mai niente: si bussava e si entrava, da quelli di sopra o da quelli di sotto. Foresti non ce n’erano e se capitavano non gli si era ostili, ma diffidenti sì: bisognava prima conoscerli e poi erano come tutti gli altri. Magari si spettegolava, si tajava tabari, si malignava ma si conviveva, si aiutava, talvolta di controvoglia ma senza darlo a vedere perché – non si sa mai – domani si poteva necessitare d’aiuto. Violare le "regole" comuni comportava subirne le conseguenze, sradicarsi dalla comunità: quasi nessuno lo voleva e pochi le violavano. Oggi non conosco nemmeno l’inquilino della porta accanto, nessuno usa le scale, talvolta ci si trova nell’ascensore – che non fa fermate intermedie – e più di buon giorno/buona sera non si dice. Sono tutti foresti e qualcuno lo è di più, perché non solo non si sa chi lui sia ma nemmeno come sia la sua gente, se le nostre regole siano da essa condivise, se quello che per i nostri nonni e padri era l’immancabile eccezione lo era anche per i suoi antenati. E talvolta sappiamo che non lo era. Si diceva un tempo "ragazzo di buona famiglia": poteva essere uno scavezzacollo, ma la famiglia in qualche modo garantiva la qualità del prodotto; non in modo assoluto, ma si poteva sperare che la buona pianta desse buoni frutti, che però potevano marcire.
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Ora sempre più spesso i fratelli non hanno gli stessi genitori, né gli stessi nonni, zii o cugini; non hanno le stesse radici, la stessa origine culturale. Ancor più chi viene da altri paesi può sentirsi e volere restare estraneo dove vive: senza radici, tradizioni, regole, doveri, lingua comuni. E fin da piccoli ci insegnano a non fidarsi degli estranei. O c’è qualche genitore che non lo fa?
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Ritorni Dopo molto tempo sono tornato a camminare nella mia città natale. Era giorno di mercato e le due piazze contigue piene di gente. Non gente indaffarata, di corsa: signore e signori lì per fare qualche compra, come in tutti i mercati, e forse anche con la speranza (o il timore) di incontrare qualcuno e scambiare quattro chiacchiere. E in effetti molti parlavano: in due o tre fermi ai margini del mercato o camminando fra le bancarelle ciacoℓavano fra loro. I ciacoℓava, tutti parlavano in dialetto, tutti con il tipico accento locale, con la cadenza che quasi tutti conservano anche parlando in italiano, che ovunque dopo tre parole porta la gente a chiedermi se sono veneto. Era bello, era piacevole ritornare e trovare che era come se il tempo non fosse passato: la stessa musicalità di 60 anni prima, le stesse parole anche se – credo – per argomenti , problemi, cose diverse; nel centro storico le stesse vecchie case, un po’ più vecchie o un po’ più rinnovate. Non ho visto molte facce palesemente di stranieri, meno di quelle che pensavo, forse per il giorno, forse per l’ora, forse per il luogo, forse perché in altre faccende affaccendati. Non so se è sempre così, ma mi sembrava essere tornato ai bei tempi della mia giovinezza: in quei luoghi, in quell’atmosfera. Sono tornato in Piemonte, dove sono vissuto per 35 anni e dove torno per diversi mesi tuttora. Altre strade altra gente, gente indaffarata che va dove deve andare.
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Ascensione di N.S. Un tempo era sempre di giovedì. Un tempo quel giovedì era Festa, festa importante. E c’erano, oltre alle domeniche, 17 giorni festivi allora. Cerco di ricordarli: 1. 1°gennaio Capodanno 2. 6 gennaio Epifania – la Befana 3. 19 marzo San Giuseppe 4. 25 aprile Anniversario della Liberazione 5. 1° maggio Festa del Lavoro 6. Pasquetta – il giorno dopo Pasqua, lunedì dell’Angelo 7. Ascensione – 40 giorni dopo Pasqua 8. 2 giugno Festa della Repubblica 9. 29 giugno Santi Pietro e Paolo – 10. Corpus Domini – due settimane dopo l’Ascensione 11. 15 agosto Assunzione di Maria Vergine – Ferragosto 12. 1° novembre – Ognissanti 13. 4 novembre – Festa delle Forze Armate 14. 8 dicembre – Immacolata Concezione 15. 25 dicembre Natale 16. 26 dicembre Santo Stefano 17. Santo Patrono Il 19/3 si correva la Milano-Sanremo ed era anche l’onomastico di mio padre, il 25/4 San Marco patrono di Venezia e onomastico di un mio figlio, il 29/6 S. Pietro era onomastico di nonno e di fratello e festa nella mia parrocchia, ma la festa del Santo Patrono a Vicenza e diocesi è l’ 8 settembre (el dì dei oto), Natività di B. V. Maria, Madonna di Monte Berico.
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I datori di lavoro dicevano che le feste erano troppe e sopra tutto che – essendo festività infrasettimanali – inducevano a fare i ponti, specialmente se cadevano di martedì o giovedì. E così si sono messi d’accordo e ne hanno abolite un po’ trasformandole in permessi retribuiti. In altri termini se la festa era per tutti il giovedì, il permesso retribuito sostitutivo di quella festa uno poteva farselo di lunedì o venerdì, ma bisognava chiederlo. Poi alcune feste sono state ripristinate, specialmente se interessavano i romani, prossimi a “colà ove si puote ciò che si vuole”. E così è tornata la Befana. Fra quelle abolite c’è l’Ascensione e la chiesa cattolica italiana, forzando un po’ l’aritmetica, concorda con lo Stato italiano nel dire che 40 giorni dopo una domenica è di nuovo domenica e non più giovedì, anche se le settimane sono rimaste di 7 giorni. Pasqua è Domenica di Pasqua, dopo 8 giorni (7+1 partendo da Pasqua) è Domenica in Albis, dopo 36 giorni (7×5+1) è domenica e dopo 40 Giovedì. Gli svizzeri che sono notoriamente precisi sanno fare il conto e ogni anno quando vedo per le strade liguri tante targhe svizzere in giorno feriale – fuori stagione – so che è l’Ascensione. Quest’anno i 40 giorni dopo Pasqua hanno coinciso col 2 giugno – Anniversario della Repubblica – e non c’erano solo svizzeri. Chissà se nel vicentino all’Ascensione si mangia ancora il cotechino con la lingua, se ancora aℓa Sensa se magna el coe§ìn coℓa lengua”, chissà se al giovedì o alla domenica. Anche il Corpus Domini cadeva sempre di giovedì: il giovedì successivo alla domenica dopo la Pentecoste. La
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Pentecoste cade 50 giorni dopo la Domenica di Pasqua (7×7+1) e quindi di domenica, la domenica dopo è la Solennità della Santissima Trinità e il giovedì successivo in tante parti del mondo è la solennità del Corpus Domini.
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Merluzzo A Vicenza, per far sapere che non si è del tutto ignoranti, ora dicono che el bacaℓà aℓa vixentina correttamente si dovrebbe dire “stoccafisso” perché si fa con il merluzzo secco, cioè lo stoccafisso. A parte il fatto che il merluzzo sotto sale, generalmente noto nel resto d’Italia col nome di baccalà, era del tutto a noi sconosciuto fino a non molti lustri fa, magari è giusto tradurlo con stoccafisso per farsi capire dai non veneti ma resta il fatto che a Vicenza si deve continuare a chiamarlo bacaℓà. Se invece si vuole merluzzo salato si dirà “baccalà”, che è tutta un’altra cosa ma ha anche un’altra pronuncia. Quindi i vicentini continuino a mangiarsi il loro bacaℓà (merluzzo conservato secco, battuto, messo in moja per alcuni giorni in acqua corrente, cotto lentamente con prezzemolo, aglio, latte, olio) pur sapendo che altri lo chiamano “stoccafisso” e gli altri mangino pure il loro “baccalà” che noi potremmo anche chiamare merluzzo sotto sale. Per curiosità riporto quanto ho trovato nei dizionari* in rete: Italiano baccalà [bac-ca-là] s.m. inv. 1 Merluzzo conservato sotto sale, pietanza tipica di varie cucine regionali 2 In similitudini, vale persona insignificante o incapace di reazioni: essere, sembrare un b.
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stoccafisso [stoc-ca-fìs-so] s.m. Merluzzo fatto seccare con una prolungata esposizione all’aria aperta Spagnolo es-it bacalao s.m. = merluzzo m. it-es stoccafisso s.m. = bacalao m. secado Portoghese it-pt baccalà sm inv = bacalhau, it-pt stoccafisso sm = bacalhau. it-pt merluzzo sm = bacalhau. Tedesco it-de baccalà s.m. = 1 (Gastron) Klippfisch m. 2 (Gastron) (stoccafisso) Stockfisch m. de-it Klippfisch s.m. (-es, -e) = (Alim) baccalà m. Sembra evidente che in spagnolo e portoghese bacalao e bacalhau indicano semplicemente merluzzo che può essere aggettivato con salato o secco, in tedesco Stockfisch è letteralmente pesce-bastone, chiaro riferimento al merluzzo secco. In italiano il secondo significato di baccalà (persona incapace di reazione) sembra tuttavia riferirsi più allo stoccafisso secco che al baccalà salato. Per concludere: se sentite dire bacalao, bacalhau o bacałà non necessariamente si tratta di merluzzo sotto sale, anzi. (*) Dizionari: it=italiano, es=spagnolo, pt=portoghese, de=tedesco
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A proposito ...
A proposito di bacaℓà … Quando penso al bacaℓà alla vicentina mi ricordo di quella volta a Valdagno. Fra colleghi d’Ufficio un venerdì a qualcuno viene in mente di andare nella pausa pranzo a mangiare po·enta e bacaℓà. Tutti d’accordo, si va dove a detta del proponente (F.D.B.) fanno il migliore bacaℓà della zona: alla Croce verde, la mensa dei poveri gestita dalle suore. E devo confessare che il migliore bacaℓà che io ricordi l’ho mangiato proprio quella volta. Sarà perché – sposato da poco – non mangiavo più quello fatto da mia madre e mia moglie non aveva ancora appresa l’arte, sarà perché poco tempo prima a Cles avevo ordinato baccałà alla vicentina e mangiato non so cosa, sarà perché avevamo fame, sarà perché la suora era brava e paziente (deve cuocere lentamente per ore), fatto sta che lo trovammo tutti ottimo e io ancor oggi lo ricordo buonissimo. Fra qualche anno sarà passato mezzo secolo, ma quando penso al bacaℓà penso alla Croce Verde di Valdagno, alla mensa dei poveri: offerta libera e mangiare ottimo, senza avarizie e tutti felici e contenti.
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Passato remoto
In una trasmissione televisiva si parlava di com’era l’Italia cent’anni fa, dell’alta percentuale di analfabeti e della prevalenza del dialetto. Le medie statistiche dicono molto, ma sono medie: se in Italia la percentuale media delle persone che non sapevano leggere e scrivere era altissima c’erano regioni in cui era più e altre in cui era meno della media nazionale e zone in cui era più e altre in cui era meno della media regionale. Senza le medie statistiche si rischia però una visione del tutto personale e sbagliata della realtà e uno, se non ha frequenti contatti con il restante 90%, può pensare che tutti o quasi si trovino nella sua condizione mentre in realtà fa parte del 10% o meno. Basandomi solo sulla mia esperienza personale la realtà mi appariva diversa: non ricordo d’avere conosciuto analfabeti se non eccezionalmente. Secondo le statistiche nel 1951 nel Veneto erano il 7% ed è quindi abbastanza normale che fra le persone della mia età non ce ne fossero. I miei genitori erano nati nel 1908 in un paese a Nord di Vicenza, nella pianura sotto l’Altopiano di Asiago, zona agricola e di guerra quando andavano a scuola. Erano figli di contadini e artigiani ed entrambi sapevano leggere e scrivere correttamente. I miei nonni erano nati nel 1873, 1878, 1882 e 1883: tutti sapevano leggere e scrivere. Tutti quelli che ho conosciuto parlavano in veneto ma leggevano e scrivevano in italiano, più o meno corretto. Avevano qualche difficoltà a parlare italiano ma sicuramente
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capivano chiunque lo parlasse, capivano un po’ perfino il latino ecclesiale e – magari storpiandolo – lo recitavano pure. Penso che tutt’ora un veneto venga riconosciuto sia per la cadenza che per la tendenza a sorvolare su doppie ed elle anche se – per il resto – usa un italiano corretto. Quando una quarantina di anni fa ho lasciato il Veneto, tutti quelli che conoscevo parlavano in dialetto, tranne usare l’italiano se si rendevano conto che c’era un foresto, il che succedeva quasi subito. Ma allora i foresti erano una rarità. Ora non so come si parli nel Veneto, so che nella mia famiglia in casa si parla veneto mentre fuori naturalmente italiano, dato che viviamo in Piemonte o Liguria. Uso il dialetto con parenti e conoscenti veneti le rare volte che capita, sempre con moglie e figli (i figli dei figli non conoscono dialetto). Già ai miei tempi molti genitori con i figli parlavano italiano pensando di favorirli: io non l’ho mai fatto, avendo accertato che a scuola i pochi che parlavano italiano non avevano migliori voti dei tanti che usavano il dialetto. L’unico mio parente parlante italiano era un cugino che, tornato a guerra finita dalla prigionia in Germania, forse aveva fatto voto di non parlare più dialetto. D’altro canto l’italiano scritto peggiore ho avuto occasione di leggerlo negli scritti di popolani della zona di Pisa, forse convinti che il loro parlare fosse corretto italiano. Noi invece abbiamo sempre saputo che quello che parlavamo non era quello che dovevamo scrivere, anche se gli insegnanti esageravano nel considerare errori vocaboli ed espressioni
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che ritenevano dialettali. Per molti anni sono vissuto in Piemonte, ma non ho avuto occasione di imparare il piemontese e ancora mi suonano strane frasi tipo “ne ho solo più uno” o “chissà se hai del pane” o “facciamo che fare, facciamo che far fare“. Lì ho anche scoperto che uno si chiamava Drigo perché, durante la Grande Guerra, suo padre era stato qualche tempo in quel paese dei miei antenati che credeva si chiamasse San Drigo. Da molti anni vivo molto tempo in Liguria ma non ho avuto occasione d’imparare il ligure e ancora mi sembra strano leggere ai civici 23, 25, 27 o in sequenza nella via i numeri 21, 23, 35, 25. I civici sono quelli che io chiamo numeri privilegiando il sostantivo all'aggettivo e il 35 è rosso, 35r negli indirizzi, e indica che si tratta di un esercizio commerciale e non di un portone di abitazione.
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Nomi impropri Nella mia famiglia più che nomi propri abbiamo nomi impropri. Nomi semplici com’era d’uso a quei tempi, ma nessuno di noi fratelli ha il nome che avrebbe dovuto avere. Tutto inizia con Giuseppe che prende Maria come sposa. Giuseppe e Maria sono i miei genitori e – secondo tradizione – il loro primo figlio sarebbe nato a Natale se fosse stato un anno bisestile, ma siccome non lo era nacque il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano. E Stefano si sarebbe dovuto chiamare, ma non fu così: in memoria di un fratello di mio padre deceduto quell’anno fu chiamato Antonio. Due anni dopo ebbero una figlia che tutti chiamavamo Marisa convinti che quello fosse il suo nome, ma dai documenti ufficiali risultò poi che il suo nome non era nemmeno Maria Luisa ma Maria Luigia. Altri due anni e nacque il terzo figlio. Il padre di mia madre si chiamava Pietro (Piero, per tutti) e la madre Angela, per questo mia madre voleva chiamare il figlio Pierangelo. Per non so quale motivo a denunciare la nascita andò il fratello di mia madre il quale, non ricordandosi quale nome gli aveva detto sua sorella, guardò il calendario e visto che il bimbo era nato nel giorno di San Massimo lo fece chiamare Massimo. Passati alcuni anni, anni di guerra e lontananza, mia madre era nuovamente incinta. Lei aveva deciso che dopo un maschio, una femmina e un maschio doveva nascere una femmina. A quel tempo il sesso dei neonati lo si conosceva
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solo dopo il parto, a quel tempo non c’erano pannolini usae-getta ma anche a quel tempo i neonati facevano tanta pipì e popò come oggi e le brave mamme si preparavano un corredo di fasce (a quei tempi i bimbi venivano fasciati interamente, testa esclusa) e pannolini (panexèi) da usare, lavare, asciugare, stirare e riusare. E così fece mia madre: una grande quantità di quadrati di stoffa sui quali – per una mania tutta femminile o per passare il tempo dell’attesa – aveva ricamato la lettera “S”, perché la figlia si sarebbe chiamata “Silvana” e non magari Maurilia per via della santa del giorno. Solo che quando nacque non era una figlia ma un figlio. Per non rifare tutti i ricami doveva comunque avere un nome che cominciava per “S”: fui io a suggerire il nome di un ragazzino che abitava nella casa accanto e quel figlio si chiamò Sergio. Due anni dopo nacque l’ultimo figlio (a quei tempi i figli abbondavano). Nacque in casa, di mattino presto. Quando mi svegliai per andare a scuola vidi con sorpresa mia madre ancora a letto e una signora (la levatrice) che teneva in braccio un bimbo. Mia madre stava bene, ma per qualche motivo il bimbo aveva avuto qualche difficoltà e s’era rotto (o comunque danneggiato) un braccino che ora aveva fasciato. Vistolo in pericolo di vita, la levatrice aveva provveduto a battezzare il bimbo col nome di Mario, essendo figlio di Maria. Ma poi stava bene e gli fu dato il nome che doveva essere del terzo figlio: Pierangelo. Non so se fu ribattezzato con quel nome, ma così lo chiamavamo e così pensavo fosse registrato in Comune: dopo una sessantina d’anni vengo a sapere che sui documenti ufficiali
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il suo nome è Pier Angelo. Riepilogando, a parte i genitori con i loro nomi Maria e Giuseppe (Bepi), c’è: Antonio (Toni), che doveva chiamarsi Stefano; Marisa, che si chiama Maria Luigia; Massimo, che doveva chiamarsi Pierangelo; Sergio, che doveva chiamarsi Silvana; Pierangelo, con nome di battesimo Mario e anagrafico Pier Angelo. Ma va bene lo stesso. Anche sul giorno di nascita c’è qualcosa da dire. Quello di Antonio è facile da ricordare, per gli altri basta la formula g=nm con g=giorno e n=ordine inverso di nascita Non mi pare complicato: basta ricordarsi il mese e fare una moltiplicazione.
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Mnemonica Per ricordare il giorno di nascita di noi fratelli mi basta ricordare l’ordine e il mese di nascita: assegno 1 all’ultimo nato, 2 al penultimo e così via e in base al mese di nascita calcolo il giorno. L’ultimo è nato a dicembre: 1 x 10 = 10 dicembre (che viene da 10) Penultimo è nato a settembre: 2 x 7 = 14 settembre (che viene da 7) Terzultimo è nato a novembre: 3 x 9 = 27 novembre (che viene da 9) Quartultimo è nato a maggio: 4 x 5 = 20 maggio (che è il mese n.5) Per il primogenito non servono calcoli: ricordo benissimo che è nato il giorno dopo Natale, il 26 dicembre.
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Ponte degli Angeli Alla TV mostrano il Bacchiglione che a Vicenza passa appena appena sotto il Ponte degli Angeli, risvegliando ricordi e incubi di due anni e mezzo prima quando le sue acque erano andate a spasso per la città. In me risveglia altri ricordi, molto più lontani nel tempo. E così ricordo quella volta che – bambino – infilai la testa fra le sbarre del parapetto del ponte per guardare sotto. Il parapetto non era quello d’oggi, le sbarre erano abbastanza distanziate e la testa entrò agevolmente fra esse, ma quando volli tirarla fuori non ci riuscii. Riprovai più volte inutilmente mentre mia mamma era lì e cercava d’aiutarmi: guardavo l’acqua scorrere e pensavo che forse mi avrebbero tagliate le orecchie per farmi passare ma sicuramente non mi avrebbero lasciato li. Non so come ma alla fine ci riuscirono e son sicuro che come minimo mi presi una ramanzina da mia madre spaventata e un tale spavento che non lo rifeci mai più. Finite le elementari la scuola non era più quella vicina a casa e ogni giorno per andarci dovevo passare per quel ponte. Le medie erano a Piarda Fanton, da Viale Margherita appena al di là del fiume Retrone ma lì non c’era il ponte e si doveva usare quello delle Barche. La via più breve passava per Ponte degli Angeli, altrimenti arrivati al Bacchiglione in Viale Margherita o lo si passava e si risaliva sulla strada tra i due fiumi fino al Macello o lo si costeggiava sull’argine sinistro per superarlo sulla passerella dell’Asilo. Gran parte del centro storico di Vicenza (e le scuole superiori erano lì) è sulla sponda destra
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del Bacchiglione e per andarci si passava sempre per Ponte degli Angeli: dalla sponda sinistra solo un altro ponte (il Pusterla) va in “città”, altri due l’ aggirano a monte e a valle. Anche allora capitava che il fiume s’ingrossasse e che i gato·i (tombini) verso Via San Domenico anziché inghiottire l’acqua piovana sputassero quella del fiume. Davanti ai portici la strada – più bassa del ponte – si allagava e per andare a scuola dovevo fare il giro che ho detto e non potevo andarci. Normalmente però l’acqua non era così alta, anzi sotto il ponte sulla sponda sinistra non arrivava nemmeno al muro di contenimento e c’erano banchi di sabbia o comunque terreno asciutto. E così – tornando da scuola – mi è capitato di gettare la sacheta (la cartella) dal ponte su quello spazio asciutto per andarla a recuperare passando per la Corte dei Roda da dove si poteva scendere al fiume, Una volta sicuramente l’ho fatto, ma forse anche altre, magari per la rabbia di un cattivo voto o per la gioia di uno bello o così per provare anche questo. Se non ricordo male era lì che le lavandare facevano il loro lavoro, ma già allora non erano più molte.
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Abbondanza Magari quando sarò vecchio dirò che era meglio allora, ma sicuramente ora posso dire che era diverso. Già uno della mia età allora era vecchio da vent’anni: oggi sono anziano, quelli attorno ai cinquant’anni sono giovani, quelli sui trenta sono ragazzi. Ma quelli sui dieci ne sanno più dei nonni e gli insegnano l’uso del telefonino, quella cosa che serve anche a telefonare. Allora c’erano più poveri ma molto meno accattoni, nero era negro, il non vedente era cieco, il non udente sordo, l’operatore ecologico spazzino, quello scolastico bidello. Parlavamo tutti la stessa lingua, l’italiano solo a scuola o scritto e con i foresti, l’inglese non abbondava come oggi (un po’ per il calcio), poro can, fiol d’un can, disgra§ià quasi mai suonavano offesa, ma dipendeva dal tono con cui si dicevano. Di pelle scura solo i contadini del paese abbronzati dal sole nei campi, in città tutti di pelle chiara digiuni di vacanze al mare o al monte. Quasi tutti: a Vicenza col buio se capitava di vedere un abito camminare da solo era un militare della base americana in libera uscita, uno di colore si direbbe oggi. Se era un MP in servizio tra il berretto e la camicia della divisa si poteva immaginare la testa. In città circolavano poche auto, la bicicletta era un lusso non per tutti, uno solo fra i miei amici poteva offrirci cubetti di ghiaccio, l’unico che in casa avesse un frigorifero.
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In casa la radio l’avevamo quasi tutti, pochi un giradischi, pochi il telefono, nessuno aveva la TV che si guardava al bar: uno o due canali in bianco e nero. Tutta un’altra cosa dell’odierna abbondanza di auto e bici, di frigo radio iPod televisori telefoni in casa e fuori, di reti canali colori. I compagni di classe erano una trentina, forse di più i compagni di gioco, ma gli amici erano una decina: oggi sono pochi i compagni di classe e centinaia gli amici in Facebook. Per le strade circolavano carri a due ruote e un cavallo, oggi camion con decine di ruote e centinaia di cavalli. Allora non molti avevano una macchina fotografica, meno ancora una di buona: costavano molto per le disponibilità di allora. Quasi nessuno aveva una cinepresa e non so di nessuno che filmasse, tranne un ricco zio morto cinque anni prima che nascessi. Oggi credo non ci sia quasi nessuno che non abbia filmato almeno una volta col telefonino, molti forse lo fanno quotidianamente, per sé, per inviare il video ad amici, per metterlo in internet. Gli appassionati sviluppavano e stampavano le loro foto, ma la gente comune si rivolgeva al fotografo col negozio per vendere pellicole, sviluppare negativi e stampare foto. Una foto stampata costava sia per il materiale che per il lavoro, prima di scattarla se non si era ricchi ci si pensava su, si faceva solo se si riteneva che ne valesse la spesa, ma alla fine si scattava. Essendo parsimoniosi e il rullino di 32 foto, solitamente
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solo dopo un bel po’ di tempo lo si portava al fotografo e si vedeva il risultato, spesso deludente se si voleva una bella foto ma solitamente soddisfacente se ci si accontentava di un buon ricordo. Le foto erano in bianco e nero e quelle piccole costavano meno: poi arrivò il colore, costavano di più, le stampavano più grandi e i difetti erano più evidenti. Così qualcuno passò alle diapositive, i più bravi con buoni risultati gli altri con più delusioni, qualcuno rinunciò alla fotografia. Le foto che io facevo in un anno (ma non tutti gli anni) ora quasi tutti le fanno in una settimana o magari in un giorno: una nuvola, clic; un fiore, clic; un gatto, clic. Una volta che hai una fotocamera fare una foto non ti costa nulla tranne la fatica di inquadrare e premere un tasto, il più delle volte lasciando alla macchina la scelta di tempo, diaframma e messa a fuoco: non una fatica ma solo il piacere di scegliere l’inquadratura che più piace e, per quanto orribile sia, se piace a te va benissimo. E puoi vedere subito il risultato, se vuoi. Per vedere le foto belle grandi basta il tablet o il computer che usi per mille altre cose e se non sono venute come pensavi puoi sempre rimediare, magari non del tutto ma abbastanza, o elaborarle secondo fantasia. Anche stamparle non costa poi molto. E così archivi migliaia e migliaia di foto, magari on line. Sono sulla buona strada anch’io: ho ancora un senso di colpa nel fare una foto in più, ma sicuramente passerà.
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La Rua Trovo in un sito web vicentino un gran parlare della Rua. Manco da Vicenza da molti anni e non sapevo di questa novità. Sapevo dell’esistenza della Rua ma non ne conoscevo la storia che ora ho trovato in rete. Ne sapevo l’esistenza perché un anno – non so bene quale – se ne parlava e la vidi anche passare per Porta/Corso Padova. Della cosa s’interessava e ne parlava più di tutti Toni tabacaro (sicuramente aveva un cognome ma non me lo ricordo). Allora si diceva che la nuova Rua doveva essere più piccola dell’antica che non avevo mai vista né sentita nominare prima di allora: ero troppo giovane per entrambe le cose e non esisteva più. Il motivo per cui doveva essere più piccola – se ben ricordo – non era tanto questione di spesa o peso quanto perché se fosse stata più alta non poteva passare per la strada a causa delle linee aeree del tran coe tirache (filobus) e per Toni tabacaro la strada era quella di Porta/Corso Padova in occasione della Sagra de San Zulian. Naturalmente le due coppie di fili, sui quali scorrevano le rotelle delle tirache (bretelle) per fornire l’energia elettrica al filobus, erano sostenute da cavi che attraversavano tutta la strada ed era quindi impossibile passare con un qualcosa che non fosse più bassa dei fili. Quelli della linea 1 andavano dalla Stazione alla Stanga passando per Corso Palladio e Ponte degli Angeli. Da allora solo in questi giorni ho letto della Rua. Ai miei tempi tutti sapevamo cos’era una rua (ruota), anche se
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non tutti conoscevano la Rua, ma già allora in città si diceva roda mentre rua era abitualmente usato in campagna. Coesistevano le ruare dei carri e le rotaie del treno. Non so se ora a Vicenza dicono rua, roda, ruota o magari wheel. Vivendo di questi tempi dubito che la tradizione della Rua possa essere ripresa con lo spirito di un tempo, con lo spirito della gente che ai oto (8 settembre) passava sotto le finestre di casa mia per arrivare in vacamora o a pìe alle sca·ete de monte (in treno o a piedi alle scalette di Monte) e salire a Monte Berico, magari coi fighi su·a sporta (con i fichi nella sporta) come diceva la canzone.
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Natale Natale era solo Natale, il Santo Natale. Ma il periodo natalizio era anche qualcos’altro: le vacanze scolastiche, le giornate che finivano di accorciarsi e cominciavano ad allungarsi, la Befana per i più piccoli. Un breve periodo senza scuola ma né io né nessuno dei miei amici doveva fare settimane bianche, andare a sciare: il primo sciatore che ho conosciuto è stato un compagno di scuola che veniva dall’altopiano, da Gallio, ed ero già grandicello. Il mio compleanno all'inizio dell'Avvento, poi festa dell’Immacolata, novena natalizia, Natale , Santo Stefano, Capodanno, Befana. Finivano le feste e si tornava a scuola. “A Nadal un pa§o de gal, all’Epifania un passo de stria” (A Natale un passo di gallo, all'Epifania un passo di strega. La befana era detta anche la stria). Sarebbe stato ancora freddo, anzi più freddo, ma si andava verso giorni sempre più lunghi, verso la primavera, ci sarebbe stato carnevale con frito·e, grusto·i … e pevaroni soto axedo par smorbarme ·a boca (frittelle, chiacchiere, peperoni sotto aceto per togliere il dolce in bocca). Alla novena di Natale mi mandava mia madre, ma mi piaceva andarci. Tutti gli anni faceva freddo ed era buio presto: non era tardi ma era già notte. Ricordo notti di stelle, notti con o senza luna, con poche o tante nubi, notti umide e nebbiose, con o senza neve. In chiesa ci preparavamo al prossimo Natale con preghiere e canti gioiosi, spesso in latino: testo e significato ci erano più o meno noti. Fuori non era piacevole come ai
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fioretti di maggio e non ci fermavamo altrettanto a lungo. Ma il tempo di far quattro chiacchiere con gli amici si trovava, finché si poteva resistere al freddo là, sul sagrato rialzato davanti all’Oratorio dei Boccalotti o all’ampio piazzale sterrato. L’antica chiesa di San Pietro, con la grande grata sul lato del convento, non aveva impianto di riscaldamento, ma mi par di ricordare vi fossero delle stufe a gas. A distanza di tanti anni i ricordi si confondono, si mescolano quelli di tanti Natali, di quando ero bimbo e di quando ero grandicello e mi capita di confondere il prima col dopo. Iniziate le vacanze si pensava al presepio: l’albero di Natale da noi non era ancora stato scoperto. C’erano le statuine di gesso (intere, rotte o riparate), le casette, la capanna e altri accessori dei presepi precedenti con qualche nuovo acquisto, riparazione o costruzione. Anche il vecchio muschio magari c’era, ma andavamo a cercarne di nuovo su a Monte Berico: tutto Viale Margherita, tutte le scalette e poi giù nel prato sotto il muretto del tratto piano prima della curva del Cristo, quasi mai con grande risultato. C’era un’altro dovere da compiere: la letterina di Natale. Non ricordo bene se ce la facevano preparare a scuola o se era un compito lasciato alla nostra iniziativa personale. Si andava in cartoleria, si comprava carta da lettera elegantemente decorata, vi si scriveva che ci dispiaceva di essere stati cattivi e che in futuro saremo stati più buoni e altre cose natalizie. La lettera, nel giorno di Natale, veniva messa tra i piatti fondo e li§io del papà. Solo dopo avere mangiato la minestra lui la “vedeva”, la leggeva, ci faceva i
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complimenti, ci baciava ed eravamo tutti felici e contenti che fosse Natale. Quando non ero più bambino, la cosa forse è continuata per un po’ con i miei fratelli minori, 7 e 9 anni più giovani di me. Per molti anni Natale per noi significava alzarsi presto al mattino, andare alla stazione delle ferrovie locali (a me pare esserci sempre andato a piedi, ma forse non è vero), prendere la littorina per il paese natale dei miei genitori, arrivare col buio, “andare dalla nonna Angela” (c’era anche il nonno Piero e la zia Wally, ma si diceva così), entrare in una stanza ben riscaldata, scambiarci baci e abbracci, augurarci vicendevolmente “Buon Natale”, sederci attorno ad un grande tavolo e bere cioccolata calda con biscotti (ma forse questo avveniva dopo che eravamo stati a messa e fatta la comunione). C’era anche il panettone, ma non ricordo da quando. Poi si andava dai paterni “nonni Stivani” e scambiavamo anche con loro gli auguri. E arrivavano dai nonni comuni anche i cugini castellani (abitanti a Castelfranco Veneto), figli del fratello di mia madre e della sorella di mio padre. A mezzogiorno si mangiava tutti assieme: da Nonna Angela c’era minestra in brodo (spesso di gallina, che a me non piaceva molto) con tortellini o tagliatelle fatte a mano (lei era bravissima a stendere la sfoglia e mia madre velocissima a tagliarle) , bollito misto con molti contorni e cren, arrosto o carne in umido con polenta (competenza del nonno), frutta (arance, mandarini e sicuramente noci per lo zio, suo figlio). Si passava il pomeriggio chiacchierando e giocando, alla sera si tornava a casa stanchi e felici. Non ricordo che oltre allo
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scambio degli auguri ci fosse quello dei regali. Magari la nonna dava una mancia ai nipoti: i regali li portava la Befana e solo ai bambini piccoli, forse soltanto perché non c’erano abbastanza soldi. Era invece abbastanza usuale per Natale ricevere in omaggio dall’abituale fornitore di prodotti alimentari una confezione di mostarda vicentna o mandorlato (vero o bagigiato) o panettone (quando è arrivato). Assolti tutti i nostri doveri religiosi e familiari si aspettava la Befana. I più piccoli aspettavano regali, i più grandi vedevano di procurarglieli. Aspettavo quei giorni per vedere Piazza dei Signori piena di bancherelle (dovevo fare regali) e gente che girava a sera tardi della vigilia per gli ultimi acquisti , per comprare giocattoli o quello che serviva a riempire la calza: mele, arance, noci, bagigi, cioccolata, mandorlato di mandorle o bagigi, nocciole, carrube, liquirizia, caramelle. Poi arrivò anche il carbone dolce. Qualche regalo c’era anche per i più grandi: maglie, calze, guanti, berretti, sciarpe. Anche al mattino dopo c’erano le bancarelle in piazza, per gli ultimissimi acquisti: io ero lì perché la Befana aveva portato una pistola senza le cartucce, quei rotolini di carta con esplosivo a intervalli regolari, e dovevo provvedere. Naturalmente non c’erano giochi elettronici ma solo di latta o di legno, poi arrivò la plastica. Niente albero e niente regali sotto l’albero, ma ricordo almeno una volta che presso la rotonda piattaforma sulla quale stava il vigile a dirigere il traffico si accumulavano i doni della cittadinanza. Magari è stato quando già c’erano i panettoni, magari quando già in casa era arrivato l’albero di Natale e i doni attorno.
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Nebbia Da molto tempo non vivo nella nebbia, da molto tempo non penso nemmeno che molta gente deve convivere con la nebbia, nella non lontana pianura padana. Non era così tanti anni fa, a Vicenza: 39 m s.l.m., pianura veneta, nebbia, caligo assicurato. Nella giusta stagione era normale vi fossero giornate nebbiose, anche molto nebbiose. Guardavo attraverso i vetri della finestra e non vedevo altro che profili d’ombre e qualche zona di debole luce attorno ai lampioni, di notte. Uscivo di casa ed era come entrare nella bambagia. Le persone sbucate dall’invisibile si vedevano solo quand’erano vicine. Il traffico – mai intenso com’è oggi – si diradava ancor di più. Le strade erano silenziose quasi come quando cadeva la neve e non passava el trajon (spazzaneve). Ricordo la luce gialla all’incrocio, dicevano che con quella si vedeva meglio: non so. Ancora più lontano nel tempo poteva passare qualche carro, col conducente intabarrato insciarpato incappellato e il cavallo fumante, dal muso e dal corpo. Spesso di notte – la notte arriva sempre presto nella stagione della nebbia – camminavo, camminavamo nella nebbia dal ricreatorio (cinema San Pietro) a Porta Padova nel breve tratto quasi campestre dove passava o era passata la ferrovia: di qua per tutto il tratto c’era il fosso, un campo, traccia di mura e la scuola elementare “G. Zanella”; di là della strada si succedeva qualche villetta arretrata e un alto muro. La strada era poco illuminata e la nebbia vi regnava, ma alla fine di quel tratto si arrivava alle case e poco dopo
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alla gialla luce del crocevia. E li ci si fermava per gli ultimi commenti, gli ultimi accordi, gli ultimi saluti. E si gelava, ma abitavamo tutti lì vicino e prima di gelarci completamente eravamo tutti a casa. Meno spesso m’è toccato di trovarmi in bicicletta nella nebbia notturna sulla strada che da Porta San Bortolo va e andava a un paese lontano una quindicina di chilometri: nebbia più o meno fitta, per tratti più o meno lunghi, dinamo in funzione, luci accese, preghiere alla Madonna di Monte Berico che mi facesse giungere sano e salvo prima al prossimo centro abitato (dove solitamente la nebbia era meno densa) e poi a destinazione. Se la sera prima era stata nebbia e freddo, quasi sicuramente il mattino dopo avrei trovato i vetri delle finestre arabescati di ghiaccio e la broxema, la galaverna (questa parola l’ho imparata molto più tardi). Gli alberi ricoperti di ghiaccio mettevano freddo solo a vederli nella bruma ma brillavano bellissimi nel sole se e quando la nebbia si alzava ed era il sereno. A Vicenza la nebbia capitava spesso e spesso era spessa, se i miei ricordi di allora non sono annebbiati. Poi sono andato ad abitare a Valdagno: 260 m s.l.m.. Forse qualche sera c’era la nebbia al Ponte dei Nori, nella parte più a valle del paese, ma io abitavo su a Novale e lì non ricordo nebbia. Magari c’è anche stata, rare volte per breve tempo. E così in splendidi sabati (o domeniche) di sole decidevamo – mia moglie ed io – di andare a trovare i parenti a Vicenza. Non avevamo telefono né meteo TV. Salivamo in “500”, scendevamo la valle e si arrivava dopo
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poco tempo dove non c’era più il sole ma solo nebbia. Il più delle volte tornavamo al nostro sole e invece di scendere in pianura a volte salivamo in montagna. Altre volte nebbia o non nebbia dovevamo andare a Vicenza e magari di giorno la nebbia era diradata o sparita. Ma alla sera dovevamo tornare a casa nostra. Mia moglie ed io ricordiamo entrambi quella volta che – partiti da Vicenza con una nebbia leggera – dopo una decina di km ci trovammo immersi in una nebbia così fitta che non vedevo più niente. Ora ci viene da ridere, ma allora non trovammo altra soluzione che questa: lei scesa dall’auto mi precedeva a piedi segnalandomi la linea di mezzeria ed io la seguivo … a passo di donna. Per fortuna dopo un po’ tornammo in una nebbia densa ma più normale e proseguimmo piano piano finché salendo la valle non tornammo a riveder le stelle. Dopo Valdagno sono finito a Biella, 420 m.s.l.m.. Non proprio in città, qualche Km prima, un 70 metri più in basso. Mi dicono che a Biella Piano non la vedono mai e men che meno penso a Biella Piazzo, un po’ più alto. Davanti casa nostra qualche rara volta la nebbia è arrivata, qualcosa di leggero ed effimero. Ma dalle finestre di casa, o magari salendo su al monte, capita di vedere la nebbia padana: una coltre sopra la pianura. Non ho più necessità di recarmi a Vercelli o Novara e la nebbia di quei posti posso ora solo immaginarla: mi rendo conto che là dev’esserci nebbia quando non riesco più a vedere bene certi canali TV.
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Capita anche di trovare la nebbia in montagna, ma quella è un’altra cosa e in montagna non salgo da un bel pezzo. Ora sono un po’ a Biella e un po’ a Savona. Anche lì non ho mai visto nebbia e solo una volta la neve, ma d’inverno non sono sempre laggiù. Per andarci passo per Alessandria, che non dev’essere esente da nebbia: di solito aspetto periodi in cui non sia prevista e finora non ne ho mai incontrata di molto fitta. E così ho un po’ di nostalgia della nebbia, ma nello stesso tempo la temo moltissimo e cerco di evitarla.
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Accadde Accadde più di mezzo secolo fa, ma accadde davvero. Mia moglie ha uno di quei cognomi veneti terminanti in àn, con l’accento sulla a come sempre in Veneto, come Padoàn (non è il cognome vero ma userò questo). A quel tempo abitava con la sua famiglia in un paese non lontano da Vicenza e aveva un fratello di nome Giuseppe che tutti, proprio tutti, chiamavano Pino, Pino Padoàn. Lavorava o aveva lavorato nella bergamasca ma abitava sempre nella casa paterna. Un giorno arrivò un signore con l’auto targata BG, suonò il campanello, mia moglie aprì e chiese cosa volesse. E quello: “Abita qui Giuseppe Pàdoan?”. E mia moglie “Giuseppe Pàdoan? No, non lo conosco”. E l’altro a insistere “Giuseppe Pàdoan, non è questa Via Taldeitali numero tale?”. E mia moglie: “Sì però qui non abita nessun Giuseppe Pàdoan …” . Ci pensa ancora un po’ e poi “Ah! Pino Padoàn! Sì, abita qui: è mio fratello!”
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Anni fa Faceva molto freddo in quella notte di fine novembre, a quanto mi è stato detto. Maria e Giuseppe abitavano in Via Legione Gallieno subito prima dell’incrocio di Porta Padova. O forse abitavano già in Viale Margherita, subito dopo l’incrocio; diciamo che abitavano a Porta Padova. E in quella fredda notte Maria si vide in obbligo di mettere alla luce la sua terza creatura ed essendo già madre di un maschietto e di una femminuccia non poteva che essere un maschio. Non c’erano ecografie allora e il sesso era certo solo dopo la nascita, ma oggi taluni dicono che il sesso è incerto fino alla morte. Anche allora come adesso l’ospedale di Vicenza era a Porta San Bortolo (scritto San Bartolomio): non molto lontano da Porta Padova ma nemmeno molto vicino. E a quell’ora di quella notte fredda Giuseppe non trovò di meglio che portare con la bicicletta la sposa in Ospedale. Così mi è sempre stato detto, credo dalla nonna materna. E all’ospedale nacque un bel maschietto: bello almeno per mamma sua, come sempre. Avevano già deciso il nome per quel bimbetto: dopo Antonio (come il padre del padre e un suo fratello deceduto da poco) e Marisa (MariaLuisa, come la madre e il defunto fratello del padre, Luigi) il nuovo arrivato doveva chiamarsi PierAngelo (da Pietro e Angela, genitori della madre). Ma il destino così non volle. Di denunciare all’anagrafe il nuovo nato s’incaricò il
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fratello della madre, il quale quando gli chiesero il nome del bimbo si scordò di quello che gli avevano detto, guardò il calendario e vide che il santo del giorno era San Massimo: e Massimo fu il nome assegnato al piccolo. E così per lui compleanno e onomastico coincisero e il nome in ricordo dei nonni materni fu poi dato nove anni dopo all’ultimo figlio.
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Schei Par me nevòdi e par tuti i xòvani ghe xe “euro”. Par quei dea me età e del me Veneto ghe xe stà i schei, le lire e le AMlire par un poco de tempo, finìa la guera. Schei gera tuti i soldi ma – quando i ghe gera – anca i “centesimi di lira. Non so ne·e altre case, ma a casa mia e ne·e boteghe anca se se usava lire o AMlire i schei i gera tuti “franchi”. Se scrivea 50, se intendea 50 lire ma se dixeva 50 franchi. Un franco e 20 schei gera una lira e 20 centesimi (fin che ·a Lira va·eva calcosa). Chi sa parché se dixea franchi: tuta colpa de Napoleon, par chel poco ch’el ghe xe sta? Adesso non se dixe più “franchi” ma euro. Per i bielesi che i dixe “me ne dia un chilo”, “me ne dia due chilo” xe giusto che i diga che se un chilo costa un euro, do chilo i costa do euro. Ma par mi, che se un chilo costava un franco do chili i costava do franchi, se un chilo costa un euro do chili i costa do euri e amen. Per i miei nipoti e per tutti i giovani c’è “euro”. Per quelli della mia età e del mio Veneto ci sono stati i schei (soldi), le lire e le Amlire, la moneta stampata dagli occupanti americani alla fine della 2^ guerra mondiale. Non so nelle altre case, ma a casa mia e nei negozi anche se si usavano le lire o le AMlire i soldi erano tutti franchi. Si scriveva 50, s’intendeva 50 lire ma si diceva 50 franchi: Un franco e 20 schei era 1 lira e 20 centesimi (finché la lira valeva qualcosa). Chissà perché si diceva
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franchi fino all’avvento dell’euro: tutta colpa di Napoleone, per quel poco che c’è stato? Ora la valuta corrente è “euro”. Per i biellesi che dicono “me ne dia un chilo”, “me ne dia due chilo” è giusto che se un chilo costa un euro due chilo costino due euro. Ma per me che se un chilo costava un franco due chili costavano due franchi, è giusto che se un chilo costa un euro due chili costino due euri e amen.
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Afra Parlando della Rua ho citato Toni tabacaro. Credo che allora fosse un personaggio di qualche rilievo nella comunità locale, un esponente di una specie di pro-loco, probabilmente un membro attivo dei commercianti del quartiere. Posso benissimo sbagliare perché mi interesso poco di queste cose e allora ancor meno, ma aveva un negozio che frequentavo quasi quotidianamente e mentre solitamente la moglie dall’indimenticabile nome Afra era quasi sempre dietro il bancone a servire i clienti capitava che Toni li intrattenesse su argomenti i più diversi: sport, politica, questioni locali e, appunto, la riesumazione della Rua. Non ricordo il cognome di Toni. La figlia Lauretta – mi dicono – ha sposato Toni Cappellari, uno dei miei amici d’allora. Uscivo di casa e giravo a destra. Pochi passi ed ero all'angolo, davanti al Caffè Nuovo (da sempre) e giravo ancora a destra. Dopo un portone d’abitazione e il negozio della Stella c’era il “Sale e Tabacchi” dell’Afra (o di Toni), più avanti un’osteria lunga e stretta, poi il fornaio Comacchio, quindi il negozio di giocattoli Trivellin (che, per ironia della sorte o volere umano, era proprio di fronte a Trivellato, autofficina), poi una merceria, un barbiere, il bar Sartea e, dopo i portici, la fruttivendola Pinpinea. E tutto questo sempre restando sul marciapiedi, senza toccare la strada. Ovviamente per altri negozi dovevo invece attraversare
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almeno una delle strade del crocevia di Porta Padova, presidiato (non sempre) da due vigili urbani, uno in centro a dirigere il traffico e uno per dargli il cambio. Chissà se qualcuno si ricorda del vigile che dirigeva il traffico ritto sulla pedana centrale attorno alla quale a Natale lasciavano doni. Al “Nuovo” entravo per comprare un cucheto de rum quando mia madre faceva frito·e (fittelle) o grusto·i (crostoli, galani, chiacchiere, bugie) e qualche altra volta per acquistare non so cosa. Del bar ricordo un uomo, una donna e un setter. Nel portone dopo il bar a volte entravo per andare da un ragazzo della mia età che abitava all’ultimo piano o per pagare l’affitto mensile ai padroni di casa. Più frequentemente entravo con piacere dalla Stella: vendeva crema pasticcera (semplice e fritta), spumiglie, liquirizia, altri dolciumi e, d'estate, anche ghiaccioli e gelati. Nell’osteria lunga, buia e odorosa di vino andavo a prendere el crinto (vino clinton) quando mi mandavano. Da Comacchio mi recavo pressoché quotidianamente per il pane e, quando necessitava, anche per pasta, gianduiotti (formagini de ciocoℓata), fuga§e a Pasqua e non molto altro. Quasi mai mi recavo oltre il fornaio. Ma quasi tutti i giorni entravo nel negozio Sali e Tabacchi. Il sale era in una grande conca appositamente scavata in un grosso blocco di pietra, posto ad angolo sulla destra del bancone. Era sale grosso venduto a peso ed era Monopolio di Stato come il chinino e i tabacchi. Questi erano sulla scaffalatura alle spalle dell’Afra (o di Toni), al di là del bancone. Il sale
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grosso lo raffinavamo macinandolo su un piano di marmo con una bottiglia da vino. Il chinino non serviva dato che mio padre la malaria l’aveva superata qualche anno prima. Ma quasi ogni giorno mi mandavano a prendere sigarette (alfa o nazionali, mai col filtro) e giornali (Corriere, Gazzetta). Settimanalmente qualcuno di noi fratelli andava a prendere le schedine della Sisal e a fare le giocate. I pronostici si facevano con la trottolina, non so di vincite. All’occorrenza vi andavo anche per fiammiferi, figurine, gomma da masticare, quaderni, fogli protocollo, penne, pennini (si schincavano spesso), matite, fapunte (temperamatite), inchiostro, carta sugante (carta assorbente), cartoline, francobolli, carte bollate, valori bollati, saponette, lamette, borotalco, statuine e addobbi natalizi, caramelle eccetera e quasi sempre trovavo l’Afra. Citando il crocevia di Porta Padova, che ben vedevo dalle mie finestre, mi sono venuti in mente i due vigili che lo presidiavano: non ne so nomi o visi, né quando c’erano e se ancora ci sono. Ricordando i vigili mi sono rammentato dei regali che ricevevano in occasione delle feste: panettoni, bottiglie, mostarda, mandorlato o altro. Non so dire in quali anni succedeva e se succede ancora. Pensando a questo mi sono ricordato del vigile Dante, probabilmente poco amato e noto a molti grazie alle multe che portavano il suo nome.
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Le scalette di Monte Berico Non credo siano in molti oggidì che salgono a Monte Berico usando le scalette. Probabilmente quasi tutti usano l’auto o, se sportivi o volenterosi, la bici o magari a piedi salgono i portici. Anche ai miei tempi non erano moltissimi. A me capitava spesso di andare a piedi da Porta Padova a Porta Monte, poi sotto l’arco e su per ·e sca¹ete de monte, quindi al santuario o oltre: solitamente dall’inizio alla fine la scalinata era vuota o al massimo con poche persone. Uno volta ho contato i gradini e in mente ho un numero: 192. Se non è giusto magari qualcuno può essere più preciso. A quei tempi salendo li facevo tutti di buon passo, senza fermarmi e senza ansimare, credo. Scendendo li facevo di corsa a lunghi salti, un paio da pianerottolo a pianerottolo: ma non so più se è un ricordo della realtà o di qualche sogno.
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La polenta Il merluzzo, il baccalà, lo stoccafisso li mangino pure come preferiscono, ma il bacaℓà dalle mie parti si mangia con la polenta, la po·enta, anche perché il bacaℓà è nel suo pocio e nel pocio si pocia la polenta. Mio nonno, sempre lui e mai mia nonna, la faceva nel caliero di rame, appeso con un gancio alla catena sopra al fogolaro. Nel caliero metteva l’acqua necessaria, salava e quando bolliva vi versava man mano la farina xala (farina di mais) quanta serviva. Ovviamente sotto al caliero bruciavano le ste·e, i ceppi. Il fuoco era vivace, sul caliero poggiava una spessa tavoletta di legno, sulla tavoletta poggiava un ginocchio e con una lunga mescoℓa mescolava la polenta. Quando aveva finito di versare la farina necessaria, usava la mescoℓa a due mani e continuava a mescolare, badando che la polenta non ciapa§e el brusto·in. Continuava così per una quarantina di minuti finché era cotta, eventualmente regolando il sale. Quindi con opportuna manovra toglieva il caliero dal fuoco e versava la polenta sul panaro, bello grande. Ora non abbiamo né caliero né fogolaro ma sempre voglia col bacaℓà di mangiare la polenta. Mia moglie la fa con tre misure di acqua, sale q.b., una misura di farina di mais bramata. Mette l'acqua nella pentola a pressione, aggiunge il sale e aspetta che bolla. Quando bolle mi chiama, verso tutta la farina nell’acqua bollente e mescolo velocemente e per bene con la frusta in acciaio, badando di mescolare anche in centro. Mia moglie dice che non ha la forza per farlo lei e se non si fa bene la polenta avrà i
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munari, i grumi. Appena prima che riprenda il bollore smetto di girare la frusta, chiude la pentola a pressione e abbassa il fuoco per evitare il più possibile che si attacchi sul fondo. Dipende dal fuoco e dallo spessore del fondo: basso il primo, alto il secondo. Lascia cuocere per una quindicina di minuti, spegne il fuoco, aspetta che smetta di bollire, sfiata, toglie il coperchio, mi chiama perché mescoli la polenta cotta, lo faccio e la versa in un capace tegame rettangolare. Il bello è che basta una buona mescolata iniziale e una finale, il brutto che poi bisogna pulire la pentola a pressione e spesso tocca a me. NOTA – ℓ = pronuncia vicentina della “l” = una brevissima “e” bacaℓà = baccalà (stoccafisso) alla vicentina pocio = sugo, intingolo pociare = intingere nel sugo caliero = paiolo fogolaro = caminetto xala = gialla stè·a= stèla = pezzo di ceppo di legno da bruciare mescoℓa = méscola = mestolo di legno per mischiare la polenta non ciapàsse brustolìn = non prendesse odore di bruciato panàro = tagliere di legno per versarvi la polenta munàri = mugnai = grumi di farina nella polenta non bene mischiata, mescolata
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Un bel posto A pensarghe ade§o, credo che no stavo in un bruto posto. La casa gera vecia, tanto vecia che i ·a ga butà xo par farne una de nova. Quando pa§ava ·a vacamora ·a tremava e ·a se inpienava de fumo se non se corea a sarare ·e finestre. Anca se quasi ne§un se ricorda, el treno par Noventa pa§ava par Porta S. Croce, Porta S. Bortolo, Porta S. Lù§ia, Porta Padova, Porta Monte e davanti casa mia ghe gera na fermata, con gente che montava e smontava o spetava sul marciapìe o dentro al “Bar Novo”. Vardando dae finestre davanti, a destra vedevo el crocevia de Porta Padova e, de·à, ·a botega de feramenta Campagnoℓo, ·a pasticeria su ℓ'altro canton e 'l resto de chea casa non sconto daℓa ba§a casa, dequà, chea dei Dartardi. Vanti par Porta Padova, dopo sta casa ghe gera na mureta e se vedea: ℓa strada , ·a casa de Pilan de·à e quea dea latara e del becaro Camèrlo de quà. Più a destra dea feramenta non podevo vèdare, ma ghe gera ℓa Farmacia e tante boteghe de·à o de quà dea strada, in 100 metri. Da ℓ'altra parte, verso el centro, sconte daℓa casa de Pilan ghe gera ·e sco·e de Porta Poadova. Insoma, visto o non visto, cheo che serviva el gera tuto lì intorno, a destra o a sinistra dell’incrocio col so trafico, i so vigi·i, ·e fermate del tran par andare versi el centro o verso Padova, aℓa sta§ion o aℓa Stanga. Davanti , a sinistra dea casa de Camerlo, deℓà del fo§o ghe gera el prà de Camerlo e, de·à de chel spa§io verto, na fi·a de casete ba§e, tochi de mura, tuta Vicensa e ·e montagne in fondo. Visin se vedea el campani·e de San
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Piero, più in là ·a Tore de Pia§a dei Signori, el coverto dea Basi·ica. In fondo a sinistra se vedea el campani·e de S. Caterina co l' angelo sora e, man man più visin, i grandi albari, ·a strada, ·e case de Via·e Margherita. Vardando dae finestre dedrìo, a destra vedevo la ciesa de Monte Berico, ·a corte de “Pietro Lodi - legna e carboni” e ·e case de Borgo Casa·e coℓa corte de·e ba·e. Davanti ghe gera ·a nostra cortexe·a con a destra i muri de na ba§a fabricheta e a sinistra el giardin dei Fasoℓo. Più in là, tra le case de Corso Padova e de Borgo Casa·e ghe gera na serie de orti e in fondo i fabricati dea dita “Pan Giocondo, vino e birra” i ocupava tuto 'l spasio tra ·e do strade. Più in là de note se vedea na grande reclam de “Felce Azzurra”.
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Le cose cambiano Il tempo passa, io invecchio e le cose cambiano. Non so se è per via della mia età che non sento più i profumi di un tempo o perché le cose cambiano e non ci sono più. Camminando al mattino in città di tanto in tanto capitava di sentire il profumo del pane appena sfornato. Pane fresco ancora caldo. Capitava a Vicenza ma anche altrove. Fino a qualche anno fa capitava anche qui, ora non ne sento più il gradevole profumo. Forse è colpa del mio naso o forse le pur numerose panetterie non fanno più il pane. Non c’è più il fornaio ma solo il panettiere. Il forno sarà in qualche posto e il pane sarà un prodotto industriale. Magari il pane sfornato nei Supermercati ha il profumo di un tenpo, chissà. Ma non c’era solo il profumo del fornaro. Anche il caso·in aveva il suo profumo, forse non da tutti gradito. Renghe e scopetoni si trovavano in mastelle di legno aperte e olezzanti, ma il profumo era mescolato a quello di spezie e droghe. Non erano quelle pericolose di oggi ma quelle di cucina. E a scuola c’insegnavano che per quelle il caso·in si diceva droghiere: pevare, broche de garofano, canea, noxe moscata (pepe, chiodi garofano, cannella, noce moscata). E c’era il profumo dei salumi (saladi, sopre§e) e dei formaggi (asiago, verde, grana), del caffè e delle salamoie. Fra i profumi del droghiere non mancava quello del bacaℓà, talvolta accompagnato da quello leggero del prezzemolo. Dalla latara (lattaia) usciva il profumo del
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latte fresco (almeno nei primi tempi), dal castagnaciaro quello del castagnaccio e dall’osteria quello del crinto. Magari questi odori si possono ancora sentire fra le bancherelle dei mercati, ma sono pochi ormai i prodotti venduti non in igieniche inodori confezioni. Anche il calzolaio aveva il suo profumo di corame (cuoio) e fino all’anno scorso qui, nella giusta stagione, si sentiva il profumo delle caldarroste rimescolate in un padellone bucherellato sopra fuoco di legna: quest’anno sono mecca nicamente mosse in un recipiente coperto e non profumano più molto.
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Scuole Dopo più di settanta anni i ricordi sono confusi, si accavallano e non so più bene il prima e il dopo, ma ricordo dov’era l’asilo, dove le scuole elementari, dove le medie e dove le medie superiori. Asilo All’asilo – nessuno diceva scuola materna – mi portava e mi veniva a prendere la mamma, a piedi o con la bicicletta. Era dove finiva la strada. Dopo l’asilo si poteva proseguire o superando il Bacchiglione sulla passarella o percorrendo il tracciato sull’argine sinistro del fiume. L'asilo era gestito dalle suore dorotee che a quel tempo erano anche un po’ ovunque: in asili, ospedali, case di cura o di riposo e parrocchie, specialmente in quella di San Pietro dove avevano ed hanno la casa madre. Dall’incrocio di Porta Padova si andava verso Ponte degli Angeli; dopo Barawitzka, nei primi portici, si girava a sinistra verso la chiesa di San Pietro e Oratorio dei Boccalotti. Finito il piazzale la strada proseguiva solo a destra verso Ponte degli Angeli, ma prima di arrivarvi si voltava a sinistra e avanti fino alla fine della via e all’asilo. Nel cortile dove si giocava c’era una vasca di pietra, un labio (albio), contenente la terra crea (argilla) con cui ci si trastullava come anni dopo facevano col pongo. Nella sala grande c’erano lunghe tavole con appositi buchi per le scodelle di metallo della minestra e le panchine dove ci sedevamo. La minestra non doveva essere particolarmente
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buona, considerato che ancora oggi dico “minestra dell’asilo” di certe minetre poco appetitose. Avevamo però altro cibo portato da casa nell’immancabile sestin de l’axiℓo (cestino dell'asilo). Nelle aule c’erano i banchi su misura per noi bimbi. Si iniziava con le preghiere e poi esercizi con carta, matite e altro. E si cantava, ovvero i miei compagni cantavano mentre a me la suora dava una caramella per stare ad ascoltare. Dopo pranzo si poggiava la testa sopra le braccia sul banco e si faceva o si fingeva un sonnellino. Alla fine tornavano le mamme e si andava a casa. Dell’asilo mi ricordo abbastanza bene anche perché, grandicello, vi portavo i fratelli più giovani ed era comunque un noto punto di riferimento. Elementari Quando a Vicenza c’era pericolo di bombe siamo andati a casa dei nonni e in quel paese andavo a scuola al Patronato Ruffini. Ero alunno della maestra Fioretto, nota per essere terribile ma forse era anche brava. Di allora ricordo i mitragliamenti degli aerei americani, la paura della maestra, il suo schiaffo per un mio inopportuno commento, la morte di un uomo in una casa vicina alla scuola. Finita la guerra, tornati a Vicenza, andavo al Patronato Leone XIII. Non so per quale motivo andavo lì, piuttosto lontano da casa, forse era quando le scuole più vicine erano inagibili. poi frequentavo le scuole a due passi da casa e ovviamente ci andavo a piedi e da solo.
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Medie Le scuole medie erano più lontano, a Piarda Fanton. Da Viale Margherita non esisteva il ponte sul Retrone e per andarci dovevo passare per quello delle Barche. Potevo arrivarci passando per Ponte degli Angeli o risalendo la strada del Macello. Nessuno ci veniva in auto accompagnato dai genitori e anch’io ci andavp a piedi, con qualsiasi tempo e temperatura, come tutti. Superiori L’Istituto T.C. era in Contrà San Marcello, confinante con Liceo Classico e Scientifico. Ci andavo a piedi passando per Ponte degli Angeli, il Corso* e, inizialmente, Via Riale. Alcuni miei amici più giovani frequentavano la scuola di quella via e così c’incontravamo al mattino per una chiacchierata prima di iniziare le lezioni. Successivamente facevo il Corso fino alla chiesa dei Filippini dove talvolta entravo per una preghiera, specialmente se mi attendeva un’interrogazione o un compito in classe. Girando a destra la strada finiva proprio davanti al portone della scuola. Non avevamo più il cestello con cibo ma fra noi c’era uno che portava panini e altro e li vendeva ai compagni. Così, durante l’intervallo, vagando per la loggia o nel cortile si poteva anche mangiare . Poi la scuola si trasferì ancora più lontano, dalle parti di San Felice, completamente dall’altro lato della città: io abitavo verso Padova e la scuola era verso Verona. Ma si continuava ad andare a piedi. Non ricordo di avere mai
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preso il filobus, l’automobile era una rarità e non ricordo se avevo la bicicletta. Eravamo diversi amici e facevamo assieme a piedi tutta la strada. Incrociavamo gli studenti dell'I.T.I. Rossi (con loro non c’erano buoni rapporti) e altre persone che nemmeno salutavamo ma alle quali tutte avevamo affibbiato un nome a seconda delle caratteristiche fisiche o altro. Ricordo solo Adamo, uno col pizzetto. (*) Con “il corso” s'intendeva il Corso Andrea Palladio
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Date Non sapevo proprio d’averle. Non pensavo che nel cassetto ci fossero le mie vecchie pagelle. In tanti anni e tanti traslochi non le avevo mai viste, o almeno non lo ricordo. Ma ieri cercando altre cose, ho trovato una bianca cartellina con scritto Massimo e con dentro le pagelle. E così le date che cercavo di ricordare e ricostruire le ho lì, scritte e certificate. La prima cosa che mi ha colpito è che a quel tempo non scrivevano il codice fiscale TRMRMO36E24L840K* ma scrivevano chiaramente Tramaglino Romeo di Lorenzo e di Mondella Lucia nato a Vicenza provincia di Vicenza il 245-1936. I figli non portavano il cognome della madre ma il suo cognome e nome era su tutti i documenti, il sesso si capiva dal nome e tutti sapevano che il padre era maschio e la madre femmina. Forse perché nessuno sapeva cos’era praivasi e politicalli correct, ma a me non dava alcun fastidio. L’altra cosa che mi ha colpito è che la prima pagella ha sulla prima facciata opera balilla (in alto), un grande fascio littorio e a.XXII (al centro), MINISTERO EDUCAZIONE NAZIONALE (sotto) e sull’ultima facciata una frase firmata Mussolini, tutto scritto in caratteri molto grandi. È datata Sandrigo, 31 maggio 1944-XXII. Io ricordavo una sola fotografia da figlio della lupa o
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balilla che fossi e nient’altro. Non trovo la pagella di 2^ elementare, probabilmente iniziata a Sandrigo e terminata al Patronato Leone XIII di Vicenza. Era infatti finita la guerra ed eravamo tornati a casa nostra ma le vicinissime scuole erano inagibili. Come pensavo, in 3^ ero “frequentante la Scuola elementare G. Zanella situata in C. Padova nel Comune di Vicenza” e l’insegnante era Mary Uderzo. In 4^ e 5^ ero sempre in quella scuola con insegnante Alberto Rebecchi, come testimoniano le pagelle datate 28 giugno 1947 e 30 giugno 1948. Quelle datate 15/6/1949 e 1950 sono intestate “Scuola Media Governativa B – Vicenza” e andavo in Piarda Fanton, ma non c’è pagella della 3^. Nella cartellina ci sono ancora solo quelle datate 1955 e 1956 intestate ISTITUTO TECNICO STATALE COMMERCIALE E PER GEOMETRI
“Ambrogio Fusinieri” VICENZA e nient’altro. *TraMaglino RoMeO n. 24.05.1936 a Vicenza Cod,Contr, TRM RMO 36E24 L840 K
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El ciucio De quando gero picoℓo in casa mia non ricordo ciuci de goma, quei da “ciucia e tasi”. Qualche ciucio doveva e§erghe se me fradeo più xovane, cheo nato dopo ℓa guera, el ciamava “papa ciucio” na roba fata coℓa farina brustoℓà ch'el magnava col biberon dal ciucio tajà par slargare el buso. Ma prima non credo ne esiste§ero in casa. E così i fioi i ciuciava el deo: el deo gro§o el 1°, indice e medio la 2°, el 4°non ricordo, el 5° el deo grosso. Mi, el 3°, no ciuciavo nessun deo ma me mama me ga latà fin a tre ani, i dixea. De so·ito a un par de ani no i ciuciava più, fora che l’ultimo. Me mama provava de tutto par farghe perdere el vi§io: sale, pevare, oio de fegato de merlu§o e non so cos’altro sul deo. Ma lu continuava a ciuciarse el deo gro§o, magari scondendose quando el gera grandeto. E cosi i denti i xe vegnù con in mexo el buxo par el deo: no costumava l’aparechieto, allora. Il succhietto. Di quando ero piccolo non ricordo in casa tettarelle di gomma, quelle da “succhia e taci”. Magari un fagottino di tela con dentro zucchero, in casi eccezionali. Qualche ciuccio (tettarella per biberon) doveva esserci se mio fratello più giovane chiamava “pappa ciuccio” una pappa fatta con farina abbrustolita che gli piaceva e mangiava col biberon dalla tettarella tagliata per allargare il buco. Ma prima di lui non credo ne esistessero in casa. E così i figli succhiavano le dita: il pollice il primo, indice e
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medio la seconda, il quarto non ricordo, il pollice il quinto. Il terzo non si succhiava alcun dito ma è stato allattato al seno fino a tre anni, dicevano. Solitamente quando avevano un paio di anni smettevano, ma non l’ultimo nato. Mia madre le provava tutte per fargli perdere il vizio: gli metteva sul dito sale, pepe, olio di fegato di merluzzo e non so cos’altro. Ma lui puliva il dito e continuava a succhiarlo, magari nascondendosi quando era grandicello. E così i denti sono cresciuti con nel mezzo lo spazio per il pollice: allora non costumava l’apparecchio per i denti.
Vitamine El gavea tante vitamine, el faxea tanto ben, el gera tanto cativo, tanto disgustoso, tanto odià dai toxeti. El gera l’oio de fegato de merlu§o. Penso che chi lo ga tólto non se ·o gà dismentegà. Un cuciaro de oio e na fetina de mandarin: da aℓora i mandarini i me xe antipatici. Aveva tante vitamine, faceva tanto bene, era tanto cattivo, tanto disgustoso, tanto odiato da me e dai bambini. Era l’olio di fegato di merluzzo. Penso che chi l’ha preso non se lo dimentica. Un cucchiaio di olio e una fettina di mandarino: da allora i mandarini mi sono antipatici
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Bellissimo Il bambino era bellissimo, non solo per mamma sua. Belli occhioni chiari, bellissimi folti capelli biondi e ricci. Ma ormai era grandicello e decisero che era ora di tagliare i capelli, come per tutti i maschi della famiglia, di portarlo dal barbiere. Si diceva barbiere anche se in realtà tagliava rarissime barbe e quasi solo capelli. Poi il bambino tornò a casa con i capelli tagliati, da maschietto. Era sempre lui ma diverso, senza più la testa coperta di riccioli biondi. Lo vidi, lo guardai ed esclamai: "Che rece spanà!" (“che orecchie a sventola!”)
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A Valdagno, Ponte Briscola A Valdagno, tra Novale e Maglio di Sopra scorre l’Agno, il torrente che appunto dà il nome alla cittadina. Valdagno e tutta la vallata dipendevano dalla Marzotto. Più su c’è Recoaro con le sue fonti, la sua acqua i suoi monti che vive anche di turismo, ma la fonte principale di guadagno per la gente della vallata, e non solo, erano le fabbriche di Marzotto. Uno stabilimento a Valdagno centro e uno a Maglio di Sopra, entrambi sulla sponda destra del torrente. Novale è su quella sinistra. Agli inizi degli anni sessanta per andare da Novale in fabbrica c’era el bus, l’autobus che collegava il centro con le frazioni. A quel tempo non erano ancora molte le auto private che però aumentarono nel giro di pochi anni. Bus o auto erano indispensabili per andare a Valdagno Valdagno, ma non per andare al Maglio, non molto lontano da Novale. A monte, le due frazioni sono (erano?) collegate da una strada che da Maglio, superato un sifone, scende al ponte sull’Agno e sale, meno ripidamente, a Novale. A valle una passerella dalla sponda destra alla sponda sinistra permetteva agli abitanti di Novale di attraversare l’Agno a piedi e di arrivare prossimi allo stabilimento di Maglio. Oltre al classico orario giornaliero 8-12, 14-18, quello dei turni di lavoro era 6-14, 14-22, 22-6. Non ho mai visto la passerella nelle ore di inizio/fine turno ma credo che nei primi anni sessanta fossero molti i novalesi che la usavano per recarsi al lavoro. Io l’ho attraversata qualche volta in altri orari, quando
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non c’era nessuno. Si tratta di un ponte sospeso piuttosto lungo: per passar da una sponda all'altra bisogna prendere il ritmo del suo impressionante dondolio. Mia moglie l’ha fatto una volta e non ha più voluto riprovarci. Tutti lo conoscevano come Ponte Briscola, appunto perché briscolava (dondolava). E Ponte Briscola è il suo nome ufficiale, usato negli atti comunali e nelle mappe di Google.
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Interiezioni Dicono che Che Guevara fosse detto El Che per l’abitudine che aveva di dirlo ogni tre parole. In Trentino dicevano tèi alcuni o tòi altri, in Piemonte neh ( non ho mai sentito salutare con un “cerèa”, ma con un “cerèa neh!”). A Vicenza era ciò. Che be·o ciò, come steto ciò, dove veto ciò, go magnà ben ciò, quanto che ga piovù ciò, cu§ì e cu§ì ciò, ghe gera un bel so·e ciò e così via ciò. Il tono era diverso: di meraviglia, stupore, gioia, dolore, affermazione, negazione e altro ma il ciò non mancava mai. Non so se a Vicenza si usa ancora, magari con minor frequenza di un tempo, o non si usa affatto. A Biella il neh è sempre più raro. Forse questi intercalari sono usati ancora da qualcuno non più giovane, magari solo qualche volta. Ad ogni modo preferisco mille volte il ciò alle bestemmie o altri intercalari usati nel passato e nel presente.
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Radici, 2 Molti anni fa scrivevo di quando ci conoscevamo tutti, specialmente nei piccoli paesi. Non osservare le regole della comunità era una vergogna e la maggioranza delle persone le osservava. I foresti erano rari e inizialmente guardati con sospetto, ma una volta conosciuti meglio se non si comportavano male venivano ben accolti, magari restando oggetto di curioso interesse. Naturalmente non mancavano pettegolezzi e malelingue ma nemmeno l’aiuto reciproco. Ci si conosceva, talvolta anche troppo. Non dubito che questo sia ancora attuale in piccoli centri, ma in generale è diverso. Sicuramente è diverso in questo periodo di pandemia, contagi, mascherine, quarantene, confinamento. Ma anche prima. Per i pettegolezzi ci sono programmi televisivi, reti internet (social), ecc. e non necessita spettegolare con la vicina di casa (passatempo prevalentemente femminile), Anche per sentire parlare di sport (passatempo prevalentemente maschile) basta accendere il televisore. I piccoli negozi sotto casa tendono a sparire sostituiti da supermercati fai-da-te, compreso il pagamento. Come “banca chiacchiere” restano le parrucchiere e i barbieri, forse. Un tempo i bambini erano una scusa per parlarne con qualcuno: ora sono una rarità o non ci sono e se ci sono passano più tempo a scuola, dalla nonna, in casa a guardare la tv o al computer che in cortile. Una volta le porte di casa raramente erano chiuse a
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chiave se non di notte. Non penso che succeda ancora quando nel paese ci sono o possono esserci persone del tutto sconosciute, con altre radici, altre abitudini, altri usi, altre regole o nessuna regola. Dicono che dovremmo accoglierle e favorirne l’integrazione, ma se non condividono niente dei nostri valori, del nostro modo di vivere, se non vogliono integrarsi magari solo per conservare le loro radici, allora cercare di conoscerli, comprenderli, accoglierli è tempo sprecato. Naturalmente, come è stato osservato, “dipende dai posti e dalle situazioni ma l’aiuto tra vicini per fortuna esiste ancora”. Ma quasi sempre è così proprio a motivo delle radici comuni, del comune pensare e del contare sul reciproco aiuto. Nel paese dei miei genitori e dei miei nonni, dove sono stato sfollato in tempo di guerra, mi trovavo come a casa mia, conoscevo moltissimi e moltissimi mi conoscevano: nessuna o quasi diffidenza reciproca. Nella mia città natale con amici di gioco, compagni di scuola, colleghi di lavoro era la stessa o migliore cosa. Anche durante il servizio militare con i commilitoni era più o meno lo stesso con trentini, ladini, piemontesi, toscani; un po’ diverso, ma non molto, con i sudtirolesi. Con vicini e colleghi d’Ufficio poi a Valdagno era come prima a Vicenza. Nessun problema 50 anni fa nemmeno a Candelo (BI) ad avere rapporti amichevoli con i vicini di origine veneta e buoni con altri veneti, piemontesi, calabresi, ecc.. Anche nel vicino paese, dove tuttora per mesi viviamo, inizialmente
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era come una volta in un piccolo centro. Sono ventisei appartamenti su tre piani, ripartiti in quattro blocchi con ognuno la sua entrata, la sua scala, la sua cantina ma con cortile e prato comuni. Tra le sei famiglia della mia scala i contatti erano frequenti, ma anche con gli altri condomini erano cordiali, salvo le immancabili eccezioni. Ma di quei condomini siamo ora rimasti solo in pochissimi: la maggioranza sono per me persone sconosciute, comprese due o tre famiglie di cinesi. Anche nella città dove siamo arrivati venti anni fa abbiamo subito familiarizzato con la maggioranza dei condomini, una ventina di famiglie su sei piani. Da giovani credo sia normale fare nuove conoscenze, ma alla mia età è più probabile che vengano a mancare quelle vecchie, a morire. E anche qui dei conoscenti iniziali sono rimasti solo due sposi e non conosco i nuovi arrivati, tranne una famigliola con due bambini e un cane, ma solo di vista, se li vedo insieme e vicino casa. Dal mio pianerottolo si entra in altri due appartamenti: uno è disabitato, nell’altro ogni tanto c’è qualcuno, non so chi. Forse è solo colpa mia o dell’età, ma davvero io non conosco i miei vicini. Forse per molti altri non è così.
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Nostalgia Quando arriva l’inverno ho nostalgia dei cibi d’allora. Ripenso al cren in radice, appena grattà coa gratarola e coerto d’axedo, penso a quanto becava e mi faceva lacrimare, a quanto mi piaceva col lesso. Penso alla mostarda vicentina che non usavo col bollito ma col panettone. Penso al mandorlato di Cologna, spesso avuto o dato in regalo, parente lontano del torrone d’Alba. Penso anche alla calza della befana: carrube, noci, arance, liquirizia, mandarini, cose che posso sempre trovare anche adesso. Non penso ai bagigi, non mi sono mai piaciuti. Non ho nostalgia dell’olio di fegato di merluzzo che i mandarini mi ricordano. Penso ai grusto·i e frito·e a carnevale e i pevaroni soto axedo par smorbarme ·a boca e la putana fatta con quello che restava dell’impasto delle frito·e. Penso alla polenta e baccalà alla vicentina, tipico piatto invernale. Ricetta semplice, come la ricordo: stoccafisso ammollato in acqua per 2-3 giorni, aperto pulito di lisca e spine, cosparso con trito di aglio, prezzemolo, 2-3 acciughe, sale qb, farina bianca, strisce secondo altezza del tegame, chiuse infarinate, sistemate nel recipiente, coperte di latte, olio, far pipare per qualche ora (fuoco basso non diretto, se no se taca e el ciapa el brustolin), pratica e tempo.
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Vecchiaia Continuo a pensare che vecchi siano quelli nati almento dieci anni prima di me, ma devo ammettere che non sono giovane. Più si è vecchi più sono i ricordi e meno le persone con cui condividerli. Meno persone e magari con meno memoria. Non siamo in molti a ricordare la Domenica di Passione, la Prima domenica di Passione che precedeva la Domenica delle Palme, unificate dopo il Concilio Vaticano II. Nelle ultime due settimane di Quaresima c’era il triste ricordo della Passione di Cristo, le quarant’ore di adorazione, la velatura di croci e immagini, la “legatura” delle campane, il crepitare delle ràco·e (raganelle). Nella domenica di Passione veniva recitato il Passio, dal parroco e due cappellani. Non c’era bisogno di fedeli a fare da voce narrante e dei personaggi, c’erano preti a sufficienza. C’era la domenica delle Palme e la benedizione dei rami d’ulivo, immancabili nelle case. In caso di temporali, quando c’erano lampi, tuoni, pericolo di grandine (temutissima) le foglie di ulivo venivano bruciate affinché il fumo salisse al cielo come preghiera per scongiurare i danni che ne potevano derivare. E, come ora, c’era la lavanda dei piedi, l’adorazione della Croce e le altre cerimonie della settimana santa. La domenica delle Palme era solo un intermezzo gioioso prima delle liturgie della Settimana Santa. E al sabato si “scioglievano” le campane che con gioia annunciavano la Resurrezione. E, naturalmente, poi c’era Pasquetta.
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Quello che non è stato abolito non è più rito normale ma straordinario, si può fare e in alcuni posti forse si fa; non in molti, anche perché i cattolici praticanti sono sempre meno. Sono passati 50 anni, ma chi ne ha più di 60 potrebbe ricordare e chi ne ha meno sapere. E pochi si ricorderanno che i cattolici praticanti il venerdì non mangiavano mai carne e di tutte le altre cose liturgiche cambiate dopo il Concilio. Ancora molti ricordano le lire ma pochissimi le AM Lire. Forse pochi si ricordano che il latte veniva stringendo a mano i capezzoli delle mucche, che le donne tiravano il collo alle galline domestiche e poi le spennavano, che gli uomini ammazzavano i conigli dando con la mano di taglio una botta fra coppa e collo. Pochi si ricordano delle prime biro, che non si potevano usare a scuola o per firmare assegni, di penne e pennini, dei banchi scolastici col buco per il calamaio e l’incavo per la penna, dell’asciugapennini, della carta assorbente. Ormai anche le macchine per scrivere più o meno datate sono un ricordo di pochi, come la carta carbone, il dischetto abrasivo per cancellare o il bianchetto, la dattilografia e la stenografia, le stenodattilografe. Io ricordo un dattilografo ultra veloce e preciso, compagno di naja. Anche il ricordo del servizio militare obbligatorio sta scomparendo. Era obbligatorio solo per i maschi (e nemmeno tutti) ma non ricordo rivendicazioni di parità da parte delle femmine se non quando ha cessato di essere un obbligo diventando un’occasione di lavoro e di guadagno.
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Bilinguismo Ho letto* che le persone parlanti correntemente due o più lingue (non necessariamente lingue nazionali) hanno dei vantaggi su chi parla una sola lingua. Quand’ero giovane, in Veneto, quasi tutti quelli che conoscevo erano bilingui, parlavano cioè correntemente l’italiano e la lingua locale. Ben pochi parlavano solo italiano o solo veneto. Ora non so, magari ci sono però figli di un genitore italiano e l’altro straniero che si rivolgono all’uno in una lingua all’altro in un’altra, o , chissà, indifferentemente a entrambi in una delle due lingue. Capisco e compatisco quelli che pur avendo un genitore bilingue non diventano bilingui perché l’altro genitore parla solo italiano e vivono in un ambiente in cui quasi tutti si esprimono in questa lingua. Potrebbero anche diventare bilingui, ma con scarsa utilità pratica avendo quasi nessuno con cui parlare la seconda lingua. Non capisco invece quei genitori che pur essendo entrambi bilingui si ostinano a parlare ai loro figli solo in italiano vietandogli di usare la lingua locale anche quando questa è largamente usata dalla popolazione in cui vivono. Mi pare un comportamento un po’ elitario che forse fa chic ma non giova ai figli che per distinguersi finiscono magari col conoscere latino e greco lingue dei loro avi, ma non il veneto lingua dei loro nonni. *https://www.corriere.it/salute/neuroscienze
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Ciao! <Io per esempio non dico più “ciao” dopo che ho letto chissà dove che deriva dal dialetto veneziano e sta per “servo tuo”.> (Alessandro Giuli) Non so se tale derivazione sia scientificamente provata, ma per quantone so la cosa potrebbe essere verissima e, intesa così, dire “ciao” può sembrare umiliante e servile. In effetti dalle mie parti oltre al “ciao” esisteva sciao (pr. s'ciao) e sciao è chiaramente una forma veneta per “schiavo”, servo. Qualcuno usava sciao anche per salutare, ma generalmente per salutare si diceva “ciao” mentre sciao stava per “beh, pazienza”, “non è importante”, “è fatta!”, “è finita!” o cose del genere: dipendeva dal tono con cui si diceva. Ora tutti usano “ciao” per salutare tutti, non so se è perché ritengono che lo si possa usare con tutti o perché sono in confidenza con tutti e danno del tu a tutti e con nessuno usano le cosiddette “formule di cortesia”. Ai miei tempi e nella mia terra mai e poi mai si sarebbe salutato con “ciao” qualcuno con cui non si aveva confidenza, persone cui si dava del lu o ela (del “lei”) o del vu (del “voi”). Ritengo quindi molto probabile che quel sciao stesse sì per “servo tuo” ma visto che, almeno ai miei tempi, lo si usava solo con chi si aveva familiarità, probabilmente era un “servo tuo” del tutto scherzoso e canzonatorio, per niente servile e umiliante. Io penso che sia così e se non lo fosse … “sciao”.
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Padoan Ormai anche le parole francesi sono pronunciate come fossero inglesi ed è fine dire Pàdoan e non Padoàn. Pier Carlo Padoan sarà anche nato a Roma ma il cognome è sicuramente veneto: padoàn è uno di Padova come trevisàn è di Treviso, vene§iàn di Venezia, furlàn del Friuli, vixentìn di Vicenza, marostegàn di Marostica, trentìn di Trento. Capita che, fuori dal luogo di provenienza, nel Veneto uno sia conosciuto come “el padoàn”, “el trevisàn”, “el vixentìn”. Ancor più capitava in passato ed è frequente che siano diventati cognomi, cognomi che tutti i veneti non anglofili (o snob) pronunciano Padoàn, Visentìn, Trevisàn, Furlàn, Trentìn. Parimenti altri cognomi derivano dalle professioni o sono diminutivi o accrescitivi: Marangòn è il falegname, da favro (fabbro) viene Favrìn, Marcòn da Marco, da munàro (mugnaio) Munarìn, Munaròn. In genere in veneto i vocaboli che in italiano terminano in “ne” o “no” sono parole tronche che terminano in “n”: can, pan, vin, cugìn, camìn, facchìn, mu§ulmàn, cristiàn, magaxìn, Ioanìn, Lorenzìn, Lorenzòn, ecc.. Nel giro dei miei parenti e conoscenti trovo: Parolìn, Cumàn, Corradìn, Tonìn, Restigliàn, Padoàn, Pavàn, Favrìn, Nardòn, Trevisàn, Ranzolìn, Munaròn, Grigolòn, Grigolìn, Spigolòn, ecc. Anche del Ministro dell’Economia io non dirò Pàdoan ma Padoàn.
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Paese natale Non so se Leonardo oggi nascerebbe a Vinci o se quel comune è come i tanti piccoli paesi in cui non nasce più nessuno o quasi perché non c’è ospedale: niente ospedale, niente clinica privata, niente reparto maternità, niente nascite. Ospedali nei comuni più piccoli non ci sono mai stati, in quelli meno piccoli non ci sono o non ci saranno più e – se le cose stanno come credo – quasi nessun nasce più in questi paesi. Un tempo alle donne capitava anche di partorire in casa, non sempre assistite da un medico: c’erano le levatrici che facevano nascere i bimbi anche nei più remoti casolari e comune di nascita e di residenza della madre coincidevano. Non necessariamente si nasceva in casa perché non c’erano ospedali: dei miei fratelli minori, uno è nato in un piccolo paese nell’ospedale che non c’è più e l’altro in casa in una città dove l’ospedale c’era e c’è. Ora di regola si nasce in ospedale o clinica, magari in giorni programmati; i primi vicini del neonato non sono fratelli e consanguinei ma estranei multicolori; talvolta il padre è un codice a barre. I miei genitori sono nati in un paese in cui non si nasce più: i bimbi di qualche giorno nati nell’ospedale della vicina città vi immigrano da quel comune. Capisco che alla maggioranza dei neonati non importerà niente risultare nati nel paesello dove abitava la madre, forse non sapranno mai il nome di quel paese e diranno solo di essere nati in Europa o in Italia, sapranno dov’era l’ospedale in cui sono nati
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perché sarà scritto in qualche posto, un nome di cui i loro nonni forse mai sapranno molto. Ma chi è nato in quel paese, chi ha avuto antenati lì venuti al mondo, vissuti e sepolti magari non gradisce che i suoi figli e nipoti risultino nati nel paese tradizionalmente avverso e compaesani di persone di paesi lontani. Visto che, quando è noto, la denuncia di nascita arriva comunque al Comune di residenza della madre, troverei più giusto indicare quello nei documenti ufficiali. Es. Nati all’ospedale di Vicenza: Luigi Rossi da Caldogno (VI) nato il 20.11.2011 [Vicenza] cf = RSS LGU 11S20 B403N Giovanna Bianchi da Vicenza nato il 21.01.1012 [Vicenza] cf = BNC GNN 12A61 L840X In quel comune il neonato era prima e subito dopo la nascita. Che poi il parto sia avvenuto nel comune dove si trova l’ospedale o in quello dove la madre si trovava mentre vi si recava sono accidenti casuali. Di fatto là era la sua casa, là sono le sue radici: si può sempre indicare anche il comune dov’è avvenuto il parto, se proprio serve. P.S. – Se non si nasce nel comune dov’è l’ospedale solo perché è più comodo fare lì la denuncia di nascita, se il nuovo ospedale di Biella (43882 ab.) è a Ponderano (3767 ab.) quasi tutti i biellesi nasceranno in quel piccolo comune.
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Giovani Vedendo i cartelli, sentendo quello che si dice pare che i giovani siano dei disgraziati senza futuro, che vivranno peggio di chi è stato giovane tanti anni fa. “Non rubateci il futuro”, “Non paghiamo il vostro debito” e slogan di questo tenore fanno pensare che i non giovani siano una masnada di fortunati egoisti: vorrei fare un confronto tra i giovani di allora e quelli di oggi per vedere se davvero le cose stanno così. Parlo per me, ma penso che molti potrebbero dire più o meno le stesse cose. Da lattante non avevo il biberon, non avevo carrozzina super tecnologica, non avevo tutine da astronauta. Nemmeno i pannolini usa e getta avevo: avevo i panexei* di tela che mamma lavava, asciugava, stirava. Capitava d’inverno che nelle case con bimbi vi fosse un’umidità puzzolente, per via dei molti pannolini che vi vaporavano e che non potevano aspettare il sole. Come giocattoli avevo un sonaglio e forse un gomitolo di lana; poi ebbi giocattoli di legno o di latta. I più belli funzionavano a molla, le pile servivano solo per la torcia elettrica; sognavo i pattini a rotelle. Qualcuno dei giovani indignati non ha avuto mille giocattoli meccanici, elettrici, elettronici, play-station? Qualcuno di loro ha solo sognato skateboard o pattini in linea che io non potevo nemmeno sognare perché inesistenti? Sci, tennis, nuoto esistevano ma non rientravano nelle cose possibili; la bicicletta l’ho desiderata per molti anni. Morbillo, varicella, tosse canina, orecchioni erano sempre in agguato e anche malattie peggiori, ma non
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ci pensavo. Portavo i calzoni corti, per evitare di sbregarli sulle ginocchia, ma queste si sbregavano, eccome. Si giocava su cortili di terra pieni di sassi o coperti di ghiaia, si cadeva: abrasioni su ginocchia e gomiti non facevano in tempo a guarire che si ripresentavano. E non c’era penicillina o altri medicamenti: alcol, bruciore e via, se non necessitava fasciatura. Eravamo sempre pieni di broxe, quelle croste che si formavano sulle ferite. In compenso non mi rompevo le ossa praticando costosi sport. Non so se la mia infanzia sia stata migliore dell’infanzia degli arrabbiati. Per andare a scuola non portavo pesanti zainetti ma non sempre riuscivo a comprare tutti i libri, nuovi sicuramente no. Vicina o lontana (fino a 3 Km), sempre a piedi ci sono andato, qualche rara volta in filobus, sicuramente mai in auto: non c’era. Non ho mai avuto un motorino, uno scooter, una moto. Non avevo telefonino, computer, iPad o similia e nessuno li aveva. Niente pizzeria, ristorante, discoteche: qualche bella camminata e tanto ricreatorio parrocchiale. Le droghe erano solo quelle che vendeva el caxo’in (l’alimentarista): cannella, broche de garofano, pepe. D’inverno mi venivano le buganse (i geloni) alle orecchie, alle mani, ai piedi: la casa era fredda, il pavimento era freddo, appena alzato salivo su una sedia e mi vestivo in fretta; i vetri erano arabescati di ghiaccio, fuori spesso c’era la nebbia; pane, caffellatte, maglione, paltò, berretto e via. Battevo i denti, gelavo arrivavo a scuola e non sempre era ben riscaldata. È capitato di portare legna da casa, è capitato di usare per le mani un sasso riscaldato. Era appena finita la
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seconda guerra mondiale: anche quella ho avuto, con il padre lontano, con partigiani, repubblichini, bombardieri, Pippo, vetri oscurati, coprifuoco e una mamma spesso terrorizzata (io non ricordo mie paure, ero troppo piccolo): quante cose ho avuto che i giovani d’oggi non hanno! Mio padre lavorava ma non prendeva la paga e mia madre mi mandava negli uffici della ditta a chiedere un acconto che non sempre c’era e dal fornaio e dal caxo’in (alimentari) si andava col libretto dove i notava il credito e qualche volta non si riusciva a pagare e i vestiti duravano un’eternità e le scarpe di più. E ho avuto pure il servizio militare di leva, 18 mesi di naja a rancio, branda e 108 lire (euro 0,05) al giorno, se non ricordo male: ho patito fame, freddo e nostalgia di casa, “guardie” e poche licenze. Il mio primo stipendio è stato di Lit 20000 al mese (10,33 euro), lavoro per 3-4 mesi. Sono stato fortunato: per il secondo lavoro mi hanno assunto prima che facessi la naja, non capitava sempre. Lavoro a tempo determinato in un Ente assistenziale e mi hanno riassunto dopo la naja, sempre “precario” si direbbe oggi. Orario e futura pensione ottimi, stipendio decente, lavoro da dipendente pubblico: mi urtava “gravare” sui poveri, sulla gente, pativo anche l’essere “precario”. Ho cercato e trovato un altro lavoro, in altra città, in azienda privata, con orario e lavoro più gravosi; ho messo su famiglia e dopo qualche tempo ho avuto la mia prima auto, una Fiat 500, 430 mila lire (222 euro) pagate a rate.
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Non c’era problema di posteggio allora davanti alla fabbrica, per un po’ la mia 500 era l’unica vettura posteggiata nella via. Lavoravo 44 ore alla settimana, due settimane di ferie all’anno e 17 giorni festivi. La pensione veniva calcolata in base alle “marchette” pagate e rivalutazione monetaria; la “pensione retributiva” è venuta dopo, e non so se è stato un guadagno visto che per i casi della vita la mia retribuzione era diminuita. A 25 anni non pensavo più di essere un “giovane”, semmai un “uomo giovane”. Tredici anni dopo un nuovo lavoro, 300 Km più lontano. Noi giovani di un tempo avevamo molte cose che i giovani d’oggi non hanno, non avevamo tantissime cose che essi hanno (grazie al debito italiano?) e non gavévimo ‘a broxa sul co’o.** *Nei corsivi ho usato x per s dolce, s per s dura, ‘ per l veneta **avere la piaga sul collo = non avere voglia di lavorare
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Indice analitico A proposito ........................................................................78 A Valdagno, Ponte Briscola..............................................125 Abbondanza........................................................................88 Accadde............................................................................101 Acqua.................................................................................67 Afra...................................................................................106 Africa....................................................................................4 Anni fa..............................................................................102 Ascensione di N.S..............................................................73 Asilo.................................................................................116 Bellissimo.........................................................................124 Bilinguismo......................................................................134 Canpo de Nane...................................................................62 Ciao!.................................................................................135 Cortili.................................................................................29 Cren....................................................................................47 Dai nonni..............................................................................6 Date..................................................................................120 Divagazioni........................................................................39 El ciucio............................................................................122 El seciaro............................................................................15 Elementari........................................................................117 F.T.V. .................................................................................39 Giovani.............................................................................139 Guerra e pace......................................................................17 I cavalieri............................................................................60 Il latte..................................................................................23 Il ricreatorio........................................................................55 Interiezioni ......................................................................127
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Inverno...............................................................................40 La discesa...........................................................................64 La polenta.........................................................................110 La Rua................................................................................91 La scuola............................................................................27 La vaca mora......................................................................25 Le ceste.................................................................................9 Le cose cambiano.............................................................114 Le scalette di Monte Berico.............................................109 Medie................................................................................118 Merano...............................................................................50 Merluzzo.............................................................................76 Mnemonica.........................................................................85 Natale.................................................................................93 Nebbia................................................................................97 Nomi impropri....................................................................82 Nostalgia...........................................................................131 Padoan..............................................................................136 Paese natale......................................................................137 Passato remoto....................................................................79 Ponte degli Angeli..............................................................86 Radici.................................................................................69 Radici, 2...........................................................................128 Ricordi................................................................................66 Ritorni.................................................................................72 Schei ................................................................................104 Scuole...............................................................................116 Strasse, ossi, fero vecio......................................................33 Superiori...........................................................................118 Un altro mondo...................................................................35
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Un bel posto......................................................................112 Vecchiaia..........................................................................132 Venezia...............................................................................43 Vicenza...............................................................................20 Vita rusticana......................................................................11 Vitamine...........................................................................123 F.T.V..................................................................................39