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Vicenza. Orazio occupò parte del nostro appartamento per un po’, poi scese di un piano: quello che era stato il suo pavimento era diventato il suo soffitto. Era un “borsanerista”, contrabbandiere dei dazi comunali, maledetto e benemerito; la sua stanza (con porta sul pianerottolo) era piena di generi che non si trovavano nei negozi (quasi niente c’era allora nei negozi); riempiva due sporte, le appendeva a destra e a sinistra sul manubrio della bici e se ne andava in giro a vendere la sua merce: per me è stato il primo “lavoratore in nero” oltre che primo “abusivo”. Mi metteva un po’ di paura con quel suo fare misterioso: non parlava, sussurrava; vestiva di scuro, portava il cappello, fumava, Orazio. Davanti, un po’ a sinistra (a ovest) c’era Vicenza. Di là della strada Severino D……., ex corridore ciclista, vendeva e aggiustava biciclette; il negozio dava su Contrà Porta Padova, l’ officina su Viale Margherita e da questa strada si scendeva nel cortileofficina. Poi c’era un prato ( el prà de C….., el becaro), con gli orti, le basse casette della corte, i resti delle mura cittadine e sulla destra la palazzina, con l’ entrata, la latteria e la macelleria in Contrà Porta Padova,
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dopo il negozio di biciclette e il muretto che ne sovrastava il cortile. Non vedevo la cupola della Basilica, era stata distrutta: l’ avrei rivista qualche tempo dopo, rame rosseggiante sotto il sole fino a quando è tornata di un colore più sobrio e consono. Anche la parte terminale della Torre mancava. Al tramonto il sole calava oltre la città, fra i monti lontani; di notte le strade tornarono a illuminarsi; d’estate l’ asfalto molle cedeva sotto i piedi; d’ inverno mondo e rumori quasi sparivano nella densa nebbia, poco contrastata dalla gialla luce del crocevia. Dalle finestre dietro si poteva vedere il primo sole, un grande ciliegio, il nostro piccolo cortile, una serie di orti fra le case di Corso Padova e Borgo Casale; la fabbrica di Giocondo P.. (birra e vino) dall’una all’altra via chiudeva l’orizzonte davanti; a destra il cortile della ditta Pietro L… Legna&Carboni, più lontano sul colle l’altra Basilica, il Santuario della Madonna di Monte Berico mille volte implorata nei triboli della guerra. “Oh! Maria Vergine SantiSima de Monte Berico” detto con toni di afflizione, di meraviglia, di gioia, d’invocazione, di sorpresa era tipico e frequente nel vicentino, quasi quanto il “ciò” (bello, ciò/ ecco, ciò/ ciò, viento?/che caldo,ciò!), l’ equivalente del tèi o toi dei trentini.
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Il boccciodromo (‘a corte de’e ba’e) di Borgo Casale si sentiva molto ma si vedeva poco. Dei danni subiti dalla città e dalla casa dove abitavo il ricordo è vago, forse sono stati riparati presto: c’erano di sicuro, perché mio padre parlava di uno spezzone incendiario finito nel nostro sottotetto e quindici anni dopo lavoravo per accelerare il rimborso dei danni di guerra subiti dai fabbricati dell’Ente che mi stipendiava. Sergio cresceva ma viaggiava ancora in carrozzella; anche Renzo era piccolo, il fratello di un’amica di mia sorella. La carrozzella poteva portare due bimbi, uno di fronte all’altro; mia sorella e l’amica la spingevano e io camminavo con loro lungo il viale dai grossi platani lungo il fosso. Superato el campo de Nane – un semiselvatico terreno di giochi – dopo il ponte girammo a destra, nella strada tra Retrone e Bacchiglione. Dopo un po’ le due ragazze videro dei fiori, laggiù sulla riva; mi lasciarono a guardia dei bimbi e scesero a coglierli. La carrozzella era ferma sul ciglio della strada, a qualche decimetro dalla scarpata che finiva nel fiume. I bimbi sono curiosi, si sa: io guardavo le due ragazze, anche i due più piccoli le guardavano. Per meglio vedere entrambi si sporsero, la carrozzella si ribaltò, rotolò nella scarpata e .. si fermò in una buca di bomba: non ebbero danni, la guerra li aveva salvati.
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Il latte. Il latte ci voleva, a casa nostra (*): il latte e il pane. Non ricordo problemi per il pane, che compravamo a credito (mio padre lavorava, ma solo di tanto in tanto la ditta poteva dargli i soldi che gli doveva). Per comprare il latte si andava dalla lattara: bisognava andarci presto, con le bottiglie; finchÊ non c’era molta gente si poteva aspettare sul muretto, poi fare la fila e attendere. La fila di due o tre persone affiancate a volte finiva oltre la macelleria e si aspettava; si aspettava che arrivasse la lattaia, che apriva la porta e i primi entravano facendo la fila a destra, lungo la vetrina, il muro, il bancone; poi si aspettava che arrivasse il latte. Arrivava un camioncino, prendevano alcuni bidoni (zare) e li portavano dentro; qualche manovra per versare il latte nel bidone fornito di rubinetto che veniva posto sul bancone e poi cominciava la vendita: la lattaia riempiva di latte il misurino (1/4, 1/2, 1 litro) e lo versava con l’imbuto nella bottiglia del cliente, si pagava con AM-lire quadrate e avanti un altro. Spesso capitava che il latte finiva, ma la coda no: molti rimanevano senza, noi non potevamo permettercelo e facevamo le lunghe attese. Ma anche cosÏ poteva capitare di rimanere senza latte; soluzione: latte in
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polvere o latte condensato. Così mi avviavo verso Levà degli Angeli per comprare l’uno o l’altro, mai che ce ne fosse una scorta in casa. Il latte condensato era dolce, appiccicoso e si poteva mangiarlo usando un dito o un cucchiaio; il latte in polvere mangiato così si ingrumava in bocca, allungato con l’acqua sapeva più di acqua che di latte; il latte fresco si doveva bollire. Quando cominciò ad essere più abbondante, pastorizzato, venduto in bottiglie di vetro dalla larga bocca tappata con l’ alluminio (vuoto a rendere) e la lattaia averne per tutti, in casa non arrivava mai tutto quello comprato: due buchetti sull’ alluminio e succhiavo camminando. Camminavo piano, ma abitavo molto vicino. (*) A fine guerra noi bimbi avevamo 11, 9, 7 e meno di 1 anno, ovviamente non c’era frigorifero e il latte andava sempre bollito.
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La vaca mora.
Proprio sotto casa passava la vaca mora. Così erano detti la locomotiva nera e fumosa e il treno delle ferrovie locali che da Vicenza andava a “Recoaro, Arzignano, Chiampo” (a Montecchio si cambia), “Bassano” (la prendevamo per andare dai nonni: capitava di dover scendere per permetterle di superare un cavalcavia), “Noventa, Montagnana“. Questa linea andava dalla stazione a Porta Monte passando per S.Croce, S.Bortolo, S.Lucia, Porta Padova e Viale Margherita: un cerchio quasi completo attorno alla città. Quando arrivava la casa tremava e si dovevano chiudere le finestre per non riempirci di fumo;
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sferragliava e fischiava; anche il capotreno fischiava, perché davanti casa c’era la fermata. Fino a Porta Padova il binario era sul lato destro della strada, ma lì passava a sinistra tagliando in diagonale il crocevia. I più fortunati allora avevano la bicicletta, ma quasi tutti in famiglia ne avevano una e la usavano a turno: andando da Porta Monte a S. Bortolo, in viale Margherita le rotaie erano a destra, subito dopo l’incrocio a sinistra, nell’incrocio dovevano sterzare a destra e tagliare le doppie rotaie per non infilare una ruota in mezzo e cadere: erano tutti esperti, quasi nessuno cadeva e quelli che cadevano più che farsi male facevano una figuraccia. Nonostante il fumo il rumore e le doppie rotaie lazzarone, la vaca mora – locomotiva e vagoni – mi era simpatica e utile: vedevo un sacco di gente alla fermata, salivo sui respingenti dell’ultimo vagone per un passaggio fino al non lontano ricreatorio, i finestrini erano bersagli dei cartacei proiettili della cerbottana, sulle rotaie facevo schiacciare barattoli o altri contenitori quasi sempre vuoti; più birichinate che cattiverie.
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Divagazioni FTV – Ho già detto (vedi) che per noi la “vaca mora” (o “vacamora”, il treno delle ferrovie locali) era una di casa: passava sotto casa nostra, la faceva tremare, vi entrava col fumo e col rumore, il nostro marciapiedi era la sua banchina. La vedevamo fermarsi e passare: non l’abbiamo mai usata per andare verso Noventa, ma nell’altra direzione -a parte i brevi passaggi “de sfroso” – qualche volta sì. Andavamo spesso dai nonni con il treno per Bassano e alla stazione FTV (Ferrovie Tramvie Vicentine) andavamo o a piedi o col “tram co:e tirache”. Le “tirache” sono le bretelle e il filobus era collegato alla linea elettrica aerea con due aste, due bretelle. La linea 1 da Porta Castello alla Stanga passava tutto Corso Palladio e tutta [via] Porta Padova, con fermata a quattro passi da casa nostra, all’andata e al ritorno. Sia la “vacamora” per Bassano che quella per Noventa dopo S.Croce fermavano a San Bortolo, ma solo pochissime volte siamo scesi o saliti a questa fermata e forse una sola volta abbiamo preso il treno da o per Porta Padova, la fermata davanti casa. L’abbiamo invece usato per andare a Santa Croce a prendere combustibile per casa, non ricordo bene se sacchi di segatura o vinacce pressate, non ricordo se là c’era una segheria o una distilleria o vendita di combustibili: su quel tragitto non c’erano filobus e in città autobus non c’erano, ma c’era la “vacamora”. Della stazione FTV davanti al Campo Marzo ricordo che appena finita la guerra era un enorme, alto, freddo
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salone in cui spiccava una grande figura di diavolo (SuperIride, credo) e che vi si arrivava per una disastrata strada male illuminata a fianco dello spazio vuoto dov’era stato il Teatro Verdi: una sera tardi camminando in questa strada, mia madre per un bel tratto era convinta di mettere ripetutamente il piede in una delle tante buche, prima di accorgersi di avere perso un tacco. Inverno – D’inverno faceva freddo, al mattino freddissimo, ma poi la casa veniva riscaldata. Non tutta: solo la cucina (dove si viveva la maggior parte del tempo) e al massimo anche una stanza contigua. Non c’erano “termosifoni”, come allora chiamavamo i radiatori: in cucina oltre al fornello a gas per l’uso immediato c’erano la “cucina economica” che poteva funzionare a legna, carbone o “casate” e, d’inverno, la “stua”, la stufa a segatura. Segatura, legna (tranne una piccola scorta sempre a portata di mano), carbone, casate erano in cantina, cinque mezze-rampe di scale più sotto e lì si andavano a prendere ogni giorno. La cucina economica era una benedizione: c’era sempre l’acqua bollente nell’apposita vasca con la parte inferiore incassata e la superiore in bella mostra, sopra il fornello una serie concentrica di anelli (piastre) permetteva di regolare l’apertura superiore a seconda della3 misura delle pentole e delle necessità di cottura, sulle piastre centrali si poteva abbrustolire la polenta e scaldare la soppressa sopra la carta velina e altro, ai margini il baccalà alla vicentina “pipava” per
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ore e veniva buonissimo. E il forno per la putana e arrosti vari, e le bron§e per la fogara che messa nella monega ci scaldava il letto, e la cenere per coprire quelle braci troppo ardenti. Bastava accenderla al mattino e alimentarla secondo occorrenza, ma per cuocere qualsiasi cosa necessitava abilità ed esperienza togliendo o mettendo piastre, posando i tegami al centro a ai margini per regolare la temperatura ed evitare che il cibo “ciapasse el brustolin”, sapesse di bruciato. La “stua” era un bidone con sotto uno sportello e sopra cerchi di ferro come quelli della “cucina economica”: si toglievano i cerchi e si estraeva un bidone leggermente più piccolo. Sopra era aperto e sotto aveva un buco in centro: si metteva nel buco al centro un palo (la “mescola”, il lungo mattarello usato per tirare la sfoglia) e si riempiva di segatura, pressandola con i piedi tutta attorno al palo che doveva rimanere in centro. Una volta ben pressata la segatura, si rimetteva dentro il bidone dov’era prima e si toglieva il palo lasciando un foro al centro. Il bidone interno poggiava su mattoni e il portello su quello esterno permetteva di mettere un fuoco sotto, la fiamma saliva lungo il foro e la segatura attorno
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bruciava. Faceva un bel caldo e durava piuttosto a lungo. Man mano che bruciava il buco diventava sempre più grande e il calore più forte, ma non si poteva regolare se non un poco agendo sulla manetta che ragolava l’apertura del “canon de^a stua”, il canale da fumo che collegava la stufa al camino: era allora che si apriva la porta della stanza contigua, così il caldo diveniva tollerabile in cucina e il freddo accettabile nell’altra stanza. L’operazione di caricamento della stufa era piuttosto lungo e solitamente si faceva una volta al giorno, non di primo mattino, e a volte prima che buciasse tutta la segatura vi si aggiungeva un pezzo di “casata“. Le “casate” erano vinacce pressate, quello che restava dopo la spremitura dell’uva nel torchio e dopo averne ricavato la grappa: scuri dischi di circa due spanne di diametro e 5 cm di spessore, se ben ricordo. Bruciavano meravigliosamente con fiamma costante, tutto il contrario della segatura dalle fiammate esagerate. Al culmine della sua attività la stufa era caldissima, bisognava starne alla larga. L’ultimo 33dei miei fratelli era molto piccolo allora e mentre mia madre si preparava per sostituire il pannolino appena tolto lui girava per la casa col sederino scoperto: si avvicinò alla stufa, si girò e si piegò per raccogliere non so cosa e cominciò ad urlare e mia madre ad agitarsi, a controllare l’effetto del caloroso contatto, a mandarci di corsa alla vicina farmacia: fu quella volta che scopersi la Vegetallumina.
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La scuola. Tutto questo discorso è nato considerando che quasi nessuno dei bambini va oggi a scuola a piedi, da solo, non accompagnato in macchina dai genitori, mentre ai nostri tempi era il contrario. Ho ripensato alla scuola nel paese, alla sberla che mi sono preso dall’ insegnante , ai sassi caldi che tenevamo nelle tasche d’inverno nelle strade ghiacciate, alle sliSegade(scivolate) sulle lunghe lastre di ghiaccio (sliSegarole) naturali o provocate con secchiate d’acqua, alle grandi stufe della scuola e alla poca legna, a quanto fosse vicina a casa la scuola a Vicenza: volevo parlare di questo ma ho parlato di tante altre cose e mi accorgo che sulla scuola non ho molto da dire. La sberla dall’ insegnante nella scuola del paese è giunta inaspettata ma forse non. Eravamo in classe, si sentivano gli aerei volare immeritata bassi, ripetutamente. Siamo corsi tutti alle finestre a guardare (ma perché non ce l’ha invece impedito?). Io guardavo, ammiravo, ho espresso ad alta voce la mia ammirazione – “che picchiata!” – e mi sono preso un sonoro schiaffo in faccia: i caccia “americani” stavano mitragliando la stazione, un due-trecento metri davanti a noi … proprio dove l’ insegnante abitava. Magari oggi i genitori la denuncerebbero: i miei non lo fecero, anche perché prudentemente non ne parlai, allora. Alla scuola di Vicenza, anche se avessimo avuto l’automobile mai ci sarei andato se non a piedi. Nelle strade non c’era gran traffico: biciclette, qualche carro trainato da cavallo o asino, qualche rara vettura, il filobus (el tram co’e tirache); non c’erano strisce pedonali ma borchie (si diceva inventate a Trieste per impedire alla bora di portar via le strade); con
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un po’ di attenzione si passava da un marciapiede all’altro senza pericolo. Attraversavo la strada e andavo verso il centro per un centinaio di metri; lì c’era il castagnaciaro, il primo extracomunitario che ho conosciuto. Forse extracomunitario è un po’ esagerato: era solo toscano, ma tutti gli altri erano vicentini, veneti. Faceva castagnaccio, semplice, con i pinoli e non so con cos’altro: buono e caldo. Faceva anche il barbiere, nella bottega del barbiere titolare più di una volta è stato lui a tagliarmi i capelli e siccome mamma non diceva niente, credo fosse bravo anche in quello. In sua assenza c’era la castagnaciara, sua moglie: non credo facesse anche la parrucchiera, ma qualche tempo dopo oltre al castagnaccio vendeva panna montata d’inverno e gelati d’estate. Attraversavo la via e mi trovavo in uno spiazzo in fondo al quale c’era il cancello della scuola: si entrava
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in un vasto cortile con grandi alberi. Se si usciva dalla parte opposta si era davanti al ricreatorio, confinante con la scuola. Credo di non essere mai arrivato in ritardo, sia perché abitavo vicino, sia perché in quel cortile si poteva giocare fino a quando i maestri non ci dicevano di fare le file per entrare, sia perché – nella giusta stagione – dai grandi alberi cadevano dolcissime pàpole.
Non chiedetemi cosa sono: non lo so, ma mi piacevano. E con questo mi fermo, almeno per ora. PS – Mi è stato detto che le pàpole sono il frutto del bagolàro, l’albero che spunta in alto a destra della foto di siro.gassamigli .
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PPS – Ho ricevuto e inserito una foto fatta a Porta Padova credo nei primi anni ’50 in cui si possono vedere le broche pedonali, i fili del tram, l’accesso (dove c’è il vespasiano) al piazzale antistante quello della scuola.
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Cortili Non era grande il cortile sul retro. Da quella parte avevamo le finestre di camera dei genitori, cucina, corridoio, camera nostra di noi maschietti piÚ giovani. Un lato del cortile quadrato coincideva con i primi tre vani. Al corridoio corrispondeva dall’altra parte dell’appartamento il vano scale. Entrati dalla strada, subito a destra la porta del signor Mi‌on; a sinistra la porta della signora Botti, poi la prima rampa delle scale e a destra di essa, sotto la seconda rampa, un corridoio andava dalla porta sulla strada diritto alla porta sul cortile: con entrambe le porte aperte potevamo soffiare con la cerbottana i nostri proiettili di carta (pirole) contro la vaca mora ed eclissarci immediatamente.
Le finestre delle camere erano di normale grandezza, con gli scuri che scorrevano su rotaia dentro il muro. Le altre due erano grandi, ognuna munita di avvolgibile di stecche
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di legno che si srotolava allungando la corda di sostegno; barre di ferro sagomato reggevano all’esterno fili per stendere e tavole di legno con sopra innumerevoli vasi di fiori: tanti gerani, tanti colori , tante qualità; primo e ultimo pensiero della giornata materna. Al centro del cortile una piccola aiuola rotonda con una bassa palma; piccoli orticelli di guerra occupavano qualche metro dal muro su tre lati. Sul rimanente lato SW, all’ombra del fabbricato confinante e della casa, c’era solo una pianta dalla bianche tenere bacche. Da quella parte un po’ del nostro orto per qualche tempo divenne recinto per poche galline. Il terreno non coltivato era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “mamma”, fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un gioco, una protesta, una lamentela, la meranda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse “pan, buro e sucaro“e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta. A NE un muro, alto neanche due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quello; non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A SE un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’ alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e
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poi sparirono del tutto. Ora che eravamo piĂš grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa.
Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No‌..li (Ico, di nome) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di
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un alto palazzo, passava sotto le basse case sui garage e al successivo muretto (muretta) che costeggiava le rotaie della vaca mora, saliva fino al cancello quasi sempre aperto. Tante volte ci si sedeva sulla muretta, all’ ombra delle case d’estate o al sole d’inverno. As….ri (Adriano) aveva la corte al di là della strada, poco prima: ma era inutilizzabile, vi lavorava il maniscalco ed era ingombra di tante cose. Dalla muretta si poteva proseguire avendo alla sinistra, al di là del fosso e del terreno più o meno coltivato, il cortile e l’edificio scolastico; ancora qualche decina di metri poi si girava a sinistra e si arrivava al cortile del ricreatorio per giocare a calcio con amici vicini e lontani, ma non più bimbi. A fianco della corte di No…..li, qualche metro più alta, c’era la corte di Pi..an (Toni), molto più piccola: scendeva in un orto sovrastato dal cortile della scuola. Tra corte e orto c’era un fico palestra di arrampicate e motivo d’imprecazioni del padre di Pi..an contro noi distruttori delle opere di madre natura (i rami del fico sono fragili). La terrazza di Pa..an (Piero) dava su quel cortile mentre le finestre della sua sala dominavano un vasto piazzale in terra battuta, altro terreno di gioco. Dal piazzale si entrava nel cortile della scuola e si usciva al ricreatorio, ma non sempre era possibile. Nel cortile del ricreatorio si entrava solo negli orari stabiliti, ma erano molto estesi. Cortili piccoli o grandi ma assolutamente liberi da autovetture, allora. Sulla terra dei cortili tracciavamo le “piste” – spesso complicate con curve, salite, discese, ostacoli – sulle quali facevamo corre i “querceti” (coperchietti), i tappi
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a corona delle bibite con incastrata la faccia dei nostri ciclisti favoriti ricavata dalle “figurine”. Le figurine erano o comprate – non molte – o frutto di “scambio” dei doppioni o vinte. C’erano diversi modi per vincere o perdere figurine. Nel cortile si lanciavano in vari giochi che non ricordo o si scommettevano sulle gare dei “querceti”. Seduti sulla muretta si puntavano sulle partite a carte: rubamazzetto, briscola, scopa, cavacamisa o anche a poker ma il più delle volte al ricreatorio: sulla muretta si poteva star seduti uno di fronte all’altro solo in due e il terzo o quarto doveva stare in piedi.
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Strasse, ossi, ferovecio Non si stava bene 60 anni fa, si viveva con il poco essenziale e niente superfluo, ma si poteva giocare nelle strade quasi vuote di auto e girando in bicicletta l’unico pericolo era costituito negli incroci dalle doppie rotaie della vaca mora in cui, se non le “tagliavi”, potevi infilarci una ruota e cadere. Ora penso che non si viveva così poveramente come credevo: il pane era cosa comune, ora è quasi un lusso; polenta e baccalà alla vicentina c’era tutti i venerdì, ora mi pare una leccornia da gustare qualche volta all’anno; pane e salame, pane e pancetta, pane e lardo, “minestron”, minestra di verze erano il nostro povero cibo e sognavamo pollo con polenta. Ora, per me è il contrario. Nella giusta stagione non era un lusso avere ciliege, prugne (brombi e amoli), piccole pere (peri sampieroli, perchè maturavano a fine giugno, San Piero), fragole di bosco, castagne, patate dolci. Ora è sempre stagione e prezzi alti. Ad una cert’ora passava el scoassaro sul suo triciclo a pedali con due bidoni sopra, soffiava nella sua trombetta e mamma mi mandava giù a portare il sacchettino delle scoasse. Non c’erano e non servivano cassonetti, camion con due uomini sulle predelle posteriori o braccio meccanico
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su un lato: bastava un sacchettino da consegnare al scoassaro quando suonava la trombetta, ma le strade non erano mai ingombre di rifiuti, pulite dal spassincon la lunga ramazza. Non c’erano oggetti di plastica ma di legno, che una volta inadatti all’uso finivano nella stua, i vestiti venivano aggiustati, rigirati, passati al fratello minore (c’erano fratelli). Non c’erano rifiuti in giro e non ricordo se si pagava la tassa specifica, ma si poteva raggranellare qualche soldo consegnando giornali e materiale vario a quel tale che, pure su triciclo a pedali, girava per le strade di città e paesi gridando “Strasse, ossi, fero vecio!“. Nessuna emergenza rifiuti. NOTE. Vaca mora= locomotiva delle FTV # Stua= stufa, serviva per cucinare e scaldare la stanza # Scoasse=spazzatura (da scoa=scopa), rifiuti # Scoassaro=operatore ecologico un tempo detto netturbino, chi raccoglieva le scoasse # Spassin=operatore ecolgico un tempo detto spazzino # Minestron=minestra di pasta, fagioli, patate, aromi # Strasse, ossi fero vecio=stracci, ossa, ferro vecchio.
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Un altro mondo Molti anni fa, quand’ero ragazzino, vivevo in un altro mondo. Non ero mai a casa, o quasi mai, ma mia madre sapeva sempre dove trovarmi, come lo sapevano quasi tutte le nostre madri. Lo sapeva e non mi veniva a cercare, non temeva che usassi droga (nessuno lo faceva), che subissi un incidente d’auto (nessuno l’aveva) o con il motorino (il Mosquito andava più adagio della bici). Per l’ora di cena ero sempre a casa, il tempo per cenare. Magari potevo tornare a casa senza una maglietta, tolta e dimenticata o – com’ è capitato – senza i calzini che avevo perduto pur essendo assolutamente certo di non essermi tolto le scarpe. Lo affermavo e ancora lo affermo, ma non so spiegarmi come possa essere successo. Passavo – passavamo – la maggior parte del tempo al ricreatorio parrocchiale “de San Piero”. Molto tempo, avevo molti impegni. Si giocava al calcio su un terreno senza erba (mai esistita) e con molti sassi; ma non mi entusiasmava, non ero molto bravo e preferivo altri giochi. Sullo stesso terreno si giocava anche a “pallacanestro” (mai chiamato basket), più o meno con lo stesso entusiasmo e gli stessi risultati. Era il tempo che nel mondo imperversava la “canasta” e anche noi facevamo interminabili partite a quel gioco con due mazzi di carte – che ora non saprei forse più giocare – fra quattro amici, in una delle sale o – d’estate- all’ombra degli striminziti alberi posti su un lato del campo di calcio e di pallacanestro, che – nelle
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domeniche – era anche la platea del cinema all’aperto parrocchiale. Il ricreatorio aveva anche un biliardo in una sala e in altre dei biliardini, un paio di “calcio-balilla” e due ambitissimi tavoli da ping-pong , che d’estate spostavamo nel portico o sotto gli alberi. Per giocare al tennis da tavolo di sicuro c’erano anche le “spatole”, le racchette di legno; credo ci venisse fornita anche la pallina, ma potrei sbagliarmi. Qualcuno di noi aveva la racchetta personale, rivestita di gomma, un lusso per pochi: io e molti altri usavamo quello che ci passava la parrocchia. Ping e pong erano suoni quasi immancabili, al ricreatorio. I primi arrivati cominciavano a giocare; chi vinceva continuava e chi perdeva lasciava la spatola a chi veniva dopo e così via. Nessuno era imbattibile, ma qualcuno faceva molte partite qualcun altro poche. A me qualche volta andava bene altre meno: c’era qualcuno che raramente riuscivo a vincere ma magari potevo battere chi lo vinceva. Se eravamo in pochi le partite di singolo andavano ai 21 punti, altrimenti si facevano partite di doppio ai 21 punti o di singolo agli 11. Chi perdeva, aspettando il suo nuovo turno poteva consolarsi giocando al “calcetto”, il vecchio calcio balilla in edizione moderna: campo di vetro su panno verde, con gli undici giocatori di plastica manovrati con quattro aste di 1, 2, 5, 3 giocatori: credo non siano cambiati da allora. Anche lì vigeva la stessa regola: chi vince resta, chi perde lascia; anche lì i giocatori potevano essere due
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ma di solito erano quattro; anche lì non ero imbattibile ma nemmeno sempre battuto, giocando in coppia dipendeva anche dal compagno; anche lì credo che giocare fosse gratuito, ma potrei sbagliarmi. Non sempre si poteva passare da un gioco all’altro, dipendeva da quanti eravamo e di solito eravamo in molti; non sempre si preferiva l’uno o l’altro gioco, di solito ci si accontentava di quello disponibile al momento; normalmente chi vinceva non cambiava gioco a meno che non se ne fosse stufato, volesse fare un favore ad un amico o che fosse richiesto per fare coppia. Poi arrivò Mike Bongiorno e la televisione. E il ricreatorio si munì di un aggeggio che faceva vedere le immagini TV su uno schermo piuttosto grande: al giovedì sera nella sala cinematografica la proiezioni del film si interrompeva e la gente vedeva Lascia e Raddoppia; negli altri giorni nella sal del biliardo potevamo vedere il Giro d’ Italia, “Non è mai troppo tardi” e poco altro. Avevo molto da giocare, me ne restava poco per studiare e mia madre di questo non era contenta. Anche dopo cena avevo impegni: non so quali, ma ne avevo. A maggio, per esempio, mi piaceva andare ai “Fioretti” – le funzioni della Madonna – perchè prima e dopo sul piazzale sterrato della chiesa si poteva giocare a “grosta” ossia a “ciaparse” cioè quel gioco che credo si dica “rincorrersi” o “sconderse” (nascondino) o “poncio”(lippa) o qualche altro gioco. Erano le prime serate calde, era bello anche solo girare
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a piedi o in bici per la città e comprare i primi gelati ai carrettini sagomati a gondola e con due lampade a carburo, i gelati “de Brustolon”, la gelateria al ponte Pusterla. Una volta eravamo in tre e avevo dieci lire: chiesi ed ottenni un “gelato da dieci ripartito in tre coni”. Per qualche tempo studiavo (o dicevo di studiare) dalle 4 alle 7,30 del mattino.
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10 giugno Savona, 10 giugno … il 10 di giugno. Mi ricorda qualcosa il 10 giugno, dovrei ricordarmi di qualcosa. In famiglia sono l’unico a ricordarsi di onomastici e compleanni, l’unico se si esclude zia W. Zia W – 87 anni, nubile e praticamente cieca – si ricorda di tutti e di tutto: date di nascita e di matrimonio (di padre e madre, sorella e marito, fratello e moglie, le loro tre cognate comuni , dei 9 nipoti e loro coniugi e loro figli e relativi coniugi e figli e di non so quali altri suoi parenti e conoscenti), numero di telefono e onomastico dei vivi e la data di decesso dei morti. Io credo ricordarmi di quasi tutte le ricorrenze di parenti e affini fino al secondo grado, ma per gli altri e per le lacune di memoria mi sono creato un buon archivio con tutte le date che sono riuscito a raccogliere. Dieci giugno, ci dev’essere qualcosa: un compleanno, un onomastico … qualcosa ci deve essere perché 10 giugno non mi è nuovo, mi dice qualcosa. Nella memoria, niente; nel mio archivio, niente. Telefono a zia W per sentire come sta e così le chiedo cosa ci sia il 10 giugno: pronta, mi dice che anche a lei questa data dice qualcosa, anzi precisa: “a Vicenza c’è
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il Piazzale 10 giugno, il Piazzale della Vittoria su a Monte Berico e la data dovrebbe riguardare qualcosa del Risorgimento” e mi chiede di verificare in Internet. Telefono anche a mio fratello: anche a lui il dieci giugno dice qualcosa, più o meno lo stesso che a zia W. Controllo in Wikipedia: 10 giugno 1848 – Attribuzione della Medaglia al Valor Militare alla città di Vicenza. Quello era! In realtà c’è il lunghissimo Viale 10 giugno, che sale a Monte Berico, passa tra Santuario e Piazzale della Vittoria, proseguendo fino al Museo del Risorgimento e oltre. Sono 50 anni che manco da Vicenza, ma quella data m’è rimasta in mente, un po’ offuscata.Medaglia d’oro al valor militare
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Veneti Ieri ho preso la macchina fotografica ed fatto un giro in bicicletta. Sono salito a Boissano, un paesino di meno di 2500 abitanti sparsi nella varie contrade, un centinaio di metri sopra Loano. Girando per una storica contrada a due passi dalla chiesa ho trovato questa vecchia cappella, evidentemente risistemata. Mentre stavo lì è passata una signora che gentilmente si è rivolta a me, per parlarmi di quel manufatto. Così parlando, vedendo la mia bicicletta mi chiese di dove venissi. Le risposi che venivo da Savona, un po’ meravigliandola. Dopo qualche altra chiacchiera mi richiese “ma .. di dove viene?”. Capii allora che – come sempre succede – aveva notato il mio accento non proprio ligure e così confermai di venire da Savona ma di essere di Vicenza. Le brillarono gli occhi e felice mi disse di essere anche lei vicentina, da Cismon del Grappa, l’ultimo paese vicentino del Canal di Brenta, prima della Valsugana trentina. E così ha, abbiamo cominciato a parlare nella nostra lingua con reciproco piacere. Beh non proprio come fossimo in Veneto: io in casa la parlo sempre, ma c’è soltanto mia moglie, i figli sono altrove e con tutti
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gli altri ormai da 35 anni cerco di parlare italiano, salvo rari incontri. E quella gentile signora mi disse che non parla in veneto dal 1961, da quando è morta sua madre se non nelle gradite occasioni che viene a trovarla suo figlio alpino, accompagnato da alpini veneti. È venuta ad Albenga quando aveva sette anni perchè suo padre aveva chiesto ed ottenuto di fare il suo lavoro di falegname (o carpentiere?) nella costruzione della caserma: non ho chiesto quanti anni avesse, ma mi sembrava qualcosa più vecchia di me, pensionato non più tanto giovane. Ha detto “faegname”, con la tipica nostra pronuncia che “mangia” la elle, ma mi sarei aspettato sentirmi dire che faceva “el marangon”: ma dopo tanti anni qualcosa si perde. Solo qualcosa, perché pare sia impensabile per un veneto dimenticare la sua parlata: non ci tiene a farlo e ogni occasione è buona per fare “do ciàcoe” in dialetto. Questo capita a me e a tutti i veneti che ho conosciuto, con la sola eccezione di un mio cugino ritornato dall’internamento in Germania dove forse aveva fatto voto di parlare italiano. E così chiacchierando con quella signora non ho preso nota e mi sono completamente dimenticato il nome della contrada (Ca’ del Pozzo?), il santo cui è dedicata la cappella, l’anno in cui fu costruita (16..), cosa esattamente c’era in quel posto (un qualche presidio sanitario). Forse vi tornerò, già invitato a prendere un caffé da lei, che ora abita lì – presso un suo figlio – a Boissano, che si scrive quasi come Bassano, sulla Brenta.
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Ritorni Gennaio 2011 – Dopo molto tempo sono tornato a camminare nella mia città natale. Era giorno di mercato e le due piazze contigue piene di gente. Non gente indaffarata, di corsa: signore e signori lì per fare qualche compra, come in tutti i mercati, e forse anche con la speranza (o il timore) di incontrare qualcuno e scambiare quattro chiacchere. E in effetti molti parlavano: in due o tre fermi ai margini del mercato o camminando fra le bancarelle ciacolavano fra loro. Ciacolavano, tutti parlavano in dialetto, tutti con il tipico accento, con la cadenza che quasi tutti conservano anche parlando in italiano, che ovunque dopo tre parole porta la gente a chiedermi se sono veneto. Era bello, era piacevole ritornare e trovare che era come se il tempo non fosse passato: la stessa musicalità di 60 anni fa, le stesse parole anche se – credo – per argomenti , problemi, cose diverse; le stesse vecchie case – un po’ più vecchie o un po’ più rinnovate – nel centro storico. Non ho visto molte facce palesemente di stranieri,
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meno di quelle che pensavo, forse per il giorno, forse per l’ora, forse per il luogo, forse perché in altre faccende affacendati. Non so se è sempre così, ma mi sembrava essere tornato ai bei tempi della mia giovinezza: in quei luoghi, in quell’atmosfera. Sono tornato in Piemonte, dove sono vissuto per 35 anni e dove torno per diversi mesi tuttora. Altre strade altra gente, gente indaffarata che va dove deve andare.
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Merluzzo A Vicenza, per far sapere che non si è del tutto ignoranti, ora dicono che “el bacałà ała vicentina” correttamente si dovrebbe dire “stoccafisso” perché si fa con il merluzzo secco, cioè lo stoccafisso. A parte il fatto che il merluzzo sotto sale – generalmente noto nel resto d’Italia col nome di baccalà – era del tutto a noi sconosciuto fino a non molti lustri fa, magari è giusto tradurlo con stoccafisso per farsi capire dai non veneti ma resta il fatto che a Vicenza si deve continuare a chiamarlo “bacałà”. Se invece si vuole merluzzo salato si dirà “baccalà”, che è tutta un’altra cosa ma ha anche un’altra pronuncia. Quindi i vicentini continuino a mangiarsi il loro “bacałà” – merluzzo conservato secco, battuto, messo in moja per alcuni giorni in acqua corrente, cotto lentamente con prezzemolo, aglio, latte, olio – pur sapendo che altri lo chiamano “stoccafisso” e gli altri mangino pure il loro “baccalà” che noi potremmo anche chiamare merluzzo sotto sale. Per curiosità riporto quanto ho trovato nei dizionari in rete: Italiano baccalà [bac-ca-là] s.m. inv.
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1 Merluzzo conservato sotto sale, pietanza tipica di varie cucine regionali 2 In similitudini, vale persona insignificante o incapace di reazioni: essere, sembrare un b. stoccafisso [stoc-ca-fìs-so] s.m. Merluzzo fatto seccare con una prolungata esposizione all’aria aperta Spagnolo es-it bacalao s.m. = merluzzo m. it-es stoccafisso s.m. = bacalao m. secado Portoghese it-pt baccalà sm inv = bacalhau. it-pt stoccafisso sm = bacalhau. it-pt merluzzo sm = bacalhau. Tedesco it-de baccalà s.m. = 1 (Gastron) Klippfisch m. 2 (Gastron) (stoccafisso) Stockfisch m. de-it Klippfisch s.m. (-es, -e) = (Alim) baccalà m. Sembra evidente che in spagnolo e portoghese bacalao e bacalhau indicano semplicemente merluzzo che può essere aggettivato con salato o secco, in tedesco Stockfisch è letteralmente pescebastone, chiaro riferimento al merluzzo secco. In italiano il secondo significato di baccalà (persona incapace di reazione) sembra tuttavia riferirsi più allo stoccafisso secco che al baccalà salato. Per concludere: se sentite dire bacalao, bacalhau o bacałà non necessariamente si tratta di merluzzo sotto sale, anzi. —-
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Nota: ho usato ł per la elle veneta che a volte è inesistente e altre suona come una specie di e appena percepibile
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Passato remoto. In una trasmissione televisiva si parlava di com’era l’Italia cent’anni fa, dell’alta percentuale di analfabeti e della prevalenza del dialetto. Le medie statistiche dicono molto, ma sono medie: se in Italia la percentuale media delle persone che non sapevano leggere e scrivere era altissima c’erano regioni in cui era più e altre in cui era meno della media nazionale e zone in cui era più e altre in cui era meno della media regionale. Senza le medie statistiche si rischia però una visione del tutto personale e sbagliata della realtà e uno, se non ha frequenti contatti con il restante 90%, può pensare che tutti o quasi si trovino nella sua condizione mentre in realtà fa parte del 10%. Basandomi solo sulla mia esperienza personale la realtà mi appariva diversa: non ricordo d’avere conosciuto analfabeti se non eccezionalmente. Secondo le statistiche nel 1951 nel Veneto erano il 7% ed è quindi abbastanza normale che fra le persone della mia età non ce ne fossero. I miei genitori erano nati nel 1908 in un paese a Nord di Vicenza, nella pianura sotto l’Altipiano di Asiago, zona agricola e di guerra quando andavano a scuola, erano figli di contadini e artigiani: entrambi sapevano leggere e scrivere correttamente. I miei nonni erano nati nel 1873, 1878, 1882 e 1883: tutti sapevano leggere e scrivere. Tutti quelli che ho conosciuto parlavano in veneto ma leggevano e scrivevano in italiano, più o
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meno corretto. Avevano qualche difficoltà a parlare italiano ma sicuramente capivano chiunque lo parlasse, capivano un po’ perfino il latino ecclesiale e – magari storpiandolo – lo recitavano pure. Penso che tutt’ora un veneto venga riconosciuto sia per la cadenza che per la tendenza a sorvolare su doppie ed elle anche se – per il resto – usa un italiano corretto. Quando una quarantina di anni fa ho lasciato il Veneto, tutti quelli che conoscevo parlavano in dialetto, tranne usare l’italiano se si rendevano conto che c’era un “foresto”, il che succedeva quasi subito. Ma allora i foresti erano una rarità. Ora non so come si parli nel Veneto, so che nella mia famiglia in casa si parla veneto mentre fuori naturalmente italiano, dato che viviamo in Piemonte o Liguria. Uso il dialetto con parenti e conoscenti veneti le rare volte che capita, sempre con moglie e figli (i figli dei figli non conoscono dialetto). Già ai miei tempi molti genitori con i figli parlavano italiano pensando di favorirli: io non l’ho mai fatto, avendo accertato che a scuola i pochi che parlavano italiano non avevano migliori voti dei più che usavano il dialetto. L’unico mio parente parlante italiano era un cugino che, tornato a guerra finita dalla prigionia in Germania, forse aveva fatto voto di non parlare più dialetto. D’altro canto l’italiano scritto peggiore ho avuto occasione di leggerlo negli scritti di popolani della zona di Pisa, forse convinti che il loro parlare fosse corretto italiano. Noi invece abbiamo sempre saputo che quello che parlavamo non era quello che dovevamo scrivere,
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anche se gli insegnanti esageravano nel considerare errori vocaboli ed espressioni che ritenevano dialettali. Per molti anni sono vissuto in Piemonte, ma non ho avuto occasione di imparare il piemontese e ancora mi suonano strane frasi tipo “ne ho solo più uno” o “chissà se hai del pane” o “facciamo che fare, facciamo che far fare“. Lì ho anche scoperto che uno si chiamava Drigo perché, durante la Grande Guerra, suo padre era stato qualche tempo in quel paese dei miei antenati che credeva si chiamasse San Drigo. Da molti anni vivo molto tempo in Liguria ma non ho avuto occasione d’imparare il ligure e ancora mi sembra strano leggere “ai civici 23, 25, 27″ o in sequenza nella via i numeri “21, 23, 35, 25″.
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Venezia (tempo lontano) Mio padre mi aveva promesso che se fossi stato promosso mi avrebbe comprato la bicicletta ed ero stato promosso. Davanti casa nostra vendevano biciclette e mi conoscevano: prima di andare a casa passai per quel negozio, scelsi la bicicletta, la presi e andai a dirlo a mio padre. Era una Dei, col cambio a tre velocità … e costava più di uno o forse due mesi di paga: mio padre si congratulò per la promozione, la bici l’avrebbe pagata a rate. Così facevo giri in bici, secondo le mie possibilità che non erano gran che: non ero veloce ma testardo sì e con pazienza andavo qua e là, quasi sempre da solo. Andavo dai nonni abbastanza spesso, una quindicina di Km andare e altrettanti tornare: tutti in piano tranne un cavalcavia (quello dove ci avevano fatti scendere dalla vacamora perchè lo superasse) e un ponte. Ogni tanto – negli anni – qualche giro più impegnativo: Padova, Asiago, Lavarone, Arcugnano, Montebelluna, Valsugana e altri. L’impresa più memorabile è stata andare da Vicenza a Merano, presentarmi a casa di un omonimo e amico di gioventù di mio padre che molto gentilmente mi ha ospitato quantunque fossi arrivato senza preavviso, avesse la moglie (amica di gioventù di mia madre) impegnata non so più dove e lui dovesse ogni giorno recarsi al lavoro. Vi sono rimasto quasi una settimana: un giorno da lì sono salito verso lo Stelvio (gran caldo a Merano, calzoncini e camicia leggera, inizia la salita,
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strada sterrata, sale la quota: ad un certo punto non ce la faccio più per il freddo e giro la bici), un altro su a Passo Giovo, giù a Vipiteno e poi Bolzano, un giorno Passo delle Palade e Bolzano, un altro in giro per Merano e alla fine ritorno a Vicenza: ero andato per il Passo della Fricca, tornavo per la Valsugana. A pensarci ora fu poco meno di una pazzia. Ma quello che ancora ricordo per la sofferenza è la mia prima visita a Venezia, quando avevo da poco la bici. Non è lontana da Vicenza, pensavo: una trentina di Km e sono a Padova, più o meno altrettanti e sono a Venezia. Semplicissimo. Allora non c’erano contachilometri elettronici, non avevo idea della mia velocità di crociera, non sapevo quanta strada potevo fare e in quanto tempo: un’occhiata alla carta stradale di mio padre, un calcolo approssimativo della distanza e considerato che i corridori ciclisti facevano molta più strada in tempi ragionevoli ho pensato che se per loro era facilissimo per me non doveva essere impossibile. Salito in bici e via, calzoncini corti e maglietta di tutti i giorni, cento lire in tasca. Arrivo a Venezia nel tempo che mi è voluto e comincio a girare per la città, in bici: forse non siamo in molti ad averlo fatto, escludendo i ciclisti che vi sono giunti in un giro d’Italia. Dopo avere girato un bel po’ per Venezia penso sia ora di tornare a casa. Ovviamente non sapevo quale strada avevo fatto e non avevo cartina, così un po’ a naso prendevo una via, poi un’altra e poi mi trovavo davanti un canale: frenata, dietro front e di nuovo strada, stradina, canale. Finalmente mi decido di chiedere a
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qualcuno la via per andare a Padova, per tornare a Vicenza: e mi dicono che devo andare a Piazzale Roma, passare il ponte e seguire le indicazioni. Piazzale Roma! Avevo visto diverse indicazioni per Piazzale Roma, ma non sapevo che fosse quello dove finiva il ponte dalla terraferma! Fatta la scoperta, sempre in bici sul piano e con la bici sulle spalle sui ponti, seguendo le indicazioni sono arrivato a Piazzale Roma, al ponte, alla terraferma, alla strada per Padova (e per Vicenza). Non avevo mangiato nulla, avevo bevuto acqua alle fontanelle, non avevo borraccia: poco prima di Padova ero sfinito, avevo 100 lire, sapevo che un Mottarello ne costava 80, comprai il gelato e mi restavano 20 lire. Fu l’unica fonte energetica della giornata e mancavano parecchi km a Vicenza. Soffrendo non poco giunsi a Torri di Quartesolo che era buio, ma ormai – pensavo – sono arrivato, ancora pochi Km e sono a casa. Dal ponte sul Tesina a casa mia sono davvero pochi Km, forse 6: sono stati i chilometri più faticosi della mia vita ciclistica. Non arrivavo mai alla Stanga, andavo lentissimo, faticavo moltissimo, non arrivavo mai alle Casermette, non arrivavo mai al cavalcavia e a Viale della Pace, a Villa Berica, a San Giuliano, al crocevia di Porta Padova. Ma alla fine vi arrivo, giro in Viale Margherita, sono davanti alla porta di casa e sono esausto morto ma non è finita: devo mettermi la bici in spalla e portarla al secondo piano. Suono il campanello, mi aprono (non esisteva citofono), entro, faccio la prima rampa di scale e la seconda, sono al
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primo piano, prendo fiato, faccio la terza e vedo l’agognato pianerottolo di casa, faccio l’ultima rampa e arrivo davanti alla porta di casa mia, poggio la bici, entro, vado in camera e mi butto sul letto del tutto esausto. Finalmente salvo e affidato alle cure di mamma: una giornata indimenticabile.
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Ponte degli Angeli Alla TV mostrano il Bacchiglione che a Vicenza passa appena appena sotto il Ponte degli Angeli, risvegliando ricordi e incubi di due anni e mezzo fa quando le sue acque erano andate a spasso per la città. In me risveglia altri ricordi, molto più lontani nel tempo. E così ricordo quella volta che – bambino – infilai la testa fra le sbarre del parapetto del ponte per guardare sotto. Il parapetto non era quello d’oggi, le sbarre erano abbastanzata distanziate e la testa entrò agevolmente fra esse, ma quando volli tirarla fuori non ci riuscii. Riprovai più volte inutilmente mentre mia mamma era lì e cercava d’aiutarmi: guardavo l’acqua scorrere e pensavo che forse mi avrebbero tagliate le orecchie per farmi passare ma sicuramente non mi avrebbero lasciato li. Non so come ma alla fine ci riuscirono e son sicuro che come minimo mi presi una ramanzina da mia madre spaventata e un tale spavento che non lo rifeci mai più. Finite le elementari la scuola non era più quella vicina a casa e ogni giorno per andarci dovevo passare per
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quel ponte: le medie erano a Piarda Fanton, da Viale Margherita appena al di là del fiume Retrone ma lì non c’era il ponte e si doveva usare quello delle Barche. La via più breve passava per Ponte degli Angeli, altrimenti arrivati al Bacchiglione in Viale Margherita o lo si passava e si risaliva sulla strada tra i due fiumi fino al Macello o lo si costeggiava sull’argine sinistro per superarlo sulla passerella dell’Asilo. Gran parte del centro storico di Vicenza (e le scuole superiori erano lì) è sulla sponda destra del Bacchiglione e per andarci si passava sempre per Ponte degli Angeli: dalla sponda sinistra solo un altro ponte (il Pusterla) va in “città”, altri due l’ aggirano a monte e a valle. Anche allora capitava che il fiume s’ingrossasse e che i “gattoli” (tombini) verso Via San Domenico anzichè inghiottire l’acqua piovana sputassero quella del fiume. Davanti ai portici la strada – più bassa del ponte – si allagava, non c’era la via per passare davanti a San Pietro e per andare a scuola dovevo fare il giro che ho detto. Normalmente però l’acqua non era così alta, anzi sotto il ponte sulla sponda sinistra l’acqua non arrivava al muro di contenimento, c’erano banchi di sabbia o comunque terreno asciutto. E così – tornando da scuola – mi è capitato di gettare la “sacchetta” (la cartella) dal ponte su quello spazio asciutto per andarla a recuperare passando per la Corte dei Roda da dove si poteva scendere al fiume: se non ricordo male era lì che le “lavandare” facevano il loro lavoro,
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ma già allora non più tante. Una volta sicuramente l’ho fatto, ma forse anche altre, magari per la rabbia di un cattivo voto o per la gioia di uno bello o così per provare anche questo.
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Abbondanza Magari quando sarò vecchio dirò che era meglio allora, ma sicuramente ora posso dire che era diverso. Già uno della mia età allora era vecchio da vent’anni: oggi sono anziano, quelli attorno ai cinquant’anni sono giovani, quelli sui trenta sono ragazzi. Ma quelli sui dieci ne sanno più dei nonni e gli insegnano l’uso del telefonino, quella cosa che serve anche a telefonare. Allora c’erano più poveri ma molto meno accattoni, nero era negro, il non vedente era cieco, il non udente sordo, l’operatore ecologico spazzino, quello scolastico bidello. Parlavamo tutti la stessa lingua, l’italiano solo a scuola o scritto e con i “foresti”, l’inglese non abbondava come oggi (un po’ per il calcio), “poro can” “fiol d’un can” “disgra§ià” quasi mai suonavano offesa. Di pelle scura solo i contadini del paese abbronzati dal sole nei campi, in città tutti di pelle chiara digiuni di vacanze al mare o al monte. Quasi tutti: a Vicenza col buio se capitava di vedere un abito camminare da solo era un militare della base americana in libera uscita, uno di colore si direbbe oggi. Se era un MP in servizio tra berretto e camicia della divisa si poteva immaginare la testa. In città circolavano poche auto, la bicicletta era un lusso non per tutti, uno solo fra i miei amici poteva offrirci cubetti di ghiaccio, l’unico che in casa avesse un frigorifero. In casa la radio l’avevano quasi tutti, pochi un giradischi, pochi il telefono, nessuno aveva la TV che
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si guardava al bar: uno o due canali in bianco e nero. Tutta un’altra cosa dell’odierna abbondanza di auto e bici, di frigo radio iPod televisori telefoni in casa e fuori, di reti canali colori. I compagni di classe erano una trentina, forse di piÚ i compagni di gioco, ma gli amici erano una decina: oggi sono pochi i compagni di classe e centinaia gli amici in facebook. Per le strade circolavano carri a due ruote e un cavallo, oggi camion con decine di ruote e centinaia di cavalli. Allora non molti avevano una macchina fotografica, meno ancora una di buona: costavano molto per le disponibilità di allora. Quasi nessuno aveva una cinepresa e non so di nessuno che filmasse, tranne un ricco zio morto cinque anni prima che nascessi. Oggi, credo non ci sia quasi nessuno che non abbia filmato almeno una volta col telefonino, molti forse lo fanno quotidianamente, per se, per inviare il video ad amici, per metterlo in internet. Gli appassionati sviluppavano e stampavano le loro foto, ma la gente comune si rivolgeva al fotografo col negozio per vendere pellicole, sviluppare negativi e stampare foto. Una foto stampata costava sia per il materiale che per il lavoro, prima di scattarla se non si era ricchi ci si pensava su, si faceva solo se si riteneva che ne valesse la spesa, ma alla fine si scattava. Essendo parsimoniosi e il rullino di 32 foto, solitamente solo dopo un bel po’ di tempo lo si portava al fotogrofo e si vedeva il risultato, spesso deludente se si voleva una bella foto ma solitamente soddisfacente
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se ci si accontentava di un buon ricordo. Le foto erano in bianco e nero e quelle piccole costavano meno: poi arrivò il colore, costavano di più, le stampavano più grandi e i difetti erano più evidenti. Così qualcuno passò alle diapositive, i più bravi con buoni risultati gli altri con più delusioni, qualcuno rinunciò alla fotografia. Le foto che io facevo in un anno (ma non tutti gli anni) ora quasi tutti le fanno in una settimana o magari in un giorno: una nuvola,clic; un fiore, clic; un gatto, clic. Una volta che hai una fotocamera fare una foto non ti costa nulla tranne la fatica di inquadrare e premere un tasto, il più delle volte lasciando alla macchina la scelta di tempo, diaframma, messa a fuoco: non una fatica ma il piacere di scegliere l’inquadratura che più ti piace e per quanto orribile sia se piace a te va benissimo. E puoi vedere subito il risultato, se vuoi. Per vedere le foto belle grandi basta il tablet o il computer che usi per mille altre cose e se non sono venute come pensavi puoi sempre rimediare, magari non del tutto ma abbastanza, o elaborarle secondo fantasia. Anche stamparle non costa poi molto. E così archivi migliaia e migliaia di foto, magari on line. Sono sulla buona strada anch’io: ho ancora un senso di colpa nel fare una foto in più, ma sicuramente passerà.
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La Rua Trovo in ViviVicenza un gran parlare della Rua. Manco da Vicenza da molti anni e non sapevo di questa “novità”. Sapevo dell’esistenza della Rua ma non ne conoscevo la storia che ho ora trovato prima QUI e poi meglio QUI . Ne sapevo l’esistenza perché un anno – non so bene quale – se ne parlava e la vidi anche passare per Porta Padova. Più di tutti della cosa s’interessava e ne parlava “Toni tabacaro” che sicuramente aveva un cognome ma non me lo ricordo. Allora si diceva che la Rua doveva essere più piccola dell’antica, che non avevo mai vista nè sentita nominare prima di allora: ero troppo giovane per entrambe le cose e non esisteva più. Il motivo per cui doveva essere più piccola – se ben ricordo – non era tanto questione di spesa o peso quanto perchè se fosse stata più alta non poteva passare per la strada a causa delle linee aeree del “tram co:e tirache” e per Toni tabacaro la strada era quella di Porta Padova. Naturalmente le due coppie di fili sui quali
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scorrevano le rotelle delle “tirache” per fornire l’energia elettrica al tram erano sostenute da cavi che attraversavano tutta la strada ed era quindi impossibile passare con un qualcosa che non fosse più bassa dei fili e quelli della linea 1 andavano dalla Stazione alla Stanga passando per Corso Palladio. Da allora solo in questi giorni ho letto su ViviVicenza della Rua. Ai miei tempi tutti sapevamo cos’era una rua, anche se non tutti conoscevano “la Rua”, ma già allora dalle mie parti si diceva “roda” mentre “rua” era abitualmente usato in campagna: coesistevano le ruare dei carri e le rotaie del treno. Ora non so se a Vicenza dicono rua, roda, ruota o magari wheel. Vivendo di questi tempi dubito che la tradizione della Rua possa essere ripresa con lo spirito di un tempo, con lo spirito della gente che “ai oto” passava sotto le finestre di casa mia per arrivare in vacamora o a pìe alle sca:ete de monte e salire a Monte Berico (magari coi fighi ne la sporta, come diceva la canzone).
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18 aprile 1948 Il 18 aprile 1948 avevo poco piĂš di dieci anni. Credo di ricordare, pur dopo tanto tempo, il clima di quei giorni. Due anni prima mio padre aveva votato "Repubblica" e mia madre "Monarchia", ma ora entrambi avrebbero votato DC e come loro gran parte dei parenti. Fronte Democratico Popolare per tutti loro significava "comunista", comunista significava "Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche" (CCCP in cirillico, URSS in italiano) e URSS significava "ateismo di stato": assolutamente incopatibile con gente di fede. C'era una s pecie di gioco dell'oca che illustrava le disastrose conseguenze di una vittoria del "Fronte", c'erano fogli di "bollini" con scudo crociato e motto "Libertas" da staccare e incollare come i francobolli, c'erano grandi e piccoli impegnati a incollarne ovunque il piĂš possibile. Sulla balconata della sede della Democrazia Cristiana, in Corso Palladio, oltre a un grande simbolo di quel partito ce n'era anche uno simile a quello del Fronte Democratico Popolare: un grande cartello con la faccia di Garibaldi e il cartello girava fino a capovolgersi
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e la faccia di Garibaldi diventava quella di Stalin, le sopracciglia dell'uno diventavano i baffi dell'altro, la barba dell'uno i capelli dell'altro: indubbiamente non si vedeva piĂš la faccia dell'eroe dei due mondi ma quella del piccolo padre. Un modo esplicito per illustrare "se voti Fronte voti Stalin" e la cosa non poteva non preoccupare tutti coloro che non consideravano paradisiaci Russia e satelliti. Come tutti sanno quella volta il FDP non vinse. Quando si seppe, zia Neta disse alla sorella Teresa: "va da Fofi a comprare salata e faghe 'ah! ah!' ". Tutti sapevano che Fofi la frutarolasicuramente non aveva e non avrebbe mai votato DC.
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Nebbia Da molto tempo non vivo nella nebbia, da molto tempo non penso nemmeno che gente deve convivere con la nebbia, nella non lontana pianura padana. Non era così tanti anni fa, a Vicenza: 39 m s.l.m., pianura veneta, nebbia, caligo assicurato. Nella giusta stagione era normale vi fossero giornate nebbiose, anche molto nebbiose. Guardavo attraverso i vetri della finestra e non vedevo altro che profili d’ombre e qualche zona di debole luce attorno ai lampioni, di notte. Uscivo di casa ed era come entrare nella bambagia. Le persone sbucate dall’invisibile si vedevano solo quand’erano vicine. Il traffico – mai intenso com’è oggi – si diradava ancor di più. Le strade erano silenziose quasi come quando cadeva la neve e non passava “el trajon“. Ricordo la luce gialla all’incrocio, dicevano che con quella si vedeva meglio: non so. Ancora più lontano nel tempo poteva passare qualche carro, col conducente intabarrato insciarpato incappellato e il cavallo fumante, dal muso e dal corpo. Spesso di notte – la notte arriva sempre presto nella
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stagione della nebbia – camminavo, camminavamo nella nebbia nel breve tratto quasi campestre dal ricreatorio (cinema San Pietro) a Porta Padova, dove passava o era passata la ferrovia: di quà per tutto il tratto c’era il fosso, un campo, traccia di mura e la scuola elementare “G. Zanella”; di là della strada si succedeva qualche villetta arretrata e un alto muro. La strada era poco illuminata e la nebbia vi regnava, ma alla fine di quel tratto si arrivava alle case e poco dopo alla gialla luce del crocevia. E li ci si fermava per gli ultimi commenti, gli ultimi accordi, gli ultimi saluti. E si gelava, ma abitavamo tutti lì vicino e prima di gelarci completamente eravamo tutti a casa. Meno spesso m’è toccato di trovarmi in bicicletta nella nebbia notturna sulla strada che da Porta San Bortolo andava (e va) ad un paese ad una quindicina di chilometri: nebbia più o meno fitta, per tratti più o meno lunghi, dinamo in funzione, luci accese, preghiere alla Madonna di Monte Berico che mi facesse giungere sano e salvo prima al prossimo centro abitato (dove solitamente la nebbia era meno densa) e poi a destinazione. Se la sera prima era stata nebbia e freddo, quasi sicuramente il mattino dopo avrei trovato i vetri delle finestre arabescati di ghiaccio e la broxema, la galaverna (questa parola l’ho imparata molto più tardi). Gli alberi ricoperti di ghiaccio mettevano solo freddo a vederli nella bruma ma brillavano bellissimi nel sole se e quando la nebbia si alzava ed era il sereno.
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A Vicenza la nebbia capitava spesso e spesso era spessa, se i miei ricordi di allora non sono annebbiati. Poi sono andato ad abitare a Valdagno: 260 m s.l.m., forse qualche sera c’era la nebbia al Ponte dei Nori, nella parte più a valle del paese; ma io abitavo a Novale e lì non ricordo nebbia: magari c’è anche stata, rare volte per breve tempo. E così in splendidi sabati (o domeniche) di sole decidevamo – mia moglie ed io – di andare a trovare i parenti a Vicenza. Non avevamo telefono nè meteoTV. Salivamo in “500” e scendevamo la valle e si arrivava dopo poco tempo dove non c’era più il sole ma solo nebbia: il più delle volte tornavamo al nostro sole e magari invece di scendere in pianura salivamo in montagna. Altre volte nebbia o non nebbia dovevamo andare a Vicenza e magari di giorno la nebbia era diradata o sparita. Ma alla sera dovevamo tornare a casa nostra. Mia moglie ed io ricordiamo entrambi quella volta che – partiti da Vicenza con una nebbia leggera – dopo una decina di km ci trovammo immersi in una nebbia così fitta che non vedevo più niente. Ora ci viene da ridere, ma allora non trovammo altra soluzione che questa: lei scesa dall’auto mi precedeva a piedi segnalandomi la linea di mezzaria ed io la seguivo … a passo di donna. Per fortuna dopo un po’ tornammo in una nebbia densa ma più normale e proseguimmo piano piano finchè salendo la valle non riuscimmo a riveder le stelle.
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Dopo Valdagno sono finito a Biella, 420 m s.l.m. . Non proprio in città, qualche Km prima, un 70 metri più in basso. Mi dicono che a Biella Piano non la vedono mai e men che meno penso a Biella Piazzo, un po’ più alto. Davanti casa mia qualche rara volta la nebbia è arrivata, qualcosa di leggero ed effimero. Ma dalle finestre di casa o magari salendo su al monte capita di vedere la nebbia padana: una coltre sopra la pianura. Non ho più necessità di recarmi a Vercelli o Novara e la nebbia di quei posti posso ora solo immaginarla: mi rendo conto che dev’esserci nebbia quando non riesco più a vedere bene certi canali TV.
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Capita anche di trovare la nebbia in montagna, ma quella è un’altra cosa e in montagna non salgo da un bel pezzo. Ora sono un po’ a Biella e un po’ a Savona. Anche lì non ho mai visto nebbia e solo una volta la neve, ma d’inverno non sono sempre laggiù. Per andarci passo per Alessandria, che non dev’essere esente da nebbia: di solito aspetto periodi in cui non sia prevista e finora non ne ho mai incontrata di molto fitta. E così ho un po’ di nostalgia della nebbia, ma nello stesso tempo la temo moltissimo e cerco di evitarla.
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Il ricreatorio 1.
Di giorno era sicuramente molto di più il tempo che passavo al Ricreatorio di quello che passavo in casa. Per qualche tempo è stato troppo, se alle quattro del mattino mi dovevo alzare dal letto per studiare un po’, non avendo trovato il tempo di farlo il giorno prima. Ma normalmente, se non era tempo di vacanza, un po’di tempo per studiare lo trovavo anche di giorno, senza esagerare. Il restante o ero sulla muretta (muretto) o al Ricreatorio. La muretta si trovava appena finito il primo caseggiato a sinistra di Via Legione Gallieno ed era la parte terminale del muro di sostegno verso la strada del cortile di Ico N., qualche metro sottostante. Dalla parte della strada era quasi davanti al cortile di Adriano A. e l’altezza era giusta per sedercisi sopra. Era il punto di ritrovo di quattro o cinque amici abitanti non lontano dal crocevia tra Porta Padova, Corso Padova, Viale
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Margherita e Via Legione Gallieno. Un tempo tra la muretta e la strada passavano le rotaie. Per molti anni in quell’incrocio le rotaie della vacamora (il treno delle Ferrovie Tramvie Vicentine) passavano da destra in Via Legione Galieno a sinistra in Viale Margherita ed erano il terrore dei ciclisti che dovevano andare dall’una all’altra strada. (Nelle mappe trovo Contrà Porta Padova fino all’incrocio e Corso Porta Padova dopo: per me era tutto Porta Padova. Via, Corso, Viale sono in tutte le città, Contrà no: sovente confondo i termini). Ovviamente nell’attraversare la strada le rotaie erano “doppie” e se non si tagliavano correttamente c’era il rischio d’infilarvi la ruota e cadere. A quel tempo molti andavano in bicicletta, ma tutti sapevano come comportarsi e non ricordo d’avere visto cadute. Nel primo pomeriggio (o anche mattino s’eravamo in vacanza) restavamo seduti sulla muretta a chiacchierare, giocare con le carte da briscola e con le figurine. Quando era l’ora che aprivano il Ricreatorio, normalmente lasciavamo la muretta e proseguendo per via Legione Gallieno si arrivava in Via San Domenico. Per tutto il breve percorso (nei primi anni lungo le rotaie) si vedeva a sinistra, al di là dei campi, la Scuola Giacomo Zanella. E al Ricreatorio ci si ricreava. Arrivava il don pro tempore, apriva la porta del cinema e poi il portone
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del cortile dove solitamente si giocava a calcio. Io non amavo quel gioco ma ricordo che il terreno era terra battuta dove era bello e sassi dov’era brutto. Nessuno si sognava di farvi esultanti scivolate quando segnava goal. Le squadre erano a formazione variabile, dipendeva da quanti volevano giocare. Le porte erano sotto i tabelloni dei canestri, approssimativamente segnate, senza pali né traversa, una dalla parte della sala cinematografica e una dalla parte della scuola Zanella. Dalla parte del cinema per quanto alto si tirasse il pallone tornava sempre in campo. Dall’altra parte poteva superare il muro e finire tra scuola e ricreatorio. Qualche volenteroso doveva allora salire sul muro, scendere dall’altra parte in una pericolosa e selvatica terra di nessuno, trovare e recuperare il pallone, rinviarlo in campo. Entrando, il lato sinistro del campetto era delimitato dal nuovo fabbricato e quello destro da una fila di alberelli oltre la quale si facevano giochi da tavolo. Sul lato sinistro il pallone non usciva mai, si faceva rimbalzare sul muro e si proseguiva l’azione. Dall’altra parte qualche volta poteva esserci rimessa laterale, se si concordava. E su quel campetto capitava di vedere giocare anche giovanotti come Mirko Pavinato e Gigi Menti che fino a mezz’ora prima si allenavano sul campo del Vicenza. Non so bene cosa ci fosse sul lato sinistro prima che fosse costruito il nuovo fabbricato. Forse un’immobile
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con un portico al centro e dei locali usati anche per le domenicali lezioni di catechismo. E sì: alla domenica si andava alla messa del fanciullo (alle 10, credo) e poi a “dottrina”. Ricordo la lunga fila di ragazzi che dalla chiesa di San Pietro percorreva Stradella San Pietro, attraversava Contrà Porta Padova, girava per Contrà San Domenico e arrivava al Ricreatorio dove c’erano i locali per “la dottrina”. Ma non solo lì: ricordo di essere stato “a dottrina” anche nell’Oratorio dei Boccalotti e nell’orfanotrofio di Via San Domenico. Alla domenica mattina messa e catechismo, al pomeriggio sante funzioni (se non ricordo male) e cinema. Nei giorni festivi si andava al ricreatorio di mattino per il catechismo e al pomeriggio per il cinema a poco prezzo, tutti i giorni per giocare. Sempre in quel cortile c’erano, credo settimanalmente, le riunioni e le esercitazioni dei lupetti, sotto la Guida di Akela , uno dei figli del “casolin” di inizio Corso Padova, un tipo piuttosto logorroico. Non so molto di quelle riunioni perché, contrariamente ai miei fratelli minori e sorella, non sono mai stato scout. Però facevano gran scena. Nel campetto si giocava talvolta anche a pallacanestro ma non praticavo né questo sport né calcio. Però al coperto c’erano uno o due tavoli da ping-pong: le spatole (racchette) erano fornite dalla parrocchia, le palline no e quando si rompevano (capitava abbastanza spesso) si dovevano comprare. I più fortunati avevano spatole personali ricoperte di
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gomma, gli altri si accontentavano di quelle in semplice compensato. A me piaceva giocare a ping pong, ma c’era la regola che chi vinceva continuava a giocare e ad affrontare nuovi sfidanti. I meno bravi dovevano solo sperare che non ci fossero molti giocatori e che non ci fossero i più bravi. Nell’attesa si poteva giocare a calcio balilla o a biliardino, ma valeva la stessa regola. Spesso dovevo attendere, ma non sempre.. Quando eravamo in molti ad aspettare di giocare a ping-pong una buona soluzione era di giocare in coppia per accontentarne di più e dimezzare i tempi d’attesa. Ma solitamente c’era anche la consuetudine che giocando singolo si andava agli 11 punti e in coppia ai 21, annullando il vantaggio nei tempi . Se si era in pochi si poteva andare ai 21 anche nel singolo. C’era anche un biliardo regolare, nella stanza a destra prima della sala cinematografica, ma non mi ricordo fosse molto usato. In quella stanza c’era anche lo schermo TV che il giovedì sera veniva portato nella sala del cinema per far vedere Lascia o Raddoppia a un pubblico numeroso: quasi nessuno aveva la tv in casa. Se non si voleva o non si poteva giocare altro c’erano sempre la scacchiera per la dama o le carte venete per giocare a dama o trea (tria), le carte venete per partite a briscola, tresette, ecc. e anche quelle francesi per altri giochi. D’estate, quando faceva troppo caldo per i giochi di movimento, ho passato ore all’ombra degli alberelli a giocare a canasta, gioco che non finiva mai e
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che non ricordo più com’era. Si giocava anche a poker puntando figurine. Come se non fosse tanto il tempo che vi passavo a giocare, al ricreatorio andavo anche per “lavorare”, fare volontariato per la parrocchia. Ho venduto i biglietti del cinema e compilato il borderò per la SIAE, d’estate ho venduto granatine. Tra la sala del cinema e i gabinetti c’era una stanza con porta che dava sul campetto. D’estate il campetto diventava cinema all’aperto. Affacciati a quella porta si vendevano granatine agli spettatori. Prima però bisognava rifornirsi del ghiaccio, grossi pezzi di ghiaccio. Un parallelepipedo di ghiaccio di circa cm 30x30x100 che si andava a comprare a Porta Monte, lo si avvolgeva in panni per evitare che si sciogliesse e lo si portava al Ricreatorio usando un carrettino a due ruote trainato con la bicicletta. Usando una specie di pialla da quel pezzo di ghiaccio si ricavava il ghiaccio minuto, lo si metteva nel bicchiere e si aggiungeva lo sciroppo per dargli gusto. Di sicuro c’era menta e granatina ma forse anche altri gusti. Non credo si usassero bicchieri di carta e cucchiaini di plastica ma non ricordo come avveniva il riciclo. Settimanalmente nella sala al primo piano c’eranovo le adunanze degli “aspiranti” e anche in quell’ambito collaboravo in vari modi.