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Divagazioni
from Tempo lontano
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Della stazione FTV davanti al Campo Marzo ricordo che appena finita la guerra era un enorme, alto, freddo salone in cui spiccava una grande figura di diavolo (Super Iride, credo) e che vi si arrivava per una disastrata strada male illuminata, costeggiante lo spazio vuoto dove prima era il distrutto Teatro Verdi. Una sera tardi camminando in questa strada, mia madre per un bel tratto era convinta di mettere ripetutamente il piede in una delle tante buche, prima di accorgersi di avere perso un tacco.
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Inverno
D’inverno faceva freddo, al mattino freddissimo, ma poi la casa veniva riscaldata. Non tutta: solo la cucina (dove si viveva la maggior parte del tempo) e al massimo anche una stanza contigua. Non c’erano “termosifoni”, come allora chiamavamo i radiatori: in cucina, oltre al fornello a gas per l’uso immediato, c’erano la “cucina economica” che poteva funzionare a legna, carbone o “caxate” e, d’inverno, la stua, la stufa a segatura. Segatura, legna (tranne una piccola scorta sempre a portata di mano), carbone, casate erano in cantina, cinque rampe di scale più sotto e lì si andavano a prendere ogni giorno.
La cucina economica era una benedizione: c’era sempre l’acqua bollente nell’apposita vasca con la parte inferiore incassata e la superiore in bella mostra, sopra il fornello una serie concentrica di anelli (piastre) permetteva di regolare l’apertura superiore a seconda della misura delle pentole e delle necessità di cottura. Sulle piastre centrali si poteva
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abbrustolire la polenta e scaldare la soppressa sopra la carta velina e altro, ai margini il baccalà alla vicentina pipava per ore e veniva buonissimo. E il forno per la putana (dolce vicentino) e arrosti vari, e le bronse per la fogara (braciere in terracotta) che messa nella monega ci scaldava il letto, e la cenere per coprire quelle braci troppo ardenti. Bastava accenderla al mattino e alimentarla secondo occorrenza, ma per cuocere qualsiasi cosa necessitava abilità ed esperienza togliendo o mettendo piastre, posando i tegami al centro o ai margini per regolare la temperatura ed evitare che il cibo ciapa§e el brustolin, sapesse di bruciato.
La stua era un bidone con sotto uno sportello e sopra cerchi di ferro come quelli della cucina economica: si toglievano i cerchi e si estraeva un bidone leggermente più piccolo. Sopra era aperto e sotto aveva un buco in centro: si metteva nel buco al centro un palo (la mescoℓa, il lungo mattarello usato per tirare la sfoglia) e si riempiva di segatura, pressandola con i piedi tutta attorno al palo che doveva rimanere in centro. Una volta ben pressata la segatura, si rimetteva il bidone dentro dov’era prima e si toglieva il palo lasciando un foro al centro. Il bidone interno poggiava su mattoni e il portello su quello esterno permetteva di mettere un fuoco sotto, la fiamma saliva lungo il foro e la segatura attorno bruciava. Faceva un bel caldo e durava piuttosto a lungo. Man mano che bruciava il buco diventava sempre più grande e il calore più forte, ma non si poteva regolare se non un poco agendo sulla manetta che regolava l’apertura del canon de‘a stua, il canale da fumo che collegava la stufa al camino. Era allora che si
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apriva la porta della stanza contigua, così il caldo diveniva tollerabile in cucina e il freddo accettabile nell’altra stanza. L’operazione di caricamento della stufa era piuttosto lungo e solitamente si faceva una volta al giorno, non di primo mattino, e a volte prima che bruciasse tutta la segatura vi si aggiungeva un pezzo di caxata.
Le caxate erano vinacce pressate, quello che restava dopo la spremitura dell’uva nel torchio e dopo averne ricavato la grappa: scuri dischi di circa due spanne di diametro e 5 cm di spessore, se ben ricordo. Bruciavano meravigliosamente con fiamma costante, tutto il contrario della segatura dalle fiammate esagerate.
Al culmine della sua attività la stufa era caldissima, bisognava starne alla larga. L’ultimo dei miei fratelli era molto piccolo allora e mentre mia madre si preparava per sostituire il pannolino appena tolto lui girava per la casa col sederino scoperto: si avvicinò alla stufa, si girò, si piegò per raccogliere non so cosa e cominciò ad urlare e mia madre ad agitarsi, a controllare l’effetto del caloroso contatto, a mandarci di corsa alla vicina farmacia: fu quella volta che scopersi la Vegetallumina.
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Venezia
Mio padre mi aveva promesso che se fossi stato promosso mi avrebbe comprato la bicicletta ed ero stato promosso. Davanti casa nostra vendevano biciclette e mi conoscevano: prima di andare a casa passai per quel negozio, scelsi la bicicletta, la presi e andai a dirlo a mio padre. Era una Dei, col cambio a tre velocità … e costava più di uno o forse due mesi di paga: mio padre si congratulò per la promozione, la bici l’avrebbe pagata a rate.
Così facevo giri in bici, secondo le mie possibilità che non erano gran che: non ero veloce ma testardo sì e con pazienza andavo qua e là, quasi sempre da solo. Andavo dai nonni abbastanza spesso, una quindicina di Km andare e altrettanti tornare: tutti in piano tranne un cavalcavia (quello dove ci avevano fatti scendere dalla vacamora perché lo superasse) e un ponte. Ogni tanto – negli anni - qualche giro più impegnativo: Padova, Asiago, Lavarone, Arcugnano, Montebelluna, Valsugana e altri.
L’impresa più memorabile è stata andare da Vicenza a Merano, presentarmi a casa di un omonimo e amico di gioventù di mio padre che molto gentilmente mi ha ospitato quantunque fossi arrivato senza preavviso, avesse la moglie (amica di gioventù di mia madre) impegnata non so più dove e lui dovesse ogni giorno recarsi al lavoro. Vi sono rimasto quasi una settimana: un giorno da lì sono salito verso lo Stelvio (gran caldo a Merano, calzoncini e camicia leggera, inizia la salita, strada sterrata, sale la quota: ad un certo punto non ce la faccio più per il freddo e giro la bici), un altro giorno su a Passo Giovo, giù a Vipiteno e poi