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Della stazione FTV davanti al Campo Marzo ricordo che appena finita la guerra era un enorme, alto, freddo salone in cui spiccava una grande figura di diavolo (Super Iride, credo) e che vi si arrivava per una disastrata strada male illuminata, costeggiante lo spazio vuoto dove prima era il distrutto Teatro Verdi. Una sera tardi camminando in questa strada, mia madre per un bel tratto era convinta di mettere ripetutamente il piede in una delle tante buche, prima di accorgersi di avere perso un tacco. Inverno D’inverno faceva freddo, al mattino freddissimo, ma poi la casa veniva riscaldata. Non tutta: solo la cucina (dove si viveva la maggior parte del tempo) e al massimo anche una stanza contigua. Non c’erano “termosifoni”, come allora chiamavamo i radiatori: in cucina, oltre al fornello a gas per l’uso immediato, c’erano la “cucina economica” che poteva funzionare a legna, carbone o “caxate” e, d’inverno, la stua, la stufa a segatura. Segatura, legna (tranne una piccola scorta sempre a portata di mano), carbone, casate erano in cantina, cinque rampe di scale più sotto e lì si andavano a prendere ogni giorno. La cucina economica era una benedizione: c’era sempre l’acqua bollente nell’apposita vasca con la parte inferiore incassata e la superiore in bella mostra, sopra il fornello una serie concentrica di anelli (piastre) permetteva di regolare l’apertura superiore a seconda della misura delle pentole e delle necessità di cottura. Sulle piastre centrali si poteva