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Natale
from Tempo lontano
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fioretti di maggio e non ci fermavamo altrettanto a lungo. Ma il tempo di far quattro chiacchiere con gli amici si trovava, finché si poteva resistere al freddo là, sul sagrato rialzato davanti all’Oratorio dei Boccalotti o all’ampio piazzale sterrato.
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L’antica chiesa di San Pietro, con la grande grata sul lato del convento, non aveva impianto di riscaldamento, ma mi par di ricordare vi fossero delle stufe a gas. A distanza di tanti anni i ricordi si confondono, si mescolano quelli di tanti Natali, di quando ero bimbo e di quando ero grandicello e mi capita di confondere il prima col dopo.
Iniziate le vacanze si pensava al presepio: l’albero di Natale da noi non era ancora stato scoperto. C’erano le statuine di gesso (intere, rotte o riparate), le casette, la capanna e altri accessori dei presepi precedenti con qualche nuovo acquisto, riparazione o costruzione. Anche il vecchio muschio magari c’era, ma andavamo a cercarne di nuovo su a Monte Berico: tutto Viale Margherita, tutte le scalette e poi giù nel prato sotto il muretto del tratto piano prima della curva del Cristo, quasi mai con grande risultato.
C’era un’altro dovere da compiere: la letterina di Natale. Non ricordo bene se ce la facevano preparare a scuola o se era un compito lasciato alla nostra iniziativa personale. Si andava in cartoleria, si comprava carta da lettera elegantemente decorata, vi si scriveva che ci dispiaceva di essere stati cattivi e che in futuro saremo stati più buoni e altre cose natalizie. La lettera, nel giorno di Natale, veniva messa tra i piatti fondo e li§io del papà. Solo dopo avere mangiato la minestra lui la “vedeva”, la leggeva, ci faceva i
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complimenti, ci baciava ed eravamo tutti felici e contenti che fosse Natale. Quando non ero più bambino, la cosa forse è continuata per un po’ con i miei fratelli minori, 7 e 9 anni più giovani di me.
Per molti anni Natale per noi significava alzarsi presto al mattino, andare alla stazione delle ferrovie locali (a me pare esserci sempre andato a piedi, ma forse non è vero), prendere la littorina per il paese natale dei miei genitori, arrivare col buio, “andare dalla nonna Angela” (c’era anche il nonno Piero e la zia Wally, ma si diceva così), entrare in una stanza ben riscaldata, scambiarci baci e abbracci, augurarci vicendevolmente “Buon Natale”, sederci attorno ad un grande tavolo e bere cioccolata calda con biscotti (ma forse questo avveniva dopo che eravamo stati a messa e fatta la comunione). C’era anche il panettone, ma non ricordo da quando. Poi si andava dai paterni “nonni Stivani” e scambiavamo anche con loro gli auguri.
E arrivavano dai nonni comuni anche i cugini castellani (abitanti a Castelfranco Veneto), figli del fratello di mia madre e della sorella di mio padre. A mezzogiorno si mangiava tutti assieme: da Nonna Angela c’era minestra in brodo (spesso di gallina, che a me non piaceva molto) con tortellini o tagliatelle fatte a mano (lei era bravissima a stendere la sfoglia e mia madre velocissima a tagliarle) , bollito misto con molti contorni e cren, arrosto o carne in umido con polenta (competenza del nonno), frutta (arance, mandarini e sicuramente noci per lo zio, suo figlio). Si passava il pomeriggio chiacchierando e giocando, alla sera si tornava a casa stanchi e felici. Non ricordo che oltre allo
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scambio degli auguri ci fosse quello dei regali. Magari la nonna dava una mancia ai nipoti: i regali li portava la Befana e solo ai bambini piccoli, forse soltanto perché non c’erano abbastanza soldi. Era invece abbastanza usuale per Natale ricevere in omaggio dall’abituale fornitore di prodotti alimentari una confezione di mostarda vicentna o mandorlato (vero o bagigiato) o panettone (quando è arrivato). Assolti tutti i nostri doveri religiosi e familiari si aspettava la Befana. I più piccoli aspettavano regali, i più grandi vedevano di procurarglieli. Aspettavo quei giorni per vedere Piazza dei Signori piena di bancherelle (dovevo fare regali) e gente che girava a sera tardi della vigilia per gli ultimi acquisti , per comprare giocattoli o quello che serviva a riempire la calza: mele, arance, noci, bagigi, cioccolata, mandorlato di mandorle o bagigi, nocciole, carrube, liquirizia, caramelle. Poi arrivò anche il carbone dolce. Qualche regalo c’era anche per i più grandi: maglie, calze, guanti, berretti, sciarpe. Anche al mattino dopo c’erano le bancarelle in piazza, per gli ultimissimi acquisti: io ero lì perché la Befana aveva portato una pistola senza le cartucce, quei rotolini di carta con esplosivo a intervalli regolari, e dovevo provvedere. Naturalmente non c’erano giochi elettronici ma solo di latta o di legno, poi arrivò la plastica. Niente albero e niente regali sotto l’albero, ma ricordo almeno una volta che presso la rotonda piattaforma sulla quale stava il vigile a dirigere il traffico si accumulavano i doni della cittadinanza. Magari è stato quando già c’erano i panettoni, magari quando già in casa era arrivato l’albero di Natale e i doni attorno.
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Nebbia
Da molto tempo non vivo nella nebbia, da molto tempo non penso nemmeno che molta gente deve convivere con la nebbia, nella non lontana pianura padana.
Non era così tanti anni fa, a Vicenza: 39 m s.l.m., pianura veneta, nebbia, caligo assicurato. Nella giusta stagione era normale vi fossero giornate nebbiose, anche molto nebbiose. Guardavo attraverso i vetri della finestra e non vedevo altro che profili d’ombre e qualche zona di debole luce attorno ai lampioni, di notte. Uscivo di casa ed era come entrare nella bambagia. Le persone sbucate dall’invisibile si vedevano solo quand’erano vicine. Il traffico – mai intenso com’è oggi – si diradava ancor di più. Le strade erano silenziose quasi come quando cadeva la neve e non passava el trajon (spazzaneve). Ricordo la luce gialla all’incrocio, dicevano che con quella si vedeva meglio: non so. Ancora più lontano nel tempo poteva passare qualche carro, col conducente intabarrato insciarpato incappellato e il cavallo fumante, dal muso e dal corpo.
Spesso di notte – la notte arriva sempre presto nella stagione della nebbia – camminavo, camminavamo nella nebbia dal ricreatorio (cinema San Pietro) a Porta Padova nel breve tratto quasi campestre dove passava o era passata la ferrovia: di qua per tutto il tratto c’era il fosso, un campo, traccia di mura e la scuola elementare “G. Zanella”; di là della strada si succedeva qualche villetta arretrata e un alto muro. La strada era poco illuminata e la nebbia vi regnava, ma alla fine di quel tratto si arrivava alle case e poco dopo