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Passato remoto

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Paese natale

Paese natale

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capivano chiunque lo parlasse, capivano un po’ perfino il latino ecclesiale e – magari storpiandolo – lo recitavano pure.

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Penso che tutt’ora un veneto venga riconosciuto sia per la cadenza che per la tendenza a sorvolare su doppie ed elle anche se – per il resto – usa un italiano corretto. Quando una quarantina di anni fa ho lasciato il Veneto, tutti quelli che conoscevo parlavano in dialetto, tranne usare l’italiano se si rendevano conto che c’era un foresto, il che succedeva quasi subito. Ma allora i foresti erano una rarità.

Ora non so come si parli nel Veneto, so che nella mia famiglia in casa si parla veneto mentre fuori naturalmente italiano, dato che viviamo in Piemonte o Liguria. Uso il dialetto con parenti e conoscenti veneti le rare volte che capita, sempre con moglie e figli (i figli dei figli non conoscono dialetto).

Già ai miei tempi molti genitori con i figli parlavano italiano pensando di favorirli: io non l’ho mai fatto, avendo accertato che a scuola i pochi che parlavano italiano non avevano migliori voti dei tanti che usavano il dialetto. L’unico mio parente parlante italiano era un cugino che, tornato a guerra finita dalla prigionia in Germania, forse aveva fatto voto di non parlare più dialetto. D’altro canto l’italiano scritto peggiore ho avuto occasione di leggerlo negli scritti di popolani della zona di Pisa, forse convinti che il loro parlare fosse corretto italiano. Noi invece abbiamo sempre saputo che quello che parlavamo non era quello che dovevamo scrivere, anche se gli insegnanti esageravano nel considerare errori vocaboli ed espressioni

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che ritenevano dialettali.

Per molti anni sono vissuto in Piemonte, ma non ho avuto occasione di imparare il piemontese e ancora mi suonano strane frasi tipo “ne ho solo più uno” o “chissà se hai del pane” o “facciamo che fare, facciamo che far fare“. Lì ho anche scoperto che uno si chiamava Drigo perché, durante la Grande Guerra, suo padre era stato qualche tempo in quel paese dei miei antenati che credeva si chiamasse San Drigo.

Da molti anni vivo molto tempo in Liguria ma non ho avuto occasione d’imparare il ligure e ancora mi sembra strano leggere ai civici 23, 25, 27 o in sequenza nella via i numeri 21, 23, 35, 25. I civici sono quelli che io chiamo numeri privilegiando il sostantivo all'aggettivo e il 35 è rosso, 35r negli indirizzi, e indica che si tratta di un esercizio commerciale e non di un portone di abitazione.

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Nomi impropri

Nella mia famiglia più che nomi propri abbiamo nomi impropri. Nomi semplici com’era d’uso a quei tempi, ma nessuno di noi fratelli ha il nome che avrebbe dovuto avere.

Tutto inizia con Giuseppe che prende Maria come sposa. Giuseppe e Maria sono i miei genitori e – secondo tradizione – il loro primo figlio sarebbe nato a Natale se fosse stato un anno bisestile, ma siccome non lo era nacque il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano. E Stefano si sarebbe dovuto chiamare, ma non fu così: in memoria di un fratello di mio padre deceduto quell’anno fu chiamato Antonio.

Due anni dopo ebbero una figlia che tutti chiamavamo Marisa convinti che quello fosse il suo nome, ma dai documenti ufficiali risultò poi che il suo nome non era nemmeno Maria Luisa ma Maria Luigia.

Altri due anni e nacque il terzo figlio. Il padre di mia madre si chiamava Pietro (Piero, per tutti) e la madre Angela, per questo mia madre voleva chiamare il figlio Pierangelo. Per non so quale motivo a denunciare la nascita andò il fratello di mia madre il quale, non ricordandosi quale nome gli aveva detto sua sorella, guardò il calendario e visto che il bimbo era nato nel giorno di San Massimo lo fece chiamare Massimo.

Passati alcuni anni, anni di guerra e lontananza, mia madre era nuovamente incinta. Lei aveva deciso che dopo un maschio, una femmina e un maschio doveva nascere una femmina. A quel tempo il sesso dei neonati lo si conosceva

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