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Radici
from Tempo lontano
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Si conoscevano tutti gli abitanti del fabbricato, ci si incontrava sulle scale o nel cortile, si parlava da un piano all’altro, giovani e vecchi. Di giorno nessuno chiudeva la porta a chiave e non mancava mai niente: si bussava e si entrava, da quelli di sopra o da quelli di sotto. Foresti non ce n’erano e se capitavano non gli si era ostili, ma diffidenti sì: bisognava prima conoscerli e poi erano come tutti gli altri.
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Magari si spettegolava, si tajava tabari, si malignava ma si conviveva, si aiutava, talvolta di controvoglia ma senza darlo a vedere perché – non si sa mai – domani si poteva necessitare d’aiuto. Violare le "regole" comuni comportava subirne le conseguenze, sradicarsi dalla comunità: quasi nessuno lo voleva e pochi le violavano.
Oggi non conosco nemmeno l’inquilino della porta accanto, nessuno usa le scale, talvolta ci si trova nell’ascensore – che non fa fermate intermedie – e più di buon giorno/buona sera non si dice. Sono tutti foresti e qualcuno lo è di più, perché non solo non si sa chi lui sia ma nemmeno come sia la sua gente, se le nostre regole siano da essa condivise, se quello che per i nostri nonni e padri era l’immancabile eccezione lo era anche per i suoi antenati. E talvolta sappiamo che non lo era.
Si diceva un tempo "ragazzo di buona famiglia": poteva essere uno scavezzacollo, ma la famiglia in qualche modo garantiva la qualità del prodotto; non in modo assoluto, ma si poteva sperare che la buona pianta desse buoni frutti, che però potevano marcire.
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Ora sempre più spesso i fratelli non hanno gli stessi genitori, né gli stessi nonni, zii o cugini; non hanno le stesse radici, la stessa origine culturale. Ancor più chi viene da altri paesi può sentirsi e volere restare estraneo dove vive: senza radici, tradizioni, regole, doveri, lingua comuni.
E fin da piccoli ci insegnano a non fidarsi degli estranei. O c’è qualche genitore che non lo fa?
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Ritorni
Dopo molto tempo sono tornato a camminare nella mia città natale. Era giorno di mercato e le due piazze contigue piene di gente. Non gente indaffarata, di corsa: signore e signori lì per fare qualche compra, come in tutti i mercati, e forse anche con la speranza (o il timore) di incontrare qualcuno e scambiare quattro chiacchiere.
E in effetti molti parlavano: in due o tre fermi ai margini del mercato o camminando fra le bancarelle ciacoℓavano fra loro. I ciacoℓava, tutti parlavano in dialetto, tutti con il tipico accento locale, con la cadenza che quasi tutti conservano anche parlando in italiano, che ovunque dopo tre parole porta la gente a chiedermi se sono veneto.
Era bello, era piacevole ritornare e trovare che era come se il tempo non fosse passato: la stessa musicalità di 60 anni prima, le stesse parole anche se – credo – per argomenti , problemi, cose diverse; nel centro storico le stesse vecchie case, un po’ più vecchie o un po’ più rinnovate. Non ho visto molte facce palesemente di stranieri, meno di quelle che pensavo, forse per il giorno, forse per l’ora, forse per il luogo, forse perché in altre faccende affaccendati.
Non so se è sempre così, ma mi sembrava essere tornato ai bei tempi della mia giovinezza: in quei luoghi, in quell’atmosfera.
Sono tornato in Piemonte, dove sono vissuto per 35 anni e dove torno per diversi mesi tuttora. Altre strade altra gente, gente indaffarata che va dove deve andare.