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Cortili

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Paese natale

Paese natale

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Il terreno non coltivato del cortile era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “ mama” fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un gioco, una protesta, una lamentela, la merenda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse pan, buro e sucaro e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta.

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A Nord-Est un muro, alto meno di due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quel cortile. Non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A Sud-Est un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e poi sparirono del tutto.

Ora che eravamo più grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini (specialmente la siora Cal****) protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa. Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No******* (Ico) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di un alto palazzo affacciato su Porta Padova, passava sotto le basse case sopra i garage e al successivo muretto (mureta) affacciati su Via Legione Gallieno,

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salendo fino al cancello quasi sempre aperto.

Tante volte ci si sedeva sulla mureta, all’ombra delle case d’estate o al sole d’inverno. As****** (Adriano) aveva la corte al di là della strada, poco prima, ma era inutilizzabile: vi lavorava il maniscalco ed era ingombra di tante cose. Dalla mureta si poteva proseguire avendo alla sinistra, al di là del fosso e di un terreno più o meno coltivato, il cortile e l’edificio scolastico; poi ancora qualche decina di metri, si girava a sinistra e si arrivava al cortile del ricreatorio per giocare con amici vicini e lontani, ma non più bimbi.

A fianco della corte di No*******, qualche metro più alta, c’era la corte di Pi*** (Toni), molto più piccola. Scendeva in un orto sovrastato dal cortile della scuola.Tra corte e orto c’era un fico, palestra di arrampicate e motivo d’imprecazioni del padre di Pi*** contro noi probabili distruttori delle opere di madre natura, considerando che i rami del fico sono molto fragili.

La terrazza di Pa**** (Piero) dava su quel cortile mentre, dal lato oppoato, le finestre della sua sala dominavano un vasto piazzale in terra battuta, altro terreno di gioco. Da quel piazzale si entrava nel cortile della scuola e si usciva al ricreatorio, ma non sempre era possibile. Nel cortile del ricreatorio si entrava solo negli orari stabiliti, ma erano molto estesi.

Cortili piccoli o grandi ma assolutamente liberi da autovetture, allora. Sulla terra dei cortili tracciavamo le “piste” – spesso complicate con curve, salite, discese,

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ostacoli – sulle quali facevamo correre i “querceti” (coperchietti), i tappi a corona delle bibite con incastrata la faccia dei nostri ciclisti favoriti ricavata dalle “figurine”. Le figurine erano o comprate – non molte – o frutto di “scambio” dei doppioni o vinte. C’erano diversi modi per vincere o perdere figurine. Nel cortile si lanciavano in vari giochi che non ricordo o si scommettevano sulle gare dei “querceti”. Seduti sulla muretta si puntavano sulle partite a carte: rubamazzetto, briscola, scopa, cavacamixa o anche a poker ma il più delle volte al ricreatorio: sulla muretta si poteva star seduti uno di fronte all’altro solo in due e il terzo o quarto doveva stare in piedi.

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Strasse, ossi, fero vecio

Non si stava benissimo molti anni fa, si viveva con il poco essenziale e niente superfluo, ma si poteva giocare nelle strade quasi vuote di auto e girando in bicicletta l’unico pericolo era costituito dalle doppie rotaie della vaca mora negli incroci: se non le “tagliavi”, potevi infilarci una ruota e cadere.

Ora penso che non si viveva poi così poveramente come credevo: il pane era cosa comune, ora è quasi un lusso; polenta e baccalà alla vicentina c’era tutti i venerdì, ora mi pare una leccornia da gustare qualche volta all’anno; pane e salame, pane e pancetta, pane e lardo, minestron, minestra di verze erano il nostro povero cibo e sognavamo pollo con polenta. Ora, per me, è il contrario.

Nella giusta stagione non era un lusso avere ciliegie, prugne (bronbi e amo·i), piccole pere (peri sanpiero·i, perché maturavano a fine giugno, San Pietro), fragole di bosco, castagne, patate dolci. Ora è sempre stagione e prezzi alti.

Ad una cert’ora passava el scoa§aro sul suo triciclo a pedali con due bidoni sopra, soffiava nella sua trombetta e mamma mi mandava giù a portare il sacchettino delle scoa§e.

Non c’erano e non servivano cassonetti né camion con due uomini sulle predelle posteriori o braccio meccanico su un lato: bastava un sacchettino da consegnare al scoa§aro quando suonava la trombetta, ma le strade erano mai ingombre di rifiuti, pulite dal spa§in con la lunga ramazza.

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