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Gli uomini andavano e venivano; prima dell’alba entrò qualcuno annunciandoci che erano arrivati gli “americani”: non erano a Piacenza, ma a Vicenza. Uscimmo, tornammo nella casa dei nonni, guardinghi e allegri; il primo “americano” che ho visto disse, in qualche modo, di essere polacco e cattolico e mostrava corona e santini; nella cucina c’era un Sacro Cuore con un lumino elettrico sempre acceso. Poi ne arrivarono altri, molti altri; ce n’erano ovunque, bivaccavano sulla strada, nell’aia, nel portico; scambiavano il loro scatolame con patate, cipolle e altri prodotti dell’orto che nel muro di cinta aveva ora una larga breccia; schegge metalliche erano conficcate nel portico, ma mamma non era uscita; usarono le nostre pentole più grandi per cucinare, bruciando le loro scatole cerate; distribuirono sigarette ai grandi, cioccolata ai piccoli; qualcuno provava goffamente ad andare in bicicletta. Le campane suonarono; andammo in piazza: eravamo euforici attorno a due mitragliatrici (contraeree da 20, disse mio padre), attorno al carro armato abbandonato. C’era gente, americani a piedi e sulle jeep, tanti; arrivò qualcuno, gridò qualcosa e corsero via: dei tedeschi erano stati visti in qualche posto. Noi tornammo a casa, mio padre mi mostrò una pistola e seppi che l’aveva presa a un autiere tedesco, nella piazza del paese, fingendosi armato e minacciandolo con le dita in tasca: l’incoscienza non era solo dei bimbi, in casa nostra. Era lui che cercavano.