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A PAG
PAG. 10 MARZO 2022 Il Saltaro
Mosche, insetti e vermi, prelibatezze contemporanee
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Col freddo che fa non c’è riparo. Oddio, l’osteria della Maroca non è male, riscaldata da una vecchia stufa a “olle”, garantisce tepore ed entusiasmo a sufficienza per riprendere i confronti d’umore e di pensiero politico boicottati da Dio e dai mille virologi che per anni ormai ci hanno costretti in casa a meditare sulle altalene umane che quando sembra che tutto fili a meraviglia, basta un microscopico Virus per stenderti a terra, non proprio, ma stenderti sul canapè in attesa che passi la giornata, nella noia della solitudine, e della non sempre gradita compagnia della suocera saccente. “Finalmente liberi” sembra dire l’Abele, contento di poter rivedere finalmente i vecchi sodali: l’Arcadio, a prima vista di molto dimagrito, el Gelindo, barbuto come non lo era mai stato, l’Eusebio, dalle “braghe” rattoppate, fatte più di rattoppi che del tessuto originale, el Fiorani, che balbetta con l’intero viso, con la voce, con le ciglia tremolanti e le orecchie caduche, ma gran cervello fino, e il sindaco Filippo, santo protettore per l’occasione. La vecchia Maroca, prudente come sempre, ha lasciato l’osteria in provvisoria gestione alla Paradisa, sua coetanea. Tutti bene, chi più chi meno, e tutti ansiosi di riprendere i saggi ragionamenti del passato. Il virus sembra finalmente sconfitto, basta mascherine, forse al chiuso, come nel loro caso le mascherine sarebbero ancora d’obbligo, ma il sindaco Filippo, dall’alto del suo carisma, le ha abolite ovunque: “Basta mascherine, mi hanno rotto...Guardiamoci in faccia finalmente, riprendiamoci la nostra libertà...” Applauso unanime, mai più mascherine. “Paradisa, portaci un fiasco di quello buono, senz’acqua, spero che la Maroca non ti abbia insegnato i suoi trucchi...” dice col suo vocione l’Abele. Non che la Paradisa sia tanto meglio della Maroca, veste come una zingara di prima della guerra, ha capelli giallognoli che sembrano di stoppa, una faccia scarnita da vecchia arpia, ma il suo mestiere lo fa bene, e questo basta. “Vengo ora dal rifugio di Val Bona, sono stato invitato a pranzo da alcuni amici, che mangiata, per Dio, sono proprio pieno...” confessa il sindaco Filippo. “Anch’io...durante questa clausura ho solo mangiato e sono cresciuto di peso...e non di poco!” conferma el Gelindo. “Ormai è stato il mangiare il pensiero principe di questi mesi di chiusura, e la moglie: cosa facciamo oggi a pranzo...ti va bene questo...o questo... o quest’altro...una bistecca al giorno, abbiamo svuotato il freezer...” racconta il Fiorani, l’arguto. “ Già, adesso si pensa quale cibo scegliere per pranzo e cena, ma quando eravamo bambini, era già molto se c’era un po’ di pane e salame o una fetta di polenta avanzata...com’è cambiato il mondo...” dice l’Eusebio con non poca tristezza. E poi riprende il bandolo il sindaco Filippo: “Ho letto da qualche parte che oggi gli Italiani divorano una cinquantina di chili di carne all’anno. Ai nostri tempi si mangiava la gallina ripiena il giorno della sagra, e altrimenti quando c’era in tavola una gallina o era malata o c’era il nonno malato….allora si mangiava si e no una decina di chili all’anno e basa manina. Talvolta quando in malga moriva una manza o un vitello, lo si attaccava al muro nel mio corridoio e lo si vendeva a “tocchi” e venivano tutti, non tanto per la carne, quanto per essere solidali con chi aveva subito il danno alla propria stalla. Pesce non se ne mangiava, se non qualche trota in casa dei pochi pescatori, oggi anche da noi, in montagna, si mangiano circa 15 chili di pesce di varie specie….oh..mangiamo di più adesso, tanto di più, ma non saprei se oggi mangiamo anche meglio...” lascia tutti con un interrogativo non da poco sul tavolo il sindaco Filippo. “ Mah…- interviene l’Arcadio competente in materia, per vent’anni ha fatto il cuoco nei cantieri delle dighe in val di Daone, faceva da mangiare per mille e più operai, e di cibo se ne intende - ...ma si, adesso i cuochi sono degli specialisti, fanno le scuole, imparano bene, si guarda più alla tecnica del cucinare che agli ingredienti che si usano...sono scomparsi i sapori originari, ormai i prodotti sono tutti uguali, tutta roba industriale, si cucina sempre meno in casa e allora non si tramandano più le vecchie ricette, i vecchi sapori...” A questo punto è il Fiorani che dice la sua: “Ormai non si ricordano più i cibi prelibati delle sagre o dei grandi avvenimenti in paese...chi tra le nuove generazioni ricorda la “polenta concia” a base di burro fatto in casa, la polenta e osei, la boia, la lepa, i fradagoi, el brò brusà, i fasoi enbraghe, l’mpoarada, la gallina coll’”impium”, el sanch rostì, le greppole, ...ormai i cibi genuini sono rimasti pochi, come poche sono le persone che si dedicano alla cucina...purtroppo questo non va bene, di solito la quantità non genera mai la qualità.” E l’Abele cerca di tirare qualche conclusione: “ L’è inutile contarsela e girarghe entorno: cinquant’anni fa le donne italiane cucinavano per quattro ore al giorno, oggi la donna scongela per circa mezz’ora al giorno. Lavorano un po’ tutti, donne comprese, a mezzogiorno nessuno torna a casa a pranzo. Si mangia in ufficio, a scuola, in mensa, il fast-food, si mangia un panino trangugiandolo in piedi, tutti modi di saziarsi che hanno sostituito la cucina casalinga. Il pranzo del mezzogiorno ormai lo si vive il sabato (non sempre) o le feste comandate.” “Il bello è che adesso che ognuno di noi che mangia più di 800 chili di cibo all’anno, che le vacche hanno raddoppiato la produzione del latte, che le galline fanno due uova al giorno, che i vitelli si gonfiano in un paio di mesi, che la verdura sempre più verde e i pesci sempre più lucidi, che si possono ricavare 120 chili di prosciutto con solo 100 chili di maiale ( gonfiandoli con i polifosfati), adesso l’unica preoccupazione degli Italiani è diventata quella di ridurre il peso corporeo. Per fortuna che avanzano in ogni parte del mondo e recentemente anche in Europa, nuovi alimenti a base di fibre di cellulosa che possono sostituire i cibi tradizionali, ma ancora meglio recentemente l’Europa ha autorizzato anche da noi una nuova cucina a base di insetti: grilli, larve, vermi, cavallette, scarafaggi, tutti insetti commestibili, trattati e trasformati in farine impiegate poi nella produzione di alimenti.” così ha concluso il sindaco Filippo che aggiunge: “A parità di peso il cibo preparato con questi componenti conterrà circa un 40% di calorie in meno rispetto a quello tradizionale. Non è il massimo, a qualcuno farà anche schifo, ma oggi come oggi non sembra un problema...” Il vostro Saltaro basito, lascia i sodali continuare nei loro lungimiranti ragionamenti e se ne torna nell’alto dei cieli. Ha preso appunti e non vede l’ora di discuterne con i Santi Protettori della nostra terra….modernizzazione sì, ma vermi e scarafaggi no! Mai!
Cosa MEttiamo
Un locale nel comune di Sella Giudic
Omne agens agendo perfi citur
Continuare a dare aiuti a chi non ne ha bisogno anche dopo il superamento del periodo di difficoltà significa deviare dai principi sia di sussidiarietà sia di solidarietà. È necessario evitare politiche pubbliche di intervento a sostegno di realtà sociali ed economiche che possono fare da sé.
di Paolo Magagnotti
MARZO 2022
PAG. 11 L’aiuto strutturale indebolisce la società e crea ingiustizia
Quando eravamo povera gente - prendo a prestito questa espressione, con relativo contesto, dal titolo del libro di Cesare Marchi del 1988 - le nostre comunità, soprattutto nelle valli, quando qualcuno era in difficoltà veniva aiutato da chi ne aveva la possibilità e, superato il periodo di difficoltà, l’aiuto veniva doverosamente sospeso. Nel migliorare le condizioni di vita nella nostra società sembra che spesso questo comportamento - ispirato dal fondamentale principio di solidarietà - abbia assunto un cambiamento negativo e contrario ad un altro principio che dovrebbe pure essere basilare della società, ossia la sussidiarietà, in base a quale – lo abbiamo già visto nelle precedenti puntate di queste nostre riflessioni - un’entità superiore non deve assumere le funzioni che in maniera soddisfacente possono essere svolte da un’entità inferiore, mentre la prima deve doverosamente intervenire in termini di aiuto sussidiario in favore della seconda quando questa non è in grado di far fronte ai propri bisogni. Realizzatesi le condizioni per cui è dimostrabile che chi viene aiutato può arrangiarsi da solo non vi è ragione di principio per cui l’aiuto debba continuare. Al riguardo vale un principio di comportamento che possiamo definire di autoeliminazione. Lo stesso termine latino subsidium, da cui deriva sussidiarietà, va inteso come un aiuto tenuto in riserva per chi non arriva a fare una cosa che gli spetta di fare. L’aiuto – se tale vuol rimanere – che la società maggiore deve dare alla società minore, deve avere delle limitazioni, nel senso che, sia durante sia dopo l’azione di aiuto, la società maggiore non deve assorbire né le funzioni né la struttura nel suo insieme delle società minori. La società maggiore pertanto, deve autolimitarsi, fino all’autoeliminazione nella sua funzione di aiuto: quando il proprio intervento ha portato i soggetti aiutati ad un livello tale che essi stessi possono proseguire con le proprie forze per soddisfare i propri bisogni, la società maggiore deve ritirarsi ed intervenire nell’eventualità che la società minore si trovi nuovamente nelle condizioni di essere aiutata. Attivare azioni di aiuto nei confronti di una società minore in difficoltà per poi conservare l’”occupazione” di spazi in cui si è intervenuti per una doverosa e legittima attività sussidiaria in aiuto a chi ne aveva bisogno, significa anche l’imitazione degli spazi di libertà dei soggetti – considerati sia individualmente sia nella loro globalità – della società minore. Continuare nell’aiuto non necessario significa anche impigrire i destinatari dei sussidi, oltre che creare delle pericolose condizioni di dipendenza delle quali il soggetto – privato o pubblico che sia – può approfittare, determinando magari degli auto-condizionamenti che possono essere dannosi – se non addirittura pericolosi – sia per gli individui singolarmente sia per la società nel suo insieme. In riferimento all’applicazione del principio di sussidiarietà per rapporto all’ente pubblico – pensiamo ad esempio alla Provincia autonoma, nel rapporto sia con i singoli sia con organizzazioni di varia natura o di enti territoriali – sono assolutamente da evitare politiche di intervento e diventano strutturali nell’accompagnare le attività socioeconomiche anche quando le condizioni sociali o di mercato sono tali per cui la persona bisognosa o l’impresa possono operare e svilupparsi con propri mezzi e proprie forze. Quando si sente dire che ormai si è stati abituati ad avere sempre aiuti dal Pubblico e è difficile far cambiare la mentalità non si fa altro che indebolire le risorse della società, oltre che perseverare nell’ingiustizia.
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Il grido dell’Ucraina svegli i sonnambuli
Quello che molti non credevano, e che altri, fra cui chi scrive, ritenevano certo, è accaduto. La Russia dell’imperialista Vladimir Putin non si è accontentata di due piccole regioni ai suoi confini, ma con brutalità inaudita ha invaso l’Ucraina, Paese indipendente e sovrano, che dopo essere uscito dal giogo sovietico ha cercato legittimamente di orientare la sua politica e i suoi rapporti internazionali su un Occidente nel quale sentirsi più sicuro e integrato. Certo, un Paese che al suo interno culla anche sacche di un nazionalismo patologico che non è indubbiamente un fatto positivo, e che non ha di certo agevolato l’attuazione degli accordi di Minsk sul Donbass. Questo conflitto, più che la guerra della Russia è la guerra di Putin, che ha cosi colpito la culla dove la sua Russia è nata. Le patologie, tuttavia, si cerca di curarle con trattamenti terapeutici adeguati e non infilando il coltello nel corpo del paziente. La nuova leadership del presidente Zelensky si è impegnata, seppur fra non poche difficoltà e resistenze interne, a portare il Paese verso una democrazia stabile. Una democrazia che avrebbe potuto, fra l’altro, “contagiare” l’autoritarismo antidemocratico e le ambizioni di espansione di chi al Cremlino ha nostalgia di Pietro I il Grande e non tollera “ingerenze democratiche”. I massacri di vite umane – è stata terribile l’uccisione di molti bambini – e le distruzioni che da alcuni giorni sono sempre davanti ai nostri occhi sugli schermi televisivi non possono trovare parole sufficienti per descriverle; quelle immagini - soprattutto quelle di bambini piangenti o riuniti in gruppi per preparare bombe artigianali - penetrano e vengono fatte proprie dai nostri sentimenti più intimi, che soli possono, forse, interpretarle. Più che soffermarmi nel parlare e descrivere quello che sta succedendo nel cuore di quell’Europa nella quale si sperava che dopo due tragedie mondiali e l’Olocausto certe scene non si dovessero più vedere, desidero riflettere brevemente sul contesto politico attuale e in prospettiva futura.
Sonnambuli irresponsabili
Bisogna essere miopi, sonnambuli o irresponsabili per negare che al Cremlino non vi sia un comandante con una lucida pazzia per il quale le vite umane non richiedono alcun rispetto e solo la follia di grandezza imperiale guida il suo pensiero e il suo agire. Nemmeno il suo ristretto cerchio di collaboratori e oligarchi, probabilmente, riesce sempre a comprendere le sue vere intenzioni. Vi sono peraltro molte cose che si vedono e che si possono coprire in un Paese dove nelle scuole vi sono bambini convinti che
Il presidente della Federazione russa ha scatenato la “sua” guerra contro il Paese dove è nata la Russia animato da aspirazioni imperialistiche. La tigre che cavalca lo mangerà.
L’EDITORIALE di Adelino Amistadi
Continua dalla Prima
Si sono limitati a minacciare sanzioni severe, ma che all’atto pratico erano solo parole. Invece siamo in presenza di una violenta superpotenza, cioè di un pericolo reale gigantesco, sottovalutato da tutti. Putin ha capito sin dall’inizio che Americani ed Europei non avrebbero mai usato le armi, ma solo le solite parole di biasimo, e così ha dato il via libera all’invasione. Ora, sul piano politico e militare, Stati Uniti ed Europa si leccano le ferite. Putin, a costo di perdere qualsiasi credibilità internazionale, ha messo in moto una forza d’urto violenta e fuori controllo allo scopo di conquistare definitivamente l’Ucraina. Che è due volte l’Italia e ha giacimenti di materie prime, dal gas al grano, da far tremare il mondo. All’inizio s’è sperato che Putin puntasse solo a distruggere le postazioni militari e non l’intero Paese e che si accontentasse di riunire sotto la Russia i territori che dal Donbass arrivano alla Crimea, ma ora è chiaro che Putin vuole conquistare l’intera Ucraina. Nelle intenzioni di Putin la frontiera fra la Russia e l’Ucraina dovrà diventare soltanto un semplice segno sul terreno. Sembra non abbia l’intenzione di annettere l’Ucraina, ma che punti alla “neutralizzazione” imposta con le armi. Un nuovo governo filo-russo, dovrà garantire una neutralità forzata, con un definitivo allontanamento dall’Unione Europea e dalla Nato. Putin vuole imporre uno “stato cuscinetto” al suo sevizio. La risposta dell’Occidente a questo “atto brutale di guerra”, così come l’ha definito, il capo della Nato, è tutta una serie di sanzioni definite “senza precedenti” per colpire la crescita economica e la capacità della Russia di modernizzare la sua tecnologia sia in campo industriale che militare. Misure pesanti sono state messe in atto dagli Usa, d’accordo con gran parte d’Europa, e in tutto il mondo si stanno organizzando manifestazioni di solidarietà con il popolo ucraino che si sta dimostrando eroico e pronto a morire per difendere la libertà e la terra della propria storia e dei propri avi. Alle sanzioni economiche sempre più pesanti da parte dell’Occidente a scapito dell’economia russa, stanno ogni giorno, arrivando in aiuto al popolo ucraino ingenti quantità di armi, munizioni, vestiario, medicinali e viveri da ogni parte della terra: dai Paesi vicini, ma anche dal Canada, dall’Australia, dal Giappone e tanti altri. Ormai Putin viene definito come l’anticristo del ventunesimo secolo. Un uomo cinico, al limite della paranoia, con progetti e illusioni antistoriche, isolato dal mondo e anche dai suoi collaboratori, fuori dalla realtà, ma irriducibile nel voler portare a termine contro tutto e tutti i suoi disegni di riconquista degli spazi dell’antico impero zarista. Dei suoi detrattori Putin non sembra per niente preoccupato: “Chiunque tenti di crearci ostacoli od interferire - ha minacciato - sappia che la Russia risponderà con delle conseguenze mai viste prima. Siamo pronti a tutto”. Evidente la minaccia dell’uso delle armi atomiche, di fatto già annunciata. Gli Usa vorrebbero aumentare le sanzioni, ma c’è il rischio che le sanzioni americane contro la Russia danneggino l’Europa ancor più della Russia ed in particolare potrebbero mandare verso la fame l’Italia. Se pensiamo che l’Italia importa dall’Ucraina il 64% di grano tenero (pane e biscotti) e del 40% del grano duro destinato alla produzione del nostro piatto principale, la pasta. Senza parlare del rifornimento del gas che dipende quasi al 60% dall’Ucraina e dalla Russia. Gli Usa e gli alleati europei, grazie soprattutto alla leadership americana, sono riusciti, sinora, a mantenere una insperata convergenza su una linea di fermezza e di condanna dell’intervento russo. Un risultato positivo se si pensa alle diverse sensibilità che esistono fra gli europei sul tema dei rapporti con Mosca e alle enormi difficoltà a cui ha dovuto far fronte l’Ue nel passato per definire una linea comune nei confronti della Russia. E così l’ipotesi di sanzioni ancora più pesanti nei confronti di Mosca potrebbe mettere in difficoltà la solidarietà fra gli occidentali anche perché il rapporto di interdipendenza delle rispettive economie con l’economia russa è molto maggiore per gli europei, cosi come non è un mistero che alcuni stati europei (vedi l’Italia) dipendono molto di più di altri dalle forniture di gas dalla Russia. Infine, guardando in casa nostra, dobbiamo dire che l’Italia s’è mossa finora correttamente in questa vicenda, in piena sintonia con gli alleati Nato, malgrado le note differenze di sensibilità sul tema dei rapporti italo-russi fra i partiti di maggioranza. Mentre il Pd non ha dubbi da che parte stare, una posizione contraddittoria è quella di Salvini. Il leader della Lega non ha mai nascosto la sua linea di grande ammiratore di Putin; tutti ricordano quando disse che “mezzo Putin vale due Mattarella” ed ancor più entusiasta quando definì Putin “uno degli uomini politici migliori sulla terra”, ma con il succedersi dei tragici avvenimenti a Kiev, anche Salvini, oggi, sembra rinsavito e si è dichiarato totalmente d’accordo con le sanzioni da infliggere alla Russia e con l’azione del Governo italiano. Mentre Berlusconi ha scelto di tacere per non tradire il vecchio amico russo, la Meloni ha invece condiviso appieno la posizione dell’Italia: severità e dialogo, alla base dell’azione governativa. Infatti Draghi ha ribadito con coerenza la necessità di coniugare, nei confronti della Russia, il doppio binario della fermezza e della disponibilità al dialogo. La cautela in questi casi è sempre opportuna. Per finire diamo uno sguardo complessivo all’Europa che da questa situazione tragica deve trarre nuove opportunità per rinsaldare le motivazioni dell’Unione. L’Europa ha dimostrato di non esistere. E non esiste perché non ha una forza militare e, quindi, non ha una politica estera. Purtroppo alla fine sarà l’Europa ha pagare il prezzo della guerra in Ucraina, anche se dovesse chiudere in fretta. Sarà la realtà di quanto è avvenuto ad imporre all’Europa di dotarsi rapidamente di una forza militare unitaria capace di difenderla e di allontanare il pericolo di una guerra globale, cioè atomica. Dopo il campanello d’allarme della pandemia, questa invasione russa ad un libero Stato è una sirena lacerante che interrompe il sonno europeo durato anche troppo a lungo. A questo punto non c’è alternativa alla costruzione di una forza militare continentale unitaria. Nel mondo monopolizzato da un polo dittatoriale Cina- Russia, l’Europa non può essere il bamboccio di carta pesta che fa le spese dello scontro inevitabile, anche se non necessariamente armato, con l’America. Per non esserlo deve cambiare la situazione attuale, rafforzare il proprio prestigio internazionale, e proporsi al mondo come interlocutore autoritario e credibile. L’alternativa è soccombere o come alleatisudditi dell’America, o come area al servizio degli interessi della Russia e la penetrazione sempre più invadente della Cina. Se non vogliamo che questo accada, dobbiamo fortemente credere in una Europa più unita, più forte e più armata, perché, con tutti i vari Putin che ancora dominano parte del mondo, si deve comunque essere pronti per ogni evenienza. Ho cercato di fare il punto sulla tragica situazione in cui si trova l’Ucraina dopo l’invasione della Russia dei giorni scorsi. Non è facile fare previsioni, ma la movimentazione dell’esercito russo voluta da Putin non sarà facile da fermare, anche se tutti gli uomini dell’Ucraina, molti dei quali rientrati da vari Paesi europei dove avevano trovato lavoro, armati fino ai denti, siano pronti a morire per la loro patria. Per anni, per decenni, si continuerà a parlare di un’invasione deprecabile, ignobile della Russia e una difesa eroica del popolo ucraino. Comunque vada, gli avvenimenti di questi giorni segneranno per sempre la storia dell’Occidente e dell’Europa in particolare.
Follia al Cremlino
Il grido dell’Ucraina svegli i sonnambuli
per il Capo si deve essere disposti a morire. Non dimentichiamo che non molti secoli fa vi è stato anche in Germania qualcuno che, considerato un Trommler quando parlava alle piazze, giunto al potere ha occupato l’Europa e commesso quel genocidio che scuoterà sempre le coscienze fin che mondo esisterà. Anche in questo caso veniva insegnato ai bambini che per lui dovevano essere pronti a morire. Non è tuttavia sempre accettabile è giustificabile dire che non si era capito. Certe cose si possono e si devono capire: se lo si vuole. Non possiamo certamente meravigliarci se il contadino di Bondo non percepisce ciò che si muove intorno al Cremlino, o magari nel complesso dei palazzi Zhongnanhai adiacenti alla Città proibita di Pechino. Non posso tuttavia credere che all’enorme dispiegamento di servizi segreti di tanti Paesi liberi e democratici - fra cui gli stati dell’Unione Europea - possano sfuggire certe situazioni e determinati i pericoli; pericoli che vengono portati all’attenzione di chi deve fare scelte, pensando non solo al presente, ma anche al futuro. Purtroppo molte miopie nazionali prevalgono troppo spesso sui principi e valori e si lascia che derive autoritarie prendano il sopravvento. È ben vero che l’egoismo è un qualcosa che, in maniera più o meno intensa, pullula nelle vene di ogni essere umano. Dobbiamo essere realisticamente coscienti di che cos’è la natura umana. Ma ogni essere umano capace di intendere e di volere ha anche una ragione, che può e deve portare a scegliere. Spetta in primo luogo ai governanti capire che cosa succede nel mondo e dove va il mondo ed agire di conseguenza per sostenere quel bene comune necessario per garantire agli esseri umani soprattutto di vivere in pace nella libertà. Governanti che debbono fare spazio nella loro coscienza a messaggi derivanti dalle ragioni più nobili per cui sono stati eletti e non per conservare il potere. Mi torna talvolta alla mente un incontro che ho avuto all’inizio degli anni Settanta nel piccolo paese di Cavizzana, in val di Sole, quando, mentre parlavamo di taluni problemi locali e provinciali, un giovane contadino disse: “Ma non eleggiamo e paghiamo i politici anche per pensare?”. Ognuno può darsi la risposta opportuna.
E l’Unione europea?
Per rapporto a quello che sta succedendo in Ucraina non si può indubbiamente fare a meno di pensare che cosa ha fatto e a che cosa avrebbe potuto o dovuto fare l’Unione europea, quell’Unione europea che ha posto alla base della sua origine e del suo impegno costante quello di garantire la pace nel Continente; una pace che – è assolutamente necessario riconoscerlo – ha indubbiamente contribuito in maniera determinante a garantire per molti decenni. Dobbiamo anche onestamente riconoscere che lo stesso dissolvimento dell’Unione Sovietica ha posto il processo di integrazione europea di fronte a nuovi interrogativi, ma ha anche offerto nuove opportunità. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin – dico intenzionalmente di Putin, e non solo Russia o Federazione russa, perché questa è la guerra di Putin più che della Russia e del popolo russo – deve renderci definitivamente coscienti che siamo di fronte ad una nuova, grande, enorme sfida di carattere geopolitico e gli Stati nazionali da soli non riusciranno a gestirla e controllarla senza gravi conseguenze per le relative popolazioni. È assolutamente necessario che i governanti degli Stati nazionali dell’Unione Europea nel loro agire “armino” le proprie coscienze dei valori, dei principi, e soprattutto delle visioni lungimiranti che hanno animato i coraggiosi padri fondatori dell’Unione europea, fra cui il nostro grande Alcide De Gasperi. È stato proprio De Gasperi a essere instancabile sostenitore, fino alla morte, di quella Comunità europea di difesa che doveva costituire una forte unità militare e politica per garantire sicurezza e pace all’Europa. Comunità che purtroppo fallì per la mancata ratifica da parte francese del trattato che la prevedeva e di cui quest’anno si ricorda il 70º della firma; ricordo che la rende estremamente attuale di fronte ai fatti di questi giorni, e che avrà luogo anche a Trento il prossimo 27 maggio.
Gli ucraini lottano e muoiono anche per noi
Pensare che le ambizioni espansionistiche di Putin possano essere soddisfatte con la sola occupazione dell’Ucraina è illusorio. Quella a cui stiamo assistendo è una guerra di Putin all’Europa, e non solo all’Ucraina! Il suo appetito di grandezza è insaziabile. Sappiamo che vi sono già da tempo altri Stati ex sovietici con territori occupati e di fatto amministrati da Mosca; pensiamo ai casi della Repubblica di Moldova e della Georgia. Nella Moldova vi è la Transnistria, fascia di territorio al confine con l’Ucraina. Non mi sorprenderebbe se dopo essere riuscito eventualmente a impadronirsi dell’Ucraina Putin desse ordine alle truppe di continuare il viaggio verso la Transnistria, terra con popolazione a grande maggioranza di lingua russa. Nella Georgia Putin occupa già da tempo l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, due regioni con maggioranza di cittadini di lingua russa. Non è un vago pensiero ritenere che la “visione” di Putin nella concezione dello Stato vada oltre il piano del Ilija Garašanin del 19º secolo, per il quale “Dove risiede un serbo [doveva essere] Serbia. La sua intolleranza verso un’ Unione europea che comprende anche Stati ex sovietici - senza pensare alla sua ossessione nei confronti della Nato – crea certamente spazio nella sua mente all’obiettivo di una destabilizzazione della Casa comune dei Paesi democratici europei. Dobbiamo pertanto essere coscienti che in questo momento gli ucraini non lottano e muoiono solo per la loro patria, ma anche per noi europei, che per ora vediamo in pace al di qua del confine ucraino. Cerchiamo pertanto di riflettere su questo non fantasioso scenario e agire di conseguenza.
Una “solidarietà egoista”
Valore fondante dell’unità europea è stata anche la solidarietà. Lo stesso ministro francese degli esteri Robert Schumann nella sua dichiarazione del 9 maggio 1950 che rappresentò la scintilla che accese il processo di integrazione europea affermò che “l’Europa […] sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Nel corso dei decenni le istituzioni europee hanno certamente esercitato una solidarietà in termini concreti, soprattutto all’inizio della sua esistenza. Negli ultimi tempi, purtroppo, una certa concentrazione sull’interesse nazionale ha indebolito il sentimento di solidarietà, anche se nella società civile abbiamo avuto e continuiamo ad avere splendidi esempi nel praticare questo principio che costituisce una delle colonne portanti della convivenza umana. Nella guerra in Ucraina, accanto ai grandi slanci di generosità istituzionale e sociale a cui stiamo assistendo assistendo - e dove anche il nostro Trentino sta esprimendo il massimo delle sue migliori tradizioni -, abbiamo riscontrato in vari casi a livello politico nello stesso nostro Paese una sorta di “solidarietà egoista”. Di fronte alle sanzioni imposte alla Federazione russa abbiamo sentito parlamentari esprimersi a sostegno dei relativi provvedimenti purché si salvaguardino gli interessi degli italiani. Non mi meraviglierei se nell’avvicinarsi delle elezioni ci sentiremo dire dagli stessi parlamentari “io l’avevo detto che bisognava salvaguardare gli interessi italiani”. Quando si decide di imporre sanzioni per garantire e salvaguardare certi valori si deve mettere in conto che di norma possono esserci conseguenze più o meno penalizzanti per tutti, e pertanto tutti assieme dobbiamo compiere eventuali sacrifici che ci sono richiesti.
Speranza nella gente che costringa i governanti a cambiare
Osservando e seguendo il panorama politico di questi ultimi tempi non ho onestamente ricavato molta fiducia e speranza nel fatto di avere sufficienti governanti che abbiano la volontà di decidere e di voler conferire all’Unione europea reali poteri necessari per una vera e propria politica europea estera e di sicurezza e difesa. In base ai trattati l’Unione europea ha certamente una politica estera e di sicurezza, ma di fatto questa politica non c’è e non può operare come i tempi richiedono. Mi pongo, e pongo a tutti voi, lettori, una domanda. Immaginiamoci che nei giorni scorsi, invece di vedere andare al Cremlino rappresentanti dei governi nazionali in una umiliante passerella davanti a chi faceva finta di ascoltare mentre aveva già deciso molto tempo fa che cosa voleva fare, si fosse presentato a Mosca l’ “Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza” con il reale potere di rappresentare una Difesa costituita dalla forza dei 27 Stati dell’Unione; crediamo che l’Imperialista russo non avrebbe pensato due volte prima di ordinare l’invasione dell’Ucraina? La mia risposta non ha dubbi. Purtroppo Putin conosce bene la debolezza dell’unità europea. Dobbiamo certamente riconoscere che in queste ora nell’Unione europea è emersa un’unità che può far ben sperare. La posizione delle istituzioni UE contro l’aggressione del presidente Putin è stata precisa e dura; altrettanto preciso è stato il rendersi conto di una forte unità europea di difesa. Al riguardo inequivocabile è stato l’appello del nostro presidente e del Consiglio Mario Draghi. Al di là dell’attuale situazione RussiaUcraina, dobbiamo essere coscienti che sotto il profilo strategico Putin ha in essere una decisa politica di espansione oltre l’Europa, con la creazione di zone d’influenza – se imitando o seguendo strategie unitamente alla Cina lo vedremo presto - devono seriamente preoccupare; pensiamo alle mosse già fatte di Putin in Medio Oriente e nell’area del Mediterraneo. E ulteriormente pericoloso è il fatto che il suo folle disegno si pone in un mondo con un crescente autoritarismo che ne facilita il viaggio. Se pensiamo poi al fatto che Putin ha parlato di intervento nucleare la preoccupazione va oltre il terrore. Sono sempre stato convinto che l’Unione europea sia il più importante progetto di unità democratica di popoli mai visto nella storia dell’umanità; una convinzione che non mi lascia nemmeno alle sue debolezze interne di ieri e di oggi. Tuttavia, ho sempre pensato che più che nelle decisioni che possono assumere i governanti per rafforzare concretamente l’unità europea, sia un movimento di base da parte della gente che può costringere i governanti a non essere dei notai che prendono nota di che cosa vuole questo o quel gruppo per soddisfarlo comunque per garantirsi la rielezione. Mi auguro che la tragedia ucraina crei una forte sinergia fra nuova disponibilità degli stati nazionali e pressione della base per rafforzare come i tempi impongono l’unità europea: un’unità necessaria per noi europei e il mondo intero. Sarò un illuso, ma la mia passione per l’Europa mi spinge a sostenere questa speranza.
Giorgio Bagozzi saluta la Cassa Rurale di Trento
di Marco Maestri Originario di Castel Condino, il direttore di banca va in pensione. In un’intervista le soddisfazioni di 44 anni di lavoro e uno sguardo sullo stato dell’economia
Barca in porto con ottimi risultati. Passaggio del timone all’attuale vicedirettore Paolo Pojer ed ora la meritata pensione. Dal primo marzo (e dopo otto anni) Giorgio Bagozzi ha lasciato la guida della Cassa rurale di Trento. Originario di Castel Condino ha rivestito nel corso della propria carriera professionale importanti ruoli.
Finalmente è arrivato il traguardo sperato da molti. Meritato sicuramente. Desiderato altrettanto?
La pensione ha una doppia faccia: da un lato consente di godere appieno – dopo quasi 44 anni di lavoro – della propria sfera personale; dall’altra segna una tappa del proprio percorso di vita, ricchi di un’età e di un’esperienza che ci inducono ad importanti e profonde riflessioni.
Come vive questo pas-
saggio? Non un traguardo: sarebbe troppo triste. Diciamo, una tappa. L’importante è che sia vissuta nella consapevolezza di aver fatto onestamente il proprio dovere ma anche nella fiducia e nel desiderio di poter essere ancora utili, magari in altro modo, alla famiglia, alla società e, in particolare, ai giovani. Mi auguro, con l’aiuto di Dio, di conservare la salute e la lucidità per poterlo fare. La disponibilità, invece, ce la metto io.
Una vita trascorsa in banca ricoprendo spesso ruoli di prestigio. Un bilancio?
Credo di esser stato un uomo fortunato. A partire dalla mia famiglia d’origine che mi ha donato valori importanti e solidi, nonché alla mia attuale famiglia (la mia dolcissima moglie ed i miei splendidi figli): sono ingredienti importanti, indispensabili per qualunque successo. Ho avuto la buona sorte di vivere in anni di grande sviluppo economico e finanziario di cui ha beneficiato tutta la mia generazione. Poi, quella di trovare tanti colleghi e collaboratori preparati e motivati, ai quali devo molto. Infine (ma non sta a me dirlo) un po’ di sano impegno e tenacia.
In che stato di salute lascia la più grande Rurale del Trentino?
“Chi si loda s’imbroda”, ed io vorrei evitarlo. Tuttavia, non posso certo nascondere la realtà e quindi la grande soddisfazione con la quale lascio la Cassa. È solidamente la seconda per dimensione nel Gruppo Bancario (su 70 Banche), chiude con un utile molto significativo (oltre 10 milioni), ha raggiunto tutti gli obiettivi che ci siamo posti, sfiorerà i 300 milioni di patrimonio (con un CET 1 superiore al 23%), avrà quasi 400 dipendenti ed amministrerà quasi 7 miliardi di masse finanziarie. Più di così…
Il mondo del credito cooperativo Trentino come sta?
Una Banca, in qualsiasi parte del mondo, ha una salute molto vicina a quella dell’economia in cui opera. Le banche sono come tronchi galleggianti su un fiume: se l’acqua si alza il tronco pure si alza, e viceversa. È difficile pensare ad una Banca che stia bene in un’economia in crisi. Ci sono alcuni aspetti che rendono una Banca più solida e più resiliente: un territorio sano, un patrimonio elevato, una forte affezione e fiducia della clientela. Sono valori che il Credito Cooperativo Trentino possiede. Quindi, la mia risposta è più che positiva.
Viviamo un’era di fusioni e incorporazioni. Qual è la Sua idea?
È un tema centrale, sul quale mi piacerebbe poter ragionare in ambiti più ampi. In realtà, più che vivere adesso, siamo già vissuti in un’epoca di fusioni: le Casse Rurali Trentine 30 anni fa erano quasi 130; 10 anni fa oltre 50, ora sono 12 e potrebbero ridursi a 7-8. Ciò che conta sono tre cose: la Cassa Rurale è una Banca e deve avere dimensioni e personale qualificato e adeguato per offrire prodotti e servizi degni del XXI secolo; la stessa cosa vale per la fiducia di cui la Banca deve godere da parte della clientela. Fiducia che si regge sul patrimonio, alla professionalità dei dipendenti ed all’autorevolezza della governance; la Banca deve rimanere locale e, viste le dimensioni delle “nuove” Casse, esse sono e rimangono locali. Credo che finché ogni utente potrà accedere facilmente al dialogo di persona con il Presidente, con un Amministratore o con il Direttore Generale, per esporre e discutere i loro problemi e le loro esigenze, significa che la Banca è locale. Le nostre Casse Trentine, queste caratteristiche le hanno tutte. Il resto sono nostalgie, anche comprensibili, ma prive di prospettive future.
La pandemia ha stravolto tutto. Com’è cambiato il rapporto tra banca e utenti?
Non vorrei essere frainteso perché mi rendo ben conto delle sofferenze e delle privazioni che la pandemia ha portato nel mondo. Ma, a voler essere un po’ provocatorio, ogni crisi ci obbliga a cambiare. La pandemia ha inciso anche nei rapporti tra banca e cliente. Ha sancito che l’economia non può girare senza il sostegno della finanza ma, cosa più importante, ha fatto capire che la finanza non ha senso se non come sostegno equilibrato. Ma la pandemia ha anche fatto capire che le operazioni più routinarie non vanno più fatte allo sportello. Finalmente si ha la prova che sono le macchine che debbono fare - ove possibile - il lavoro dell’uomo e non viceversa. Il futuro Banca/ Cliente è sempre più nella relazione avanzata, ad alto valore professionale (consulenza finanziaria, creditizia, assicurativa, previdenziale, tecnica, tecnologica). Li immagina i nostri figli che fanno la fila davanti ad uno sportello? O piuttosto, invece, li vede mentre verificano il loro conto corrente, i loro investimenti, fanno un bonifico su un laptop mentre sono in treno, in aereo, o semplicemente la sera prima di coricarsi? Un vero e proprio toccasana. Purtroppo (e potevamo immaginarlo) qualcuno ha fatto il “furbetto” e ora le maglie si stringono intorno al collo di molti onesti e virtuosi. Mi auguro che il governo trovi presto un’equilibrata soluzione tra la necessità di rinnovare i benefici del superbonus e assicurare che essi vadano solo a chi ne ha realmente diritto. Più preoccupato sono invece per la “fragilità energetica” dell’Italia e dell’Europa. L’Europa ha mille risorse (non solo energetiche). Che le sfrutti con saggezza e coscienza mettendo al margine i populismi.
In tal senso gli istituti di credito rivestono un ruolo fondamentale. Un reale vantaggio o più un danno?
Per coerenza, non posso che dire un danno. Infatti, anche gli Istituti di Credito beneficiavano del superbonus, insieme ai loro clienti (ricorda la metafora del tronco sull’acqua?). Era proprio quella che gli inglesi definiscono una win-win situation.
Qual è la percezione sullo stato di salute economico della comunità Trentina?
L’economia ha subito un duro colpo. Tuttavia, le misure adottate hanno limitato i danni. Posso fornire un dato molto significativo: quasi tutte le imprese nostre clienti hanno chiesto nel 2020 di beneficiare della moratoria. Ad oggi quasi il 90% di queste ha chiesto di riprendere il pagamento. Un segno concreto di una percezione di ripresa confermata anche da altri segnali. Non dico che sarà una passeggiata ma di certo siamo sulla strada giusta a patto che non ci siano altre sorprese inaspettate e che tutti si convincano (sulla base di dati e fatti) che i vaccini sono il migliore strumento che abbiamo per contrastare la pandemia ed accelerare il ritorno ad una vita normale. Prima torniamo alla normalità, prima sboccerà nella gente e nelle imprese la voglia di relazioni, consumi e fiducia nel futuro.
Spostiamo il focus. Cosa Le viene in mente se dico la parola “Giudicarie”, terra d’origine?
Lo ha già detto lei: terra d’origine. Un legame che non ho mai perso pur avendo lavorato per anni in diverse città italiane. Avverto il profumo di amici d’infanzia, di abitudini serene, di musica popolare, di libertà di essere sé stessi. Mi mancano molto alcuni aspetti sociali, culturali e religiosi che stanno soccombendo sotto l’invasione di una “modernità discutibile” e di una superficialità sbalorditiva. Sono amareggiato e preoccupato dall’“apparentemente” incontrastato prender piede di atteggiamenti superficiali, dell’intolleranza verso la cultura, dell’inammissibile abitudine a gridare slogan anziché riflettere sui dati e sulle conoscenze, per arrivare al mancato rispetto di chi è portatore di esperienze, fino al rischio del tramonto della cultura. Questo, secondo me, è il primo e più importante obiettivo da perseguire per chi non vuole relegare la nostra Valle ad essere “periferia”. Il “centro” non lo fanno solo gli Uffici della Provincia, e la periferia non la fanno solo le stalle dei contadini. Non vi è periferia dove alberga cultura.
Dal 01 marzo, sfilata la cravatta, è iniziato pertanto un nuovo capitolo di vita. Cosa si aspetta dal futuro?
Prima di tutto, dovrò pensare a dove mettere tutte le cravatte. Poi, mi affido alla volontà di Dio e al mio desiderio di rendermi utile in qualche modo. Per il resto, facciamo tesoro dei versi immortali di Lorenzo il Magnifico quando scrisse “del doman non v’è certezza”.
Non vogliamo rubarLe altro tempo però i sogni non hanno età. Qual è ora il sogno di Giorgio Bagozzi, ex direttore di banca, oggi compositore di una messa cantata e fresco pensionato?
Di poter rendermi utile, di vivere bene ed in armonia con la mia famiglia, con gli amici e con il mondo. Il tutto con un immancabile sottofondo musicale. C’è in noi tutti il terrore della solitudine e un grande bisogno di umanità e serenità.
MARZO 2022
PAG. 15 Limarò, la Forra diventerà un’attrazione ambientale e paesaggistica
Novità dal fronte Limarò. Dalla sponda destra, per l’esattezza, dove si allestirà interamente il percorso pedonale che da Ponte Arche si dirige in direzione della Forra. L’argomento non è nuovo, se n’è già parlato, ma ci sono alcuni risvolti degni di nota. Ricapitolando, si tratta di un progetto da 2,8 milioni di euro per la realizzazione di un percorso pedonale con punti panoramici, tratti di gallerie e sentieri a sbalzo sul fiume Sarca nella zona della forra del Limarò. Il progetto preliminare, realizzato dall’ingegnere Sandro Tagliaferri, è stato approvato in linea tecnica al Consiglio comunale di Comano Terme lo scorso 3 febbraio. L’opera è supportata dai cinque Comuni delle Esteriori di cui Comano Terme l’ente capofila. “In seguito ai vari sopralluoghi effettuati – ha spiegato nell’occasione il sindaco Fabio Zambotti – abbiamo voluto seguire il parere del Comitato provinciale per la cultura architettonica e il paesaggio. Abbiamo scelto di tenere il percorso interamente sulla destra orografica del fiume a differenza di come si era progettato inizialmente. Si parla quindi di un sentiero ancorato alla roccia fino nella zona della vecchia osteria Speranza, poi a sbalzo sotto il ponte dei Servi fino al ponte Balandin dove si collegherà alle zone già attrezzate nel cuore del canyon”. “Le motivazioni sono piuttosto logiche: intervenire sulla destra significa lasciare integra la parte vergine sulla sinistra e potersela godere dai punti panoramici. Al contrario, sarebbe stato visivamente poco suggestivo osservare da sinistra la parte destra con tanto di statale sovrastante. Situare il percorso sotto alla strada aggiunge poi il vantaggio di sfruttare il sistema di infrastrutture annesse in un’ottica di ulteriore sicurezza e mantenimento del bene”. Ma il grosso cambiamento riguarda l’inizio del percorso, originariamente previsto dal vecchio albergo termale in seguito a demolizione. “La demolizione ci sarà comunque – così il primo cittadino – ma l’accesso al sentiero, appunto sulla destra, coinciderà con la terrazza esterna dell’Antica Fonte delle Terme di Comano”. Un’edificio che necessita di essere ristrutturato e che, insieme alla demolizione del vecchio albergo termale, è da tempo al centro delle attenzioni locali. A farsene carico sarà l’Azienda consorziale delle Terme di Comano con un considerevole appoggio finanziario da parte del BIM del Sarca pari a 800 mila euro. Per la partenza del progetto, Comano Terme ha stanziato 145 mila euro in favore dell’azienda consorziale termale. “I lavori di ristrutturazione - spiega Robero Filippi, presidente delle Terme di Comano - prevedono la sistemazione della terrazza esterna, poi punto di accesso al percorso, e dell’edificio. Qui si progetta già di dedicare il primo piano all’installazione di una mostra permanente per la diffusione della storia ed evoluzione geologica della Forra collegata alla storia e ciclo dell’acqua termale. A piano terra invece ci saranno biglietteria, infopoint e zona deposito attrezzature”. Sì avete capito bene, perchè la gestione del percorso sarà affidata all’azienda termale, che ne regolamenterà gli ingressi durante il periodo di apertura delle Terme. Di nuovo Zambotti, annunciando la prospettiva di una convenzione di appalto trentennale: “La gestione delle Terme sarà garanzia di un servizio di qualità e di un mantenimento del bene pubblico nel lungo periodo”. Tutto questo riportato in sede di Consiglio, non senza l’orgoglio di mostrare la bellezza selvaggia della Forra ripresa da un drone, dove il progetto sembra risultare in equilibrio tra impatto ambientale e valorizzazione paesaggistica. Si inserisce in una serie di interventi volti al rilancio turistico ed economico di valle come la riqualificazione urbanistica di via Cesare Battisti a Ponte Arche, la costruzione di un Centro cardiologico in zona Alberti, la nota variante di Ponte Arche per 67 milioni, la variante delle Gallerie di Ponte Pià per altrettanti 25. Verso la cosiddetta Valle Salus. Un’obiettivo a cui puntano da anni, del resto, le stesse Terme di Comano, tra i principali protagonisti di un contesto turistico che punta su benessere, ecosostenibilità ambientale e valorizzazione del territorio. “Dal 2018 in particolare abbiamo voluto investire in più azioni mirate alla riqualifica del servizio termale, rivolte tanto al Grand Hotel che al Parco delle Terme o ancora alla ricerca e alla nuova linea di cosmesi. La ristrutturazione ed il riutilizzo dell’Antica Fonte chiudono il cerchio di una valorizzazione delle Terme di Comano. La partenza del percorso pedonale dalla sua terrazza consente un accesso all’acqua termale direttamente dalla fonte: si tratta di un’esperienza che, oltre a valorizzare le rinomate proprietà benefiche dell’acqua, contribuisce a creare un legame tra chi la gusta e la stessa Forra in cui sta per addentrarsi”.
di Martina Sebastiani Il consiglio comunale di Comano Terme ha approvato il progetto preliminare. Dalla terrazza esterna dell’antica fonte termale fi no al Ponte Balandin e il percorso già esistente
Per il Trofeo Giovanissimi 800 bambini al Centro Sci Borgo Lares
Grande affluenza al Centro Sci Borgo Lares per le giornate di gare del “Trofeo Giovanissimi”. La manifestazione sportiva ha avuto come protagonisti oltre 800 bambini fra i 5 e i 12 anni che hanno frequentato i corsi di avvicinamento allo sci alpino 2021/2022 organizzati dallo Sci Club Bolbeno. All’evento sono intervenuti anche l’assessore allo sport e turismo Roberto Failoni e il vicepresidente Mario Tonina. “Desidero rivolgere – ha detto l’assessore Failoni – un grande ringraziamento ai responsabili della manifestazione, ai sindaci, ai volontari e a tutte le istituzioni del territorio per aver reso possibile questa giornata di sport e di festa. Ma voglio ringraziare, con altrettanta convinzione, i genitori e i loro bambini per la loro attiva partecipazione. Questo impianto ha una particolare valenza, sia sul piano sportivo, sia sul piano sociale. La Provincia è vicina a tutti voi; insieme, guardiamo con fiducia a un ulteriore sviluppo di questa splendida realtà”. “Bolbeno – ha affermato il vicepresidente Tonina – rappresenta un punto di riferimento non solo per la comunità delle Giudicarie, ma anche per altre realtà trentine e non solo. La Provincia sostiene convintamente iniziative come questa, che puntano alla formazione sportiva di bambini e ragazzi, al loro avvicinamento allo sport e agli importanti valori che esso rappresenta”. E un ringraziamento alla Provincia è arrivato dal sindaco di Borgo Lares Giorgio Marchetti, che ha sottolineato anche l’ottima sinergia fra le diverse municipalità convenzionate, presupposto fondamentale per la riuscita dell’evento in programma fra oggi e domani. Nel corso della premiazione ogni partecipante ha ricevuto un trofeo; a tutti i bambini è stata poi consegnata la “Dolomeet Card”. Il Centro Sci Borgo Lares rappresenta una realtà di particolare importanza sportiva ma anche di valenza sociale, inclusiva, con proposte come la giornata gratuita per le scuole materne e la giornata per gruppi di disabili. Nel 2019 è stato siglato il protocollo con Provincia, Trentino Sviluppo, Bim, Comune di Borgo Lares e Pro Loco di Bolbeno per l’allungamento della pista e la realizzazione di una nuova seggiovia. I Comuni convenzionati sono 42, per un totale di 120.000 residenti. Anche quest’anno, seppur con le limitazioni da Covid-19, sono stati superati tutti i precedenti record di presenze, passaggi e incassi. Alla premiazione hanno preso parte anche la consigliera provinciale Vanessa Masè, i rappresentanti dei Comuni convenzionati, il presidente del Centro Sci Borgo Lares Marco Perottino e il presidente dell’APT Madonna di Campiglio Tullio Serafini.
Accesso al lavoro e inclusione sociale, un progetto per i giovani che non studiano o lavorano
In Trentino la popolazione dei 15-29enni costituisce il 15,6% circa della popolazione totale. A fine 2020 i giovani che non studiano e non lavorano (Neet: l’acronimo deriva dall’inglese ‘Neither in employment or in education or training’), secondo i dati Istat, si attestano attorno alle 14.000 unità, circa il 17%. Un dato che è peggiorato rispetto al 2018, anche a causa della pandemia. Per i giovani trentini arriva un progetto europeo per l’accesso al lavoro e l’inclusione sociale. Si tratta di COPE, un’iniziativa finanziata dalla Commissione Europea nell’ambito di EaSI, il programma Europeo per l’occupazione e l’innovazione sociale. Il progetto partito ufficialmente a gennaio durerà due anni e vedrà l’avvio di specifici programmi di sperimentazione, uno dei quali verrà realizzato in Giudicarie. Il percorso è rivolto a quei giovani, né occupati né impegnati in attività di istruzione o formazione, che sono spesso “fuori dai radar” dei servizi sociali. La Cooperazione Trentina e i suoi partner europei hanno deciso di testare l’efficacia di un intervento innovativo, centrato sulla persona, per fornire supporto ad alcuni dei gruppi più vulnerabili a trovare un lavoro, o ad avvicinarsi al mercato del lavoro, tenendo conto delle specifiche condizioni individuali. L’obiettivo è quello di costruire una rete di prossimità attraverso il coinvolgimento di soggetti istituzionali (come servizi per l’impiego, servizi sociali e abitativi, scuole), organizzazioni di tutela e volontariato e altri portatori di interesse (ad esempio imprese, società sportive, associazioni culturali) per integrare i giovani a rischio marginalizzazione. Sarà infatti possibile accedere ad un supporto per la ricerca di lavoro, formazione professionale, attività per il tempo libero, volontariato, che potrà essere implementato nelle comunità locali tra cui anche le Giudicarie, con programmi diversi a seconda delle esigenze dei ragazzi individuati e che vorranno aderire all’iniziativa. L’opportunità di accedere a finanziamenti e definire progettualità per la crescita economica e sociale delle nostre comunità ha nel programma europeo “Next Generation Europe” un’opportunità irripetibile per uscire più forti dalla pandemia, trasformare le nostre economie e società e progettare un’Europa che funzioni per tutti, a partire da quei giovani che, sfiduciati, non stanno perseguendo un percorso di crescita professionale o scolastica.
di Alberto Carli
La Commissione europea ha fi nanziato un progetto rivolto ai giovani dai 15 ai 29 anni. Una delle sperimentazioni partirà in Giudicarie.
101 anni social
La mia conoscenza con Mario Antolini risale all’inizio degli anni 90, quando riprendevo e mandavo in onda i suoi interventi con le presentazioni di libri riguardanti Bondone e Baitoni, su “TeleBondone”, pionieristica tv locale come quella di Saone di don Gino Flaim, dove Mario era ospite spesso nei programmi culturali della stessa. L’amicizia di Mario con le comunità di Bondone e Baitoni risale ai tempi di don Dino Menestrina, parroco per 25 anni nei due paesi in fondo alla valle del Chiese. Il titolo di questo articolo, forse incomprensibile al momento, un rebus subito risolto, guardando l’intervista rilasciata da Mario. Titolo d’apertura di “Persone” la trasmissione inserita nel telegiornale di Rai Tre delle ore 12 è andata in onda il giorno di Natale, con la presenza in video di Antolini. E’ stato per me un onore presentare Antolini, all’amico giornalista Stefano Cangemi di Rai Tre di Roma, come personalità di spicco delle Giudicarie. Cangemi ha incontrato e intervistato Mario Antolini nel suo studio di Tione alla fine del settembre scorso I poco più dei 4 minuti dedicati al “Maestro-Pubblicista” (non vuole essere chiamato professore) fa onore a un uomo che della cultura, della continua ricerca del sapere ne ha fatta la bandiera della sua vita. La trasmissione si apre con immagini della vecchia Tione, spostandosi nella contrada di Brevine, dove nel bar attuale, era ubicata la tipografia della famiglia Antolini. Brevemente Mario ricorda i 12 anni della fanciullezza passati a Tione, quelli fino ai 37, passati con i salesiani di San Giovanni Bosco, con un periodo della sua vita in Giappone. Ritornato a casa, grazie al giornalista Gorfer, trova il suo primo impiego come corrispondente di valle del giornale “L’Adige “di Trento. Da allora in poi la penna, le macchine da scrivere prima meccaniche e poi quelle elettriche, sono gli strumenti di lavoro di Mario. L’avvento del computer e le sue applicazioni sarà il suo nuovo modo di scrivere e comunicare, e per lui con internet si apre un nuovo mondo di contatti e la possibilità di poter far leggere i suoi scritti a una platea immensa di persone attraverso i social network, persone che lui magari non conosce e che apprezzano le sue pubblicazioni. Il video da una lucida ed esaustiva spiegazione di come l’ultracentenario Mario usa, e come a suo giudizio devono essere usati i ”social”. Mario Antolini è nato a Tione in Giudicarie il 19 giugno 1920. Studi e formazione successivamente a Tione di Trento, Milano, Ivrea, Chieri, Tokyo, Trento, Napoli. Conseguito il diploma delle Magistrali a Trento e la laurea in Scienze Orientali (specializzazione giapponese) a Napoli. Dal 1955 al 1980 insegnante di Scuola Elementare in varie località delle Giudicarie. Dal 1947 opera nel mondo dell’informazione come pubblicista per diverse testate provinciali e non solo. Impegnato come appassionato di storia e geografia locali. Diverse le sue pubblicazioni editate. Coinvolto in attività culturali, figura tra i fondatori del Centro Studi Judicaria con sede a Tione di Trento. Notevole la sua partecipazione in varie associazioni di volontariato. Dalla fondazione de “Il Giornale delle Giudicarie” è stato sempre un collaboratore assiduo e importante. I suoi editoriali mensili, anche attuali, sono molto letti ed apprezzati. A quasi 102 anni è tuttora presente sui “social” (in “facebook”) con inserti quotidiani. “La telematica ha eliminato distanze tra popoli, nazioni e continenti”, questa sua affermazione trova riscontro nei 4731 amici, come li chiama lui, che ogni giorno leggono quello che scrive. Ecco cosa dice Mario riguardo a quello che si aspettano da lui i suoi lettori: “Tutti i giorni aspettano il mio pensiero, che deve riguardare il modo di vivere bene.” Ultima riflessione di Mario in chiusura di trasmissione: “Io credo che l’età più bella sia quella dove tu ti senti contento di te, senza desideri e senza rammarichi...” Mario auguri, e avanti tutta nella tua serenità, quella che tu affermi di avere e nella fiducia nel Signore che hai per il tuo domani.
Gianpaolo Capelli
Javrè, il biodigestore aspetta le decisioni del comune
di Giuliano Beltrami
I promotori premono perché si proceda, dopo aver ricevuto il via libera della Commissione d’esame provinciale. Serve ora una variante al Prg e il comune prende tempo.
“Egregio Signor Sindaco, siamo con orgoglio a comunicarle che abbiamo finalmente il benestare tecnico e paesaggistico da parte della Commissione di Esame della Provincia Trentina, in particolare dell’Assessorato all’Agricoltura e dell’Assessorato all’Ambiente, appositamente riunitasi per il nostro progetto di Territorio di cui anche ai vari colloqui con lei e la sua Giunta tenuta preventivamente informata fin da dicembre 2019. In allegato le invio un sunto con le mie note preliminari per aiutare la pratica all’ottenimento veloce del ‘Permesso a Costruire’. Resto in attesa di un vostro gradito riscontro per poter proseguire la pratica del Permesso, affidata ad un tecnico locale”. Firmato: ingegner Marco Baudino. Il sindaco in questione è Enrico Pellegrini, di Porte di Rendena. Baudino è il presidente di Future Power, la società che desidera realizzare, in compagnia di alcuni soci, il mini impianto di biodigestione di Iavrè. Baudino (ahilui!) attendeva un “gradito riscontro”, ma sono passati i mesi (fra un po’ diremo che sono passati gli anni) e l’azienda è ancora in attesa. L’azienda. Partiamo dall’inizio. Rendena Organic è una società formata da soci rendeneri e non rendeneri. Nello specifico, è una srl cui partecipano Future Power srl (sede a Torino, con il 47,5% del capitale sociale), Winning Energy srl di Brescia (con il 13%), Renergon Projekt Gmbh (Svizzera, con il 10%), l’allevatore di Pinzolo Fabio Maffei (con un altro 10%) e tre soci (la famiglia di William Bonomi, ex sindaco di Pinzolo, lo studio di Roberto Simoni, già presidente della Cassa Rurale di Pinzolo, oggi presidente della Federazione della Cooperazione trentina, e Lorenzo Cozzio, commercialista pure lui, socio di studio di Bonomi, nonché presidente del Comitato esecutivo della Cassa Rurale Adamello Giudicarie Valsabbia Paganella) con il restante 19,5%. La società decide di realizzare un biodigestore a Iavrè, nella proprietà del noto allevatore Elio Valentini, con una filosofia precisa, così sintetizzata ufficialmente: “Realizzazione di un mini digestore anaerobico ad alta efficienza con tecnologia a solido per la rigenerazione biologica di reflui e di letame zootecnico”. Apriti cielo! Le contestazioni sono partite subito, perché un biodigestore viene vissuto con diffidenza per la paura che oltre ai reflui bruci anche materiale pericoloso. Questo l’irrazionale. Poi c’è il razionale. Michele Corti (professore universitario che gestisce un sito senza veli, Ruralpini) sostiene che tutta ‘sta innovazione predicata dai promotori dell’impianto non esista: infatti, a suo dire, “si “rimedia” con il biogas, un pretesto per riempire le tasche degli speculatori e per creare problemi di inquinamento ancora maggiori (sì, perché le centrali che funzionano solo a deiezioni zootecniche hanno resa bassa e si devono immettere biomasse più energetiche, con il risultato di avere un output di azoto ancora maggiore e in forma quasi tutta ammoniacale, quindi facilmente lisciviabile e inquinante)”. Insomma, si ucciderebbe la biodiversità. Vero? Falso? Eccesso di preoccupazione?
La voce dei promotori
I responsabili di Future Power non accettano le accuse di speculazione. “La società, che detiene la maggioranza relativa di Rendena Organic, ha sede a Torino perché lì si è costituita e per altri motivi legati ai sui soci. Sia noi che Renergon (società svizzera nostra partner) sugli impianti che realizziamo, specie i primi, ci mettiamo non solo la faccia, ma anche i nostri investimenti”. A proposito delle dimensioni dell’impianto. “In genere i biodigestori sono di grandi dimensioni, sia come potenza – di oltre un megawatt – sia come spazio (almeno due ettari). Sono digestori da più di trenta metri di diametro, con minimo di tre unità per megawatt di potenza. Data la dimensione, sono alimentati da molto materiale - diluito con molta acqua – parte del quale spesso deve arrivare da lontano, da fonti esterne e vergini, il tutto anche con importante movimenti di vari mezzi di trasporto e con logistiche impegnative. Niente di tutto ciò a Iavrè. Il primo impianto di Rendena sarà da 99 chilowatt. I digestori sono dei Box chiusi ermeticamente. Data la sua efficienza, l’impianto è dimensionato per una quantità di organico ricavabile dal solo allevamento a cui l’impianto è dedicato. La sua funzionalità diventa quindi anche un servizio al territorio, senza alcun impatto negativo e con la possibilità di eliminare in modo semplice e sicuro molti dei tipici problemi di smaltimento di scarti organici. L’impianto non produce rumori né odori sgradevoli né emissioni fastidiose, né traffico frequente di mezzi pesanti”. Vero? Falso? Eccesso di ottimismo?
Il comune riflette
Ci sono circostanze della vita in cui di fronte ad un evento ti vien da dire: “Maledizione, proprio a me doveva capitare?”. Non sappiamo se il sindaco di Porte di Rendena Enrico Pellegrini abbia mai pensato una frase simile. Di sicuro immaginiamo la situazione in cui è stato cacciato dalle pressioni seguite al progetto. Prima cosa: serve una variante al Piano regolatore generale. Seconda: c’è chi ha promesso raccolte di firme. Terza: anche i progettisti e i soci di Rendena Organic premono per ottenere l’autorizzazione, peraltro già rilasciata dalla Provincia. Insomma, un bel guazzabuglio.
La rendena, le stalle e il letame
Il “Caso Rendena”, ossia l’impressione che i nodi di uno sviluppo poco (o non) sostenibile stiano venendo al pettine. Riduzione delle piccole stalle in favore di quelle grandi. Ma può convivere un sistema simile con un ambiente ristretto e delicato come quello di montagna? Per chi suona il campanello d’allarme? Si potrà continuare ancora a lungo ad ignorare (o quantomeno sottovalutare) gli sversamenti e le montagne di letame da spargere accanto alle strade e sulle rive del fiume? Tutte domande da affidare alla pubblica Amministrazione (sia essa locale o provinciale), ma anche agli allevatori, ai sindacati di riferimento, a forestali e veterinari. In definitiva alle comunità che qui vivono, agli operatori economici del settore turistico. Già, perché non dimentichiamo che la valle che sale verso Campiglio ha una tradizione turistica. E c’è un’ultima domanda, seria: possono convivere il turismo di massa con un’agricoltura come quella attuale della Rendena?
MARZO 2022
PAG. 19 Francesco in tv, un Papa che parla al mondo con i mezzi del mondo
di Adelino Amistadi Durante poco meno di un’ora di collegamento con la trasmissione “Che Tempo Che Fa” il Papa ha parlato dei più importanti temi sociali sul tappeto ma anche e soprattutto ha parlato di Gesù Cristo, del futuro della Chiesa, della preghiera e della necessità di non scendere mai a patti con il male.
Papa Francesco ha scritto un nuovo capitolo di storia della televisione concedendo la sua prima intervista alla tv italiana. Domenica 6 febbraio 2022, su Rai tre, il Pontefice, ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, in collegamento dalla sua residenza di Santa Marta, in Vaticano, si è concesso ad una intervista a 360° toccando i più svariati temi della sua missione apostolica: dai temi di attualità, ai temi istituzionali e sociali, fino a vari aneddoti e curiosità della propria vita. Durante l’intervista più di 6,7 milioni di Italiani hanno ascoltato le parole del Santo Padre con picchi di quasi 9 milioni di telespettatori. Un Papa da record, insomma, che ha fatto impazzire l’Auditel. Numeri confermati dai social con oltre 672 mila interazioni tra tweet, condivisioni, commenti e mi piace. Durante poco meno di un’ora di collegamento, il Papa ha parlato dei più importanti temi sociali sul tappeto, ma anche e soprattutto ha parlato di Gesù Cristo, il futuro della Chiesa, della preghiera e della necessità di non scendere mai a patti con il male. Il giorno dopo i giornali ne hanno scritto in lungo e in largo riportando per gran parte le parole del Papa, a dir il vero ci sono stati anche i soliti critici: un Sommo Pontefice a un talk show, per qualcuno, è sembrato una sorta di sacrilegio. Secondo loro il Papa dovrebbe mantenere sempre una certa distanza, parlare poco e nelle sedi appropriate. Cosi i Papi hanno fatto nei secoli. Il mio parere è invece totalmente favorevole perché i tempi cambiano, e se è vero che il cristianesimo vuol essere universale, il Papa può, anzi deve, parlare al mondo con i mezzi del mondo. Gli stessi problemi li ebbe anche Papa Pacelli quando introdusse microfoni e auto-parlanti non solo in Vaticano, ma anche in tutte le Chiese del mondo. Come dicevo i temi toccati nell’intervista da Papa Francesco sono stati numerosi e variegati, cercherò ora di farne un breve riassunto per chi non abbia avuto la possibilità di seguire l’intervista dal vivo. Credo che ci sia per molti tanto su cui meditare. Aiutandomi con quanto scritto dall’ “Avvenire” il giorno dopo, cercherò di toccare i punti più interessanti dell’intera intervista. Partendo dalle guerre. “Il problema è l’indifferenza. Ci sono categorie: le guerre sono al primo posto e le persone al secondo. Ne è esempio lo Yemen soffre la guerra e da quanto si parla dei bambini dello Yemen: ci sono categorie che sono importanti ed altre che non importano a nessuno: i bambini, i migranti, i poveri, coloro che non hanno da mangiare. Questi non contano, almeno non contano al primo posto. Senza produrre per un anno si potrebbe garantire l’istruzione ai bambini di tutto il mondo.” Poi, interrogato sul futuro della Chiesa, papa Francesco si è espresso così: “La immagino come l’ha immaginata san Paolo VI, un Chiesa in pellegrinaggio. Oggi, ha aggiunto il Pontefice, il male più grande della chiesa è la mondanità spirituale. E’ il peggior male che può accadere, peggio ancora dei papi libertini, e fa crescere una cosa brutta: il clericalismo che è una perversione della Chiesa che genera la rigidità. E sotto ogni tipo di rigidità si nasconde sempre la putredine. La Chiesa va avanti con la forza di Dio. Dobbiamo tornare a mettere al centro il Verbo che si è fatto Carne. In questo scandalo della croce del Verbo incarnato c’è il futuro della Chiesa.” Anche sulla preghiera il Papa si soffermato in modo particolare: “Pregare è incontrare il proprio papà, come ci ha insegnato Paolo. Quando dici papà a Dio vuol dire che stai andando bene sulla via religiosa. Bisogna imitare i bambini che vogliono che lo sguardo del papà sia sempre su di loro perché questo dà loro sicurezza. Pregare significa guardare i nostri limiti, i nostri bisogni, i nostri peccati e dire papà guardami, il tuo sguardo mi purifica, mi da forza, pregare è entrare con la forza oltre i limiti e l’orizzonte”. Largo spazio nell’intervista hanno avuto i temi sociali. “Ci sono lager nella Libia” ha detto il Pontefice. “Dobbiamo pensare alla politica migratoria e l’Europa deve farlo assieme. L’Unione Europea deve mettersi d’accordo evitando che tutto l’onere ricada su alcuni paesi, come l’Italia e la Spagna, ricordando la sofferenza dei migranti che attraversano il Mediterraneo che ormai è diventato un cimitero, per sfuggire alle guerre ed alla fame. E allora non bisogna girarsi dall’altra parte” “Ci manca il toccare le miserie ed il toccarle ci porta all’eroicità, penso ai medici e agli infermieri che hanno toccato il male durante la pandemia ed hanno scelto di stare lì. Il tatto è il senso più pieno, toccare è farsi carico dell’altro.” E per quanto riguarda l’ambiente papa Francesco s’è dimostrato molto preoccupato: “Occorre anche prendersi cura della Madre Terra. Buttare plastiche ed altre porcherie in mare è da criminali, la plastica uccide la terra, dobbiamo tutelare la biodiversità, dobbiamo prenderci cura del Creato” Poi con uno sguardo alle famiglie: “ Serve vicinanza con i figli: quando si confessano coppie giovani o parlo con loro chiedo sempre: tu parli con i tuoi figli? A volte sento risposte dolorose: Padre, quando esco dormono e quando torno pure. Questa è la società crudele che allontana i genitori dai figli. Anche quando i figli fanno qualche scivolata, anche da grandi, bisogna essere loro vicini, bisogna parla re con i figli...” E infine il Santo Padre s’è lasciato andare a raccontare della sua vita e dei suoi gusti personali. Sulla musica, innanzi tutto: “ Mi piace tanto la musica classica, tanto. E mi piace il tango e lo ho anche ballato perché un “porteno” che non balla il tango non è un “porteno”( si chiamano così gli abitanti di Buenos Aires). E sugli amici. “Si, ho degli amici che mi aiutano, pochi ma veri, con loro c’è un rapporto normale” Poi ha scherzato: “Non che io sia normale, ho delle mie anormalità, ma mi piace stare con gli amici. Io ho bisogno degli amici. É uno dei motivi per il quale non sono andato ad abitare nell’appartamento pontificio. Gli altri Papi sono santi, ma io non sono tanto santo, ho bisogno di rapporti umani”. Il Papa infine ha raccontato alcuni aneddoti della sua infanzia e giovinezza: “ Da bambino volevo fare il macellaio perché quando andavo con mia mamma o con mia nonna vedevo il macellaio che riempiva la sua borsa di soldi...sarà la mia radice genovese… poi da studente mi ero appassionato alla chimica ed alla medicina, stavo per entrare all’università, ma poi è arrivata la vocazione e sono entrato in seminario. Lei dice che ho senso dell’umorismo? Ricordate che il buon umore è una medicina, c’è anche una preghiera di Tommaso Moro che recito sempre.” Il Papa poi si è così congedato : “Ho bisogno delle preghiere, chiedo a chi crede di pregare per me. E a chi non crede di mandarmi buoni pensieri, buone vibrazioni. Voglio ricordare la scena di un film del dopoguerra, credo con Vittorio De Sica che leggeva le mani e chiedeva 100 lire. Ecco, io vi chiedo 100 preghiere.”
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La lunga storia dell’AIDS
di Gianni Ambrosini - oncologo La malattia, sviluppata in uno scimpanzè e trasmessa all’uomo per anni fu sconosciuta. Oggetto di una lunga diatriba scientifi ca, alla fi ne il Nobel per la sua scoperta fu assegnato a Luc Montagnier e Francoise Barrè-Sinoussi
“...I Virus sono quelli che danno più problemi. Si evolvono con rapidità, non sono sensibili agli antibiotici, sono a volte difficili da trovare, possono essere molto versatili e portare tassi di mortalità altissimi. E tuttavia sono diabolicamente semplici se paragonati ad altre creature viventi “. Negli anni 80 alcuni medici statunitensi - Michael Gottlieb, Joel Weisman e Alvin Friedman-Kien - si imbatterono in una malattia causata da un patogeno sconosciuto, lento e quasi invisibile che avrebbe provocato negli anni una pandemia con milioni di morti. Erano giovani maschi gay, sessualmente attivi, affetti da polmonite da Pneumocisti Carini, da micosi da Candida Albicans e assenza quasi completa di CD4, una popolazione di Linfociti T fondamentali per il funzionamento del sistema immunitario. Ma successivamente si ammalarono eterosessuali, tossicodipendenti, emofilici e gente sfortunata. La malattia, sconosciuta allora e che oggi chiamiamo AIDS, e nei paesi di lingua francese SIDA ( Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita ), fu etichettata come tale nel settembre del 1982. Ma se dare un nome alla malattia fu semplice, non fu facile scoprirne la causa. Ci si rese conto che le infezioni opportunistiche, in individui in precedenza sani, non potevano che essere causate da un agente unico. Ma quale? L’ipotesi del virus sembrò la più plausibile e dal momento che la platea dei colpiti riguardava anche soggetti emofilici, la malattia non poteva essere causata da un batterio, un fungo o un protozoo. Tutti questi germi vengono trattenuti dai filtri attraverso cui passano i prodotti sanguigni necessari alla vita degli emofilici. Furono tre scienziati a giocarsi la partita: Luc Montagnier, Robert Gallo e Yay A. Levy. Luc Montagnier, dell’Istituto Pasteur di Parigi, e Francoise Barrè-Sinoussi furono gli scopritori riconosciuti del Virus e nel 2008 vinsero il premio Nobel. Ma la strada della scoperta è irta di incomprensioni e di litigi finiti anche in tribunale fra Montagnier e Gallo, ambizioso ricercatore del Cancer Institute di Behesda nel Maryland (USA). Montagnier era un esperto di virus capaci di causare il cancro e nello specifico di Retrovirus. Gallo nel 1981 aveva scoperto il Retrovirus che provocava la leucemia a cellule T o HTLV ( Human T-Cell Leukemia Virus ). Questo virus attacca i Linfociti T e li trasforma in cellule cancerose. Gallo fu fuorviato da questa scoperta e arrivò dopo Montagnier, perché era convinto che il nuovo virus fosse un parente stretto di quello della leucemia a cellule T. Il gruppo di Montagnier invece scoprì il virus nelle linfoghiandole di un omosessuale e lo battezzò LAV (Linfoadenopatia Associata al Virus). Entrambi pubblicarono i risultati dei loro studi sulla stessa rivista a fine primavera del 1983. Una revisione successiva dimostrò che il virus scoperto da Gallo era identico a quello di Montagnier. Ma la competizione era in atto e la polemica durò molti anni. Levy pubblicò i suoi risultati l’anno dopo. E’ comunque accertato che si era di fronte ad una “zoonosi e che il virus dell’HIV ( Human Immuno-deficiency Virus) si era sviluppato in una scimmia attraverso mutazioni successive e in moltissimo tempo. È accettato da tutti che il “quando ” il virus si sia sviluppato risale agli inizi del secolo scorso, il 1908 circa. Il “dove”, nella parte sud orientale del Camerun e il serbatoio uno scimpanzé (Pan Troglodytes Troglodytes ). Se sono tutti d’accordo che la malattia chiamata AIDS sia nata dopo uno Spillover tra uno scimpanzé ed un essere umano, resta da raccontare il “come ” si sia diffusa in tutto il mondo fino a causare milioni di morti. Per intenderci: un singolo evento, un contatto accidentale di sangue, ha trasferito HIV-1 sottospecie M da uno scimpanzé ad un uomo. Ma c’è voluto del tempo, molto tempo perché si sviluppasse la pandemia! Dal Camerun il virus è arrivato nel Congo fino a Brazzaville e Léopoldville. Ma l’infezione è silente, passano anni prima che si abbiano le manifestazioni cliniche. Ha giocato a favore del virus la situazione socioeconomica dell’Africa del periodo coloniale. Nella prima metà del secolo scorso c’erano malattie tropicali che mietevano milioni di vittime all’anno: la tripanosomiasi (la malattia del sonno) trasmessa dalle mosche tse-tse, la lebbra, la malaria, la framboesia, la sifilide. Si curavano tutte con iniezioni di farmaci. C’erano delle squadre di “injecteurs” che non avevano nessuna competenza medica a cui veniva solo insegnato a pungere e i cicli di cura duravano a volte anche un anno. E le siringhe? Erano degli attrezzi artigianali che venivano solo lavate e qualche volta bollite. Un medico coloniale francese Eugène Jamot fra il 1917 e il 1919 in una regione dell’Africa equatoriale francese curò 5.347 casi di malattia del sonno con solo 6 (sei) siringhe! Da conti fatti si presume che nella prima metà del secolo scorso siano state fatte 3,9 milioni di iniezioni di farmaci per la cura della tripanosomiasi; e il 74 % erano iniezioni endovenose. Era il modo migliore di trasmettere un virus di cui si ignorava l’esistenza ma che c’era e viveva nel sangue. E la situazione fu complicata ancora di più dagli sviluppi politici che si verificarono nel Congo. Nel giugno del 1960 il movimento indipendentista di Patrice Lumumba costrinse il Belgio ad abbandonare il Congo: era una colonia e si chiamava Congo Belga. Di fatto migliaia di bianchi che costituivano la classe media lasciarono il paese e ritornarono in patria. Si pensi che non c’era nemmeno un laureato in medicina fra la popolazione congolese ! Il Belgio s’era ben guardato dal promuovere la scolarizzazione della gente del posto. L’OMS e l’ ONU favorirono l’emigrazione di tecnici da tutto il mondo. La maggior parte venivano da Haiti : parlavano francese come i congolesi, avevano origini africane ed erano uomini soli. Erano già presenti in gran numero le così dette “femmes libres”, ma come è facile intuire la prostituzione schizzò e portò a numeri inverosimili di gonorrea e sifilide, che allora si curavano con iniezioni di bismuto. La situazione precipitò di nuovo negli anni 70 quando Mobutu cambiò nome a se stesso e al paese che diventò Zaire e gli haitiani furono costretti ad andarsene. E non solo loro! Ma la strada per il virus era segnata : insieme ai ricordi, tantissimi si portarono a casa anche il virus; dormiente ma molto attivo e pronto ad azzannare i CD4 del sistema immunitario. Il resto della storia è facilmente intuibile e nota, come pure non si può non pensare ai tantissimi errori che si commisero… di ogni tipo, quando la pandemia si sviluppò. A distanza di anni abbiamo le cure che permettono ai positivi una vita quasi normale ma purtroppo non abbiamo ancora un vaccino.
MARZO 2022
PAG. 21 Scuola e gestione dei casi Covid: le ultime novità
Ancora novità sul fronte Covid e scuola, con l’introduzione della quarantena ridotta e la nuova defi nizione dei casi che fanno scattare il quarantenamento della classe. E per rientrare in classe è possibile prenotare il tampone di fi ne quarantena scolastica senza l’impegnativa del proprio medico o pediatra. Il CUP online consente infatti di prenotare senza ricetta il tampone antigenico rapido in una delle farmacie convenzionate con l’Azienda provinciale per i servizi sanitari. Al momento dell’effettuazione del tampone nella farmacia prescelta occorre presentare il Certifi cato di sospensione scolastica emesso dalla scuola oppure il Certifi cato di quarantena/isolamento fi duciario della classe emesso dal Dipartimento di prevenzione di Apss. Ricordiamo quali sono i nuovi criteri di sospensione/quarantena scolastica defi niti dall’ordinanza del presidente della Provincia autonoma di Trento n. 88 del 6 febbraio 2022.
Nidi e scuole d’infanzia
Fino a quattro casi di positività nella stessa sezione/ gruppo (compresi educatori e insegnanti) le attività proseguono in presenza con mascherina FFP2 per educatori e insegnanti per dieci giorni (dall’ultimo caso). È obbligatorio effettuare un test (antigenico rapido o molecolare) alla prima comparsa dei sintomi. A partire da cinque casi di positività nell’arco di cinque giorni le attività in presenza vengono sospese per cinque giorni (dal giorno successivo all’ultimo giorno di presenza dell’ultimo caso positivo). Vengono considerati solo i casi positivi che abbiano frequentato la scuola nei tre giorni precedenti al giorno di effettuazione del tampone positivo. Per la riammissione a scuola in sesta giornata occorre presentare un tampone antigenico o molecolare negativo. Senza tampone il rientro può avvenire in quindicesima giornata (così come defi nito dal certifi cato di isolamento fi duciario di Apss).
Scuola primaria
Fino a quattro casi di positività nella stessa classe le attività didattiche proseguono in presenza con mascherina FFP2 per i docenti e gli alunni con più di sei anni per dieci giorni (dall’ultimo caso). È obbligatorio effettuare un test (antigenico rapido o molecolare) alla prima comparsa dei sintomi. A partire da cinque casi di positività nell’arco di cinque giorni le attività in presenza vengono sospese e viene attivata la didattica a distanza per cinque giorni (dal giorno successivo all’ultimo giorno di presenza dell’ultimo caso positivo). Vengono considerati solo i casi positivi che abbiano frequentato la scuola nei tre giorni precedenti al giorno di effettuazione del tampone positivo. Per la riammissione a scuola in sesta giornata occorre presentare un tampone antigenico o molecolare negativo. Senza tampone il rientro può avvenire in quindicesima giornata (così come defi nito dal certifi cato di isolamento fi duciario di Apss).
Per il tampone di rientro dopo la quarantena non serve prescrizione del medico
Covid-19: quarantena ridotta anche per i non vaccinati asintomatici
La circolare del ministero della salute del 4 febbraio 2022 ha ridotto la quarantena da dieci a cinque giorni per i contatti stretti (conviventi e non conviventi) non vaccinati, che non abbiano completato il ciclo vaccinale primario o che lo abbiano completato da meno di 14 giorni. È sempre soggetto a cinque giorni di quarantena dall’ultimo contatto con il positivo anche chi ha completato il ciclo vaccinale primario o è guarito da più di 120 giorni. La quarantena di cinque giorni termina sempre con un tampone negativo. Se durante la quarantena si manifestano sintomi si raccomanda di eseguire immediatamente un test. Per i contatti stretti (conviventi e non conviventi) che: • abbiano ricevuto la terza dose «booster» • abbiano completato il ciclo vaccinale primario nei 120 giorni precedenti • siano guariti nei 120 giorni precedenti • siano guariti dopo il completamento del ciclo primario non è prevista la quarantena e si applica un periodo di auto sorveglianza di cinque giorni (obbligo di mascherina FFP2 per dieci giorni). In caso di sintomi va fatto un tampone (eventualmente ripetuto dopo cinque giorni).
Centro vaccinale Tione: le aperture del mese di marzo
Per accedere al centro vaccinale di Via Roma (Teatro comunale) è consigliata la prenotazione al CUP online per evitare attese, agevolare il lavoro del centro e anche per avere l’opportunità di scegliere la tipologia di vaccino. Sarà comunque possibile presentarsi senza appuntamento. Gli orari di apertura possono subire variazioni.
Martedì 1 marzo Mercoledì 2 marzo Giovedì 3 marzo Venerdì 4 marzo Martedì 8 marzo Mercoledì 9 marzo Giovedì 10 marzo Venerdì 11 marzo Martedì 15 marzo Martedì 22 marzo Giovedì 24 marzo Martedì 29 marzo Giovedì 31 marzo
Vaccinazioni adulti
13-16 9-12 9-12 9-12 13-16 9-12 9-12 9-12 13-16 13-16 11-12 13-16 11-12
Scuola secondaria di primo e secondo grado
Fino a due casi di positività le attività didattiche proseguono in presenza con l’utilizzo di mascherina FFP2 per dieci giorni da parte di docenti e studenti. Con tre o più casi di positività nell’arco di cinque giorni (in cui i positivi abbiano frequentato la scuola nei tre giorni precedenti la positività), gli studenti che hanno concluso il ciclo vaccinale primario da meno di 120 giorni, che sono guariti da meno di 120 giorni o che hanno effettuato la terza dose «booster», proseguono l’attività didattica in presenza con mascherina FFP2 per dieci giorni; per tutti gli altri le attività didattiche in presenza sono sospese e viene attivata la didattica digitale integrata per cinque giorni. Per la riammissione a scuola in sesta giornata occorre presentare un tampone negativo.
Nell’Azienda provinciale per i servizi sanitari il Polo Universitario delle professioni sanitarie gestisce cinque corsi di laurea triennale: • laurea in Infermieristica (sede a Trento) • laurea in Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro (Trento) • Laurea in Igiene dentale (Rovereto) • Laurea in Fisioterapia (Rovereto) • Laurea in Tecnica della riabilitazione psichiatrica (Rovereto) La formazione universitaria delle professioni sanitarie è realizzata all’interno di un protocollo di intesa che vede coinvolti la Provincia autonoma di Trento, la Scuola di medicina e chirurgia dell’Università degli studi di Verona e l’Università degli studi di Trento. La collocazione ideale dei laureati delle professioni sanitarie è all’interno di ospedali, cure domiciliari, ambulatori pubblici e privati, strutture per la riabilitazione e enti o aziende che si occupano di promozione e tutela della salute pubblica negli ambienti di vita, lavoro e prevenzione ambientale. I corsi offrono, inoltre, possibilità di sviluppo professionale post-laurea: laurea magistrale, master universitari e dottorato di ricerca e attività occupazionali nella dirigenza, nell’insegnamento universitario, nella formazione continua e nella ricerca. In base agli ultimi dati Alma Laurea e Istat, tra le lauree triennali a un anno dalla laurea i migliori esiti occupazionali si riscontrano per i corsi delle professioni sanitarie con una percentuale che arriva al 98,9% di occupati. In particolare per i laureati del Servizio Polo universitario delle professioni sanitarie i dati raccolti evidenziano ottime prospettive lavorative: il tasso di occupazione ad un anno dalla laurea in igiene dentale è del 92%, in infermieristica è del 99%, in fi sioterapia del 96 %, in tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro del 72% e, infi ne, per Tecnica della riabilitazione psichiatrica del 77%. Per l’anno accademico 2022-2023 i percorsi formativi dei corsi di laurea delle professioni sanitarie vengono presentanti il 2, 3 e 8 marzo con dei pomeriggi di orientamento allo studio in modalità online. Solitamente le iscrizioni – per circa 220 posti disponibili – aprono a luglio e il test di ammissione è a metà settembre. Il servizio politiche sanitarie e per la non autosuffi cienza della Provincia autonoma di Trento organizza ogni anno un seminario gratuito in streaming per la preparazione del test di ammissione.
PAG. 22 MARZO 2022
Porto Franco Nel mondo più trentini che passeri
di Ettore Zampiccoli
Attori, senatori, beate, perfi no uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. Il monito è a valorizzare la realtà dell’emigrazione per conservare il Trentino nel mondo ed aprirsi a prospettive culturali ed economiche
Parafrasando una battuta di Niccolò Macchiavelli – riferita ai fiorentini – si potrebbe dire che nel mondo ci sono forse più trentini che passeri. Quanti sono, in effetti, i trentini di seconda o terza generazione, figli di padri o nonni emigrati a suo tempo in varie parti del mondo? Pensiamo che esattamente nessuno lo sappia, perché un censimento serio, peraltro difficile, nessuno lo ha mai promosso. C’è peraltro qualche dato significativo. Padre Al Barozzi, originario di Rovereto (ora vive a New York ed è tra l’altro direttore di una radio italiana) qualche anno fa condusse una ricerca interessante, poi raccolta in un libro: a New York i discendenti di emigrati trentini sono circa 10.000. A Toronto sono circa 3.500, a Montreal 1.500. Se poi scendiamo nel sud America addirittura c’è una città che si chiama Nova Trento. Insomma in giro per il mondo siamo tanti. E tra questi tanti ci sono decine di discendenti trentini che hanno acquisito posizioni importanti e meriterebbero una certa attenzione. Cito a caso alcuni nomi, partendo da lontano, ovvero da padre Eusebio Chini, gesuita di Segno che civilizzò gli indios della California. Quanti sanno che negli Stati Uniti è considerato uno dei fondatori degli Stati Uniti e che una sua grande statua è collocata nel famedio della Casa Bianca? Ma poi qualche altro nome: il cardinale Bernardin di Chicago, l’attore Victor Mature, originario di Pinzolo, Frank Borzage, regista vincitore di due premi Oscar, madre suor Paolina (Visintainer) di Vigolo Vattaro proclamata Beata a Florianopolis in Brasile, padre Geno Baroni, già sottosegretario di Stato ai tempi di Carter, Gioia Libardoni attrice e Peter Facinelli attore, Joao Pedro Stedile leader del movimento Senza Terra in Brasile, il senatore De Concini dell’Arizona, il senatore Albertini, padre Bonifacio Bolognani che raccontò del coraggioso popolo delle Dolomiti, per arrivare a Mark Povinelli, l’attore-nano che va per la maggiore sulle tv e nei cinema americani, tra l’altro presidente dell’associazione statunitense Little People, che si occupa dei diritti delle persone affette da nanismo. E l’elenco potrebbe proseguire aggiungendo trentini che hanno fatto fortuna nel commercio, nell’industria, nella sanità ecc. e sono tanti. Tutto per dire che forse il mondo dell’emigrazione trentina meriterebbe più attenzione attraverso un progetto di valorizzazione ed attualizzazione. Ci sono Regioni che su questa strada stanno facendo molto: basterebbe guardare alla Puglia, dove l’emigrazione è valorizzata in funzione soprattutto della cultura e delle opportunità economiche che può creare, oppure alla Sicilia che attraverso la Niaf (National Italian American Foundation) svolge una intensa attività di scambi culturali ed economici fra gli Stati Uniti e l’Italia. Ci sono delegazione di industriali ed imprenditori americani che, grazie alla Niaf, vanno e vengono dall’Italia combinando affari; ci sono decine di ragazzi delle varie regioni italiane che, grazie alla Niaf, vanno a studiare nelle università americane, Ogni anno la Niaf organizza a Washington una giornata di valorizzazione delle varie regioni italiane (quest’anno sarà l’Abruzzo) con varie iniziative e una serata conclusiva alla quale partecipano i duemila/ tremila italo-americani che negli Usa contano (attori, politici, amministratori ecc.) e quasi sempre il presidente degli Stati Uniti. Ma il Trentino ha mai pensato di farsi vivo e chiedere alla Niaf di essere presente alla annuale Convention? No, a noi basta la Festa dell’emigrazione. Si, diciamocelo tra noi e sottovoce: a volte, non sempre e non tutti, noi trentini siamo un po’ orsacchiotti. Mi raccontava tempo fa un amico di una grande mostra organizzata qualche anno fa a Bruxelles in onore di Alberto re del Belgio che fu un appassionato frequentatore delle montagne del Trentino. La mostra presentava quindi il Trentino e le sue potenzialità turistiche. All’inaugurazione partecipò il figlio di Alberto I. Per il Trentino era stato invitato il presidente della Provincia... non vi diciamo il nome. Ma una prima volta il governatore fece spostare la data della mostra e venne accontentato, creando non poche difficoltà a livello diplomatico. La seconda volta nemmeno si presentò, né si scusò. Orsacchiotti, appunto. Occorre dire, per correttezza, che Mario Malossini, in illo tempore assessore al turismo, aveva pensato ad un momento di celebrazione del mondo dell’emigrazione e per un paio di anni - o forse più - aveva promosso a Trento la Farfalla d’oro, evento nel corso del quale venivano invitati - e premiati - emigrati o figli di emigrati trentini che si erano fatti strada. Ma poi, caduto Malossini, anche la Farfalla d’oro si era appassita. Al di là di questo pensiamo che il mondo dell’emigrazione trentina meriterebbe di essere valorizzato attraverso una progettualità che vada dalla cultura al business, che vada oltre le chiacchiere di rito espresse quando si parla in maniera paternalistica di emigrazione. In questo percorso potrebbe starci benissimo anche un Museo dell’emigrazione trentina, che illustri alle nuove generazioni, il significato, il senso ed i risultati di una emigrazione che in passato è stata massiccia. Si parla spesso di identità trentina. Forse un museo ed un progetto di valorizzazione potrebbero servire anche a questo: a creare l’orgoglio di un passato che molti trentini non conoscono più di tanto, a dare il giusto riconoscimento a quei tanti trentini che all’estero hanno raggiunto posizioni importanti, a ricordare a tutti che, quando era necessario, i trentini di una volta si rimboccavano le maniche e sapevano rispondere alle sfide. L’identità di un popolo è segnata anche dal proprio passato. E nel caso del Trentino il passato è stato anche e soprattutto emigrazione.
Il Centro Studi Judicaria e l’anno dei musei
Il Centro Studi Judicaria, ha ideato quest’anno un grande progetto che intende valorizzare le proprie strutture museali. “Dare voce” non solo a quelle già note e conosciute per la visibilità che sono riuscite ad ottenere in passato e al presente, ma anche a tutti quei piccoli musei, o spazi espositivi, che talvolta rimangono noti solo in ambito locale, spesso relegati ad un limitato pubblico, ma non per questo meno interessanti. Decine e decine di collezioni talvolta custodite in ampi edifici storici, altre volte relegate in spazi più limitati, dedicate agli usi e costumi della gente locale, alle arti, alla storia, all’ambiente. Musei etnografici, o spazi per la storia del lavoro dell’uomo, testimonianze della Grande Guerra, archeologia o temi più definiti o particolari come è il caso d’un Museo Farmaceutico,di quello della Montagna e delle Guide alpine, della Scuola, dei Funghi, della donna, ecc. Si aggiungono a questi vecchi opifici (mulini e segherie) considerati singolarmente inseriti all’interno di percorsi guidati. Rare invece le esposizioni d’arte, mentre numerosi sono i percorsi artistici lungo sentieri e percorsi nella natura. Da qui l’idea del Centro Studi di valorizzarli. Come? Una guida innanzitutto che li elenchi e li descriva; poi alcuni video, che diano voce ai più significativi. Ed ancora pubblicazioni che mettano in risalto alcuni oggetti dei zioni, il tutto nella nuova ottica che il Centro Studi Judicaria si propone di un maggior coinvolgimento delle realtà culturali presenti sul proprio territorio. Ma ora è tempo di darsi da fare affinché le tante belle idee messe in cantiere possano trovare la loro realizzazione. Le premesse, quelle che derivano dai molti incontri già compiuti presso enti e associazioni, fanno ben sperare. Ovunque si è riscontrata questa voglia, questo desiderio di lavori e progetti comuni. Speriamo possa essere il primo passo per una migliore proposta culturale territoriale. E per chi vuol saperne di più resta sempre una visita al nostro rinnovato sito Internet: (https:// www.judicaria.it/)
Piani giovani in rilancio, le novità per le Giudicarie
Sono tre i Piani Giovani attivi in Giudicarie. Cos’è il Piano Giovani? E’ uno strumento per interpretare e promuovere i bisogni della fascia giovanile sul territorio. Vogliate perdonare il politichese, ma in questo caso è d’obbligo. Sì, perchè di politiche giovanili si parla. Il Piano opera attraverso un Tavolo del Confronto e della Proposta, composto da rappresentanti delle istituzioni e del mondo giovanile locale. Il suo obiettivo è lo sviluppo della fascia giovani 11-35. Come lo fa? Sostenendo attività di soggetti locali che siano in linea con il proprio Piano Strategico, formulato sulla base dei bisogni specifici del giovane di ciascun territorio. Nel concreto, il Piano dispone di un budget annuale derivante sia da Provincia che dai Comuni aderenti al Piano, destinati in parte ai progetti di singoli o di associazioni locali che abbiano fatto apposita richiesta attraverso il bando, in parte alla formazione interna al Tavolo.
“Oggi i Piani tendono ad essere visti troppo come appoggio per attività ludico ricreative - esordisce Tiziano Salvaterra che li conosce dalle prime legislazioni in Provincia - Il Piano è nato per sostenere una fascia di popolazione in un’età sensibile, aiutarla ad orientarsi tra aspettative disilluse ed opportunità sul territorio. Le attività favorite dal Piano hanno senso se intese come esperienze concrete formative, in una logica sperimentale attiva non passiva, dove il giovane che partecipa ad un’attività non sta solo usufruendo di un servizio, ma contribuisce attivamente a renderlo possibile e si arricchisce personalmente.” Ci si chiede come stiano agendo le politiche giovanili nell’ambito giudicariese dove sono attivi ben tre Piani Giovani, tanto diversi dalla realtà della città come diversi tra loro.
Veterani del chiese.
“Il Piano Giovani della valle del Chiese è il più vecchio del Trentino e comprende tutti e sette i Comuni più una quindicina di soggetti locali – racconta il referente tecnico Gaia Volta. - Di recente il comune di Storo, storico ente capofila, ha passato il testimone a Pieve di Bono – Prezzo, con relativo nuovo referente istituzionale l’assessore alle politiche giovanili Monica Dras”. “Le sue radici sono anche più lontane con il progetto sovracomunale del 2002 ‘Per un Futuro Migliore’. Era nato per un bisogno, far fronte al disagio giovanile specialmente legato all’abuso di sostanze alcoliche e dipendenze. Anche se negli anni il focus è stato ampliato andando a guardare i bisogni del giovane a tutto tondo, rimangono comunque progettualità legate alla prevenzione. Il nostro interesse va oggi alla cultura come fonte di benessere, l’ambiente ed il legame con il territorio, il dialogo intergenerazionale. Tra le ultime progettualità l’adesione a YESpecialist, un’occasione di confronto internazionale con lo scopo di promuovere
lo sviluppo dell’imprenditorialità locale.” “Il 2020 è stato particolarmente duro, con molti progetti in corso ostacolati dalle restrizioni. La pandemia ci ha portato a dirigere i nostri sforzi in una nuova direzione, il rapporto con le tecnologie e l’utilizzo consapevole dei social network.” Insomma, tanta esperienza accumulata in 14 anni che unisce senso di appartenenza territoriale e proattivismo, il tutto a rendere la realtà del Chiese tra le meglio consolidate a livello trentino.
Esteriori in propulsione.
Quattro anni in meno contati nelle Esteriori dove il Piano varca la soglia del suo primo decennio. Vi adereriscono i cinque Comuni della valle e soggetti locali al seguito. Di nuovo, un territorio caratterizzato da volontariato e associazionismo che nel corso delle fasi critiche della pandemia ha saputo dare il meglio di sé: nel 2021 sono stati portati a termine ben 11 progetti, un record nella sua storia. A parlare è Veronica Bissa, Presidente del Tavolo dall’ente capofila, il Comune di San Lorenzo - Dorsino: “È emerso a gran voce il bisogno di creare spazi sociali di scambio ed aggregazione e i giovani delle Giudicarie Esteriori hanno dimostrato la loro volontà di essere protagonisti del cambiamento e del rilancio sociale”. Sono stati realizzati progetti per la valorizzazione del patrimonio storico e culturale, anche enogastronomico, umano, paeseaggistico ed ambientale. Il progetto di Judicaria Plogging in particolare, con successo oltre i limiti del Trentino, ha unito tutta la valle in momenti di comunità e cura del territorio, superando storici campanilismi per un obiettivo comune. “Il rinnovo di logo e canali comunicativi ha agevolato l’attività del Piano – ci dice il referente tecnico Stefano Zanoni – scegliere come social media manager un giovane locale, inoltre, è un’opportunità lavorativa e formativa”. Tutto un fermento insomma. E non è tutto: i Comuni hanno deciso di credere ed investire ulteriormente nel Piano. Il budget a disposizione del territorio, oltre a quello derivante dalla Provincia, risulta quasi raddoppiato! “Assieme alla soddisfazione per la fiducia ed il riconoscimento ricevuto, cresce anche il senso di responsabilità – conclude la presidente Bissa - Si vedono i risultati di un anno impegnativo. Il forte entusiasmo che ha messo in moto tutta questa macchina non deve però spegnersi: aspettano ancora tanto lavoro ed impegno”.
La nuova sfida della busa.
Ultimo ma non ultimo, Gnabon della Busa di Tione e Porte di Rendena. Non si parla di Piano, anche se di fatto lo è, ma di GNABON! “Il nome è un modo giovanile e dialettale per dire ‘neanche capace’ - spiega Francesco Picello, referente tecnico. - E’ stato scelto in quanto fresco ed attrattivo, lontano dalla pesantezza delle forme istituzionali. Lancia al giovane una sfida: hai un’idea e vorresti realizzarla? Gnabon! E a chi ti puoi rivolgere? Gnabon!” E quella di Tione è una sfida davvero, nata, come racconta il Presidente Gianmarco Fioroni, dalle ceneri di esperienze passate che coinvolgenvano anche la Rendena “Il comune di Tione ha voluto prendere nuovamente in mano la situazione ed ha individuato nella proposta della Cooperativa sociale Orizzonte Giovani il nuovo referente tecnico. Nel corso del primo anno, da gennaio 2021, non senza le difficoltà della pandemia, sono stati portati a termine quattro progetti. Personalmente lo considero un successo. Ora la convenzione è stata rinnovata per i prossimi tre anni, siamo fiduciosi anche se consapevoli che serva tempo”. Mentre la Busa e il fondo valle ripartono, la Rendena, di per sé non particolarmente omogenea, non ha forse un’amministrazione comunale che si faccia carico della questione giovanile. “Vogliamo che Gnabon favorisca la rete tra i rappresentanti del mondo giovanile per generare penisero nuovo. Lo strumento che è il Piano è oggi ancora poco conosciuto, anche per questo abbiamo puntato e puntiamo su un brand fresco e una comunicazione efficace. Oltre a questo, la volontà di fare rete anche con gli altri Piani”.
di Martina Sebastiani Sono tre i Piani giovani attivi in Giudicarie. Ma cosa sono? Sono strumenti per interpretare e promuovere i bisogni della fascia giovanile, dagli 11 ai 35 anni, sul territorio.
Fondazione Guetti
Il Consorzio Elettrico di Stor
Nobili pietre di Giudicarie
di Giacomo Bonazza Dalle pietre del pensatore francese Roger Caillois sbarcate alla Biennale di Venezia come opere d’arte a quelle giudicariesi, manipolate nei secoli dalle genti del posto
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“Parlo delle pietre che sempre hanno dormito fuori o di quelle che riposano nel loro giacimento o nella notte dei filoni...Esistono fin dall’inizio del pianeta e a volte provengono da un’altra stella. In questo caso recano in sé la torsione dello spazio, come cicatrice della loro terribile caduta. Precedono l’uomo, e l’uomo, quando è arrivato, non le ha marchiate con l’impronta della sua arte o della sua industria. Non le ha lavorate, per destinarle a qualche impiego triviale, lussuoso o storico. Perpetuano soltanto la propria memoria...Parlo delle pietre che niente ha mai alterato, se non la violenza delle sevizie tettoniche e la lenta usura che è cominciata assieme a loro. Parlo delle gemme prima dei tagli, delle pepite prima della fusione, del profondo gelo dei cristalli prima dell’intervento del gioielliere...Parlo delle pietre che c’erano prima della vita e che restano dopo di essa sui pianeti raffreddati. Parlo delle pietre che non devono attendere neanche la morte e che non hanno null’altro da fare che lasciar scivolare su di sé la sabbia, la pioggia o la risacca, la tempesta, il tempo...Parlo soltanto delle pietre nude, fascino e gloria, in cui si dissimula e nel contempo si confida un mistero più lento, più vasto e più grave di quanto possa essere il destino di una specie effimera”. Così la prosa poetica di Roger Caillois (1913-1978), straordinario, eclettico pensatore francese, sconosciuto ai più, che come nessun altro ha indagato l’affascinante quanto misterioso mondo minerale, quasi a volergli restituire la sua regalità di inestimabile “archivio della genesi del mondo”, minacciata dall’inguaribile presunzione dell’animale uomo, “specie effimera”, che vuole avere sempre e comunque la supremazia sulla natura come non ne facesse parte, alla faccia di quella conversione ecologica tanto sbandierata di questi tempi. Sempre Caillois: “Non vi sono masse informi che giacciono sulla terra senza scopo. Se le si osserva con attenzione vi si possono vedere sculture mitiche modellate nel momento stesso in cui progettava le sue prime forme. Nelle pietre, anche in quelle all’apparenza più insignificanti, si coglie il grande movimento dell’universo”. Un movimento che ha generato e continua a generare bellezza, un bello di natura che non è in contrapposizione al bello artistico dell’uomo, che anzi è in misteriosa relazione, se non in profetica anticipazione. “Natura, maestra de’ maestri”...“Il dipintore disputa e gareggia colla natura” sentenziava già Leonardo da Vinci, riconoscendo umilmente nell’infinito campionario delle forme, dei colori e dei segni ultramillenari della “natura pictrix” un modello imprescindibile per l’”homo artifex” nei suoi tentativi rappresentativi sia di tipo figurativo che astratto, plastici o meno. Una dimensione estetica che interconnette in maniera armonica, attraverso segrete analogie, l’intenzionalità libera e creatrice dell’uomo alla “necessità” creatrice, evolutiva, spontanea ed anonima della natura, artista suo malgrado. Non a caso le pietre della collezione di Caillois, 158 magnifici esemplari di pietre dure (agati, malachiti, diaspri, onici, ecc.), si direbbe a prima vista più confacenti ad un museo di storia naturale che ad un’esposizione d’arte, sono sbarcate alla Biennale veneziana del 2013, rivendicando il loro autonomo status artistico ed estetico alla pari dei manufatti umani; a noi solo la contemplazione di quella bellezza che si è materializzata ben prima della storia dell’uomo: geologia e misticismo in un ammaliante connubio! Di un’antica bellezza, anzi di un’ancestrale bellezza sono rivestite pure alcune pietre delle nostre montagne, che nei secoli hanno contribuito ad impreziosire le architetture sacre e civili anche fuori dall’ambito giudicariese. Detto di sua maestà la Tonalite dell’Adamello (vedi GdG Dicembre 2020), frutto anch’essa dei magmatici raffreddamenti di Era Terziaria (42-28 milioni di anni fa), e del suo recente utilizzo in senso propriamente artistico (arredo, design, scultura), si vuole qui brevemente far memoria di altre pietre ornamentali che hanno caratterizzato un tempo il nostro territorio, espressioni di una qualità e varietà litologica non comuni, ridotte ora a mute sopravvivenze dentro le cave abbandonate. La “Pietra di Lundo”, una variante locale del calcare oolitico di Massone (famiglia delle rocce sedimentarie), di colore bianco latteo, veniva estratta sopra l’abitato lomasino alle pendici del Monte Casale, costituendo il materiale lapideo prevalente per la costruzione del battistero e la chiesa del complesso romanico medievale della Pieve di San Lorenzo a Vigo Lomaso. Al calcare oolitico luminoso di Lundo sembrano riferirsi pure gli incantevoli plutei di epoca altomedievale (tra VIII e IX secolo) ritrovati nelle Giudicarie Esteriori ed alcuni frammenti scultorei dello stesso periodo inerenti l’apparato decorativo delle due principali chiese paleocristiane di
Trento, segno della bontà del materiale da esportazione. “Il Nero di Ragoli”, calcare bituminoso nero con vene di calcite bianca, proveniva dall’antica cava di Scaricle, nel tratto finale della Val Manez, rappresentando una delle pietre da taglio più in voga nella scultura barocca in Trentino, impiegata soprattutto nell’altaristica. Ne sono uno splendido esempio le quattro colonne monolitiche dell’ancona dell’altare dedicato alla Madonna del Rosario nella Collegiata di Arco (1670), l’altare di San Vittore della Pieve di Tione, le cornici della tela centrale e gli l’architravi delle cappelle sugli altari della chiesa gesuitica di San Francesco Saverio a Trento (1711), le due acquasantiere all’ingresso della settecentesca parrocchiale di Ragoli. Negli anni ‘30 del Novecento viene realizzato in pietra Nero di Ragoli il portale monumentale del Sacrario Militare di Castel Dante a Rovereto. “Il Marmo di Breguzzo”, che il maestro scalpellino Enrico Murari nel suo “I marmi del Trentino e la loro industria” del 1903 paragona al Bianco di Carrara (la parola greca “marmaros” significa pietra splendente), un marmo saccaroide caratterizzato da una struttura granulare simile a quella dello zucchero, veniva
estratto nelle cave dell’alta Val di Breguzzo di Trivena e di Campel fino al 1955. Il suo utilizzo in senso ornamentale è attestato a partire dal Quattrocento per la committenza lodroniana di Castel Romano. Di seguito è documentato nelle vicende costruttive della chiesa matrice tionese e di altri parati sacri. Ma sarà il padre francescano Fabiano Barcatta, progettista del monumentale cimitero di guerra austroungarico di Bondo (1916-1917), ad esaltarne la vivida bellezza attraverso i raffinati gruppi scultorei che costellano l’imponente complesso cimiteriale.
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1 - Battistero di Vigo Lomaso in Pietra di Lundo 2. - Portale Sacrario Casel Dante di Rovereto in Nero di Ragoli 3. -Leone in Marmo di Breguzzo presso Cimitero austroungaico di Bondo