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Dai nonni

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Paese natale

Paese natale

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e, sopra la stalla, il fieno. Davanti ad esse il portico si apriva a sud con due luci divise da un pilastro centrale, a Ovest lo chiudeva la cucina e a Est il muro perimetrale. In cucina si entrava dal portico.

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Seci e ca§a (secchi e mestolo) del seciaro erano di rame: l’acqua presa e bevuta direttamente con la ca§a era fresca e di sapore speciale. Di rame era anche il caliero (paiolo) appeso alla catena sul focolare. Vi si cuoceva la polenta, rimestandola per lungo tempo con la mescola di legno, badando che non facesse i munari (grumi) e non prendesse el brustolin (sapore di bruciato). Una volta cotta veniva subito versata sul panaro, il grande tagliere circolare con annodato un tratto di gaveta (spago sottile) per affettarla.

Di ottone erano invece i bossoli di proiettili d’artiglieria , decorati e non, usati a ornamento del focolare o come soprammobili, vasi da fiori, fermaporte e altro. Ne avevano in tutte le case, ricordo della Grande Guerra. Tutto quello che era di rame o di ottone veniva lucidato col soldame (pomice); i pavimenti (portico compreso) lavati con acqua, varechina, segatura. Nel seciaro si broava su (si lavavano le stoviglie); per la biancheria si faceva la li§ia o broa con acqua bollente e cenere; per certe pulizie si adoperava con grande attenzione anche l’ oio fumante (vetriolo?).

Spesso d’inverno ci si rifugiava nella stalla, odorosa ma calda senza consumare legna: il nonno faceva ceste, le donne lavoravano faxendo filò (chiacchierando), noi guardavamo, ascoltavamo, se capaci aiutavamo. Filavano la

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lana (di pecora o di coniglio d'Angora?); lavorando a feri facevano maglie, berretti, sciarpe, guanti, manopole, calzini. La nonna, agilissima, con quattro corti ferri a due punte confezionava senza guardare le maglie tubolari, mentre parlava velocemente o ci raccontava favole o storie di santi o contava i punti. Era piccola e magra, sempre indaffarata, sempre veloce ed efficiente, vestita di scuro, sancheta (mancina). Aveva un fratello maniscalco che chiamavano Cajenna (per dire cattivo come il pepe); lei invece era molto buona, si chiamava Maria e aveva avuto 11 figli dei quali allora viventi Giuseppe (Beparle), Anna (Neta), Rosina, Teresa, Maria: mio padre e le quattro zie “Stivane”.

Il nonno Antonio (Toni Stivàn) era invece flemmatico e se la scattante nonna lo sollecitava a qualche lavoro rispondeva serafico “Calma, calma Maria: spunta el sol anca domàn“, vale a dire “c’è sempre tempo”. D’estate lui amava fare un pisolino pomeridiano: se noi ragazzi giocavamo troppo rumorosamente, se non badando al “ssss” della nonna gli impedivamo di dormire, poteva scendere e burberamente minacciarci con la scùria, la frusta che usava con l’asino. Non ricordo una sola volta che ci abbia davvero colpiti, ma per qualche giorno poteva dormire in pace.

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Le ceste

Quando, d’inverno, non c’erano lavori nei campi il nonno faceva ceste. Lavorava nella stalla, al caldo. Con il carro (la careta a quattro ruote cerchiate di ferro sormontate da un ampio pianale senza sponde) tirato dall’asinello andava a prendere i pali di castagno a Caltràn e le strope (vimini) a Fimon, un giorno di viaggio di quà e uno di là, uno ai piedi dell’altopiano e l’altro oltre Vicenza, sul piccolo lago. Ci sono andato anch’io con lui ma non so se durante o dopo la guerra.

Metteva i pali in ammollo nell’albio (el labio), la grande vasca di pietra, e li lasciava nell’acqua qualche tempo; poi piegati a U e induriti col fuoco diventavano manici e i pezzi avanzati corte gambe, tagliati in sottili liste servivano per l’ossatura delle ceste. Per fare manici e liste cavalcava la cavalla, una panca di legno con un’asse verticale su cui erano infissi tre pioli usati per curvare o appoggio; sagomava gambe e manici in modo che fosse facile metterli e difficile toglierli, facendo due o tre denti a cuneo. Incrociava le liste formando una stella dai molti raggi; partendo dal centro infilava i vimini e creava la base facendoli passare alternativamente sotto e sopra le strisce; piegava in su i raggi e continuava a intrecciare fino all’altezza voluta terminando con un giro sopra e sotto il bordo superiore. La cesta appariva allora come un grosso riccio, con le punte di ciascun vimine che fuoriusciva a intervalli regolari; con una lama affilata le tagliava alla base, infilava le due estremità del manico tra i vimini e i due raggi della stessa lista; a volte inseriva tre o quattro

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