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Guerra e pace
from Tempo lontano
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aspettammo, grandi e piccoli svegli e tesi.
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Gli uomini andavano e venivano; prima dell’alba entrò qualcuno annunciandoci che erano arrivati gli “americani”: non erano a Piacenza, ma a Vicenza. Uscimmo, tornammo nella casa dei nonni, guardinghi e allegri; il primo “americano” che ho visto disse, in qualche modo, di essere polacco e cattolico e mostrava corona e santini; nella cucina c’era un Sacro Cuore con un lumino elettrico sempre acceso.
Poi ne arrivarono altri, molti altri; ce n’erano ovunque, bivaccavano sulla strada, nell’aia, nel portico; scambiavano il loro scatolame con patate, cipolle e altri prodotti dell’orto che nel muro di cinta aveva ora una larga breccia; schegge metalliche erano conficcate nel portico, ma mamma non era uscita; usarono le nostre pentole più grandi per cucinare, bruciando le loro scatole cerate; distribuirono sigarette ai grandi, cioccolata ai piccoli; qualcuno provava goffamente ad andare in bicicletta.
Le campane suonarono; andammo in piazza: eravamo euforici attorno a due mitragliatrici (contraeree da 20, disse mio padre), attorno al carro armato abbandonato. C’era gente, americani a piedi e sulle jeep, tanti; arrivò qualcuno, gridò qualcosa e corsero via: dei tedeschi erano stati visti in qualche posto.
Noi tornammo a casa, mio padre mi mostrò una pistola e seppi che l’aveva presa a un autiere tedesco, nella piazza del paese, fingendosi armato e minacciandolo con le dita in tasca: l’incoscienza non era solo dei bimbi, in casa nostra.
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Era lui che cercavano.
Volli provare la pistola: me la dette, pesava e non riuscii a premere il grilletto; per anni pensai che non ero abbastanza forte, non che aveva messo la sicura.
Qualche anno prima scriveva “vinceremo”, qualche giorno prima aveva fatto quella pazzia: senza mai pensare di trarne vantaggio, solo seguendo l'impulso del momento come quando anni prima aveva salvato un uomo dalla folgorazione o aiutato mesi dopo la moglie di un “repubblichino” incarcerato a Vicenza: lei ci regalò un grazioso cagnolino, la nostra “Boba”.
Qualche tempo dopo tornammo a Vicenza. La Boba al chiuso era un disastro; fu riportata dai nonni paterni, ma spesso andava a trovare gli altri nonni, come facevamo noi.
(*) I pannolini di tela non si gettavano ma venivano lavati, asciugati, riutilizzati e conservati per altri figli. I neonati erano stretti in fasce.
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Vicenza
Orazio occupò parte del nostro appartamento per un po’, poi scese di un piano: quello che era stato il suo pavimento era diventato il suo soffitto. Era un “borsanerista”, contrabbandiere dei dazi comunali, maledetto e benemerito. La sua stanza (con porta sul pianerottolo) era piena di generi che non si trovavano nei negozi (quasi niente c’era allora nei negozi). Riempiva due sporte, le appendeva a destra e a sinistra sul manubrio della bici e se ne andava in giro a vendere la sua merce: per me è stato il primo “lavoratore in nero” oltre che primo “abusivo”. Mi metteva un po’ di paura con quel suo fare misterioso: non parlava, sussurrava; vestiva di scuro, portava il cappello, fumava, Orazio.
Davanti, un po’ a sinistra (ovest) c’era Vicenza. Di là della strada Severino D******* ex corridore ciclista, vendeva e aggiustava biciclette; il negozio dava su Contra' Porta Padova, l’officina su Viale Margherita e da questa strada si scendeva nel cortile-officina. Poi c’era un prato (el prà de C******, el becaro) con gli orti, le basse casette della corte, i resti delle mura cittadine e sulla destra la palazzina con l’entrata, la latteria e la macelleria in Contra' Porta Padova, dopo il negozio di biciclette e il muretto che ne sovrastava il cortile.
Non vedevo la cupola della Basilica, era stata distrutta: l’avrei rivista qualche tempo dopo, rame rosseggiante sotto il sole fino a quando è tornata di un colore più sobrio e consono. Anche la parte terminale della Torre mancava.