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Si conoscevano tutti gli abitanti del fabbricato, ci si incontrava sulle scale o nel cortile, si parlava da un piano all’altro, giovani e vecchi. Di giorno nessuno chiudeva la porta a chiave e non mancava mai niente: si bussava e si entrava, da quelli di sopra o da quelli di sotto. Foresti non ce n’erano e se capitavano non gli si era ostili, ma diffidenti sì: bisognava prima conoscerli e poi erano come tutti gli altri. Magari si spettegolava, si tajava tabari, si malignava ma si conviveva, si aiutava, talvolta di controvoglia ma senza darlo a vedere perché – non si sa mai – domani si poteva necessitare d’aiuto. Violare le "regole" comuni comportava subirne le conseguenze, sradicarsi dalla comunità: quasi nessuno lo voleva e pochi le violavano. Oggi non conosco nemmeno l’inquilino della porta accanto, nessuno usa le scale, talvolta ci si trova nell’ascensore – che non fa fermate intermedie – e più di buon giorno/buona sera non si dice. Sono tutti foresti e qualcuno lo è di più, perché non solo non si sa chi lui sia ma nemmeno come sia la sua gente, se le nostre regole siano da essa condivise, se quello che per i nostri nonni e padri era l’immancabile eccezione lo era anche per i suoi antenati. E talvolta sappiamo che non lo era. Si diceva un tempo "ragazzo di buona famiglia": poteva essere uno scavezzacollo, ma la famiglia in qualche modo garantiva la qualità del prodotto; non in modo assoluto, ma si poteva sperare che la buona pianta desse buoni frutti, che però potevano marcire.