materiali foucaultiani III,5-6

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anno III, numero 5-6 gennaio-dicembre 2014 ISSN 2239-5962


materiali foucaultiani peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE

Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO

Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

© 2014 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Daniele Lorenzini & Laura Cremonesi Copertina | Philippe Bazin


materiali foucaultiani ANNO III, NUMERO 5-6

GENNAIO-DICEMBRE 2014

SOMMARIO 4 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Il lavoro della sperimentazione

La parrhesia e l’attualità politica della critica 9 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Introduzione 15 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Nota di lettura 21 Michel Foucault La parrhesia 53 Mariangela Milone Dalla parrhesia alle pratiche politiche nella postcolonia 71 Nancy Luxon Authority, Interpretation and the Space of the Parrhesiastic Encounter 91

Johanna Oksala What is Political Philosophy?

113

Maurizio Lazzarato Enunciazione e politica. Una lettura parallela della democrazia: Foucault e Rancière

135

Giovanni Maria Mascaretti Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique

Saggi 157 Ronan de Calan Foucault mitologo delle scienze. Per una rilettura de Le parole e le cose 177

Marta Menghi Le parole, le cose ed altre inquisizioni

197

Marcos Nalli The Normative Immanence of Life and Death in Foucauldian Analysis of Biopolitics

219

Ottavio Marzocca Dal potere sulla vita al governo dell’ethos. Centralità genealogica della governamentalità


Sguardi foucaultiani 243 Philippe Bazin Il muro del silenzio

Nascita della società punitiva 247 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Nota introduttiva 253 Frédéric Gros Foucault e la società punitiva 263 Sacha Raoult The Missing Link. An Inquiry into Michel Foucault’s Distinction from “Penal Evolution” Literature between The Punitive Society and Discipline and Punish (1973-1975) 283 Corentin Durand Per una sociologia morale delle traiettorie di controllo. Una lettura de La société punitive 307 Grégory Salle Dall’illegalismo alla gestione differenziale degli illegalismi: ritorno su un concetto


Il lavoro della sperimentazione di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Ci siamo spesso interrogati, in questa sede, sul senso della nozione di

“uso” applicata al pensiero di Michel Foucault, nonché sulle ambiguità e sui rischi connessi a tale nozione – primo fra tutti, “stemperare” un approccio, un metodo, una serie di problematizzazioni dotati di una specificità storico-politica ben definita, in un’impresa di attualizzazione a tutti i costi, per descrivere realtà e fenomeni radicalmente estranei al campo di oggetti illuminato dalle analisi foucaultiane (impresa nella quale la “cassetta degli attrezzi” foucaultiana finisce per diventare una griglia analitica per decodificare ogni evento del presente). Allo stesso tempo, tuttavia, abbiamo sottolineato con forza la necessità di contrastare la “monumentalizzazione” di Foucault, la trasformazione del suo pensiero in un “classico” che saremmo chiamati soltanto ad interpretare, a studiare filologicamente nella sua genesi e nella sua evoluzione, ma che non avrebbe più nulla da dirci su di noi, sul nostro presente – che sarebbe quindi inutile, o meglio inutilizzabile. Ma ecco che l’imbarazzo sorge nuovamente: se la nozione di “uso”, declinata naturalmente al plurale, si rivela un’efficace difesa contro ogni forma di monumentalizzazione di Foucault, e se tuttavia tale nozione racchiude i rischi di cui sopra, come distinguere gli usi “legittimi” da quelli “illegittimi”? La risposta a questa domanda è lungi dall’essere semplice o evidente, ma ci sembra possibile, in ogni caso, svolgere due tipi di riflessione a tal proposito. Da una parte, non siamo sicuri che la distinzione legittimo/illegittimo sia qui pertinente: ci sono usi che si rivelano interessanti, innovativi, filosoficamente ricchi di conseguenze, e ce ne sono altri che al contrario si rivelano sterili, banali, privi di interesse – ma che non per questo possono essere bollati come “illegittimi”. D’altra parte, e di conseguenza, se una distinzione tra usi più o meno interessanti, più o meno innovativi, più o meno carichi di conseguenze può essere fatta, si tratterà necessariamente di una distinzione a posteriori: nessuna selezione a priori degli usi di Foucault dovrebbe essere sottoscritta, pena l’introduzione di una police discorsiva laddove, al contrario, la stessa pratica filosofica di Foucault ha sempre privilegiato la sperimentazione e difeso il diritto non tanto all’“errore”, quanto al ripensamento, al cambiamento repentino di direzione e, fino ad un certo punto, all’improvvisazione. Questo genere di riflessioni è stato riproposto con particolare frequenza nel corso del 2014, trentennale della morte di Foucault che, in Francia e nel mondo intero, è stato accompagnato da una lunga serie di eventi mediatici e/o scientifici. Elencarli tutti sarebbe impossibile. In quemateriali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 4-7.


Il lavoro della sperimentazione 5

sta sede basterà ricordare, oltre alla pubblicazione di numerose monografie, volumi collettivi e numeri speciali di rivista dedicati al filosofo francese, quella del suo Corso al Collège de France del 1980-1981, Subjectivité et vérité1; le tante trasmissioni televisive e radiofoniche (in ambito francese si pensi soprattutto al documentario Foucault contre lui-même e alla settimana che France culture ha consacrato alla questione Que faire de Foucault aujourd’hui?); gli innumerevoli dossier su quotidiani, settimanali e riviste culturali a grande tiratura (tra cui, per esempio, Le Monde des livres, Le Nouvel Observateur, Le Magazine littéraire, Sciences humaines, Le Point); i molti convegni e le giornate di studio nazionali e internazionali, come la significativa tre giorni Foucault(s) 1984-2014 ospitata dall’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne e dall’Université Paris-Est Créteil a giugno, il convegno Michel Foucault: After 1984 svoltosi a Yale in ottobre, e i due convegni organizzati da materiali foucaultiani all’Università di Palermo e all’Università di Bologna in novembre e in dicembre. Il 2015, del resto, non sarà da meno: in maggio è prevista la pubblicazione del Corso al Collège de France del 1971-1972, Théories et institutions pénales, con il quale si concluderà l’imponente impresa editoriale cominciata nel 1997, destinata a restituire al grande pubblico l’integralità dell’insegnamento di Foucault al Collège de France. Una décade del Centre culturel international de Cerisy-la-Salle sarà dedicata, in giugno, proprio a questo tema, mentre in autunno è prevista l’edizione Pléiade delle opere di Foucault (libri pubblicati in vita e selezione degli articoli più significativi). Parallelamente, nel quadro del progetto editoriale “Foucault inédit” (Librairie philosophique J. Vrin), dopo L’origine de l’herméneutique de soi2 e Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi3, sarà pubblicata in autunno la prima edizione completa delle conferenze sulla parrhesia pronunciate da Foucault nel 1983 all’Università di California Berkeley. E il fondo Foucault, depositato alla Bibliothèque nationale de France e ormai accessibile ai ricercatori di tutto il mondo, riserverà senza alcun dubbio ancora tante sorprese… M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2014. 2 M. Foucault, L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth College, 1980, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, introduzione e apparato critico di L. Cremonesi, A.I. Davidson, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Vrin, Paris 2013. 3 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, introduzione e apparato critico di D. Lorenzini e A.I. Davidson, Vrin, Paris 2015. 1


6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli Così, tra qualche mese, un primo processo di “canonizzazione” di Foucault sembra desinato a concludersi: oltre ai Dits et écrits, saranno disponibili tutti i Corsi al Collège de France e l’edizione critica delle sue opere pubblicate in vita, e cominceranno a fiorire i primi studi fondati sui documenti inediti (manoscritti, fiches preparatorie, giornale intellettuale, ecc.) consultabili alla BnF. Tutte le condizioni necessarie per trasformare Foucault in un “classico” della storia della filosofia saranno riunite, e non si tratta certo di rammaricarsene. Tuttavia, ci sembra che, proprio in questa giuntura estremamente delicata per gli studi foucaultiani, diventi essenziale, da una parte, porre il problema dell’economia della circolazione dei testi, problema che, accanto a quello della produzione teorica a partire da e su Foucault, sarà una delle poste in gioco principali se si vuole scongiurare il rischio di “canonizzare” non solo l’opera di Foucault, ma prima ancora Foucault come “autore”, in un gesto teorico-politico al quale lui stesso si era peraltro fermamente opposto4. Dall’altra parte, si tratterà di porre nuovamente – da una prospettiva senz’altro diversa – il problema degli “usi”, e cercare di mantenere aperto uno spazio di riflessione comune, di dialogo, di scambio, di interazione, tra il lavoro storico-filologico su Foucault e tutto quel variegato universo discorsivo fatto di riprese, mises en perspective, attualizzazioni, e talvolta distorsioni, che non smetterà di proliferare a partire dalle analisi foucaultiane. Sarà questa una delle sfide principali dei prossimi anni: impedire la cristallizzazione di una differenza radicale, di una separazione senza appello tra un approccio filologico e canonizzante all’“opera” di Foucault e la molteplicità di “usi” che il pensiero foucaultiano continuerà a suscitare; creare al contrario le condizioni per un reciproco arricchimento, per uno scambio fecondo e aperto, senza pregiudizi a priori, che tenti di introdurre sempre, nelle maglie del presente, lo scandalo della differenza attraverso il paziente (e irriverente) lavoro della sperimentazione. J’ai tout à fait conscience de me déplacer toujours à la fois par rapport aux choses auxquelles je m’intéresse et par rapport à ce que j’ai déjà pensé. Je ne pense jamais tout à fait la même chose pour la raison que mes livres sont pour moi des expériences, dans un sens que je voudrais le plus plein possible. Une Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur?, in Dits et écrits I, 1954-1975, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 817-849. 4


Il lavoro della sperimentazione 7 expérience est quelque chose dont on sort soi-même transformé. […] Je suis un expérimentateur en ce sens que j’écris pour me changer moi-même, et ne plus penser la même chose qu’auparavant5.

Londra, Parigi, Pisa, Tunisi marzo 2015 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli

M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 860-861. 5


La parrhesia e

l’attualità politica della critica


Introduzione

È ormai noto che la questione della parrhesia ha costituito per Michel

Foucault un argomento di grande rilievo, al quale egli dedicò ricerche lunghe e approfondite. Per i non specialisti del pensiero foucaultiano, però, la rilevanza di questo tema è una scoperta relativamente recente, che risale al 2001, anno della pubblicazione del Corso al Collège de France L’herméneutique du sujet1; in questa serie di lezioni, infatti, Foucault accorda ampio spazio al ruolo della parrhesia nel contesto della cura di sé ellenistica e romana. È però tra il 2008 e il 2009, con l’uscita degli ultimi due Corsi al Collège de France, Le gouvernement de soi et des autres e Le courage de la vérité2, interamente dedicati alla storia delle successive figure della parrhesia, che questo tema assume un ruolo di primo piano nell’ambito degli studi foucaultiani, divenendo oggetto di numerosi lavori e ricerche. Fino ad allora, la centralità della parrhesia nell’ultimo Foucault poteva solo essere intravista, grazie alla pubblicazione (parziale e inaccurata) di una serie di conferenze tenute all’università di California Berkeley nel 1983, Discourse and Truth, tradotte in italiano nel 1994 da Donzelli con il titolo Discorso e verità nella Grecia antica3, o grazie ai resoconti delle registrazioni degli ultimi due Corsi al Collège de France, offerti dai ricercatori che avevano avuto la possibilità di recarsi all’Institut mémoires de l’édition contemporaine a Parigi, e in seguito a Caen, per ascoltarle4. M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2001. 2 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008 e Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1983-1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009. 3 M. Foucault, Fearless Speech, a cura di J. Pearson, Semiotext(e), Los Angeles 2001; trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1994. Prima di essere riprese nell’edizione Semiotext(e), queste conferenze sono state a lungo disponibili online sul sito <http://foucault.info>. 4 Va anche ricordato che, tra i Résumés dei Corsi tenuti da Foucault al Collège de France e pubblicati nei Dits et écrits (1994), mancano proprio quelli riguardanti i Corsi del 1983 e del 1984, circostanza che ha reso ancora più difficile l’accesso alla trattazione foucaultiana della parrhesia. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 9-13.


10 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli La pubblicazione della conferenza di Grenoble si inscrive quindi nel movimento che, dal 2001 ad oggi, ha reso progressivamente disponibile questo momento cruciale del pensiero foucaultiano, favorendo l’apertura di un importante spazio condiviso di riflessione e di dibattito intorno ad esso. La presente sezione monografica intende inserirsi proprio all’interno di questo spazio, proponendo una serie di interventi che si soffermano sia sul ruolo della parrhesia nel percorso filosofico foucaultiano, sia sul contributo che una riflessione su tale pratica può offrire al pensiero politico contemporaneo. Gli autori che danno vita a questo dossier non hanno esitato a mostrare come la parrhesia foucaultiana possa costituire un potente strumento per ripensare le forme della nostra democrazia, per mettere in discussione le pratiche politiche attuali e, non da ultimo, per rivedere il ruolo che la filosofia può assumere, oggi, nei confronti della politica. Appare quindi evidente che l’interpretazione foucaultiana della parrhesia non possa essere ridotta a un mero esercizio storico e filologico, ma che essa presenti una serie di poste in gioco che toccano profondamente la nostra attualità politica. L’analisi della democrazia greca offerta da Foucault nei due ultimi Corsi al Collège de France – analisi che ruota attorno alla pratica della parrhesia nella sua differenza dall’isonomia e dall’isegoria – viene dunque del tutto naturalmente messa a confronto con le analisi di Hannah Arendt e Jacques Rancière, e impiegata come strumento critico rispetto al modo in cui questi autori connettono la democrazia degli antichi a quella dei moderni. Obiettivo comune agli autori di questa sezione è, quindi, quello di assumere la riflessione foucaultiana sulla parrhesia come uno strumento utile per l’oggi, al fine di aprire nuovi spazi in cui situare forme rinnovate del pensiero e della pratica politica. Mariangela Milone, ad esempio, ritiene che sia possibile partire dall’analisi foucaultiana della democrazia greca per rinnovare la storia delle nozioni che ruotano intorno al concetto di democrazia. Se una storia lineare, che individua il punto di origine della democrazia occidentale nella polis greca, non è oggi praticabile, il confronto che, nel Corso del 1983, Foucault conduce tra pratiche democratiche antiche e attuali ha il merito di mettere in questione proprio questa storia lineare, evidenziando le profonde fratture che l’attraversano. Milone mostra chiaramente come questa


Introduzione 11

operazione foucaultiana converga, nel suo intento, con molteplici azioni politiche (per esempio quelle dei migranti) che, attualmente, rimettono in discussione una delle categorie più problematiche della democrazia: la categoria di cittadinanza. Grazie al confronto con l’esperienza greca, Foucault ci permette infatti sia di problematizzare la questione della cittadinanza, sia di pensare forme alternative di soggettivazione politica e di pratica della cittadinanza stessa. Anche per Nancy Luxon ad essere in gioco, nella riflessione foucaultiana sulla parrhesia, è la forma attuale della nostra democrazia. Il suo articolo si basa principalmente sulla conferenza di Grenoble e sul confronto che, in essa, Foucault propone tra parrhesia e confessione. Come Luxon nota, la messa in relazione di queste due modalità storiche di veridizione è infatti uno dei punti di maggior interesse del testo foucaultiano. E anche per Luxon, lo studio foucaultiano della parrhesia si rivela un utile strumento di analisi delle pratiche politiche attuali: la parrhesia, quale Foucault la descrive in particolar modo nel Corso del 1983, può servire a smantellare gli spazi politici esistenti e ad aprire uno spazio di libertà strutturalmente differente da quelli praticati nelle democrazie contemporanee e concepiti dal pensiero politico moderno (il riferimento è, in particolare, alla sfera pubblica kantiana). Luxon vede dunque nella problematizzazione foucaultiana della parrhesia una delle possibili risposte a quella “crisi dell’autorità” che era già stata oggetto delle sue ricerche5. Johanna Oksala e Maurizio Lazzarato mettono invece a confronto la lettura foucaultiana del funzionamento della democrazia greca, rispettivamente, con quella svolta da Arendt e Rancière. Lo scopo di Oksala è quello di mostrare come Foucault svolga una critica implicita alle tesi di Arendt, per proporre una nuova definizione della politica e del ruolo che la filosofia può giocare nei suoi confronti. Secondo Oksala, ne Il governo di sé e degli altri, Foucault individua in Platone un modello possibile del rapporto tra filosofia e politica, proponendo al tempo stesso una critica delle note tesi di Arendt sulla filosofia platonica. Tramite una lettura accurata dell’analisi foucaultiana della Lettera VII, Oksala mostra come Foucault trovi in questo testo una nuova definizione del compito della filosofia nell’ambito della politica, che non consiste né nell’esercizio diretto del governo, né nella proposta di un sistema politico N. Luxon, Crisis of Authority. Politics, Trust, and Truth-Telling in Freud and Foucault, Cambridge University Press, Cambridge 2013. 5


12 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli valido, definibile dalla filosofia grazie al suo accesso privilegiato al vero (percorso che, per Arendt, è il punto di origine di forme di governo totalitarie). Il compito della filosofia nell’ambito della politica è invece quello di tentare di modificarne la realtà, rivendicando i principali caratteri della parrhesia: veridizione e contestazione coraggiosa del potere. Per Oksala, è indubbio che l’analisi della parrhesia platonica faccia parte di quella “storia del presente” praticata da Foucault in ogni sua ricerca. Cosa significa, quindi, attualizzare questa relazione tra filosofia e politica? Significa stimolare la filosofia a confrontarsi con la “politica della verità”, cioè a svolgere incessantemente il lavoro che Foucault ha sempre portato avanti: storicizzare la verità, interrogarla, metterla in questione nei suoi effetti politici. È questo il compito della filosofia che, definendosi come pratica parresiastica, interviene nel reale della politica, al fine di trasformarla. Maurizio Lazzarato propone invece un’analisi di tutta la trattazione foucaultiana della parrhesia (dal suo emergere nella polis greca fino alla pratica cinica) e suggerisce che le figure parresiastiche individuate da Foucault offrono un valido appiglio per mettere in luce alcune debolezze insite nelle teorie di Rancière. Entrambi questi autori, nota Lazzarato, assumono come punto di partenza la democrazia greca: già in essa, secondo Rancière, si manifesta la capacità del linguaggio di contenere una potenzialità di uguaglianza, che deve poi essere resa effettiva dalla pratica politica. Per Foucault, invece, sin dalle origini della democrazia, la pratica della parola, nella forma della parrhesia, istituisce rapporti multiformi tra uguaglianza e differenza, che fanno sì che essa sia una pratica ben più complessa rispetto all’isegoria – a quell’uguaglianza di parola stabilita come diritto astratto. Le implicazioni contemporanee di queste due diverse letture dell’origine della democrazia sono evidenti. Minata sin nel suo fondamento dall’analisi foucaultiana, la proposta politica di Rancière appare, secondo Lazzarato, fortemente ipotecata anche nella sua validità attuale, mentre la riflessione di Foucault sui modi di soggettivazione si rivela uno strumento più adeguato per rendere conto delle lotte e dei movimenti contemporanei, e per prendervi parte. Infine, Giovanni Mascaretti si concentra sul ruolo che la nozione di parrhesia svolge all’interno della riflessione filosofica foucaultiana. A suo parere, lo studio della parrhesia permette a Foucault di elaborare una serie di strumenti per pensare la soggettivazione come pratica in grado di autoistituirsi e di offrire punti di resistenza alle relazioni di potere e di


Introduzione 13

sapere. La parrhesia si rivela quindi essere la nozione chiave che permette a Foucault di aprire quella riflessione sulla critica e sul ruolo dell’etica che caratterizza le ultime fasi del suo pensiero. Per mostrare la centralità della nozione di parrhesia in questa importante tappa del percorso foucaultiano, Mascaretti mette in parallelo l’elaborazione della questione della parrhesia con quella del concetto di “problematizzazione”, sostenendo che questi due temi assumono la propria piena intelligibilità solo se letti in modo congiunto e in relazione alla questione della critica come compito della filosofia. Londra, Parigi, Pisa, Tunisi marzo 2015 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli



Nota di lettura

Il testo che qui presentiamo per la prima volta in traduzione italiana è

quello della conferenza sulla nozione e la pratica della parrhesia che Michel Foucault tenne all’Università di Grenoble, su invito dell’antichista Henry Joly, il 18 maggio 1982, qualche mese dopo la fine del suo Corso al Collège de France L’ermeneutica del soggetto. La prima versione del testo di questa conferenza è stata stabilita da Henri-Paul Fruchaud e Jean-François Bert ed è apparsa nel 2012 su Anabases (n. 16)1. Attualmente è in preparazione una versione rivista di questa conferenza, la cui pubblicazione per la collana «Philosophie du présent» della casa editrice francese Vrin, a cura dello stesso Henri-Paul Fruchaud e di Daniele Lorenzini, è attesa per la fine del 20152. La presente traduzione è stata condotta sulla base di questa seconda versione, rispetto alla quale, per rendere più agevole la lettura, abbiamo tuttavia scelto di alleggerire l’apparato di note, non riportando gli ampi brani che fungono da cornice agli effettivi riferimenti testuali fatti da Foucault. Abbiamo infine deciso di snellire il testo tralasciando gli elementi più dialogici e in qualche maniera “di rito” della conferenza, come l’introduzione iniziale di Henry Joly e la discussione finale, lacunosa in più punti. Come è noto, Foucault aveva cominciato a parlare della parrhesia nel quadro della direzione di coscienza nell’Antichità greco-romana già durante le lezioni del suo Corso al Collège de France, tra il gennaio e il marzo del 1982. Se, tanto in questo Corso come nella successiva conferenza di Grenoble, i principali riferimenti alla parrhesia in Epitteto (e Arriano), Filodemo, Galeno e Seneca rimangono ugualmente al centro delle preoccupazioni di Foucault, bisogna comunque aggiungere che, dinanzi agli allievi di Joly, la nozione di parrhesia appare situata in un contesto più ampio, in cui vengono anticipate alcune delle questioni che saranno ulteriormente sviluppate da Foucault negli ultimi due Corsi al Collège de France. Da un lato, l’importanza che la parrhesia assume agli occhi di Foucault appare più M. Foucault, La Parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e J.-F. Bert, in Anabases, n. 16 (2012), pp. 157-188. 2 M. Foucault, La Parrêsia, in Discours et vérité. La problématisation de la parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015 (in corso di pubblicazione). 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 15-20.


16 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli esplicitamente collegata al suo interesse per l’obbligo di dire il vero su stessi come tratto decisivo (sebbene non esclusivo) di una genealogia del soggetto moderno, che Foucault aveva condotto attraverso le sue precedenti ricerche sia sulle pratiche mediche, psichiatriche e giuridiche, sia sull’istituzione e sulla pratica della confessione in ambito religioso (fino ai suoi studi sull’exomologesis e sull’exagoreusis)3. Dall’altro lato, diversamente da quanto era avvenuto nel Corso del 1982, Foucault fa riferimento per la prima volta a un quadro storico più complesso, nel quale la nozione di parrhesia risulta innanzitutto legata all’esercizio di un diritto politico che si ritrova nelle democrazie della Grecia antica (soprattutto in quella ateniese) così come, più tardi, presso le corti dei tiranni e sotto l’Impero romano. Nel primo caso, quello della democrazia greca, è soprattutto il richiamo a quattro tragedie di Euripide (Ione, Ippolito, Le Fenicie, Le Baccanti) a fornire a Foucault l’occasione non solo di individuare le prime occorrenze del termine parrhesia, ma anche di introdurre una nuova importante differenza: quella tra una parrhesia “buona”, legata alla manifestazione della verità nell’esercizio politico del diritto di parola, e una parrhesia “cattiva”, derivante dall’arbitrio di poter dire e fare qualunque cosa, padroneggiando le armi della retorica e adulando il popolo durante le assemblee (Foucault anticipa così alcune delle analisi che svilupperà più ampiamente durante il Corso del 1983, Il governo di sé e degli altri)4. Più in particolare, questa lettura foucaultiana delle Baccanti fa emergere per la prima volta due aspetti fondamentali del “patto parresiastico”, al quale erano stati riservati solo rapidi cenni nel Corso del 1982, dove esso era esclusivamente riferito all’impegno volto a creare una stretta corrispondenza tra il soggetto dell’enunciazione e il soggetto del comportamento, corrispondenza che lì rappresentava il cuore stesso della parrhesia5. A Grenoble, questo patto viene in primo luogo considerato come un essenziale elemento di raccordo tra la Per una visione d’insieme sui rapporti tra l’obbligo di dire il vero su se stessi e la genealogia del soggetto moderno, cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf / materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012, pp. 31-42. 4 In particolare, si veda la lezione del 2 febbraio 1983, in M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 157-169; trad. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 167-180. 5 M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2001, pp. 388-389; trad. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 363-364. 3


Nota di lettura 17

parrhesia politica e la parrhesia etica (da cui Foucault era partito nel 1982); mentre, in secondo luogo, esso introduce nella “struttura a due termini” della parrhesia un’irriducibile componente di rischio, che sarà fondamentale per le analisi successive condotte da Foucault, specialmente quando, nel Corso del 1984, il coraggio giocherà un ruolo chiave nello studio della parrhesia in quanto modalità di veridizione6. Tutto ciò appare molto chiaramente anche nella seconda forma di parrhesia politica esaminata da Foucault in questa conferenza (e che nel Corso del 1982 era stata appena sfiorata7), quella della corte del tiranno, del monarca, del principe, ovvero la corte come forma politica che, dopo il tramonto delle poleis greche, si era affermata sempre più in epoca ellenistica e imperiale, e dove lo spazio di libertà d’espressione inaugurato dal patto parresiastico con il sovrano era diventato la condizione rischiosa e imprescindibile dell’esercizio della parrhesia da parte del filosofo. Quest’ultimo, spesso nelle vesti del consigliere, trova allora nell’anima del sovrano l’orizzonte di azione privilegiato per mettere in atto la propria parrhesia, come risulta dagli esempi mobilitati da Foucault e tratti da Platone (in particolare quello relativo alla monarchia persiana di Ciro, menzionato nelle Leggi) e da Isocrate (A Nicocle). Non è quindi un caso che, proprio nel momento in cui Foucault si sofferma sulla transizione dalla parrhesia come esercizio di un diritto politico alla parrhesia come rapporto tra anime, venga ad essere anticipato un altro tema che troverà un ampio e importante sviluppo sia ne Il governo di sé e degli altri sia ne Il coraggio della verità, e più precisamente nella lettura che Foucault proporrà del Gorgia di Platone: il tema della parrhesia (o dell’esistenza stessa del parresiasta) come pietra di paragone per chi vuole esercitarsi nella cura di sé all’interno di un rapporto con un altro8. In occasione della conferenza di Grenoble è però l’esistenza di Callicle ad essere Si vedano le lezioni dell’1 febbraio e del 22 febbraio del 1984 (in particolare l’analisi del Lachete di Platone), in M. Foucault, Le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, pp. 3-31 e 109-144; trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 13-43 e 120-155. 7 Cfr. la lezione del 27 gennaio 1982, la stessa in cui appare per la prima volta il termine “parrhesia”, in M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., pp. 137-139; trad. it. cit., pp. 127-129. 8 Cfr. la lezione del 9 marzo 1983, in M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., pp. 328-345; trad. it. cit., pp. 322-356. 6


18 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli reputata da Socrate come pietra di paragone, mentre nel Corso del 1984, per Foucault, sarà piuttosto la vita di Socrate a svolgere questa funzione – la funzione di basanos9. Anche la successiva trattazione della parrhesia etica presenta alcune novità e sviluppi un po’ diversi sia rispetto al Corso del 1982, sia rispetto ai due Corsi successivi. In particolare, a diventare ancora più complesso rispetto a L’ermeneutica del soggetto, è il sistema di contrapposizioni che permette di definire “in negativo” la parrhesia. Non tanto per quel che riguarda l’opposizione tra parrhesia e retorica, quanto per quel che concerne l’opposizione tra parrhesia e adulazione. Nel Corso del 1982, questa opposizione risultava comprensibile attraverso la relazione di complementarietà che l’adulazione intratteneva con la collera del potente10; pochi mesi dopo, a Grenoble, questo schema si compone invece di quattro termini: se la parrhesia è l’opposto dell’adulazione, e se quest’ultima non può a sua volta non richiamare la collera, allora, all’opposto della collera, e allo stesso tempo come elemento complementare alla parrhesia, ecco che emerge la clemenza. L’inclusione di questo termine è probabilmente da mettere in relazione con il nuovo interesse foucaultiano per la forma politica del patto parresiastico. Lo spazio della parrhesia non è infatti inaugurato soltanto dalla presa di parola del parresiasta (o di chi dice un verità rischiosa), ma anche dall’atteggiamento di clemenza richiesto al potente. È in questo rapporto che vengono stabiliti il “costo enunciativo” e la possibilità stessa dell’atto parresiastico, come Foucault mostrerà più compiutamente nel Corso del 198311. Ma la conferenza di Grenoble presenta due ulteriori passaggi che colpiscono particolarmente, nella misura in cui essi sembrano dare luogo a un’interpretazione assai differente, se non addirittura opposta, rispetto a quella che verrà fornita sugli stessi punti nel Corso del 1983 e in quello del 1984. Si tratta di passaggi che, proprio per questa ragione, rendono bene l’idea di quanto Foucault, davanti a Joly e ai suoi allievi, stesse esponendo i primi risultati di una ricerca che si trovava ancora in fase di febbrile svolgimento. Cfr. la lezione del 22 febbraio 1984 (seconda ora), in M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., pp. 131-144; trad. it. cit., pp. 142-155. 10 Cfr. la lezione del 10 marzo 1982, in M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., pp. 355-369; trad. it. cit., pp. 330-340. 11 Si vedano principalmente le lezioni del 12 gennaio e del 2 febbraio 1983, in M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., pp. 41-70 e 137-168; trad. it. cit., pp. 48-78 e 147-180. 9


Nota di lettura 19

Così, da un lato, Foucault dichiara a Grenoble di voler studiare la parrhesia etica dal punto di vista di una «pragmatica del discorso», quando invece, ne Il governo di sé e degli altri, durante la lezione del 12 gennaio 1983, Foucault procede di fatto in direzione contraria, affermando esplicitamente che la parrhesia è piuttosto una «drammatica del discorso» e che costituisce «quasi l’inverso, l’immagine speculare di quella che viene chiamata la pragmatica del discorso»12. Dall’altro lato, nella conferenza di Grenoble si riscontra una vistosa assenza: Foucault non fa alcun riferimento alla parrhesia cinica. Si tratta di un’assenza che potrebbe sorprendere, specie se si pensa alla centralità che, nell’ultimo Corso tenuto al Collège de France, assumerà per Foucault la parrhesia dei cinici (e presso i cinici), ma tale assenza ci mostra in realtà che, a Grenoble, Foucault aveva ancora una considerazione molto diversa dei cinici e della stessa parrhesia rispetto a quella che avrà nel 1984. Se, infatti, nel suo ultimo Corso, la parrhesia in quanto modalità di veridizione si distingue dalle altre (la profezia, le retorica, la saggezza) proprio in virtù di un’intrinseca forza di interpellazione che si concretizza sempre in una manifestazione della verità all’interno di un orizzonte pubblico, sotto forma di «scandalo della verità»13 (seguendo quindi un’inspirazione più prossima al cinismo che ad altre scuole filosofiche), nella conferenza di Grenoble l’interpretazione foucaultiana della parrhesia appare molto diversa e fortemente condizionata da un punto di vista stoico. Ne costituisce una riprova il fatto che, tratteggiando ancora una volta negativamente la nozione di parrhesia, Foucault arriva a distinguerla anche dalla violenza diatribica impiegata dal filosofo cinico, che si rivolge alle persone sulla pubblica via, in mezzo alla folla, o in teatro, per interpellarle con l’impeto e la veemenza che sono proprie di questo stile di esistenza filosofica. In tale frangente, gli stessi effetti di verità che più tardi, nel 1984, saranno ritenuti appartenere costitutivamente alla forma più caratteristica di parrhesia, sono qui invece interpretati, secondo quanto suggerisce Seneca, come effetti «supplementari», poiché eccedono e addirittura impediscono quella trasmissione del pensiero (la dianoia) in grado di incidere efficacemente sull’anima delle persone e che, sempre per Seneca, la vera Ivi, pp. 65-66; trad. it. cit., pp. 72-73. Cfr. la lezione del 29 febbraio 1984, in M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., pp. 161-176; trad. it. cit., pp. 171-187. 12 13


20 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli parrhesia dovrebbe realizzare solo attraverso le forme più tradizionali dello scambio epistolare o della conversazione. Per concludere, vale la pena osservare che tanto le radicali inversioni di rotta dei passaggi appena menzionati, quanto i punti di esitazione, le oscillazioni teoriche, e le suture concettuali più impercettibili che possono essere colti attraverso una lettura attenta e minuziosa di questi testi, restituiscono plasticamente il valore e l’importanza della conferenza di Grenoble per gli studi foucaultiani. Sarebbe infatti riduttivo affermare che questo testo sia solo un ritaglio di materiali e analisi di più ampio respiro proposte altrove – nei Corsi al Collège de France. E questo proprio perché, attraverso gli scarti talvolta minimi che possono essere reperiti tra le pieghe di una conferenza come quella di Grenoble, appaiono prospettive teoriche o politiche inedite su analisi svolte in altra sede, prospettive che spesso non potevano essere esplicitate né nei libri, né durante l’insegnamento al Collège de France, né tanto meno negli scambi rapidi e concettualmente rarefatti di un’intervista. La forma testuale della conferenza (di cui quella di Grenoble qui presentata costituisce solo un esempio) diviene allora un sismografo prezioso in grado di consegnarci nella sua complessità la vitalità del pensiero di Foucault: un pensiero che non ha mai cessato di rimettere in discussione gli assunti sui quali si era fino a quel momento basato, di esaminare nuove fonti in grado di condurre il proprio autore a formulare ipotesi originali o a ritagliare orizzonti di problematizzazione ancora inesplorati. Trovare il modo di approcciare questo tipo di materiali senza rifugiarsi nello sguardo semplificatore della sintesi (“tutto è stato già detto, e meglio, altrove”) e senza consumarsi nei ciechi meandri di un’esegesi solamente scolastica, costituisce oggi, quando l’impresa editoriale della pubblicazione dei Corsi al Collège de France volge al termine, una delle scommesse più importanti per gli studiosi di Michel Foucault. Londra, Parigi, Pisa, Tunisi marzo 2015 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


La parrhesia 1 Michel Foucault

Ti ringrazio molto per avermi invitato . Come sapete, vengo qui per sol2

lecitare. Quel che voglio dire è che, fino a quattro o cinque anni fa, la mia specializzazione, il mio ambito di lavoro non riguardavano affatto la filosofia antica. È stato in seguito a un certo numero di zigzag, di deviazioni o di risalite nel tempo che sono giunto a dirmi che essa poteva essere comunque molto interessante. Quindi, vengo qui con un lavoro ancora in corso. Una volta, mentre gli stavo ponendo alcune domande, mentre gli spiegavo i miei problemi, Henri Joly è stato così gentile da dirmi che voi avreste accettato di discuterne con me, pur nello stato di imperfezione in cui al momento si trova il mio lavoro. Si tratta di materiali, di riferimenti a testi, di indicazioni; la presentazione che sto per farvi è quindi lacunosa e spero che sarete così gentili da gridare quando quel che dico è superato, da interrompermi quando non capite o perché c’è qualcosa che non funziona e da dirmi, alla fine, in ogni caso, cosa ne pensate. Ecco quindi come sono giunto a pormi questo genere di domande. Ciò che avevo studiato già da tempo, era la questione dell’obbligo di dir-vero: che cos’è questa struttura etica interna al dir-vero, che cos’è questo legame, al di fuori delle esigenze che si riferiscono alla struttura del discorso o al riferimento del discorso, che fa sì che qualcuno sia obbligato, in un dato momento, a dire il vero? Ho provato a porre, o meglio, ho incontrato questa questione dell’obbligo di dir-vero, del fondamento etico del dir-vero, a proposito del dir-vero su se stessi. Credo in effetti di averla incontrata più volte. Innanzitutto nella pratica medica e psichiatrica, perché a partire da un certo momento – peraltro molto preciso e ben localizzabile, all’inizio del XIX secolo – vediamo che l’obbligo di dir-vero su se stessi si inserisce all’interno del gran rituale della psichiatria. Chiaramente, incontriamo questo problema del dire il vero su se stessi nella praConferenza pronunciata da Michel Foucault all’Università di Grenoble il 18 maggio 1982. Titolo originale: La Parrêsia, © Librairie Philosophique J. Vrin. 2 Foucault si rivolge qui a Henri Joly, che ha appena detto qualche parola di presentazione. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 21-52.


22 Michel Foucault tica giudiziaria, e in modo più specifico nella pratica penale. Infine, l’ho incontrato per la terza volta a proposito di quelli che potremmo chiamare i problemi della sessualità, e più esattamente della concupiscenza e della carne, all’interno del cristianesimo. È stato quindi guardando un po’ più da vicino la questione dell’obbligo di dir-vero su se stessi che la storia del cristianesimo – la storia del cristianesimo primitivo – mi è parsa curiosa e interessante. Lo sapete meglio di me, la forma penitenziale che conosciamo, che costituisce il sacramento della penitenza, o meglio, la forma di confessione che è legata al sacramento della penitenza, è di istituzione relativamente recente, risale all’incirca al XII secolo, ed è stata messa a punto, definita, strutturata a partire da un’evoluzione lenta e complessa. Se si risale indietro nel tempo, ci si accorge che, circa nel IV-V secolo, il sacramento della penitenza non esisteva, ma vi erano forme distinte di obbligo di dir-vero su se stessi, e più esattamente due forme distinte: una era l’obbligo di manifestare la verità su se stessi, e l’altra era l’obbligo di dir-vero su se stessi, in due contesti, in due forme e con due serie di effetti del tutto differenti. L’obbligo di manifestare la verità su se stessi fa parte del rituale della penitenza: è l’exomologesis, una specie di drammatizzazione di sé come peccatore, che si fa attraverso le vesti, i digiuni, le prove, l’esclusione dalla comunità, l’atteggiamento di supplice alla porta della chiesa, etc.; drammatizzazione di sé, espressione drammatica di sé come peccatore, con cui ci si riconosce come peccatore, ma senza passare – o in ogni caso senza passare necessariamente, primariamente e fondamentalmente – dal linguaggio. Questa è l’exomologesis. Guardando le istituzioni e le pratiche della spiritualità monastica, si vede invece un’altra pratica che è del tutto differente dall’exomologesis penitenziale. Quest’altra pratica è imposta ad ogni novizio, ad ogni monaco, finché non giunge a un grado sufficiente di santità, se non fino alla fine della sua vita. Questa pratica non consiste nel porsi, nel rappresentarsi nello stato drammatico del peccatore – dopotutto il monaco è già posto all’interno del rituale penitenziale. Egli deve invece dire, in linea di principio, a qualcuno, al suo direttore, tutto quello che accade in lui, tutti i movimenti del suo pensiero, tutti i movimenti del suo desiderio o della sua concupiscenza: quello che nella spiritualità greca, in Evagro Pontico, viene chiamato logismoi, che in latino viene del tutto naturalmente tradotto con


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cogitationes, di cui Cassiano3 ricorda il senso etimologico, e cioè quello che lui chiama co-agitationes, il movimento, l’agitazione dello spirito. È questa agitazione dello spirito che deve essere restituita in un discorso che, in linea di principio, è continuo e deve essere continuamente tenuto al proprio direttore. È quello che in greco viene chiamato exagoreusis. Abbiamo quindi un obbligo molto singolare, che non troveremo più in seguito, perché, dopotutto, la confessione dei peccati non è l’obbligo di dire tutto: la confessione dei peccati è l’obbligo di dire le colpe commesse, non è l’obbligo di dire tutto, di consegnare ad un altro il proprio pensiero. L’obbligo di dire tutto è proprio una caratteristica singolare della spiritualità cristiana del IV-V secolo. Lo si ritroverà però in seguito e, nonostante tutto, avrà una lunga storia parallela e un po’ sotterranea rispetto al gran rituale della penitenza: lo si ritroverà chiaramente nella direzione di coscienza, per come si sviluppa e fiorisce nel XVI e XVII secolo. È questa storia del dire tutto, è l’obbligo di dire tutto del movimento dei propri pensieri che ha attratto la mia attenzione e, di questo obbligo, ho provato a fare la storia, in ogni caso a vedere da dove provenisse. Naturalmente, sono stato condotto a considerare la filosofia per così dire greco-romana, [per] sapere se fosse possibile ritrovare un radicamento in questa pratica dell’obbligo di dire tutto. Ho quindi esaminato questa filosofia, l’ho considerata come pratica, cioè non proprio la filosofia come direzione di coscienza, perché non credo che questa nozione si applichi in modo esatto alla forma di filosofia cui sto pensando. Mi sembra che sia possibile reperire le forme e i concetti di questa pratica filosofica e comprenderne lo sviluppo se la si considera come l’insieme dei princìpi teorici, dei precetti pratici e delle procedure tecniche con cui si è portati, chiamati ad assicurare l’epimeleia heautou, la cura di se stessi; la filosofia, dunque, come fondamento teorico, regola pratica, strumentazione tecnica della cura di sé. È da questo punto di vista che prenderò in considerazione la filosofia dell’epoca ellenistica, e soprattutto dell’epoca romana dei due primi secoli dell’impero. Questo è quindi il quadro in cui ho cercato di esaminare il problema dell’obbligo di dire tutto. Certo, incontriamo qui una nozione importante, quella di parrhesia, nozione che etimologicamente significa in effetti “dire tutto”. Ora, la priCassiano, Première Conférence de l’Abbé Serenus. De la mobilité de l’âme et des esprits du mal, IV, in Conférences, t. I, Éditions du Cerf, Paris 1955; trad. it. Conferenze spirituali, Edizioni Paoline, Milano 1965. 3


24 Michel Foucault ma cosa che mi ha colpito, è che la parola parrhesia, che troviamo nella spiritualità cristiana, con il senso di necessità, per il discepolo, di aprire interamente il cuore al suo direttore, per mostrargli il movimento dei propri pensieri – questa nozione di parrhesia la ritrovate nella filosofia greco-romana di epoca imperiale, con una differenza capitale: la parrhesia non è un obbligo imposto al discepolo, ma è invece un obbligo imposto al maestro. Del resto, in questa filosofia, nel senso in cui l’ho definita prima, è caratteristico che si sia molto più preoccupati di imporre al discepolo il silenzio. La regolazione degli atteggiamenti di silenzio, a partire dal pitagorismo, ma anche più tardi, questa prescrizione degli atteggiamenti di silenzio è essenziale; la ritrovate nel pitagorismo: ricordatevi del testo di Plutarco, il De audiendo4 e, in tutt’altro contesto, in Filone Alessandrino, La vita contemplativa5, [di] tutta la gestualità del silenzio imposta ai discepoli, perché il discepolo è essenzialmente colui che tace, mentre, nel cristianesimo, nella spiritualità cristiana, il discepolo sarà invece colui che deve parlare. Invece la parrhesia, l’obbligo di dire tutto, appare come un precetto che si applica al maestro, alla guida, al direttore, a questo “altro” che è necessario nella cura di sé; in effetti, non si può aver cura di sé, non ci si può occupare di se stessi, non si può epimeleisthai heautou, che alla condizione di esser aiutati da qualcuno, ed è su questo qualcuno, su questo “altro” nella cura di sé, che pesa l’obbligo di parrhesia. In fondo, quello che vorrei studiare – non questa sera, ma nel quadro in cui mi sono posto la questione – è un po’ questo: questa specie di inversione di onere, inversione che fa sì che la parrhesia, cioè un certo obbligo di dire, nella filosofia antica pesasse sul maestro, mentre, nella spiritualità cristiana, peserà sul discepolo, su colui che è diretto, con tutti i cambiamenti di forma e di contenuto che, evidentemente, sono legati a questa inversione di onere. Ecco quindi il problema. Per prima cosa, vorrei vedere con voi alcuni testi, precedenti il periodo che ho scelto, cioè i due primi secoli dell’impero; prenderò in considerazione alcuni testi che vanno, a grandi linee, dal famoso trattato di Filodemo6, che data dell’inizio dell’impero, fino a Galeno, cioè alla fine degli Antonini. Questo è il periodo che ho scelto. Vorrei però Plutarco, Comment écouter, in Œuvres morales, t. I, 2, Les Belles Lettres, Paris 1989; trad. it. L’arte di ascoltare, in Moralia, II, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1990. 5 Filone Alessandrino, De vita contemplativa, Éditions du Cerf, Paris 1963; trad. it. La vita contemplativa, Il Melangolo, Genova 1992. 6 Si tratta del Peri parrhesia, edito da A. Olivieri, Teubner, Leipzig 1914. 4


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vedere comunque con voi altri testi precedenti, dirvi cosa mi suggeriscono e chiedervi cosa ne pensate. Sulla parola parrhesia abbiamo un celebre passaggio di Polibio7, in cui egli parla degli Achei e dice che il regime degli Achei era caratterizzato da tre cose: la demokratia, l’isegoria e la parrhesia. La democrazia, cioè la partecipazione di tutti, o meglio di tutti coloro che costituiscono il demos, all’esercizio del potere; l’isegoria, cioè una certa uguaglianza nella distribuzione delle cariche; e la parrhesia, la possibilità, a quanto pare per tutti, di accedere alla parola, il diritto alla parola per tutti, dove la parola è, ovviamente, quella determinante nel campo politico, la parola in quanto atto di affermazione di se stessi e della propria opinione all’interno del campo politico. Questo testo che associa parrhesia, demokratia e isegoria è evidentemente importante. Credo però che si possa risalire ancora oltre questo testo di Polibio e individuare un certo numero di altri usi molto interessanti, in epoca classica, in particolare in Euripide e Platone. Euripide fa uso della parola parrhesia in quattro passaggi. Il primo passaggio è nello Ione, versi 669-675. Il testo dice: Se non troverò la donna che mi ha dato alla luce, la mia non sarà vita. Posso esprimerti un voto? La vorrei di Atene, [questa donna che mi ha dato alla luce e che cerco,] per ricevere da lei il diritto di parlare da uomo libero (hos moi genetai metrothen parrhesian) [affinché la parrhesia mi venga da mia madre]. In una città di purissima schiatta, lo straniero ha un bel diventare cittadino, la sua lingua resta quella di uno schiavo, senza libertà di parola [non ha la parrhesia: ouk echei parrhesian]8.

Credo che questo testo sia interessante in primo luogo perché si vede che la parrhesia è un diritto, diritto che è legato alla cittadinanza. Chi non è cittadino, in una città in cui la razza è rimasta pura, non può parlare; solo il cittadino è abilitato a farlo, e questo diritto di parlare, lo si ha dalla nascita. [In secondo luogo,] si tratta di ottenere questo diritto di parlare in linea materna, è un diritto che viene dalla madre. In ogni caso, è la nascita, è l’appartenenza alla cittadinanza che, sola, in una città ben organizzata, può permettere di prendere la parola. Innanzitutto la parrhesia. Polibio, Histoires, II, 38, 6, Les Belles Lettres, Paris 1970; trad. it. Storie. Libri I-II, Rizzoli, Milano 2001. 8 Euripide, Ion, 669-675, in Tragédies, t. III, Les Belles Lettres, Paris 2002, p. 211; trad. it. Ione, Garzanti, Milano 2003, p. 185. 7


26 Michel Foucault Il secondo passaggio è nell’Ippolito, versi 421 e seguenti. È un testo molto interessante perché riprende il tema che abbiamo appena trovato nello Ione, ma con una leggera modulazione che è significativa. Si trova nella confessione di Fedra, quando ella confessa la propria passione per Ippolito, ed evoca tutte quelle donne che, segretamente, disonorano il talamo dei mariti e, di conseguenza, disonorano anche i figli. Fedra dice: Vivano felici nella splendida Atene, con il parlar franco dell’uomo libero [Fedra sta parlando dei figli che ha, che avrebbe]; la fama della madre li rischiari. Ché quando la coscienza d’una colpa del padre o della madre interviene, dell’uomo anche più ardito fa uno schiavo9.

Quello che si vede, è che la parrhesia, che è il diritto del cittadino, si trova intaccata dalle colpe, anche segrete, commesse dal padre o dalla madre. Quando il padre o la madre hanno commesso colpe, i figli sono in situazione di schiavi e, trovandosi in questa situazione, non hanno la parrhesia. La colpa morale fa decadere la parrhesia. Il terzo passaggio è nelle Fenicie, [versi] 387 e seguenti: si tratta di un dialogo tra Giocasta e Polinice. In questo dialogo si parla dell’esilio: Giocasta interroga Polinice sui dolori e le sofferenze che l’esilio provoca e dice, anzi, chiede: Giocasta: Che cosa vuol dire essere privi della patria? Un male così grande? Polinice: Grandissimo, più a provarlo che a dirlo. Giocasta: In che cosa consiste, cosa pesa all’esule? Polinice: Ouk echei parrhesian [Non ha la parrhesia]. È una grandissima menomazione. Giocasta: È tipico degli schiavi [doulos]: tacere quel che si pensa [me legein ha tis phronei]. Polinice: Bisogna sopportare le prevaricazioni di chi ha il potere. Giocasta: Eh sì, è doloroso anche far lo stupido con gli stupidi10.

Questo testo è interessante perché, come vedete, anche qui il diritto alla parola è legato al fatto di essere cittadini nella propria città. Quando si Euripide, Hippolyte, 421-425, in Tragédies, t. II, Les Belles Lettres, Paris 1960, p. 45; trad. it. Ippolito, in Le tragedie, Einaudi, Torino 2002, p. 129 [traduzione italiana modificata]. 10 Euripide, Les Phéniciennes, 387-394, in Tragédies, t. V, Les Belles Lettres, Paris 1961, p. 170; trad. it. Le fenicie, in Tragedie, vol. III, UTET, Torino 2001, pp. 330-331. 9


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abita nella propria città, si può parlare; quando non si è nella propria città, non si ha la parrhesia. Lo schiavo non ha la parrhesia, perché non ha la cittadinanza. Ma chi non ha la parrhesia, si trova al tempo stesso sottoposto alla stupidità, alla follia del padrone: vedete infatti apparire quest’idea che la parrhesia non solo è un diritto, nel suo fondamento e nella sua origine, ma ha la funzione di poter dire qualcosa come la ragione e la verità di fronte a coloro che hanno torto, che non detengono la verità, e il cui spirito è quello della stupidità o della follia. La parrhesia dice il vero: è quindi il diritto di dire il vero di fronte a colui che è folle, a colui che non possiede la verità. E [non esiste] dolore più grande che trovarsi in situazione di schiavo, sottoposto alla follia degli altri, quando invece si potrebbe dir loro la verità, ma non lo si può fare. Infine, quarto passaggio: è nelle Baccanti, [versi] 668 e seguenti. È un testo in cui il messaggero arriva con la notizia degli eccessi delle baccanti, ma ha paura di darla a Penteo, ha paura di parlare e dice: Messaggero: Voglio però sapere se posso riferirti liberamente ciò che accade lassù o se devo misurare le parole. Mi spaventano, signore, l’impetuosità del tuo cuore, l’irruenza dell’ira e la superbia della regalità. Penteo: Parla, io non ti farò nulla di male. Non bisogna adirarsi con le persone oneste11.

Qui abbiamo una situazione completamente diversa: non è un cittadino che afferma o rivendica il proprio diritto di parlare, perché si trova sulla propria terra. Al contrario, è il messaggero, il servitore che arriva e che ha una cattiva notizia da annunciare; teme di autorizzarsi a dare questa cattiva notizia e chiede in qualche modo di beneficiare della parrhesia, cioè di parlare liberamente. E Penteo risponde: «Sì, puoi parlare liberamente». Come vedete, ci troviamo in una situazione inversa rispetto a quella che abbiamo visto prima. C’è un servo che ha qualcosa da dire, che ha una cattiva notizia, notizia che farà male a chi la riceverà: potrà beneficiare del diritto di parlare? Penteo, da padrone vigilante, che sa qual è il proprio interesse e anche qual è il proprio dovere, risponde: «Certo, hai il diritto di parlare, non ti punirò per la cattiva notizia che mi hai dato, me la prenderò Euripide, Les Bacchantes, 668-673, in Tragédies, t. VI-2, Les Belles Lettres, Paris 2002, p. 77; trad. it. Le Baccanti, Mondadori, Milano 1999, p. 49. 11


28 Michel Foucault solo in seguito con le baccanti», e promette un castigo per loro. L’interesse di questo testo è, credo, doppio. Da una parte, esso pone il problema, che si trova così spesso anche in altre tragedie, di cosa fare del messaggero che porta una cattiva notizia: chi porta una cattiva notizia deve essere punito? Il diritto di parrhesia accordato al servo gli promette l’impunità per la cattiva notizia che porta. E, al tempo stesso, vedete apparire qui qualcosa che avrà, credo, una grande importanza: è quello che potremmo chiamare il tema dell’impegno, del patto parresiastico: colui che è il più forte e che è il padrone apre uno spazio di libertà, uno spazio di diritto di parola, per colui che non è il padrone e gli chiede di parlare, di dire la verità, una verità che può ferirlo, ma per la quale il padrone si impegna a non punire colui che la dice, che la pronuncia, e a lasciarlo libero, cioè a dissociare ciò che è enunciato da colui che lo enuncia. Ecco quattro testi in Euripide che mi sembrano porre molto chiaramente un certo numero di questioni sulla parrhesia come esercizio del diritto politico. Anche in Platone si trovano un certo numero di passaggi, ma ora prenderò in considerazione solo quelli che mi sembrano più significativi. Innanzitutto, nella Repubblica, libro VIII, 557 b, dove si descrive la polis democratica, questa polis variopinta, diversificata, etc., in cui ognuno può scegliere la forma di vita che vuole (idia kataskeue tou hautou biou)12, ognuno può costituirsi il proprio modo di vita. È in questo che consiste la libertà: nella possibilità di fare ciò che si vuole e di dire ciò che si vuole. La parrhesia appare quindi come uno dei tratti di questa polis democratica. Un altro testo, più interessante perché avrà una fortuna storica molto più grande, è quello che si trova nel III libro delle Leggi, 694 a e seguenti13. In questo testo, si tratta del regime monarchico, e più esattamente del regime di Ciro, della buona monarchia, della monarchia moderata, militare e moderata. Nell’elogio che [Platone] fa del regime di Ciro, ci sono due cose da notare. Innanzitutto, il fatto che i soldati, nel regno di Ciro, nella monarchia di Ciro, partecipavano in una certa misura al comando, potevano discutere con i capi, cosa che conferiva loro ardire nella lotta e anche amicizia per i comandanti. D’altra parte, il re stesso autorizzava, intorno a sé, coloro Platone, La République, VIII, 557 b, in Œuvres complètes, t. VII-2, Les Belles Lettres, Paris 1964; trad. it. La Repubblica, vol. II, Rizzoli, Milano 1992. 13 Platone, Les Lois, III, 694 a-b, in Œuvres complètes, t. XI-1, Les Belles Lettres, Paris 1975; trad. it. Le Leggi, Rizzoli, Milano 2005. 12


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che erano competenti ad avere il parlar franco, la parrhesia. Il re dava loro questo diritto, che gli assicurava effettivi successi, la prosperità, e che faceva sì che questa monarchia fosse, al tempo stesso, caratterizzata dall’eleutheria, la libertà, dalla philia, l’amicizia, e infine dalla koinonia, la comunità. A questo proposito, vorrei citare un brano del tutto simile che si trova nel discorso di Isocrate A Nicocle, in cui, come sapete, c’è una teoria, una rappresentazione del buon potere autocratico monarchico. Nel discorso A Nicocle, Isocrate dice questo: Considera fedeli non coloro che lodano qualunque cosa tu dica o faccia, ma chi biasima i tuoi errori. Concedi parrhesia agli uomini assennati [tois eyphronousin], per poterne avere il consiglio nelle questioni su cui sei incerto. Distingui gli abili adulatori dai servitori devoti, perché gli intriganti non prevalgano sugli onesti. Ascolta i discorsi che gli uomini fanno gli uni sugli altri, e cerca di riconoscere a un tempo il carattere di quelli che parlano e di quelli intorno a cui parlano14.

Lasciamo ora da parte la fine del testo, forse ci torneremo più tardi. Vedete che ciò che caratterizza, che assicura la qualità di un buon governo monarchico, è il fatto che il monarca lasci intorno a sé uno spazio di libertà, in cui gli altri potranno parlare e dargli consigli saggi. A questi primi testi di Platone, vorrei aggiungere un passaggio delle Leggi, libro VIII, 835 c, in cui, come sapete, Platone spiega come devono essere regolati e retti nella polis i canti, la ginnastica, la musica; da qui, passa poi alla padronanza delle passioni e all’espulsione delle cattive passioni. Egli inizia questo nuovo sviluppo15 evocando la possibilità, la necessità di qualcuno che sarebbe come una sorta di maestro di morale. Come dovrebbe essere questo maestro di morale? Dovrebbe essere qualcuno che, attraverso la parrhesia, prevarrebbe su tutti, ordinerebbe a ognuno ciò che è conforme alla politeia, alla costituzione della polis. Così facendo, non farebbe altro che ascoltare la ragione, la sola ragione, e sarebbe in qualche modo, nella città, l’unico ad ascoltare la sola ragione. Essere l’unico ad ascoltare la sola ragione: è questo che caratterizza colui che potremmo chiamare il parresiasta morale della città. Vorrei ora aggiungere un altro testo di Platone, appartenente a un periodo precedente, ma che è, credo, anch’esso estremamente interessante, Isocrate, À Nicoclès, 28, in Discours, t. II, Les Belles Lettres, Paris 1956, p. 105; trad. it. A Nicocle, in Opere, UTET, Torino 1991, p. 117. 15 Platone, Le Leggi, cit., VIII, 835 c. 14


30 Michel Foucault proprio per condurci al problema che vorrei evocare oggi. È un brano del Gorgia, e questa volta vorrei leggerlo. Il passaggio si situa nel momento in cui Callicle ha appena fatto il suo primo e clamoroso ingresso, e in cui, dopo aver ripreso le insufficienze del discorso di Gorgia e di Polo, dice: «io parlerò fino in fondo, non mi farò ostacolare da tutta la timidezza di coloro che hanno parlato prima di me», e spiega come e perché è possibile commettere un’azione ingiusta in modo ragionevole. Dopo questo sviluppo, Socrate interviene e anche qui parlerà di parrhesia, e lo farà in un modo interessante: Socrate: Senti, Callicle: immagina che io avessi un’anima d’oro, e che trovassi una di quelle pietre di paragone con cui saggiano l’oro, la migliore di tutte; e immagina che io toccassi la mia anima con la pietra e che avessi la conferma del suo valore, non credi che sarei contento di sapere che tutto è a posto e che non c’è bisogno di altre prove? Callicle: Perché mi fai questa domanda, Socrate? Socrate: Incontrando te è come se avessi trovato questa pietra straordinaria [la pietra che permettere di mettere alla prova la sua anima]: ecco perché. Callicle: In che senso? Socrate: Se tu ti troverai d’accordo con quello che pensa la mia anima, io sarò automaticamente certo che sia vero. Secondo me, uno che vuole davvero verificare se un’anima vive bene o no, deve avere tre doti: episteme, eunoia, parrhesia; e tu ce le hai tutte. Ne incontro tanti che non sono capaci di mettermi alla prova, perché non sanno le stesse cose che sai tu. Ce ne sono poi altri che sono sì sapienti […]16.

La parrhesia appare dunque qui in un senso molto diverso da quello di prima, sia quando era un diritto dei cittadini, sia quando era la necessità o il criterio di un governo monarchico ragionevole, che si lasciava dire la verità. Ora, si tratta di una parrhesia che servirà da prova e da pietra di paragone per l’anima. Quando un’anima vuole avere una pietra di paragone, se vuole cioè sapere – e il testo usa, a un dato momento (la traduzione non lo rende bene, ma poco importa) la parola importante di therapeuein – se l’anima, cioè, cerca nella sua volontà di curarsi, di prendersi cura di sé, se vuole trovare una pietra di paragone che le permetta di reperire a che punto è della propria salute, cioè della verità delle proprie opinioni, ha bisogno Platone, Gorgias, 486 d-487 a, in Œuvres complètes, t. III-2, Les Belles Lettres, Paris 1972, pp. 166-167; trad. it. Gorgia, Rizzoli, Milano 1994, pp. 177-178. 16


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di qualcuno, di un’altra anima che si caratterizzerà per l’episteme, il sapere, per l’eunoia, la benevolenza, e per la parrhesia. Alcune anime mancano di scienza, e non possono servire da buon criterio; altre mancano di amicizia, non hanno l’eunoia; quanto a Polo e Gorgia, che hanno appena parlato, Socrate dice, in effetti, che mancano di parrhesia, che sono stati timidi e hanno avuto vergogna di andare fino in fondo a ciò che pensavano, cioè che è ragionevole commettere azioni ingiuste. Callicle, invece, dice Socrate, evidentemente in modo ironico – ma per il momento lasciamo da parte l’ironia – sarà la buona pietra di paragone dell’anima in buona salute: ha l’episteme, o almeno pretende di averla, pretende di avere l’amicizia e poi, appunto, non manca di questa parrhesia, non è frenato da quello scrupolo, da quel pudore che caratterizzava Polo e Gorgia. Mi sembra che qui abbiamo la prima formulazione nel pensiero greco della parrhesia come elemento costitutivo e indispensabile del rapporto tra anime. Quando un’anima vuole prendersi cura di sé, quando vuole assicurare questa epimeleia heautou che è fondamentale, quando vuole therapeuesthai se stessa, curarsi, ha bisogno di un’altra anima, e quest’altra anima deve avere la parrhesia. Questo è il contesto in cui vorrei ricollocare non tanto l’analisi, quanto le questioni da porre questa sera. In ogni caso, mi sembra che, se si volesse fare l’analisi della parrhesia, non è certo provando ad abbracciare tutta la nozione nel suo campo generale, nei suoi significati generali [che sarebbe possibile farlo]. In fondo, credo che la nozione di parrhesia sia sempre legata a una pratica. Se prendete i testi cui mi interesso – I-II secolo – vedete in effetti la nozione di parrhesia in vari contesti pratici molto diversi. In primo luogo, la trovate nel contesto della retorica – Quintiliano, libro IX, capitolo 217 – capitolo che è dedicato alle figure di pensiero, sententiarum figurae, cioè a tutto ciò che fa sì che il pensiero, quando si esprime, si allontani dal simplici modo indicandi. Quindi, in questo capitolo sulle figure di pensiero, ecco che Quintiliano fa posto a una figura del pensiero che è una non-figura, che è la figura zero, quella che fa crescere l’emozione dell’uditore, quella che agisce, di conseguenza, sull’uditore, senza essere adsimulata, senza essere arte composita, senza quindi essere né finta, né simulata, né composta dall’arte e dalla tecnica; è l’oratio libera, cioè l’esclamazione e l’espressione diretta del pensiero senza alcuna figura particolare; è questa oratio libera Quintiliano, Institution oratoire, X, 2, Les Belles Lettres, Paris 1978; trad. it. Istituzione oratoria, Zanichelli, Bologna 1972. 17


32 Michel Foucault che Quintiliano afferma fosse chiamata dai Greci parrhesia e da Cornificio licentia. Ecco un primo contesto in cui trovate la parola parrhesia. Secondo contesto, molto interessante, molto ampio e che sarebbe da inventariare – non ho fatto questo inventario, proverò forse a farlo più tardi: si tratta dell’uso della parola parrhesia nel pensiero politico. Qui bisognerebbe ritracciare la linea che abbiamo visto delinearsi con Platone, quando descriveva il regno di Ciro, o nel testo di Isocrate rivolto a Nicocle, il discorso A Nicocle. Qui, la parrhesia appariva evidentemente come nozione molto importante, dal momento in cui si ha a che fare con una struttura politica in cui il principato, la monarchia e l’autocrazia sono divenuti, in effetti, un fatto politico. In tutti questi testi storici e politici, la parrhesia non è più legata, chiaramente, all’isegoria o alla demokratia, ma è invece legata all’esercizio di un potere personale e a una struttura fortemente non egalitaria. Così intesa, la parrhesia non ha affatto lo status di un diritto che si eserciterebbe per nascita; essa è una libertà, una libertà accordata e concessa dal sovrano o dal ricco, dal potente. È una libertà che egli deve accordare per poter essere un buon sovrano, per essere ricco e potente come si deve. La parrhesia è il criterio del buon sovrano, è il criterio del regno illustre. Allora, a questo proposito, si potrebbero riprendere tutti i ritratti dei vari imperatori fatti dagli storici dell’epoca. Credo che la presenza o l’assenza di parrhesia sia sicuramente uno dei grandi tratti distintivi del buono o del cattivo sovrano: d’altra parte, in questa posta in gioco che ruota intorno alla parrhesia è presente tutto il problema dei rapporti tra l’imperatore e il senato. La parrhesia è quindi una libertà, ma una libertà che il sovrano deve dare. Questa libertà che è dunque data dal principe ad altri, non deve essere compresa come una sorta di delega di potere, e non è nemmeno una partecipazione al potere. A cosa si rivolge questa libertà che il principe dà al parresiasta, libertà di cui egli ha tanto bisogno per governare? Qual è il suo ambito di applicazione? Non è la politica, non è la gestione della repubblica, non è una parte del proprio potere che viene ceduto ad altri. Egli dà ad altri la libertà di esercitare, se possono e se ne sono capaci, un potere sulla sua anima, sull’anima del sovrano. La parrhesia politica ha per punto di applicazione non l’ambito dell’azione politica, ma l’anima del principe. In tale misura, vedete che questa parrhesia politica è comunque molto vicina a quella che stiamo per studiare: la parrhesia nella direzione di coscienza. Vedete anche che questa parrhesia, intesa come libertà di dire per


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agire sull’anima del principe, è legata a un certo tipo di struttura politica, ed è anche legata alla forma politica della corte. Credo che ci sarebbe tutta una lunga storia della parrhesia […]18, nei sistemi politici, in tutte le forme di sistemi politici che hanno comportato la corte. Fino al XVIII secolo, nel pensiero politico europeo, il problema della parrhesia, della libertà di parlare per il consigliere del principe, è un problema politico. Prima che si ponga il problema della libertà di espressione per tutti, il problema del diritto al parlar franco all’interno dello spazio della corte è stato uno dei principali problemi politici. Ci si potrebbe quindi divertire a vedere quale sia stato, rispetto alla parrhesia, il ritratto del buon consigliere; il favorito, come personaggio negativo: è appunto l’adulatore e non il parresiasta; il predicatore di corte: colui che, protetto dal suo status di sacerdote e dal luogo da cui parla, il pulpito, è tenuto alla parrhesia. Questi sono i limiti della parrhesia. Credo che sarebbe possibile fare tutta un’analisi storicoculturale della parrhesia nel suo rapporto con la struttura della corte. Ad ogni modo, non sono questi i problemi che vorrei studiare oggi: oggi vorrei prendere in considerazione un altro contesto pratico, che non è quello della retorica, né quello della politica, bensì quello della direzione di coscienza. Vorrei quindi segnalare due o tre problemi di metodo. In primo luogo, la questione della parrhesia nella direzione di coscienza è stata evocata in un certo numero di studi, ma non credo che abbia mai dato luogo a un’analisi diretta e chiara. Il testo che mi sembra più ricco di informazioni è un articolo di Gigante, che sicuramente conoscerete, pubblicato negli atti del congresso Guillaume Budé del 196819: è appunto una presentazione del testo di Filodemo che si chiama Peri parrhesias20. Attraverso il testo di Gigante, che fa riferimento a Philippson e ad altri autori precedenti, si vede all’incirca quale sia la posta in gioco del dibattito: si tratta di sapere se la parrhesia deve essere considerata come una virtù, se deve essere considerata come una tecnica, o se non si debba invece considerarla come un modo di vita. Per dire le cose in modo molto schematico, mi sembra […]21 [difficile] che sia un modo di vita, un modo di vita come potrebbe Interruzione della registrazione. M. Gigante, Philodème. Sur la liberté de parole, in Association Guillaume Budé, Actes du VIII Congrès, Paris, 5-10 avril 1968, Les Belles Lettres, Paris 1969, pp. 196-22 20 Filodemo, Peri parrhesias, cit. 21 Passaggio in parte non udibile. Si sente solo: «Infine, quello che vorrei […] forse un po’ troppo ampio». 18 19


34 Michel Foucault essere, ad esempio, il modo di vita filosofico. Sicuramente il modo di vita filosofico implica assolutamente la parrhesia: non può esserci filosofo che non sia un parresiasta; il fatto di essere parresiasta, però, non coincide esattamente con il modo di vita filosofico. Credo – o in ogni caso è quel che vorrei suggerire – che si dovrebbe considerare la parrhesia dal punto di vista di quella che viene ora chiamata una pragmatica del discorso, che si dovrebbe cioè considerare la parrhesia come l’insieme dei caratteri che fondano in diritto e che assicurano in efficacia i discorsi dell’“altro” nella pratica della cura di sé. In altri termini, se la pratica filosofica è in effetti, come dicevo prima, l’esercizio della cura di sé, o l’insieme delle pratiche, delle regole e delle tecniche che assicurano l’esercizio della cura di sé, se quindi la pratica filosofica è in effetti l’esercizio della cura di sé, se la cura di sé ha bisogno dell’altro e del discorso dell’altro, qual è il carattere essenziale di questo discorso dell’altro, considerato come atto, come azione su di me? Credo che questo discorso abbia, come carattere, quello di essere il discorso della parrhesia. La parrhesia caratterizza il discorso dell’“altro” nella cura di sé. Per provare ad analizzare questo tema un po’ più a fondo, farò riferimento a un certo numero di testi. Nella sua presentazione del testo di Filodemo, Gigante si è chiaramente basato sulla tradizione epicurea, che purtroppo, su questo punto esatto, conosciamo poco. Gigante si scontra con la famosa ipotesi, che chiamerò “italiana”, dell’Aristotele perduto22, e prova a mostrare che Filodemo non è dipendente da Aristotele. Tenterò di prendere – perché chiaramente non sono in grado di risolvere questo problema – un ambito di riferimento un po’ più ampio e proverò a vedere, a studiare questa parrhesia dal punto di vista della pragmatica del discorso, attraverso in parte il testo di Filodemo – che però è talmente mutilato che sarà difficile trarne molto –, poi in Seneca, in Epitteto, in Plutarco, certo, e anche in un testo di Galeno. Vorrei quindi iniziare considerando due testi che mi serviranno un po’ da filo conduttore per studiare questa nozione di parrhesia. Uno è semplicemente il testo di presentazione delle Diatribe di Epitteto, redatto da Allusione ai lavori di Ettore Bignone, che ipotizza un’influenza di scritti di Aristotele, oggi andati perduti, su Epicuro e gli Epicurei. Cfr. E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione di Epicuro, La Nuova Italia, Firenze 1936; nuova edizione: Bompiani, Milano 2007. 22


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Arriano23. È un testo molto interessante, ed è un piccolo trattato sulla parrhesia, [una] riflessione sulla parrhesia – è una paginetta. Arriano spiega che è stato condotto a pubblicare le Diatribe di Epitteto perché ne circolavano versioni lacunose. Afferma di voler pubblicare queste Diatribe per far conoscere la dianoia e la parrhesia di Epitteto: la dianoia è il movimento del pensiero, il movimento del pensiero di Epitteto, e [la] parrhesia è appunto la forma specifica del suo discorso. Dianoia e parrhesia sono associate e, del resto, non verranno mai dissociate lungo tutto il testo; quel che Arriano vuole rendere presente, è l’insieme costituito dalla dianoia e dalla parrhesia di Epitteto. E cosa farà, per poter restituire così la dianoia e la parrhesia di Epitteto? Pubblicherà, offrirà al pubblico – dice – gli appunti che ha preso, gli hypomnemata. Quella di hypomnemata è una nozione tecnica importante: si tratta della trascrizione degli appunti presi dall’uditore mentre il filosofo sta parlando. Queste trascrizioni sono anche dei quaderni di esercizi, dato che, con questi hypomnemata che bisogna rileggere regolarmente, si riattiva in continuazione ciò che è stato detto dal maestro. Ricordatevi di Plutarco, ad esempio, che mandava il Peri epithymias a Paccio, dicendogli: «so che sei hai fretta, hai assolutamente bisogno di un trattato sulla tranquillità dell’anima, in modo molto urgente. Non puoi aspettare, ti mando gli hypomnemata che ho scritto per me»24. All’interno stesso del testo di Epitteto, avete un certo numero di riferimenti a questo. Epitteto, ad esempio, in certi momenti dice: ecco cosa ho da dirvi, ora lo dovete meletan, meditarlo, riattualizzarlo, pensarvi senza sosta, lo dovete graphein, scriverlo, leggerlo e fare gymnazein, farne esercizio. Arriano offrirà quindi al pubblico gli hypomnemata delle Diatribe di Epitteto. Questi hypomnemata incontreranno di certo delle obiezioni, poiché si finirà col dire, i lettori finiranno col dire, che Epitteto non è capace di scrivere come si deve e disprezzeranno la sua parola senza affettazione; ma quel che precisamente costituisce la funzione degli hypomnemata è di consegnare la spontanea conversazione dello stesso Epitteto, quel che egli stesso ha detto direttamente, hopote25. Per quel che riguarda Arriano, egli Epitteto, Entretiens. Arrien à Lucius Gellus, t. I, 1-8, Les Belles Lettres, Paris 1948; trad. it. Le diatribe e i frammenti, Laterza, Bari 1960. 24 Plutarco, De la tranquillité de l’âme, 464 E-F, in Œuvres morales, t. VII-1, Les Belles Lettres, Paris 1975; trad. it. La serenità interiore, in Moralia, I, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1989. 25 Epitteto, Diatribe. Arriano a Lucio Gello, cit., 7. 23


36 Michel Foucault corre il rischio di vedersi rimproverato di non essere uno scrittore valido, ma non ha importanza, poiché quello che intende fare che cos’è? [È] far sì che venga nuovamente trasmessa la maniera in cui Epitteto agiva sulle anime quando parlava, in un modo in un certo senso trasparente, attraverso gli appunti che egli rende disponibili, in modo tale che questa azione operi immediatamente sui lettori. Così come la parola di Epitetto era tale da provocare, in chi l’ascoltava, esattamente i sentimenti e le impressioni che egli voleva, nella stessa maniera Arriano si auspica che coloro che leggeranno questo testo proveranno quel che Epitteto avrebbe voluto far loro provare. E se non lo provano, dice Arriano, concludendo la sua introduzione, è perché delle due cose l’una: o lui, Arriano, non ha saputo trascriverle come conviene e sarà quindi colpa sua; oppure è perché, sostiene, le cose dovevano essere così, ovvero che coloro che leggono non sono in grado di comprendere. La parrhesia appare dunque qui come in rottura, laddove trascura le tradizionali forme della retorica e della scrittura: la parrhesia è un’azione, è tale da agire, da permettere al discorso di agire direttamente sulle anime; e, nella misura in cui è questa azione diretta sulle anime, la parrhesia trasmette la dianoia stessa attraverso un tipo di accoppiamento o di trasparenza tra il discorso e il movimento del pensiero. Ecco il primo testo cui volevo riferirmi. Adesso prenderò in esame un secondo testo, un testo di Galeno che si trova all’inizio del trattato sulla cura delle passioni26. L’inconveniente è che si tratta, peraltro, dell’unico testo, tra quelli che oggi vi citerò, nel quale non figura la parola parrhesia – tanto l’espressione greca parrhesia, quanto quella latina libera oratio, o libertas, con cui normalmente si traduce parrhesia. Il termine parrhesia non figura quindi nel testo di Galeno, tuttavia sono convinto che sia assolutamente innegabile che si tratti esattamente della descrizione della parrhesia, ma vista da un’altra prospettiva, e che proprio questo sia tecnicamente molto interessante. Arriano poneva il seguente problema: Epitteto ha parlato, e se soltanto la sua parola svolgeva un’azione sull’anima degli altri, come trasmettere questa azione e quale potrebbe essere il veicolo di questa parrhesia? Il problema che pone Galeno è completamente differente e molto curioso, ovvero: com’è possibile cercare, trovare ed essere sicuri di aver effettivamente scoperto il parresiasta di cui si ha bisogno quando ci si vuole ocGaleno, Traité des passions de l’âme et de ses erreurs, Delagrave, Paris 1914; trad. it. Le passioni e gli errori dell’anima. Opere morali, Marsilio, Venezia 1984. 26


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cupare di se stessi? Nel suo testo, infatti, Galeno suppone che, da un lato, non si può diventare un uomo per bene, un uomo compiuto (teleios aner) se non si vigila su se stessi (sauto pronooumenos). Si deve aver trascorso la propria vita a vigilare su di sé, e questa vigilanza su di sé richiede esercizi, continui esercizi: deitai gar askeseon, come viene detto. Occorre un esercizio, una pratica che deve durare tutta la vita27. Ora, questa pratica non è in grado di controllare se stessa; per regolarla, c’è bisogno di qualcun altro. Galeno dice che coloro che si sono rimessi agli altri per avere un parere su loro stessi, raramente si sono sbagliati; in compenso, coloro che non l’hanno fatto hanno creduto di essere eccellenti e si sono spesso ingannati. Dunque c’è bisogno di qualcun altro per controllare l’esercizio mediante il quale si diventerà un teleios aner, un uomo compiuto. Come e dove si ritroverà questo altro? Ciò che appare degno di nota in questo lungo brano di Galeno, è che non vi si parla affatto né della competenza tecnica e nemmeno del sapere di questo altro di cui si ha bisogno. Viene semplicemente detto: bisogna in qualche modo tendere un orecchio e vedere se si sente parlare di qualcuno, di qualcuno che ha la reputazione di non essere un adulatore. E, se si è sentito parlare di una persona simile, allora si procede a un certo numero di verifiche – ritornerò tra poco su questo punto – per essere completamente certi che egli sia aletheuein, capace di dire la verità, ed è solo allora, quando si è ben certi che sia capace di dire la verità, che si andrà da lui chiedendogli quale opinione abbia di noi stessi; gli si chiederà quale opinione ha di noi, spiegandogli quelli che crediamo essere i nostri difetti e i nostri pregi, attendendo infine la sua reazione28. E se siamo del tutto sicuri che, in effetti, egli sia severo quanto gli è richiesto – tornerò anche su questo punto –, allora potremo affidarci all’aiuto delle sue cure, di cui abbiamo bisogno. Galeno spiega come egli stesso abbia svolto questo ruolo di aiuto e di guida per uno dei suoi amici, che si abbandonava troppo facilmente alla collera e che aveva ferito con un colpo di spada due dei suoi schiavi che, durante un viaggio, avevano smarrito i suoi bagagli (ma questo è poco importante!), e come pure, detto in breve, quest’uomo in preda alla collera era stato guarito29. Credo che abbiamo qui un piccolo quadro della direzione di coscienza e degli elementi costitutivi della parrhesia; ci troviamo in presenza degli Ibidem. Ibidem. 29 Ibidem. 27 28


38 Michel Foucault elementi che costituiscono la parrhesia innanzitutto perché si vede come la parrhesia sia legata molto chiaramente alla cura di sé, la si vede molto chiaramente legata all’askesis, all’esercizio, la si vede molto chiaramente legata all’adulazione e la si vede in opposizione alla collera. Questi due testi [contengono] le esposizioni più dense e al tempo stesso più articolate sulla parrhesia; a partire da essi e servendomi di essi, quindi, vorrei vedere un po’ come questa parrhesia possa essere studiata non tanto come virtù, non tanto come semplice tecnica, ma nemmeno come modo di vita. Che cosa si può dire sulla parrhesia all’interno della pratica della direzione di coscienza o meglio, se volete, all’interno della pratica della cura di sé? In primo luogo, la parrhesia si oppone all’adulazione. L’adulazione, come sapete, è una nozione estremamente importante nell’etica, e nell’etica politica, di tutta l’Antichità; ci sono infinitamente più testi, più riferimenti, più considerazioni sull’adulazione che, per esempio, sull’etica sessuale o sull’etica dei piaceri della carne, della golosità o della concupiscenza. L’adulazione è una nozione molto importante che, credo, si trova al cuore di molti problemi sul governo di sé e sul governo degli altri. Credo d’altronde che, per capire cosa sia l’adulazione, la si debba affiancare a ciò che le è complementare; direi che la parrhesia è l’inverso dell’adulazione e che l’adulazione è complementare alla collera. Nell’etica antica, la collera non è semplicemente lo sfogo di qualcuno contro qualcun altro o contro qualcosa; la collera è sempre lo sfogo di colui che ha più potere e che si trova nella situazione di esercitare questo maggior potere al di là dei limiti ragionevoli e moralmente accettabili. La collera è sempre la reazione impetuosa del più forte, e su questo abbiamo l’assoluta evidenza che presentano le analisi di Seneca e di Plutarco. Dunque la collera è il comportamento di colui che si scaglia contro qualcuno più debole di lui. L’adulazione è esattamente l’atteggiamento complementare: l’adulazione è il comportamento del più debole che desidera attirare la benevolenza del più forte. Se volete, potremmo dire che ci troviamo in presenza di un insieme abbastanza complesso: l’opposto della collera è la clemenza; il complementare della collera è l’adulazione; e l’opposto dell’adulazione è la parrhesia: collera e clemenza, adulazione e parrhesia. La parrhesia si oppone all’adulazione, ne costituisce il limite, la controbatte, proprio come la clemenza limita la collera e la controbatte. La collera è un comportamento che richiama l’adulazione e la clemenza è, per chi esercita il potere, un comportamento ragionevole che lascia aperto lo spazio per la parrhesia. Credo che si debba mantenere questa figura a quattro termini – collera, clemenza, adulazione, parrhesia.


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Come si presenta la parrhesia come anti-adulazione? Si presenta in tre forme. In primo luogo, la parrhesia è in diretta relazione col precetto delfico, con lo gnothi seauton. [Per] l’adulazione vi rinvio a Plutarco, al testo che è certamente fondamentale a questo riguardo, ovvero Come distinguere l’adulatore dall’amico30, considerando che questo testo – che, se volete, potrei chiamare il trattato dell’adulatore – è un trattato sull’opposizione adulazione-parrhesia. Il vero amico che è contrapposto all’adulatore è sempre l’amico che dice la verità. In questa misura, credo che il trattato di Plutarco sia assolutamente centrale per la maggior parte delle analisi che si devono svolgere a proposito della parrhesia e soprattutto sulla sua opposizione all’adulazione. Infatti, il testo di Plutarco è molto chiaro e dice: l’adulatore è colui che combatte il precetto delfico, è colui che impedisce all’altro di conoscere se stesso. Di conseguenza, la parrhesia sarà lo strumento necessario, sarà quello che nell’altro permette, proprio a me, di conoscere me stesso. E Galeno fa eco a questo legame tra la parrhesia e il precetto delfico, o tra l’adulazione e il misconoscimento del precetto delfico, all’inizio dello stesso passaggio che citavo poco fa, ovvero all’inizio del Trattato sulla cura delle passioni, laddove sostiene che, quando era giovane, proprio lui, Galeno, non accordava la minima importanza allo gnothi seauton e che solo in seguito, quando capì il pericolo che correva nel voler piacere a se stesso e nel lasciare che gli adulatori lo adulassero, comprese l’importanza dello gnothi seauton31. Dunque la parrhesia è, e sarà, l’anti-adulazione, e in questa stessa misura sarà l’operatore del gnothi seauton. Dire che la parrhesia sia l’operatore del gnothi seauton non vuol dire esattamente che la parrhesia debba parlare a proposito di se stessa; il parresiasta non è colui che parlerà all’individuo di se stesso, dei suoi affari, dicendogli quel che esattamente è, qual è il suo carattere, ecc. Certo lo dovrà fare, ma l’essenziale della funzione parresiastica sarà piuttosto di indicare al soggetto qual è il suo posto nel mondo; il parresiasta è dunque colui che dovrà fare discorsi su quel che è l’uomo in generale, su quel che è l’ordine del mondo, su quella che è la necessità delle cose. Il parresiasta in particolare – e su questo i testi di Epitteto sono molto chiari – è colui che dice, in ogni istante o ogni volta che l’altro ne ha bisogno, quali sono gli elementi che dipendono da lui e quali non dipendono da un soggetto. È questo Plutarco, Les moyens de distinguer le flatteur d’avec l’ami, in Œuvres morales, Les Belles Lettres, Paris 1989; trad. it. Come distinguere l’adulatore dall’amico, Sellerio, Palermo 1991. 31 Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima, cit. 30


40 Michel Foucault parresiasta in quanto criterio di distinzione, in quanto possiede il criterio di distinzione tra quello che dipende da noi e quello che non dipende da noi, è questo criterio che gli permette di essere simultaneamente l’operatore del gnothi seauton. Rivedete Epitteto, e vedete anche Marco Aurelio. E allora io mi chiedo se questo non costituisca almeno un aspetto del senso che assume il testo di Epicuro che abbiamo riprodotto per voi – visto che, per prudenza e timidezza, non avevo osato chiedere che lo si traducesse –, quando questo testo, che François Heidsieck ha menzionato e tradotto, [dice]: «Per parte mia, facendo ricorso alla libertà di parola del fisiologo [di chi studia la natura], preferirei dire in modo oscuro, anche se nessuno dovesse comprendermi, cose che sono utili a tutti gli uomini, piuttosto che, conformando il mio giudizio alle opinioni preconcette, raccogliere il plauso che proviene in abbondanza dai più»32. Non voglio commentare il resto del testo perché è difficile. Si tratta ad ogni modo di un testo isolato che nessun effetto di contesto può chiarire; tuttavia mi sembra che la libertà di parola del fisiologo, la parrhesia di cui si serve il physiologos si riferisca a questa tradizione: colui che, conoscendo la natura delle cose, conoscendo la physis, può essere il parresiasta che dissiperà le illusioni, metterà a tacere le paure, allontanerà le chimere e dirà all’uomo quel che in verità egli è. Ecco, in ogni caso questo è l’intero asse della parrhesia in quanto funzione del gnothi seauton. Vedete che, in un certo senso, ci troviamo qui all’opposto della struttura platonica. Nella struttura platonica, infatti, lo gnothi seauton è operato attraverso un movimento di ripiegamento del soggetto su se stesso nella forma della memorizzazione: se vuoi sapere chi sei, ricorda quel che sei stato; qui sapere chi tu sia richiede che vi sia un qualcun altro, qualcuno che possieda la parrhesia, che si serva della parrhesia e che dica effettivamente quale sia l’ordine del mondo nel quale ci si trova collocati. Ecco uno dei primi aspetti della parrhesia su cui volevo insistere. Il secondo aspetto consiste nel fatto che la parrhesia – si è visto molto bene nella presentazione di Arriano – si caratterizza per una certa libertà di forma. Il parresiasta è colui che non deve tener conto né delle regole della retorica – come è ovvio – né, ugualmente, delle regole della dimostrazione filosofica; si oppone alla retorica, si oppone all’elenchos, e si oppone anche alla dimostrazione, al rigore delle prove, a ciò che forzerà l’individuo a riconoscere che questa è la verità e quest’altro è nulla. Da questo punto di Epicuro, Sentences vaticanes, 29, in Lettres et maximes, Éd. de Mégare, Villers-sur-Mer 1977; trad. it. Sentenze Vaticane, in Opere, Einaudi, Torino 1973. 32


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vista, la parrhesia è quindi una forma di discorso differente dalla retorica, e differente anche dalla dimostrazione filosofica propriamente detta. Si pone allora il problema di sapere se la parrhesia non sia questa specie di modulazione affettiva del discorso, intensa e occasionale, che si ritrova, per esempio, nella letteratura delle diatribe: non è forse parrhesia questo apostrofare del filosofo che ferma qualcuno in mezzo alla strada, che interpella qualcuno in mezzo alla folla, o ancora, come dice Epitteto33, che si alza a teatro e dice alla folla quello che ha da dire, convincendola attraverso i toni del proprio discorso? Allora, credo che sia in funzione di tutto ciò che si debba leggere un certo numero di testi, e in particolare alcuni testi di Seneca. Nelle lettere di Seneca vi sono parecchi passaggi che riguardano molto chiaramente la letteratura delle diatribe. Nella lettera 40, nella lettera 29 e, mi sembra, nella lettera 3834, trovate un certo numero di indicazioni su questo genere di letteratura appassionata, violenta, interpellante, dalla quale Seneca vuole giustamente allontanarsi, sostenendo che implica effetti in qualche maniera supplementari, che oltrepassano il pensiero e che non sono provvisti della necessaria misura per ottenere sull’anima gli effetti desiderati. A questa letteratura da tribuni, Seneca preferisce le lettere individuali oppure la conversazione. Credo che la conversazione, l’arte della conversazione, sia la forma che coincide, che converge nel modo più stretto con quel che esige la parrhesia: parlare come si deve, parlare in una forma tale da poter agire direttamente sull’anima dell’altro, parlare senza appesantirsi con forme retoriche e senza nemmeno esagerare con gli effetti che si vogliono ottenere; tutto questo si trova realizzato nella conversazione. Anche a tal riguardo bisognerebbe verificare quanto la letteratura delle conversazioni, le regole della conversazione filosofica, per come sono suggerite in questi testi, in particolare in quelli di Seneca, divergano da quella che può essere l’interrogazione socratica. Perché la parrhesia ha bisogno di questa forma, che non è né quella della retorica, né quella dell’argomentazione filosofica, e nemmeno quella della diatriba? È perché, volendo agire sulle anime, la parrhesia ha essenzialmente per punto di appoggio il kairos; il kairos, ovvero il momento opportuno. In effetti, non si tratta di un atto di memoria tramite il quale il sogEpitteto, Entretiens, III, 22, 26, Les Belles Lettres, Paris 1963; trad. it. Le diatribe e i frammenti, cit. 34 Seneca, Lettres à Lucilius, 29, 38, 40, Les Belles Lettres, Paris 1945; trad. it. Lettere a Lucilio, in Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1994. 33


42 Michel Foucault getto ritroverebbe ciò che egli era, quel che ha potuto contemplare; non si tratta nemmeno di costringerlo attraverso la necessità di un ragionamento; si tratta di cogliere, nel momento in cui appare, il kairos, l’opportunità, per dirgli quello che gli si deve dire. Questa opportunità, deve tener conto di due cose: innanzitutto di quel che l’individuo è; vi rinvio alla lettera 2535 di Seneca, molto interessante, in cui Seneca parla a Lucilio di due amici bisognosi di consigli, ma che non si presentano nella stessa maniera: l’uno è più malleabile, l’altro un po’ meno. Come si farà? Come si interverrà su di loro? Trovate qui la problematica della parrhesia individuale. Ma trovate anche la problematica di una parrhesia in funzione della peristasis, in funzione delle circostanze: non si può dire a qualcuno la medesima cosa in circostanze differenti. Per esempio, Plutarco cita il caso di Cratete – Cratete il cinico, che era esattamente l’uomo della parrhesia spogliata di ogni retorica –, soprattutto per quanto riguarda i suoi rapporti con Demetrio Poliorcete36. Quando Demetrio aveva conquistato Atene, [quando] era un potente sovrano, Cratete lo aggrediva sempre con una parrhesia attraverso la quale gli mostrava quanto la sua sovranità fosse poca cosa e come lui stesso, Cratete, preferisse il proprio genere di vita a quello di Demetrio. Una volta perduto il proprio potere, dice Plutarco, ecco Demetrio che, intravedendo Cratete venire verso di lui, teme fortemente la sua parrhesia. Invece Cratete gli si avvicina e sviluppa dinanzi a lui la tesi che l’esilio, la perdita di potere e quant’altro non sono in verità dei mali e gli rivolge parole di consolazione. La vera parrhesia di Cratete non consisteva quindi nell’offendere sempre colui al quale si rivolgeva, ma a cogliere il momento e le circostanze in cui era possibile parlare in un certo modo piuttosto che in un altro. Anche Plutarco su questo ha scritto un testo molto chiaro in cui, a riguardo di quel che caratterizza la parrhesia del vero amico, viene detto : questa parrhesia utilizza il metron, la misura, il kairos, l’occasione e la krasis, la commistione, la mitigazione, la commistione che permette di mitigare37. È in questa misura che la parrhesia appare come un’arte del kairos che presenta una parentela con l’arte della medicina – [ricordiamo] tutte le Seneca, Lettere a Lucilio, 25, cit. (Foucault indica per errore la Lettera 50). Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, cit. In realtà, l’aneddoto riportato da Plutarco non riguarda Demetrio Poliorcete, ma Demetrio Falereo che governò Atene dal 317 al 307 a.C. e ne fu cacciato proprio da Demetrio Poliorcete. 37 Ibidem. 35 36


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metafore della parrhesia come ciò che assicura il therapeuein dell’anima –; è un’arte che assomiglia a quella della medicina, un’arte simile a quella della navigazione, un’arte simile anche a quella del governo e dell’azione politica: la direzione di coscienza, la navigazione, la medicina, l’arte della politica, sono arti del kairos. E la parrhesia è esattamente la maniera in cui colui che dirige la coscienza di un altro deve cogliere il momento giusto per parlargli come si deve e, di conseguenza, non restare vincolato né alle necessità dell’argomentazione filosofica, né alle forme obbligate della retorica e nemmeno agli eccessi della diatriba. Terza caratteristica della parrhesia, dopo quella di cui vi ho appena parlato, la parrhesia in funzione del kairos (mentre la prima era invece quella della parrhesia opposta all’adulazione). Opposta all’adulazione, la parrhesia, come vedete, si avvicina più a una virtù. Ma come tecnica del kairos, la parrhesia è invece vicina a una tecnica. Ma non basta accontentarsi di questo, perché la parrhesia non è semplicemente una virtù individuale; e non è nemmeno una semplice tecnica da utilizzare su di un’altra persona. La parrhesia è sempre un’operazione a due termini, qualcosa che si gioca tra due persone. Anche se si può dire, anche se i testi dicono, che una di queste persone possiede la parrhesia, cioè che il direttore possiede la parrhesia, che colui che guida deve averla, la parrhesia è infatti un gioco con due personaggi; e la parrhesia ha luogo, si svolge, tra l’uno e l’altro, e bisogna che ciascuno, in una certa maniera, giochi il proprio ruolo. In primo luogo, e questo è molto importante, colui che è in cerca di un parresiasta, colui che vuole prendersi cura della propria anima e di se stesso, e che quindi ha bisogno di un altro che possieda la parrhesia, non può accontentarsi di cercare un parresiasta. Bisogna che egli stesso dia dei segnali di essere capace e di esser pronto ad accogliere la verità di quel che il parresiasta gli dirà. Trovate su questo un’indicazione nel testo di Galeno di cui vi parlavo, in cui si dice: quando credi di aver trovato il tuo parresiasta, ovvero qualcuno che ha dato chiari segnali di non essere capace di adulazione, sarai forse sorpreso nel vedere che egli non vuole essere il tuo parresiasta: si sottrae o ti fa dei complimenti, dicendoti che, in fondo, hai soltanto delle qualità e non dei difetti e che non hai bisogno di prenderti cura di te. Ebbene, dice Galeno, se ti dice questo, devi dire a te stesso di esser stato tu a non comportarti come si deve. Hai dato segnali di non essere in grado di accogliere la parrhesia dell’altro, hai dato segnali di essere capace di serbargli rancore per le verità che ti potrebbe dire, oppure hai


44 Michel Foucault dato dei segnali tali da non farlo interessare a te38. In Galeno si tratta solo di indicazioni molto rapide. In compenso, credo che nella ventiquattresima diatriba del libro secondo, Epitteto39 risponda molto esattamente a questo problema. È una diatriba molto curiosa e assai strana. Non so se ve ne ricordate, si tratta della storia di un giovanotto grazioso, riccio e truccato che si recava spesso a sentire Epitteto. Ed eccolo che a un certo punto si rivolge a Epitteto – ed è così che inizia la diatriba: «sono venuto spesso per ascoltarti, e tu non mi hai risposto; ti prego dimmi qualcosa (parrakalo se eipein ti moi)». Dunque lui era lì, si è messo davanti agli occhi di Epitteto, era lì per ascoltare, e in effetti quello era il suo ruolo, poiché il suo ruolo non era quello di parlare, bensì di ascoltare. Ma ecco che l’altro non dice nulla, proprio colui che avrebbe dovuto parlare e che, in quanto maestro, era tenuto a usare la parrhesia. È una richiesta di parrhesia che il giovane gli rivolge. Ed Epitteto gli risponde dicendo questo: «ci sono due cose, due arti. C’è l’arte di parlare (techne tou legein) e vi è anche – non dice l’arte, ma l’empeiria – l’esperienza di ascoltare». Problema: ascoltare è un’arte o è semplicemente un’esperienza oppure, in fin dei conti, una certa disposizione? Sarebbe da discutere. Personalmente credo vi sia un’arte di parlare e una disposizione ad ascoltare. In ogni caso, dice Epitteto, vi è una disposizione ad ascoltare. Ci si potrebbe attendere che, in questo momento, Epitteto faccia come Plutarco nel De audiendo40, ovvero che si metta a spiegare cosa sia questa disposizione ad ascoltare: come comportarsi, come aprire le orecchie, come dirigere il proprio sguardo, come prendere successivamente nota, come ricordarsi di quel che dice l’altro. In realtà, ad essere sviluppata da Epitteto non è affatto questa disposizione all’ascolto, questa tecnica di ascolto. Egli svilupperà un’altra cosa: ovvero ciò che è necessario che l’uditore sappia per poter ascoltare come si deve. L’uditore deve sapere un certo numero di cose e mostrare di saperle; e queste cose sono precisamente i temi fondamentali della filosofia di Epitteto, cioè che il nostro bene dipende semplicemente dalla proairesis: in noi stessi e da noi stessi soltanto dobbiamo attendere quel che costituirà la perfezione della nostra esistenza, e così via. Epitteto riassume rapidamente i temi fondamentali della propria filosofia e poi gli dice: è questo che dovresti sapere e che avresti dovuto mostrare Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima, cit. Epitteto, Le diatribe e i frammenti, cit., II, 24, 1-29. 40 Plutarco, L’arte di ascoltare, cit. 38 39


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perché io parlassi. Poiché, dice Epitteto, colui che parla è il maestro, egli è come la pecora: se si vuole che la pecora bruchi, si deve condurla fino a un pascolo dove l’erba è verde, un’erba così verde da indurla proprio a brucare. Allo stesso modo, dice, quando si vedono dei bambini giocare, si è spinti a giocare con loro; e ugualmente se tu mi inciti a parlare, se tu non sei davanti a me come l’erba verde o come i bambini che giocano, per quel che personalmente mi riguarda, non giocherò il ruolo di colui che parla. A questo punto il giovane obietta: ma dopotutto io sono bello, sono ricco e sono forte. Ed Epitteto gli risponde: ma pure Achille era bello, anche più bello di te, era più ricco di te ed era più forte di te. Tu non mi hai eccitato (erethizein); mostrami la tua disposizione a intendere quello che voglio dirti, e a quel punto vedrai quanto potrai eccitare a parlare colui al quale ti rivolgi, colui che deve parlare (kineseis ton legonta). Visto che il tempo passa, non vorrei insistere troppo su questo testo. Credo sia molto interessante perché da lì si vede quanto si è al contempo vicini e lontani dalla struttura di base41. Che colui al quale si parla debba suscitare il desiderio nel maestro è, per Platone, fondamentale. Potete vedere come qui ci si trovi in un mondo completamente diverso, in cui l’amore pederastico è totalmente assente, e in cui, al contrario, credo vi siano gli elementi – le rapide indicazioni sul giovanotto, riccioluto, profumato e truccato sono interessanti – che, precisamente, mostrano che egli non può eccitare il maestro. Quello che eccita il maestro non è il corpo, la bellezza, la giovinezza dell’individuo, ma le basi fondamentali su cui possono intendersi maestro e discepolo. Bisogna che il discepolo abbia mostrato di essere d’accordo su tutto ciò in quel particolare momento affinché ecciti l’altro a parlare, e l’altro allora parlerà in modo da agire effettivamente sull’anima del discepolo e da perfezionarla; il suo desiderio non sarà altro che il perfezionamento dell’anima del discepolo. In ogni caso, vedete che non può esservi parrhesia, non può esservi libertà di parola da parte del maestro, non può esservi vivacità nella parola del maestro che agisce nell’anima dell’altro, se l’altro non ha dato un certo numero di segnali. Segnali dunque da parte del discepolo, ma anche segnali da parte del parresiasta. La parrhesia si svilupperà quindi attraverso l’emissione di segnali in un senso e nell’altro, sia da parte del discepolo, sia da parte del maestro. E là si pone il problema, anch’esso tecnicamente difficile, di come riconoscere il vero parresiasta. Il trattato di Plutarco, Come 41

Congettura: passaggio difficilmente udibile.


46 Michel Foucault distinguere l’adulatore dall’amico, è esattamente il trattato tecnico che risponde a questo problema. Quando cerco un parresiasta, come devo fare e da cosa lo riconoscerò? Poiché, dice Plutarco, voi penserete di certo che le cose sarebbero molto semplici se gli adulatori fossero tutti riconoscibili, come quelli che fanno complimenti per ottenere un invito a cena. Questi adulatori non sono pericolosi; gli adulatori pericolosi sono in qualche modo i veri adulatori, ovvero quelli che assomigliano di più a coloro di cui si è in cerca. In particolare, fa parte del mestiere e dell’abilità del buon adulatore il fatto di somigliare il più possibile a un parresiasta. Il vero adulatore sarà come il parresiasta, come colui che vi dirà cose dure, cose spiacevoli, che vi dirà le vostre quattro verità, ma che in realtà può essere benissimo un adulatore42. Come si risolverà la questione, definendo in cosa consiste il vero adulatore? Plutarco dedica il suo trattato a questo, ma troverete anche tanti altri testi che rispondono alla medesima domanda, in particolare il testo di Galeno di cui vi ho già parlato. La risposta di Galeno la menziono per prima, perché in realtà è la più semplice e, se volete, la più empirica, e non pone grossi problemi teorici. Galeno richiede semplicemente che si prendano un certo numero di precauzioni. Egli dice: se si cerca un parresiasta bisogna innanzitutto rivolgersi a qualcuno che abbia una buona reputazione; si deve quindi sorvegliarlo, seguirlo passo per passo, si deve vedere se frequenta i potenti e i ricchi e se li frequenta è un cattivo segno: egli rischia di non essere il buon parresiasta che si sta cercando. Ma bisogna spingersi oltre, e nel caso li frequenti, si deve ancora verificare come si comporta con noi, se fa l’adulatore o meno, e così via. Quando si è preso contatto con quest’uomo, che ha sufficientemente garantito di non essere un adulatore, quando gli si è chiesto di svolgere il compito del parresiasta, bisogna continuare a metterlo alla prova e vedere che egli non faccia troppi complimenti e che possieda la giusta severità. L’analisi di Galeno è abbastanza interessante perché si spinge relativamente più in là. Egli dice: se il parresiasta, colui che avete scelto come direttore, vi fa dei complimenti, o non è veramente un parresiasta, oppure non si interessa a voi dal momento che non gli avete dato i necessari segnali della vostra capacità di ascoltare la verità. Se invece è severo con voi, può anche accadere che vi dica cose che per voi sono troppo severe; in questo caso, siete sempre voi ad avere torto, poiché, come tutti, amate voi stessi, e dovete sempre assumere che è quel42

Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, cit.


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lo che dice l’altro nella sua severità a esser vero. Ma supponete pure che il parresiasta vi dica cose così severe che non soltanto voi siete certi che non siano vere, ma che potete anche dimostrarlo. Ebbene, dite che avete ugualmente trovato un buon parresiasta, poiché è una prova del fatto che, in effetti, farsi dire cose dispregiative e persino orribili è, se non proprio indispensabile, quanto meno utile per disfarsi dell’amore che si nutre per se stessi43. Abbiamo qui un […]44. Ritorniamo adesso a Plutarco il cui testo è teoricamente più interessante e si struttura interamente attorno alla domanda: come distinguere il vero parresiasta dall’adulatore? Ebbene, egli afferma, i veri segni del parresiasta sono questi: in primo luogo, si riconosce che si è incontrato il parresiasta di cui si ha bisogno se egli manifesta una homoiotes tes proaireseos, cioè una analogia45, una similitudine dovuta alla sua proairesis – non ho bisogno di dirvi che questo termine è intraducibile, lo sapete meglio di me – diciamo una similitudine nella scelta di esistenza, nella volontà fondamentale, ecc.; bisogna dunque che ci sia una similitudine tra [la proairesis] del soggetto che ricerca il parresiasta e quella dello stesso parresiasta. Bisogna che ci sia questo fondamentale accordo della proairesis. Ritrovate qui la stessa cosa che Epitteto aveva segnalato prima, quando a proposito del giovanotto diceva: non mi hai eccitato perché mostravi chiaramente che non avevi la mia stessa proairesis. Dunque, analogia della proairesis tra l’uno e l’altro. Questo è il primo criterio. In secondo luogo, bisogna che il parresiasta si lamenti sempre delle stesse cose e che approvi sempre le medesime cose. Quindi, permanenza nel suo sistema di avversioni e di propensioni, ovvero nel suo sistema di giudizio. Noterete come nel testo di Plutarco questo scenario sia completamente stoico. Bisogna dunque che egli mantenga sempre le sue stesse scelte, tanto le sue stesse avversioni quanto le sue stesse propensioni. Infine, in terzo luogo, egli deve condurre la sua vita secondo un solo e unico paradeigma, secondo un solo e unico schema di vita. Omologia, quindi, delle scelte di esistenza tra i due, costanza delle avversioni e delle propensioni nel parresiasta, unicità del paradigma di vita, dello schema Galeno, Le passioni e gli errori dell’anima, cit. Interruzione della registrazione. 45 Nella registrazione si sente Michel Foucault domandare sottovoce: «Si può dire omologia? È sufficiente per tradurre homoiotes? Non si può dire identità; una somiglianza, sì, una similitudine, forse…». 43 44


48 Michel Foucault di vita nel parresiasta. Queste caratteristiche del vero parresiasta, come vedete, rinviano del resto a due concezioni molto conosciute. Da una parte, abbiamo certamente quella dell’amicizia come homonoia. È questa analogia, è questa similitudine, che fonderà la vera amicizia e, in questo senso, il parresiasta è fondamentalmente un amico. Dall’altra parte, questa concezione del vero parresiasta come colui che resta costante nelle sue scelte e che tende integralmente verso un unico schema di vita rinvia alla concezione stoica dell’unità dell’esistenza che si oppone alla pluralità della stultitia, dell’anima disordinata e mobile. Plutarco sviluppa tutto ciò in modo molto chiaro e molto evidente. Il non-parresiasta, ovvero l’adulatore, è qualcuno che non ha affatto regole fisse per condursi. L’adulatore è colui che si modella indifferentemente su un individuo così come su un altro; l’adulatore è come un fluido che passa da una forma all’altra a seconda del vaso in cui è messo46. Così come Alcibiade, il quale, ogni volta che cambiava paese, non restava lo stesso; non era lo stesso ad Atene e in Sicilia, non era lo stesso in Sicilia e a Sparta, non era lo stesso a Sparta e presso i Persiani, e così via. All’opposto troviamo Epaminonda, che ha ugualmente cambiato spesso paese, ma ha sempre conservato lo stesso ethos nel vestire, nella dieta (diaite), nel logos e nel bios47. L’adulatore non ha nulla di fisso e di solido, non ha niente di proprio, non ama, non odia, non si rallegra e non si rattrista mai oikeio pathei (secondo il proprio pathos)48. Il vero parresiasta sarà, al contrario, chi avrà un oikeion pathos e che, avendo una regola di vita inalterabile, avendo sempre lo stesso logos, avendo sempre la stessa diaite, la stessa dieta, lo stesso regime alimentare, potrà essere un punto fermo per colui che, per la precisione, ne cerca uno, e che ricerca nel parresiasta proprio colui che potrà aiutarlo a formare l’unità della propria esistenza. Questo ci conduce verso ciò che mi sembra costituire il nucleo stesso della parrhesia. In effetti, se il parresiasta è colui che si riconosce dal fatto che ha soltanto uno e un solo modo di esistenza, la parrhesia che cosa sarà? Credo che la parrhesia sarà la presenza, in colui che parla, della sua propria forma di vita resa manifesta, presente, sensibile e attiva come modello nel discorso che egli tiene. Ed è a questo punto che vorrei leggervi la lettera 75 di Seneca (è un testo in cui il termine parrhesia, o infine anche il termine Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, cit. Ibidem. 48 Ibidem. 46 47


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libera oratio come pure libertas non occorrono, ma che è ugualmente, mi sembra, un commentario sulla parrhesia): «Le mie lettere non incontrano il tuo gradimento perché non ti sembrano scritte con la dovuta cura, e te ne lamenti [riferimento dunque a questo problema della retorica; MF]. Ma chi in verità si preoccupa di abbellire il proprio stile, se non coloro che prediligono lo stile pretenzioso? Se non ci trovassimo l’uno di fronte all’altro, seduti a non far nulla o intenti a passeggiare, la mia conversazione sarebbe priva di affettazione, semplice e facile (inlaboratus et facilis). Ed è così che voglio siano anche le mie lettere, senza nulla di ricercato e nulla di artificiale (accersitum nec fictum)». Siamo dunque su quei temi cui accennavo poco fa. La parrhesia è fuori da tutte le procedure artificiali della retorica. Trovate il riferimento alla conversazione che, se volete, costituisce la forma iniziale, la forma matriciale della parrhesia, nella misura in cui la lettera fa riferimento proprio alla conversazione, sostituisce la conversazione perché essa non può aver luogo. Allora, se volete, vi è continuità parresiastica per eccellenza tra la conversazione e la lettera, che evita la composizione del trattato, che evita l’eloquenza, che evita la tribuna o la violenza della diatriba: «Se fosse possibile, preferirei lasciarti vedere i miei pensieri, piuttosto che tradurli per mezzo del linguaggio (quid sentiam ostendere quam loqui mallem)». Mostrare il pensiero piuttosto che parlare. Abbiamo qui la riduzione della parola a ciò che sarebbe semplicemente l’indicazione del pensiero, una parrhesia che è immediatamente in contatto con la dianoia, destinata semplicemente a mostrare, a indicare. Credo che qui troviamo ciò che Arriano diceva a proposito di Epitteto: «Anche se dovessi tenere un discorso in pubblico in piena regola, non batterei mai i piedi, non distenderei mai il braccio in avanti, né alzerei mai il tono, ma lascerei fare tutto ciò agli oratori, mentre reputerei di aver raggiunto il mio scopo se fossi riuscito a trasmetterti il mio pensiero senza inutili orpelli e in modo non trasandato». Ecco, tutto questo è per gli oratori, e probabilmente per gli oratori da diatriba. Sarei «contentus sensus meos ad te pertulisse (se fossi riuscito a trasmetterti direttamente il mio pensiero)». Ricordatevi quello che diceva Arriano a proposito di Epitteto: egli agiva direttamente sulle anime, facendo quel che voleva. Il problema di Arriano, dovendo trasmettere, dovendo pubblicare questi hypomnemata, era di offrire un supporto per questa azione diretta; ed è anche quello che Seneca vuol fare qui: «sensus meos ad te pertulisse». «Ma una cosa mi sta a cuore più di ogni altra, vale a dire farti comprendere che tutto quel che


50 Michel Foucault mi capiterà di dire, lo penso, e che non solo lo penso, ma anche lo amo. I baci che si danno ai figli non assomigliano a quelli che riceve un’amante; e tuttavia anche un abbraccio così casto e trattenuto lascia trasparire la tenerezza. Di sicuro […]» e così via – salto qualcosa – «Questo dev’essere il punto essenziale della nostra retorica [purtroppo, si tratta di un’aggiunta, non proprio felice, del traduttore – haec sit propositi nostri summa: ecco il succo di ciò che voglio dire, il punto essenziale di ciò che affermo; MF]: dire quello che si pensa, pensare quello che si dice; far sì che il linguaggio sia in accordo con il comportamento. Ha assolto il suo compito colui che, agli occhi di chi lo osserva e di chi lo ascolta, si mostra sempre lo stesso (ille promissum suum implevit, qui, et cum videas illum et cum audias, idem est)»49. Credo quindi che qui siamo più o meno al cuore di ciò che costituisce la parrhesia; ovvero che vi è parrhesia quando il maestro, colui al quale è stata affidata la direzione della propria anima, dice ciò che pensa secondo una così grande trasparenza che nessuna forma di retorica potrebbe nascondere, ma dice ciò che pensa non nel senso di dire quali sono le sue opinioni, non nel senso di dire quel che egli crede sia vero, ma dicendo quel che a lui piace, ovvero mostrando qual è la sua propria scelta [di vita], la sua proairesis. E quel che ci garantisce, quel che manifesta nel modo più trasparente la scelta profonda e fondamentale che si fa, non sono gli abbracci più o meno retorici con cui si avviluppa la propria amante, quanto piuttosto il bacio misurato che si dà sulla guancia di un bambino cui si vuole bene, è questo che costituisce il sigillo stesso della verità propria del sentimento che si prova. Bisogna che io sia me stesso, tale e quale realmente sono, in quello che dico; devo essere io stesso coinvolto in quello che dico e quello che affermo deve effettivamente mostrare che sono conforme a quel che affermo. È qui che possiamo trovare qualcosa che si potrebbe chiamare il patto parresiastico, di natura differente rispetto a quello che menzionavo prima. Vi ricorderete che in Euripide appariva un patto parresiastico che sarebbe, se volete, la caratteristica specifica (le propre) del patto politico della parrhesia: sono onnipotente, tu vieni a portare una verità che potrebbe essere per me spiacevole e contro la quale potrei irritarmi – tema della collera – ma, nella mia clemenza, ti do il permesso di parlare e non ti punirò per la cattiva notizia o per la cosa spiacevole che dirai. È questa la struttura del patto politico della parrhesia. E invece abbiamo lì la struttura del patto, se volete, individuale, del patto di direzione della parrhesia, in cui si tratta 49

Seneca, Lettere a Lucilio, 75, cit.


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di questo: quando io do un consiglio a te, che mi hai chiesto di parlare francamente, non mi accontento di dirti quel che reputo essere vero, dico questo vero soltanto nella misura in cui è effettivamente quel che io stesso sono; sono implicato nella verità di quel che ho detto. È questa implicazione del soggetto dell’enunciazione nell’enunciato della parola del maestro che, credo, costituisce la caratteristica della parrhesia da parte del maestro sviluppata in questo insieme di testi. Allora si dovrebbe – ma non mi resta molto tempo – aggiungere ancora quest’altro: questa implicazione del soggetto nella parrhesia può realizzarsi, se volete, in due modi. In una maniera che direi perfetta ed esemplare, quando i grandi filosofi sono i soli a poterla effettuare, manifestando quello che essi sono nella verità stessa di ciò che dicono. E poi vi è una parrhesia che è in qualche modo un’apertura reciproca delle due persone che vi sono implicate, quando colui che guida l’altro si implica in quello che dice non per affermare che egli è esattamente conforme alla verità di quel che dice, ma per affermare che egli stesso compie uno sforzo per giungervi. E su questo trovate tutta una serie di lettere di Seneca, in particolare, la prefazione al libro IV delle Questioni naturali50; qui, rivolgendosi a Lucilio, Seneca gli dice, gli mostra, da un lato, che lo guida; gli dice: ti prendo la mano e proverò a condurti verso le migliori cose. Ma, dall’altro lato, gli dice anche: ci daremo consigli l’un l’altro. Ci troviamo dunque in presenza di un tema che attraversa le lettere di Seneca, quello dell’apertura reciproca delle anime che è una delle forme della parrhesia e in cui, credo, è possibile ritrovare uno dei punti di approdo di quella che sarà la parrhesia sviluppata nel cristianesimo: l’implicazione di colui che parla in quel che dice, ma da parte del discepolo, ovvero da parte di chi è imperfetto, di colui che pecca, di colui che prova a camminare e fare i suoi progressi; sarà lui a dover parlare. Allora credo si abbia uno scambio, un’inversione dei compiti, come vi dicevo; ma del resto, come vedete voi stessi, proprio all’interno della struttura della parrhesia che trovate sviluppata in certi testi – non in Epitteto, che è comunque un professore di professione, ma in qualcuno come Seneca –, la parrhesia comincia a oscillare per diventare una sorta di duplice obbligo in cui le due anime entrano in relazione per quel che riguarda la verità che viene detta, la loro propria esperienza, le loro proprie imperfezioni, e si aprono l’una all’altra. Ma vi è Seneca, Questions naturelles, Les Belles Lettres, Paris 1929; trad. it. Questioni naturali, UTET, Torino 1989. 50


52 Michel Foucault una questione – del resto è davvero solo una questione – nel testo di Filodemo in cui vi è un passaggio – posso ritrovarvelo subito – molto preciso in cui egli parla della parrhesia come mezzo attraverso il quale i discepoli possono salvarsi gli uni con gli altri; questo potrebbe sembrare alludere che vi era in effetti una parrhesia che non era semplicemente il discorso del maestro, del maestro che implicava se stesso nella verità di ciò che diceva, ma vi era questo gioco di individui che aprivano la propria anima gli uni agli altri e, di conseguenza, si aiutavano a vicenda. Si tratta forse di una pratica epicurea che si è sviluppata in questa maniera. In ogni caso, essa è molto evidente in Seneca, in cui trovate incessantemente riferimenti all’apertura reciproca. Ecco. Ho quindi provato a mostrarvi questa specie di figura abbastanza curiosa della parrhesia che mi sembrava estremamente differente dal gioco platonico o socratico delle domande e delle risposte, come pure dei rapporti maestro-discepolo, e che è ugualmente differente da quel che si troverà in seguito nella spiritualità cristiana e nelle istituzioni monastiche. Traduzione dal francese a cura di mf / materiali foucaultiani: Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Dalla parrhesia alle pratiche politiche nella postcolonia Mariangela Milone

La questione della filosofia non è la questione della politica. È la questione del soggetto nella politica1.

Una genealogia della cittadinanza postcoloniale

I significati che riferiamo comunemente al termine democrazia e ad espres-

sioni come diritti di cittadinanza, libertà e autonomia politica, potrebbero essere annoverati senza troppi indugi tra quelle che René Char definì quali nozioni pressoché ricorrenti e costanti, le componenti di quella storia che appare nient’altro che la lunga successione dei sinonimi di uno stesso vocabolo: contraddirla è un dovere. Al fondo di questa presunta catena continua, che delimiterebbe una sfera etico-politica propria e originale dell’Occidente fin dalla polis, vi è la ricerca di un’origine quale punto fermo di non ritorno: un’origine dalla portata marcatamente eurocentrica. Tuttavia, proprio il confronto con quel pensiero greco antico che si legge come l’origine della democrazia, può far venire alla luce punti di discontinuità, un diverso modo di atteggiarsi delle categorie etico-politiche occidentali, una frattura rispetto alle esperienze che attualmente facciamo di certe pratiche istituzionalizzate; pratiche sempre più messe in discussione dall’azione di chi è posto fuori dai margini che segnano il riconoscimento dei diritti politici. La difficoltà a rompere con le categorie del pensiero liberal-democratico ruota in gran parte attorno alla questione della cittadinanza e delle pratiche discorsive che essa produce: è da questa linea di emergenza che le lezioni di Foucault del corso Le gouvernement de soi et des autres si prestano ad essere tradotte in un dispositivo politico, nel tentativo di riportare modalità altre della soggettivazione alla luce del tempo attuale. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008; trad. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 305. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 53-70.


54 Mariangela Milone Tuttavia, la distanza che la realtà postcoloniale segna rispetto alle ricerche foucaultiane trova, entro il campo di attualità che ci vede situati come soggetti, l’aggiunta di una qualità specifica nella densità del nostro tempo: l’essere situati nell’Occidente postcoloniale al tempo in cui il lavoro migrante ripropone una serie di conflitti che, segnati dall’eredità coloniale, stentano ad essere definiti in senso preciso, men che meno nel senso politico “classico”. I Subaltern Studies hanno rivendicato, fin dalla loro fondazione, il carattere autonomo delle rivolte coloniali: quelle lotte hanno determinato, all’interno della storia occidentale, uno stato di eccezione; stato di eccezione che è, però, secondo Bhabha, già «anche e sempre uno stato di emersione, in cui qualcosa viene alla luce»2: l’irrompere di nuove forze nel corso omogeneo del tempo del capitale. La questione sollevata oggi è che quel passato coloniale che non è ancora passato, che non si è trasformato in esperienza, si reincarna oggi all’interno e dall’interno della postcolonia metropolitana, e va a riproporre condizioni e situazioni di sfruttamento ereditate da forme stereotipate di razzismo e da quei dispositivi di sapere che un tempo producevano, utilizzavano e facevano circolare in Occidente delle verità sui popoli “non civilizzati”, “sottosviluppati”, e che oggi si riproducono nelle connessioni subliminali, ma immediate negli effetti, tra straniero, deviante, criminale, e nelle forme etnicizzate ed etnicizzanti dell’assistenza, della cura di chi si trova dall’altra parte del limite esterno che segna lo status di cittadino. Trattandosi di confini, più che di limiti, non è solo in questione chi ne sta fuori, come se costituisse un’esteriorità, perché la condizione postcoloniale segna proprio il paradossale rifluire delle caratteristiche del potere coloniale dall’interno all’esterno delle ex-colonie e viceversa, definendosi come globale, pur all’interno di un nuovo regime di governamentalità. La materialità della “condizione postcoloniale”3 emerge nelle lotte dei migranti, e in quelle forme, definite di disordine, nelle quali chi vive fuori H. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, p. 63. Per un’archeologia decoloniale e postcoloniale, incentrata sulla questione del riconoscimento del carattere autonomo delle lotte, si segnalano: F. Fanon, Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina, vol. I, DeriveApprodi, Roma 2007; R. Guha e G.Ch. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di S. Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002; D. Chakrabarty, Rethinking Working-class History. Bengal 1890 to 1940, Princeton University Press, Princeton 2000. 3 Cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008. 2


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dai confini della cittadinanza rivendica dei diritti – specialmente quelli legati al contratto di lavoro – in quanto, pur non facendo parte del “popolo”, compone la “popolazione” e apporta forza-lavoro. Lo scenario è quello di una governamentalità del potere; ma è qui che deve venire alla luce come lo stesso soggetto subalterno del periodo coloniale e oggi le figure del migrante postcoloniale, del rifugiato, oltre a chiunque viva ai margini della società civile definita dal dispositivo giuridicodiscorsivo della cittadinanza, sembrano esser stati ed essere tuttora prodotti di particolari regimi di sapere: in gioco è la produzione di effetti di verità utilizzabili strategicamente in vista non solo e non tanto della costruzione dell’Alterità, di una linea tra due mondi, ma di una frammentazione dell’Alterità stessa entro tutto il corpo sociale, in vista della sua governabilità. Un esempio di questi effetti risiede nel funzionamento del dispositivo che lega lavoro, razza e criminalizzazione della clandestinità: il meccanismo securitario che collega l’immagine dell’immigrato criminale all’assenza del contratto di lavoro permette, insieme alla controllabilità dei flussi migratori, la possibilità di gestire, di razzializzare il lavoro migrante, secondo un’inclusione differenziale, condizionata4. Complice del razzismo istituzionale è un diritto penale speciale5 – o, forse meglio, la creazione di una zona di anomia strategica, di una sospensione che riafferma la potenza della legge – che dissemina le pratiche discorsive atte a mantenere un’allerta legata al «feticcio dell’ordine pubblico»6. Contemporaneamente, si assiste ad un’implementazione di politiche sulla cittadinanza che mirano a far sì che possa distinguersi tra gli altri quello che sarebbe un “buon cittadino”, cioè un corpo produttivo, oltre che docile. Nell’intento di usare il metodo foucaultiano entro la realtà postcoloniale, si tratta di vedere i modi in cui la cittadinanza come fenomeno Cfr. A. Curcio e M. Mellino (a cura di), La razza al lavoro, Manifestolibri, Roma 2012; M. Mellino, Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2013. 5 Sul configurarsi, con riferimento allo statuto penale dello straniero, di un “sottosistema penale d’eccezione”, si veda, tra gli altri, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 724 e ss. e pp. 844 e ss. 6 L’espressione è di D. Picentini, I migranti là in alto sulla gru di Brescia, in F. Mometti e M. Ricciardi (a cura di), La normale eccezione. Lotte migranti in Italia, Alegre, Roma 2011, pp. 20-54, p. 24. 4


56 Mariangela Milone politico e culturale sia giunta a diventare oggetto di una specifica problematizzazione, e quindi a costituire un momento decisivo della nostra storia di soggetti moderni. Se la cittadinanza si trova al crocevia della gestione governamentale di razza, genere e classe, e situa le proprie radici nella storia della “colonialità del potere”7, allora, ponendo a confronto l’esperienza greca con quella attuale, si possono far emergere le questioni chiave: esistono o sono esistiti modi altri di praticare la cittadinanza democratica? Quand’è che la cittadinanza ha cessato di essere una funzione per diventare uno status8? Esiste un modo altro di far funzionare i diritti e le pretese ad essa connessi o di spingere verso una diversa problematizzazione di questo funzionamento? Cosa succede se si guarda al discorso sulla cittadinanza al di fuori dal classico status giuridico, ritenendolo come «un processo sociale di produzione mediata di valori che hanno a che fare con la libertà, l’autonomia e la sicurezza»9 degli individui? L’obiettivo è, quindi, tenere in conto la relazione che i soggetti possono istituire con se stessi e con gli altri, essendo situati in contesti nei quali «sono assoggettati a norme, regole e sistemi, ma allo stesso tempo modificano queste pratiche e questi obbiettivi deviando agilmente il controllo e inserendo un elemento critico»10, determinando tracce a partire dalle quali è possibile pensare ad una trasformazione, pur all’interno dei meccanismi di potere. L’espressione si trova in A. Quijano, Colonialidad del poder y clasificación social, in S. Castro-Gómez e R. Grosfoguel (a cura di), El giro decolonial. Reflexiones para una diversidad epistémica más allá del capitalismo global, Siglo del Hombre Editores/Universidad Central/ Instituto de Estudios Sociales Contemporáneos/Pontificia Universidad Javeriana/ Instituto Pensar, Bogotà 2007, pp. 93-126, p. 93, nota 1. 8 La principale letteratura a riguardo sottolinea l’attuale caratterizzazione della cittadinanza nei termini di un «rapporto politico fondamentale, il rapporto fra l’individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale egli s’inserisce». P. Costa, Cittadinanza, Laterza, RomaBari, 2005, p. 3. In tal senso, Crifò evidenzia che la cittadinanza è da intendersi più come rapporto che come status, condizione sociale prima che giuridica: non si tratta del legame che si fa valere nei confronti dello Stato, in quanto la cittadinanza «va vista nella consapevolezza, manifestata anche di recente, che a questa nuova istituzionalizzazione del rapporto di cittadinanza vanno collegati momenti di positiva attività politica, volta a dare risposte adeguate ai problemi di rappresentanza e di controllo democratico proposti dalla nuova realtà». G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, Laterza, Roma-Bari 2005, p. XIV. Si veda, inoltre, É. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 85-133. 9 A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Cortina, Milano 2005, p. 11. 10 Ibidem. 7


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Il paradigma greco come tensione verso un processo di politicizzazione Fin dalle prime lezioni, il corso Le gouverment de soi et des autres mostra come il mondo greco classico necessiti che le sue forme statutarie siano trattate molto prudentemente, e richieda un metodo di analisi che privilegi in maniera specifica l’attenzione al funzionamento, più che al dato che emerge unicamente a livello giuridico-istituzionale. Foucault concentra, sin dall’inizio, l’attenzione su un aspetto complesso e articolato che i Greci traducevano come parrhesia, per mostrare come una certa nozione del dire il vero contenga un’apertura rispetto alle modalità tipiche dell’esperienza politica moderna11. La democrazia ateniese nasce nel quadro di quella politike koinonia che traduce l’ambito di una società civile che è già direttamente società politica. Qui, la struttura della politeia, cioè di quella sfera della polis che definisce diritti civici e insieme politici, si inscrive entro un’ambivalenza costitutiva. Il termine politeia indica due sfere separate, ma che l’ordine classico dà come intercambiabili, sovrapponibili: «sia l’assetto “costituzionale” di una comunità politica, sia l’estensione e la composizione gerarchica del corpo civico, incluso il diritto di cittadinanza e di accesso alle cariche»12; inoltre, se politeia si usa per indicare la cittadinanza, correlativamente essa vuol dire anche “modo di governarsi”, ossia un «insieme di leggi e norme ma anche stili di vita»13. A garanzia di una corretta competizione politica, la politeia pone i principi di isonomia e di isegoria, da intendersi rispettivamente come uguaglianza di tutti di fronte alla legge, e da conseguirsi attraverso la legge stessa, e come uguaglianza di tutti i cittadini nella libertà di parola. Tuttavia, se isonomia e isegoria si presentano quali espressioni della vita istituzionale e assembleare nella quale si esercita la democrazia, la vera circolarità a livello etico e politico si crea in un rapporto ben più problematico e teso: quello tra la democrazia e una certa libertà di chiunque a dire qualsiasi cosa. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1983-1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II (1983-1984), Feltrinelli, Milano 2011. 12 M. Vegetti, Un paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci, Roma 2009, p. 15. 13 L. Aigner Foresti et alii (a cura di), Antichità classica. Enciclopedia tematica aperta, Jaca Book, Milano 1994, p. 199, voce «cittadinanza». 11


58 Mariangela Milone La parrhesia è presentata da Foucault quale pratica attraverso cui il soggetto lega a se stesso un particolare discorso, quello di chi ha il coraggio di dire il vero rispetto ad una questione attinente alla politica, di fronte a un interlocutore che si trova in una condizione, almeno istituzionalmente, sovraordinata, trattandosi dell’assemblea o di un sovrano o comunque di un destinatario rispetto al quale l’attività di veridizione è tale da comportare un rischio, che può consistere finanche nella perdita della vita. Questo specifico modo di dire il vero è direttamente collegato alla costituzione della democrazia: si delinea un collegamento, che la parrhesia lascia intravedere, tra l’ambito della problematizzazione etica e la sfera politica. Tuttavia, ciò che qui rileva è il fatto che, sebbene, per definire questo particolare tipo di attività di veridizione, i Greci usassero un termine specifico, la parrhesia non si costituiva entro una cornice statutaria predeterminata. La parrhesia non riusciva a collocarsi all’interno dello statuto della cittadinanza in maniera chiara: si delineava la possibilità reale di un’oscillazione, nel senso di un adeguamento delle forme statutarie che la problematizzazione etico-politica adottava nel trattare la questione di chi ha il diritto di formulare il discorso parresiastico. Eppure, nonostante la mancata istituzionalizzazione del processo attraverso il quale un soggetto poteva costituirsi come agente di un discorso vero in relazione alla politica, Foucault precisa che «la parrhesia è un atto direttamente politico che viene esercitato davanti all’Assemblea, o davanti al capo, o davanti al governante, o davanti al sovrano, o davanti al tiranno ecc.»14. Qui non siamo più al livello giuridico-istituzionale, codificato, della politeia, ma sul piano di quella che i greci definiscono dynasteia: l’esercizio del potere politico, di quel potere che si può acquisire conquistando un ascendente sugli altri all’interno dell’agon. La parrhesia qualifica «molto precisamente una nozione che serve da cerniera tra ciò che appartiene alla politeia e ciò che appartiene alla dynasteia, tra ciò che rientra nel problema della legge e della costituzione e ciò che rientra nel problema del gioco politico»15; tuttavia «questa ineguaglianza introdotta dalla parrhesia (esercizio di un ascendente), ben lungi dal rimettere in discussione il fondamento democratico, è ritenuta la garanzia del suo esercizio concreto»16. Ciò che Foucault osserva in questo M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 188 (corsivo mio). Ivi, p. 157. 16 F. Gros, Nota del curatore, in M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 363. 14 15


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contesto è l’aprirsi di una questione che ha un risvolto sempre attuale: si tratta della problematizzazione di ciò che il soggetto può fare rispetto alla politica. Sarebbe proprio l’atto politico che esercita la libertà di parola affermandola in senso concreto, investendo anche l’ambito dei rapporti interpersonali, a conferire alla democrazia la possibilità non solo di funzionare, ma di autoriprodursi, modificando e riarticolando in maniera fluida le proprie premesse. Il dire il vero come frattura costituente tra autoctonia e comunità politica Foucault rintraccia lo sviluppo e la maturazione del concetto di parrhesia a partire dal teatro di Euripide. L’opera di Euripide, infatti, interpretava quegli aspetti pratici e non sistematizzati, se non in maniera fluttuante, che le istituzioni lasciavano aprire ai processi democratici, spezzando il discorso strettamente imperniato sul linguaggio dei diritti, attribuiti in senso tecnico alle sole categorie ammesse a godere dello statuto della cittadinanza. Il farsi soggetti di un discorso di verità è un processo che Foucault rinviene nel tessere la linea rossa tra alcuni dei personaggi descritti nelle tragedie di Euripide (Medea, Ippolito, Ione, Fenicie, Oreste, Baccanti) che hanno almeno un tratto in comune: per varie ragioni, non sono cittadini, o comunque non godono dei diritti che l’uomo greco riconnette al potere di esercitare se stessi e la propria libertà di parola in ambito assembleare e pubblico, in una parola politico. Tuttavia, i personaggi euripidei, proprio perché situati, a diverso titolo, su una posizione liminare rispetto al godimento dei diritti politici a livello prettamente “costituzionale”, riescono ad affermare in maniera più forte la sostanzialità dell’esercizio di quei diritti. Nella messa in scena dello Ione, di quella, cioè, che Foucault individua come la tragedia parresiastica per eccellenza, si presenta una democrazia ateniese che ancora riesce a tenere legata a sé, in maniera coerente, la partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica con il buon governo della città; e tuttavia, anche in questo periodo, ciò che il diritto alla parola parresiastica lascia spuntare, è lo iato, la discrepanza, tra l’appartenenza autoctona alla città e la composizione della comunità politica17. Cfr. G. Rametta, Autoctonia e parrhesia. Foucault lettore dello Ione, in P. Cesaroni e S. Chignola (a cura di), La forza del vero, Ombre Corte, Verona 2013, pp. 102-131. 17


60 Mariangela Milone Sono proprio delle esigenze di riarticolazione dello statuto della cittadinanza ad emergere nella fase che Foucault prende in considerazione: siamo nell’Atene tra il 417 e il 411 a.C., la guerra del Peloponneso è aperta e Atene cerca alleati contro Sparta. Ma, per fare ciò (e nel contempo mantenere l’illusione della sua egemonia e di un’origine pura), la polis dovrà rivedere la composizione sociale della cittadinanza e la distribuzione dei diritti politici. Il dramma è imperniato sulla ricerca, da parte di Ione, della verità dei suoi natali: egli vuole esercitare la parrhesia ma, per farlo, avrà bisogno di sapere chi è sua madre, per poter dimostrare di essere a tutti gli effetti un cittadino ateniese. Ma Ione, figlio di un immigrato e di madre ignota, è destinato al governo della polis: un simile finale è legittimato dall’articolarsi dell’intreccio lungo una serie di rituali di veridizione, attuati in nome della ricerca della verità dei natali di Ione; egli dimostra di essere naturalmente dotato della parrhesia, anche se non sa di poter esercitare il diritto a dire il vero a livello istituzionale. Attraverso questa figura leggendaria, Foucault delinea la nascita della democrazia ateniese come un’origine impura rispetto alle stesse norme che ne codificano l’istituzione. Ione incarna un elemento che disturba il quadro istituzionale, che spariglia la fissità dei giochi legati all’esercizio del potere: in discussione sono direttamente le origini della tradizione occidentale e delle sue categorie politiche. Nella problematizzazione greca, secondo la lettura che ne dà Foucault, la parrhesia spezza la circolarità del nesso tra autoctonia ed esercizio dei diritti politici, costituendosi entro una dimensione agonistica (la lotta di Ione per la ricerca della verità) che diviene il fondamento della democrazia, attraverso una riforma che comporta una riorganizzazione della cittadinanza. Il mito che narra la fondazione della città da parte di Ione mostra, infatti, che una contaminazione etnica è all’origine della prima delle riforme dell’Attica: Ione, letteralmente “colui che viene”, non è un autoctono, ma da fuori viene a compiere la missione che consiste nella riforma che dividerà Atene nelle prime quattro tribù. Sarà a partire da questa organizzazione, da questo legame fondato su una divisione, che nella polis potranno essere esercitati democraticamente i diritti politici. Quello tra le quattro tribù è il legame originato da una divisione che è, in primo luogo, di natura etnica: per la città, Ione resta il figlio di un immi-


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grato, anche se sua madre è ateniese; e “figli adottivi” – che chiameremmo oggi “immigrati di seconda generazione” – rispetto alla polis saranno anche i suoi discendenti, a capo delle colonie ioniche. Sembra che, per fondare la democrazia e la sua politica egemone, Atene abbia bisogno di introdurre, entro la linearità del legame tra autoctonia e dynasteia, il movimento della stasis, di un conflitto interno al processo istituzionale, in grado di rimescolare i rapporti che si saldano all’interno della politeia. Secondo Nicole Loraux, la città greca fonda se stessa come il luogo nel quale sono compresenti l’aspetto statico e pacificato, legato al mito della concordia, e quello della frattura intestina alla comunità politica, come momento permanente, fisiologico. Non avendo la concordia nulla di statico, va essa stessa agitata, per mantenersi ed evitare la divisione di quel miscuglio che è la composizione del corpo sociale18. Si tratta di una sorta di processo auto-immunitario che, però, per essere davvero tale e dispiegare appieno i suoi effetti, va posto come momento politico per eccellenza, non come pura e semplice obliterazione del conflitto. Come afferma la grecista francese, nel rigetto del paradigma schmittiano che oppone amico e nemico, «d’ora in poi il conflitto interno deve […] essere pensato come qualcosa che nasce effettivamente da dentro il phylon, anziché essere portato dall’esterno, come vuole una soluzione comoda»19. In questo senso risulta particolarmente attuale l’affermazione di Sayad sul rapporto tra immigrazione e “pensiero di stato”: L’immigrazione […] perturba l’intero ordine nazionale […]. Interrogare lo stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ri-storicizzare” lo stato o ciò che nello stato sembra colpito da amnesia storica, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi20.

La parrhesia appare quale figura della stasis, in quanto nel dramma euripideo è connessa ad una frattura interna alla pura nascita dalla terra ateniese. Ad essere ridiscusso è lo status della cittadinanza, dall’interno: essa passa dall’essere uno status all’assumere una funzione sociale e politica. Cfr. N. Loraux, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Neri Pozza, Vicenza 2006, pp. 179-181. 19 Ivi, p. 446. 20 A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Cortina, Milano 2002, pp. 369-370. 18


62 Mariangela Milone Emblematica della possibilità di traghettare un simile discorso direttamente al cuore della democrazia moderna, è l’affermazione di Balibar, che guarda alla necessità di introdurre nell’idea stessa di democrazia un elemento di cittadinanza “anarchica”, che è tuttavia la condizione di possibilità della sua istituzione […], la manifestazione periodica o permanente, aperta o latente, di una conflittualità che si pone sempre in eccesso rispetto a qualsiasi consenso o spinge l’agonismo al di là dei limiti di un pluralismo coerente. Tale eccesso non controllabile a priori è però la condizione dell’istituzione della democrazia, in quanto permette ai conflitti di entrare in un ciclo di legittimazione e delegittimazione del potere21.

Il mondo greco antico come esempio: è allora questo che si sta proponendo? In verità, il mito della fondazione di Atene e delle colonie ioniche si chiude con un finale che non fa altro che reintegrare Ione all’interno e dall’interno della storia della polis. Foucault, in realtà, ha sempre manifestato un atteggiamento disincantato rispetto all’eredità dell’antichità classica: lo scavo genealogico è stato spinto dal tentativo di mettere in crisi le certezze del presente, mostrando il carattere storico e contingente dell’attualità. Ed egli è lontanissimo dal voler proporre modelli di riferimento, e tanto meno modelli politico-normativi. Proprio in una delle sue ultime interviste, risalente al 1984, Foucault è esplicito nel manifestare un disappunto: «Mi sembra – dice – che l’intera antichità sia stata “un profondo errore”»22. Eppure, proprio l’impossibilità di riproporre l’etica antica come esempio per l’oggi lascia emergere che la tensione del rapporto tra politica ed etica, tra cittadinanza e forme dell’appartenenza democratica, si trova già inscritta dentro le origini della tradizione occidentale. È un’origine che ingloba da sempre una frattura costituente. Sono in questione i rapporti della città con se stessa: laddove la soggettività introduce una differenziazione etica attraverso il dire il vero, la città introduce una differenziazione etnica per rinnovare la propria fondazione. La democrazia greca, anziché un modello da imitare, rappresenta l’occasione per riaprire dall’interno quei rapporti tra critica dell’esistente e inÉ. Balibar, Cittadinanza, cit., pp. 126-127. M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 262-272, p. 264. 21 22


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venzione politica; rapporti costantemente da ridiscutere, anche “a costo” di cambiare i nomi della politica. La cittadinanza tra autonomia e coraggio della verità La città greca, dall’occhio che sta dentro la realtà postcoloniale, sembra presentarsi come un luogo in cui si articola in modo del tutto originale la distinzione, delineata da Chatterjee con riferimento alla realtà postcoloniale, tra “società civile” e “società politica”. Secondo la visione del sociologo indiano, la società civile è definita dalla struttura formale dello Stato, e costituisce la sfera giuridico-istituzionale entro la quale ciascun cittadino è titolare di uguali diritti; la società politica si riferisce, invece, all’insieme delle pretese che chiunque faccia parte della popolazione, oltre alla élite che include i cittadini, avanza, anche servendosi di pratiche illegali o violente23. Rispetto al funzionamento della polis, la distinzione tra società civile e società politica riuscirebbe a sfumare, proprio grazie alla rilevanza politica e all’autonomia accordata ai momenti non istituzionalmente codificati, nei quali l’esercizio del diritto è supportato dalla capacità degli appartenenti alla popolazione, e non solo al popolo, come comunità dei cittadini, di farsi soggetti in senso attivo. Secondo Ranabir Samaddar, con riferimento al contesto indiano e postcoloniale, è necessario declinare la parte esercitata dalle società politiche in senso positivo, senza restringerne il campo al mero rapporto di opposizione rispetto alla ragione governamentale24. L’autonomia popolare è precisamente quello scarto che resiste alla sussunzione governamentale, come «un supplemento, irriducibile a ogni teoria normativa, deliberativa e comunicativa della democrazia»25. È sempre nell’ottica di un’irriducibilità che Foucault rinviene nella parrhesia «il radicamento di una problematica che è quella delle relazioni immanenti a una società: una problematica distante dal sistema giuridicoistituzionale, che pone le basi di un governo effettivo di tale società»26. Cfr. P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, Meltemi, Roma 2006, pp. 42-93. Cfr. R. Samaddar, The Materiality of Politics. Vol. 2. Subject Position in Politics, Anthem Press, London-New York-New Delhi 2007, pp. 107-120. 25 S. Mezzadra, Il bordo al centro del mondo, intervista a R. Samaddar, in «Il Manifesto», 12 Agosto 2005, consultabile su <http://www.mcrg.ac.in/rana9.htm>. 26 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 157. 23 24


64 Mariangela Milone Una simile connotazione non vale certo a definire un punto dal quale ribaltare le tecnologie che costituiscono i rapporti di potere; tuttavia, si tratta dell’apertura di un processo, di una decostruzione che mostra dove possono attecchire delle pratiche di libertà. La parrhesia è una nozione che non dipende dalla categoria giuridicodiscorsiva di cittadinanza, perché la eccede da entrambi i suoi lati ed è, perciò, in grado di mostrare i limiti interni di quei nomi della politica che pretendono di distinguere in maniera netta la norma dall’eccezione, la figura del cittadino da quella del non-cittadino. La differenza introdotta dal dire il vero nell’agone politico svela, infatti, il punto dal quale la spazializzazione classica, che lascia in eredità l’idea di un “dentro-fuori” dallo status della cittadinanza, non solo non è più valida, ma si rivela, fin dalle origini, segnata da una linea di transitabilità costante che ne chiama in causa la struttura interna. Se si confronta con la scena attuale il dispositivo politico individuato da Foucault entro la sfera dell’antichità greca, s’intravede che, nonostante la parrhesia sia qualcosa di molto risaltante nel dibattito filosofico-politico, l’idea di dire la verità al potere, rischiando il tutto per tutto e assumendosi la libertà di questo rischio, oggi è particolarmente presente e si trasforma in una pratica quotidiana proprio incarnandosi nei soggetti che sfidano la nostra visione della cittadinanza. Il riferimento è, ad esempio, a quanto si è manifestato nel corso della cosiddetta Primavera araba, secondo un flusso comunicativo e di eventi che attraverso la rete si è esteso anche alle più grandi metropoli dell’Occidente, contraddicendo l’idea che fa discendere dalla mancanza di uno sviluppo, nel senso del progresso, la ricetta per la quale chi fa parte di paesi arretrati rispetto alla modernità occidentale debba seguire un iter stadiale, anche nel pianificare la fattibilità dei processi democratici. Si tratta di un processo globale, entro il quale le lotte dei migranti occupano un ruolo centrale: le figure che incarnano il lavoro che migra, proprio nel loro situarsi ai limiti condizionati della cittadinanza e del lavoro, forniscono una lente per leggere le contraddizioni interne, strutturali, del modello di cittadinanza e del lavoro al tempo del capitalismo postcoloniale. A partire dalle lotte dei migranti, si apre una sfida da accogliere: quella di una riarticolazione dello statuto e della funzione della cittadinanza, la quale non ha un legame naturale rispetto alla democrazia, ma sempre in-


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stabile e storico. Le due nozioni, cittadinanza e democrazia, non possono essere pensate che nella crisi, nel loro superarsi continuamente. La sfida da accogliere è allora quella di iniziare a concepire la cittadinanza come «un terreno di lotta, di costante contesa»27. Solo attraverso questa lente è possibile riconoscere che i migranti non sono i soggetti mancati della cittadinanza. Al contrario: proprio perché non sono i soggetti di diritto di nessuna cittadinanza prestabilita e certa, sono coloro che, mentre sembrano riaffermarne la necessità, ne mostrano i limiti strutturali e in qualche modo l’inesorabile declino storico28.

Ne consegue che, al tempo in cui il lavoro migrante, precario e informale diventa la cifra del modello lavorativo, il problema non è certo confinato alla sfera del fuori dallo statuto della cittadinanza. Si tratta di segmenti di una stessa linea che, tenendo comunque conto della specificità delle diverse posizioni soggettive, interseca la composizione di tutto il lavoro vivo contemporaneo29. Qui si è rivelata in tutto il suo aspetto radicalmente politico la cesura interna a quell’ideale di cittadinanza nazionale che la forma della democrazia liberale porta con sé: gli “scioperi” dei migranti hanno visto mobilitarsi e rischiare la propria posizione soggetti che, pur non costituendo parte del popolo, cioè della cittadinanza, ma facendo comunque parte della popolazione, sono scesi in campo, hanno dato vita a organizzazioni e movimenti di protesta, denunciando quelle condizioni di sfruttamento lavorativo e di ricattabilità che percorrono il lavoro contemporaneo nel suo complesso. Potrebbe essere questo il punto di partenza per lavorare sulle attuali frammentazioni e ricomposizioni di classe, mantenendo, però, il concetto stesso di classe entro la tensione costitutiva di una progettualità mai determinata una volta per tutte, ma che trovi una base comune riconoscendosi nell’antagonismo rispetto alla norma astratta e accumulatrice del capitale. I movimenti di auto-organizzazione, fuori dai circuiti chiusi e settorializzanti dei sindacati, segnano una punteggiatura di eventi capace di creare un collegamento strategico tra la dimensione territoriale e quella F. Mometti e M. Ricciardi, Conflitti migranti. Introduzione, in La normale eccezione, cit., pp. 9-20, p. 19. 28 Ivi, p. 20. 29 Cfr. F. Raimondi, Migranti e sindacato. Tra sciopero e cittadinanza, in «Outis! Rivista di filosofia (post) europea», vol. 1 (2011): Rivolte migranti, pp. 183-203. 27


66 Mariangela Milone globale: tutto questo si dà proprio mentre lo Stato sembra rafforzare la sua presenza, in senso securitario ed allarmista, e mentre i cittadini europei cercano una dimensione entro la quale esercitare “diritti europei”: i processi migratori continuano a produrre spinte delocalizzanti e trasformatrici di confini30. I migranti costituiscono una sorta di contraddizione in movimento rispetto alla definizione inclusiva ed estensiva della cittadinanza messa in funzione dallo Stato: essi non solo chiedono di essere ammessi a giocare secondo quelle stesse regole di diritto che segnano i confini della cittadinanza, ma attraversandoli li revocano in dubbio: ne rimettono in gioco le regole esercitando una libertà tutta europea31.

Sono battaglie che definiscono un nuovo modo di intendere le soggettivazioni politiche, proprio mentre mostrano «le contraddizioni del nostro modo di intendere e praticare i diritti»32. È allora in virtù della stessa crisi di certe categorie tradizionali del politico che si intravedono anche i punti verso i quali indirizzare le forze, per guardare criticamente gli attuali processi democratici, in vista di un rinnovamento. Entro queste aperture da rimodulare, il punto primo dell’invenzione politica è dato dalla modalità stessa delle vite che attraversano i classici spazi della cittadinanza: è su questo livello che l’ancoraggio alle analisi foucaultiane, nella distanza che ci separa dai greci, offre una prospettiva da rilanciare, per tornare a lavorare sulla “questione del soggetto nella politica”. Qui, però, non si tratta della libertà come ideale, o della soggettivazione come un antagonismo improvviso, contrapposto alla soggezione al potere. Ricerche di stampo foucaultiano, come quelle di Ahiwa Ong, mostrano proprio come i migranti, direttamente imparentati con i vecchi colonizzati, siano invece anche e prima di tutto dei soggetti il cui agire è inerente al funzionamento delle tecnologie di potere, non estraneo ad esse come se esistesse uno schema binario che divide oppressori ed oppressi. «Ogni migrante porta con sé la globalizzazione»; così F. Raimondi, ivi, p. 197. E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Europa allargata, Meltemi, Roma 2007, p. 121. 32 F. Raimondi, Migranti e sindacato. Tra sciopero e cittadinanza, cit., p. 193. 30 31


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Ong, partendo da quanto emerge dalle ricerche effettuate sulla costituzione di sé di chi è ai limiti esterni della cittadinanza, osserva che non è possibile intendere i meccanismi attraverso i quali gli individui riflettono su se stessi in quanto soggetti, se non tenendo conto dell’ambiguità del processo che li coinvolge nel funzionamento delle realtà istituzionali: ma è questa stessa ambivalenza a rivelare come la negoziazione dei ruoli e delle aspettative, dei diritti e degli obblighi, sia sempre in qualche modo situata entro una dimensione agonistica, piuttosto che in un rapporto a somma zero. In questo senso, si tratta allora di leggere la soggettivazione politica non come il gesto meramente antagonista di chi acquista una improvvisa identità politica nella contrapposizione all’ordine dato, ma come un complesso lavoro di «governo di sé e degli altri»33.

Proprio attraverso la lente delle ricerche foucaultiane sul modo in cui funziona il nesso tra etica e politica nel mondo classico, è possibile guardare a quelle forme di resistenza che si svolgono secondo schemi diversi da quelli tradizionali della lotta diretta contro il potere: esse sono costruite a partire da quell’atteggiamento critico che fin dal cinismo, passando per il Medioevo e per le lotte antipastorali, ha ispirato, secondo Foucault, le “contro-condotte”34. Questo interrogarsi sulle trasformazioni delle modalità di resistenza è del resto strettamente connesso ad una questione di fondo che muove tutti i tentativi foucaultiani di ripensare il collegamento tra etica e politica: è la questione dello stile di militanza politica e della problematizzazione etica che ne fa da cornice. Cercando di rinvenire le modalità attuali della pratica parresiastica, Foucault osserva che la parrhesia «la si ritrova soltanto come modalità che si appoggia e si innesta [sul] discorso rivoluzionario, quando assume la forma di una critica della società esistente»35. Ma poi, lungo questa traiettoria, nel suo ultimo corso, Le courage de la verité, Foucault recupera una sporgenza rispetto alla quale il tema di un A. Amendola, Democrazia radicale, biopolitica e soggettivazione, in A. Amendola et alii (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 363-376, p. 375. 34 Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de Frnace. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004; trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 151-163. 35 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 42. 33


68 Mariangela Milone certo tipo di militanza politica costituisce una delle “posterità”: è il modo di vita cinico, che porta ad estreme conseguenze il nodo con il quale il mondo greco classico tiene insieme sfera etica e sfera politica. La vita del cinico è infatti interamente vita rischiosa, vita di lotta, vita di manifestazione della verità, di combattimento agonistico nei confronti del potere. La posta in gioco è stata sempre, fin dai Greci, come e da chi accettiamo di essere governati. Si tratta di un peculiare punto di vista critico, non meramente oppositivo, ma produttivo, che si avvicina molto alla posizione espressa da Edward Said con riferimento al contesto postcoloniale: anche se lo storico palestinese ritaglia la sua affermazione intorno alla figura dell’intellettuale, egli ne definisce una vera e propria “funzione cinica”, per la quale non si tratta sempre e comunque di opporre la propria critica alla politica del governo; piuttosto di pensare come la vocazione dell’intellettuale consiste nel mantenere uno stato di vigilanza costante, di indisponibilità perenne e non lasciarsi pilotare da mezze verità o da idee ricevute36.

Situato lungo l’asse delle pratiche politiche, il cinismo, quale figura estrema del dire il vero, nel lasciare che sia la propria stessa vita a manifestare la verità, rappresenta una categoria trans-storica, «una categoria storica che attraversa in forme diverse e con svariati scopi, tutta la storia occidentale»37, l’inizio di uno stile di militanza aperto a tutti, sciolto dall’esigenza di conformità alle regole prestabilite di una scuola. Le contro-condotte accolgono l’eredità di questo atteggiamento critico: fin dal Medioevo sono esistite lotte, specificamente connotate in senso spirituale, che si sono manifestate non solo come forme di resistenza, ma prima di tutto come modalità di conversione dell’esistenza, rispetto ad un potere in quanto potere di condotta delle vite e pastorato delle anime. Sono forme di vita che hanno attecchito nelle esperienze della mistica, dell’ascesi cristiana, degli ordini mendicanti, fino a giungere, nell’attualità, alla stilizzazione della vita come militanza all’interno E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 2014, p. 37. Uno dei saggi in cui Said si è confrontato con Foucault in maniera più diretta è intitolato proprio Michel Foucault, 1927-1984 e si trova in E. Said, Reflexions on Exile, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2000, pp. 187-197. 37 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 172. 36


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delle sette segrete e di alcuni partiti, o ancora nel rituale indiano dello sciopero della fame38. Ciò che accomuna tutte queste pratiche è la permanenza, sotto lo scorrere discontinuo della storia e oltre le divisioni geopolitiche39, di un atteggiamento rivoluzionario che ha potuto dotare i soggetti in lotta, nel corso dei secoli, di una dimensione critica costituente, seminando i germi di qualcosa di fondamentale per l’esperienza occidentale della critica, della lotta contro il governo delle condotte: un atteggiamento che consiste nel problematizzare costantemente la questione: «come essere governati? È tollerabile essere governati in questo modo?»40, all’interno della stessa relazione di governo. A partire dall’eredità cinica, passando per le lotte antipastorali e dei movimenti rivoluzionari nel corso del XIX secolo, emerge che «la rivoluzione […] non è stata semplicemente un progetto politico, ma anche una forma di vita»41, la quale non si sintetizza solo come vita di lotta, ma produce anche un tipo di esistenza, modi di vita e modi altri di gestione delle cose42. Ad essere in gioco è il coraggio della verità che stilizza una agency strategica, entro la definizione del rapporto tra il governo degli altri e un certo governo di sé: si tratta di esercitare la critica come arte della disobbedienza volontaria, rispetto ad una politica che si ritiene non rifletta più la possibilità di allacciare il governo degli altri a un governo di sé43. Si potrebbe obiettare che questa linea presuppone un soggetto in senso “forte”, mentre le ultime ricerche di Foucault hanno continuato a procedere nel senso del disconoscimento di un soggetto-sostanza. Cfr. ivi, pp. 180-182. Sul “dire il vero” nell’ambito della prospettiva decoloniale, si segnala l’analisi della pratica del Satyagraha nell’India di Gandhi proposta da O. Irrera, Satyagraha: une alèturgie décoloniale face au gouvernement colonial des vivants, in D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et vérité, 1980-1984, Vrin, Paris 2013, pp. 199-216. 40 Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 64. 41 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 180. 42 In Foucault emerge «la politica intesa come un’etica»: P. Cesaroni, Verità e vita. La filosofia in Il coraggio della verità, in La forza del vero, cit., pp. 132-160, p. 150. 43 Cfr. L. Bazzicalupo, Pragmatica anarchica e virtù esemplari: un poststrutturalista ad Atene, in S. Marcenò e S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, Duepunti Edizioni, Palermo 2011, pp. 73-88. 38 39


70 Mariangela Milone Ma si tratta di un soggetto forte nel senso specifico dell’affermatività nietzscheana, cioè della capacità di decidere e ri-decidere continuamente, di avere il coraggio di ripensare il governo di sé e degli altri nell’evenemenzialità di un divenire del quale si riesce a vedere la differenza: un divenire, cioè, nel quale la differenza radicale degli eventi genera un tempo eterogeneo e denso di qualità44. In questo senso, quello che Macherey descrive come Il soggetto produttivo si definisce in virtù del “carattere incompiuto” del soggetto stesso. Macherey si riferisce alla forma soggettiva di un’azione che nasce spontaneamente e, eventualmente, fuori e oltre rispetto ai legami di appartenenza tradizionali, radicandosi all’interno di reti di «resistenze sparse, in movimento, non meditate e coordinate dall’inizio»45: a essere centrale è la capacità di auto-organizzazione, in vista di una produzione del sé che possa creare nuovi legami etico-politici, modalità della cooperazione in grado di fondare un “comune” a venire. Mariangela Milone Università degli Studi di Salerno mariangela.milone@gmail.com

. From Parrhesia to Political Practices in Postcolony The aim of this article is to identify, in the lessons of Foucault Le gouvernement de soi et des autres I-II, a political device which can read the terms of resistance and subjectivity emerging in post-colonial present, questioning the function of citizenship. The practices of truth-telling taken from ancient greek world, from parrhesia to the cynical way of life, constitute a lens through which to look at those forms of subjectivity that are held according to tools and practices different from those by which we usually think of classic categories of political. Keywords: Postcolonial, Parrhesia, Cynicism, Citizenship, Migration, Resistance, Governamentality. Cfr. J. Revel, Promenades, petits excursus et régimes d’historicité, in D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et vérité, 1980-1984, cit., pp. 161-175, p. 175. 45 P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona 2013, p. 61. 44


Authority, Interpretation and the Space of the Parrhesiastic Encounter Nancy Luxon

As more of Foucault’s lectures come to be published – either those at

the Collège de France or the guest lectures given at the Universities of Berkeley, Louvain, Dartmouth, and Grenoble – it becomes possible to work differently with these lectures. Reading and working with lectures is always tricky: public lectures are at once forms of public address, at times constrained by the terms of invitation, and can only rarely serve as stable texts. In Foucault’s case, reading his Collège de France lectures against the versions published as Discipline and Punish or The Will to Know reveals a dramatic disparity between the pedagogical relations and obligations that govern his teaching material, and the different relationships that govern its internal logic when writing it for an imagined audience. With this lecture, La Parrêsia, originally presented at l’Université de Grenoble, one sees Foucault test something else through the content and form of his remarks: the constraints that enable speakers to elaborate and test new narratives1. In this sense, La Parrêsia offers an unusually clear aperçu into Foucault’s work on ancient ethics and truth-telling, insofar as it serves as a hinge between Foucault’s earlier work on the production of truth through confession (as in Discipline and Punish, The Will to Know and Wrong-Doing, Truth-Telling), and his turn to a different mode of truth-telling that would sidestep the relations of power so constitutive of his earlier work. If the speech of contest and law relies on pre-specified rules and procedures – rules that ostensibly protect from the vulnerable from domination, even as the expertise to navigate within them only reproduces these injuries and asymmetries – then parresia draws from the irreducible relationship between parresiastes and student. By contrast, I argue La Parrêsia sketches the unfurling of a space whose liberty is not over-determined by these relations, and yet a space which may, provocatively, still reside among them. All references to the Grenoble lecture, in the form of in-text citations, are to the version printed in Anabases, no. 16 (2012), pp. 157-188. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 71-90.


72 Nancy Luxon The “parrhesiastic pact” at the center of La Parrêsia thus seeks to challenge two tenets central to Foucault’s earlier work on confession and avowal. First, the parrhesiastic pact emphasizes the relation between master and disciple rather than the production of a singular, desirously truthtelling subject. Already the 1982 Collège de France lectures that compose The Hermeneutics of the Subject had moved away from the indissoluble bind between truth and desire and towards truth-telling as interpretive understanding. A few months later in Grenoble, the rumination on these lectures and their compression into a single survol sharpens the attention to asymmetric relationships in which the student – not the master – speaks. Second, the lecture further clarifies that Foucault sought in parresia not the roots of confession or avowal, but the articulation of distinct, plural models of truth-telling that would differently bear on ethical subjectivity. From this plurality of models, Foucault suggests that the collaborative dynamics between parresiastes and student allow for a different kind of ethical change than those he had previously analyzed. Simply, Foucault finds in the form of the parrhesiastic encounter a way to move the student and those around him towards authoring and authorizing change in their own right. Foucault’s lecture thus outlines the relationships that organize a truth-telling whose legitimation is not settled in advance, and whose effect is not undone by asymmetries of position2. Somewhat differently from Foucault’s other late lectures, however, La Parrêsia gestures provocatively to parresia’s unfolding through movements of desires, ideas and person and the space of liberty they both require and compose. Such attention to the space of encounter works both contrary to the incredibly spatialized account of power and knowledge in Discipline and Punish and frictively with the publicity that is the condition of knowledge in Kant and especially the political writings that so interest Foucault3. Foucault’s work around Discipline and Punish (such as the GIP’s earlier activism in 1971-72, and the later 1982 Louvain lectures) sought Thus, one might understand Foucault in this lecture, and his last four years of research broadly, as responding to the modern “legitimation crisis” identified by Jürgen Habermas. Likely inadvertently, these lectures also serve address questions raised by Ch. Taylor in Foucault on Freedom and Truth, in Political Theory, vol. 12 (1984), n. 2, pp. 152-183. 3 Foucault writes most consistently about What is Enlightenment? and Conflict of the Faculties, although similar themes of Aufklärung, authority, reading publics, novelty, and history resonate in the other essays included in Kant’s Political Writings, 2nd edition, ed. H. Reiss and trans. H.B. Nisbet, Cambridge University Press, Cambridge 1991. 2


Autority, Interpretation and the Space of the Parrhesiastic Encounter 73

to differentiate regimes of jurisdiction and veridiction, or regimes of law and truth-telling. As a truth-telling that challenges the presumptive ordering of nomos rather than entrenching it, parresia would seem to unfold in a context other than a jurisdictional organization of space and movement through law. It also presumes something other than the “republic of readers” envisioned by Kant – even as Foucault draws subtly on Kant to analyze truth-telling as one of those “impossible professions”4 that are practically caught between right and force and oriented towards freedom. Foucault’s lectures raise but do not answer the question of what alternative public space might enable parrhesiastic speech to gain more explicitly political effects. Foucault’s allusive claims about the space of the encounter in La Parrêsia thus leave open many questions. How should we understand this “space of liberty” that is also a space of asymmetry and inequality? What dynamics characterize this space – and in what sense should we see them as spatialized, given Foucault’s repeated insistence on “relationships”, “engagement” and “pacts” – that is, on activities that do not obviously or necessarily need spatial articulation? With this essay, after quickly sketching the asymmetries at work in Foucault’s reading of parresia, I will turn to this space and argue that Foucault characterizes it in terms of its movements. Attention to these agitations, these movements in and out of city and soul, suggests that Foucault’s work on parresia might offer the preliminary resources to think about the new public spaces for politics. If Foucault recognized that his public speaking deployed different modes of truthtelling and so triggered different responsibilities, perhaps the response of his readers should be equally creative. What “republic of readers” might so find itself born posthumously? Truth-telling in the Parrhesiastic Encounter In this Grenoble lecture, Foucault’s reading of parresia strikingly diverges from his reading of Christian practices of penance and confession, Kant declares pedagogy and governance to be “impossible professions” for the contradiction between force and right, as well as between liberty and authority, each embodies. First Freud and then Foucault will echo this comment, with Freud adding psychology to the list of professions. 4


74 Nancy Luxon along with his claims elsewhere about medical, psychoanalytic, and juridical practices. If Christianity (and psychoanalysis) insists that the disciple speak, then parresia insists that the master speaks, and that he speaks a potentially hurtful truth. Such claims diverge markedly from the earlier Will to Know (1976), in which Foucault famously glosses the clinical, psychoanalytic encounter as confessional. They also differ from the less successful efforts to extend the confessional frame backwards, as in The Use of Pleasures in which Foucault toys unpersuasively with Artemidorous and dreams, or in the floundering opening lecture on aphrodisia and elephants for Subjectivity and Truth (1980). However, over the next few years of lectures – with their constant scaffolding, revising, and abandoning of different frameworks – emerge a steady collection of texts that will orient Foucault’s lectures from the Hermeneutics of the Subject (1982) onwards. Eventually, a clearer rendition of ancient truth-telling crystallizes, one very much at odds with the lectures on avowal given just a year earlier at the Université de Louvain. Initially, both lectures appear to revolve around truthtelling practices in the ancient world, and to analogize these practices to the arts of governance such as medicine and piloting5. It would not have been unreasonable for the Grenoble audience to expect something like the lectures given in Louvain – lectures that moved from pre-law Greece, to Christian confession, and then contemporary expertise, and that unfolded in the context of Belgian debates around penal reform and the doctrine of social defense6. But between the lectures at Louvain and Grenoble, and within Foucault’s reading of the transition from ancient ethics to early Christianity, a pivot point emerges: “this kind of reversal, a reversal which means that parresia weighs on the master in ancient philosophy” (160)7. With that inversion, the dynamics of the encounter between master and disciple, teacher and student, radically alter – even despite the remaining inequalities and asymmetries that define their positions. Surprisingly, FouM. Foucault, Wrong-doing, Truth-telling. The Function of Avowal in Justice, eds. F. Bion and B. Harcourt, University of Chicago Press, Chicago 2014, p. 75. 6 Brion and Harcourt, eds., p. 2. 7 For a fascinating account of judgment, judicial decision-making, and subject-formation in early Christian martyr acts – one that captures the “tension between the formal rationality of [Roman legal] institutions and the intuitive judgments of a [Christian] community”, see A. Bryen, Martyrdom, Rhetoric, and the Politics of Procedure, in Classical Antiquity, vol. 33 (2014), no. 2, pp. 243-280. 5


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cault offers the parrhesiastic relationship as what that educates, rather than produces subjects. Distinctions from Christian confession and juridical avowal duly noted, Foucault distinguishes different modes of parresia so as to schematize the practices that sustain its engagement and prevent it from reducing to institutional status, polemics (174), or simple adhesion to political program. If citizenship for Euripides guarantees “the space for the right to speech”, then parresia’s place in Plato’s Republic remains linked to the space of the democratic city. Likewise, Plato’s Laws allows citizens a frank speech that assured the freedom, friendship and commonalty of the city, and so emphasizes the need for harmony in this “space of liberty”. The experience of being moved politically turns inwards with the Gorgias and the figuration of parresiastes as touchstone for his student’s soul. Each truth-telling model returns to something simple: “when a soul wants to take care of itself, when it wants to heal itself, it needs another soul, and this other soul must have parresia” (166). Parresia is “the ensemble of practices, rules and techniques that assure the exercise of the care of the self ” (159) and thus is “always linked to practice” (166). And yet, such practices are more than individual virtue or skills: parresia “is always an operation with two terms; parresia is something that plays out between two partners” (176). Within this swiftly sketched framework, Foucault offers an ancient world littered with different truth-telling models – Ion, Plato, Socrates, Oedipus – whose exemplary status remains tethered to their institutional status within politics. Even as their personal biography remains in tension with their public lives, these figures lack the ability to rewrite the truth-telling game in which they are enmeshed. Their authorial status remains institutionally bound and over-written by Fate. Such authorial status changes, and changes dramatically, as Foucault moves through the writings of Seneca, Epictetus, and Epicurus – writings complemented by the reciprocal exchanges of their students, including most notably Lucilius and Arrian. Suddenly, the cast of characters changes, and moves away from the iconoclastic who either uphold a singular conception of truth (Plato) or rage against it (Oedipus). Instead, truth-telling unfolds in a context at once collaborative and authorized by a parrhesiastic pact between master and student. Where other modes of truth-telling relied on expertise (legal, psychiatric, etc.), publicity (trials, deliberation) or privileged access to truth (confession, psychoanalysis),


76 Nancy Luxon parresia’s legitimacy lies elsewhere. Namely, it derives from the dynamics of the encounter itself – from both participants’ ability to author and be compelled by a relationship to authority. Authority emerges out of the parrhesiastic encounter itself, and in a manner that does not reduce to consent or obedience. With parresia, then, Foucault finds a way to return to these relationships of authority that is predicated neither on a basis of expertise nor on some authority external to human community (such as tradition, custom, religion, or nature) nor on the equality of persons. Instead, parresia is “linked to the exercise of a personal power and strongly inegalitarian structure” (167). It forces adherents to consider what in the relationship prevents position from over-writing speech and vulnerability. It relies on parrhesiastic students’ ability to search, test, and then think alongside another. Again, the contrast between such asymmetric interactions and those of confession is striking and unexpected. This shift from the Louvain lectures and those at Grenoble, Berkeley and later Paris, traces the emergence of a new model for subject-formation, and one with a different relation to truth. In my earlier work, I’ve argued that Foucault’s lectures from 1981-84 offer a model for a relational, expressive mode of subjectivity; here, I will only present the encounter’s broad contours in order to sketch how legitimation emerges from (rather than prior to) the encounter8. Namely, the first movement of parresia – the search [recherche] for a speaker considered as truthful – confronts the question of power. The conditions of parresia include an asymmetry of power; yet, for Arrian to trust that Epictetus speaks truthfully rather than out of fear, self-interest, or from a desire to flatter, the relationship must be structured so as to enable the interpretive competence of both speakers: “there is an art of speaking, there is a competence in listening” (177). Both parties must be prepared to take on the challenges of the relationship, and to endure its contest. The second movement concerns the subsequent testing [épreuve] of the truthteller’s authority. Foucault invokes conditions of risk to test the strength of the truth-teller’s claims and the conviction behind those claims: “one must continue to test him, in order to see if he has the necessary severity” (179). Mutual vulnerability becomes less a condition to overcome than a reminder of the stakes of the encounter. Risk also deepens the encounter’s psychological dimension by playing on the hopes and fears of both 8

N. Luxon, Crisis of Authority, Cambridge University Press, Cambridge 2013.


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participants – the affects that allow the contents of speech to reverberate and be felt from within. Finally, with the third movement of parresia, Foucault seeks a congruence – what he sometimes terms “care” in other moments9 – between student and teacher (180), one that consolidates the conditions in which “the discourse of the other to act over me” (168), a peculiar phrase to which I’ll return in the next section. Where moderns usually turn to the scientist, the legal expert, or the revolutionary (and where ancients turn to the prophet, seer, or sage)10, parresia holds out the promise for a relationship whose authority does not come from beyond human community. Rather than invoking Bible, nature, or science, parrhesiastic partners establish the conditions of truth-telling that will govern the exchanges to follow. Parresia thus offers a pact that, to use Foucault’s language from What is Critique?, is governed by a “reflective indocility” rather than obedience or a consent legitimated by external authority11. If in What is Critique? Foucault asked, “How does meaning [sens] arise from nonmeaning [nonsens]?”12 then parresia “will thus develop through the emission of signs in one direction [sens] or another, now on the side of the disciple, now the side of the master” (178). With this attention to the exchange of signs, Foucault suggests a primary difference from confession or the avowal. That its participants compose the relationship, determine its severity, and assess its adequacy means that the parrhesiastic pair collaborate on its principled orientation and its very experience. They sculpt the context of engagement through three tools – metron (measure), kairos (opportunity), and sygkrasis (blendBoth “care” and eros play a more prominent role in the first January 6, 1982 lecture of The Hermeneutics of the Subject. By May 1982, Foucault appears to have narrowed the focus to a relationship that precedes in despite of asymmetry, rather than one that draws on care or love to contextualize and affectively soften these asymmetries. Indeed, in the course summary for The Hermeneutics of the Subject, Foucault writes: “In the first and second centuries, the relation to the self is always seen as having to rely on the relationship with a master, a guide, or anyway someone else. But the need for this relationship was increasingly independent of the love relationship” M. Foucault, The Hermeneutics of the Subject, trans. G. Burchell, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2005, p. 496. 10 Foucault considers these figures and distinguishes parresia from their speech on several occasions, including The Government of Self and Others, trans. G. Burchell, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011, p. 69. 11 M. Foucault, What is Critique?, in What is Enlightenment?, ed. J. Schmidt, University of California Press, Berkeley 1996, p. 386. 12 Ibidem, p. 389. 9


78 Nancy Luxon ing) – that modulate speech so that it’s not the “violent, interpellating” speech of polemic, but instead crafted with an eye towards timing, circumstances, and reciprocity (174-175). Parrhesiastic practices search out “chance opportunities” both in a strategic intervention into the political field as well as in a political dramatics that can sustain such speech. A year later, Foucault will characterize parresia as that space “which serves as the hinge between politeia and dynasteia, between the problem of the law and the constitution on the one hand and the problem of the political game on the other”13. Where governmental techniques intervened to manage individual souls and spirituality, to render them congruent with social reality, the art of parresia now draws on the negotiated exchange between student and truth-teller. The two collaborate on the expression of a shared language, context and understanding. Foucault’s model of parresia resonates obviously with Kant’s What is Enlightenment?, although Foucault will not make this direct connection until the following year. In parresia, as in Kantian Aufklärung, knowledge and experience exist in ceaseless tension and contradiction. Caught as humans are between the sensible and the intelligible, they find themselves confronted with the hermeneutic challenge of working with ambivalent signs and limited understanding. Uncertainty and risk will forever be the condition of knowledge. In contrast to the truth-telling scenes that push authority beyond their borders, the parrhesiastic encounter begins with questions about the world and its conceptual organization that knowledge and politics make possible. It differs remarkably from avowal in two ways. First, the parrhesiastic encounter demonstrates a markedly different relationship to norms and convention; rather than demanding that its participants stipulate and conform to a pre-determined norms, the parties involved choose negotiate the norms to organize their encounter. In this sense, parresia is expressive of a relationship to norm and convention, rather than of individuality or obedience14. And second, parresia differs from avowal through its management of asymmetries. In formalizing the dynamics of avowal, Foucault describes avowal as “a verbal act through which the subject affirms who he is, binds himself to this truth, places himself in a relationM. Foucault, The Government of Self and Others, p. 159. Foucault reiterates this point in The Hermeneutics of the Subject, p. 218. For longer reflection on this distinction, see D. Owen and C.M. Woodford, Foucault, Cavell and the Government of Self and Others. On Truth-Telling and an Ethics of Democracy, in Iride, vol. 66 (2012), no. 2, pp. 299-316. 13 14


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ship of dependence with regard to another, and modifies at the same time his relationship to himself ”15. Unlike in parresia, with avowal we de-couple the assertion from the act of truth-telling; avowal’s relationships of dependency are deeply disjunctive and lodge subjects firmly within the logic of representation. Instead, parresia exemplifies that peculiar kind of asymmetrical relationship in which persons retain their freedom. Its commitments are to the relationship itself (rather than personal charisma, office, or a given regime of truth), and to the paradoxical task of cultivating the exercise of liberty from within an asymmetric relationship. Echoing the critical project of the art of “not being governed so much”16 or in this way, the resulting parrhesiastic relationship is neither organized in relation to some external source (such as nature, culture, tradition, religion, etc.) nor over-written the asymmetry in power that separates its participants. Instead, authority comes to be something negotiated, authored, and authorized by the two participants involved. And so La Parrêsia crystallizes a commitment to a truth-telling that is not only or even primarily one of philosophic critique but one that unfolds between persons and, in its first moments, not obviously as part of politics, but rather more “off to the side”. Parresia’s asymmetrical relationships offer a context in which to disaggregate and analyze those practices that bind trust, truth-telling, and authority. By offering relationships of authority not over-determined by power or an existing regime of truth, Foucault can explore the conditions that educate students (on terms of their own choosing) rather than produce them (on the terms of another). Individuals are no longer passive subjects of injury, but rather their selfhood emerges from their ability to risk authority themselves. By “risk authority” I mean that individuals exercise the capacity to risk the authorship of their own words and deeds, despite uncertainties of context and consequence. Risk becomes not a generic quality of circumstance but part of a structural dynamic that sets these relations to symbolic authorities apart from others more quotidian. Instead of the automatic, presumptive valorization of “innovation”, or the prudential move towards “risk management”, parresia re-attaches risk to the shrewdness of deliberate claim and strategy. More than a philosophic approach to authoring and reading texts, such interpretive authority enables us to read and authorize the political context in which we find ourselves. 15 16

M. Foucault, Wrong-doing, Truth-telling, p. 17. M. Foucault, What is Critique?, p. 384.


80 Nancy Luxon Undoubtedly, the preoccupations with the trust and truth-telling that compose authority struck Foucault’s audience as odd – the contrast to the work on avowal is jarring. This contrast also reminds, however, that something is being flattened: the complexities of social relationships, the imperfections of their reproduction, the flux of the world. What might it mean to seize hold of these and direct their movements? In a political context fixated on power, practices of trust and truth-telling would seem to have no clear place. And indeed, in the modern western world claims to trust and truth- telling – claims that would normally sustain the legitimacy of authority – have become empty markers, mere veiled invocations of power. Where trust generally sustains social interactions in the face of generational change, unpredictability, and despite the momentary ruptures from the occasional broken promise or betrayal, it permits us to regulate attachments broadly speaking. Irreducible to simple instrumentalism, trust smooths over the uncertainties of exchange by reminding those involved that trusting behaviors enable them to pursue other shared values of community. For trust to achieve this effect, individuals need to be able to regulate not just attachment but claims to speak truthfully. Absent such trust, an approach to politics in terms of ‘power’ could draw on the clarifying force of contest. Where a contestatory politics relies on the stark potency of claim-making, not all political exchanges are or ought be adversarial nor can they always rely on fair “rules of the game” to adjudicate contest. Cultivating a politics rich in texture and generative in project requires equally cultivating political strategies of negotiation, imagination, revision, and critique. To reduce truth claims to power is to truncate the potential for an ethical cultivation of person or community. As practices of trust and truth-telling become eviscerated through suspicion, it becomes impossible to speak meaningfully about authority, the process of legitimation, or even the collective of political community. Losing the vocabulary of authority narrows the possible relationships for ruling and being ruled into ones of simple command and obedience. Composing New Spaces Through Speech If the last section emphasized the distinction between philosophic critique and parresia as a political relationship, the effect is to call attention not to epistemological uncertainties, but the political uncertainties


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of context – and the potential for relations of trust to counter these. Foucault’s project certainly seeks to explain, contra Habermas and others, how an ethical disposition that arises situationally rather than in relation to transcendental norm, could nonetheless have normative content. If Habermas relies on the presence of experts in a public sphere to generate political debate with normative effect, then Foucault turns to the parrhesiastic relationship to organize practices of truth-telling. Even so, the Habermasian framework still possesses one clear advantage: its reliance on the public sphere explains how such normative claims can extend beyond personal relationships. Foucault cannot be unaware of the importance of the public sphere, as demonstrated by his consistent engagement with Kant and with Kant’s “reading public”, and his own forays into his journalistic writing (through interviews, editorials, and public statements). Nonetheless, his work on avowal and expertise across disciplinary contexts indicates a skepticism that its publicity can withstand the effects of institutionalization. What emerges incipiently in La Parrêsia and more broadly across the lectures from 1982-84, is a return to Kant by rethinking the conditions of publicity and without automatically reading this as a public sphere. At the very least, such publicity conditions how individuals might evaluate events by searching for a “historical sign [at once] signum rememorativum, demonstrativum, prognostikon”17. More importantly, however, for parrhesiastic relationships to play out in a politically and ethically robust manner, participants need to trust that these engagements and pacts will find a context to sustain them. By hinting at the agitations that move in and beyond persons, and the “space of liberty” that surrounds parresia, the Grenoble lecture pushes readers to inquire into the contexts or communities opened up by frank speech. With these concerns about space and publicity in mind, what might we see in returning to La Parrêsia? Re-entering the essay, the contrast to confession, or exomologesis, reads differently. If confession amounts to the performance or externalization of faults and sins so as to make these legible, then the obligation to say everything is an invitation to express “all of the movements of his thought, all the movement of his desire or of his concupiscence” (159). It treats the “movement, the agitation of spirit” and seeks to “restore the thread of discourse which is, in principle, continuous” (159). From its first definitions, parresia captures something of 17

I. Kant, Conflict of the Faculties, in Kant’s Political Writings, p. 181.


82 Nancy Luxon the restlessness of curiosity, desire, and discourse, and the movement of these across the simultaneous threshold of personality and public. These movements of thought and desire also seem to break with the preoccupations with psychiatry in penal, psychoanalytic, and psychiatric settings that characterize Foucault’s work on truth-telling as avowal or testimony18. With Euripides, the space and mode of parresia is political; speech remains tightly connected to citizenship and the rights that make political speech possible. Ion and Hippolytus dwell on the speech of citizenship, while The Phoenicians contrasts such free and frank speech with the constraints of dependency. In The Bacchants, then, the strain between freely speaking and dependent position come to a head, as a servant receives permission to deliver bad news despite lacking such rights by citizenship. Commenting on this tension – between the constraint of position and the urgency of truth – Foucault concludes: You see appear something that will have, I think, much importance […] the theme of engagement, of the parrhesiastic pact: he who is the strongest and he who is the master open a space of liberty, a space for the right of speech, to he who is not the master and who asks to speak, to say a truth, a truth that may hurt he who is master […]” (163).

The Bacchants suggests the possibility for free speaking to map imperfectly onto right, and the space of liberty and frank speech that might emerge from within this tension. Shifting to Plato, Foucault finds a similar set of dynamics governing truth-telling practices in the Laws and the Republic: in what circumstances might truth-telling strain those distinctions between he who is strongest, and he whose mastery of frank speech organizes a different asymmetry? For all that parresia might be read pejoratively as the chatter of the democratic city (as in the Republic), it was also central to binding liberty, friendship and community in monarchies such as that of Cyrus (Book III, Laws). The penal psychiatry present in Foucault’s lectures for The Will to Know remained muted in Discipline and Punish, arguably so as to emphasize the impersonality of techniques of discipline and surveillance. For all that Subjectivity and Truth, as well as the lectures at the Université de Louvain, open with scenes from 19th century French psychiatry, this framework becomes dropped. Instead, the preoccupation with Kant and Aufklärung present in What is Critique? operates in the background of La Parrêsia and opens the next set of Collège de France lectures, The Government of Self and Others. 18


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In a manner that Foucault finds akin to Isocrates, the challenge of distinguishing flatterers from frank speakers necessitates that “the monarch leaves about himself a space of liberty where the others will be able to speak and to give him reflective counsel” (164). Such spaces come to render less provisional and more connected to governance that space opened by Callicles after his “his first, noisy entrance” in the Gorgias (165). If the rhetor Gorgias is associated with figures that suggest some kind of simulated movement – trope, or turn; metaphor, or transfer; apostrephein, or a turning away – then Callicles connects this movement more crudely to force. If the sweep of Callicles as he enters and his sycophants flutter about him sketches the space of rhetoric, then Socrates differently makes contact with other souls by serving as a touchstone [pierre de touche] for those in search of “therapy”. Euripides and Plato thus mark different sites for the action and movement of parresia. By virtue of its connections to these practical spaces, parresia can suggest something different, according to Foucault. Such spaces not only offer protection and quite literally a hearing – they differently challenge what Foucault will term later in the essay “the art of speaking and the competence in listening” (177). Between speaker and auditor opens up the space of figuration. These contexts quite literally “make room for a figure of thought that is a non-figure, that is the zero figure [figure zéro], the one that augments the listener’s emotions” (166)19. These contexts conjure up the shadowy contours of something that may later take representational form, but whose symbolic resonance presently remains open to shaping and interpretation. In contrast to rhetoric, “parresia is characterized by a liberty of form” (174). In this symbolic sense, such spaces differ markedly not just from rhetoric, but also from the distorted representations externalized through confession or from those representations that will later be debated and sanctioned by an 18th century Kantian public. Instead, parresia touches directly the soul of the interlocutor and has the potential to re-orient the direction of conscience. That Foucault associates these earlier forms of parresia with “la chaire” (167) – meaning alternately the ‘pulpit’ or the ‘university chair’ – from which a speaker speaks suggests his association of its practice with those that formatively touch on subjects. Less directively, parresia orients the student towards “his place in the world” (173). Foucault’s comment resonates with Barthes in Writing Degree Zero, a resonance I explore at greater length in Crisis of Authority. 19


84 Nancy Luxon Indeed, in turning to Epictetus and Galen, Foucault explains, “I would like to take on another practical context which is neither that of rhetoric nor of politics but one of conscience”. With this new domain emerges, I would argue, the question of where, in what site, might the direction of conscience unfold? On the one hand, ‘shelter’ is a common metaphor for reflections on soul, spirit, or self20. Shelter stands in for the organization and housing for those internal spaces we can only “see” metaphorically. On the other hand, such a question resonates with modern practices in interesting ways. Much earlier, Foucault had argued that Freud’s genius was to remove psychological interactions from the clinic or hospital, and to relocate them into a dyadic encounter between doctor and patient21. Only a year earlier, in the Louvain lectures on avowal, Foucault recounted a clinical encounter between a patient and a psychiatrist, Dr. Leuret. The account concludes, “He was not at all attempting to persuade the patient…He wanted a specific act, an affirmation”22. The encounter was both beside the point and crucial to establishing Leuret’s authority; it introduced a mediating “third voice” between knowledge (Leuret) and power (the prefect). Perhaps such thoughts echo in Foucault’s suggestion that philosophic practice is like the care of the self, then “if the care of the self needs the other, and the discourse of the author, what is the essential character of this discourse of the other envisioned as act, as an action over me?” Such a question invites a different participation of others, one whose presence is irreducible and a necessity for any care or reflection – yet one whose influence “over me” (sur moi) might be the not-so-light impress of conscience or super-ego (in French, ‘super-ego’ is rendered as sur-moi). What conditions might enable such an action “over me” to not be one “over and against me”? To answer this question, Foucault turns to Seneca, Epictetus, Plutarch and Galen – and to texts in which the movements and circulations of speech broaden to complicate those between subsequent reader and originary author. Foucault returns to the “movement of thought” cited earlier as testimony of the restlessness irreducible to, perhaps uncaptured by, confession23. In reading the Interviews of Epictetus, Foucault unfolds a Foucault calls attention to this metaphor in his discussions of Seneca in The Hermeneutics of the Subject, p. 213. 21 M. Foucault, History of Madness, trans. J. Murphy, Routledge, New York 2006. 22 M. Foucault, Wrong-doing, Truth-telling, p. 12. 23 A longer discussion of “movements of the self ” and their contrast to the metanoia or conversion associated either earlier with Plato or later with Christianity, can be found in The Hermeneutics of the Subject, pp. 212-218. 20


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multi-layered context that moves from the published Interviews back to the notes taken by the student Arrian, to Epictetus’s movement in thought articulated through his movement of speech. To hold together both the movement and form of truth-telling, Arrian decides “to publish, to deliver to the public, the notes that he took” (169). These notes thus have their own internal movement and form; they are pushed outwards towards a public; a movement that permits them to be “renewed, and ceaselessly reflected upon […] to read them […] to act on them”. If Arrian hopes to capture an internal dialectic between thought and articulation, then when extended to a new public, this dialectic presses its restless movement between thought and speech towards action. If such a movement in other contexts may risk becoming solipsistic, then “parresia thus appears as being in rupture here where it neglects the forms of rhetoric and writing […] parresia is an action, it is that which acts, which allows discourse to act directly on souls” (170). As parresia abandons the usual forms or topoi of rhetoric, it takes on a different topos of its own. It quite literally carves out the space of enunciation – moving from meletan (meditation, re-animation), graphein (writing), and gymnazein (action) from within an existing regime of truth (169). In this way, parresia demands that the speaker use his freedom not to sway another but to risk a declarative statement of his own – a statement that tests the boundaries of the game’s rules rather than reproducing those rules and his own authority. Present throughout this process are mechanisms of transparency and publicity quite different from those that later come to be associated with the Kantian and Habermasian public spheres. Where Kant argues that publicity ought further the conflict between conflicting interpretations of practical reason in ceaseless search for the more purely intelligible, Habermas will later interpret such conditions as a deliberation oriented towards normative consensus. The restlessness and violence of the former becomes sublimated into public reason. On Foucault’s reading, however, parrêsia becomes something other than the rational disputation over contents of claims. In dispensing with the usual rhetorical forms that encase content, parrêsia intervenes more radically as an action, as something that “allows discourse to act directly on souls” (170). Parrêsia becomes “a sort of coupling, or transparency between discourse and the movement of thought” (170). Differently from some kind of common sense that might also act “over me”, one in which the speaker seeks to persuade that he


86 Nancy Luxon represents the audience, parresia grounds its speakers in their ability to give value to an utterance that bypasses this representative voice altogether. Turning back to the receiver, such listening challenges what might be considered more flat-footedly as a public sphere, and instead seeks to regain the sense of novelty prompted by happening upon Kant’s newspaper article. Foucault’s parresia relies on an audience capable of receiving, working with, working over a set of claims not yet settled into representative form. It seeks to cultivate an audience capable of wielding an interpretive authority that would make this audience into a site of authorization. Effectively, then, these spiritual practices permit Foucault to break with the representational practices that anchor confession as a production of the subject of desire. The practices he traces back to ancient parresia touch on the soul, and the movement between the internal and external conditions of truth-telling, but with a resolute focus on the movement that opens up a new (provisional) space between student and parresiastes. Such spatialization makes the risk that organizes the relationship between student and parresiastes something more than a validation of sincerity or ethical stakes. Both the undoing of the usual manner of subjectification and the self-cultivation of parresia arise from the willingness to risk a mode of existence – an existence that holds in place representations. Although undoing the force of these representations and undertaking a project of self-cultivation are analytically distinct, these two processes are deeply entwined in practice. Both the scope and the stability of any world-making project that is to follow will depend on the strength of the parrhesiastic pact and the space in which it unfolds – especially when the person speaking is one who is imperfect, faltering, and en route towards a changed state. Not only does the space sculpted by parresia contour what is to follow, it also sediments an analytic framework of thought and traces its movement towards worldly presence. It underscores the need for some kind of containing space necessary in order for someone to make their words and deeds consonant. Differently from philosophic critique, and not yet settled into the proxy form of an institutionalized public, parresia as a practice relies heavily on the social trust that binds its practitioners. It requires such trust so that persons can speak frankly and bluntly, all the while trusting that they address an audience ready to receive their words.


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Conclusion: Governance and the “Control of Representations” By the end of The Hermeneutics of the Subject, Foucault returns to the question of representations, and considers the “control of representations” urged by Epictetus.24 Epictetus would have his students be like the nightwatchman or the money-changer, who differently monitor the circulations of persons and things with value. Foucault ends his course summary, written in 1982 and likely before the Grenoble lecture, by advocating the ability to control representations as the limits of that contradiction – that tension between critique and struggle, or right and force – that composes the life of the critical person and reaches its apogee in the evaluation made just before death. That Foucault should invoke the night-watchman, the moneychanger, and elsewhere the scout is suggestive. Each of these figures regulate circulations of different kinds – the ways in which persons, money, and armies move across borders and boundaries – and presides over thresholds that determine what is inside or outside a polis, what is inside or outside a person. These figures trace these movements, modulate them even, but do not coordinate them. The question of what social institutions might intervene in the space opened by parresia returns with urgency. Foucault’s comments some four years earlier in What is Critique? ended on a provocative note. Foucault suggests that one might seek the opposite path from the route that led from critical attitude to the question of critique, from engagement to resolution of the contradictions besetting an imperfect politics. He asks, “would one not now have to try to take the inverse path to the movement that tipped the critical attitude into the question of critique… And if it is necessary to pose the question of knowledge [connaissance] in its relation to domination, it would be first and foremost on the basis of a certain decisive will not to be governed… ”25 Foucault suggests that too readily, the questioning of Aufklärung becomes coopted into the project of critique and preoccupation with the “legitimate destination of knowledge”26. What if, instead, this questioning were to refuse such stabilization and instead renew its questioning of emergent forms of domination? Foucault turns to “eventialization” as a way to gain insight into the forms that over-write the contents of daily M. Foucault, The Hermeneutics of the Subject, p. 503. M. Foucault, What is Critique?, p. 398. 26 Ibidem. 24 25


88 Nancy Luxon practices27. Might we press harder and ask: What different events might such a project compose and make intelligible, from which ensembles of practices and techniques, and which audiences would test it? At the end of The Hermeneutics of the Subject, Foucault more decisively concludes on a note of invigorated practice. He gestures towards the social institutions that support something like parrêsia: the school, the clinic, the family, and friendship28. It is difficult to imagine Foucault uncritically embracing any of these institutions in their modern form; after all, institutional extension was critical to making avowal into a relationship of dependence29. One might differently ask, however, that if these are the social forms that condition our symbolic imaginary, what would it mean to inhabit them critically? At the very least, such habitation suggests attention to the nexus of knowledge, power, and social relationships. It also suggests a more lingering attention to any undoing or letting-go of already-existing investments in these social forms, the identities they stabilize, and the truths they delimit. But should people attempt the kind of speech that evokes the “zero figure of representation”, can and ought they remain within these forms? Which might be abandoned, revised, or radicalized? And more pressingly: how can these discourses remain open to those whose status is not (yet) sanctioned by order? Such questions return to claims to knowledge and legitimation, not with an eye towards certifying knowledge or resolving some legitimation crisis. Instead, it asks how a certain kind of hermeneutics might be adapted for more deliberate political effect or intervention. Much like the concept of ‘rule,’ authority often is associated with its ability to stand for the public claim, and further carries with it an association to legitimacy. Who, though, authors this public claim and by what process does it become authoritative? Although democratic authority is often taken to result from popular activity, whether that activity is ever more than the endorsement of elite authorization remains under-examined. Two dilemmas result. The first is the inability to think about governance on terms other than subordination. As a result, and second, it becomes impossible to think of authority as anything other than the opposite of freedom. Both would seem to leave intact the fantasy of liberation from authority, and so the presumption that the popular experience of authority can never be more than obedience Ibidem, p. 393 ff. M. Foucault, The Hermeneutics of the Subject, p. 497. 29 M. Foucault, Wrong-doing, Truth-telling, p. 18. 27 28


Autority, Interpretation and the Space of the Parrhesiastic Encounter 89

or rote authorization. Cued by this expected domination, these dilemmas urge a fugitivity that is always a movement away from community and its governance. Despite being figured as interruptions, these dilemmas leave intact the political order or frame that binds dependency and freedom into endless contradiction. Pressing beyond a static stance of evaluation or a fantasy of flight, what other spaces and solidarities might differently organize the circulations of value re-oriented and re-activated by parresia? Foucault’s reflections on parresia do not offer an easy answer to these questions posed. In the two years of lectures to follow at the Collège de France, Foucault raises again these questions of the circulations of authority within a public audience and its intervention in any collective process of valuation – circulations in which power and value predominate. Even in this brief lecture, Foucault has raised these questions without ignoring the presence of asymmetry and inequality. To work these ruminations on parresia forward into our own present, we (as Foucault’s own critics and students) would need to show ourselves to be a reading public truly skilled in “the art of listening and the competence of listening”. We would need to press harder on the place for the market and those circulations of capital that would commodify interpretive authority itself, along with a news media only too quick to proliferate representations. If the challenge to self-cultivation is the challenge of undoing earlier subject-formations even as one seeks to form oneself on new terms, then the challenge for politics is to dismantle the architecture of existing political spaces so as to contrive new settlements. But haunting both of these projects is a more searching question of value and valuation. From the 19th century onwards, the ethical canopy of utilitarian instrumentality has proven to be a tensile and adaptable one in western societies. For either of these two projects to have radical effect, they would need to find sustenance in values that sustain their expressive dimension – values often at odds with the foresight and calculability of utility. Otherwise, the risks of parresia will continue to be an attribute of manageable populations rather than the trace of new claims, relationships, and ways of living. Nancy Luxon University of Minnesota, Twin Cities luxon@umn.edu


90 Nancy Luxon

. Authority, Interpretation and the Space of the Parrhesiastic Encounter With the newly available lecture, La Parrêsia, originally given in 1982 at l’Université de Grenoble, Foucault examines the constraints that enable speakers to elaborate and test new political claims. La Parrêsia serves as a hinge between Foucault’s earlier work on the production of truth through confession, and his turn to modes of truth-telling in the ancient world. The speech of contest and law relies on pre-specified rules and procedures – rules that ostensibly protect from the vulnerable from domination, even as the expertise that governs these rules only reproduces political injuries and asymmetries. By contrast, the speech of parresia draws from the irreducible relationship between parresiastes and student and the political context it composes. Differently from Foucault’s other lectures on ancient ethics, I argue La Parrêsia sketches a space of freedom and truthtelling quite different from the pulpit, the clinic, the law court, or the Kantian public sphere. Keywords: Foucault, Parresia, Power, Speech, Authority, Kant, Public.


What is Political Philosophy? Johanna Oksala

I would say that this has always been my problem: the effects of power and the production of “truth”… My problem is the politics of truth. I have spent a lot of time dealing with it1.

The relationship between philosophy and politics is notoriously fraught.

Philosophers have been accused of having for centuries merely attempted to understand the world instead of changing it or they have been ridiculed for their disastrous attempts to interfere with the messy reality of politics from their sheltered and naïve position of theoretical detachment. Plato and Heidegger are often cited as examples of philosophers who became involved in politics to their detriment2. Foucault’s newspaper commentaries on the Iranian Revolution in 1978 are sometimes interpreted in a similar way. Janet Afary and Kevin Anderson3, for example, argue that Foucault endorsed the revolution because he had no understanding of the realities of Iranian politics. They contend that the uprising’s eventual failure forced Foucault to withdraw from any active participation in political commentary or debate and acknowledge that philosophers should remain outsiders to the political realm. Against this background it is imperative to read Foucault’s analysis of Plato’s involvement with the politics of Syracuse, and more generally, Foucault’s examination of the relationship between politics and philosophy, which he did in a lecture series delivered at the Collège de France in 1983 called The Government of Self and Others4. It is my contention that these lectures force us to abandon once and for all the view that Foucault’s late M. Foucault, Power and Sex, in Michel Foucault: Politics, Philosophy, Culture. Interviews and Other Writings 1977-1984, ed. L.D. Kritzman, Routledge, London and New York 1998, p. 118. 2 See e.g. S. Critchley, Infinitely Demanding, Verso, London 2013, p. 94. 3 J. Afary and K.B. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution. Gender and the Seductions of Islamism, The University of Chicago Press, Chicago 2005. 4 M. Foucault, The Government of Self and Others. Lectures at the Collège de France, 19821983, trans. G. Burchell, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 91-112.


92 Johanna Oksala thought was a deliberate turn away from politics. Despite the fact that in these lectures Foucault examines the relationship between philosophy and politics in the context of ancient philosophy, it seems clear that his study should be recognised as another example of his histories of the present: a reflection on the role of the philosopher in the politics of his or her time5. My purpose in this article is to show that in constructing a specific understanding of philosophy as parresia in these lectures, Foucault answers the meta-philosophical question of what philosophy is in a way that links it irreducibly to politics. He offers a provocative reading of Plato in order to challenge our understanding of philosophy as logos in favour of a conception that connects it essentially to the practice of politics: philosophy has been, since its inception, a practice of truth-telling in relation to power. Foucault’s turn to Plato in his attempt to answer the meta-philosophical question about the relationship between political activity and philosophical inquiry in Western thought is both surprising and understandable. It is understandable to the extent that philosophy is a particular historical tradition, and its self-understanding is both implicitly and explicitly formed by a specific canon and its central representatives. No thinker holds a more central place in that canon than Plato. Both the good and the ill of modern philosophy have been, in various ways, ascribed to him: Plato is the founder and the corrupter of metaphysics, he is the greatest political idealist and the first totalitarian, he is the name of a disease, while all of Western philosophy consists only of footnotes to his ideas. However, Foucault’s turn to Plato is also surprising. Whenever Foucault identifies and discusses important shifts and events in Western thought, he typically focuses on unusual thinkers and shuns the celebrated figures in the Western philosophical canon. The turn to Plato to affirm an irreducible link between philosophy and politics is particularly provocative, given that Plato is usually cast as the very figure who accomplishes their irrevocable separation. In their influential readings of the tradition of political thought, Karl Popper, and in a more compelling way, Hannah Arendt have each put forward the opposite view by showing how philosoMichel Hardt suggests that perhaps Foucault needed the safety of ancient Greece to experiment with dangerous ideas such as political militancy in these lectures. Despite the exclusive focus on ancient texts and authors, Hardt reads these lectures essentially as political experimentation in exploring contemporary problems. M. Hardt, Militant Life, in New Left Review, no. 64 (2010), p. 151. 5


What is Political Philosophy? 93

phy became separated from politics in Plato’s thought. The philosopher as an expert or a utopian social engineer is set apart from the realm of democratic politics6. I will therefore begin with a brief discussion of Arendt’s treatment of Plato. In the second and third sections below, I will show how Foucault can be read to challenge Arendt’s position on two levels. First, on a methodological level, Foucault rejects the attempts to ontologize politics, to approach it as an ahistorical and autonomous realm with a definite nature. Instead, both philosophy and politics are treated as particular practices of truth-telling with different, historically shifting rules. Second, on the level of interpreting Plato, Foucault submits his texts to a provocative and novel reading that overturns the view of Plato as a totalitarian thinker. I will conclude by briefly considering the contemporary relevance of Foucault’s discussion of parresia. Plato’s Tyranny of Truth In The Promise of Politics, Arendt situates the origins of Western political thought in the trial and condemnation of Socrates: Our tradition of political thought began when the death of Socrates made Plato despair of polis life and, at the same time, doubt the fundamentals of Socrates’s teaching7.

The Athenians were proud of the fact that they, unlike the barbarians, conducted their political affairs in the form of speech and without compulsion. For them, rhetoric – the art of persuasion – was the highest, the truly political art. The trial of Socrates revealed to Plato, however, that the polis had no use for a philosopher like Socrates. Despite his superior See H. Arendt, Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961 and The Promise of Politics, Schocken, New York 2007; K. Popper, The Open Society and Its Enemies, Princeton University Press, Princeton 2013. Foucault refers explicitly to Popper and writes, that “the somewhat fanciful interpretations of good Karl Popper do, not, of course, take account of the actual details and Plato’s complex game with regard to this problem of lawgiving, of formulating and laying down laws”. M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 254. 7 H. Arendt, The Promise of Politics, pp. 6-7. 6


94 Johanna Oksala philosophical argumentation, Socrates had not been able to persuade his judges of his innocence. The trial thus prompted Plato to design a “tyranny of truth”: absolute truth is compelling to the mind and this coercion is stronger than persuasion and arguments8. Opposing the Socratic idea that there are “as many different logoi as there are men, and that all these logoi together form the human world”, Plato proposes a single logos, accessible only to the philosopher9. Philosophers must become philosopher-kings and their tyranny of truth must necessarily lead to totalitarian forms of politics. The multitude, which is not subject to the compelling power of reason, must be made obedient with myths and tales of a hereafter that bestows rewards and punishments. In her essay What is Authority?10 Arendt also connects the fatal separation of philosophy and politics in Plato’s thought to the introduction of authority into ancient politics. According to Arendt, neither the Greek language nor the varied political experiences of Greek history showed any knowledge of authority or the kind of rule that authority implied11. This was apparent in the difficulties that Plato encountered when he tried to introduce something akin to authority into public life in the Greek polis: he had to rely on examples and metaphors drawn from Greek household and family life. His well-known models for political rule such as a shepherd, a ship’s helmsman and a doctor are all taken from what, for the Greeks, was the private sphere. In all these instances, expert knowledge commands unconditional compliance. Knowing what to do and the actual doing become separate and mutually exclusive functions12. Arendt argues that the allegory of the cave forms the centre of Plato’s political philosophy13. It tells the story of the solitary adventure of a philosopher who breaks the shackles with which he is chained to the screen of illusions, ventures into the light and then returns to the darkness of the cave with expert knowledge of the truth. Arendt notes that Plato does not tell us why the philosopher cannot persuade his fellow citizens of the truth with philosophical arguments after his return, but must instead rule Ibidem, p. 12. Ibidem, p. 19. 10 H. Arendt, Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought. 11 Ibidem, p. 104. 12 Ibidem, pp. 108-109. 13 H. Arendt, The Promise of Politics, p. 29. 8 9


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through propaganda. She suggests that an important clue can be found in Plato’s dialogue Theaetetus, in which he famously describes the origin of philosophy: philosophy begins with wonder14. Wonder is the origin of all philosophical inquiry, but since this ultimate experience is one of speechlessness, the philosopher thereby places him- or herself outside the political realm, in which the highest faculty is precisely speech. Speech essentially makes man a political being, whereas the tragic condition of the philosopher is to be silenced by the light of truth and misunderstood by his fellowmen. Hence, Arendt’s profound answer to the question I pose in my title is: If philosophers, despite their necessary estrangement from the everyday life of human affairs, were to arrive at a true political philosophy, they would have to make the plurality of man, out of which arises the whole realm of human affairs – in its grandeur and misery – the object of their thaumazein15.

For Arendt, true political philosophy cannot be a solitary investigation of logos; it must essentially exist in the shared realm of debate, discussion and contestation. By relegating speech outside philosophy and turning it instead into a silent and solitary pursuit of truth, Plato thus made philosophy incompatible with politics understood as an agonistic practice. Foucault fundamentally contests such a conception by claiming that it cannot be found in Plato’s thought. Philosophy has been, since its inception, a practice of parresia, a practice of fearless and free speech, not a silent contemplation of ideas. Hence, before we can study Foucault’s reading of Plato in more detail, we have to try to understand what this notion of parresia means. The Practice of Parresia Foucault’s lectures entitled The Government of Self and Others are essentially a history or a genealogy of parresia. This word is often translated as freedom of speech, but it is important to note both its proximity to our modern notion of freedom of speech as well as its distance from this 14 15

Ibidem, p. 32. Ibidem, p. 38.


96 Johanna Oksala notion. Foucault explains that while “the morphological definition” of ancient democracy was relatively simple – it was government by the demos, the body of citizens – the characterization of what democracy actually consisted of was much more uncertain in Greek theoretical texts. It was usually characterized by such internal and functional elements as eleutheria (freedom), nomos (law) and isonomia (equality before the law)16. In addition, Foucault emphasizes the importance that the ancient writers gave to two concepts related to free speech: isegoria and parresia17. He notes that Athenian democracy was proud of its practice of isegoria, which referred to the right of any individual who was part of the demos to have the freedom to speak: everyone was able to give their opinion in political discussions and debates. The notion of parresia was closely related to this principle of isegoria, and yet it was distinct from it in important ways. Parresia too was defined by the principle that everyone was free to speak. In other words, it referred to something like a modern political right granted to certain individuals by an instituted, customary organization to participate in political decision-making and debate. In this sense it comes close to the freedom of speech that we associate with modern democracy. It was not, however, just a formally granted right to say anything, but also, significantly, an obligation to tell the truth, an obligation accompanied by the danger which telling the truth involves. Hence, Foucault contends that isegoria “merely defines the constitutional and institutional framework in which parresia will function as the free, and consequently, courageous activity of some who come forward, speak, and try to persuade and direct the others, with all the attendant risks”18. While in modern democracies “freedom of speech” is understood essentially as an egalitarian principle, parresia was in fact a practice that destroyed or at least fundamentally challenged the principle of egalitarianism as a foundation of democracy. Parresia was not an abstract right, it was an actual political practice, which, within the egalitarian framework of democratic politeia giving everyone the right to speak, made possible the distinction and ascendancy of some over others19. It made it possible for M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 150. Foucault discusses in detail Euripides’ play Ion, Thucydides’ description of the parresia of Pericles, texts by Polybius and Plutarchs, as well as several other ancient texts in an attempt to show how parresia was essentially linked to democracy in ancient Greece. 18 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 158. 19 Ibidem, p. 157. 16 17


BWhat is Political Philosophy? 97

some individuals to demonstrate their integrity and courage, their knowledge of the truth and thereby their ability to direct the city and take charge of it. In this sense parresia is quite foreign to our modern understanding of politics. There is no obvious modern translation of the term, which is symptomatic of the fact that it is no longer part of our political practice. Foucault emphasizes the paradoxical relationship between democracy and parresia in ancient Greece: democracy was founded on the principle of equality, yet democracy could continue to exist only through the actual political practice of parresia. Parresia was recognised as indispensable because a functioning democracy essentially required that the speakers were not merely trying to please and flatter their audience, but were capable of engaging in contestation, dissent, free debate and self-conscious revision. This meant that, while parresia was vital for democracy and could only exist in a democracy, it was in effect a political practice that introduced difference, ascendancy and hierarchy, which undermined the egalitarian structure of democracy20. By focusing on parresia and not on isegoria as the key characteristic of ancient democracy, Foucault not only foregrounds an archaic and foreign practice that highlights a difference between ancient and modern democracies, but he also chooses a specific perspective from which to theorize politics. Similar to his analyses of power as a practice or a game, he approaches politics as a game: politics is understood as a practice, “having to obey certain rules, indexed to truth in a particular way, and which involves a particular form of relationship to oneself and to others on the part of those who play this game�21. Foucault explicitly rejects theoretical attempts to ontologize the realm of politics by referring to Claude Lefort’s distinction between politics [le politique] and the political [la politique]22. He claims that such approaches mask the specific problems of the practice of the political game instead of exposing its particular rules and normativity to philosophical scrutiny23. Ibidem, p. 184. Foucault also identifies a second paradox internal to ancient democracy, which is that while there is no democracy without true discourse, democracy cannot guarantee its existence. Democracy always contains the possibility that true discourse is reduced to silence. Ibidem, p. 184. 21 Ibidem, p. 158. 22 See e.g. C. Lefort, Essais sur le politique, Seuil, Paris 1986. 23 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 159. 20


98 Johanna Oksala Foucault’s approach parallels the claims by most historians that antiquity produced no democratic theory: democracy arose and was maintained primarily as a practice and not as a result of a systematic theory24. Theoretically, Foucault’s approach also allows him to relate the game of politics to the game of philosophy. In contrast to Arendt’s approach, which distinguishes between politics and philosophy as being concerned with the ontologically distinct realms of thought and action, Foucault views both philosophy and politics as games. Moreover, they are not just two different language games, they are two different games of power, both of which are indexed to truth-telling and involve certain relationships to oneself and to the other players. After discussing the political meaning of parresia and its inherent paradoxes in ancient democracies, Foucault identifies an important shift: as we move from the texts by Euripides and Thucydides from the end of the fifth century BCE to Athens in the first half of the fourth century, important modifications of the practice of parresia occur. Foucault claims that parresia shifts from being a purely political practice to being essentially a philosophical one. Philosophy becomes one of the privileged sites of parresia – at least as important as that of politics and in a perpetual relationship of challenge with political parresia. In effect, political parresia had been the practice of speaking one’s mind before the people’s Assembly in the codified forms of rhetoric. It was a means of imposing one’s authority and understanding of truth on others with a courageous act of speech. The ability of heroic figures like Pericles to speak the truth in public regardless of the consequences was understood by his contemporaries as its ideal form, and as such, it constituted the celebrated core of Athenian democracy. Foucault claims, however, that now another figure of the parresiast appears. The philosopher as a parresiast is a figure who speaks out, not in order to lead others, but in order to tell them to take care of themselves. The figure of Socrates, unlike Pericles, refuses to address the people in the Assembly in the solemn, ritual forms of rhetoric. He speaks the everyday language of everyone in the streets of Athens. By questioning the people casually, he shows that, as they know nothing, they should take care of themselves. He also takes upon himself the danger that such an activity entails. Socratic parresia is thus negative and personal in the sense that it involves renouncing any 24

R. Balot, Greek Political Thought, Blackwell Publishing, Oxford 2006, p. 50.


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political ascendancy and political power over others25. This does not mean, however, that it is apolitical. Foucault distinguishes three key aspects that characterized ancient philosophy as parresia. First, ancient philosophy was essentially a way of life. It was a practice of truth-telling, but not in the narrow sense of stating true propositions about the world. The philosophical life was itself a manifestation of truth, a testimony: Through the type of life one leads, the set of choices one makes, the things that one renounces and those one accepts, how one dresses, and how one speaks, etcetera, the philosophical life should be from start to finish the manifestation of this truth26.

Second, throughout its history in ancient culture philosophy was also parresia in the sense that it was a perpetual interpellation addressed, collectively or individually, to other people in order to make them transform their lives, in order to “conduct them in their conduct”27. It was addressed to disciples as “the guidance and conduction of souls” and took the form of spiritual direction28. Third, ancient philosophy was also essentially parresia because it never ceased to address those who govern29. The ancient M. Foucault, The Government of Self and Others, pp. 350-351. Ibidem, pp. 343-344. In his last lectures, The Courage of Truth, Foucault discusses the Cynics at length and shows how for them the connection between philosophy, life and truth was particularly pronounced. M. Foucault, The Courage of Truth. The Government of Self and Others II. Lectures at the Collège de France, 1983-1984, trans. G. Burchell, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011. 27 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 346. 28 Ibidem, p. 352. 29 Foucault argues that the three dimensions crucial to the ancient conception of philosophy should still define what we are doing today. Modern philosophy, like ancient philosophy, should essentially be understood as askesis ­– critique – and as having a restrictive exteriority to politics. Ibidem, p. 354. Foucault’s lectures begin with a commentary on Kant’s newspaper article on the meaning of the Enlightenment. Foucault presents his commentary as an epigraph to the lectures. The relevance of Kant’s text only becomes fully apparent in the last lecture, to which Foucault returns, concluding the series by suggesting that the history of modern philosophy should also be read as a game of truthtelling, a specific form of parresia. Foucault argues that in the text on the Enlightenment, Kant addresses precisely those problems which were problems of parresia in antiquity: Kant turns to reflect critically on his own political reality, he addresses those in power, and he underscores the courage to use one’s own reason. Ibidem, p. 350. See also I. Kant, 25

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100 Johanna Oksala game of philosophy was directly intertwined with the game of politics. It is this third aspect of philosophical parresia that I will focus on now through Foucault’s reading of Plato. Foucault Reads Plato Foucault focuses on key passages in the Platonic oeuvre where parresia is discussed in the politico-philosophical sense to which he wants to draw our attention: they occur in the Republic, Gorgias, the Laws and Plato’s Letters. I will focus here on the discussion of Plato’s Seventh Letter, as it is through a provocative reading of this document that Foucault puts forward his view of the irrevocable connection between philosophy and politics. I will not attempt to make any claims here concerning the correctness of Foucault’s reading. Rather, I want to argue that Foucault is giving us his alternative reading of Plato with a distinct and contemporary problem in mind: his aim is not to correct our understanding of Plato, but to offer a conception of philosophy that is irreducibly linked to the practice of politics. Foucault observes that Plato’s letters are “surprising if we compare them to other texts by Plato, or at any rate to an image and interpretation which is usually given of Plato and late Platonism”30. He argues that the relationship between philosophy and politics is presented in these letters in terms that fundamentally challenge the conception derived from the Laws and the Republic. While there is strong doubt about whether Plato’s letters were actually written by Plato himself, Foucault immediately contends that this question is irrelevant for what he is attempting to establish. Whether or not they were actually written by Plato, the letters nevertheless attest, if not to the real role of philosophers of the Platonic school in Greek political life, at least to the way in which these philosophers conceived their role. Foucault reminds us that the political context of these Platonic or post-Platonic interventions was a decline of the Greek city-states and An Answer to the Question: What is Enlightenment?, in Political Writings, ed. H. Reiss, trans. H.B. Nisbet, Cambridge University Press, Cambridge 1991 and M. Foucault, What is Enlightenment?, in Michel Foucault: Ethics, Subjectivity and Truth, The New Press, New York 1997, pp. 303-320. 30 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 225.


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democracies and the formation of the Hellenistic monarchies. Although municipal democracy probably still functioned to some extent, the main political problems were shifted from the agora to the sovereign’s court. The role of philosophy in the court thus became the acute problem31. We know from Plato’s letters that he made three trips to Sicily, two of them in order to serve as a political councillor and teacher of Dionysius II, the tyrant of Syracuse. On his first trip Plato visited the court of Dionysius I and formed a close friendship with his young brother-in-law, Dion, who came to share Plato’s ideals of government. With the accession to power of Dionysius II, Dion saw an opportunity to persuade his friend to abandon tyranny for the rule of law. Plato returned to Syracuse to participate in an attempt to instruct Dionysius and reform the politics of Syracuse. However, the mission failed completely. Dionysius became convinced that Dion was scheming against him and banished Dion to Greece. Plato returned to Athens, but at the urging of Dionysius came back some years later for a third visit. This time his political ambitions were more modest, and he hoped that he would at least be able to help Dion return to Syracuse. This attempt also failed, and Plato himself had to leave Syracuse, fearing for his life. Dion eventually took over the rule of Syracuse from Dionysius, but was soon killed in the factional fighting that ensued. Plato wrote the Seventh Letter after Dion’s death, addressing it to the friends and followers of the deceased. In it, Plato, or someone close to him, attempts to advise the friends on the best course of action in the political turmoil that had engulfed Syracuse in the wake of Dion’s assassination. Plato also gives a detailed account of the three trips he had made. For the most part, however, the letter appears to be an attempt to justify the philosopher’s decision to advise a tyrant. Plato goes to great lengths to explain his motives for living “under a tyranny seemingly unsuited both to my doctrines and to me”32. In Plato’s lengthy explanation for this decision, Foucault puts great emphasis on one sentence. Above all I was ashamed lest I appear to myself as a pure theorist, unwilling to touch any practical task33. Ibidem, p. 210. Plato, Letter VII, 329 b. 33 Ibidem, 328 d. 31 32


102 Johanna Oksala In other words, Plato felt that he had to accept Dionysius’ invitation, despite the fact that to do so connected him with a tyrant, because philosophy could not be merely logos – theory or discourse – with regard to politics. Plato had to show that as a philosopher he was also capable of taking part in ergon, that is, action or practical tasks. For philosophy to be more than just empty words, it has to constitute a form of action. The philosopher has to tackle not only the abstract problems of theory, and not only the problem of caring for the self, but also the problems of city and politics. And Foucault argues that the way to deal with these problems was through parresia: It is by taking part directly, through parresia, in the formation, maintenance, and exercise of an art of government that the philosopher will be not merely logos in the political realm, but logos and ergon, in accordance with the ideal of Greek rationality34.

In other words, Plato’s visits to Dionysius’ court do not bear out the claim that a philosopher’s involvement in politics will have only disastrous consequences. Instead, these visits crucially reveal that philosophy “addresses itself, can address itself and has the courage to address itself to whoever it is that exercises power”35. Foucault emphasized that, significantly in this letter, Plato formulates the problem of philosophical ergon in relation to politics, a question that Foucault identifies as “the question of philosophy’s reality”36 and claims that it is both familiar and not well known. Foucault deliberately plays with the ambiguities in the meaning of the word “reality”. He explains that asking the question of philosophy’s reality does not mean the same thing as asking what reality is for philosophy: what the reality is to which philosophy is related or to which philosophy must be compared in order to determine whether what it says is true or untrue. Rather, asking the question of philosophy’s reality means posing the question of “what this completely particular and singular act of veridiction called philosophy is”37. In other words, for philosophy to find or demonstrate its reality means something M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 219. Ibidem, p. 228. 36 Ibidem, p. 227. 37 Ibidem, p. 228.

34

35


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like this: in order for philosophy really to be philosophy and not something else – for example, poetry or rhetoric – it has to fulfill certain criteria, one of which is that it has to speak truth to power. Foucault makes this the definitive criterion, not just of ancient philosophy, but also, crucially, of modern philosophy. [T]his short passage from Letter VII, in which the philosopher does not want to be just logos but also to intervene in and affect reality, seems to me to mark one of the fundamental features of what is and will be philosophical practice in the West. It is true that for a long time some have thought, and some still think today, that philosophy’s reality is sustained by the fact that it can tell the truth, and that it can tell the truth about science in particular. For a long time it was thought, and it is still thought, that basically the reality of philosophy is being able to tell the truth about truth, the truth of truth. But it seems to me that […] there is a completely different way of marking or defining what philosophy’s reality may be […]. This reality is marked by the fact that philosophy is the activity, which consists in speaking the truth, in practicing veridiction in relation to power. And it seems to me that this has definitely been one of the permanent principles of its reality for at least two and a half millennia38.

Demonstrating its reality by speaking truth to power means that philosophy thereby also becomes capable of affecting reality. In other words, the reality of philosophy consists of its ability to constitute reality. Philosophical discourse will get from political reality the guarantee that it is not just logos, not just words given in a dream, but that it really has to do with the ergon, with what constitutes reality39.

After suggesting that philosophy was essentially understood as ergon in ancient Greece, Foucault introduces another controversial idea about the philosopher’s role in relation to politics that he finds in Plato’s letter. He contends that the Seventh Letter fundamentally questions the idea that the philosopher is able to propose laws. This is obviously a provocative argument, given the centrality of texts like the Republic and the Laws in Plato’s oeuvre, which seem to be devoted precisely to the question of proposing laws and designing a blueprint for the ideal city. 38 39

Ibidem, pp. 229-230. Ibidem, p. 279.


104 Johanna Oksala Foucault focuses on four sections in the Seventh Letter as evidence for his controversial claim. The first occurs in the paragraphs in which Plato compares the activity of a philosopher who counsels the governors on the actions of a good doctor40. While for Arendt this comparison demonstrated the idea of a philosopher as an expert and a tyrant of truth, Foucault emphasizes a different meaning. A good doctor must undertake the work of observation and diagnosis in order to identify the nature of an illness. He or she must also prescribe a cure and give advice on how to lead a healthy life. However, in ancient Greece there was an important difference between doctors who treated free men and doctors who treated slaves. Plato argues that a good doctor cannot be like the doctor of slaves, who is content simply to hand out prescriptions and instructions telling the patient what to do. A good doctor must be able persuade the patient with rational and superior knowledge: he must make the patient see the truth about his or her condition. The patient must understand that he or she is suffering from a disease and that doing certain things is necessary in order to be cured. Similarly, the councillor, the parresiast, is not someone who speaks the truth in the sense of laying down fundamental laws, but rather is someone who must address himself to the political will that gives life to the politieia41. The second key paragraph on which Foucault draws is the one in which Plato presents his argument against writing and explains why no one with any real philosophical knowledge would write a philosophical treatise. Dionysius had made the mistake of writing such a text and thereby revealed his profound ignorance of philosophy. True knowledge of things cannot be derived from their names or definitions, but can only be achieved by understanding their essence. Foucault’s claim rests on the passage in which Plato concludes his argument with the observation: What I have said comes, in short, to this: whenever we see a book, whether the laws of a legislator or a composition on any other subject, we can be sure that if the author is really serious, this book does not contain his best thought; they are stored away with the fairest of his possessions42.

233.

40

Plato, Letter VII, 331 b-d; M. Foucault, The Government of Self and Others, pp. 231-

41

M. Foucault, The Government of Self and Others, pp. 243-235. Plato, Letter VII, 344 c.

42


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Foucault interprets this as a claim that philosophy cannot be practised and learnt in the form of mathemata – through instruments with which ready-made knowledge is conveyed to someone who has to know it43. This implies that the philosopher’s role can never be that of lawgiver; it can never be to present a system of laws to which citizens must submit in order for a city to be governed. By denying the seriousness of writing, the letter thus challenges the activity of proposing ready-made laws for a city. Foucault acknowledges that this seems to deny the legitimacy of texts like the Republic and especially the Laws, which is precisely devoted to writing on laws from the lawgiver’s point of view. He therefore proposes a radically different interpretation of these texts: […] just as Plato says that mythos (myth) should not be taken literally and, in a way, is not serious… could we not say the same thing about those well known texts of the Laws and the Republic which are often interpreted as the ideal form Plato gives to the city […]? Should not the activity of the lawgiver in Plato’s thought, the legislative and constitutional schema put forward in the Republic and the Laws, basically be handled as cautiously as a myth? […] So what philosophy has to say will certainly be said through this nomothetic game, as it is through the mythic game, but in order to say something else44.

Foucault argues that if we give the rejection of writing in the Seventh Letter the meaning he is proposing, then anyone who finds something like the foundation of totalitarian political thought in texts such as the Republic or the Laws is simply wrong. In this later text Plato challenges or removes “the ground on which he undoubtedly set the Republic, the Laws and that nomothetical activity which now appears as a non-serious activity”45. As a result, the relationship of philosophy to politics, the test of philosophy’s reality with regard to politics, will not take the form of an imperative discourse in which men and the city will be given constraining forms […]. The seriousness of philosophy does not consist in giving men laws and telling them what the ideal city is in which they must live, but in constantly reminding them […] that the reality of philosophy is to be found in its practices […]46. M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 248. Ibidem, p. 253. 45 Ibidem, p. 254. 46 Ibidem, pp. 254-255. 43 44


106 Johanna Oksala The third passage that Foucault selects from the Seventh Letter concerns the specific political advice that Plato gave Dion’s followers. Foucault again emphasizes that philosophy should not be understood as a discourse prescribing political action. Plato admittedly outlines some measures to be taken, which do in fact concern the institution and organization of the city. He says that Dion’s followers should try to find “wise men” and these wise men should be asked to propose the laws. Foucault emphasizes, however, that Plato does not represent himself as a lawgiver. He restricts himself to advising the people that they ought to be governed by laws and that they should entrust the task of lawgiving to the wise men47. The fourth paragraph Foucault selects for close scrutiny is the one in which Plato repeats his well-known idea of philosopher kings48. Again Foucault insists that the meaning of this idea is different from what we are accustomed to thinking. He admits that at first glance it appears that the paragraph implies the exact coinciding of philosophy and political rule. Philosophers must become kings or kings must become philosophers, and this means that the philosopher part of the sovereign must tell the person what to do as the sovereign and the sovereign part will do no more than carry out the philosophical knowledge so instructed. Foucault claims that a subtle, but important difference emerges, however, when we look at the text more carefully. What is at issue is not at all a perfect fit between philosophical knowledge and political practice. The parallel involved here is rather a correspondence between those who practise philosophy and those who exercise power: those who govern should also be those who philosophise, who practise philosophy49. This does not mean that a person’s knowledge of philosophy will thereby be the law of his political actions and decisions. If kings must be philosophers, it is not so that they can ask of their philosophical knowledge what to do in a given set of circumstances. There is no equivalence or identity of content, no isomorphism of rationalities between philosophical and political knowledge, but rather an identity of the philosophising subject with the governing subject. Foucault anticipates an obvious objection: Ibidem, p. 271. Plato, Letter VII, 326 b. 49 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 294. 47 48


What is Political Philosophy? 107 But you will say: What is the difference, and what does this identity between the subject of political power and the subject of philosophical practice mean? Why demand of someone who exercises power that he also practice philosophy if philosophy cannot tell the person who exercises power what he should do50?

Foucault replies that, for Plato, the answer is obvious because philosophy is a practice of the self, not a form of knowledge that can be applied to politics. Before all else, essentially and fundamentally, this practice of philosophy is a way for the individual to constitute himself as a subject of a certain mode of being51.

The mode of being of the philosophising subject should constitute the mode of being of the subject exercising power. Hence, it is not a question of the coinciding of philosophical knowledge and political rationality, but one of identity between the mode of being of the philosophising subject and the subject practising politics. In sum, the relationship between philosophical parresia and politics that Foucault finds in Plato’s Seventh Letter is one of exteriority, of both distance and necessary correlation. Philosophy and politics must never coincide. Philosophy has to tell the truth in relation to politics, but it should not attempt to tell politicians what they must do. Its objective cannot be to tell “how to govern, what decisions to take, what laws to adopt, or what institutions to develop”52. At the same time, philosophy and politics must exist in an irreducible correlation because philosophy cannot be just logos, but also and fundamentally must be ergon: it must be able to affect reality. Through his original reading of Plato Foucault thus profoundly challenges the understanding of philosophy that we think we have inherited from this ancient figure. Plato’s account of his trips to Syracuse demonstrates that he was not naïve with regard to politics. Foucault accepts that Plato’s actual political advice might seem banal today, but in reading it we should keep in mind that the role, the function and the objective Ibidem, p. 294. Ibidem. 52 Ibidem, p. 288. 50 51


108 Johanna Oksala of the philosopher is not to tell us what should be done in the realm of political decision-making. Philosophy is not a discourse that prescribes political action, and its reality is not to be sought in its ability to tell the truth about the best ways to exercise power. It is for politics itself to know and to define this truth. Plato’s letter shows that philosophy must be a form of truth-telling, which exists in specific relation to political action as defined by the irreducible dependence and impossible coinciding of one vis-à-vis the other. Foucault turns Arendt’s argument on its head: philosophers’ concern with truth essentially takes the form of fearless speech, not of solitary and silent contemplation. He challenges two complementary images of a philosopher that Arendt draws from Plato’s writings: a philosopher detached from the shared world of politics who contemplates a transcendent reality in silent wonder and a philosopher who then enters politics as an expert on government and a tyrant of truth. In other words, he challenges the idea that Plato’s political thought effects a radical separation between philosophy and politics, thought and action, and suggests instead that Plato bridges such an opposition through his understanding of philosophy as a practice of truth-telling, parresia. Conclusion: Political Philosophy Today Foucault acknowledges that modern Western philosophy as an object of academic study seems to have very little in common with the ancient understanding of philosophy as parresia. He briefly contends that the parrhesiastic function was gradually divested of philosophy when different forms of Christian teaching took it over. The new relations to scripture and revelation, the new structures of authority within the church and the new definition of asceticism, which was no longer described on the basis of self-control, profoundly changed the game of truth-telling in Western societies53. The genealogy that Foucault traces thus moves first from politics to philosophy and then from philosophy to Christian pastoral practices. In Christian confessional practices, truth-telling takes the form of an obligation to tell the truth about oneself in order to be cured or saved. 53

Ibidem, p. 348.


What is Political Philosophy? 109

For many centuries, it was therefore no longer philosophy that provided the privileged site of parresia. For Foucault, the point of meticulously tracing the genealogy of parresia is nevertheless to be able to pose the question of whether it would be possible to conceive of contemporary philosophy as a form of parresia. Could we not read modern philosophy, in at least some of its most fundamental aspects and significations, as a parrhesiastic enterprise? Is it not as parrēsia, much more than as doctrine about the world, politics, Nature, etcetera, that European philosophy is actually inserted in reality and history, or rather in the reality that is our history? Is it not as parrēsia to be continually taken up again that philosophy continually recommences? And to that extent is not philosophy a phenomenon which is unique and specific to Western societies54?

Foucault thus suggests that it is in parresia as a practice of truth-telling and fearless speech that the specificity of Western philosophy manifests itself. In other words, I understand him ultimately to be arguing in these lectures that we must reallocate the main functions of parresia to contemporary philosophy. We should practise philosophy today as a revival of parresia. But what exactly does this mean in relation to politics? What form should philosophical parresia as truth-telling and fearless contestation of power take today? Does it simply mean that philosophers in their isolated university fortresses remain the last guardians of truth in our Machiavellian political era, which is run by global media corporations that orchestrate spectacles of misinformation and propaganda? Or is Foucault doing no more than encouraging us to become whistle-blowers, to engage in projects that aspire to increase transparency in politics – such as Wikileaks, critical internet blogs or videos of police brutality posted on YouTube. Given Foucault’s well-known and insistent contention, developed consistently throughout his work, that truth cannot set us free, this would seem to be not only a banal, but also a contradictory message to take from these lectures. Foucault’s effective politicization of dominant forms of knowledge was never an attempt to demonstrate that the scientific theories of sexol54

Ibidem, p. 349.


110 Johanna Oksala ogy or psychiatric criminology, for example, were false. He was not trying to reveal the “real truth” about sex or criminality that these discourses were repressing, censoring or hiding. Instead, his key concern has always been to study their political effects: What are the political and social effects of believing that these theories are true? What other truths are they contending with, and why did these particular truths emerge as dominant and scientifically valid? What kinds of disciplinary practices do they enable and what kinds of power relations are they upholding? I want to suggest that the political task that Foucault assigns to philosophers through his emphasis on parresia should be understood as a bid to engage in “the politics of truth”. Foucault’s re-reading of Plato is not just an attempt to reveal an alternative genealogy of contemporary philosophy that links it irreducibly to political practice. It is also an attempt to reinforce this link in a particular way. He contests the idea that Plato’s key contribution to Western political thought was the claim that politics necessarily remains philosophically ungrounded unless it turns to philosophy in an attempt to endow itself with a true foundation. Rather, reading Plato in the way Foucault advocates reveals nothing more than that politics is always fundamentally ungrounded. That is why the philosophical response to any attempt to find it a true foundation must be met with the politics of truth, the politicization of all such founding truths. Through his discussion of ancient parresia, Foucault demonstrates how the game of politics is essentially a struggle for power that is always indexed to truth in a specific way. Political decision-making as well as political debates, struggles and practices of resistance are crucially steered and even dictated by truths, that is, forms of knowledge that are considered to be true. Today such truths are increasingly economic truths, as well as biomedical and statistical truths about populations. Philosophers, as players in the politics of truth, can provide ways to politicize these truths. As Foucault showed, truths too have a history, as well as having social and political conditions of possibility. The politicization of truth is a significant means of affecting political reality. If truths dictate political decision-making, they thereby also exclude, out of hand, political alternatives. The ability to politicize truths is often an effective means of blocking this process of exclusion and opening up a broader range of options for political imagination and actual


What is Political Philosophy? 111

consideration. Foucault’s work provides good examples of this: instead of providing political blueprints for action, his problematization of the truths underlying modern sexual politics, for example, has succeeded in bringing about fruitful destabilizations and new ways of conceiving resistance in the form of queer politics. In other words, by taking part in the politics of truth, philosophers do not shape political reality by having some privileged access to the “real truths”, which they would then either implement politically or convey to the political actors. They affect political reality by questioning, contesting, historicizing and politicizing the truths that currently drive politics. Foucault’s lectures provide us with a thought-provoking answer to the question I pose in my title: What is political philosophy? The short answer is obvious: all philosophy. If we take seriously Foucault’s idea of the politics of truth, then all philosophy is already political philosophy in the sense that we are always caught up in a game of truth structured by power relations. I want to insist, however, that the answer that emerges from these lectures in fact says something more. The argument that Foucault advances is not merely descriptive: it is not just a diagnostic claim about the irreducible relationship between power and knowledge. It is prescriptive. It is intended as a call for philosophers to engage in critical self-reflection, to ask themselves what it is they do when they engage in this practice we call philosophy. And Foucault’s distinctive, perhaps idiosyncratic, response is that for something to be philosophy and not rhetoric, poetry or history, for example, it must be able to demonstrate its reality by taking part in the politics of truth. It is a practice that critically questions the truths that circulate in the present political reality, particularly the truths that justify relations of domination and that underlie practices of governing. Philosophy is not political philosophy because of its content – because it deals with issues such as the state, justice or power; it is political philosophy only when it attempts to affect political reality.

Johanna Oksala University of Helsinki oksala@mappi.helsinki.fi


112 Johanna Oksala

. What is Political Philosophy? The article discusses Foucault’s examination of the relationship between politics and philosophy in the lecture series The Government of Self and Others. It shows that in constructing a specific understanding of philosophy as parresia in these lectures, Foucault answers the meta-philosophical question of what philosophy is in a way that links it irreducibly to politics. He offers a provocative reading of Plato in order to challenge our understanding of philosophy as logos in favour of a conception that connects it essentially to the practice of politics: philosophy has been, since its inception, a practice of truth-telling in relation to power. Keywords: Foucault, Plato, Arendt, Parresia, Truth-telling, Political Philosophy, Politics of Truth.


Enunciazione e politica

Una lettura parallela della democrazia: Foucault e Rancière Maurizio Lazzarato

Il discorso rivoluzionario, quando assume la forma di una critica della società esistente, svolge il ruolo del discorso parresiastico1.

Jacques Rancière afferma che la soggettivazione politica «non ha mai in-

teressato Foucault, o in ogni caso mai a livello teorico»2. Giudizio troppo rapido e disinvolto, poiché la soggettivazione costituisce addirittura il compimento dell’opera di Foucault. In realtà, ci stiamo confrontando con due concezioni radicalmente eterogenee della soggettivazione politica. Contrariamente a Rancière, secondo cui l’etica neutralizza la politica, la soggettivazione politica foucaultiana è indissociabile dall’etopoiesi (la formazione dell’ethos, la formazione del soggetto). La necessità di coniugare la trasformazione del mondo (delle istituzioni e delle leggi) e la trasformazione di sé, degli altri e dell’esistenza, costituisce per Foucault il problema stesso della politica, per come essa si configura a partire dal Sessantotto. Questi due concetti di soggettivazione sono l’espressione di due progetti politici e di due modalità visibilmente eterogenee di prendere posizione rispetto all’attualità, che possiamo facilmente ritrovare nella divergente lettura delle istituzioni e del funzionamento della democrazia della Grecia antica che questi autori propongono. Questi due approcci comportano notevoli differenze riguardo alla concezione della politica, ma anche rispetto a quella del linguaggio e dell’enunciazione. Secondo Rancière, la democrazia greca ha definitivamente dimostrato che la politica pone l’uguaglianza come suo principio esclusivo, e che nel linguaggio si trova quel minimo di uguaglianza necessaria alla M. Foucault, Le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1983-1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, p. 29; trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1983-1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 42. 2 Si veda l’intervista di Jacques Rancière, nel primo numero della rivista Multitudes: Biopolitique ou politique? Entretien avec Jacques Rancière par Eric Alliez, in «Multitudes», n. 1, marzo 2000. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 113-134.


114 Maurizio Lazzarato comprensione degli esseri parlanti che permette di verificare il principio dell’uguaglianza politica. La parola, che sia dell’ordine del comando o del problema, presuppone l’intesa nel linguaggio. L’azione politica deve potenziare e rendere effettiva questa potenza dell’uguaglianza che è contenuta, anche là dove lo è in minima parte, nel linguaggio. Nella lettura foucaultiana di questa stessa democrazia, l’uguaglianza costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, della politica. L’enunciazione (il dir-vero, la parrhesia) determina paradossali rapporti all’interno della democrazia, poiché il dir-vero introduce la differenza (dell’enunciazione) nell’uguaglianza della lingua, che implica necessariamente una «differenziazione etica». L’azione politica si fa nel quadro dei «rapporti paradossali» che l’uguaglianza intrattiene con la differenza, il cui esito è la produzione di nuove forme di soggettivazione e di singolarità. Il «dir-vero» (la parrhesia) La democrazia è trattata da Foucault attraverso il dir-vero (la «parrhesia»), ovvero attraverso la presa di parola di colui che si alza durante l’assemblea e corre il rischio di enunciare la verità sugli affari della polis. Foucault riprende forse, come analista della democrazia, una tematica classica per uno dei suoi maestri, Nietzsche, quella del valore della verità, della volontà di verità, o ancora quella di «colui» che vuole il vero? Il rapporto tra verità e soggetto non è più posto negli stessi termini dei suoi studi sul potere: attraverso quali pratiche, quali tipi di discorsi, il potere ha provato a dire la verità del soggetto folle, delinquente e incarcerato? In che modo il potere ha costituito in oggetto di sapere il «soggetto che parla, lavora e vive»? A partire dalla fine degli anni Settanta, il punto di vista di Foucault si è spostato ed è stato riformulato in questi termini: quale discorso di verità il soggetto è «suscettibile di dire su se stesso»? L’interrogativo che attraversa la lettura della democrazia greca è orientato da una questione tipicamente nietzschiana che riguarda, in realtà, la nostra attualità: che cos’è «dir-vero» dopo la morte di Dio? Contrariamente a Dostoevskij, il problema non è «tutto è permesso», ma come vivere «se non è vero niente?» Se la cura della verità consiste nella sua permanente problematizzazione, quale «vita», quali poteri, quali saperi e quali pratiche discorsive possono sostenere questa cura?


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La risposta capitalista a tale questione è la costituzione di un «mercato di vite», in cui ciascuno può acquistare l’esistenza che più gli conviene. Non sono più le scuole filosofiche, come nella Grecia Antica, né la religione cristiana, né il progetto rivoluzionario, come nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, a proporre modi di esistenza, modelli di soggettivazione, ma le imprese, i media, l’industria culturale, le istituzioni del Welfare State e dei sussidi di disoccupazione. Nel capitalismo contemporaneo, il governo delle disuguaglianze è strettamente accoppiato alla produzione e al governo dei modi di soggettivazione. La «police» contemporanea opera allo stesso tempo attraverso la divisione e la distribuzione dei ruoli e attraverso la ripartizione delle funzioni e l’ingiunzione a modi di vita: ogni reddito, ogni sussidio, ogni salario rinvia a un «ethos», a una maniera di fare e di dire, prescrive e implica condotte. Il neoliberalismo è al contempo il ristabilimento di una gerarchia fondata sul denaro, sul merito, sull’eredità e su una vera e propria «fiera delle vite» in cui le imprese e lo Stato, sostituendo il maestro o il confessore, prescrivono come condursi (come mangiare, come abitare, come vestirsi, come amare, come parlare e così via). Il capitalismo contemporaneo, le sue imprese, le sue istituzioni, prescrivono una cura di sé e un lavoro su di sé allo stesso tempo fisico e psichico, un «viver bene», un’estetica dell’esistenza che sembra tracciare le nuove frontiere dell’assoggettamento capitalista e della valorizzazione, segnando un impoverimento senza precedenti della soggettività. Per problematizzare tali questioni, gli ultimi corsi di Foucault costituiscono uno strumento insostituibile. Il dispiegarsi dell’analisi richiede innanzitutto di non isolare l’atto politico in quanto tale, come fa Rancière, perché, secondo Foucault, si rischia di perdere la specificità del potere capitalista che concatena politica ed etica, divisione ineguale della società, produzione di modelli di esistenza o di pratiche discorsive. Foucault ci invita a tenere assieme l’analisi delle forme di soggettivazione e l’analisi delle pratiche discorsive e delle «tecniche e delle procedure attraverso le quali viene governata la condotta degli uomini»3. Per dirla in modo sintetico: soggetto, potere e sapere devono essere pensati al contempo nella loro irriducibilità e nella loro relazione necessaria. La parrhesia, spostandosi dal modo di soggettivazione politica verso la sfera dell’etica personale e della costituzione del soggetto morale, ci offre 3

M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 10; trad. it. cit., p. 20.


116 Maurizio Lazzarato la possibilità di pensare le «complesse relazioni fra tre elementi distinti, che non si riducono gli uni con gli altri […], ma i cui rapporti sono reciprocamente costitutivi»4. Parrhesia, politeia, isegoria, dynasteia Nei suoi ultimi due Corsi, Foucault dimostra che tra la parrhesia (il dir-vero), la politeia (la costituzione che garantisce l’uguaglianza di tutti gli uomini che possiedono la cittadinanza) e l’isegoria (il diritto statutario per chiunque di parlare, che non dipende da alcuno status sociale, da alcun privilegio dovuto alla nascita, alla ricchezza o al sapere), si stabiliscono rapporti paradossali. Affinché la parrhesia esista, affinché il dir-vero possa aver luogo, bisogna allo stesso tempo che la politeia (costituzione) e l’isegoria affermino che chiunque può prendere pubblicamente la parola e dire la propria opinione sugli affari della polis. Ma né la politeia né l’isegoria dicono ancora chi realmente parlerà, chi effettivamente enuncerà una pretesa di verità. Chiunque ha il diritto di prendere la parola, ma non è la distribuzione egalitaria del diritto di parola che fa effettivamente parlare. L’esercizio effettivo della parrhesia non dipende né dalla cittadinanza, né da uno status giuridico o sociale. La politeia e l’isegoria, e l’uguaglianza che esse affermano, costituiscono solamente delle condizioni necessarie, ma non sufficienti per la presa di parola pubblica. Quello che effettivamente fa parlare è la dynasteia: la potenza, la forza, l’esercizio e la reale effettuazione del potere di parlare, che mobilitano i rapporti singolari dell’enunciatore con se stesso e dell’enunciatore con coloro ai quali si rivolge. La dynasteia che si esprime nell’enunciazione è una forza di differenziazione etica, perché si tratta di una presa di posizione rispetto a sé, rispetto agli altri e rispetto al mondo. Prendendo partito, dividendo gli uguali e portando la polemica, come pure il litigio, entro la comunità, la parrhesia è un’azione rischiosa e indeterminata. Introduce nello spazio pubblico il conflitto, l’agonismo, la contesa che può spingersi fino all’ostilità, all’odio e alla guerra. Il dir-vero, pretesa di verità enunciata in un’assemblea (e si può pensare alle assemblee dei movimenti sociali e politici contemporanei, poiché la democrazia greca, a differenza della democrazia moderna, non è rappre4

Ibidem.


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sentativa), presuppone una forza, una potenza, un’azione su di sé (avere il coraggio di prendere il rischio di dire il vero) e un’azione sugli altri, per persuaderli, guidarli, per dirigere le loro condotte. È in questo senso che Foucault parla di differenziazione etica, di un processo di singolarizzazione innescato e inaugurato dall’enunciazione parresiastica. La parrhesia implica che i soggetti politici si costituiscano essi stessi come soggetti etici capaci di rischiare, di lanciare una sfida, di dividere gli uguali tramite le loro prese di posizione, ovvero come soggetti in grado di governare se stessi e di governare gli altri in una situazione di conflitto. In questo atto di enunciazione politica, nella pubblica presa di parola, si manifesta una potenza di auto-posizionamento, di auto-affezione, in quanto la soggettività si auto-affeziona da sola, come dice Deleuze proprio a proposito della soggettivazione foucaultiana5. La parrhesia ristruttura e ridefinisce il campo di azione possibile, tanto per sé quanto per gli altri, modifica la situazione, inaugura una nuova dinamica, precisamente perché vi introduce qualcosa di nuovo. Quella della parrhesia, anche se implica uno statuto, è «una struttura dinamica e una struttura agonistica»6, che oltrepassa il quadro egalitario del diritto, della legge, della costituzione. Le nuove relazioni che il dir-vero esprime non sono contenute né previste dalla costituzione, dalla legge o dall’uguaglianza, ma è tuttavia attraverso di esse e soltanto attraverso di esse che un’azione politica è possibile e si effettua realmente. Il dir-vero dipende dunque dai due regimi eterogenei del diritto (della politeia e dell’isegoria) e della dynasteia (la potenza o forza) ed è per questa ragione che il rapporto tra enunciazione vera (discorso) e democrazia è «difficile e problematico». Introducendo di fatto la differenza nell’uguaglianza, esprimendo la potenza di auto-affezione, di auto-affermazione, la parrhesia determina un duplice paradosso. In primo luogo, «non può esserci discorso vero che con la democrazia, ma il discorso vero introduce nella democrazia qualcosa che è del tutto differente e irriducibile alla sua struttura egalitaria»7, la differenziazione etica. In secondo luogo, «la G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986; trad. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Cronopio, Napoli 2002, p. 138. 6 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 144; trad. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2011, p. 154. 7 Ivi, pp. 167-168; trad. it. cit., p. 179. 5


118 Maurizio Lazzarato possibilità della sua morte, la possibilità di una riduzione al silenzio del discorso vero» è inscritta nell’uguaglianza, poiché la contesa, il conflitto, l’agonismo e l’ostilità minacciano la democrazia e la sua uguaglianza. Cosa che è davvero avvenuta nelle nostre democrazie occidentali, nelle quali non vi è più spazio per la parrhesia. Il consenso democratico è la neutralizzazione della parrhesia, del dir-vero, della soggettivazione e dell’azione che ne deriva. Enunciazione e pragmatica La differenza di posizioni tra Rancière e Foucault emerge ancora più chiaramente se viene approfondito il rapporto che il linguaggio e l’enunciazione intrattengono con la politica e con la soggettivazione politica. In Rancière, la presa di parola dei «senza parte» (demos o proletariato) non rinvia a una presa di coscienza, all’espressione di un qualcosa che è proprio a colui che enuncia (i suoi interessi o la sua appartenenza a un gruppo sociale), ma all’uguaglianza del logos. La disuguaglianza della dominazione presuppone l’uguaglianza degli esseri parlanti, poiché, affinché l’ordine del padrone sia eseguito da chi gli è sottomesso, il padrone e il subordinato devono parlare una lingua comune. Il fatto di parlare, anche nel caso di relazioni di potere fortemente asimmetriche (il discorso di Menenio Agrippa sull’Aventino, che vuole legittimare le differenze gerarchiche nella società) presuppone un’intesa all’interno del linguaggio, una «comunità in cui l’uguaglianza è legge»8. Perché un’azione politica sia possibile, bisogna presupporre, in via preliminare, una dichiarazione di uguaglianza che funziona come misura e come fondamento dell’argomentazione e della dimostrazione della contesa tra la regola (dell’uguaglianza) e il caso (la disuguaglianza della police). Dato che è stata dichiarata da qualche parte, l’uguaglianza deve realizzare la propria potenza; dato che è inscritta da qualche parte, bisogna estenderla, rinforzarla. La politica egalitaria trova la propria legittimazione e i propri argomenti nella logica e nella struttura della lingua. La politica consiste nella creazione di una «scena in cui si mette J. Rancière, Aux bords du politique, La fabrique éditions, Paris 1998, p. 102; trad. it. di. A. Inzerillo, Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2011. Cfr. anche p. 115 : «La logica egalitaria implicata nell’atto di parola e la logica non egalitaria inerente al legame sociale». 8


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in gioco l’uguaglianza o la disuguaglianza tra le parti del conflitto come esseri parlanti»9. Per Rancière c’è davvero una logica del linguaggio, ma questa logica è smentita dalla dualità del logos, «parola e peso della parola». La parola è allo stesso tempo il luogo di una comunità (parola che esprime problemi) e di una divisione (parola che dà ordini). L’enunciazione politica deve argomentare e dimostrare, contro questa dualità, «che vi è soltanto un linguaggio comune» e stabilire che il demos antico, alla stregua del moderno proletariato, è costituito da esseri che, per il fatto stesso di parlare e di argomentare, sono esseri di ragione e di parola e per questo uguali a coloro che li comandano. «La questione non riguarda i contenuti linguistici […] [ma] la considerazione degli esseri parlanti in quanto tali»10. Se Rancière, distinguendosi in questo, gioca con gli universali e con la razionalità discorsiva («La prima esigenza di universalità è quella dell’appartenenza universale degli esseri parlanti alla comunità di parola»11), Foucault descrive la soggettivazione come un processo immanente di rottura e di costituzione del soggetto. In Foucault, per impiegare una formula di Félix Guattari, la parrhesia «esce dalla lingua», ma anche dalla pragmatica, per come è intesa dalla filosofia analitica. Non vi è razionalità o logica discorsiva, perché l’enunciazione non è riferita alle regole della lingua o della pragmatica, ma al rischio della presa di posizione, all’auto-affermazione esistenziale e politica. Non vi è una logica della lingua, ma un’estetica dell’enunciazione, nel senso che l’enunciazione non verifica quel che è già là (l’uguaglianza), ma inaugura qualcosa di nuovo, che è dato per la prima volta dall’atto stesso di parlare. La parrhesia è una forma di enunciazione molto differente da quella avanzata dalla pragmatica del discorso attraverso i performativi. I performativi sono formule, «rituali» linguistici che presuppongono uno status più o meno istituzionalizzato di colui che parla e all’interno dei quali l’effetto che l’enunciazione deve produrre è già istituzionalmente dato. («La seduta è aperta», formula enunciata da chi è abilitato a farlo, non è altro che una ripetizione «istituzionale», i cui effetti sono conosciuti in anticipo). J. Rancière, La mésentente. Politique et philosophie, Galilée, Paris 1995, p. 80; trad. it. di B. Magni, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, p. 69. 10 Ivi, p. 78; trad. it. cit., p. 68. 11 Ivi, p. 86; trad. it. cit., p. 73. 9


120 Maurizio Lazzarato La parrhesia, al contrario, non presuppone alcuno status, può essere l’enunciazione di chiunque. A differenza dei performativi, «apre la possibilità di un rischio indeterminato»12: «possibilità, campo di pericoli, o, in ogni caso, eventualità non determinata»13. L’irruzione della parrhesia determina una frattura, un’effrazione di una situazione e «rende possibile un certo numero di effetti»14 che non sono conosciuti in anticipo. Gli effetti dell’enunciazione non sono sempre singolari, ma riguardano e impegnano in primo luogo il soggetto enunciatore. La riconfigurazione del sensibile spetta innanzitutto a colui che parla. All’interno dell’enunciato parresiastico si stringe un duplice patto del «soggetto parlante con se stesso»: egli stesso si lega all’enunciato e al contenuto dell’enunciato, a quel che ha detto e al fatto di averlo detto. Vi è una retroazione dell’enunciazione sul modo di essere del soggetto: «il soggetto, producendo l’evento enunciativo, modifica, afferma, o in ogni caso determina e precisa il suo modo di essere in quanto soggetto parlante»15. La parrhesia manifesta il coraggio e la presa di posizione di colui che enuncia la verità, che dice quel che pensa, ma manifesta anche il coraggio e la presa di posizione dell’«interlocutore che accetta di accogliere come vera la verità oltraggiosa da lui sentita»16. Colui che dice il vero, che dice ciò che pensa, «firma, in qualche modo, la verità che egli stesso enuncia: si lega a tale verità; a essa perciò si vincola e grazie a essa assume degli obblighi»17. Ma egli assume anche il rischio «che riguarda la relazione stessa che egli ha con coloro a cui si rivolge». Se il professore possiede un «sapere della tekhnè» e non rischia nulla parlando, il parresiasta assume il rischio non solo della polemica, ma dell’«ostilità, della guerra, dell’odio e della morte». Assume il rischio di dividere gli uguali. Tra colui che parla e ciò che egli enuncia, tra colui che dice il vero e colui che accoglie la parola si stabilisce un legame affettivo e soggettivo, la «credenza» che, come ricorda William James, è una «disposizione all’azione»18. Il rapporto a sé, il rapporto agli altri e la credenza che li lega non possono essere contenuti né nell’uguaglianza né nel diritto. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., p. 61; trad. it. cit., p. 67. Ibidem; trad. it. cit., p. 68. 14 Ibidem; trad. it. cit., p. 67. 15 Ivi, p. 66; trad. it. cit., p. 73. 16 M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 14; trad. it. cit., p. 24. 17 Ivi, p. 12; trad. it. cit., p. 22. 18 W. James, La volontà di credere e altri saggi di filosofia popolare, BUR, Milano 1984. 12 13


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Crisi della parrhesia Rancière vede nella crisi della democrazia greca una semplice pretesa della volontà degli aristocratici, volta a ristabilire i loro privilegi di nascita, di status e di ricchezza, mentre Foucault, senza trascurare questo aspetto, vede la crisi della democrazia greca stringersi attorno a questo rapporto tra politica ed etica, uguaglianza e differenziazione. I nemici della democrazia mettono il dito su un problema che i fautori dell’uguaglianza in quanto principio esclusivo della politica (Rancière, Badiou) non vedono e che costituisce uno degli scogli sul quale il comunismo del XIX e del XX secolo si è infranto, senza fornire risposte praticabili. Come sostengono i nemici dell’uguaglianza, se ciascuno può dire la sua sugli affari della città, ci saranno tante costituzioni e tanti governi quanti sono gli individui. Se tutti possono prendere la parola, allora i folli, gli ubriachi, i dissennati sono autorizzati a dire le loro opinioni sugli affari pubblici allo stesso modo dei migliori, di chi è competente. Nella democrazia lo scontro, la contesa, l’agonismo e il conflitto tra gli uguali che pretendono tutti di dire il vero, degenerano nella seduzione degli oratori che adulano il popolo nelle assemblee. Se vi è una distribuzione incontrollata del diritto di parola, «qualunque individuo può dire tutto e qualsiasi» Allora, come distinguere l’oratore buono da quello cattivo? Come produrre una differenziazione etica? La verità – affermano sempre i nemici dell’uguaglianza – non può essere detta in un campo politico definito dall’«indifferenza dei soggetti parlanti». «La democrazia non può lasciare spazio alla differenziazione etica tra i soggetti che parlano, che deliberano e che decidono»19. Queste argomentazioni ricordano immediatamente le critiche neoliberali rivolte all’egualitarismo «socialista» degli aumenti salariali uguali per tutti, dei diritti sociali uguali per tutti: l’uguaglianza impedisce la libertà, l’uguaglianza impedisce la «differenziazione etica», l’uguaglianza annega la soggettività nell’indifferenza dei soggetti di diritto. Foucault, alla stessa maniera di Guattari, ci avverte che non ci si può opporre alla libertà neoliberale che, in realtà, esprime una volontà politica di ristabilire le gerarchie, le disuguaglianze e i privilegi, soltanto attraverso una «politica egalitaria». Significherebbe fare a meno delle critiche che i movimenti politici avevano fatto all’egualitarismo socialista, ben prima dei liberali. 19

M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 46; trad. it. cit., p. 57.


122 Maurizio Lazzarato Foucault non si limita a denunciare i nemici della democrazia ma, utilizzando i Cinici, rovescia le critiche aristocratiche sul loro stesso terreno: quello della differenziazione etica, della costituzione del soggetto e del suo divenire. A partire dalla crisi della parrhesia si profila un «dir-vero» che non si espone più ai rischi della politica. Dalla sua origine politica, il dir-vero si sposta verso la sfera dell’etica personale e della costituzione del soggetto morale, ma secondo una duplice alternativa, quella della «metafisica dell’anima» e dell’«estetica della vita», quella della conoscenza dell’anima, della sua purificazione, che apre l’accesso all’altro mondo e quella delle pratiche e delle tecniche per la messa alla prova, la sperimentazione, il cambiamento di sé, della vita e del mondo, qui e adesso. La costituzione di sé non più come «anima», ma come «bios», come modo di vita. Questa alternativa è contenuta già nel testo di Platone, ma sono i Cinici che la esplicitano e la rovesciano contro i nemici della democrazia, attraverso una sua politicizzazione. L’opposizione tra i Cinici e il platonismo può riassumersi nel modo seguente: i primi articolano «vita altra» e «mondo altro», una soggettività altra e istituzioni altre, in questo mondo; mentre per il secondo si tratta piuttosto dell’«altro mondo» e dell’«altra vita», concatenamento che si prolungherà con il cristianesimo. I Cinici rovesciano il tema tradizionale della «vera vita», in cui il dirvero era migrato, rifugiandovisi. La «vera vita» della tradizione greca è una vita «che evita i perturbamenti e i cambiamenti, la corruzione e la caduta, e si mantiene senza modificazioni nell’identità del suo essere»20. I Cinici rovesciano la «vera vita» attraverso la rivendicazioni e la pratica di una «vita altra», «la cui l’alterità deve produrre il cambiamento del mondo. Una vita altra per un mondo altro»21. Rovesciano il tema della «vita tranquilla e benefica: tranquilla di per se stessa, che gioisce di se stessa ed è benefica per gli altri», in «vita militante, la vita di combattimento e di lotta contro se stessi e per se stessi, contro gli altri e per gli altri»22, combattimento «nel mondo e contro il mondo»23. I Cinici oltrepassano la «crisi» della parrhesia, l’impotenza della democrazia e dell’uguaglianza nel produrre una differenziazione etica, legando in modo indissolubile politiIvi, p. 207; trad. it. cit., p. 218. Ivi, p. 264; trad. it. cit., p. 274. 22 Ivi, p. 261; trad. it. cit., p. 271. 23 Ivi, p. 262; trad. it. cit., p. 272. 20 21


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ca ed etica (e verità). Essi drammatizzano e riconfigurano politicamente la questione del rapporto a sé, strappandolo alla vita buona, alla vita sovrana del pensiero antico. Due modelli d’azione politica A dar forma a queste due letture della democrazia greca sono due modelli molto diversi dell’azione “rivoluzionaria”. Per Rancière, la politica si costituisce come riparazione di un torto fatto all’uguaglianza attraverso il metodo della dimostrazione, dell’argomentazione e dell’interlocuzione. Grazie all’azione politica, i “senza parte” devono dimostrare di parlare e non di fare solo rumore. Devono anche dimostrare di non parlare una lingua altra o minore, ma di esprimersi nella lingua dei loro padroni e di padroneggiarla. In definitiva, devono dimostrare con l’argomentazione e l’interlocuzione di essere al tempo stesso esseri di ragione e di parola. Il modello dell’azione rivoluzionaria fondato sulla dimostrazione, l’argomentazione e l’interlocuzione mira a un’inclusione, a un “riconoscimento” che, pur essendo litigioso, somiglia molto a un riconoscimento dialettico. La politica mette in campo una divisione in parti in cui “loro” e “noi” si oppongono e si tengono in conto, in cui due mondi si dividono, pur riconoscendo di appartenere a una stessa comunità: «I non-contati, manifestando la pluralità e appropriandosi illecitamente dell’uguaglianza degli altri, potevano farsi contare»24. Per trovare qualcosa di simile al modello di Rancière, bisogna rifarsi non alla democrazia politica, ma alla democrazia sociale che si è costituita a partire dal New Deal e nel Dopoguerra. La democrazia sociale che ritroviamo ancora nel paritarismo francese della gestione della Sécurité Sociale è, nella sua forma riformista, il “modello dialettico” della lotta di classe in cui il riconoscimento e il litigio tra “noi” e “loro” costituiscono il motore dello sviluppo capitalista e della democrazia stessa. Quello che Rancière difende nella democrazia sociale dell’État Providence è una sfera pubblica di interlocuzione in cui gli operai (i sindacati – nella forma riformista) sono inclusi come soggetti politici e in cui il lavoro non è più una questione privata, ma pubblica. 24

J. Rancière, La mésentente, cit., p 159; trad. it. cit., p. 128.


124 Maurizio Lazzarato Fingiamo di prendere per doni abusivi di uno Stato paterno e tentacolare quelle che sono delle istituzioni di previdenza e di solidarietà, nate dalle lotte operaie e democratiche e gestite e co-gestite da rappresentanti dei contribuenti. Lottando contro questo Stato mitico, attacchiamo invece delle istituzioni di solidarietà non statali, che sono state luoghi di formazione e di esercizio di altre competenze, di altre capacità di occuparsi del comune e del futuro del comune, rispetto a quelle delle élites governative25.

Tutta la difficoltà della posizione di Rancière (e più in generale della sinistra) risiede nella difficoltà di criticare e di superare questo modello che ha sicuramente ampliato i limiti della democrazia nel XX secolo, ma che, oggi, è un vero ostacolo per l’emergere di nuovi oggetti e di nuovi soggetti della politica, dato che è costituzionalmente incapace di includere altri soggetti politici oltre allo Stato, ai sindacati dei salariati e ai padroni. Tutt’altro è il modello politico di Foucault, che emerge dalla sua analisi della democrazia greca. Perché Foucault va a cercare una scuola filosofica come quella dei Cinici, una scuola al “margine”, una scuola “minoritaria”, una scuola filosofica “popolare”, senza grande strutturazione dottrinaria, per problematizzare la soggettivazione politica? Foucault sembra suggerire questo: siamo usciti dalla politica al tempo stesso dialettica e totalizzante del “demos” – «I senza-parte – i poveri dell’antichità, il terzo Stato o il proletariato moderno – non possono in effetti ottenere altro se non il niente o il tutto»26. È difficile vedere i Cinici, così come i movimenti politici del dopo ’68 (dai movimenti delle donne al movimento dei disoccupati), affermare “siamo il popolo”, siamo al tempo stesso “la parte e il tutto”. J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique éditions, Paris 2005, p. 91. Ho acquistato questo libro il giorno della sua pubblicazione (nel settembre 2005), di rientro da un’azione della Coordination des Intermittents et Précaires che aveva fatto irruzione – occupandola – nella sala in cui si teneva una delle riunioni paritarie al Ministero della Cultura e che riuniva lo Stato, i sindacati e i padroni che negano lo status di soggetti politici a tutti, tranne che a se stessi. La sera, scorrendolo, sono stato sorpreso di leggere questo brano. Non è perché i liberali attaccano l’État providence che ci dobbiamo relegare in un atteggiamento difensivo e zittire le critiche che i movimenti politici gli hanno rivolto negli anni Settanta (produrre dipendenza ed esercitare potere sul corpo, etc.) e le critiche che i movimenti continuano a produrre (produzione di disuguaglianze, esclusione sociale e politica, controllo sulla vita degli individui, etc.). 26 J. Rancière, La mésentente, cit., p. 27; trad. it. cit., p. 30. 25


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Nel modello di Foucault, il problema non è quello di far contare i “senza parte”, di dimostrare che parlano la stessa lingua dei loro padroni, ma quello di una “trasvalutazione” di tutti i valori, che riguarda anche e in primo luogo i senza parte e il loro modo di soggettivazione. Nella trasvalutazione, l’uguaglianza si coniuga alla differenza, l’uguaglianza politica alla differenziazione etica. Troviamo di nuovo Nietzsche attraverso i Cinici, che sono passati alla storia della filosofia come dei “falsari” di moneta, come coloro che ne alteravano il “valore”. Il motto dei Cinici, “cambiare il valore della moneta”, rimanda sia all’alterazione della moneta (nomisma), sia all’alterazione della legge (nomos). I Cinici non chiedono riconoscimento, non vogliono farsi contare o includere. Essi criticano e interrogano le istituzioni e i modi di vita dei loro contemporanei, attraverso la sperimentazione e la messa alla prova di se stessi, degli altri e del mondo. Il problema della costituzione di sé come soggetto etico-politico richiede giochi di verità specifici. Non più il gioco di verità «dell’apprendimento, dell’acquisizione di proposizioni [e di conoscenze] vere», come nel platonismo, ma il gioco di verità portato «su se stessi, su ciò che si è capaci di fare, sul grado di dipendenza che si è raggiunto, sui progressi che si devono fare. Questi giochi di verità non dipendono da mathemata, non sono delle cose che si insegnano e che si imparano, sono degli esercizi che si fanno su se stessi: […] la messa alla prova di se stessi, la lotta in questo mondo»27. I giochi di verità politici praticati attraverso la costituzione di una vita altra e di un mondo altro non sono più quelli del riconoscimento, della dimostrazione, della logica argomentativa, ma quelli di una politica della sperimentazione che unisce diritti e formazione dell’ethos. L’opposizione di Platone e dei Cinici non può non ricordarci le differenze tra Foucault e Rancière. Logos ed esistenza, teatro e performance Per Rancière, la politica esiste solo attraverso la costituzione di una scena “teatrale”, in cui gli attori recitano l’artificio dell’interlocuzione politica per mezzo di una doppia logica al tempo stesso ragionevole (perché 27

M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., pp. 309-310; trad. it. cit., pp. 319-321.


126 Maurizio Lazzarato postula l’uguaglianza) e non ragionevole (perché questa uguaglianza non esiste da nessuna parte) della discorsività e dell’argomentazione. Affinché ci sia politica, bisogna costruire una scena di “parola e di ragione”, interpretando e drammatizzando nel senso teatrale del termine lo scarto tra la regola e il fatto, tra la logica della police e la logica dell’uguaglianza. Questa concezione della politica è normativa. Ogni azione che concepisce lo spazio pubblico in modo altro rispetto all’interlocuzione tramite la parola e la ragione non è politica. Le azioni del 2005 degli abitanti della banlieue, che non hanno rispettato questo modello di mobilitazione, non sono considerate politiche da Rancière. Non si tratta di integrare persone che, per la maggior parte, sono Francesi, ma di fare in modo che siano trattati con uguaglianza. […] Si tratta di sapere se sono contati come soggetti politici, dotati di una parola comune […]. In apparenza, questo movimento di rivolta non ha trovato una forma politica, per come la intendo io, di costituzione di una scena di interlocuzione, che riconosce il nemico come parte della stessa vostra comunità28.

In realtà, i movimenti contemporanei non tralasciano di attualizzare la logica politica descritta da Rancière, costruendo una scena di parola e di ragione, per rivendicare l’uguaglianza tramite la dimostrazione, l’argomentazione e l’interlocuzione. Tuttavia, battendosi per essere riconosciuti come nuovi soggetti politici, non fanno di questa modalità d’azione la sola che possa essere definita come politica. E, ancora più importante, queste lotte si svolgono in un quadro che non è più quello della dialettica e della totalizzazione del demos, che è al tempo stesso parte e totalità, “niente e tutto”. Al contrario, per imporsi come nuovi soggetti politici, essi sono costretti a scardinare la politica del “popolo” e della “classe operaia”, per come si è incarnata nella democrazia politica e nella democrazia sociale delle nostre società. I movimenti politici giocano e si destreggiano con diverse modalità di azione politica, però secondo la logica che non si limita alla messa in scena “dell’uguaglianza e della sua assenza”. L’uguaglianza è la condizione necessaria ma non sufficiente del processo di differenziazione, in cui i “diritti per tutti” sono i supporti sociali di una soggettivazione che connette 28

2005.

J. Rancière, La Haine de la démocratie. Chroniques des temps consensuels, in «Libération»,


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produzione di una vita altra e di un mondo altro. I “selvaggi” delle banlieue francesi, come sono stati chiamati da un ministro socialista, assomigliano, per certi aspetti, ai Cinici “barbari” che, ai giochi ordinati e dialettici del riconoscimento e dell’argomentazione, preferiscono lasciare la scena teatrale e inventare un altro artificio che non ha molto a che vedere con il teatro. Più che a una scena teatrale, i Cinici ci fanno pensare alle performance dell’arte contemporanea, in cui l’esposizione pubblica (nel doppio senso di manifestarsi e di mettersi in pericolo) non si fa necessariamente con il linguaggio, la parola, le semiotiche significanti, né con la forma della drammaturgia teatrale del gioco dei personaggi, dell’interlocuzione e del dialogo. Come si opera il processo di soggettivazione che apre la strada a una “vita altra” e a un “mondo altro”? Non solo tramite la parola e la ragione. I Cinici non sono solo degli “esseri parlanti”, ma anche dei corpi che enunciano effettivamente qualcosa, anche se questa enunciazione non passa dalle concatenazioni significanti. Soddisfare i propri bisogni (mangiare, cacare) e desideri (masturbarsi, fare l’amore) in pubblico, provocare, scandalizzare, forzare a pensare e a sentire, etc. : queste sono altrettante tecniche “performative” che mettono in campo una molteplicità di semiotiche. Il bastone, la bisaccia, la povertà, il vagabondaggio, la mendicità, i sandali, i piedi nudi, etc., con cui un modo di vita da Cinici si esprime, sono modalità di enunciazione non verbali. Il gesto, l’atto, l’esempio, il comportamento, la presenza fisica costituiscono pratiche e semiotiche di espressione che si rivolgono agli altri con mezzi diversi dalla parola. Nelle “performance” ciniche, la lingua non ha solo una funzione denotativa e rappresentativa, ma una “funzione esistenziale”. Essa afferma un’ethos e una politica, contribuisce a costruire dei territori esistenziali, come direbbe Guattari. Nella tradizione greca, ci sono due strade per la virtù: la strada lunga e facile, che passa dal “logos”, cioè dal discorso e dal suo apprendimento scolastico, e quella breve, ma difficile, dei Cinici, che è in qualche modo «muta». La strada breve, la scorciatoia, senza discorso, è quella dell’esercizio e della messa alla prova. La vita cinica non è pubblica solo tramite il linguaggio, la parola, ma si espone nella sua «realtà materiale e quotidiana»; è una vita «materialmente, fisicamente pubblica» che riconfigura immediatamente le divisioni costitutive della società greca, lo spazio pubblico della polis, da una parte, e la gestione privata della casa, dall’altra. Non si tratta di opporre “logos” ed


128 Maurizio Lazzarato “esistenza”, ma di insediarsi nel loro scarto per interrogare i modi di vita e le istituzioni. Per i Cinici, non può esserci vera vita se non come vita altra, che è al tempo stesso «forma di esistenza, manifestazione di sé, plastico della verità, ma anche dimostrazione, convincimento e persuasione attraverso il discorso»29. In Rancière, come nella maggior parte delle teorie critiche contemporanee (Virno, Butler, Agamben, Michon) c’è un pregiudizio logocentrico. Nonostante le critiche che egli rivolge ad Aristotele, ci troviamo ancora nella dipendenza e nel quadro delle formulazioni del filosofo greco: l’uomo come unico animale che possiede il linguaggio e che è un animale politico perché ha il linguaggio. Criticando il “partage” che il logos stabilisce tra l’uomo e l’animale, i Cinici criticano i fondamenti della filosofia e della cultura greca e occidentale. L’animalità rappresentava, nel pensiero antico, un punto di assoluta differenziazione per l’essere umano. È distinguendosi dall’animalità che l’essere umano affermava e manifestava la sua umanità. Rispetto alla costituzione dell’uomo come essere ragionevole, l’animalità provocava sempre, più o meno, un movimento di repulsione30.

I Cinici non drammatizzano lo scarto tra uguaglianza e police, ma drammatizzano le pratiche della “vita vera” e le sue istituzioni, con l’esposizione di una vita spudorata, di una vita scandalosa, di una vita che si manifesta come «sfida ed esercizio nella pratica dell’animalità». Il Partage du sensible o divisione e produzione In Rancière, la soggettivazione politica implica certo un ethos e dei giochi di verità. Essa richiede un modo di costituzione del soggetto tramite la parola e la ragione, che praticano i giochi di verità della “dimostrazione”, dell’“argomentazione” e dell’interlocuzione. Neanche in Rancière la politica può definirsi come un’attività specifica, perché si articola all’etica (alla costituzione di un soggetto di ragione e di parola) e alla verità (delle 29 30

M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 288; trad. it. cit., p. 298. Ivi, p. 244; trad. it. cit., p. 254.


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pratiche discorsive che dimostrano e argomentano). Non si capisce infatti come potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, se è impossibile fare della politica un modo d’azione autonomo, è anche impossibile separare la politica da quel che Foucault chiama “microfisica” delle relazioni di potere. Il “partage du sensible”31 di Rancière, che organizza sia la distribuzione delle parti (la divisione di classe tra i borghesi che hanno la parola e i proletari che si esprimono solo con rumori), sia il modo di soggettivazione («loro/noi»), non sembra lasciar spazio a questo tipo di relazioni. Il partage du sensible è una divisione di funzioni e di ruoli, di modi di percezione e di espressione doppiamente prodotti, e in questa doppia produzione le relazioni micro-politiche svolgono un ruolo fondamentale. La divisione della società in “classi” (o parti) è prodotta dalla concatenazione di pratiche discorsive (sapere), di tecniche di governo delle condotte (potere) e di modi di assoggettamento (soggetto). Questo partage “dualista”, però, non è solo il risultato dell’azione trasversale di questi tre dispositivi (sapere, potere, soggetto), ma è esso stesso attraversato da relazioni di potere micro, che lo rendono possibile e operativo. Le relazioni uomo/donna, padre/figlio nella famiglia, la relazione maestro/ allievo a scuola, medico/malato nel sistema sanitario, etc., sviluppate da quel che Guattari chiama «apparecchiature collettive» (équipements collectifs)32 di assoggettamento, sono trasversali e costitutive della divisione in parti. C’è in effetti un partage du sensible “molecolare”, una microfisica del potere che attraversa anche i senza parte (e che li divide secondo linee diverse da quelle del gran partage dialettico noi/loro). È impossibile comprendere il capitalismo contemporaneo senza problematizzare il rapporto che il “molare” (le grandi opposizioni dualiste capitale/lavoro, ricchi/poveri, coloro che comandano/coloro che obbediscono, coloro che hanno i titoli per governare/coloro che ne sono sprovvisti) intrattiene con la microfisica (le relazioni di potere che poggiano, passano e si formano all’interno stesso dei senza parte). Il “bios”, l’“esistenza”, la “vita” non sono concetti vitalisti, cui opporre i concetti della divisione politica del demos, ma ambiti in cui si esercita la microfisica del potere e a proposito dei quali ci sono lotta, dissidio, assoggettaCfr. J. Rancière, Le partage du sensible. Esthétique et politique, La fabrique éditions, Paris 2000. 32 F. Guattari, Chaosmose, Galilée, Paris 1992; trad. it. di M. Guareschi, Caosmosi, Costa & Nolan, Genova 1996, p. 13. 31


130 Maurizio Lazzarato menti e soggettivazioni. Le riflessioni sul modo che i Cinici hanno di considerare il bios, l’esistenza e la vita possono fornire armi di resistenza ai poteri del capitalismo contemporaneo, che fanno della produzione di soggettività la prima e la principale delle sue produzioni. In un certo modo, siamo costretti alla metodologia foucaultiana, perché nel capitalismo contemporaneo è impossibile separare l’“etica” dall’“economia” e dalla “politica”. Foucault ci dice che la deriva della parrhesia dal dominio “politico” all’etica individuale «non è meno utile alla città. […] Incitandovi a occuparvi di voi stessi, [afferma Socrate], sono utile a tutta la città. E se proteggo la mia vita, lo faccio davvero nell’interesse della città»33. Le tecniche della formazione del bios (le tecniche di governo di sé e degli altri), integrate e riconfigurate dal potere pastorale della chiesa cristiana, non smetteranno di acquisire importanza attraverso l’azione dell’État Providence. Nel capitalismo, «la grande catena delle cure e delle sollecitudini», la «cura della vita» di cui parla Foucault a proposito della Grecia antica, sono prese in carico dallo Stato, nel momento stesso in cui esso manda la popolazione di cui ha cura a farsi massacrare in guerra. Occuparsi di sé, esercitare un lavoro su di sé e sulla propria vita significa curarsi delle maniere di fare e delle maniere di dire, necessaire a occupare il posto che ci è attribuito nella divisione sociale del lavoro. Prendere cura di sé è un’ingiunzione a soggettivarsi, in quanto responsabili della funzione cui il potere ci ha assegnato. Queste tecniche di costituzione e di controllo delle condotte e delle forme di vita sono innanzitutto sperimentate nei “poveri” contemporanei (disoccupati, titolari di RMI, lavoratori poveri, etc.). La questione posta dai concetti di bios, esistenza, vita, non è quella del vitalismo, ma quella di come politicizzare queste relazioni di potere micro tramite una soggettivazione trasversale. Se, come afferma Rancière, non tutto è politico, perché «altrimenti la politica non sarebbe da nessuna parte», tutto è però «politicizzabile», aggiunge Foucault. A livello della definizione teorica della politica, Rancière sembra trascurare ciò che analizza dal punto di vista storico: il lavoro su di sé, la formazione dell’ethos negli operai del XIX secolo, che peraltro egli descrive in modo splendido. La formazione dell’ethos, del bios, dell’esistenza che i Cinici praticano non è una varietà del “discorso morale”. Essa non costituisce una nuova 33

M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 83; trad. it. cit., p. 95.


Enunciazione e politica 131

pedagogia o il veicolo di un codice morale. La formazione dell’ethos è al tempo stesso un «focolaio di esperienza» e una «matrice di esperienza», in cui si articolano gli uni sugli altri le forme di un sapere possibile, le «matrici normative di comportamento per gli individui» e «modi di esistenza virtuali per dei soggetti possibili»34. Per Rancière, la politica non è primariamente un’esperienza, ma è soprattutto una questione di forma: Ciò che rende politica un’azione, non è il suo oggetto o il luogo in cui si esercita, ma unicamente la sua forma, quella che iscrive la verifica dell’uguaglianza nell’istituzione di un conflitto, di una comunità che esiste solo grazie alla divisione35.

La problematizzazione di questi «focolai di esperienza» e le sperimentazioni che si producono a partire dai Cinici, si trasmettono e attraversano tutta la storia dell’Occidente, riprese e rinnovate dai rivoluzionari del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo e dagli artisti della stessa epoca. Conclusione La soggettivazione foucaultiana non è solo un’argomentazione sull’uguaglianza e disuguaglianza, una dimostrazione del torto fatto all’uguaglianza, ma una vera creazione immanente che si insedia nello scarto tra uguaglianza e disuguaglianza, e sposta la questione della politica, aprendo lo spazio e il tempo indeterminati della differenziazione etica, della formazione di un sé collettivo. Se la politica è indissociabile dalla formazione del soggetto “etico”, la questione dell’organizzazione diventa allora centrale, anche se in modo diverso rispetto al modello comunista. La riconfigurazione del sensibile è un processo che deve essere oggetto di un lavoro “militante” che Guattari, prolungando l’intuizione foucaultiana, definisce come un lavoro politico «analitico». Per Guattari, il GIP – Groupe d’Information sur les Prisons – può essere considerato una concatenazione [agencement] collettiva analitica e militante, in cui l’oggetto della “militanza” si sdoppia: è dal lato 34 35

M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., p. 4; trad. it. cit., pp. 12-13. J. Rancière, La mésentente, cit., p. 55; trad. it. cit., p. 50.


132 Maurizio Lazzarato dell’ambito di intervento, ma anche dal lato di chi interviene. Si tratta, in permanenza, di lavorare non solo sugli enunciati prodotti, ma sopratutto sulle tecniche, le procedure, sulle modalità della concatenazione collettiva di enunciazione (dell’organizzazione). Rancière, invece, non ha alcun «interesse per la questione delle forme di organizzazione dei collettivi politici». Egli prende in considerazione solo le «alterazioni prodotte dagli atti di soggettivazione politica». Vede quindi l’atto di soggettivazione solo nel suo raro emergere, la cui durata si avvicina all’istantaneità. Egli si rifiuta di interessarsi «alle forme di consistenza dei gruppi che le producono»36, mentre il ’68 interroga proprio le loro regole di costituzione e di funzionamento, la loro modalità di espressione e di democrazia, dato che l’azione politica di intervento è appunto inseparabile dall’azione di costituzione del soggetto. Se i rapporti paradossali tra uguaglianza e differenza non possono essere iscritti né in una costituzione, né in leggi, se non possono essere né appresi né insegnati, ma solo sperimentati, allora la questione delle modalità dell’agire insieme diventa fondamentale. Cosa accade durante la presa di parola, cosa accade dopo la presa di parola, in che modo questo atto di differenziazione fa ritorno non solo su chi lo enuncia, ma anche su chi lo accetta, in che modo, cioè, si forma una comunità legata dall’enunciazione e dall’artificio, che non sia chiusa sulla propria identificazione, ma aperta alla differenziazione etica? Quel che bisogna sperimentare e inventare, in una macchina da guerra che concatena l’essere insieme e l’essere contro, è quel che Foucault afferma essere la specificità del discorso filosofico e che, nell’esaurirsi del modello dialettico del demos, è divenuta la condizione della politica oggi. [Non porre mai] la questione dell’ethos senza interrogarsi al tempo stesso sulla verità, sulla forma di accesso alla verità che potrà formare questo ethos e sulle strutture politiche all’interno delle quali questo ethos potrà affermare la propria singolarità e la propria differenza […] Non bisogna mai porre la questione dell’aletheia senza rilanciare nel contempo, a proposito di questa verità, la questione della politeia e dell’ethos. La stessa cosa vale per la politeia. La stessa cosa vale per l’ethos.37

36 37

J. Rancière, La philosophie déplacée, Horlieu, Bourg en Bresse 2006, p. 514. M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 63; trad. it. cit., pp. 74-75.


Enunciazione e politica 133

In Rancière, solo la democrazia come dispositivo al tempo stesso di divisione e di comunità può riconfigurare il partage du sensible, mentre Foucault è molto più schivo e meno entusiasta di questo modello di azione politica, perché ne vede i limiti. Pur basandosi sull’uguaglianza, la soggettivazione politica ne supera i limiti. La questione politica è quindi: come inventare e praticare l’uguaglianza in queste nuove condizioni? Jacques Rancière afferma che la soggettivazione politica «non ha mai interessato Foucault, o in ogni caso mai a livello teorico»38. Giudizio troppo rapido e disinvolto, poiché la soggettivazione costituisce addirittura il compimento dell’opera di Foucault. In realtà, ci stiamo confrontando con due concezioni radicalmente eterogenee della soggettivazione politica. Contrariamente a Rancière, secondo cui l’etica neutralizza la politica, la soggettivazione politica foucaultiana è indissociabile dall’etopoiesi (la formazione dell’ethos, la formazione del soggetto). La necessità di coniugare la trasformazione del mondo (delle istituzioni e delle leggi) e la trasformazione di sé, degli altri e dell’esistenza, costituisce per Foucault il problema stesso della politica, per come essa si configura a partire dal Sessantotto. Questi due approcci comportano notevoli differenze riguardo la concezione della politica, ma anche quella del linguaggio e dell’enunciazione. Secondo Rancière, la democrazia greca ha definitivamente dimostrato che la politica pone l’uguaglianza come proprio principio esclusivo, e che nel linguaggio si trova quel minimo di uguaglianza necessaria alla comprensione degli esseri parlanti che permette di verificare il principio dell’uguaglianza politica. Nella lettura foucaultiana di questa stessa democrazia, l’uguaglianza costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, della politica. L’enunciazione (il dir-vero, la parrhesia) determina rapporti paradossali all’interno della democrazia, poiché il dir-vero introduce la differenza (dell’enunciazione) nell’uguaglianza della lingua, che implica necessariamente una «differenziazione etica». Traduzione dal francese di Laura Cremonesi e Orazio Irrera

Maurizio Lazzarato mauriziolazzarato@gmail.com Si veda l’intervista di Jacques Rancière nel primo numero della rivista Multitudes: Biopolitique ou politique?, cit. 38


134 Maurizio Lazzarato

. Enunciation and Politics. A Parallel Reading of Democracy: Foucault and Rancière The aim of this article is to compare two radically heterogeneous conceptions of political subjectivation: Michel Foucault’s and Jacques Rancière’s. If Rancière thinks that ethics neutralizes politics, Foucault maintains that political subjectivation is inseparable from ethopoiesis (i.e. the formation of ethos, of the subject). These two concepts of subjectivation are the expression of two radically different political projects and two incompatible ways to confront the present, which we can easily identify in Foucault and Rancière’s different way to interpret the institutions and the functioning of Greek democracy. Keywords: Michel Foucault, Jacques Rancière, Political Subjectivation, Ethos, Greek Democracy, Parresia, Cynicism.


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique Giovanni Maria Mascaretti

Introduction

Michel Foucault’s later works manifest two remarkable innovations, rep-

resented respectively by the introduction of the concept of problematization to describe his critical project and by his reflections on the notion of parrhesia as means through which one can relate oneself truthfully to the social reality and to others. While recent years have witnessed a profusion of writings dedicated to both these ideas taken separately, the aim of the present article is to provide a clarifying account of how Foucault conceives of the relationship between them. In order to accomplish such a task the article will be divided into four sections. In section 1 I shall argue that the notion of problematization names the two sides of Foucault’s critical project, indicating at the same time the regimes of veridiction examined in his archaeo-genealogical investigations and the problematizing activity of critical thought itself. Section 2 will show that Foucault’s notion of parrhesia is the condition of possibility for articulating the passage from one side of critique to the other. Indeed, I shall argue that the ethical differentiation involved in parrhesia as the courage of truth enables the problematization of one’s mode of subjec(tiva)tion, thus providing a transformative force of resistance against the existing power/knowledge apparatuses. In section 3, then, I shall claim that this act of ethical and political resistance finds its seminal formulation in Socrates’ parrhesiastic imperative of taking care of oneself. Finally section 4 will conclude by showing Foucault’s attempt to realize such an imperative in his own philosophical practice as critical ethos. Double-sided Critique: Foucault’s Notion of Problematization In the final years of his life, Foucault employs the term “problematization” to designate the kind of critical inquiry he developed in his premateriali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 135-154.


136 Giovanni Maria Mascaretti vious works under the analytic and diagnostic procedures of archaeology and genealogy: The notion common to all the work I have done since Historie de la folie is that of problematization, though it must be said that I never isolated this notion sufficiently. But one always finds what is essential after the event; the most general things are those that appear last. […] In Historie de la folie the question was how and why, at a given moment, madness was problematized through a certain institutional practice and a certain apparatus of knowledge. Similarly, in Surveiller et Punir, I was trying to analyse the changes in the problematization of the relations between crime and punishment through penal practices and penitentiary institutions in the late eighteen and early nineteenth centuries1.

This is not the only retrospective reconstruction of his whole theoretical itinerary Foucault offers in his later writings: there are plenty of them and they are not always compatible with one another. Nevertheless, I shall maintain that taking this passage seriously is essential in order to correctly understand the nature and the aim of Foucault’s critical project. As a matter of fact, it immediately clarifies that his critical history of thought is not a history of ideas, behaviours or representations, but rather a history of the modes and reasons according to which – at a specific time and under particular conditions – «human beings “problematize” what they are, what they do, and the world in which they live»2: «I am trying to analyse the way institutions, practices, habits and behaviour become a problem […] The history of thought is the analysis of the way an unproblematic field of experience, or a set of practices, which were accepted without question […] becomes a problem [...]»3. For Foucault, then, problematization defines the very critical activity of thought itself: «thought […] is what allows one to step back from this way of acting and reacting, to present it to oneself as an object of thought and to question it as to its meaning, its conditions and its goals. Thought is freedom in relation to what one does, the motion by which M. Foucault, The Concern for Truth, in Politics, Philosophy, and Culture. Interviews and Other Writings 1977-1984, trans. A. Sheridan et alii, Routledge, London and New York 1988, pp. 255-267, p. 257. 2 M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 2. The Use of Pleasure, trans. R. Hurley, Vintage Books, New York 1985, p. 10. 3 M. Foucault, Fearless Speech, ed. J. Pearson, Semiotext(e), Los Angeles 2001, p. 74. 1


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 137

one detaches oneself from it, establishes it as an object and reflects on it as a problem»4. In this sense, contrary to what several commentators have sugges5 ted , my claim is that problematization does not represent a third methodological tool alongside those of archaeology and genealogy, but rather that it should be regarded as a methodological strategy informing both of them, which finds its fully-fledged elaboration only in Foucault’s later works. What I tried to do from the beginning was to analyze the process of “problematization” – which means: «how and why certain things (behaviour, phenomena, processes) became a problem»6. As Koopman has recently clarified7, this means that archaeology and genealogy come to be inserted into a wider critical framework of inquiry hinged on the notion of problematization, whereby – unlike what various commentators have misleadingly claimed8 – these two «axes of analysis are complementary rather than contradictory»9. On the one hand, within such a framework archaeology reconfigures itself as the static side of problematizations that makes «it possible to examine the forms [of problematizations] themselves», i.e. the historical-a priori set of rules according to which «the totality of discursive or non-discursive practices […] introduce something into the game of the true and the false and constitute it as an object for thought (whether in the form of moral reflection, scientific knowledge, political analysis, etc.)»10. Its descriptive aim, therefore, is to interrogate the conditions of possibility of problematic historical formations, though without any concern for how they actually came into existence. On the other hand, genealogy M. Foucault, Problematics, in Foucault Live. Collected Interviews, 1961-1984, ed. S. Lotringer, Semiotext(e), New York 1996, pp. 416-422, p. 421. 5 See for instance B. Han[-Pile], Foucault’s Critical Project, trans. E. Pile, Stanford University Press, Stanford (CA) 2002, p. 1 and T. May, The Philosophy of Foucault, Acumen, Chesham 2006, p. 107. 6 M. Foucault, Fearless Speech, p. 171. 7 C. Koopman, Genealogy as Critique, Indiana University Press, Bloomington 2013, especially p. 45. 8 See most notoriously J. Habermas, The Philosophical Discourse of Modernity, trans. F. Lawrence, MIT Press, Cambridge (MA) 1987 and more recently E. Paras, Foucault 2.0. Beyond Power and Knowledge, Other Press, New York 2006. 9 A.I. Davidson, Archaeology, Genealogy, Ethics, in D. Hoy (ed.), Foucault. A Critical Reader, Blackwell, Malden 1991, pp. 221-233, p. 227. 10 M. Foucault, The Concern for Truth, p. 257. 4


138 Giovanni Maria Mascaretti compensates for this lack by investigating the historical development of problematizations «out of the practices and modifications undergone by the latter»11, namely in the context of a structural enmeshing of relations of power and systems of truth. Indeed, genealogy tracks the contingent Entstehung (provenance) and Herkunft (emergence) of problematizations within what Foucault himself calls “regime of truth”, i.e. within the general political-economic matrix regulating the circular relation of mutual reinforcement between modalities of power and types of knowledge12. Hence, in Davidson’s brief formulation, for Foucault «genealogy does not so much displace archaeology as widen the kind of analysis to be pursued»13. By making visible complex networks of coproduced problems and solutions, then, archaeology and genealogy converge in the attempt to show their contingent, fragmented and heterogeneous development, thus disclosing the different modes in which subjectivity has been socially and culturally constituted in the course of history up to the modern concept of the self. As a result, from the archaeo-genealogical perspective problematizations must be firstly understood as the proper objects of the history of thought. Foucault’s critical interrogation engages certain historical practices, rules of action or styles of self-government only insofar as they have posed an issue or raised a question, while trying to provide potential answers to the problems generated by the ineffectiveness of previous practices. In this respect, far from being «the creation by discourse of an object that doesn’t exist»14, problematization indicates simultaneously the conditions of possibility of a specific historical configuration, the intricate set of discursive and extra-discursive practices at the basis of its production (what Foucault calls the “apparatus”), and the manner in which human beings’ subjectivity is objectively, discursively and governmentally engaged with such a process and its products (technologies of power/“techniques of the self ”): «This development of a given into a question, this transformation of a group of obstacles and difficulties M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 2, p. 12. See M. Foucault, History of Sexuality, Volume 1. An Introduction (The Will to Know), trans. R. Hurley, Pantheon Books, New York 1978, p. 98 and M. Foucault, Discipline and Punish. The Birth of the Prison, trans. A. Sheridan, Vintage Books, New York 1997, p. 29. 13 A.I. Davidson, Archaeology, Genealogy, Ethics, p. 227. 14 M. Foucault, The Concern for Truth, p. 257. 11 12


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into problems to which the diverse solutions will attempt to produce a response, this is what constitutes the point of problematization and the specific work of thought»15. However, this dimension of problematization as object of inquiry names just one side of Foucault’s critical project: indeed, while it is concerned with the analysis of «the problematizations through which being offers itself to be, necessarily, thought»16, it further problematizes the seemingly necessary character of the practices that have been produced on their basis, whereby problematization itself assumes the verbal meaning of an act of critical interrogation: «The role of an intellectual […] is, through the analyses that he carries out, in his own field, to question […] what is postulated as self-evident, to disturb people’s mental habits, […] to dissipate what is familiar and accepted, to reexamine rules and institutions and on the basis of this reproblematization […] to participate in the formation of a political will […]»17. As an activity of inquiry, problematization brings to light the problems that have triggered the development of particular practices, while simultaneously interrogating the way such problematics persistently condition our way of constituting and representing ourselves. This means that the objective of Foucault’s archaeo-genealogical investigations is not only to describe historical problematizations, but also to unmask and challenge them by questioning the inevitability and rational necessity of the practices, institutions, techniques and functions that have been construed as their responses. To put it differently, by unfreezing the problematizations frozen in sedimented, ossified practices and technologies Foucault strips the latter of their familiarity and naturalness, thus opening the theoretical and effective space for experimentally imagining new possibilities of relating to ourselves and to others. In sum, problematization denotes the two sides in which Foucault’s critical project is articulated: on the one hand, posing itself at the intersection of different practical vectors, it represents a contingent and anonymous regime of veridiction that determines the subject’s forms of experience (problematization as object of critical inquiry). On the M. Foucault, Polemics, Politics, Problemizations. An Interview, in M. Foucault, The Foucault Reader, ed. P. Rabinow, Pantheon Books, New York 1984, pp. 381-390, p. 389, text amended. 16 M. Foucault, The History of Sexuality, vol. 2, p. 10. 17 M. Foucault, The Concern for Truth, p. 265, emphasis added. 15


140 Giovanni Maria Mascaretti other hand, it configures itself as a kind of reflexivity implying a certain relation to oneself, whereby the subject is prompted to question his adherence to this very same subject(iviz)ing apparatus through the test [mise à l’épreuve] of the alternative possibilities of self-constitution freed by the critical activity of thought itself (problematization as a verbal act of inquiry). Parrhesia as Ethical Distance Now, I shall contend that what is at stake for Foucault is not so much the elaboration of a coherent account of these two sides as the explanation of the passage from one to the other. While the existing secondary literature leaves this issue largely unexplored, here I shall show that such an exposition is provided by Foucault’s later reflections on the notion of parrhesia18, which «apparaît, rétrospectivement, comme la formule même des problématisations foucaldiennes»19. More specifically, I shall argue that, as an act of critical inquiry, problematisation finds its condition of possibility in what Foucault himself identifies as the parrhesiastic relationship between subject and truth. Indeed, as a form of askesis demanding self-governance, orientation to truth and stylization of one’s existence, I shall maintain that for Foucault parrhesia is a practice of care for oneself as an ethopoietic work of self-transformation, which can be effectively deployed in resistance to the dangerous intensification of power/knowledge relations. This is illustrated by the fact that the most-up-to date analysis of Foucault’s methodology of problematization, namely Koopman’s Genealogy as Critique, fails to offer almost any reference to the notion of parrhesia. A noteworthy exception to this trend is represented by E. McGushin, Foucault’s Askesis. An Introduction to Philosophical Life, Northwestern University Press, Evanston 2007. However, the latter’s unitarian reconstruction of Foucault’s earlier works in light of his later ones tends to underestimate the theoretical shift determined by Foucault’s reflections on the notion of parrhesia, while his analysis of Foucault’s notion of problematization often misses the tension between the two aforementioned sides of Foucault’s critical project (see e.g. pp. 15-18 and p. 287). 19 F. Rambeau, La critique, un dire-vrai, in «Cahiers Philosophiques», n° 130 (2012), pp. 29-38, p. 30. Although he correctly points out the centrality of parrhesia for the articulation of the passage from the first side of Foucault’s critical project to the second one, Rambeau surprisingly fails to accurately clarify how this very same passage actually takes shape. 18


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At the beginning of The Courage of Truth, Foucault offers a diverse retrospective description of his whole itinerary that might help to elucidate how the aforementioned passage is articulated. Indeed, he holds that the relationship between subject and truth at the centre of his inquiries can be explored along two distinct but complementary axes, namely those of epistemological structures [structures épistemologiques] and of alethurgic forms [formes aléthurgiques]. The former refers to «the specific structures of those discourses which claim to be and are accepted as true discourse»20, whose anonymous network of functions and rules delineates the regime the individual has to abide by if he is to acquire a subject position. But since discursive formations are always intermeshed with power relations, it seems legitimate to widen Foucault’s characterization of these structures. As a result, they end up representing so many apparatuses of power/knowledge in which truth distributes the various functions that constitute the subject as such21. However, contrary to what his critics have suggested, for Foucault such deployments are less inalterable and stable than it might appear at first glance. Indeed, as it is already clear in The Archaeology of Knowledge and in his works of the 1970s, every form of subjec(tiva)tion entails the creation of a series of tensions, resistances and instabilities which might eventually question the cohesion of these very same apparatuses. However, it is only with Foucault’s investigations of the ethical problematization of the subject in the ancient Greek-Roman world that this resistive dimension is redefined in terms of a new relationship between subject and truth22. As Foucault already explains during the first lectures of his 1982 course M. Foucault, The Courage of Truth (The Government of Self and Others II). Lectures at the Collège de France. 1983-1984, eds. A.I. Davidson, F. Gros, F. Ewald and A. Fontana, trans. G. Burchell, Palgrave Mcmillan, Basingstoke 2011, p. 2. 21 For an analogous remark see P. Cesaroni, Verità e vita. La filosofia in Il coraggio della verità, in P. Cesaroni and S. Chignola (eds.), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1981-1984), Ombre Corte, Verona 2013, pp. 132-160, p. 139. 22 Although their analysis exceeds the scope of this article, precedents suggesting developments in this direction can be traced in Foucault’s discussion of the figures of the hysteric and of the possessed in his lectures courses of 1973-1974 (M. Foucault, Psychiatric Power. Lectures at the Collège de France. 1973-1974, eds. A.I. Davidson, J. Lagrange, F. Ewald and A. Fontana, trans. G. Burchell, Palgrave Mcmillan, Basingstoke 2006) and 1974-1975 (M. Foucault, Abnormal. Lectures at the Collège de France. 1974-1975, eds. A.I. Davidson, V. Marchetti, A. Salomoni, F. Ewald and A. Fontana, trans. G. Burchell, Verso, London and New York 2003). 20


142 Giovanni Maria Mascaretti entitled The Hermeneutics of the Subject, only the study of the alethurgic forms circulating in antiquity can bring to light a different conception of truth, one that – far from being the mere outcome of the ruling power – enables the subject to detach himself from the prevailing regimes of veridiction, presenting «himself to himself and to others as someone who tells the truth»23. As a matter of fact, for Foucault what the analysis of alethurgic forms reveals are «the conditions and forms of the type of act by which the subject manifests himself when speaking the truth», that is to say «thinks of himself and is recognized by others as speaking the truth»24. Now, in order to clarify what Foucault means by this manifestation, I shall turn to his account of the notion of parrhesia, the alethurgic figure in which such a manifestation of the subject to himself comes more evidently to the fore25. Generally speaking, for a discursive act to be regarded as parrhesiastic Foucault thinks it has to satisfy four conditions26: 1) it has to tell the truth without any concealment or reserve. Indeed, parrhesia indicates not only the attitude of speaking honestly and frankly both to oneself and others, but also the coincidence of what one says with the truth. Parrhesia, he writes, might be regarded as the demand «to say what has to be said, what we want to say, what we think ought to be said because it is necessary, useful, and true»27. 2) The discursive act must show the commitment of speaker to the truth spoken, which therefore represents her own conviction. In parrhesia the speaker manifests himself or reveals his self, as well as his stance towards the world with respect to a determined problematic. 3) Distinguishing itself both from the rational, demonstrative structure of discourse and from the captivating devices of sophistry, it must represent that peculiar form of truth-telling in which one engages at his own risk. As a matter of fact, M. Foucault, The Courage of Truth, p. 3. Ibidem, pp. 2-3. 25 Alongside parrhesia, Foucault identifies three other alethurgic forms, i.e. prophecy, wisdom and know-how expertise [tekhne]. The space at my disposal here does not allow me to delve into their respective characteristics and mutual relations, for which see ibidem, especially pp. 15-26. 26 Ibidem, pp. 10-13. 27 M. Foucault, The Hermeneutics of the Self. Lectures at the Collège de France. 19811982, eds. A.I. Davidson, F. Gros, F. Ewald and A. Fontana, trans. G. Burchell, Palgrave Mcmillan, Basingstoke 2005, p. 366. 23 24


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 143

parrhesia configures itself as a perilous act, whereby the listener’s way of living is put into question by the parrhesiastes’ truth claim, while the latter courageously faces the possibility of being punished for what he has said. Hence for Foucault courage is a constitutive feature of parrhesia, its classical example being that of the confrontation between Plato and Dionysius, namely that of «a man [who] stands up to a tyrant and tells him the truth»28 of his injustice. 4) the risk involved in parrhesia must be reduced by what Foucault calls the «parrhesiastic game», i.e. a tacit pact between the speaker and listener according to which the latter shows his willingness to listen to the likely unwelcome words of the parrhesiastes. In this sense, for Foucault a parrhesiastic act is a public, courageous act of veridiction, which demands a binding commitment of the speaker to the utterance of his personal conviction and, at the same time, entails the danger of a violent, negative reaction of the addressee up against such a potentially undesirable and offensive enunciation: «So, in two words, parrhesia is the courage of the truth in the person who speaks and who, regardless of everything, takes the risk of telling the whole truth that he thinks, but it is also the interlocutor’s courage in agreeing to accept the hurtful truth that he hears»29. Contrary to the regulated and predetermined effect of a performative utterance, then, in parrhesia «the irruption of the true discourse determines an open situation, or rather opens the situation and makes possible effects which are, precisely, not known. Parrhesia does not produce a codified effect; it opens up an unspecified risk»30. Far from being confined within the discursive constraints of the existing power/knowledge regime, for Foucault parrhesia is «an irruptive event»31 endowed with a highly subversive force, whose original political function «is precisely to be able to limit the power of the masters»32. As a result, among the M. Foucault, The Government of Self and Others. Lectures at the Collège de France. 19821983, eds. A.I. Davidson, F. Gros, F. Ewald and A. Fontana, trans. G. Burchell, Palgrave Mcmillan, Basingstoke 2010, p. 50. 29 M. Foucault, The Courage of Truth, p. 13. Although he strangely fails to provide any examination of the last abovementioned requirement, on parrhesia’s conditions see F. Gros, La parrhêsia chez Foucault (1982-1984), in F. Gros (ed.), Foucault. Le courage de la vérité, PUF, Paris 2002, pp. 155-166. 30 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 62. 31 Ibidem, p. 63. 32 Ibidem, p. 161. 28


144 Giovanni Maria Mascaretti alethurgic forms circulating in ancient societies, Foucault conceives of parrhesia as a risky, evental practice that introduces alternative forms of truth within the present regime of political power, thus disrupting the consensual and domineering logic of its dispositif of veridiction. As in the case of Foucault’s own historico-critical method of fictioning33, then, the parrhesiastes’ oppositional and partisan discourse confronts the authority of the all-powerful subject with a truth that – by unsettling the present reality – might bring about transformative effects in the future. In other terms, by countering the hegemonic, objectifying regimes of power-produced truth, the parrhesiastes calls on a sagittal34 reading of truth, according to which the latter «permits a change, a transformation of the relationship we have with ourselves and with the world where, up to then, we had seen ourselves as being without problems – in short, a transformation of the relationship we have with our knowledge»35. This means that, beyond being oriented towards others, for Foucault parrhesia is first and foremost a reflexive practice, one in which the concern for truth entails a radical modification of the relationship the self has to itself: When you accept the parrhesiastic game in which your own life is exposed, you are taking up a specific relationship to yourself: you risk death to tell the truth instead of reposing in the security of a life where the truth goes unspoken. Of course, the threat of death comes from the Other, and thereby requires a relationship to the Other. But the parrhesiastes primarily chooses a specific relationship to himself: he prefers himself as a truth-teller rather than as a living being who is false to himself36. See Z. Simpson, The Truths We Tell Ourselves. Foucault on Parrhesia, in «Foucault Studies», no. 13 (2012), pp. 99-115. For an excellent reconstruction of the Weberian origins of Foucault’s histoire fiction see S. Chignola, “Phantasiebildern”/“histoire fiction”. Weber, Foucault, in P. Cesaroni and S. Chignola (eds.), La forza del vero, pp. 30-70. 34 See S. Chignola, L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault, in S. Chignola (ed.), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Ombre Corte, Verona 2006, pp. 37-70 and P. Cesaroni, Verità e vita, p. 142. 35 M. Foucault, Interview with Michel Foucault, in M. Foucault, Power. Essential Works of Foucault 1954-1984, Vol. 3, ed. P. Rabinow, New Press, New York 2000, pp. 239-297, p. 244. 36 M. Foucault, Fearless Speech, p. 17. 33


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 145

As the «meeting point of the obligation to speak the truth, procedures and techniques of governmentality, and the constitution of the relationship to self»37, parrhesia reveals the difficult, hazardous process of self-transformation one has to go through in order to tell the truth in the game of power relations. In this sense, parrhesia has an immediate bearing on the subject’s own ethical and political self-constitution. More precisely, in his constant relation to the other this bold act of veridiction is characterized both by a moment of conversion and a movement of detachment: on the one hand, it brings the subject’s mode of living into focus, disclosing the intricate web of power relations in which he is enmeshed. On the other hand, thanks to this process of visualization, it enables the subject to withdraw from himself in order to call his mode of subjec(tiva)tion into question, manifesting the latter’s problematic nature and consequently its amenability to change. Parrhesia’s alethurgic dimension, therefore, allows the subject to split the core of his own self, so that he can resist what has been made of him by the predominant structures of veridiction and by the existing institutions in charge of truth. Indeed, by shattering the unity of the political scene through the introduction of an antagonistic incongruence, parrhesia is the light perspective necessary «to render visible what precisely is visible»38, to create the «ethical distance»39 that enables the subject’s problematization of his unquestioned modes of subjectivation as well as their subsequent, inventive modification: For as he is, the subject is not capable of truth. […] It follows that from this point of view there can be no truth without a conversion or a transformation of the subject … [and] once access to the truth has really been opened up, it produces [transfigurative] effects … effects of the truth on the subject […] In short, I think we can say that in and of itself an act of knowledge could never give access to truth unless it was […] doubled, and completed by a certain transformation of the subject; not of the individual, but of the subject himself in his being as subject40. M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 45. M. Foucault, La philosophie analytique de la politique, in Dits et Écrits II, 1976-1988, ed. D. Defert and F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 534-551, p. 540 (my translation). 39 F. Gros, Course Context, in M. Foucault, The Hermeneutics of the Self, p. 540. 40 M. Foucault, The Hermeneutics of the Self, p. 15. 37 38


146 Giovanni Maria Mascaretti To put it differently, in his later works of the 1980s Foucault conceives of the lines of rupture that mark the prevailing power/knowledge regimes in terms of a parrhesiastic conception of truth, which figures as the condition of possibility for exposing the ethical margin between the social order of identifications and the capacity of the subject to problematize the social and discursive functions he has individually assumed, i.e. to courageously transform the social practices, resources and “styles” of his own culture in new and unexpected ways41. Far from remaining at the mere level of words, then, parrhesia represents the practice through which the subject can modify himself in virtue of his access to the truth, which means that parrhesia is fundamentally a form of life, a mode of behaviour, that discloses «who you are […] your present relation to the truth»42, what Foucault himself calls “askesis”. Indeed, the latter defines «a set of [spiritual] practices by which one can acquire, assimilate, and transform truth into a permanent principle of action. Aletheia becomes ethos»43. For Foucault, the parrhesiastes is not merely the one who speaks the truth within a definite discourse, but also the one who embodies that truth in his style of existence. As a way of «binding oneself to oneself in the statement of the truth»44, parrhesia brings the subject’s ethos into play, such that the parrhesiastes’ self-proclaimed truth demands a harmonious connection between his words [logoi] and his actions [erga]: Actually, as a verbal act of inquiry, problematization seems to fulfil each of the four conditions defining the parrhesiastic utterance: 1) problematization tells the truth about a familiar and silent set of practices disclosing it as the response to a particular historically situated problematic; 2) problematization expresses the conviction of the speaker in such a way that the fact that it is his personal opinion is made clear; 3) problematization entails a certain risk (whose maximal form is the risk of one’s own life) concerning the relationship between the listener and the person who speaks, as the latter says something «different from what the majority believes» (Foucault, Fearless Speech, p. 15), thus potentially arousing the negative reaction of his addressee; 4) problematization can occur only where the speaker is effectively allowed to direct his speech to his listener, i.e. where the listener himself shows his willingness to hear the truth told. 42 M. Foucault, Fearless Speech, p. 103. 43 M. Foucault, Technologies of the Self, in Ethics. Subjectivity and Truth. The Essential Works of Foucault 1954-1984, Vol. 1, ed. P. Rabinow, The New York Press, New York 1997, pp. 223-251, p. 239. 44 M. Foucault, The Government of Self and Others, p. 66. 41


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 147 Parrhesia is free speech, released from the rules, freed from rhetorical procedures, in that it must, in one respect of course, adapt itself to the situation, to the occasion and to the particularities of the auditor. But above all and fundamentally, on the side of the person who utters it, it is speech that is equivalent to commitment, to a bond, and which establishes a certain pact between the subject of enunciation and the subject of conduct. The subject who speaks commits himself. At the very moment he says “I speak the truth”, he commits himself to do what he says and to be the subject of conduct who conforms in every respect to the truth he expresses45.

Hence, the parrhesiastic game ends up designating an experience in which the parrhesiastes’ frank words are tightly connected to a public engagement ensuring the coincidence of his faith in the truth with an open, risky life [bios] – a mode of living that is exemplar in its irreducibility to the social order of identitarian domination46. As a matter of fact, the parrhesiastes is someone who excels at his modal act of veridiction before «le corps des citoyens», thus acquiring a rare exemplarity whose truth can always be verified by submitting his words to the test of his life: Parrhesia is a kind of verbal activity where the speaker has a specific relation to truth through frankness, a certain relationship to his own life through danger, a certain type of relation to himself or other people through criticism (self-criticism or criticism of other people), and a specific relation to moral law through freedom and duty. More precisely, parrhesia is a verbal activity in which a speaker expresses his personal relationship to truth, and risks his life because he recognizes truth-telling as a duty to improve or help other people (as well as himself). In parrhesia the speaker uses his freedom and chooses frankness instead of persuasion, truth instead of falsehood or silence, the risk of death instead of life and security, criticism instead of flattery, and moral duty instead of self-interest and moral apathy47.

To summarise the foregoing, the notion of parrhesia appears to be crucial for Foucault’s understanding of those ancient practices and technologies that he himself summons under the label of “care of the self ”. Since taking care of truth is the indispensable precondition for taking care of M. Foucault, The Hermeneutics of the Self, p. 406. Ibidem, p. 407. 47 M. Foucault, Fearless Speech, pp. 19-20. 45 46


148 Giovanni Maria Mascaretti oneself48, parrhesia as a distinct modality of truth-telling comes to figure as an ethopoietic practice of self-fashioning aimed at the acquisition of the self-knowledge and self-mastery necessary for the proper government of oneself and others. In other terms, bringing to light the structural instability of governmental relations, parrhesia delineates a potential practice of ethical differentiation that is not only critical and insurgent but also creative, oriented, as it were, to fashioning new political subjectivities capable of the obligations of truth and freedom. “Take Care of Yourself ”: Socrates’ Parrhesiastic Imperative As I shall show in the present section, for Foucault such a conception of parrhesia finds its original and fundamental exemplum in the figure of Socrates, who in his view represents the founder of parrhesia as an ethical (and political) practice of self-care. Indeed, as is clearly witnessed by Plato’s Apology, before the crisis of political parrhesia in the context of 5th century B.C. Athenian democracy Socrates stands out as the one who initiates a new experience of the self by connecting the truthful discourse of parrhesia to the practice of caring for oneself with the purpose of desubjectifying ethical and political subjects, namely of questioning the way they have been constituted by the pressure of the “general opinion” as well as the flattery of rhetors and sophists to which democracy itself has fallen prey. According to the broad historical reconstruction of Foucault’s 1983 course, parrhesia is first of all a political notion, which finds its original condition of possibility in the right of speech [isegoria] grated to every free citizen in front of the assembly on the basis of the egalitarian constitution of the Athenian democracy [politeia]. However, Foucault remarks that politeia and isegoria are necessary but not sufficient conditions for parrhesia to occur. Indeed, what enables someone to courageously commit his true speech in defence of his point of view on the common interest of the city is dunasteia, namely the force of ethical differentiation which allows a subject to act upon himself in order to exercise his ascendency upon others. Far from undermining the city’s democracy, in Foucault’s view the fragile tension between these two heterogeneous regimes ini48

M. Foucault, The Concern for Truth, p. 264.


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 149

tially guarantees its correct exercise, as testified by the emblematic figure of Pericles. Nonetheless, he shows us that the discrepancy between the egalitarian aspect of democracy and the necessity to choose among the citizens those who are able to employ parrhesia for the true benefit of the city lets the latter progressively emerge as a problematic issue. Indeed, the submersion of parrhesia under isegoria contributes to the crisis of political parrhesia and the concomitant demagogic relapse of democracy, eventually determining the very same crisis of the Athenian polis between the V and IV century B.C. In this context, political parrhesia’s ethical differentiation comes to be eroded by the deceitful game of opinions and interests, while democracy itself turns into a structure of non-differentiation that fosters individuals’ self-neglect and attachment to the will to power through the pressure of the general opinion and the blandishments of rhetoric. The restoration of the capacity of ethical differentiation, then, presents itself to Foucault’s eyes as the indispensable condition in order for truth to play a renewed role in the political sphere. However, since the latter is hopelessly closed off as an arena for truth-telling, parrhesia’s goal and target have to change: from a strictly political practice parrhesia has to become an ethical one: «a different type of veridiction, […], which will be defined not in relation to the city (the polis) but to individuals’ ways of doing things, being, and conducting themselves (ethos), and also to their formation as moral subjects»49. Now, for Foucault it is exactly in Socrates’ philosophical activity that such a shift takes shape. As a matter of fact, the latter founds a mode of truth-telling which has as its problematizing aim no longer the well-being of the city but rather the care of the self, i.e. the ethical dimension of the subject’s self-government. Nonetheless, for Foucault this does not mean that Socratic parrhesia is apolitical. Rather, as a form of ethical differentiation, the latter does pose itself in a relationship of exteriority with regards to politics but only to intervene as the mediation which enables truth-telling to deploy its effects within the political field: in short, politics understood as an ethics50. In this sense, the importance of Plato’s Apology for Foucault’s interpretation of the novelty introduced by Socratic parrhesia can hardly be 49 50

p. 375.

M. Foucault, The Courage of Truth, p. 33. M. Foucault, Politics and Ethics. An Interview, in The Foucault Reader, pp. 373-380,


150 Giovanni Maria Mascaretti overestimated. From the beginning of the text, Socrates identifies in his accusers’ rhetorical use of language the very source of the factor that has triggered the crisis of democracy in the city of Athens, i.e. self-forgetting or self-neglect51. Ex contrario, he conceives of parrhesia as a form of frank and unembellished speech that recollects who one truly is through the courageous provocation to be concerned about the care of oneself. Indeed, Socrates perceives the political scene of Athens as a structure of non-differentiation, which is to say as an obstacle to take up a deliberate and free relationship of ethical self-government. Hence, following the voice of his daemon, Socrates refuses to engage in the established parrhesiastic game and to act as a political parrhesiastes52. In other terms, the daemon’s warning prevents Socrates from engaging in the political field in order to preserve him for the task he has received from the god of Delphi, namely to care for himself and to employ a completely different order of discourse to care for the care of the others. Such a task takes the form of a continuous confrontation and examination directed at establishing whether the words of the oracle – according to which nobody is wiser that Socrates – are actually true. By inquiring into the just way of living, this confrontation eventually leads him to reveal the ignorance and self-forgetfulness of his fellow citizens, which in turn allows him to acquire the truth about himself: paradoxically, he becomes aware of being wiser than any other man because he knows that he knows nothing. Thus, Socrates can finally grasp the meaning of the oracle’s apparently unsolvable riddle: the god has assigned him the mission of watching over others and taking care of them, of testing everyone in such a way that each one recognizes his own self-neglect and is encouraged «to take care, not of his wealth, reputation, honours, and offices, but of himself, that is to say, of his reason, of truth, and of his soul (phronesis, aletheia, psykhe)»53. In this way, as the means through which one can shape himself as a moral subject before taking on public appointments, for Foucault Socrates’ philosophical parrhesia is the condition of possibility of an effective and just political M. Foucault, The Courage of Truth, p. 75. Even in the two recollected occasions where he behaves as such, Socrates courageously puts his life at risk only out of care for himself, in the refusal to commit an inauthentic and unjust political act by conforming to the will of the majority. See ibidem, pp. 78-80. 53 Ibidem, p. 86, translation amended. 51

52


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 151

life, since it loosens one from the distorted and pernicious self-interpretation constantly backed up by the hegemonic political practice. Indeed, by problematizing the negligent and deficient experience the private individual has of himself as an ethical and political agent, it does not aim to convey a determined set of truthful doctrines meant to be fundamental to conducting one’s own life, but rather – at risk and danger of himself – it strives to detach the subject from the self-forgetting forms of control and domination he has incorporated through the levelling pressure of the general opinion and the diverted discourse of rhetoric, thus encouraging a profound transformation of one’s own style of existence: «On the god’s command, he [Socrates] will reply by exhorting those he meets not to care about honour, wealth, or glory, but to care about themselves. […] This is philosophical parrhesia, and this test of oneself and others is useful to the city, since by being the parrhesiastes within the city in this way [Socrates] prevents the city from sleeping»54. Within the horizon defined by the problematization of democratic parrhesia, therefore, Socratic parrhesia serves as a critical practice of resistance to the domination harboured in the self-neglecting dispositif of power and knowledge put into existence as an attempt to give a response to this very same problematization. Against the art of governing constituted by the absorbing and controlling technology of rhetoric, Socrates’ philosophical parrhesia puts the domineering political practice into question in order to disconnect the problem of political life from the dangerously rigidified solution it has received, thus opening it up to a radically different reply, namely that of a courageous practice of differentiating working upon the self aimed at fashioning ethically and politically responsible subjects. As is even more clearly shown in the Platonic dialogue of Laches, this means that the subject is called to take care of himself, to give an account not of the divine being of his soul but rather of his own life [bios] in its relationship to the truth [aletheia], a constant account which finds its touchstone in the virtuous harmony between words [logoi] and actions [erga] that distinguishes Socrates as a moral guide to living for anyone willing to listen. This insistence on the centrality of one’s aesthetics of existence reaches its acme in the last moments of Socrates’ life as they are described in the great «cycle» of the Apology, the Crito and the Phaedo. Here, through his own death, Socrates ends up embodying the authentic scandal of truth, 54

M. Foucault, The Government of Self and Others, pp. 326-327.


152 Giovanni Maria Mascaretti which is not connected to the transcendent purity of the world of Ideas – as the traditional reading of Platonism suggests – but rather to the exemplarity of his bold existence, whose parrhesiastic saying is unacceptable for the constituted order of the community55. To put it in a nutshell, by taking care of himself through his care for the care of the others, Socrates is the parrhesiastes par excellence, whose courageous assertion of truth breaks the non-differentiating structure of consensus and virtuously reconfigures the political sphere, so affirming his own ethical freedom. Conclusion. Critique as a Philosophical Ethos Foucault’s interest in Socratic philosophical parrhesia is not motivated by purely archaeological reasons. Rather, in this last section, I shall briefly show that Foucault sees in Socrates’ parrhesiatic imperative of taking care of oneself the seminal formulation of the critical function of his own philosophical enterprise56. Despite philosophical parrhesia’s long period of decline due to the colonization of the parrhesiastic engagement by the mechanisms of pastoral and disciplinary power, the Socratic practice of parrhesiastic philosophy re-emerges in the modern era in Kant’s reflections on Aufklärung as a critical ethos aimed at demystifying the dangerous connections between power and truth57. In this sense, Socratic parrhesia as an ethical differentiation endowed with a critical and transformative force seems to provide the seminal inspiration for that line of thought to which Foucault expliSee J. Revel, Passeggiate, piccoli excursus e regimi di storicità, in P. Cesaroni and S. Chignola (eds.), La forza del vero, pp. 161-179, p. 165. 56 On this point, albeit for different reasons, see J. Franěk, Philosophical Parrhesia as Aesthetics of Existence, in «Continental Philosophy Review», vol. 39 (2006), pp. 113-134. Rambeau’s bold claim about the cynic practice of parrhesia being the closest to Foucault’s own philosophy (La critique, un dire-vrai, p. 36) seems to me unfounded. Indeed, while the cynic courage of truth belongs to the punctual and intense class of provocation, Foucault’s courage of truth seems to be more akin to the Socratic idea of a stylistic harmony implying a laborious work of ethical differentiation. I shall leave the accurate analysis of this issue for another occasion. 57 M. Foucault, What is Critique?, in The Politics of Truth, ed. S. Lotringer, Semiotext(e), Los Angeles 2007, pp. 41-81, p. 67 and p. 74. 55


Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique 153

citly aligns his own work58, i.e. “a critical ontology of ourselves”. Indeed, in his late essay What is Enlightenment? Foucault defines the latter in the following way: I shall thus characterize the philosophical ethos appropriate to the critical ontology of ourselves as a historico-practical test of the limits we may go beyond, and thus as work carried out by ourselves upon ourselves as free beings. […] Yet if we are not to settle for the affirmation of the empty dream of freedom, it seems to me that this historico-critical attitude must also be an experimental one. I mean that this work done at the limits of ourselves must, on the one hand, open up a realm of historical inquiry and, on the other, put itself to the test of reality, of contemporary reality, both to grasp the points where change is possible and desirable, and to determine the precise form this change should take59.

Accordingly, Foucault’s own critical history of thought should be best understood as a historical problematization of our present that is diagnostic and ethopoietic at the same time. The complementarity of these two dimensions of Foucault’s critique is confirmed by the double role of his later notion of problematization, which describes both the regimes of veridiction at the centre of his archaeo-genealogical inquiries and the critical activity of thought itself, where the latter indicates the capacity of the subject to relaunch the problem at the basis of certain practices in the attempt to experiment alternative solutions through the creation of new practices, relational modalities, types of values, and styles of existence. Progressively, Foucault comes to recognize that what is stake in the derivation of one side of critique from the other is an inversion of the very meaning of the concept of truth, whereby the latter is no longer the mere outgrowth of power relations but rather the courageous saying of the one who does not hesitate to subordinate his own survival to the risky, ethical challenge of subverting the closed cycle of subjection and subjectivation. For Foucault, this is what defines parrhesia as the public, free practice of truth-telling that enables the subject to resist the games of truth according to which he has been constituted, thus allowing him to engage in a problematizing practice of audacious self-transformation that reshapes the political sphere. Such a practice finds its original expresFoucault, The Government of Self and Others, p. 21. M. Foucault, What is Enlightenment?, in Ethics. Subjectivity and Truth, pp. 303-319, p. 316, text amended. 58 59


154 Giovanni Maria Mascaretti sion in the figure of Socrates as parrhesiastes. Endorsing the task of taking care of himself through the constant care for the care of the others, Socrates enacts a laborious act of ethical differentiation upon himself that enables him to reconnect the courage of truth-telling to the political life of the city, resisting in this way the degeneration of the rhetorical competition and the power of the general opinion that mark the crisis of the Athenian democracy. In conclusion, I think it is this Socratic task that Foucault wants to revive: the task of resisting the forms of individuation imposed on us by power-produced truths. The endeavour of courageously problematizing what we have become in order to invent ourselves otherwise. In sum, the task is to reintroduce the ethical force of truth at the heart of the present. Giovanni Maria Mascaretti University of Essex gmmasc@essex.ac.uk

. Michel Foucault on Problematization, Parrhesia and Critique Focusing on his last courses at the Collège de France, the present paper aims at exploring the strategic role the notion of parrhesia plays in the elaboration of Foucault’s critical project, according to which parrhesia is what enables the passage from the concept of problematization as an archaeo-genealogical target of inquiry to the idea of problematization as a verbal act of investigation. To this end, the article argues that parrhesia is the condition of possibility for the problematization of one’s mode of subjectivation, whereby it comes to describe a transformative practice of resistance against the existing power regimes in charge of truth. After tracing the seminal formulation of such a form of resistance in the Socratic imperative of taking care of oneself, the paper then concludes by briefly pointing to the importance of Socrates’ parrhesiastic philosophy for the development of Foucault’s own critical ethos. Keywords: Parrhesia, Problematization, Critique, Socrates, Resistance, Ethos, Care.



Saggi


Foucault mitologo delle scienze

Per una rilettura de Le parole e le cose Ronan de Calan

Una celebre caricatura di Maurice Henry, apparsa nel luglio 1967 sulla

Quinzaine littéraire, passava in rassegna una nuova tribù: torsi nudi, perizomi, braccialetti alle caviglie e ai polsi, i suoi membri possedevano anche gli attributi di un altro mondo, quello della cultura parigina, a cominciare dagli occhiali con la pesante montatura dell’epoca Pompidou. Da sinistra a destra, seduti, in tailleur, si vedeva Foucault che animava il dibattito, Lacan con il farfallino annodato e il sopracciglio alzato nella sua direzione, Lévi-Strauss perso nelle sue carte, e Barthes pensieroso e forse dubbioso. Divenuta copertina di una storia dello strutturalismo, tale caricatura ha alimentato molti malintesi, a cominciare da quello che consisteva nel pensare che, dall’uno all’altro autore, dall’una all’altra disciplina – filosofia, psicanalisi, antropologia, storia della letteratura –, si incontrasse, in questi anni così produttivi, lo stesso stile di pensiero, di scrittura, deducibile da una medesima parola d’ordine1. Allora, nel fare di Foucault un mitologo delle scienze, e perfino un erede dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, non si rischia di cadere nella stessa caricatura? L’antropologo non aveva espressamente vietato questo parallelismo? Nelle interviste concesse a Didier Eribon, il giudizio di Lévi-Strauss è senza sfumature e senza incertezze: Didier Eribon: Negli anni sessanta e settanta si parlava “dello” strutturalismo come di un fenomeno globale e si faceva sempre una lista di nomi: LéviStrauss, Foucault, Lacan, Barthes… Claude Lévi-Strauss: Questo amalgama senza alcun fondamento mi fa rabbrividire. Non vedo cosa ci sia in comune tra i nomi che lei ha citato. Anzi, lo vedo: sono false somiglianze. Sento di appartenere a una diversa famiglia intellettuale: quella illustrata da Benveniste e Dumézil. Mi sento anche vicino a JeanPierre Vernant e a coloro che lavorano al suo fianco. Foucault ha avuto perfettamente ragione a rifiutare l’assimilazione2. 1 2

F. Dosse, Histoire du structuralisme, 2 volumi, La Découverte, Paris 1991-1992. C. Lévi-Strauss e Didier Eribon, De près et de loin, Odile Jacob, Paris 1998, pp. 104-105.

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 157-175.


158 Ronan de Calan Per chiudere definitivamente questo argomento, non resta che ricordare l’accoglienza prudente, ma piuttosto glaciale riservata all’opera di Foucault nella stessa intervista: La sua opera mi colpisce per la qualità della scrittura – ricordo la sua lezione inaugurale al Collège de France, molto bella dal punto di vista letterario e molto sentita emotivamente. Invece, provo reticenza davanti a un partito preso e che consiste nel ripetere in tutti i modi: attenzione, le cose non sono come credete, ma sono il contrario. Insomma, nell’affermare che quel che è nero è bianco, e che quello che è bianco è nero. Questo mi illumina sulle opinioni dell’autore, ma non mi insegna nulla di più: un positivo e un negativo fotografico racchiudono la stessa quantità di informazioni. Ho anche l’impressione – non cercherò di giustificarla senza averla prima verificata – che Foucault si prenda qualche libertà di troppo con la cronologia. Come se sapesse fin dall’inizio cosa vuole dimostrare e cercasse poi su cosa basare la propria tesi. Assunto da uno storico delle idee, questo atteggiamento mi infastidisce. Forse mi sbaglio. Ma questo è un punto sul quale solamente gli storici di mestiere possono pronunciarsi3.

Rovesciamento sistematico delle problematiche classiche, infedeltà alla storia: sembrerebbe per lo meno assurdo andare a cercare un discepolo in un soggetto così cattivo. Tuttavia, questo giudizio non ci deve intimidire: in primo luogo, perché un autore può rivendicare una filiazione anche senza l’avvallo del proprio padre putativo; in secondo luogo, perché, indipendentemente dalle questioni d’identificazione, un metodo può essere esportato, per sua stessa natura, da un luogo all’altro, da un’opera all’altra, con o senza l’accordo dei suoi autori. Ora, per il problema che ci riguarda, mettere l’accento sull’applicazione del metodo di una disciplina, la mitologia comparata, così come è stata praticata da Lévi-Strauss, a un oggetto che non le è necessariamente appropriato, o al quale essa non è adatta, cioè la scienza, può semplicemente aiutarci nella rilettura de Le parole e le cose – e anche a percepire (è lo scopo del presente saggio) ciò che non funziona in questo libro. Perché mi pare che in particolar modo questa opera di Foucault abbia lasciato una tensione irrisolta, che ne spiega, al contempo, il grande interesse storico e il carattere datato: una tensione che si crea tra l’intenzione filosofica dell’autore, il suo metodo, e la scelta dei suoi oggetti. 3

Ibidem.


Foucault mitologo delle scienze 159

La tensione: una ricezione filosofica Possiamo trovare molte espressioni di questa particolare tensione tra intenzione filosofica, metodo e scelta degli oggetti fin dalle prime, numerose reazioni al libro di Foucault che, come è noto, ottenne un successo straordinario per un libro di filosofia. Ora, una di queste reazioni ha ricevuto poca attenzione, perché, pur provenendo da un universitario e non da un giornalista, non è presentata da una testa coronata: è la reazione di Bernard Balan. Bernard Balan è un allievo di Canguilhem ed è contemporaneo di Foucault (è nato nel 1930, e dunque ha quattro anni in meno). Quando Foucault pubblica Le parole e le cose, Balan sta lavorando a una tesi di epistemologia storica che verte sulla formazione e la storia del concetto di omologia in anatomia comparata, tesi la cui redazione sarà ritardata a causa di gravi problemi di salute, che costringeranno Balan al ricovero in un sanatorio per parecchi anni; così, la tesi sarà pubblicata, in forma di libro, molto più tardi, nel 1979, e questo ritardo di quasi quindici anni condannerà praticamente il suo autore al silenzio. Quando Balan interviene, nel 1968, sulle colonne della rivista La Pensée, non è dunque un canuto rappresentante della vecchia Sorbona che, con il proprio corpo e la propria autorità, fa da baluardo contro l’entrata in scena di un giovane sfidante; è lui stesso un giovane sfidante nell’ambito dell’epistemologia storica. E il suo giudizio ha la freschezza, e anche l’ingiustizia, degli sfidanti. Balan giunge alla seguente conclusione, dalla quale possiamo cominciare: Se si fa de Le parole e le cose l’occasione per una polemica, tale polemica deve condurre all’approfondimento di alcune parti del libro; ma essa mostrerà anche che il metodo è vano. Di contro, se si cerca di applicare sistematicamente il metodo, si compirà un lavoro di falsificazione. Le parole e le cose non può servire come opera di riferimento, per esempio4.

Qual è la tensione qui evidenziata da Balan? È quella che, in realtà, ci interessa, e che passa tra un’intenzione filosofica del testo, chiaramente polemica e che, del resto, ha innescato la polemica, e un metodo che non può davvero realizzare questa intenzione, se non tradendo i propri oggetti. PerB. Balan, Entretiens sur Foucault. Deuxième entretien, in «La pensée», n° 137 (1968), ora in Les mots et les choses de Michel Foucault. Regards critiques 1966-1968, IMEC/Presses universitaires de Caen, Caen 2009, p. 363. 4


160 Ronan de Calan ché il metodo non può realizzare l’intenzione dell’opera? Perché genera una falsificazione: affronta le scienze con gli strumenti intellettuali con i quali si dovrebbe, piuttosto, pensare la magia (e, potremmo aggiungere: i miti). Il problema principale del libro si incontra proprio qui: il metodo archeologico non implica forse una radicale falsificazione della storia delle scienze, insieme al misconoscimento della natura dell’impresa scientifica, nella misura in cui la scienza si è svincolata dalla magia rifiutando di rinchiudersi all’interno di una teoria filosofica costruita a partire dal problema del linguaggio e che tende, a priori, a mettere limiti alla possibilità di conoscere, sopravvalutando le capacità del linguaggio? La magia e la filosofia, dato che dipendono dalle strutture formali e arbitrarie del linguaggio, si prestano forse a un’analisi integralmente archeologica, che sveli il carattere illusorio di un divenire a favore di una successione di rotture, rendendo ciò che precede impensabile nel contesto di ciò che segue, e tuttavia necessario nel contesto contemporaneo. Si può dubitare che lo stesso valga per la scienza, nella misura in cui essa incontra la realtà delle cose, al di là delle forme verbali, delle determinazioni del rapporto tra le parole e le cose, e delle condizioni della percezione – e questa realtà racchiude una serietà di fronte alla quale la classificazione cinese inventata da Borges potrebbe essere ridotta alla sua funzione di farsa, di fronte alla quale è necessaria una sensibilità estremamente sofisticata per provare un qualsiasi malessere5.

Lo si vede bene: ciò che Balan rimprovera a Foucault, è l’aver approcciato la scienza limitandosi alle formazioni discorsive e ai rapporti tumultuosi che si instaurano, nel discorso, tra le parole e le cose, formazioni discorsive e rapporti che sono determinanti nell’esame della magia così come della filosofia, ma anche, e soprattutto si potrebbe aggiungere, nell’esame dei miti, come è dimostrato magistralmente da Lévi-Strauss. Egli, infatti, ricordava costantemente fino a che punto la prova empirica di un mito fosse secondaria, avesse poco peso, rispetto alle ragioni della sua determinazione interna e alle operazioni intellettuali che racchiude. Smentito dall’esperienza, un modello mitico non scompare puramente e semplicemente: non cambia nemmeno per avvicinarsi all’esperienza. Esso continua a vivere la sua esistenza propria e, se si trasforma, questa trasformazione soddisfa non le condizioni dell’esperienza, ma quelle dello spirito, indipendenti dalle prime6. 5 6

Ivi, pp. 350-351. C. Lévi-Strauss, Structuralisme et écologie, in Le regard éloigné, Plon, Paris 1983, p. 157.


Foucault mitologo delle scienze 161

Ora, ricorda Balan, accanto alle condizioni intellettuali, ci sono le cose stesse sperimentate dalle scienze, per esempio nei laboratori, che impongono tutt’altra temporalità a questa pratica specifica, tutt’altra storia – quella che tenta di produrre l’epistemologia storica, in particolare nella tradizione francese inaugurata da Bachelard et Canguilhem. È vero, tuttavia, che lo scienziato è il costruttore di un discorso attraverso il quale esprime ciò che ha colto di intelligibile nelle cose. Ed è un dato di fatto che la determinazione filosofica del rapporto tra le parole e le cose condizioni, positivamente e negativamente, la materialità del suo lavoro e l’elaborazione dei risultati ottenuti; ma, per lo studioso, esiste anche un laboratorio, e poiché il laboratorio non è una frase, attraverso di esso si introducono, nel pensiero, leggi che hanno una propria autenticità, che forniscono a tale pensiero un divenire che il pensiero, da solo, sarebbe incapace di produrre, e che gli aprono prospettive impreviste; l’opera di Darwin, molto più di quella di Cuvier, è forse una di queste avventure. Ma Foucault parla di Cuvier, e non di Darwin7…

Le parole e le cose costituirebbe dunque un linguistic turn, una svolta linguistica alla quale un nuovo sfidante, nel campo della filosofia, avrebbe sottoposto la storia delle scienze e l’epistemologia storica, mentre altri, in altri campi, avrebbero messo in atto la stessa svolta linguistica nell’antropologia, nella letteratura, o nella psicanalisi. Il problema sta nel fatto che una simile svolta, applicata in particolare a questo oggetto, non coglie la specificità della pratica scientifica, anzi la cancella: si tratta del ritorno alle cose stesse, attraverso differenti modalità di esperienze, di sperimentazioni, che costituiscono lo zoccolo empirico sulla cui base la scienza moderna ha fondato il proprio discorso. Il giudizio di Balan pare senza appello. Tuttavia, più oltre, egli riconosce sia la portata rivoluzionaria di questo testo (cioè quel che deriva dalla sua intenzione filosofica), sia un utilizzo possibile del metodo, a patto che lo si faccia scivolare da un’archeologia del linguaggio a un’archeologia della percezione, avvicinandosi così a un libro precedente e apprezzato dalla critica, Nascita della clinica, libro che si riallaccia in maniera più convenzionale alla tradizione dell’epistemologia storica: Il metodo utilizzato da Foucault è rivoluzionario, ma, almeno in apparenza, insufficiente. Eppure, come Foucault si è soffermato sui rapporti tra biologia, 7

B. Balan, Entretiens sur Foucault, cit., p. 351.


162 Ronan de Calan linguistica e scienze delle ricchezze per sottolineare le strutture comuni che si riferiscono alla possibilità generale di parlare, potrebbe ben succedere che l’analisi delle discordanze metta in luce strutture complementari, in grado di chiarire, al di là della parola, le strutture archeologiche della percezione in generale, avvicinandosi a Nascita della clinica e distaccandosi da Le parole e le cose8.

Questa archeologia della percezione, del resto, è la stessa sulla quale si è soffermato lo stesso Balan, a proposito della sola storia naturale, nell’opera tratta dalla sua tesi, L’ordre et le temps, rinunciando a menzionare l’esistenza di un testo del quale, in ogni caso, non sapeva che farsene, e di un autore che non aveva niente a che fare con lui. Per molto tempo ho condiviso, e devo dire che condivido ancora, in parte, il giudizio di Balan su questo libro (malgrado la magistrale lezione di epistemologia storica che Foucault gli ha dato sul proprio terreno, come per rappresaglia, due anni dopo la sua critica, nel 1970) – ammesso che ci si collochi nella sua prospettiva, quella di una epistemologia storica; ma è una prospettiva che, in un certo senso, è guidata dalla scelta degli oggetti di Foucault. Inoltre, il giudizio di Balan mi pare lucido e netto nello stesso tempo, reso più acuto dalla giovane età. Mettendo da parte la polemica sull’umanesimo e l’anti-umanesimo, il conflitto generazionale che crea scompiglio nel campo filosofico dell’epoca, il dibattito sulle intenzioni teoriche, sulle quali tornerò (un dibattito che ha polarizzato la ricezione di Foucault), Balan si sforza di valutare – in un unico campo, in realtà, il suo campo di competenza: le scienze naturali – ciò che il metodo foucaultiano fa del proprio oggetto. E credo che si potrebbe benissimo estendere la sua critica anche all’economia, così come alla grammatica comparata e alla linguistica, e, per finire, a tutto il campo delle scienze umane. Sicuramente, per chi volesse praticare qualcosa come un’epistemologia storica comparata delle scienze umane, staccandosi dai pregiudizi che sono propri, per esempio, della sociologia delle scienze o, più generalmente, agli effetti che le scienze umane dovrebbero esercitare sul modo di praticare l’epistemologia storica oggi, il testo di Foucault non potrebbe servire come opera di riferimento perché presenta in maniera falsa e falsata i rapporti tra i suoi oggetti, le scienze.

8

Ivi, pp. 362-363.


Foucault mitologo delle scienze 163

L’intenzione: un compito politico Ma l’intenzione di Foucault era davvero quella di sostituire un’archeologia delle scienze umane a una storia di queste scienze o a un’epistemologia storica? In altri termini, una volta pronunciato questo severo verdetto, la domanda che ci si può porre è la seguente: non abbiamo forse frainteso l’intenzione filosofica dell’autore? Foucault voleva veramente sostituire l’epistemologia storica comparativa con il proprio metodo archeologico? Credo si debba rivalutare l’intenzione filosofica di questo testo – intenzione politica – per vedere in che misura sia appropriato o meno il metodo utilizzato da Foucault, prima di domandarsi se tale metodo utilizza gli oggetti giusti per esercitarsi. Perché – e questa è una parte della mia tesi – l’archeologia proposta qui da Foucault, anche se mi sembra del tutto fondata dal punto di vista metodologico non appena si identifica il progetto che la sottende, progetto che non è prioritariamente epistemologico, si dà in compenso un campo d’analisi, un ambito troppo stretto, e marcato da una tradizione che essa stessa tenta, peraltro, di oltrepassare: le scienze e solamente le scienze – e, con queste, la tradizione dell’epistemologia storica. In altre parole, se l’archeologia mira ad essere qualcosa di diverso da un sostituto mal fondato di un’epistemologia storica comparativa, non avrebbe dovuto darsi, come oggetto esclusivo, le scienze, le discipline teoriche. Ma torniamo all’intenzione. Il testo di Foucault è un intervento politico nell’ambito della filosofia contemporanea. È lui stesso a designarlo così: nell’intervista con Madeleine Chapsal, apparsa nel maggio del 1966 sulla Quinzaine littéraire, Foucault è molto chiaro sull’impresa politica, definendo il compito politico, gli avversari, un gruppo politico, un campo d’azione. Si potrebbe quasi stilare una lista. Il compito politico lo conosciamo: Attualmente, il nostro compito è di affrancarci definitivamente dall’umanesimo e, in questo senso, il nostro lavoro è un lavoro politico9.

E poco dopo, nella medesima intervista: Il nostro compito è di affrancarci definitivamente dall’umanesimo, ed è in questo senso che il nostro lavoro è un lavoro politico, nella misura in cui tutti i M. Foucault, Entretien avec Madeleine Chapsal, in «La Quinzaine littéraire», n° 5 (1966), ora in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 541. 9


164 Ronan de Calan regimi dell’Est o dell’Ovest contrabbandano le loro idiozie sotto gli stendardi dell’umanesimo… Dobbiamo denunciare tutte queste mistificazioni, così come Althusser e i suoi compagni coraggiosi lottano, attualmente, all’interno del PC, contro il chardino-marxisme10.

Come si può vedere, lo scopo politico designa immediatamente l’avversario e qualche alleato. L’avversario è l’umanesimo come stendardo comune ai due campi avversi, nel contesto della guerra fredda. Si potrebbe definirlo un’ideologia, o anche una struttura ideologica comune al blocco dell’Est e al blocco dell’Ovest. In questo senso, c’è un umanesimo di destra e uno di sinistra, un umanesimo marxista e un umanesimo atlantico. La prima mossa di Foucault – mossa politica – consiste nel dissolvere tale ideologia, tale strategia di legittimazione politica, che è anche un modello culturale. Nel 1970, Foucault la declinerà del resto sotto diversi aspetti: Definisco filosofia umanista ogni filosofia che pretende che la morte sia il senso ultimo e finale della vita. Filosofia umanista ogni filosofia che pensa che la sessualità sia fatta per amare e proliferare. Filosofia umanista ogni filosofia che crede che la storia sia legata alla continuità della coscienza11.

E si potrebbe proseguire prendendo in esame tutti gli elementi che codificano la cultura di un’epoca. Comunque sia, questa filosofia umanista prende la forma dell’alleanza mostruosa, impensabile, come dice Foucault, di Sartre et Teilhard des Chardin, del marxismo esistenzialista e del personalismo cristiano, alleanza che gli althusseriani, obiettivamente vicini a Foucault nella battaglia, anche se posizionati in un altro campo, il campo politico (all’interno del PCF), si sforzano di combattere. Ma il gruppo politico che Foucault vuole organizzare attorno alla propria impresa è molto più grande di questo. Foucault lo inscrive del resto in un conflitto generazionale che si gioca nel campo filosofico e, più generalmente, accademico: nell’intervista con Madeleine Chapsal, Foucault cita «la generazione di chi non aveva vent’anni durante la guerra», questa generazione che ha scoperto di avere una passione, «la passione del conIbidem. M. Foucault, La situation de Cuvier dans l’histoire de la biologie, in «Revue d’histoire des sciences et de leurs applications», vol. 23 (1970), n° 1, ora in Dits et écrits I, cit., p. 898. 10 11


Foucault mitologo delle scienze 165

cetto e di ciò che chiamerò il sistema»12. Chiaramente, questa generazione si oppone a quella dei maestri, che avevano trenta o quarant’anni durante la guerra: in primo luogo, Sartre (il Sartre della Critica della ragione dialettica), Merleau-Ponty (quello di Senso e non senso, o di Les sciences de l’homme et la phénoménologie), Gusdorf (il caimano di Ulm, autore di una Introduction aux sciences humaines), che sono direttamente presi di mira in molti passaggi del libro, come è stato ben sottolineato dai commentatori. Poco dopo, nell’intervista: Queste scoperte [dello strutturalismo, naturalmente, che dà una nuova configurazione alle scienze umane] hanno una forte influenza sul gruppo difficilmente definibile degli intellettuali francesi, che comprende la massa degli studenti e dei professori meno anziani13.

Ai professori meno anziani – gli sfidanti che non avevano vent’anni durante la guerra e tra i quali si conta anche Foucault – si aggiunge la massa degli studenti. Dopo il libro di Bourdieu et Passeron, Les héritiers, apparso nel 1967, conosciamo bene le scosse che sconvolsero il mondo universitario francese del dopoguerra. Sicuramente l’esplosione demografica cambia le carte in tavola, all’interno di un’istituzione che fa fatica ad accogliere i nuovi iscritti, spinti verso le nuove scienze dai fenomeni generazionali, ma anche dall’origine sociale. Dopo il 1945, le nuove scienze sono entrate in massa nelle istituzioni legittime della produzione del sapere e dell’insegnamento. Nel mondo del sapere, innanzitutto, sarebbe difficoltoso stilare una lista esaustiva degli istituti e dei centri, collegati o meno al Centre national de recherche scientifique (CNRS), e incaricati di promuovere le nuove discipline: Institut national d’études démographiques (INED), Institut d’études politiques (IEP), Institut français de polémologie (IFP), tutti e tre creati nel 1945; centro medico-psicopatologico Claude Bernard, Centre d’Étude Sociologique del CNRS, Institut National de la Statistique et des Études Économiques (INSEE), creati nel 1946; sesta sezione dell’École Pratique des Hautes Études, detta sezione delle scienze economiche e sociali, fondata nel 1947, e così via. In seguito, nel mondo universitario, l’integrazione polemica e dolorosa delle scienze umane ha avuto, come sintomo più evidente, il cambiamento delle denominazioni delle facoltà di 12 13

M. Foucault, Entretien avec Madeleine Chapsal, cit., p. 542. Ibidem.


166 Ronan de Calan lettere, ribattezzate nel luglio 1958 “Facoltà di Lettere e Scienze Umane”, così come, non dimentichiamolo, l’apertura dei corsi di economia nelle facoltà di diritto, ribattezzate, nello stesso periodo, “Facoltà di Diritto e Scienze economiche”. Di fronte a tale novità, il mondo accademico ha organizzato la resistenza. In questo senso, il discorso dei filosofi dell’epoca (e, su questo argomento, Althusser, così come Canguilhem, non sfuggono alla critica) manifesta chiaramente una difesa corporativa di fronte all’emergenza delle scienze umane, difesa analoga a quella che c’era stata in Germania nel momento della crisi demografica e accademica degli anni 1880 – e che si individua molto bene nelle opere di Dilthey e di una parte dei neokantiani del tempo, come mostra il bel libro di Fritz Ringer sul declino dei “baroni” tedeschi14. È un discorso a forti tonalità critiche, accompagnato spesso (soprattutto in Merleau-Ponty, Sartre e Gusdorf) da intenzioni filosofiche manifeste: assoggettare i nuovi iscritti a una gogna metafisica detenuta dai filosofi stessi – in una parola, ridare alla filosofia il privilegio del locutore. L’umanesimo irriso da Foucault è l’espressione perfetta di quest’impresa chiaramente reazionaria, che non fa nient’altro che riaffermare e celebrare i valori del passato, di uno spazio in cui la posizione della filosofia e i suoi privilegi non erano minacciati, lo spazio scolastico prima del 1945, in una parola: lo spazio delle humanités. Da qui, del resto, l’anti-scientismo più generale che accompagna questo movimento di reazione e che non è ponderato se non da un lato del campo filosofico, nella tradizione della quale fa parte Foucault, quella dell’epistemologia storica à la française (la linea Rey-Bachelard-Canguilhem). Non c’è da stupirsi se questo conflitto generazionale nel campo accademico, e più specificamente nel campo filosofico, così come esso è disegnato da Foucault, abbia un punto d’applicazione essenziale: il sistema d’insegnamento. Ciò cui mira un libro come Le parole e le cose, è una revisione, una rivoluzione nel sistema d’insegnamento, che faccia entrare in massa le positività, segnatamente le scienze umane. Quel che è condannato, non è l’uomo onesto, è il nostro insegnamento secondario (governato dall’umanesimo). Non impariamo assolutamente le diF. Ringer, The Decline of the German Mandarins. The German Academic Community, 1890-1933, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1969. Come l’ha mostrato Pierre Bourdieu altrove, nel suo corso su Manet, ci sarebbe un lavoro molto interessante da fare sul legame tra crisi demografica e nascita delle avanguardie. 14


Foucault mitologo delle scienze 167 scipline fondamentali che ci permetterebbero di capire quel che succede in casa nostra – e soprattutto quel che succede fuori… Se, oggi, l’uomo onesto ha l’impressione di vivere in una cultura barbarica, irta di cifre e di sigle, tale impressione è dovuta solamente a un fatto: il nostro sistema educativo risale al XIX secolo e vi regna ancora la psicologia più insulsa, l’umanesimo più desueto, le categorie del gusto, del cuore umano… Non è colpa né di ciò che accade, né dell’uomo onesto, se ha la sensazione di non capirci più nulla: è colpa dell’organizzazione dell’insegnamento15.

E poco dopo, nell’intervista: Lo sforzo compiuto dalla nostra generazione, non consiste nel rivendicare l’uomo contro il sapere e contro la tecnica, ma precisamente nel mostrare che la nostra vita, il nostro modo di essere, sin nei dettagli più quotidiani, fanno parte della stessa organizzazione sistematica e dunque derivano dalle stesse categorie del mondo scientifico e tecnico16.

La generazione precedente ha tracciato una linea di demarcazione molto forte tra le esigenze della vita e quelle della scienza. Al contrario, Foucault vuole mostrare che non si esce dal sapere. Mostrare come le positività si sono introdotte nello spazio del sapere collettivo. Ed è di queste positività che dobbiamo comprendere l’efficacia, poiché sono loro a modellare, oggi, l’uomo. Il metodo L’impresa, eminentemente politica, come si vede bene, porta con sé un metodo: identificare il sapere implicito di una società in un determinato periodo. Per capire meglio questo punto, bisogna forse fare riferimento all’intervista con Raymond Bellour, sempre del 1966, intervista a caldo, per così dire, rilasciata al momento dell’uscita del libro. Quest’intervista ha un risvolto più metodologico e meno politico rispetto all’intervista con Madeleine Chapsal. Così Foucault può affermare:

15 16

Michel Foucault, Entretien avec Madeleine Chapsal, cit., p. 545. Ivi, p. 546.


168 Ronan de Calan In una società, le conoscenze, le idee filosofiche, le opinioni di tutti i giorni, ma anche le istituzioni, le pratiche commerciali e poliziesche, i costumi, tutto rimanda a un certo sapere implicito, proprio di quella società. Questo sapere, che è profondamente diverso dalle conoscenze che si possono trovare nei testi scientifici, nelle teorie filosofiche, nelle giustificazioni religiose, rende possibile, in un determinato momento, l’emergenza di una teoria, di una opinione, di una pratica17.

Tale sapere implicito prende allora la forma dell’analisi di ciò che Foucault chiama il “teorico-attivo”, nella misura in cui esso non testimonia di una qualsiasi anteriorità della teoria sulla pratica, ma mostra, al contrario, come teoria e pratica si compenetrino. Non si può non constatare, del resto, che l’espressione stessa “teorico-attivo”, che Foucault propone, non è che una ripresa delle “logiche pratico-teoriche”, logiche concrete che regolano le società primitive delle quali parla Lévi-Strauss ne La pensée sauvage, e che si manifestano soprattutto nei miti fondatori18. Anche questo passaggio dell’intervista con Raymond Bellour rinvia direttamente alla presentazione del progetto di Foucault nella prefazione de Le parole e le cose, testo molto conosciuto e spesso commentato, nel quale Foucault individua tre ordini in una cultura: I codici fondamentali di una cultura – quelli che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche – definiscono fin dall’inizio, per ogni uomo, gli ordini empirici con cui avrà a che fare e in cui si ritroverà. All’altro estremo del pensiero, teorie scientifiche o interpretazioni di filosofi spiegano perché esiste in genere un ordine, a quale legge generale obbedisce, quale principio può renderne conto, per quale ragione si preferisce stabilire quest’ordine e non un altro. Ma fra queste due regioni così lontane l’una dall’altra, si estende un campo che, per il fatto di fungere anzitutto da intermediario, non è tuttavia meno fondamentale: è più confuso, più oscuro, più arduo probabilmente da analizzare. È in esso che una cultura, scostandosi insensibilmente dagli ordini empirici che i suoi codici fondamentali prescrivono, instaurando una distanza iniziale nei loro confronti, li priva della loro trasparenza originaria, cessa di lasciarsi da essi passivamente traversare, si distacca dai loro poteri immediati e invisibili, si libera sufficientemente per constatare che tali ordini M. Foucault, Michel Foucault, «Les mots et les choses», intervista con R. Bellour, in «Les Lettres françaises», n° 1125 (1966), ora in Dits et écrits I, cit., p. 526. 18 C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962. 17


Foucault mitologo delle scienze 169 non sono forse i soli possibili o i migliori; di modo che essa si trova di fronte al fatto che, al di sotto dei suoi ordini spontanei, esistono cose ordinabili a loro volta, pertinenti ad un certo ordine muto, in altre parole al fatto che esiste un certo ordine19.

A cosa si riferisce qui Foucault, e di cosa si propone di fare l’analisi? Dei codici di secondo ordine, che introducono un certo gioco nei codici del primo ordine, ma non hanno lo stesso grado di riflessività delle teorie degli studiosi. Per chi ha letto Lévi-Strauss, si vede bene che è qui indicato il ruolo che i miti giocano nel suo sistema di pensiero, precisamente come codici di secondo ordine, con il gioco eminentemente politico che i miti permettono, in quanto figura del teorico-pratico. Ora, come ricostruire questi codici di secondo ordine? A partire dalle loro “tracce verbali”, come per lo studio dei miti. L’idea è di trovare, in tracce verbali diverse, tratti comuni per «costituire ciò che i logici chiamano classi, gli esteti forme, gli umanisti strutture, che sono l’invariante comune a un certo numero di tracce»20. Ancora una volta incontriamo il metodo strutturale di Lévi-Strauss: la ricerca di invarianti nei gruppi di trasformazioni è mobilitata per rendere conto del sapere implicito di una società. Va da sé che, nella prefazione del proprio libro, così come nell’intervista, Foucault tracci un programma più vasto di quello che sviluppa ne Le parole e le cose: un’archeologia del sapere dove, come è noto, il metodo di Lévi-Strauss ha un posto d’onore (non posso che rinviare qui alle analisi accurate e complete di Gildas Salmon su questo tema21). L’oggetto Ma la particolarità de Le parole e le cose è che qui l’archeologia si applica esclusivamente a un solo oggetto: i codici di terzo ordine, le scienze o le discipline che qualifichiamo retrospettivamente come tali. In altri termini, M. Foucault, Le parole e le cose (1966), BUR, Milano 1978, «Prefazione», p. 10 (i corsivi sono miei). 20 M. Foucault, Michel Foucault, «Les mots et les choses», cit., p. 526. 21 G. Salmon, Logique concrète et transformations dans l’anthropologie structurale de Claude Lévi-Strauss, tesi di dottorato, Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, 27 novembre 2009, cap. 6: «Analyse transformationnelle et archéologie: vers une théorie de la valeur des savoirs», pp. 527-617. 19


170 Ronan de Calan Foucault si propone di condurre, al di sotto dello studio delle discipline, quello dei saperi impliciti che danno loro un ordine, un profilo comune, funzioni comuni, o che permettono (soprattutto) di identificare operazioni intellettuali comuni. Si può misurare fino a che punto questa impresa, applicata alle scienze umane, sia non solamente archeologica ma anche genealogica, poiché mescola liberamente i due metodi. Così, se si intende seguire un percorso regressivo per cogliere la struttura del libro, bisogna partire dalla coesistenza, nelle scienze umane contemporanee, di due forme di sapere: ermeneutica e sistematica – sapendo che la configurazione strutturalista ha eliminato l’ambito ermeneutico per privilegiare l’approccio sistematico, mettendo da parte ciò che Foucault chiamava le «fenomenologie acefale della comprensione»22 che alimentano l’umanesimo, per concentrarsi sul sistema. Questa distinzione tra due regimi di scientificità all’interno delle scienze umane, o meglio un regime che ci allontana dalla scienza e uno che ce ne avvicina, è proposta dai rappresentanti del metodo strutturale, Lévi-Strauss in primis, in particolare in un articolo apparso nel 1964 e intitolato Critères scientifiques dans les disciplines sociales et humaines23. Dietro la falsa omogeneità che ricopre questa espressione tecnocratica di “scienze umane”, bisogna allora distinguere, secondo Lévi-Strauss, tra semplici “clienti” delle scienze vere e proprie, che imitano i metodi proposti in campo fisico-matematico in vista di altri fini rispetto a quelli della scienza, in particolare fini utilitaristici o ideologici (e l’antropologo si riferisce esplicitamente alla sociologia e alla psicologia, oltre che alle scienze giuridiche), e i veri “discepoli” delle scienze fisico-matematiche, che coltivano l’unico valore di verità, indipendentemente dall’utilità, cioè: le discipline strutturali, a cominciare dalla linguistica e dall’antropologia. Partendo da tale dicotomia, ereditata e senza dubbio polemica, ci si potrebbe allora proporre, per rileggere Le parole e le cose, di tracciare la genealogia di questo doppio sapere – ermeneutico e sistematico – attraverso l’archeologia delle discipline empiriche e delle positività che ne derivano, ovvero, prioritariamente, attraverso le diverse forme di studio dei segni e degli ordini empirici. In verità, il testo segue questo binario genealogiTroviamo questa espressione nella Prefazione di Nascita della clinica (1963), Einaudi, Torino 1969, p. 9. 23 C. Lévi-Strauss, Critères scientifiques dans les disciplines sociales et humaines, in «Revue internationale des sciences sociales», vol. 16 (1964), n° 4, pp. 579-597, ora in Anthropologie structurale deux, Plon, Paris 1973, pp. 339ss. 22


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co, anche se lo tiene nascosto sotto le apparenze di un’archeologia. Ora, ciò che Foucault mostra, tra le altre cose, nel suo libro, e che è del resto originale dal punto di vista di una cronologia ereditata dall’epistemologia storica tedesca di tradizione neokantiana, è una frattura importante, nel XVIII secolo, che separa lo studio degli ordini empirici dall’ermeneutica – due registri che, fino ad allora, andavano di pari passo. È il momento inaugurale delle positività, dove, come dice Foucault, «le cose si ripiegano sul loro stesso spessore, e su esigenze esteriori alla rappresentazione». Emergono così tre ordini autonomi, la grammatica comparata, l’anatomia comparata e l’economia politica, che si collocano al di fuori del regno della rappresentazione. Quello che un linguaggio amministrativo più tardivo ha battezzato con il titolo curioso di scienze umane rinvia allora, ci dice Foucault, a una reazione dell’ermeneutica a tali positività: sociologia, psicologia e teorie delle forme simboliche (mitologia comparata, analisi letteraria, ecc.) coincidono con la reintroduzione del motivo della rappresentazione e della comprensione, passato al setaccio della Critica (quella di Kant) o di ciò che Foucault chiama “l’analitica della finitudine”. Cosicché, contro ogni attesa, queste scienze tanto avversate dai filosofi partecipano a quell’umanesimo un po’ vano brandito dai loro principali critici, secondo una dialettica sottile: esse sono le prime ad avere introdotto la figura dell’Uomo. Non c’è altro da dire su questo primo percorso e questa dimostrazione tortuosa se non che tale tesi è troppo intelligente per essere vera. Ma ha il merito di puntare tutto sulla rivoluzione strutturalista, mettendo però al rogo i vascelli delle altre discipline costituite – cosa che, sia detto en passant, è piuttosto facile fare dal momento che Foucault non abbandona mai veramente la posizione predominante del filosofo su questi oggetti. Al contrario, se si segue il percorso archeologico, bisogna capire che Foucault deve cercare il codice di secondo ordine, sapere implicito di una società, a partire dal codice di terzo ordine, le discipline in via di conversione scientifica, le positività e, ben presto, le scienze. Il problema è che questo non funziona, perché non è all’interno di una positività che bisogna cercare il sapere implicito di una società. Come possiamo affermare ciò? Semplicemente perché le operazioni fondamentali che Foucault pretende di cogliere archeologicamente sono in realtà perfettamente riflesse dalle stesse discipline scientifiche, o dalle filosofie che accompagnano il movimento di tali positività. Non sono un sapere implicito comune


172 Ronan de Calan e incosciente sul cui fondo si svilupperebbero in quanto scienze, ma, al contrario, sono operazioni fondamentali perfettamente identificate come comuni alle diverse scienze, al di là delle loro differenze: è evidentemente il caso dell’analisi in regime di rappresentazione, e della sua applicazione alla grammatica come all’economia, in una filosofia come quella di Condillac. È anche il caso degli intrecci propri all’emergenza di una teoria del valore, che basa lo studio della moneta su una teoria generale dei segni, e una teoria dei segni naturali su una biologia, per esempio, in tutta la tradizione della storia economica. Così, ciò che si produce non è tanto un’archeologia, ma l’abbozzo di un’epistemologia storica comparativa, che avrebbe però il difetto di voler necessariamente partire dalle operazioni comuni e quindi, probabilmente, meno significative delle scienze, piuttosto che interrogare i problemi cognitivi e gli strumenti specifici mobilitati per risolverli nel loro dominio. Tracciare dunque anche un sistema di differenze, una certa “regionalità” del sapere scientifico al di là delle sue forme comuni, come proponeva Bernard Balan. L’indizio di questo grande difetto nell’“applicazione” dell’archeologia alla scienza è che, al di là delle sue dichiarazioni d’intenzione, l’economia generale del discorso di Foucault rinvia molto chiaramente a una tradizione epistemologica omogenea e ben identificata: non la tradizione francese, ma quella tedesca, alla quale Foucault si è, peraltro, grandemente ispirato e dalla quale pretendeva partire. Le parole e le cose è così un libro profondamente neokantiano, segnato dalla tradizione della scuola di Marburgo, in particolare dalla lettura di Cassirer. Le rotture, le discontinuità, seguono la cronologia proposta da Cassirer nel suo Erkenntnisproblem. L’interpretazione foucaultiana del ruolo giocato da Descartes, da Condillac, da Kant, come testimoni e catalizzatori della scienza di un’epoca, è caratterizzata da un neokantismo assolutamente classico: tutta una tradizione “filosofica” è essenzialmente passata al setaccio di quella che Kant chiamava la Methodenlehre. Più ancora, il trattamento riservato alle scienze umane è spesso impregnato della visione e del principio di organizzazione che presiedevano alla famosa Filosofia delle forme simboliche di Cassirer. I commentatori lo hanno già sottolineato, senza spiegare, tuttavia, perché questa ispirazione può sembrare tanto problematica rispetto al progetto dell’autore. Se solo Foucault avesse voluto seguire Lévi-Strauss fino in fondo! Quest’ultimo non aveva forse avanzato, ne La pensée sauvage, alcune ipotesi ardite sui rapporti tra la scienza e il mito? Ciò che oppone la scienza al


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mito, sosteneva Lévi-Strauss, è che la scienza disgiunge, mentre il mito congiunge: a partire da una struttura comune, la scienza produce eventi che sono risultati scientifici specifici, e sono gli eventi la cosa più difficile da spiegare, da pensare, e devono per questo mobilitare l’epistemologo; a partire da eventi in apparenza singolari, i miti offrono invece allo studioso la possibilità di ricostituire il tessuto congiuntivo di una struttura, che è la cosa più difficile da pensare sulla loro scala. Così la relazione di priorità tra struttura ed evento si manifesta in maniera rigorosamente simmetrica e inversa nella scienza e nei miti: i miti creano la struttura a partire dagli eventi; la scienza crea gli eventi (che chiamiamo risultati) a partire dalla struttura. La struttura scientifica è data in precedenza, oggettivata dalla scienza stessa. Questo significa anche che le operazioni intellettuali fondamentali, che Foucault cerca di identificare archeologicamente partendo dalle discipline, sono già riflesse da esse: lungi dall’essere nascoste, sono assolutamente esplicitate e, di conseguenza, il metodo archeologico non serve a nulla. Ma allora che cosa può cogliere l’archeologia che non sia già trattato dall’epistemologia storica, compresa quella di tradizione tedesca? Precisamente i sistemi di valore soggiacenti alla pratica delle scienze, i sistemi di valore impliciti dei discorsi scientifici e, attraverso di essi, i giochi di potere nei quali si investe il sapere. E ancora una volta, anche a tal proposito la simmetria delle relazioni tra mito e scienza, così com’era pensata da LéviStrauss, poteva indicare una via. Il pensiero mitico non riflette le operazioni che produce sul proprio oggetto, ma, in compenso, riflette spesso i propri valori. Il mito è un “pratico-teorico” allo stato puro, come mostra Lévi-Strauss. È ridotto allo stato di discorso solo dallo studioso strutturalista, che non è ossessionato tanto dal valore del mito, ma dalle operazioni che esso occulta. Un mito, tuttavia, non è mai soltanto un discorso, fa parte di una pratica. È una pratica integrata, ed è divenuto discorso solo quando è stato oggettivato, almeno a partire dalla Grecia antica, come l’inverso della razionalità scientifica – Marcel Detienne lo ha ben mostrato nel suo magnifico libro sull’invenzione della mitologia24. Va da sé che, in questo ordine, nell’analisi strutturale dei miti è contenuto un plusvalore interpretativo diretto, anche se si basa su una grande astrazione teorica: al di là della dispersione del materiale mitico, degli eventi che compongono i mitemi, Lévi-Strauss identifica una serie di operazioni fondamentali dello spirito, 24

M. Detienne, L’invention de la mythologie, Gallimard, Paris 1981.


174 Ronan de Calan di strutture mentali alle quali, in seguito, possono essere accordate certe funzioni (che si inseriranno nel sistema di valore, anche sotto forma di azione politica). Che ne è del pensiero scientifico? La sua particolarità è che, al contrario, esso riflette sempre le proprie operazioni, ma non necessariamente i propri valori. Quando la scienza produce eventi scientifici a partire dalla struttura è nel pratico-inerte, e ben poco nel pratico-teorico, come il mito. La portata assiologica latente delle operazioni scientifiche non è immediatamente riconoscibile, e spesso è nascosta o rimossa. Nella scienza, ciò che appartiene all’ordine dell’inconscio non si trova quindi nelle operazioni intellettuali praticate, che sono altamente riflesse, ma nel sistema di valore nel quale viene introdotta questa pratica teorica: valore di verità ma, dietro di esso, anche utilità, pensiero dello Stato, pensiero della società civile, civilizzazione dei costumi, ecc., e ancora, a monte, il gioco dei poteri che equilibrano e squilibrano queste forze. Ma, per rifarsi ancora una volta a Lévi-Strauss, bisogna precisare che questo sistema di valori non si postula – e questo contro tutte le metafisiche che pullulavano nel XIX secolo come reazione alle scienze umane, che rinascevano negli anni cinquanta, e che ritrovano oggi uno strano e detestabile vigore. Questo sistema di valori non può essere colto se non dall’esperienza, a posteriori. Inoltre, non è identificabile se non con un metodo archeologico in senso stretto, poiché sono proprio le invarianti nei gruppi di trasformazione del sapere, le invarianti assiologiche, e non le invarianti epistemologiche, che si tratta di identificare a seconda delle epoche. Invarianti che manifestano spaccature e discontinuità. Ora, quando Foucault vuole criticare l’umanesimo in voga ai suoi tempi, che cosa ha di mira se non, precisamente, un valore che si oppone allo scientismo, cioè a forme di oggettivazione giudicate immorali o politicamente nefaste? Se dunque esiste una tensione propria a Le parole e le cose, lasciata irrisolta, tra intenzione filosofica, metodo e scelta degli oggetti, è senza dubbio su quest’ultimo punto che essa esercita tutta la propria forza: l’archeologia foucaultiana assume gli oggetti tramandati dalla tradizione dell’epistemologia storica, per sottometterli a un’analisi i cui risultati principali sono già in possesso di questa tradizione. Come sarebbe stata diversa un’archeologia di tali scienze che si fosse sforzata di riflettere il loro sistema di valori! Ma, per realizzarla, bisognava partire dalle formazioni discorsive, senza lasciarsi risucchiare totalmente da esse. Bisognava uscire dalla fascinazione


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delle parole per arrivare allo studio delle pratiche, delle istituzioni del sapere, seguendo un metodo usato da Foucault, in modo empirico ma sicuro, nella Storia della follia, e che egli sistematizzerà a partire da Sorvegliare e punire. Le parole e le cose è stata una (fin troppo) brillante parentesi, che un’opera programmatica dal tono un po’ impacciato, un po’ doloroso – L’archeologia del sapere –, avrebbe cercato di chiudere. Traduzione dal francese di Daniele Lorenzini

Ronan de Calan Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne Ronan.De-La-Lande-De-Calan@univ-paris1.fr

. Foucault Mythologist of Sciences. A Rereading of The Order of Things This reading of Michel Foucault’s book, The Order of Things, insists on the differences and even on the contradictions which arise in it between the philosophical intentions proclaimed by the author, the methodology he adopts and his choice of the historical objects to consider. Foucault wishes to produce an archaeology of the knowledge implicit in a society at a given time; but this archaeology, which starts from “verbal traces” and excludes any normativity of discourse in order to single out an intermediary level between the primary codes of a culture and scientific theories, does not avoid the attraction of a classic historical epistemology to which it is reducible to a large extent. Keywords: Archaeology, Structuralism, Historical Epistemology, Mythology, Theoretical-Practical, Michel Foucault, The Order of Things.



Le parole, le cose ed altre inquisizioni Marta Menghi

Uccidere Dio per disancorare l’esistenza di questa esistenza che la limita, ma anche per condurla ai limiti che cancellano questa esistenza illimitata (il sacrificio). Uccidere Dio per condurla a questo niente che è e per manifestare la sua esistenza al cuore di una luce che la fa scintillare come una presenza, (è l’estasi). Uccidere Dio per perdere il linguaggio in una notte assordante, e perché questa ferita debba sanguinare finché scaturisca un «immenso alleluja perduto nel silenzio senza fine( è la comunicazione). La morte di Dio non ci restituisce ad un mondo limitato e positivo, ma a un mondo che si denuda nell’esperienza del limite, si fa e si disfa nell’eccesso che la trasgredisce1.

Configurazione del discontinuo

È possibile trovare un punto di convergenza tra le tematiche relative alla

comparsa della letteratura e dell’arretramento della Rappresentazione, con gli argomenti più direttamente legati alla ricostruzione archeologica delle pratiche del sapere nella prima fase del pensiero di Foucault. Introducendo il tema della letteratura è essenziale prima di tutto riconoscere un doppio registro. Il Foucault “critico letterario” cerca nell’opera un certo tipo di esperienza di scrittura che sia in grado di rispecchiare quello spazio vuoto, sottratto dall’ordine del discorso, a partire da cui la parola si fa “esperienza del fuori”. Parallelamente, per il Foucault “archeologo” il riferimento alla letteratura, assume i caratteri dell’esemplarità. Come osserviamo ne Le parole e le cose2, i riferimenti a Sade e Cervantes emergono quando l’autore deve far chiarezza sul passaggio da un registro del sapere all’altro. I temi del rapporto follia e letteratura, della trasgressione, dell’assenza d’opera, della morte dell’autore rappresentano sicuramente gli argomenti su cui Foucault, nelle vesti di critico, si sofferma maggiormente nel corso degli anni Sessanta. Nel celebre testo del ’66 egli intende Michel Foucault, Preface to Transgression, in D.F. Bouchard (a cura di), Language, Counter-memory, Practice. Selected Essays and Interviews, Cornell University Press, New York 1980, pp. 30-52. 2 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 2000. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 177-196.


178 Marta Menghi indicare con “letteratura” l’avvento di un discorso che è in grado di usare le parole sottraendole al sapere e all’organizzazione del sistema linguaggio3. Questo implica che la letteratura istituisce un rapporto con la parola che si rivela antitetico al rapporto filologico. Se la filologia ricostruisce la genesi e la collocazione della parola all’interno di un insieme linguistico determinato, la letteratura si rapporta ad essa esattamente come contestazione di quel movimento. In questo caso perciò, la scrittura letteraria, volendo condurre la parola al di là della regola, diviene il mezzo che consente di utilizzare il linguaggio al di là del discorso e che si relaziona con lo spazio vuoto all’interno del quale il linguaggio trova origine. È con l’avvento della modernità che, secondo il filosofo, lo statuto del linguaggio smette di assumere la funzione della Rappresentazione. Tra il XIII e il XIX secolo alla Retorica, spazio in cui aveva trovato tradizionalmente posto una certa esperienza letteraria, si sostituisce la Biblioteca: uno spazio differente, nel quale per la prima volta si dà una forma letteraria non vincolata alle esigenze della Rappresentazione4. La Biblioteca apre uno spazio nuovo, in cui il linguaggio si emancipa dalla mediazione della retorica, trovando una propria unità altrove ed in maniera diversa: nella letteratura come nuova funzione5. Ma in che modo, ci chiediamo, la letteratura è in grado di intrattenere il suo rapporto col fuori? In che misura la parola che parla della trasgressione può darsi essa stessa come trasgressiva6? La trasgressione è quell’atto teoretico che istituisce lo spazio-agone della letteratura, che diviene il centro di un chiasmo dopo il quale l’episteme appare capovolta. Viene introdotta perciò la possibilità della distinzione tra una letteratura che mantiene i limiti (la Parola del Medesimo) e una letteratura che trasgredisce (la Parola dell’Altro)7. Il problema della “nuova letteratura” sarà dunque quello dell’esperienza del superamento del limite. Nel tentativo di avvicinarsi alle possibilità di un linguaggio non dialettico8 la strada da percorrere sarà quella della trasgressione. Cfr. M. Iacomini, Le parole e le immagini, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 174-175. Cfr. M. Foucault, De lenguaje y literatura, E. Paisòs, Barcelona 1996, pp. 63-103. 5 G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 63. 6 J. Revel, Foucault. Le parole e i poteri, Manifestolibri, Roma 1996, p. 72. 7 M. Foucault, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1971, p. XIII. 8 Ibidem, p. XII. 3 4


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Il pericolo rappresentato da un pensiero della discontinuità9 sta nella sua relazione col continuo. E dobbiamo tentare di immaginare quella relazione per comprendere la portata eversiva di questo concetto, la sua intrinseca pericolosità. La discontinuità va immaginata come ciò che si oppone diametralmente al continuo. Il concetto di discontinuità non viene trattato da Foucault nel senso di un’assenza, di una negazione o di una mancanza: per Foucault la discontinuità viene introdotta dalle mutazioni, da quella serie di trasformazioni di cui diviene motore. In questo senso la continuità può farsi l’altro nome di un processo di metamorfosi, così da rendere tale tentativo quello di definire mediante la discontinuità «un’altra possibile concezione della continuità che avrebbe per oggetto l’analisi descrittiva e la teoria di questa trasformazione»10. Nella prima fase della propria produzione teorica, quando Foucault pensa la discontinuità, lo fa con l’intento di dimostrare che la sola costante immaginabile sia rappresentata dal cambiamento continuo, come sinonimo di una continuità in movimento: Il mio problema non è stato quello di dire, “e bene, ecco, viva la discontinuità”, siamo nella discontinuità e allora restiamoci, ma di porre la questione: come è potuto succedere che si siano potuti verificare in certi momenti ed in certi ordini di sapere questi bruschi stacchi, queste precipitazioni dell’evoluzione, queste trasformazioni che non si calano nell’immagine tranquilla e continuista che ne si fa ordinariamente? Ma l’importanza di tali cambiamenti non è di dire se siano rapidi o di grande estensione, piuttosto questa rapidità e questa estensione non sono che il segno di altre cose: una modificazione all’interno dei regimi di formazione degli enunciati che sono accettati come scientificamente veri11.

Al fine di comprendere la portata di quest’assunzione vogliamo chiederci quale peso essa ricopra per il Foucault “archeologo” ed intendiamo farlo prendendo sul serio l’incipit de Le parole e le cose. In quell’incipit Foucault dichiara che la scrittura di questo testo sia nata dal confronto con un autore: Jorge Luis Borges, e dal riso suscitato dalla particolare classificazione ritrovata in un suo racconto. Sul concetto di discontinuità in Foucault, si veda in particolare L. Paltrinieri, L’expérience du concept. Foucault entre épistémologie et histoire, Publications de la Sorbonne, Paris 2012. 10 Cfr. J. Revel, Michel Foucault: discontinuité de la pensée ou pensée du discontinu?, in «Le Portique» [online], n. 13-14 (2004), <http://leportique.revues.org/635>. 11 M. Foucault, Entretien avec M. Foucault, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. II, p. 144. 9


180 Marta Menghi Ne L’Idioma analitico di Jhon Wilkins12, contenuto nella raccolta Altre inquisizioni, troviamo infatti una classificazione che ha il potere di sconvolgere la familiarità di un pensiero strutturato su una serie di superfici ordinate, di piani organizzati e di precise definizioni. Una classificazione che turba le risorse di un pensiero che immediatamente si ritrova di fronte al suo scacco, inchiodato sulla soglia del proprio limite. Questo testo menziona «una certa enciclopedia cinese» in cui sta scritto che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera , m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche». Nello stupore di questa tassonomia, ciò che balza subito alla mente, è ciò che, col favore dell’apologo, ci viene indicato come il fascino esotico d’un altro pensiero, è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo13.

Borges attraverso questa tassonomia rompe con le basi della nostra logica, svelando nello stesso movimento l’esistenza di infinite possibilità di trasgressione per la letteratura, qualora essa si spinga verso la configurazione di un nuovo codice, attribuendo nuove significazioni alla parola che preferisce. Attraverso un messaggio trasgressivo presunto tenta di associare un codice altro e specifico alle parole, rinunciando a resistere alla sovranità del senso14. Come sottolinea Frédéric Gros, Borges non libera un altro ordine, non esibisce classificazioni singolari al fine di far apparire le nostre come relative, ma si spinge ben oltre in un gioco ancora più sovversivo. L’autore argentino tenta di aprire uno spazio impensabile non solo per la nostra epoca, uno spazio che sancisce l’impossibilità stessa di un ordine. Potremmo assumere il luogo di nascita de Le parole e le cose come un’esperienza sovrana del linguaggio che distrugge il comune orizzonte di emergenza delle parole e delle cose, e nello stesso movimento, designa lo spazio-altro della letteratura15. J.L. Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1976. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 5. 14 J. Revel, Foucault. Le parole e i poteri, cit., p. 70. 15 F. Gros, De Borges à Magritte, in Ph. Artières (a cura di), Michel Foucault, la littérature et les arts, Kimé, Paris 2004, p. 17. 12 13


Le parole, le cose ed altre inquisizioni 181 La trasgressione non è mai una violenza in un mondo diviso (in un mondo etico), né una vittoria sui limiti (in un mondo dialettico o rivoluzionario), ed esattamente per questa ragione, il suo ruolo è quello di misurare l’eccessiva distanza che apre nel cuore del limite, e di tracciare la linea intermittente che produce l’innalzarsi del limite. La trasgressione non contiene nulla di negativo, ma afferma il limitato affermarsi dell’illimitatezza nella quale balza poiché apre questa zona di esistenza per la prima volta. Ma corrispondentemente, quest’affermazione non contiene nulla di positivo: nessun contenuto può vincolarla, dal momento che, per definizione, nessun limite può possibilmente limitarla. Forse è semplicemente l’affermazione di una divisione; ma nella misura in cui la divisione non sia intesa a significare il gesto di un taglio, o lo stabilirsi di una separazione, o la misurazione di una distanza, va solo mantenuto che in ciò può essere designata l’esistenza di una differenza16.

In questo senso intendiamo parlare di un pensiero della discontinuità e della trasgressione spingendoci al suo limite, situando il nostro sguardo sul margine di quella frattura, a cavallo tra il testo filosofico e quello letterario, intrecciando le due narrazioni. Ci sembra di ritrovare in qualche modo le tracce di quella “scrittura esoterica” che Foucault dichiara di aver appreso dall’opera di Roussel o dalla prosa di Bataille, ovvero di quella possibilità di scrittura che è in grado di fare del linguaggio uno strumento di trasgressione in relazione ad un sistema di sapere che gestisce i discorsi. Per questo, tenteremo di analizzare alcuni passaggi de Le parole e le cose attraverso le immagini evocate da alcuni racconti di Borges, cercando di comprendere quell’apertura evocata dal filosofo, al fine di riconoscere il potenziale che alla letteratura (letteratura come possibilità di rottura, come luogo di passaggio al limite) lo stesso Foucault attribuisce. Quella di Borges non è una scrittura che ci rende partecipi di una data tradizione: non produce una nuova conoscenza o una conoscenza attualizzata, ma si presenta come una scrittura di ’’quarto livello’’. Una scrittura come prodotto di un’assenza, non referenziale, non mimetica, che non è in grado di intrattenere alcun rapporto con una realtà o una struttura, che non si relaziona con la stessa funzione tradizionale della scrittura17. I testi di Borges non ci riconducono verso un’unità, un’origine o un livello M. Foucault, Preface to Transgression, cit., p. 35. A. De Toro, Borges/Derrida/Foucault: pharmakeus/heterotopiaor beyond literature (hors littérature), in A. De Toro e F. De Toro, The Thought and the Knowledge, in the Twentieth Century, Veuveurt, Frankfurt 1999, pp. 137-162. 16 17


182 Marta Menghi dialettico in cui è possibile attribuire al terzo termine di una relazione un significato fisso o un’identità. Il conflitto, difatti, non viene risolto entro un campo gerarchico dato, ma viene re-inscritto nel contesto di una differenza e, solo conseguentemente, costruisce una presenza riaffermando una nuova significazione della rappresentabilità. Le pagine di Borges sembrano parlare di quel discontinuo di cui abbiamo definito precedentemente i caratteri, riscoprendo la periferia nel centro18, attraversando un territorio differente a mezzo dell’accumulazione metaforica. Egli condensa, nelle immagini dei propri racconti, momenti staccati, distanti nel tempo, quasi insignificanti se considerati nel tessuto di un’esperienza comune, ma che, messi in rapporto con altri simili, sono in grado di intessere la trama di una storia lacunare e sovversiva. In questo gioco evocativo proviamo così a scorgere la forma delle significazioni che osserviamo apparire e dileguarsi nella narrazione filosofica di Foucault, nel tentativo di mostrare come l’atto di rottura riesca a manifestarsi col puro esercizio della parola. Come nota Judith Revel, «nel sistema della lingua non si esce dal discorso che presiede l’esistenza di un dentro e di un fuori: il fuori diventa almeno in apparenza inconcepibile, così come non sarebbe concepibile parlare al di fuori delle leggi del linguaggio» 19. Il sistema di una lingua non rappresenta per Foucault un mero insieme di enunciati potenziali, ma consiste nell’uso concreto, ovvero nella materiale esistenza dei discorsi e nelle tracce da essi lasciate. Episteme Ne Le parole e le cose il filosofo francese si chiede come le cose siano state rese ordinabili all’interno della nostra cultura e a questo proposito compie quel lavoro archeologico volto a riportare alla luce gli apriori storici a partire dai quali le teorie sono emerse da quella spazialità che definisce attraverso il concetto di episteme. L’ episteme20 descrive l’insieme dei rapporti che legano i differenti tipi di discorso corrispondenti ad una data epoca storica. Essa è il campo «in cui Cfr. E. Aizemberg, Borges, postcolonial precursor, in «World Literature Today» (1992), pp. 21-26, <http://www.borges.pitt.edu/sites/default/files/Aizenberg.pdf>. 19 J. Revel, Michel Foucault. Le parole e i poteri, cit., p. 30. 20 J. Revel, Le vocabulaire de Foucault, Ellipses, Paris 2002, p. 25. 18


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le conoscenze, considerate all’infuori di ogni criterio di riferimento al loro valore razionale o alle loro forme oggettive affondano la loro positività»21. Non coincide con un segmento della storia comune a tutte le scienze, piuttosto viene presentata come il campo aperto delle condizioni di possibilità ad esso presupposto, come un gioco simultaneo di permanenze specifiche22. Si può scegliere di rappresentare in un modo o nell’altro eventi differenti, discorsi differenti, una serie di accadimenti contrastanti, a seconda che si utilizzi l’uno o l’altro metodo di classificazione. Lo sforzo archeologico di Foucault intende distinguere, scandagliando il luogo del Medesimo, i criteri di catalogazione che vengono applicati dalla cultura occidentale, domandandosi «a partire da quali apriori storici è stata possibile la definizione della grande scacchiera delle identità che s’instaura sul fondo del confuso, indefinito, senza volto, e quasi indifferente delle differenze»23. L’obiettivo è quello di individuare le condizioni di possibilità che danno luogo ad un dato sapere, il terreno a partire da cui quel sapere si è dato: l’analisi del Medesimo è volta alla ricerca di ciò che determina l’emergere di uno specifico orizzonte del sapere. Nell’episteme culturale occidentale è possibile ritrovare infatti due grandi linee di discontinuità: quella che dà luogo all’età classica e quella con cui si apre l’età moderna. Alla fine del XVI secolo, la relazione di somiglianza si delinea come fondamentale: conoscere equivale ad interpretare, le parole e le cose appartengono alla stessa narrazione, ed il linguaggio si presenta come scrittura materiale delle cose. Dal XVII secolo, il segno smette di rappresentare il mondo e l’ordine sostituisce la somiglianza. In questa frattura profonda in cui viene meno la trasparenza tra l’ordine delle cose e quello delle rappresentazioni, nascono la filosofia trascendentale e le scienze della vita, dell’economia e del linguaggio. Il soggetto trascendentale viene analizzato in quanto nucleo che fonda la sintesi delle rappresentazioni e simultaneamente l’uomo entra nel campo del sapere possibile24. Nasce così l’uomo come oggetto-soggetto di conoscenza: una nascita che avviene sulla soglia che distingue “l’esperienza-limite dell’Altro” dal “penM. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 12. Foucault a questo riguardo usa il termine francese rémanence. 23 E continua (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 15): «la storia dell’ordine delle cose sarebbe la storia del Medesimo, di ciò che, per una cultura, è a un tempo disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare attraverso identità». 24 Cfr. V. Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi, Roma 2008, pp. 31-42. 21

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184 Marta Menghi siero del Medesimo”. Un soggetto, che viene distrutto in quanto totale presenza a sé della coscienza, ma che ci appare tuttavia restare sul fondo, sul bordo di quella frattura. Il discorso foucaultiano attraversa quattro fondamentali segmenti teorici che lasciano emergere il soggetto come figura del sapere «schiudendo uno spazio proprio alle scienze umane»25, attraverso cui acquisisce una consistenza epistemologica. Il filosofo schiude il mistero dell’invenzione dell’uomo percorrendo quattro fasi: l’“analitica della finitudine”, “l’empirico e il trascendentale”, il “cogito e l’impensato”, e l’“arretramento e il ritorno dell’origine”. Tenteremo di riattraversare tali fasi servendoci dei luoghi surreali dei mondi di Borges, perdendoci nei loro labirinti e deformandoci attraverso il riflesso di quegli specchi che si ripetono incessantemente. Per lo scrittore argentino, infatti, l’arte, così come il sogno, è un atto antagonistico della vita diurna. Il mondo che ci circonda possiede un fascino spaventoso per il Borges corporale, contraddittorio e colpevole che tace un segreto culto per la vita e per la forza. L’analitica della finitudine secondo Borges Nella seconda sezione de Le parole e le cose, Foucault nota come la finitudine dell’uomo sia in grado di emergere soltanto nella positività del sapere, come ciò da cui tale positività è in grado apparire. L’uomo, secondo un’analisi che procede a partire da Kant, si costituirebbe come figura della finitudine in una cultura che pensa il finito a partire dal finito stesso. «Per i viventi per i loro bisogni e le loro parole, la rappresentazione cessa immediatamente di valere, in quanto luogo d’origine e sede prima della loro verità; nei loro riguardi essa non è più, ormai, che un effetto, il loro mallevadore più o meno confuso in una coscienza che li coglie e li restituisce»26. Essa cessa di porre in essere il quadro dell’ordinamento delle cose, ma si configura «nei riguardi di quell’individuo empirico che è l’uomo»27 come il fenomeno, se non addirittura l’apparenza di un ordine che «appartiene ora alle cose stesse e alla loro legge interna»28. Quello che gli esseri sono in grado di mostrare nella rappresentazione è soltanto il rapporto esterno Ivi, p. 15. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 337. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 25 26


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che stabiliscono con l’essere umano. L’uomo, con il suo potere di darsi delle rappresentazioni, diviene l’ente ordinatore di quell’insieme, ma allo stesso tempo, essendone anch’esso stesso parte ne viene dominato, annunciando in qualche misura la propria scomparsa. Difatti, ognuna delle forme positive in cui può apprendere di essere finito si dà sullo sfondo della sua finitudine. Non è più l’idea di infinito che domina le forme della rappresentazione, ma è il distacco della rappresentazione dai suoi contenuti empirici che consente il passaggio dalla metafisica dell’infinito all’analitica della finitudine e dell’esistenza umana. L’unica metafisica che può ricostituirsi viene creata in opposizione a quest’ultima, come tentativo di liberazione, che si misura a partire proprio da quel limite. Quando la metafisica assume le forme di metafisica del lavoro, del linguaggio e della vita, diviene la faccia negativa dell’evento della comparsa dell’uomo, quell’uomo cui era stato attribuito un posto privilegiato dagli umanisti del Rinascimento e dai razionalisti dell’età classica, senza che essi avessero potuto pensarlo. [L’essere umano] col suo essere proprio, sorge in una cavità predisposta dai viventi, dagli oggetti di scambio e dalle parole quando questi, abbandonando la rappresentazione che era stata fino allora il loro sito naturale si ritirano nella profondità delle cose e si avvolgono su se medesimi secondo le leggi della vita, della produzione e del linguaggio. In mezzo ad essi, rinchiuso entro il cerchio che formano, l’uomo è indicato – o meglio reclamato - da essi giacché è proprio lui che parla, giacché lo si vede risiedere fra gli animali […] ma tale imperiosa designazione è ambigua. In un certo senso l’uomo è dominato dalla vita, dal lavoro e dal linguaggio: la sua esistenza concreta trova in essi le proprie determinazioni […]29.

In qualche modo, Borges ci consente di immaginare quest’ambiguità, forse fornendoci un’immagine rarefatta del senso dell’episteme e di quell’uomo disseminato in essa. Nella conclusione de L’idioma analitico di John Wilkins30 egli afferma che non esiste classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale, perché non sappiamo cos’è l’universo, e possiamo sostenere con Hume che il mondo sia l’abbozzo rudimentale di un dio infantile che lo abbandonò a metà dell’opera, nella vergogna della sua esecuzione deficiente, fattura di una divinità decrepita tenuta in 29 30

M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 338. J.L. Borges, Altre inquisizioni, cit., p. 102.


186 Marta Menghi disparte, che è già morta. Possiamo tracciare disegni provvisori nell’impossibilità di determinare un disegno dell’universo, possiamo tentare di far corrispondere le parole alle cose, ma vi procediamo sempre attraverso gesti arbitrari, così come arbitrario è il sistema di classificazione Wilkins e, fuori dal ricercare consolazioni, scorrendo la fine del racconto, possiamo soltanto tendere l’orecchio alle parole di Charleston, per il quale «l’uomo sa che vi sono nell’anima tinte in cui le parole non corrispondono alle cose, più innumerevoli e più indecise di una foresta autunnale […] Crede, tuttavia, che quelle tinte in tutte le loro fusioni possano essere rappresentate con precisione per mezzo di un meccanismo arbitrario di grugniti e di strida. Crede che dall’intimo di un gesto di un agente di borsa escano realmente rumori che manifestano tutti i misteri della memoria e tutte le agonie del desiderio»31. Ed è proprio quello “spazio altro del Medesimo” il luogo in cui Borges ci conduce con la sua tassonomia. Attraverso la metafora che compendia immagini diverse lo scrittore offre una visione simultanea di vari aspetti della realtà, mostrandoceli. Ed allo stesso tempo, oppone a questo movimento un riso silenzioso, lo stesso riso che dà luogo all’opera di Foucault: quello che si consuma di fronte a tutti coloro che vogliono parlare ancora dell’uomo, del suo regno, della sua liberazione, che si chiedono quale sia la sua essenza, che muovono da esso per accedere alla sua verità, che non pensano senza pensare che è l’uomo che pensa. Babele L’uomo, viene descritto da Foucault come un ente allotropo che non può darsi trasparenza di un cogito. Nel mondo si manifesta come il «luogo di una duplicazione empirico-critica con cui si tenta di far valere, in quanto fondamento della propria finitudine, l’uomo della natura, dello scambio e del discorso»32. È il soggetto delle leggi che lo trascendono, immerso in un linguaggio che gli preesiste e ad una vita che eccede sempre l’esperienza con la quale si identifica. Per questo motivo, i contenuti trascendentali con cui può porre, a partire da sé, le condizioni della propria esistenza, ci fanno domandare se l’uomo esiste realmente. Per Foucault l’impossibilità di fare 31 32

Ivi, p. 105. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 346.


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del limite la condizione di esistenza della conoscenza umana mostra che tale progetto sia stato fin dall’inizio privo di possibilità di riuscita. L’instabilità di quel duplicato non è risolvibile, tanto che, se potessimo contestare quell’ordine ontologico e teleologico dovremmo partire dal porci una domanda “aberrante” che discorda da ciò che ha reso possibile storicamente il complesso del nostro pensiero: Tale domanda consisterebbe nel chiedersi se veramente l’uomo esiste […] Siamo talmente accecati dalla recente evidenza dell’uomo da non aver nemmeno più serbato nel nostro ricordo il tempo tuttavia poco remoto in cui esistevano il mondo, il suo ordine, gli esseri umani, ma non l’uomo.[…] noi che ci crediamo legati ad una finitudine che appartiene solo a noi e che ci apre, attraverso il conoscere non dovremmo forse ricordarci che siamo legati al dorso di una tigre33?

Ed in questo senso Foucault si domanda come possa l’uomo diventare il soggetto di un linguaggio che si è formato senza di lui ed all’interno del quale si trova costretto a porre la trasparenza del proprio pensiero, abitare ciò che gli sfugge, identificarsi con leggi che riconosce come estranee da sé. Per farlo deve misurarsi con un impensato, con quella “parte di notte che lo contiene da un estremo all’altro”. Se l’uomo si dà come condizione di possibilità di un mondo in cui si trova coinvolto, sente di esserne sovrano e soggetto allo stesso tempo. Il riferimento all’immagine della Biblioteca ritorna a più riprese negli scritti foucaultiani degli anni Sessanta dedicati alla letteratura. Ne Il linguaggio all’infinito, il filosofo cita la Biblioteca di Babele di Borges nell’ottica di mostrare come proprio la Biblioteca, in luogo della Retorica, vada a definire lo spazio del linguaggio, un «linguaggio destinato ad essere infinito perché non può più appoggiarsi alla parola dell’infinito»34. Perciò, quando il libro non è più lo spazio dove la parola prende figura (figure di stile, figure di retorica, figure di linguaggio) ma è il luogo dove i libri sono tutti ripresi e consumati: luogo senza luogo, in quanto custodisce tutti i libri passati in questo volume impossibile che va catalogando il suo mormorio fra tanti altri – dopo tutti gli altri, prima di tutti gli altri35. Ibidem. M. Foucault, Il linguaggio all’infinito (1963), in Scritti letterari, cit., p. 84. 35 Ivi, pp. 84-85. 33 34


188 Marta Menghi Come il bibliotecario imperfetto, che si accorge che la biblioteca continua a permanere anche quando la specie umana sta per estinguersi che Borges descrive nel racconto de La biblioteca di Babele36, l’uomo, mai completamente assorbito nel cogito, paventa il fondo di oscurità che scopre come l’unica condizione che renda possibili il pensiero e l’azione. Il pensiero, in questo modo, diventa un “atto pericoloso”, perché si confronta sempre con tale assenza di fondamento. Difatti, lo sfondo sul quale viene condotta l’azione morale, delle pratiche e degli obblighi cui siamo sottoposti, si rivela sempre impensato: posto al di là della nostra capacità di dominarlo, fa sì che l’azione ed il pensiero siano possibili. Riappropriarsi di tale sfondo di oscurità è impossibile, perché ogni credenza ha senso soltanto nel tentativo di presupporre che ne esista un’altra che faccia da orizzonte ad essa. Lo stessa successione di rimandi aveva luogo nella Biblioteca (che non a caso per Borges è metafora dell’universo) quando, seguendo la superstizione dell’Uomo del Libro, si cercava quel testo che fosse cifra e compendio di tutti gli altri. Lì, qualcuno, per localizzare l’esagono segreto che lo ospitava, propose di utilizzare un metodo regressivo: «Per localizzare il libro A, consultare previamente un libro B; per localizzare il libro B, consultar previamente un libro C e così all’infinito»37. Simultaneamente, se viene reso impossibile anche soltanto concepire un’azione carica di significato, l’uomo può soltanto farsi spettatore puro del proprio coinvolgimento nel mondo. Non è illogico pensare che il mondo sia infinito, coloro che lo ritengono limitato sostengono che il labirinto esagonale della biblioteca in qualche corridoio possa finire, mentre quelli che lo immaginano senza limiti dimenticano che è limitato il numero possibile dei libri. Borges, evocando l’enigma dell’eterno ritorno, si rallegra della speranza introdotta dalla possibile soluzione al problema che si arrischia ad insinuare: «La biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore l’attraversasse in qualunque direzione, verificherebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)»38. Di fronte a questa impasse avanza l’ombra del nichilismo. Per Foucault l’uomo può soltanto ridere di quella speranza, e può riderne ironicamente, di un riso diverso da quello che rimbomba J.L. Borges, Finzioni, Adelphi, Milano 1993, pp. 67 e ss. Ivi, p. 74. 38 Ivi, p. 76. 36 37


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nelle pagine della Gaia Scienza di fronte alla sua cancellazione. Risuona l’eco di un terribile aut aut: «o cancellate le vostre venerazioni oppure – voi stessi!»39: il riso in cui esplode il volto dell’uomo quando Nietzsche annuncia la fine dell’uccisore di Dio preannunciando una nuova rinascita, mentre quell’atto, di fronte al “limite del nostro”, non fa che congiungere il ritorno del Medesimo con l’assoluta dispersione dell’uomo40. In questo senso leggiamo quello foucaultiano come un riso “silenzioso”, “filosofico”. Svelando lo spazio oscuro in cui il l’uomo si estingue, il soggetto si dissolve nell’apertura dell’episteme. Quel riso «presuppone un certo malessere difficile da superare»41, lo stesso che avvertiamo alla vista del disarmante paesaggio descritto da Borges. Come Foucault afferma in uno scritto dedicato a Flaubert dei primi anni Sessanta, non c’ è altro che il rumore assiduo della ripetizione che possa trasmetterci quello che può accadere una sola volta. L’immaginario non si costituisce contro il reale per negarlo o compensarlo; si stende tra i segni, da libro a libro, nell’interstizio delle ripetizioni e dei commentari; nasce e si forma nell’intercapedine dei testi. È un fenomeno da biblioteca42.

Immergendoci nel mondo delle immagini evocate dallo scrittore argentino, veniamo travolti dall’apparente insensatezza dell’ordine dell’eteroclito, da una serie di elementi disposti in luoghi tanto diversi, da rendere impossibile da comprendere la sola ricerca di un criterio stabile di classificazione. Così come l’oscurità dell’impensato, le immagini borgesiane ci inquietano, perché sono immagini eterotope, perché vietano la nominaF. Nietzsche, La Gaia Scienza, Adelphi, Milano 1977, p. 260. Cfr. ivi, p. 259: «Tutto l’atteggiamento “uomo contro mondo”, l’uomo come principio “che nega il mondo”, come misura di valore delle cose, come giudice del mondo, che finisce per mettere l’esistenza stessa sulla bilancia e la trova troppo leggera – la mostruosa assurdità di questo atteggiamento è entrata come tale nella nostra coscienza e ci disgusta – ci vien giù da ridere quando troviamo “uomo e mondo” posti l’uno accanto all’altro, separati dalla sublime arroganza della paroletta “e”! Ma come? Non è stato appunto con ciò, col nostro riso, che abbiamo semplicemente fatto un passo avanti nel disprezzo dell’uomo e quindi anche nel pessimismo, nel dispregio dell’esistenza da noi conoscibile?» 41 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 7. 42 M. Foucault, Un “fantastico” da biblioteca, in Scritti letterari, cit., p. 139. 39

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190 Marta Menghi zione, impediscono la sintassi, bloccano le parole su se stesse43. Negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. L’uomo duplicato dell’analitica della finitudine consiste così in due racconti: il racconto sulla storia e quello sull’origine44. Nella finzione di Borges, abbiamo due opere nell’identità dello stesso linguaggio e, in questa identità che non è tale, il vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili. Ora, di fronte a una replica perfetta, l’originale è cancellato, e perfino l’origine. Così il mondo, se si potesse esattamente tradurlo e raddoppiarlo in un libro, perderebbe ogni principio e ogni fine, per diventare quel volume sferico, finito e senza limiti, che tutti gli uomini scrivono e in cui sono scritti: non sarebbe più il mondo, ma sarebbe, sarà il mondo pervertito nella somma infinita dei suoi possibili. (Questa perversione è forse il prodigioso, l’abominevole Aleph)45.

Nel racconto del Giardino dei sentieri che si Biforcano, contenuto in Finzioni, ritroviamo un’immagine che può aiutarci a comprendere il senso di quest’ultimo segmento dell’Analitica della finitudine foucaultiana. Yu Tsun, il protagonista della narrazione, è una spia al servizio dell’Impero tedesco che vive in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale. Quando viene scoperta la sua identità, non ha modo di contattare i propri superiori e riferire il luogo in cui si trovano le artiglierie dell’undicesimo Parco britannico, ma trova in una guida telefonica il nome di colui che può permettergli di trasmettere l’informazione. Così, Yu Tsun fugge in treno dopo essersi detto addio allo specchio, per impedire ai suoi inseguitori di braccarlo. Durante la fuga, guardando dal finestrino il capitano Madden che tarda a raggiungerlo al binario, si nasconde annichilito e tremante lontano dalla sua vista, e ben presto riscopre in quell’annullamento una felicità “quasi abietta” per la vittoria sul caso e sul tempo, che prefigura la sua vittoria totale. Sceso in una stazione quasi in mezzo alla campagna, Tsun riflette sul suo passato, sulla propria giovinezza trascorsa in Cina e sul suo antenato Ts’ui Pen, noto per un romanzo apparentemente insensato e per la costruzione di un labirinto, mai ritrovati. Nell’incontro tra il protagonista e Stephen Albert, (la persona Ts’ui Pen che stava cercando per portare M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 7 e ss. M. Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969. 45 Ivi, p. 103. 43 44


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a compimento la propria impresa) si viene a scoprire che lo studioso di lingua e letteratura cinese aveva esaminato le opere di Ts’ui Pen svelandone l’enigma. Il libro e il labirinto non sono altro che la stessa opera: il “giardino dei sentieri che si biforcano”, ovvero la descrizione di tutti i possibili risultati di un evento, ognuno dei quali porta con sé un’ ulteriore moltiplicazione di conseguenze, sovrapponendo senza limite i possibili futuri. Nell’intera opera non c’è mai menzione della parola tempo, perché il giardino, così come era stato concepito dall’antenato del protagonista, non è altro che un’ immagine incompleta, ma non falsa, dell’universo. Ts’ui Pen «non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempi, una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Quella trama di tempi che si avvicinano, si biforcano, si intersecano o s’ignorano per secoli, abbraccia tutte le possibilità. Nella maggioranza di quei tempi noi non esistiamo»46. Ne Le parole e le cose, Foucault sembra affermare che l’origine renda l’uomo contemporaneo alla propria esistenza come ente in grado di darsi già sempre nel mondo, tanto che, proprio a causa della sua separazione dal rapporto con l’origine, egli non è mai in grado restituire un’identità pacificata. Riconsiderando la storia nel suo insieme, l’analitica della finitudine fa luce su come l’uomo possegga sempre una storia, essendo capace di ordinare insieme storicamente tutti gli eventi e tutte le pratiche in cui si trova immerso. D’altro canto, la capacità dell’uomo di comprendere se stesso elaborando progetti su qualcosa di dato rimanda sempre ad una struttura che corrisponde ad una scansione temporale. È questo “saper fare” temporale che può aprire un campo, una temporalità diversa nella quale l’uomo e la storia si rendono possibili. La fonte dell’essere dell’uomo è sempre irraggiungibile e può darsi come verità solo nella ricerca di un’origine sempre votata al fallimento, allo scacco. Come quello esperito da coloro che col proprio genio hanno tentato la strada di un arretramento, coloro che hanno sperimentato quella lacerazione incessante che poteva liberare l’origine nella misura della sua sottrazione. Per questo motivo trova luogo uno spostamento nella temporalità: di fronte al fallimento di ogni tentativo che ha visto proiettare l’origine nel passato, l’unica via di fuga si trova nella possibilità di collocarla nel futuro, «come la promessa di ciò che sta per rinvenire, e la prossimità di una 46

J.L. Borges, Finzioni, cit., p. 88.


192 Marta Menghi luce che ha da sempre rischiarato». Ma ciò non si pone come un evento originario perché, come dichiara Borges, «l’uomo si rassegnerà ad imprese sempre più atroci; […] l’esecutore di un’impresa atroce deve immaginare di averla già compiuta, deve imporsi un avvenire altrettanto irrevocabile del passato».47 In questo modo la logica che sottostà all’analitica della finitudine viene preservata. Come notano Dreyfus e Rabinow: L’uomo che non è la fonte del suo essere – che egli non può in nessun caso risalire agli inizi della propria storia, – e allo stesso tempo cerca di mostrare in un modo assai complesso ed estremamente aggrovigliato che questa limitazione non è qualcosa che lo limita veramente ma la fonte trascendentale di quella storia la cui origine sfugge alla ricerca empirica48.

Le “scienze umane” del mondo di Tlön Nelle analisi precedenti abbiamo tentato di delineare i tratti di un’analitica che costituisce l’apriori sulla base del quale sono potute nascere le scienze umane. Esse ci consentono di considerare l’uomo nella sua positività e di scoprire che cos’è la vita, quali sono le leggi del lavoro e in che modo l’uomo può esprimersi a mezzo del linguaggio. Ma nello spazio che apre la possibilità di questo sapere l’uomo finisce per scomparire, sempre determinato da sistemi che non può dominare. Come nel pianeta di Tlön49, l’immaginario pianeta borgesiano in cui le cose si duplicano e «tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente li dimentica», le scienze “dell’uomo” smantellano la sua stessa figura: sdoppiandolo in soggetto e oggetto riescono a dissolverlo. Il mondo di Tlön viene presentato dall’autore argentino come una finzione che non diviene mai utopia, ma si scopre creazione. Infatti, il racconto si struttura su due piani, che nella conclusione ritroviamo congiunti: un mondo irreale che è il nostro universo sul piano delle rappresentazioni, un universo che acquistando verità si scopre sogno, e quasi seguendo l’orbita di moto ciclico, in quanto sogno rimanda a sua volta al reale, come in un Ivi, p. 81. H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 64. 49 J.L. Borges, Finzioni, cit., p. 21. 47 48


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gioco di specchi infinito. La figura dello specchio diviene centrale nella narrazione. All’inizio del racconto del 1940 intitolato Tlön, Uqbar, Orbis tertius, anche Borges si sdoppia, in un movimento che ci ricorda l’analisi foucaultiana de Las Meninas di Velasquez del primo capitolo de Le parole e le cose. Tlön è l’universo dell’idealismo assoluto, si tratta di un mondo che trova i suoi riferimenti unicamente in se stesso, come possiamo leggere nel resoconto dell’enciclopedia, che è il primo venuto a conoscenza di «Borges» (le virgolette qui sono necessarie per distinguere il Borges personaggio dal Borges autore del racconto che leggiamo) […] tutti gli altri dati reperiti da Borges sono della stessa qualità; si tratta sempre di corrispondenze interne, che non devono nulla al mondo reale, il che distingue radicalmente questo mondo immaginario da tutte le altre Utopie, che sono perfezionamenti o antitesi di paesi, governi o filosofie reali50.

L’ alter ego dell’autore narra di una discussione con Adolfo Bioy Casares in merito alla realizzazione di un romanzo in prima persona, in cui i fatti sarebbero stati sfigurati a tal punto da consentire di accedere al loro senso solo a pochissimi lettori, i quali soltanto avrebbero potuto cogliere l’atroce realtà dello svelamento degli specchi. Nel fondo di un corridoio il narratore descrive uno specchio in cui viene riflessa una ristampa dell’Enciclopedia britannica, ed il suo interlocutore, citando la voce Uqbar di quello stesso testo riflesso, ricorda la dichiarazione dell’eresiarca asiatico che sostiene che gli «specchi e la copula sono abominevoli perché moltiplicano il numero degli uomini»51. La voce, che sembra non esistere in alcuna delle versioni dell’Enciclopedia, viene ritrovata solo dopo molto tempo da Casares in un tomo che contiene pagine aggiuntive non previste, le quali precisano come l’unica letteratura di Uqbar fosse stata di carattere fantastico, e si riferisse al mondo immaginario di Mlejnas e di Tlön. La stessa Uqbar non esiste neanche nella memoria dei viaggiatori ed è proprio da quello spunto oscillante tra realtà ed invenzione che si apre la finzione che descrive un pianeta senza soggetto in cui il linguaggio è un sistema anonimo, in cui non c’è posto per alcun ente donatore di senso. Il genio Borges ci mette di fronte ad un vuoto che non designa una mancanza da colmare, ma che si configura come l’apertura di uno spazio 50 51

G. Genot, Borges, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 34. Ivi, p. 15.


194 Marta Menghi in cui è di nuovo possibile pensare. Ci troviamo al cospetto di un mondo senza soggetto, dove il labirinto rappresenta il simbolo di una casualità arbitraria che conduce ad un capovolgimento temporale, in cui anche le identità vengono confutate. Quello di Tlön è un pianeta in cui nessuno crede alla realtà dei sostantivi ed ogni verbo è impersonale, in cui il mondo è una serie eterogenea di atti indipendenti. È successivo, temporale, non spaziale, non il concorso di oggetti nello spazio. Il linguaggio e le sue derivazioni presuppongono l’idealismo. A Tlön la psicologia rappresenta l’unica disciplina da cui ogni altra deriva, ed ogni rappresentazione procede per associazioni di idee. Spiegare un fatto, o giudicarlo, significa unirlo a un altro. Questo legame rappresenta uno stato posteriore del soggetto che non possiamo comprendere considerando l’uomo come l’ente in cui viene acquisita la conoscenza e che allo stesso tempo rende la conoscenza possibile. Ciascuno stato mentale è irriducibile, ed il solo fatto di nominarlo implica una falsificazione. I metafisici di quel mondo, lungi dal cercare la verità o la verisimiglianza, rivolgono la propria indagine alla meraviglia perché ritengono che la metafisica rappresenti un ramo della letteratura fantastica. Come non sottomettersi a Tlön, all’evidenza minuziosa e vasta di un pianeta ordinato? Può darsi, ma secondo le leggi divine, traduco: secondo leggi del tutto inumane che non riusciamo a percepire del tutto. Tlön sarà forse un labirinto, ma è un labirinto ordito da uomini, un labirinto destinato ad essere decifrato dagli uomini. Il contatto e la consuetudine con Tlön hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo richiamo l’umanità dimentica e torna a dimenticare che si tratta di un rigore da giocatore a scacchi, non da angeli52.

La parola che trasgredisce Attraverso le scienze umane si decreta la Morte dell’uomo, che rappresenta il risveglio dal sonno antropologico. In quell’ordine epistemologico nel quale ogni conoscenza empirica poteva valere come campo filosofico possibile purché fosse riferita all’uomo, questo scopriva il fondamento dei suoi limiti, della conoscenza e della sua verità. 52

J.L. Borges, Finzioni, cit., p. 33.


Le parole, le cose ed altre inquisizioni 195

Svelato il vuoto, la “verità” latente al di là della mistificazione che aveva permesso di pensare l’uomo come soggetto-oggetto di una conoscenza possibile, si apre l’orizzonte di un ritorno al linguaggio: quello della letteratura53, inteso quasi come il sistema anonimo della metafora borgesiana, nel quale il soggetto, però, non trova più posto. Nell’analisi del linguaggio, dell’uomo non emerge alcuna essenza, non viene mostrata alcuna libertà e non si definisce alcuna natura, piuttosto, si scoprono le strutture inconsce che governano e decidono il disegno all’interno del quale siamo in grado di parlare54. Come l’«io penso» cartesiano aveva condotto alla certezza del soggetto, allo stesso modo l’«io parlo» cancella quell’esistenza. Sempre che il vuoto in cui si manifesta l’esilità senza contenuto dell’io parlo non sia un’apertura assoluta attraverso cui il linguaggio possa espandersi all’infinito, mentre il soggetto – l’«io» che parla – si frammenta, si disperde e si sparpaglia fino a sparire in questo spazio nudo. Se in effetti il linguaggio risiede unicamente nella sovranità solitaria dell’«io parlo», niente avrà più il diritto di porgli un limite – né colui a cui si rivolge né la verità di quel che dice, né i valori, né i sistemi rappresentativi che utilizza; in breve non è più discorso e comunicazione di senso, ma distendersi del linguaggio nella sua bruta essenza, pura esteriorità dispiegata; e il soggetto che parla non è più responsabile del discorso […] ma piuttosto l’inesistenza di quel vuoto nel cui s’insegue senza tregua l’effondersi indefinito del linguaggio55.

Nel linguaggio della finzione in cui la soggettività parlante non domina il campo enunciativo, si svela l’impersonalità di un Il y a, in cui il soggetto scrivente si disperde. Perciò l’unico pensiero del fuori, l’unico modo di fuggire da questa gabbia, sembra risiedere per Foucault nella finzione letteraria contemporanea. Poiché in essa, come abbiamo tentato di dimostrare, il linguaggio non più ricondotto alle categorie di opera o di autore riesce a sfuggire alle strutture che lo rendono significante. Non si tratta di schiacciare il soggetto nella struttura, come Foucault ribadirà in svariati luoghi, ma di conservarlo tentando di ri-significarne le determinazioni, pervertendone il senso, perché possa essere pensato come soggetto della non-permanenza e dell’alterità, assumendo l’accidente come unica legge. 53 54

p. 186. 55

Cfr. M. Foucault, Il pensiero del fuori, Se, Milano, 1998. M. Foucault, Intervista a M. Foucault, in Archivio Foucault 1, Feltrinelli, Milano 1996, M. Foucault, Il pensiero del fuori, cit., p. 13.


196 Marta Menghi Per il filosofo la scrittura letteraria diventa così un’esperienza del limite, perché il pensiero si mantiene sempre sul margine, inglobando in sé la possibilità di un soggetto e l’irriducibilità dell’assoggettamento. Si tratta infatti di trasgredire l’ordine nel quale riposa il linguaggio, nello stesso movimento interno di cui si tenta di negare il fondamento. Infatti, la difficoltà, qui, sta nel definire un’esperienza del limite che non si collochi nel registro del senso, ma che «metta il pensiero di fronte a se stesso, nella sua materialità»56. La parola inscrive in sé il proprio principio di decifrazione57 attraverso un soggetto creato e ricomposto senza essere mai fissato all’interno di una rappresentazione stabile, e la trasgressione diventa un movimento che ribalta le regole generali dell’enunciazione, aprendo una linea di fuga nello spazio del discontinuo, sullo sfondo di una lacerazione. Marta Menghi martamenghi@yahoo.it

. Words, Things and Other Explorations Moving from the quotation of Jorge Luis Borges with which Foucault opens The Order of Things, this article aims to explore some passages of the Foucaudian text, trying to establish a “resonance” between the work of 1966 and some images evoked in the stories written by the Argentine author. It will analyse the role of contemporary literature as an experience of thought, as a place of passage to the limit, and then as a philosophical experience that exceeds the status of indicator of historical and epistemic discontinuity attributed to it by the past archaeological operation. Keywords: The Order of Things, Borges, Literature, Transgression, Language, Library, Limit.

56 57

J. Revel, Foucault. Le parole e i poteri, cit., p. 75. V. Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, cit., p. 41.


The Normative Immanence of Life and Death in Foucauldian Analysis of Biopolitics Marcos Nalli

In 2004, Roberto Esposito published a book that very likely projected

him in the international scenario. We are talking about Bíos, biopolitica e filosofia, which, according to its author, «appears in a scenario partially oriented toward the thought going from Nietzsche to Foucault»1. The term “partially” has to do with the fact that Esposito criticizes the Foucauldian analysis of biopolitics because, according to him, it is dual and two-folded: biopolitics may either constitute a politics in favor of life or, on the contrary, turn into a thanatopolitics2. Rather precisely, in the first chapter of the above-mentioned book (“The biopolitics enigma”), Esposito declares that Foucault could not decide himself about this dual trait of biopolitics when he analyzed it genealogically. The Italian philosopher explicitly declares: What is the effect of biopolitics? At this point Foucault’s response seems to diverge in directions that involve two other notions that are implicated from the outset in the concept of bíos, but which are situated on the extremes of its semantic extension: these are subjetivization and death. With respect to life, both constitute more than two possibilities. They are at the same time life’s form and its background, origin, and destination; in each case, however, according to divergence that seems not to admit any mediation; it is either one or the other. Either biopolitics produces subjectivity or it produces death. Either it makes the subject its own object or it decisively objectifies it. Either it is a politics of life or a politics over life3.

R. Esposito, A democracia, no sentido clássico, acabou – entrevista a Antonio Guerreiro, in «Jornal Expresso», Suplemento Actual, 19 June 2010, p. 47. 2 Ibidem, p. 48. See also R. Esposito, Bíos: biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 115-157 (English translation: Bios: biopolitics and philosophy, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008, pp. 110-145). 3 Ibidem, p. 25 (ET: pp. 31-32). 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 197-218.


198 Marcos Nalli Therefore, according to Esposito, no matter how radical and innovative were the Foucauldian analyses on nature and on the ways of exerting biopolitics, they could not solve its enigma. Esposito’s greatest argument is that the biopolitics enigma consists of the undeniable fact that it engenders and produces life – which, sometimes, according to Esposito himself, can semantically correspond to subjetivization –, but simultaneously produces death. In the Italian philosopher’s point of view, Foucauldian limitations lie in the contemplation of this double feature of biopolitics in antithetical and thus contradictory terms – either life or death, either subjetivization or subjection. According to Esposito’s conviction, the solution to this problem is based on what he called “immunization paradigm”: just like the immune system of an organism, political immunization is a «negative protection of life»4. Esposito therefore believes that the only way to escape from what he called “biopolitics enigma” is to dissolve or, at least, to neutralize the relationship between life and death, proving that it is not dual and antithetical; rather there would be a relation of immanence between them. This means that the negation does not take the form of the violent subordination that power imposes on live from the outside, but rather is the intrinsically antinomic mode by which life preserves itself through power. From this perspective, we can say that immunization is a negative [form] of the protection of life5.

Is Esposito right in his accusation? Is the interpretation of Foucault’s biopolitics really dual and therefore contradictory − since its aim is to produce and promote life and subjectivitation, but at the same time it generates death and desubjectivation? Is it true that Foucault does not elucidate the biopolitics enigma as a result of the difficulty of telling biopower from biopolitics? Against Esposito’s criticism, our hypothesis is that the interpretation of Foucault’s biopolitics is not dual and contradictory, given that it presents a relationship of normative immanence between life and death. That does not mean that we are trying to show that Esposito is wrong in his interpretation of biopolitics. That is why we will not seek to refute his arguments. Our purpose is more undemanding: it is just to show that there is a relationship between life and death in Foucault’s analytics of 4 5

Ibidem, p. XIII (ET: p. 9). Ibidem, p. 42 (ET: p. 46).


The Normative Immanence of Life and Death 199

biopolitics that allows us to interpret it in a way that is different from the one advocated by Esposito. Therefore, our aim is to provide an analytical interpretation of Foucault in which the “enigma of biopolitics” – in the words used by the Italian philosopher – resolves itself in satisfactory manner. We will seek to briefly present the main aspects of Foucault’s genealogy of biopolitics and then we will examine how the French philosopher interprets the biopolitics enigma in order to confirm our hypothesis. Foucault’s Analysis on Biopolitics The two main texts where Foucault presents his analysis on biopower and biopolitics are the latest chapter of La volonté de savoir (1976), and “Lecture on March 17, 1976”, which closes his course, Il faut défendre la société. The circumstances under which both texts were written – the first as a book and the second as a class – are virtually the same. He starts the course delivered by him during the 1976 school year with the intention of giving up his investigations, which had been focusing too much on repression6, discipline, and what he called «the “how” of power» – against Surveiller et punir (1975)7. He intended to introduce a new approach that, through a careful analysis of the “war of races”8, would culminate in the presentation of another kind of power relations – the birth of biopower9. La volonté de savoir, in turn, would only be published in December of that year10 within that new framework of research. It is starting from the lecture delivered on March 17, 1976, that Foucault seeks to depict the concept of biopower in a more systematically way. Whereas one witnesses during the late seventeenth century and until the eighteenth century the setting up of disciplinary power, it is possible to spot during the second half of the eighteenth century, among these disperse technologies that discipline the individual’s body, the establishment of another technology of power that does not exclude M. Foucault, «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/ Gallimard, Paris 1997, p. 36. 7 Ibidem, p. 21. 8 Ibidem, p. 51. 9 Ibidem, pp. 213-235. 10 D. Defert, Chronologie, in M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, t. I, p. 49. 6


200 Marcos Nalli disciplinary authority, but rather integrates, inlays, modifies, and uses it attaching itself into society on another level and with another target. According to Foucault, while discipline reaches and traverses the individual’s body, this new power takes man as a living being and as a species, «that is affected by overall processes characteristic of birth, death, production, illness, and so on»11. Foucault is talking here about biopolitics. Its target is something that was not considered either by law or discipline; rather, its aim is the population (not to be confused either with the individual or society): «Biopolitics deals with the population, but population as a political issue, as a scientific and political issue at the same time, as a biological problem and as a problem of power»12. This assumption considers the random phenomena that affects population in its environment (the city), which is artificial by its very nature13, although it can be determined by statistical strategies, hence designing preventive safety measures that is able to regulate people’s lives. For that reason, Foucault interpreted biopolitics as a reversal of the principle of sovereignty: if sovereignty is the power that exercised over the right to kill and let live, along with biopolitics it is less and less the right to die and increasingly the right of interference to make living, and in the way of living, in life’s manner of being, from the moment that power therefore intervenes, above all at that level, so as to increase life, to control its events, its contingencies, its shortcomings; from that point on, death, as the end of life, is obviously the term, the limit, the edge of power14.

As a result, biopolitics, as a “regulatory technology of life”, would aim at a kind of social homeostasis, since it no longer addresses the individual as the disciplinary technology used to do. With liberalism15 as a generic M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 216. Ibidem, p. 219; see also M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 323. 13 M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 218. 14 Ibidem, p. 221. 15 I am aware of the importance of the latest discussion about Foucault’s interpretation of liberalism and its relevance to understand some features of biopolitics. However, the pertinence of this correspondence focus on the wider problem of liberal governmental reason. My concern is to examine just the relation of immanence between life and death in the practice and dynamics of biopolitics, what does not necessarily leads 11 12


The Normative Immanence of Life and Death 201

framework of governmental reason, biopolitics rather aims at population in its collective biological essence16. Therefore, the two technologies, the two kinds of power spotted by Foucault – discipline and biopolitics − are not equivalent, but at the same time do not clash with each other; rather, they coexist and interpenetrate each other – although not in the same way. Hence, because of them, life has become societies’ political goal par excellence since the nineteenth century: To say that power took possession of life in the nineteenth century is to say that it has succeeded in covering the whole surface that lies between the organic and the biological, between body and population, thanks to the play of technologies of discipline on the one hand and technologies of regulation on the other17.

Foucault resumes the discussion in the first volume of his Histoire de la sexualité, La volonté de savoir, no longer relating it to the global theme of war of races and of State racism, but to the sexuality device. His explanation in the last chapter completes his class on March 17, 1976: if death has become the extreme boundary of power, that is not due to humanitarian motivations and feelings, but as the result of the «reason of being of power and the logics of its exercise, that has made the use of the death penalty increasingly difficult»18. From the seventeenth century on, the new power relations aims at life; and biopolitics exerts them on «the speciesto the examination of the liberal framework. Although Foucault considered liberalism as the background of his 1978-1979 classes, there is no explicit mention to this idea in his earlier lessons. This fact suggests that, although the articulation between biopolitics and liberalism is very important – even to understand the inversion of the sovereignty principle as an internal limitation to the governmental reason of the State by means of another kind of governmental resources –, it is possible to conceive that biopolitical strategies are not necessarily a direct result nor an inward trait of the liberal regime. See V. Lemm and M. Vatter (eds.), The Government of Life. Foucault, Biopolitics and Neoliberalism, Fordham University Press, New York 2014; T. Lemke, Os riscos da segurança: Liberalismo, biopolítica e medo, in S. Vaccaro and N. Avelino (eds.), Governamentalidade e segurança, Intermeios, São Paulo 2014, pp. 105-127; S. Castro-Gomez, Hitoria de la Gubernamentalidad, Siglo del Hombre Editores/Universidad Santo Tomás, Bogotá 2010; and C. Candiotto, A governamentalidade política no pensamento de Foucault, in «Filosofia Unisinos», vol. 11 (2010), no. 1, pp. 33-43. 16 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, pp. 24 and 323. 17 M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 225. 18 M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 181.


202 Marcos Nalli body, the body imbued with the mechanics of life and serving as a basis of the biological processes: propagation, births and mortality, the level of health, life expectancy and mortality, with all the conditions that can cause these to vary»19. While since the beginning of the seventeenth century a new type of power relationships through discipline begins to appear, it is the dawn of the technologies of regulation in the eighteenth century that brings about the climax of the historical event of biopower, whose discipline and regulation shaped the two directions of the relations of force, one individualizing and other specifying, one anatomical and another biological, all of them converging to the same purpose: life. Human life as a political purpose, human life as a political fact: «For millennia, man remained what he was for Aristotle: a living animal with the additional capacity for a political existence; modern man is an animal whose politics places his existence as a living being in question»20. Based on the central thesis according to which biopolitics is as an organized set of political, institutional, and governmental strategies devoted to the preservation of human life, both texts follow separate paths, but in mutual interconnection: Il faut défendre la société focuses on the establishment of the modern State racism, while La volonté de savoir turns its attention towards the device of sexuality. In the first one, Foucault defines racism as the means by which a rupture is inserted into the biological continuum of the human species, fragmenting it and introducing a counterbalance regarding races. Additionally, derived from this fragmentation there has been an introduction of a kind of relationship that internalizes war in the social environment: a war between one race and another, so that it allows a biopolitical assimilation of death, producing death as an assurance of life, according to a strictly biological point of view: The fact that the other dies does not mean simply that I live in the sense that his death guarantees my safety; the death of the other, the death of the bad race, of the inferior race (or the degenerate, or the abnormal) is something that will make life in general healthier: healthier and purer21.

Ibidem, p. 183. Ibidem, p. 188. 21 M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 228. 19 20


The Normative Immanence of Life and Death 203

Indeed, the power of bringing about death or of leaving someone to his own devices when he is no longer biopolitically protected, but bared22, operates as a kind of biological protection for the population as a species: In other words, killing or the imperative to kill is acceptable only if it results not in a victory over political adversaries, but in the elimination of the biological threat and the improvement of the species or race. There is a direct connection between the two. In a normalizing society, race or racism is the precondition that makes killing acceptable23.

From an extreme boundary of power, death – or rather the possibility of killing someone regarded as racially inferior or dangerous – is integrated in the field of political action as a radical way of defending the lives of those deemed worthy of defense and encouragement. This defense of life by means of death is based on a system of normalization supported by the Darwinian evolutionary model24, that is, a system of «bio-regulation of the State»25. More than simply bared, this life that might be waived – life whose forced death becomes an inevitable fate – is also desirable for modern society as a whole to the point of being politically and technically implemented. It is a death perfectly assimilated to the governmental system and to the management of the collective population. Thus, this disposability of life is integrated and infused in the social structure: the issue of death is no longer an external and extreme limit to the political modern regime; rather, it becomes one of its effects and functions in the biopolitical practices. In La volonté de savoir, Foucault focuses on presenting what he called the «device of sexuality»26. Again, he insists on the idea that sex is in the «crossroads between body and population», since it is the element that articulates the axes of the technologies of regulation and disciplinary technologies in a way that they coexist as mutually imbricated27. It is according to this biopolitical characteristic of sex as a target and an object that G. Agamben, Homo sacer, Seuil, Paris 1997. M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 228. See also J. Bernauer, Par-delà vie et mort: Foucault et l’éthique après Auschwitz, in Michel Foucault philosophe, Seuil, Paris 1989, p. 320. 24 M. Foucault, «Il faut défendre la société», pp. 229 and 233. 25 Ibidem, p. 223. 26 M. Foucault, La volonté de savoir, pp. 99-173. 27 Ibidem, pp. 191ss. See also M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 224. 22 23


204 Marcos Nalli power is exerted by means of discipline and regulations not as a threat, but as life management28. Sex appears as a condensation par excellence of life in the individuals’ bodies (which do not touch each other/themselves in search of sensations and pleasures, but rather in search of “legitimate” and “natural” desire) and also of life in the social body (aiming at the defense of blood, purity, and racial “aristogenesis”) whose only truth is said through subtle maneuvers and elusions29. Sex was the point of contact in which disciplinary power and biopower joined together and also the aspect that led to this general way of power over life. On the one hand, biopower took the body as a trainable machine whose skills and forces can be enhanced; on the other hand, it acted on the species body considering it a support for biological processes such as proliferation, lifespan, birth and death. It is through sex that the single body and the population are brought together as targets of a power that has life as its aim and purpose30. Biopower is thus an inducement and an investment on life31. At least since the eighteenth century, life has become a highly esteemed subject to political techniques and, as stated by Foucault32, «death has begun to no longer lash directly on life». However, Foucault points out how the principle of sovereignty (the “right of death”) has been reversed: it became no longer a signal of the sovereign power, but rather a displaced force or, at least, a force supported by «the demands of a power that manages life»33. Foucault also highlights that at least since the nineteenth century we have been watching the astounding power of killing in the form of holocausts and genocides, but in a new way: «as supplement to a power that is positively exerted over life». Therefore Foucault declares: The atomic situation is now at the end point of this process: the power to expose a whole population to death is the underside of the power to guarantee an individual’s continued existence. The principle: being able to kill in order to live that supported the tactics of fighting has become a principle of strategy between States; but the existence under consideration is no longer legal, regarding soverM. Foucault, La volonté de savoir, p. 193. Ibidem, p. 76. 30 Ibidem, p. 193. 31 Ibidem, p. 183. 32 Ibidem, p. 187. 33 Ibidem, p. 179. 28 29


The Normative Immanence of Life and Death 205 eignty, but biological, concerning a population. If genocide is, indeed, the dream of the modern powers, this is not because of a return of the right to kill; it is instead because power is now situated and exercised at the level of life, species, race, and the large-scale phenomena of population34.

Foucault’s Notions of Life and Normalization Here is certainly one of the main points of the analysis and critique presented by Esposito against Foucault: he says that Foucault’s is not able to offer an analysis that could explain how biopolitics may produce a thanatopolitics. However, in our point of view, it is not Foucault who is attached to this political rupture between life and death, but it is Esposito’s interpretation that intensifies this trait of contradiction. Esposito takes the terms “life” and “death” as diametrically opposed so that he can only interpret them antithetically. This idea is always tied to an antithesis between the sovereign power and biopolitics through which, as said by Esposito, Foucault could not determine the historical and genealogical terms of that tension: whether they were in continuity – a hypothesis according to which Foucault would have to admit the genocide as constitutive of the paradigm of modernity in the same terms of Agamben’s – or they required a break and a difference – hence biopolitics would be continually invalidated whenever death stood in the way of the life cycle35. Esposito seems to be right about the difficulty of the historical articulation between sovereign power and biopower proposed by Foucault. However, we do not think that is he totally right when he calls upon it for his criticism of the interpretation of Foucauldian biopolitics. At least in his two most important books, Surveiller et punir (1975) and La volonté de savoir (1976), as well in the courses of this period of his theoretical work, Foucault highlighted for several times how came to be the transition from sovereign power to biopolitics. Sovereign power is characterized by a theatrical ritualization of torture that allows no possibilities of doubt about how it deals with life and death. Biopolitics reveals other modalities of action over the individuals and the population that are strategically more effective and insidious. It works through disciplinarization and regulatory 34 35

M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 180 (emphasis added). R. Esposito, Bíos: biopolitica e filosofia, p. 38.


206 Marcos Nalli actions that have as focus and target the living body and the species life of a populational group. What is very hard to determine in the historical and genealogical narratives produced by Foucault at that time are the reasons that would have led to this shift. However, in Naissance de la biopolitique Foucault reveals the hypothesis that led him to this inversion: it happened because of the necessity to create internal mechanisms that would limit the Police State in its internal governmental politics. This is the Foucauldian analysis of the rise of liberalism as a way to contend the government power of the State and as a new form of governing. Therefore, it is possible to presume that the inversion of the sovereignty principle took its course mainly because of the limitation and contention of the sovereign power rooted in the State and in its governmental reason. At any rate, if we assume consistently with Foucault’s ideas that biopolitics performs a reversal of political primacy between “life” and “death”, it is necessary to think about how Foucault articulates these two terms; after all, inversion does not necessarily imply replacement or removal, as Esposito’s interpretation seems to entail. Some clues have already been given in the final chapter of La volonté de savoir: life is the object and purpose of a whole array of actions and strategies; also, life is in some respects one of the effects of biopolitics, what is acknowledged by Esposito himself. The answer to the challenge presented by this articulation can be found in another notion, which is highly prized by Foucault; namely, that of standardization, especially considering the utmost challenge that racism inflicts upon the biopolitical governments of modern societies36. But what is a normalizing society? Foucault defines it explicitly in Il faut défendre la société37: it is a society where discipline and regulation are organized around norms, making possible a set of planned actions that aims to society as a whole from a fundamental unifying exponent, which is life taken as its purpose, its object, and its effect. At any rate, it is clear that norm prevails in the whole set of forces and technological relations that regulates social life. A hegemony of the norm is not therein warranted; rather, a situation of constant tension remains between the forces of normalization and the events of resistance, questioning, and confrontation that disarticulate or at least prevent the full success of regulatory 36 37

M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 228. Ibidem, p. 225.


The Normative Immanence of Life and Death 207

and disciplinary strategies38. The question still persists: what characterizes a normalizing society? Firstly, according to Foucault, norm should not be confused with law, which is a legislating system based on the principle of equalitarian citizenship. This does not mean that law and norm do not coexist. On the contrary, as Foucault himself endeavored to demonstrate in Surveiller et punir39, modern society is distinguished precisely by a relationship between law and norm where law is compelled, explained, justified, and determined in line with a normative system40, at first taken as disciplinary41. Foucault then promptly generalizes his interpretation of norm separating it from the one directly linked to disciplinary power, noticeably individualistic, in order to apply it also to the regulatory and biopolitical strategies of modern society. In Les anormaux, Foucault devoted himself to describe norm as a bearer and a vector of power by which it qualifies and corrects itself, thereby establishing the connection «to a positive technique of intervention and transformation, to a sort of normative power»42. As always, Foucault remains sustaining the positivity of power, its function and its major characteristic, from which its other traits stem, coalescing with them at the same time. Power is productive, it produces knowledge and regimens of truth43; it produces individualities, either through the compliance of bodies, or through the feasibility statistically established, and biologically and medically regulated44. This certainly does not explain how Foucault conceives of the notions of life and norm in his genealogical analysis of biopolitics. Pierre Macherey give us clues to better understand them; he based himself on the concepts of norm and tried to analyze both Canguilhem’s and Foucault’s philosophical ideas in a series of studies. In an article entitled De Canguilhem à Canguilhem en passant par Foucault, Macherey states that the E. Castro, El vocabulario de Michel Foucault, Universidad Nacional de Quilmes, Bernal 2004, p. 250. 39 M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, p. 216. 40 See also M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 19771978, Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 58. 41 M. Foucault, Surveiller et punir, pp. 259ss. 42 M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France. 1974-1975, Seuil/Gallimard, Paris 1999, p. 46. 43 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, p. 22. 44 M. Foucault, Surveiller et punir, p. 227. 38


208 Marcos Nalli idea of norm should be “denaturalized” and deprived of all its alleged objectivity, thus revealing that, according to Foucault, norm must be understood in dynamic terms of a normativity: for Foucault, this normativity is set by socio-political arrangements45. For this reason, even in Les anormaux, Foucault refers to norm as a political concept: «The norm is not at all defined as a natural law but rather by the exacting and coercive role it can perform in the domains in which it is applied»46. Hence, what one can infer from the political connotation of norm in Foucault’s perspective it is that “the vital” does not constitute the starting point for the establishment of norm; rather, its foundation is “the social”. What changes and regulates life as a pursuable value are the coercive forces of the norm role, its enforcement and implementation as prescription. Life only becomes an aim to be well protected and nurtured when, through norm, it is turned into a value, into a virtue, into a referential principle. According to Macherey, the issue that worried Foucault the most was to understand how «the action of norms in human life determines the kind of society they belong to as subjects»47. Norms are productive by definition. They produce life and subjectivities. As said by Foucault48, being a subject means to belong to the present and, therefore, being subjected to norm. But in this case “subjected” does not exactly mean being inhibited, constrained, forced by the norms, since they are not the same as laws, which are universalizable and general precepts that coerce individuals and their behavior – or more generally, their thoughts. As opposed to the coercion by laws, which always derives from an external factor, the coercive power of the norm towards the subject is not defined by a principle of exteriority. The norm is immanent to the subject, and its coercive force toward the subject comes from within49. This means that there is a kind of coexistence and interdependence between the norm and the subject, between norm and life. That is why one can comprehend that norm does not limit the individual’s reality; rather, norm amplifies it. Because of the relation of immanence between norm P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem en passant par Foucault, in Georges Canguilhem: philosophe, historien des sciences, Albin Michel, Paris 1993, pp. 288 and 292-293. 46 M. Foucault, Les anormaux, p. 46. 47 P. Macherey, Pour une histoire naturelle des normes, in Michel Foucault philosophe, p. 203. 48 M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Dits et écrits, t. IV, p. 680. 49 P. Macherey, Pour une histoire naturelle des normes, p. 215. 45


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and life, we can better understand its productive trait, since what determines and establishes norm is the regularity of its actions on life. Therefore, norm is not equal to a rule or a law, but to a process which is historically and socially situated; a process that is different from a mere accident or deviation because of its steadiness and regularity. More than that, norms are similar to the regularities of power relationships – hence implying even the possibility of exerting counterpowers and resistance. Unlike law and its pretension to universality, norm is inherently changeable, because it only occurs in the effectiveness of its action and only grasps it through the regularity of the effects caused by it. If the relationship between life and norm, i.e. between subjectivity and norm, is a mutual relation of immanence, then the idea that norm as a political force produces life and subjectivity implies that life and subjectivity are as dynamic and flexible as norm. This dynamism and this flexibility manifest themselves in the form of diversity and differentiations of the subject and of the living beings that we all are. However, due to their reciprocity, life and subjectivity compel normalization apparatus and the statistically normal curves to modulate themselves, to “adapt” themselves to the occurrences of differentiation and deviations from these curves. Consequently, it is possible to assert that norms precede life and subjectivity in its constraint over them, since the multiplicities of forms that life and subjectivity take on as experiences can be arranged, classified, hierarchized, and eventually valued on the basis of a regulatory pattern previously established. This is what Foucault, referring to the disciplines, called “normation”, where people, their behaviors, their gestures – in a word, their whole lives in their very little details – are conformed to standards taken as value, a value built up «pursuing a determined result»50. Foucault probably used the above-mentioned expression to describe the devices of normalization which perform the inversion of the relationship between normality and norm. By means of this inversion, the standard norm is opposed to differentiations and variations in order to enable a more detailed analysis of the phenomena; in this analysis, the differential individualities are acknowledge and, at the same time, considered along one and same line, without ruptures, while simultaneously dismembering the different normalities in relation one to another51. As a result, 50 51

M. Foucault, Sécurité, territoire, population, p. 59. Ibidem, p. 64.


210 Marcos Nalli the differential individualities are taken within a statistical frame as differential normalities which, considered according to their differentiations within an identical statistical representation of normality, can be technically operated to minimize the harmful and negative aspects of some sort of normality, forcing it to get close to those reckoned favorable. This is the ultimate goal of biopolitics taken as a complex set of normative and regulatory strategies through which lives and subjectivities are managed and supported – those lives that, if not deemed excellent and ideal, at least are considered more favorable for the social group: «The norm lies within the differential normalities. The normal is first; the norm is deduced from it; the norm is fixed and performs its operational role from the study of normalities. Therefore, I would say that it is no more a normation but, strictly speaking, a normalization»52. These differential normalities points to what Canguilhem means with the idea that life is the result of differential responses and procedures that several organisms produce and create in the face of threats and challenges that environment imposes on them. These responses are self-regulatory and self-creators53. Foucault therefore shares this same general conception of life, but in a different way: he seeks to consider it in a more specific frame regarding strategies and regulations in modern biopolitics. In any case, based on this conception of life as self-regulating, life becomes itself value and norm. Therefore, by identifying life and differential normality, Foucault could claim that life has become no longer an effect and a mere result of biopolitical strategies, but its own aim and ultimate value. This is the background in which biopolitics has to be taken as normative. Hence, one must take biopolitics as a producer of life, since it is by means of this process of normalizing that the individuals’ lives (the differential normalities reckoned advantageous within a statistical frame of an analysis of the population) may be lifted up to a standard norm status, so as to be desired, intensified, motivated, and ultimately produced. But how to interpret the apparently paradoxical fact that biopolitical strategies can also incite death in this biopolitical scenario? Ibidem, p. 65. See G. Le Blanc, Canguilhem et les normes, PUF, Paris 1998, pp. 52-56; see also M. Muhle, Sobre la vitalidad del poder. Uma genealogia de la biopolítica a partir de Foucault y Canguilhem, in «Revista de Ciência Política», vol. 29 (2009), no. 1, p. 157. 52 53


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Death and Biopolitics Death as a question has always been present one way or another in Michel Foucault’s analytical framework at least since Naissance de la clinique (1963), text in which Foucault produces an important theoretical inflection regarding Canguilhem, as he identifies death as the heuristic key to understand both life mechanism and the morbid process that constrains any and every life: It is from the height of death that one can see and analyze organic dependences and pathological sequences. […] The privilege of its intemporality, which is no doubt as old as the consciousness of its imminence, is turned for the first time into a technical instrument that provides a grasp on the truth of life and the nature of illness54.

Although life might be raised to the condition of value and norm, it is through its contraposition to death, albeit extreme, that one becomes able to know it and formulate about it all kinds of knowings and speeches. Looking at a dead body is the key to interpret the positivity of life rather than looking at an inert body taken as the total negativity of life. This means that life is now understood as the very processes of differentiation and susceptibilities that any living creature appeals to in order to survive and overcome the limitations, threats, and challenges that the environment imposes on it, even if it has to pay the price of being subject to some limitations or diseases. Within this frame of thought, death is «its more differentiated depiction»55. In the nineteenth century, the perception of death and its relation of total and extreme negativity towards life shifted to another concept in which life and death are understood within a processual continuum. This allows a trained look on a dying body to reveal the story of its extinguishing life, its reactions and overcomings regarding the etiological frames until the process of death is triggered in a irrevocably way. Death is no longer taken as the negative external side of life, but rather as the culmination of a vital process. If life was raised to the condition of a value, M. Foucault, Naissance de la clinique, PUF, Paris 1963, pp. 146-147. Ibidem, p. 176. See also M. Nalli, Foucault: curar os outros e cuidar de si, in D.O. Perez (ed.), Filósofos e terapeutas em torno da questão da cura, Escuta, São Paulo 2007, pp. 180-182. 54 55


212 Marcos Nalli this is because it is from death as a problem that it can be scientifically objectified56. Some years later, already in the context of the efforts for analyzing the biopolitical relationships, Foucault takes up again this idea in general terms. He is worried again about the circumstances in which death ceases to be an end, a refusal, an obstacle to political action and the extreme edge of power57 in order to become also an object and a political issue concerning the devices and technologies of power that emerged historically in the late eighteenth century. The general aim of these devices became man as a species affected by collective processes pertaining to life, such as birth, death, procreation, production, longevity, health, and disease. The concern was not about a particular individual, but regarded an entire population taken as endowed with the nature of human species. In the early nineteenth century, the concept of human nature was historically introduced because of an apparent insertion of new privileged biological knowledge. Hence, what begins to prevail is a notion of population not as a subject of juridical nature that opposes itself to the royal power. Within the framework of the sovereign power, population was understood as another body; now, within the framework of biopower, it is taken as a species: «It is the entry, in the field of techniques of power, of a kind of nature»58. Population is finally raised to the condition of biopolitical object par excellence. The political issue was completely reversed by means of the biologization of the social body: the matters of management and normalizing government of populational most characteristic phenomena and determinants freed itself from its juridical-institutional settings (mainly represented by the State and the sovereign figure) and turned into a more complex political structure which surpasses – but does not necessarily eliminate – the objects, themes, and the classical boundaries of politics. This is why the life of the population as a species should be also understood as the entire production of knowledge about all the inevitable phenomena of life, from birth to death. Considering death in this way, Foucault points out that the biopolitical attention no more lies upon epidemies – although that does not mean that these facts and dangers were ignored; they were rather considered according to some kind of strategical-functional (or, in some M. Foucault, Naissance de la clinique, p. 202. M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 221. 58 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, pp. 76-77.

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respects, “utilitarian”) hierarchy. The biopolitical attention is focused now on diseases that are recurrent and difficult to eradicate, those that can bring about death and makes casualties a constant, a proper phenomenon of population59. Consequently, there has been a production of means that would assimilate the incidence of death, making its feasibility acceptable within a framework of protection and biopolitical promotion of the life of the population60. This is what occurs in vaccination and immunization operations that evidently aim at the protection of most of the population even aware of the possibility of “post-vaccination adverse effects”. Obviously, I am not assuming that there are no governmental political actions in order to diminish these paradoxal effects that are manageable, although unwelcome. It is sufficient to take a look on the Information System of the National Immunization Program of the Health Ministry and its System of “Post-Vaccination Adverse Effects” (EAPV), in Brazil, or on the Manual of Epidemiological Vigilance of Post-Vaccination Adverse Effects, by the Brazilian Health Ministry, which emphasizes the word “event” in order to deny a casual relation between vaccination and its possible adverse reactions (a term emphatically denied in this document): No vaccine is totally free of provoking adverse events, although the risks of critical complications caused by the immunization from the vaccine calendar are lower than the ones caused by the diseases that they fight against. Take for instance polio, whose chance of chronical paralysis in the case of infection by the savage virus is of 1 for every 250, while in the case of the vaccinal virus it comes down to 1 for every 3.2 million doses (WHO). Even in the case of reatogenic vaccines like DTP, the analysis of the comparative risks between the vaccine and the correspondent diseases clearly shows the benefits of vaccination. A great concern about the contraindication of vaccines is still required because of the occurrence of adverse effects. The non-immunized individual is at risk of getting sick and also represents a risk to the community61.

We can realize that effective actions are stipulated in order to prevent these cases or, at least, in order to minimize the number of losses. BeM. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 217. Ibidem, p. 228. 61 Ministry of Health (Brazil), Manual de Vigilância Epidemiológica de Eventos Adversos Pós-Vacinação, p. 15. 59 60


214 Marcos Nalli tween 2002 and 2008 the immunization against the yellow fever is one of the most critical of these situations: 19 occurrences of the disease were registered in several countries, costing the life of 11 people (5 of them in Brazil); all of them became sick after taking the first dose of the vaccine. Governmental statistics reveals one death for every 450 thousand vaccine shots as the worst scenario62. Theoretically, these are acceptable losses and, from a governmental point of view, it is a risk to take – a viable and even justifiable risk if we consider the number of lives saved every year by means of immunization strategies, although we will never find this explanation so evidently (or cynically) verbalized in any document or official websites of any government. Foucault shows how death so ceases to be an external limit, an “outside” of power relations, to become an important issue concerning the maintenance of regulated and “under control” series of vital phenomena. Death has become the vital phenomenon par excellence, since it is a threat to be avoided; at the same time it is a threat that can also be imposed, leading to varied political strategies of management and control concerning whether individuals or populations. It has been by scientifically scrutinizing population in extreme situations and pushing it towards the limits of its existence as a biological species (endemics and epidemics, natural and human-caused disasters, such as famine, scarcity or war) who forged biopolitical strategies of control and governmental measures whose aim was to firmly avoid those extreme situations of annihilation and death, as well as any reactions of rebellion and insurrection motivated by the unbearable threat of death. Therefore, if life becomes a value and a political end, it is because of its foundation on an entropic relationship with death; and maybe that is the reason why, besides its intention to promote and protect life, biopolitics ends up allowing «the substance of life to escape», as said by Didier Fassin63. This is certainly the most controversial tone of the whole Foucauldian interpretation of biopolitics. However, it is important to highlight that the polemical tone of those pages in Il faut défendre la société is due to the Foucauldian effort to offer an assertive interpretation of both State Ibidem, p. 79. See I. Löwy, Vírus, Mosquito e Modernidade. A febre amarela no Brasil entre ciência e política, Fiocruz, Rio de Janeiro 2006, pp. 317-379. 63 D. Fassin, La biopolitique n’est pas une politique de la vie, in «Sociologie et sociétés», vol. 38 (2006), no. 2, p. 36. 62


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racism and, more particularly, of Nazism itself. Through the lens of his interpretation of biopolitics, Foucault shows that Nazism is not a kind of excrescence of the history of modern Western societies, which strive to label themselves as democratic and advocate of human rights. Certainly, it is by means of a similar strategy that Agamben was able to interpret Walter Benjamin’s famous saying, according to which the State of exception is the rule: so as to exterminate bare life (liable to be killed, but not to be sacrificed, in Agamben’s words), there is in modern capitalist societies a sort of co-substantiality between the juridical-institutional model and the biopolitical pattern, which allows one to take the state of exception as a paradigm of the political structures of modern societies64. Or, following Esposito’s interpretation, the biopolitical paroxysm produced by Nazism culminates in a lack of distinction between sovereign power and biopolitics itself, in such a way that «in the biopolitical regime, sovereign law isn’t so much the capacity to put to death as it is to mollify life in advance»65. In turn, Foucault also refers to paroxysm. Above all, he declares that Nazism revealed a complex type of relationship between sovereign power and biopolitics, identified by him as coextensive or concurrent. But probably the play between the sovereignty principle and the biopolitical principle also occurs in all other States, either socialist or capitalist66. Nazism was not an “extemporaneous” incident; again according to Foucault, the very possibility of the Nazi State to become an assassin State is not given by its racist trait, which justifies and legitimizes it, but by its own biopolitical functioning67. Genocide are justified by racism, but their functional and technological economy follow the pattern of biopower: it is the biopolitical strategies and relationships that determine how and under what conditions life can become a normative value – a desirable life – and, at the same time, how it settles which deviations and anomalies are undesirable or even noxious – an expendable life. If all these approaches seem to present the paradoxical framework of biopolitics − whose purpose is to promote life, but ultimately also produces death −, it is because of the immanent relationship between life and death that is evidenced in an undeniable way as a value for bioG. Agamben, Homo sacer, p. 14. R. Esposito, Bíos: biopolitica e filosofia, p. 157 (ET: p. 145), emphasis added. 66 M. Foucault, «Il faut défendre la société», p. 232. 67 Ibidem, p. 228. 64 65


216 Marcos Nalli politics. This paradox always bases itself over a framework of institute or to-be-instituted knowledge. See for example the Brazilian eugenics from the early twentieth century, which promoted healthiness contests and created the neighborhood of Higienópolis, in São Paulo. Or let’s take France, where thousands of people who suffered from mental illness were abandoned to die of starvation, cold and all kinds of diseases during World War II – what has become known as “soft extermination”, something that had its equivalent in Brazil around the first half of the twentieth century when approximately 60 thousand people died in the country’s largest asylum, in Barbacena, Minas Gerais68. There are of course some recent examples of these occurrences, like the African outburst of Ebola that spread fear and led to preventive – or rather immunitarian – actions69. In this case, it was constituted a kind of biological citizenship that reveals how biopolitical management incites biologically grounded inequalities (in terms of healthiness). Justified by what is considered to be a «humanitarian reason»70 these biological distinctions have demanded actions of contention, eradication, and normalization71 in which some government had See M. Nalli, Antropologia e racismo no discurso eugênico de Renato Kehl, in «Teoria & Pesquisa», no. 47 (2005), pp. 119-156, and Reflexões sobe o eugenismo à francesa: Alexis Carrel, in M.L. Boarini (ed.), Raça, higiene social e nação forte: mitos de uma época, EDUEM, Maringá 2011, pp. 21-48. See also D. Arbex, Holocausto Brasileiro, Geração Editorial, São Paulo 2013; I. Michine, L’Exterminatio n douce en France, in «Le Patriote Résistant», September 1998 (<http://www.fndirp.asso.fr/septembre98.htm>); A. Pichot, La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000. 69 See R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002; A. Brossat, La démocratie immunitaire, La Dispute, Paris 2003; M. Nalli, Communitas/Immunitas: a releitura de Roberto Esposito da biopolítica, in «Aurora», vol. 25 (2013), no. 37, pp. 79-105. 70 R. Esposito, Immunitas, p. 44. See also D. Fassin, Humanitarian Reason. A Moral History of the Present, University of California Press, Berkeley 2012. 71 See D. Fassin, When Bodies Remember. Experiences and Politics of AIDS in South Africa, University of California Press, Berkeley 2007, p. 268: «The affirmation that all lives have the same value – on which, taking off from very different premises, both the activists seeking to save those who can be saved and the government trying to defend an ideal of social justice may agree – is belied by the biological evidence of premature deaths (young adults and their children as AIDS victims, but also as victims of other illnesses, homicides, and accidents); it is also contradicted by the political evidence of lives that have never really counted (for a long time, even their deaths went unrecorded under the apartheid regime). The inequality of lives, biological and political, local and global, is perhaps the greatest violence with which anthropologists are confronted in the field, as they daily prove the truly existential and vital distance that separates them from the men and women whose histories and lives they encounter». 68


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to move an enormous apparatus in order to save a single of its citizens life – regardless of the demand of saving an entire village that lies in the countries where Ebola arouse. Therefore, there are basically two ways to biopolitically incite and produce death: (a) By means of a non-sacrificial strategy through which individuals whose life had been deemed harmful, thereby liable to be discarded – such as the lives of the French mentally ill in the Vichy government which were abandoned to their own fate in such a way that thousands desperately died of hunger; others, under the same condition committed suicide (Walter Benjamin for instance); there had been also those deaths “administratively acceptable” in the face of a statistically salutary frame aiming at the “protection” of the majority of the population, as it happens in vaccination campaigns. (b) By way of clear and direct genocidal strategies, as happened in the concentration camps or in the Gulags, which introduced techniques of death either through forced work or in gas chambers. But to what degree State murder performed by several states in the USA supported by capital punishment law belongs to a different political economy? Is it not also a way of eliminating a pernicious life in order to safeguard the lives of the qualitatively most desirable and good ones? For sure, the death of a large number of people by direct means or by simply relinquishing them is loathsome; but this is actually not different at all from a single life that is eliminated because its fortuitous death is considered statistically acceptable, since the purpose that had led this life to death is the same: the protection of most of the species-population’s lives and health. It is all a matter of the economy and the functional technology of biopolitics. In these situations, no scandal or shame seems to mess with our good conscience... And, therefore, neglect and indifference themselves may be sufficiently and dreadfully deadly72. Marcos Nalli Universidade Estadual de Londrina marcosnalli@yahoo.com This article is the result of a Research Project supported by the National Council for Scientific and Technological Development (CNPq, Brazil) and the Foundation Araucaria of the State of Paraná, Brazil. My thanks to Gabriel Pinezi and Tiaraju Dal Pozzo for their readings and suggestions. This essay was translated from Portuguese by Simone Válio and Gabriel Pinezi. 72


218 Marcos Nalli

. The Normative Immanence of Life and Death in Foucauldian Analysis of Biopolitics According to Roberto Esposito, the Foucauldian interpretation is divided and dual, and it does not solve what he calls “the biopolitics enigma”, that is to say: how can biopolitics, which aims at protecting and promoting life, lead also to death? In this article I demonstrate that biopolitics is not paradoxical as it may seem, since it is characterized by relations of reciprocal immanence between biopolitics and life, on account of the way it rules the relations between norm and normality. Thus, life is the ultimate object and aim of biopolitics: transformed into a value, life turns itself into norm, making it possible to take actions and strategies of broad range even in a paradoxical way. Taking this scenario of reciprocal immanence, death may be understood as a phenomenon innate to life; in the same manner, its direct or indirect occurrence may be taken as a consequence inherent to life’s biopolitical exercise. Keywords: Foucault, Esposito, Canguilhem, Biopolitics, Life, Death, Norm.


Dal potere sulla vita al governo dell’ethos Centralità genealogica della governamentalità Ottavio Marzocca

Biopolitica o governamentalità?

La grande attenzione che negli ultimi decenni è stata rivolta al tema della

biopolitica, ha potuto far credere che questa sia – per così dire – la parola definitiva della ricerca di Foucault sul potere. In realtà, se proprio si deve cercare una “parola definitiva” a questo riguardo, essa non è biopolitica, ma governamentalità. La rilevanza di questo concetto, tuttavia, può essere colta pienamente solo riconoscendo almeno in alcuni dei Corsi tenuti dal filosofo francese al Collège de France a partire dal 1976, una parte fondamentale della sua “genealogia del potere”. Una simile premessa è opportuna innanzitutto per una ragione semplice: nel 1976 Foucault – pur continuando ad esprimere pubblicamente il proprio pensiero nelle forme più varie – interrompe la pubblicazione dei suoi libri dedicati alla sistemazione dei risultati delle sue ricerche, e la riprende solo nell’anno della sua morte (1984). In questo lasso di tempo le sue lezioni diventano più che mai una sorta di laboratorio: il potere per alcuni anni resta l’oggetto esclusivo delle sue ricerche e a questo riguardo, dopo la biopolitica, sarà appunto la governamentalità ad imporsi prepotentemente, assumendo di fatto un’importanza intrascurabile anche per gli studi sulle esperienze etiche dell’antichità, di cui daranno testimonianza i Corsi degli anni Ottanta e i due libri pubblicati nel 19841. I Corsi che consentono maggiormente di cogliere il rilievo cruciale della governamentalità sono quelli del 1978 e del 1979, nei quali – con tutta evidenza – questo tema diviene preponderante2. Il fatto che in essi M. Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, trad. it. di L. Guarino, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984; Id., Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984, trad. it. di L. Guarino, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985. Di seguito ci riferiremo anche ai Corsi tenuti al Collège de France. 2 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005; Id., Naissance de 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 219-240.


220 Ottavio Marzocca Foucault decida di porlo al centro della sua ricerca è motivato dal bisogno di definire il contesto in cui la biopolitica si è affermata nella modernità. In un certo senso, dunque, è la biopolitica a determinare questa attenzione, ma la governamentalità sarà la cornice nella quale essa dovrà essere inquadrata. La biopolitica, d’altra parte, verrà di fatto sopravanzata non solo dalla governamentalità, ma anche da altri temi di ricerca come l’economia politica che a sua volta verrà esaminata come forma fondamentale della razionalità di governo della nostra società. Insomma, se si pensa che, dopotutto, “governamentalità” sia solo un altro termine per nominare la biopolitica, si rischia non solo di travisare i significati di entrambi i concetti, ma anche di sottovalutare l’importanza di altre tematiche che si ricollegano alla governamentalità. È pur vero che la preponderanza assunta dalla biopolitica nelle letture recenti di Foucault ha trovato una condizione favorevole nell’enorme fecondità che questo tema ha rivelato nell’analisi di tutta una serie di eventi e problemi della nostra epoca: conflitti interetnici, “guerre umanitarie”, grandi flussi migratori intercontinentali, sviluppi delle biotecnologie e della ricerca genetica, ecc.3. L’attenzione a questo argomento, inoltre, è stata rafforzata dal fatto che esso ha costituito il primo grande tema politico emerso dalla graduale pubblicazione dei Corsi di Foucault, avviata nel 1997 con l’edizione della serie di lezioni più marcatamente “biopolitica” (“Bisogna difendere la società”), tenuta nel 19764. I Corsi del 1978 e del 1979, viceversa, furono pubblicati soltanto nel 2004. Solo da quel momento, perciò, si poté cogliere pienamente la centralità che il filosofo francese andava attribuendo alle “arti del governo”. Nel primo di essi, infatti, Foucault decide sostanzialmente di soprassedere alla ricerca sulla biopolitica, per analizzare il tema del governo attraverso tutta una serie di sue specificazioni: potere pastorale, ragion di Stato, Scienze di polizia, economia la biopolitique. Cours au College de France. 1978-1979, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005. 3 Per un’ampia ricognizione, anche bibliografica, sulla fecondità e le implicazioni del tema della biopolitica si veda R. Brandimarte, P. Chiantera‑Stutte, P. Di Vittorio, O. Marzocca, O. Romano, A. Russo e A. Simone (a cura di), Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006. 4 M. Foucault. “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France. 1976, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Seuil/Gallimard, Paris 1997, trad. it. di M. Bertani e A. Fontana,“Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1975‑1976), Feltrinelli, Milano 1998.


Dal potere sulla vita al governo dell’ethos 221

politica, ecc.. D’altra parte, nel Corso successivo – malgrado il suo titolo (Nascita del biopolitica) – egli non farà altro che svolgere un’acutissima ricerca sulla governamentalità liberale e sul ruolo fondamentale che vi svolge la razionalità economica5. La guerra, il politico e l’economico Un ruolo di spartiacque nel percorso di Foucault sembra svolgere, in ogni caso, il Corso del 1976 nel quale – come si è accennato – il tema della biopolitica assume un’importanza imprescindibile. È importante però rilevare la motivazione di partenza di quelle lezioni. Essa consiste in domande come le seguenti: si può fare l’analisi del potere senza dare per scontata la supremazia dell’economia sulla politica? Si può esaminare l’esercizio del potere senza doverlo spiegare nei termini di uno “scambio”, per cui ci sarebbe sempre qualcuno che prende il potere e qualcun altro che lo cede, qualcuno che lo conquista e qualcun altro che lo perde? Si può svolgere una ricerca sui rapporti di potere senza doverli concepire come risultati o riflessi di “rapporti di produzione” come quelli che si instaurano fra capitale e lavoro? Quando Foucault si pone questo tipo di domande sembra semplicemente voler ricollocare “economia” e “politica” su un piano In realtà, se c’è stata sottovalutazione – almeno in un primo momento – delle ricerche foucaultiane sulla governamentalità, essa forse ha riguardato in modo particolare la filosofia italiana la quale, d’altra parte, si è distinta proprio per la ricchezza e la profondità della riflessione sulla biopolitica, che ha saputo svolgere a partire da Foucault soprattutto – ma non solo – per merito di Giorgio Agamben, Roberto Esposito e Antonio Negri (in proposito ci permettiamo di rinviare ai nostri: Biopolitica, sovranità, lavoro. Foucault tra vita nuda e vita creativa, in AA. VV., Foucault, oggi, a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 226-251; Agamben, Negri, Esposito: la biopolitique sans fin, in AA. VV., La vie au-delà de la biopolitique/La vita al di là della biopolitica, sous la direction de/a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 2013, pp. 149-162). Di certo, però, il grande rilievo del tema della governamentalità – come è ben noto – era già stato colto in altri contesti culturali prima che la filosofia italiana rivolgesse in modo crescente la sua attenzione alla biopolitica. In ambito anglosassone, in particolare, i Governmentality Studies già dai primi anni Novanta hanno prodotto risultati di grande interesse, riguardo ai quali qui ci limitiamo a ricordare alcuni dei testi di maggiore importanza: G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (a cura di), The Foucault Effect. Studies in Governmentality, The University of Chicago Press, Chicago 1991; A. Barry, Th. Osborne e N. Rose (a cura di), Foucault and Political Reason. Liberalism, Neoliberalism and Rationalities of Government, UCL Press, London 1996; M. Dean, Governmentality. Power and Rule in Modern Society, Sage, Thousand Oaks-London-New Delhi 1999. 5


222 Ottavio Marzocca di parità e di reciproca influenza, senza attribuire alla prima una sorta di egemonia paradigmatica o una forza determinante rispetto alla seconda, come – a suo avviso – tendono a fare il liberalismo e il marxismo6. Ma dal momento in cui egli propone l’ipotesi che guiderà il suo tentativo di analizzare diversamente il potere (chiamandola «ipotesi di Nietzsche»), la questione del rapporto fra “economico” e “politico” finirà decisamente sullo sfondo dell’indagine. Foucault, infatti, cercherà di esaminare le relazioni di potere come rapporti di guerra, ossia nei termini di un conflitto permanente che si svolgerebbe sia attraverso lo scontro aperto e la sopraffazione sia mediante la conservazione forzosa di un dominio e gli sforzi più o meno palesi di rovesciarlo7. In questo tentativo, in realtà, Foucault non si limiterà ad inquadrare la questione del potere in termini di “rapporti bellici” anziché di “rapporti economico-politici”; la sua operazione sarà più complessa: il terreno privilegiato dalla sua indagine sarà quello della “guerra” fra saperi-poteri, il terreno di un conflitto che si svolge innanzitutto mediante l’uso strategico di discorsi che tendono a far emergere verità politiche generalmente occultate. Più precisamente, egli assumerà il sapere storico come riferimento principale e tenterà di comprendere se la «storia della guerra fra le razze» possa funzionare meglio di altri saperi come schema, modello o griglia di decifrazione dei rapporti di potere. Anche a questo riguardo, inoltre, il suo tentativo sarà più complesso di quanto si possa pensare immediatamente. Egli inquadrerà storicamente lo stesso sapere storico sulla guerra, cercando di focalizzare i modi in cui esso sarebbe stato elaborato, proposto e usato nella lotta politica in due contesti esemplari: l’Inghilterra del Seicento e la Francia del periodo fra Sei e Settecento. Nel primo caso, a ricostruire la storia del potere come storia di guerre e aggressioni di una “razza” ai danni di altre sarebbero stati vari protagonisti delle lotte borghesi e popolari contro il potere monarchico; nel secondo, ad operare in tal senso sarebbero stati invece i rappresentanti della nobiltà, che cercavano di opporsi all’emarginazione politica della loro casta da parte della casa reale e della borghesia in ascesa. Secondo Foucault, nell’Inghilterra del Seicento il carattere oppressivo della monarchia veniva ricollegato da molti dei suoi M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 20-22. In proposito si veda A. Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, Ombre Corte, Verona 2010, pp. 43-49. 7 Cfr. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 22-23 e 46-58. 6


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oppositori all’invasione normanna e alla conseguente sottomissione degli antichi abitanti sassoni del paese8; nella Francia di Luigi XIV, invece, la nobiltà richiamava in termini positivi l’invasione franca della Gallia come guerra fondativa della monarchia, rivendicando però il ruolo decisivo, ma ormai misconosciuto, che l’aristocrazia vi aveva svolto nel sottomettere militarmente la popolazione gallica9. Attraverso questa impostazione della ricerca, Foucault attiva uno schema analitico in cui il discorso storico‑politico sulla guerra sembra poter essere al tempo stesso lo strumento e l’oggetto dell’indagine genealogica. In altre parole, egli basa la sua analisi su un ragionamento di questo tipo: il racconto storico-politico sulla guerra – nella versione di «storia della guerra fra le razze» – è già stato strumento efficace di analisi del potere per chi ne era stato escluso o emarginato; esso perciò potrebbe valere anche più in generale come schema di una genealogia critica dei rapporti di potere, basata sulla “ricostruzione storica dei discorsi storici” che rivelano il carattere “bellico” di questi stessi rapporti. La storicizzazione estrema dell’indagine che questo schema comporta, è la ragione principale per cui Foucault va oltre la questione della relazione fra “economico” e “politico” per mettere a fuoco un problema diverso: quello dell’attendibilità o dei limiti della visione “sovranitaria” del potere. Nei contesti in cui è stata usata per analizzare “polemicamente” il potere, infatti, la storia della guerra – secondo lui – ha avuto come bersaglio non tanto la visione economica o economicistica, quanto la concezione giuridico-politica del potere, che tende a identificare il potere con la sovranità. Ed è ai detentori della sovranità che il discorso storico sulla guerra sarebbe stato rivolto in termini che possono essere così sintetizzati: «la vostra sovranità non è fondata sul diritto al quale vi richiamate per legittimare il vostro potere, ma sul sangue delle “razze” che avete sottomesso, sui soprusi che avete perpetrato ai loro danni e di cui avete sepolto la memoria storica che noi intendiamo riportare alla luce»10. Ciò che conta di più a questo riguardo è che lo stesso Foucault è animato da un intento simile: per lui è necessario porre radicalmente in discussione la visione del potere come sovranità. Questa, del resto, è l’esigenza che già lo ha guidato in gran parte delle sue analisi del “potere Ivi, pp. 88-99. Ivi, pp. 102-145. 10 Cfr. ivi, pp. 48-55. 8 9


224 Ottavio Marzocca psichiatrico”, del “potere disciplinare” o dei saperi-poteri esercitati sulla “sessualità”11. Il tentativo foucaultiano di riattualizzare lo schema della “storia della guerra”, in realtà, si concluderà con la presa d’atto dei suoi limiti: questo sapere storico, negli ultimi secoli, è stato sostanzialmente neutralizzato mediante l’uso politico di un altro sapere che non è né storico, né giuridico, né economico: si tratta del sapere biologico o bio-medico in rapporto al quale si è formato il biopotere. Più precisamente, dalla seconda metà del XIX secolo il tema storico-politico della guerra fra le razze è stato – per così dire – “confiscato” dallo Stato contemporaneo, riformulato in termini bio-medici e rovesciato contro i suoi avversari, veri o presunti, mediante il razzismo di Stato. Da quel momento, non sono stati più i “vinti” o i “combattenti misconosciuti” a ricordare ai “vincitori” la storia più o meno cruenta su cui hanno costruito il loro dominio; è stato piuttosto lo Stato a monopolizzare e a riaprire la guerra contro chi individuava come portatore di minacce per l’integrità e la salute del corpo biopolitico collettivo: le “sottorazze”, i “degenerati”, i “devianti”, gli individui “geneticamente pericolosi” e così via. Questa, in ogni caso, non è stata che l’estrema conseguenza di un processo più ampio consistito appunto nell’affermarsi della biopolitica come modalità di esercizio del potere caratteristica della modernità12. Lo scacco apparente dell’economia Che cosa accade, dunque, nel Corso del 1976? Foucault pone in discussione sia lo schema economico sia quello giuridico‑politico di analisi del potere. Lo fa incuneando fra i due lo schema storico-polemologico. Al termine del suo tentativo, tuttavia, fa emergere una quarta possibilità: quella di analizzare il potere in relazione al sapere bio‑medico. Questo consenCfr. M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Seuil/Gallimard, Paris 2003, trad. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004; Id., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976; Id., La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978; si veda inoltre Id., “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 37-39 e 43-44. 12 M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 57-58 e 206-223; cfr. inoltre Id., La volonté de savoir, trad. it. cit., pp. 119-142. 11


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tirebbe di scoprire il carattere marcatamente biopolitico che l’esercizio del potere ha assunto nella nostra società. Dunque, non soltanto lo schema giuridico‑politico e quello economico, ma anche quello storico-politico sulla guerra finisce per essere messo da parte. Il discorso giuridico‑politico sul potere come sovranità, tuttavia, sembra – per così dire – “cavarsela” meglio degli altri. Foucault, infatti, individua nella biopolitica non solo un tratto essenziale dell’esercizio moderno del potere, ma anche un fattore decisivo della sopravvivenza della sovranità statale. Quest’ultima ha trovato nelle finalità della biopolitica la maniera di ripristinare in certe situazioni il diritto sovrano di vita e di morte mediante il razzismo biologico di Stato, che sarà portato alle estreme conseguenze dal nazismo13. È lo schema economico, dunque, a sembrare decisamente fuori gioco al termine del Corso del 1976. Ma, in realtà, si può aggiungere subito che per esso la partita è tutt’altro che chiusa. Già nelle pieghe del lavoro di quel Corso si intravvedono gli elementi che consentono di prevederne una sorte migliore. È questo il caso, in particolare, della forza che Foucault attribuisce al sapere e all’apparato economico‑amministrativo della monarchia francese, forza contro la quale il discorso storico‑polemologico dei nobili certamente non è riuscito a farsi valere14. Sarà, comunque, nei due Corsi successivi che Foucault riserverà all’economia un ruolo cruciale nello svolgimento ulteriore della sua genealogia del potere. Ma questo non accadrà perché egli si arrenderà all’evidenza (o all’ovvietà) della moderna supremazia dell’“economico” sul “politico”; l’economia si imporrà soprattutto perché, da un certo momento in poi, la genealogia foucaultiana tenderà a riconoscere, più che le tipologie dell’esercizio moderno del potere, la forma generale di razionalità secondo la quale questo esercizio si svolge. Il che diviene del tutto chiaro quando nel Corso del 1978 egli rivolge la propria attenzione alle teorie della Ragion di Stato e alle Scienze di polizia, ritrovando in esse alcune delle matrici principali di M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 206‑207 e 219‑224. Ivi, pp. 115-116. In proposito ci permettiamo di rinviare al nostro Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 40-43 e 45-47. A questo riguardo, inoltre, sono interessanti – per quanto sommarie – le considerazioni che Foucault svolge nelle ultime battute del Corso in merito al rapporto fra socialismo, razzismo biopolitico ed economia. In particolare egli sostiene che i movimenti socialisti siano riusciti a superare certe loro inclinazioni razziste nella misura in cui hanno fatto prevalere sulla prospettiva dell’eliminazione dell’avversario quella della «trasformazione delle condizioni economiche» della società. Cfr. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., pp. 226-227. 13 14


226 Ottavio Marzocca questa razionalità. Questi insiemi di saperi‑poteri storicamente si formano come strumenti o sistemi di governo riguardanti tutta una molteplicità di aspetti dell’esistenza e della convivenza degli uomini, di cui lo Stato moderno inizia ad occuparsi fin dalla sua nascita. Negli ambiti di intervento che essi individuano, l’attenzione di tipo economico ai comportamenti, alle forze, alle risorse individuali e collettive ne definisce chiaramente le preoccupazioni maggiori. Come Foucault dirà in una delle sue conferenze più importanti, ciò che conta di più in questo «indirizzo di ricerca» è che «il governo degli uomini da parte degli uomini […] implica una certa forma di razionalità e non una violenza strumentale. […] La questione è: in che modo sono razionalizzate le relazioni di potere»15? È ponendosi questo genere di interrogativi che il filosofo francese svilupperà la sua indagine sulla governamentalità come dimensione fondamentale della razionalità politica della nostra società. Ragione di governo Fra i temi indagati da Foucault, dunque, la biopolitica svolge una funzione di cerniera in un senso molto preciso e un po’ paradossale: proprio nel momento in cui sembra destinata a imporsi su tutti gli altri temi politici come chiave di comprensione dei sistemi moderni di potere, essa comincia – per così dire – a lavorare a favore di un’altra possibilità di ricerca, che può essere sintetizzata nei termini seguenti. Nella società moderna l’esercizio del potere ha potuto assumere tanto intensamente la vita come proprio oggetto soprattutto da quando una certa razionalità politica si è imposta. Per riconoscere questa razionalità, tuttavia, non possiamo limitarci a cercarne gli elementi nel sapere biologico o nelle istituzioni e nelle pratiche mediche. Il sapere‑potere bio‑medico nella nostra società è uno strumento fondamentale dell’esercizio del potere, ma non ne incarna la forma generale di razionalità. A questo riguardo è il caso di registrare ciò che accade nelle fasi di avvio dei Corsi tenuti da Foucault nel 1978 e nel 1979. Per ben due volte M. Foucault, “Omnes et singulatim”. Toward a Criticism of Political Reason, in S. MacMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, University of Utah Press, Salt Lake City 1981, trad. it. di O. Marzocca, “Omnes et singulatim”. Verso una critica della ragion politica, in Id., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 144-145. 15


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– ossia all’inizio sia del primo che del secondo Corso – egli dice di voler continuare la genealogia della biopolitica avviata nel 1976, ma puntualmente si orienta in un’altra direzione. Questo, in entrambi i casi, succede nel momento in cui egli si riferisce alla popolazione che nel 1976 ha già presentato come l’oggetto biopolitico per eccellenza, come «problema al contempo scientifico e politico, come problema biologico e come problema di potere»16. Più precisamente, nelle prime lezioni del Corso del 1978, proprio mentre si ha l’impressione che – ripartendo dalla popolazione – stia per sviluppare ulteriormente l’analisi della biopolitica, Foucault si sposta su un terreno diverso. Constata infatti che, osservando «più da vicino» «i problemi specifici della popolazione» non si può non approdare «al problema del governo»17. Perciò, durante il Corso esaminerà varie tipologie del governo degli uomini attraverso la serie che va dal potere pastorale cristiano all’economia politica liberale passando per le teorie e le pratiche della Ragion di Stato, del Mercantilismo e delle Scienze di polizia. D’altra parte, nel Corso dell’anno successivo – già alla fine della prima lezione – farà un’analoga deviazione che ridimensionerà radicalmente l’importanza stessa del titolo di quella serie di lezioni (Nascita della biopolitica). [M]i sembra – egli dirà – che l’analisi della biopolitica si possa fare solo dopo aver compreso il regime generale di questa ragione di governo […], quel regime di verità che possiamo chiamare la questione di verità e, in primo luogo, della verità economica all’interno della ragione di governo. Di conseguenza, solo se si comprende che cos’è in gioco all’interno di quel regime che è il liberalismo – che si contrappone alla ragion di stato – o piuttosto [la] modifica fondamentalmente, ma forse senza rimetterne in questione i fondamenti –, […] potremo allora comprendere che cos’è la biopolitica18.

Qui emergono tre elementi imprescindibili dell’orientamento che Foucault ha adottato già dal Corso del 1978. Il primo consiste nell’assunzione della razionalità di governo come questione centrale dell’analisi delle forme di potere prevalenti nella nostra società; il secondo nel riconoscimento del nucleo essenzialmente economico di questa razionalità; il terzo nell’individuazione del “regime” principale di questa razionalità nel liberalismo. M. Foucault, “Il faut défendre la société”, trad. it. cit., p. 212; cfr. inoltre ivi, pp. 209210 e 212-213, e Id., La volonté de savoir, trad. it. cit., pp. 123-124. 17 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, trad. it. cit., p. 70. 18 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., p. 33. 16


228 Ottavio Marzocca Proprio questo insieme di elementi sta ad indicare che ora il problema da studiare per Foucault è soprattutto la governamentalità. Si tratta di elementi che, tuttavia, non esauriscono il significato di questo concetto. Infatti, quando di tanto in tanto egli ne abbozza una definizione, questa sembra subire ogni volta delle variazioni. Peraltro, spesso egli usa espressioni quali arte di governare o lo stesso termine governo come sinonimi di governamentalità e viceversa. Ci sono, in ogni caso, due accezioni generali di questo concetto che prevalgono sulle altre: da un lato, quella elementare, ma fondamentale, di modo in cui si guida la condotta degli uomini19; dall’altro, quella corrispondente al regime generale di potere che nella modernità si sarebbe affermato con l’assunzione della popolazione come suo oggetto principale, dell’economia politica come suo sapere privilegiato, della sicurezza come criterio di calcolo dell’intensità del suo esercizio20. In base a tutto questo, si può dire che governamentalità e governo stiano ad indicare sia «ciò che di solito si intende […] con governo dei bambini, governo delle famiglie, governo di una casa, governo delle anime, governo delle comunità»; sia la «maniera in cui si guida la condotta dei folli, dei malati, dei delinquenti»; sia «fenomeni posti su una scala completamente diversa, come può essere una politica economica, la gestione di un intero corpo sociale, e così via»21. La governamentalità, dunque, si configura come modalità generale del potere che può riguardare due diverse dimensioni: quella “microfisica” dei comportamenti e delle relazioni che rientrano soprattutto nella sfera individuale; quella più ampia delle condizioni di esistenza e dei modi di essere di «un intero corpo sociale». Nel primo caso l’oggetto principale della governamentalità sarebbero le attitudini personali; nel secondo sarebbe invece la collettività considerata soprattutto nei suoi rapporti con le attività e le risorse che ne consentono il benessere. Questo schema tuttavia non può essere inteso rigidamente, poiché non indica affatto degli approcci o degli ambiti nettamente distinti. Che il governo si esplichi come direzione delle condotte individuali o come governo economico-politico delle dinamiche collettive, secondo Foucault, non cambia il fatto che generalmente esso implica attenzione sia al singolo individuo, sia all’insieme di uomini di cui l’individuo stesso fa parte. Lo si può dire innanzitutto se si considera quel modello di Ivi, p. 154; cfr. Id., Sécurité, territoire, population, trad. it. cit., pp. 142-169. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., p. 88; si veda pure ivi, pp. 70-90 e, inoltre, sul particolare rapporto fra sicurezza e governamentalità liberale, Id., Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 67-71. 21 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 13 e 154. 19 20


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governo delle anime (oikonomia psychôn) che è il potere pastorale: esso «individualizza e […], per un paradosso essenziale, accorda lo stesso valore tanto a una sola pecora quanto all’ intero gregge»22; lo si può dire inoltre a proposito della «moderna arte del governo» il cui «fine» è «sviluppare gli elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro sviluppo rafforzi anche la potenza dello Stato»23. Riguardo a questi due indirizzi del governo degli uomini Foucault riesce a svolgere le sue analisi in misure e modi molto diversi. Nel Corso del 1979 egli dice esplicitamente che la sua maggior attenzione non va agli ambiti microfisici della direzione delle condotte (famiglia, comunità, istituzioni educative, ecc.), ma alla governamentalità moderna nel suo rapporto con la sovranità politica24. Il che si spiega, appunto, con la sua urgenza di gettare luce sulla razionalità generale delle forme di potere dominanti nella nostra società. D’altra parte, cercando di risalire alle condizioni iniziali di questa razionalità, nel Corso precedente Foucault ha già mostrato il duplice livello delle trasformazioni che, almeno dal XVI secolo, ne hanno favorito la maturazione e l’affermazione progressiva. Secondo lui, infatti, la moderna ragione di governo è derivata dai fermenti etico-politici che hanno dato luogo a due processi, il primo dei quali si sarebbe svolto al livello del «governo di se stessi», del «governo delle anime e delle condotte», trovando nelle forme di pastorato scaturite dalla Riforma e dalla ControRiforma i suoi sbocchi più rilevanti; il secondo si sarebbe svolto invece nel passaggio dal declino delle strutture feudali alla formazione dei grandi Stati territoriali, amministrativi e coloniali. Nell’esigenza di governare il corpo sociale dello Stato moderno nascente, in ogni caso, sarebbero confluite le varie tensioni che, nella transizione dal medioevo alla modernità, inducevano a interrogarsi su «come governarsi, come essere governati, M. Foucault, Sécurité, territoire, population, trad. it. cit., p. 266. M. Foucault, “Omnes et singulatim”, trad. it. cit., p. 142; si veda pure ivi, p. 145 e inoltre: Id., The Subject and Power, in H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1982, trad. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244; Id., The Political Technology of Individuals, in Technologies of the Self. A Seminar with Michel Foucault, The University of Massachusetts Press, Amherst 1988, trad. it. di S. Marchignoli, La tecnologia politica degli individui, in Tecnologie del sé, a cura di L.H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 153. 24 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., p. 13. 22

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230 Ottavio Marzocca come governare gli altri, da chi accettare di essere governati, come essere il miglior governante possibile»25. Imprescindibilità del liberalismo Nel 1979 Foucault sviluppa ciò che è già emerso dalle indagini svolte nel Corso dell’anno precedente, ovvero che la razionalità moderna di governo si basa sulla “verità” del sapere economico26. Questo sapere, soprattutto da quando si è proposto come economia politica, ha potuto svolgere un ruolo cardine nella costituzione di questa razionalità. Esso implica che gli uomini non siano trattati semplicemente come sudditi o come meri soggetti di diritto, ma siano considerati soprattutto come individui in grado di contribuire al benessere della società in quanto soggetti economici27. Il che emerge del tutto chiaramente dal momento in cui Foucault indica nel liberalismo la forma compiuta di questa razionalità politica e nel neoliberalismo la sua espressione più radicale. In proposito, fra i passaggi cruciali della storia del liberalismo che egli individua, ce ne sono almeno tre che vale la pena di richiamare. Il primo corrisponde alla naturalizzazione dell’economia di mercato, operata dagli autori classici dell’economia politica: secondo Foucault, questa naturalizzazione consente di trasformare il mercato in un «luogo di veridizione», fondato sul “naturale” funzionamento dei suoi meccanismi. Il buono o il cattivo funzionamento del mercato dicono la verità sul governo; dicono se esso governa bene governando quanto basta, lasciando che i governati perseguano liberamente i propri interessi economici e contribuiscano così alla prosperità collettiva. Questa verità sul governo, in realtà, consegue al rivelarsi della verità del mercato stesso con il formarsi spontaneo del “vero prezzo” delle merci mediante il gioco della domanda e dell’offerta: «è il meccanismo naturale del mercato, insieme alla formazione di un prezzo naturale, a permettere di falsificare e di verificare la pratica di governo, qualora si valuti sulla base di questi elementi ciò che il governo fa, i provvedimenti che adotta, le regole che impone»28. In definitiva, ciò che M. Foucault, Sécurité, territoire, population, trad. it. cit., p. 71. Ivi, pp. 86-89. 27 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 223-226. 28 Ivi, p. 39; si veda pure ivi, pp. 27-30, 37-41 e 63-64. 25 26


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conta rilevare qui è che – secondo Foucault – la governamentalità liberale si impone reperendo nel libero funzionamento del mercato il «principio di limitazione» del potere politico, «principio» che le arti del governo dell’ancien régime non erano state in grado di individuare29. Un altro importante passaggio storico, messo in luce da Foucault, è quello che si verifica nella Germania occidentale dopo la seconda guerra mondiale, quando – secondo lui – la governamentalità neoliberale, attraverso i partiti democratico‑cristiani, di fatto ricostituisce lo Stato tedesco come Stato radicalmente economico30. In questa situazione il neoliberalismo tedesco ha modo di mostrare la propria distanza dal liberalismo classico andando oltre la sua «ingenuità naturalista»: il libero mercato non si dà in natura, ma occorre produrlo e riprodurlo costantemente, creandone e mantenendone le condizioni politiche31. Non si tratta, infatti, semplicemente di lasciare che il mercato funzioni da sé, liberandolo dai controlli e dalle interferenze politiche. Si tratta, piuttosto, di creare e far funzionare uno Stato pronto ad «accompagnare il mercato dall’inizio alla fine», a «governare per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato»32. Qui, dunque, la verità che scaturisce dal discorso neoliberale non è una verità che possa corrispondere a una “natura” o a una “realtà effettiva” del mercato; essa consiste piuttosto in una verità formale, in una forma logica della concorrenza economica che occorre promuovere e innestare attivamente nella molteplicità delle situazioni concrete33. Di grandissimo interesse a questo riguardo è che, secondo Foucault, la promozione attiva dell’economia di mercato in Germania occidentale – oltre ad avere evidenti motivazioni e conseguenze geopolitiche – consente a quel paese di “alleggerire” il peso del suo passato nazista. In questo senso è carico di significati ciò che il filosofo francese dice sostenendo che la società tedesca, ridefinendosi come società radicalmente economica, ridefinisce anche il proprio rapporto con il tempo storico: [L]a crescita economica continua si sostituirà a una storia fallimentare. La rottura della storia potrà dunque essere vissuta e accettata come una rottura della memoria, dal momento che in Germania si instaurerà una nuova dimensione Ivi, pp. 22-32. Ivi, pp. 75-88. 31 Ivi, pp. 108-112. 32 Ivi, p. 112. 33 Ivi, pp. 111-112. 29 30


232 Ottavio Marzocca della temporalità, che non sarà più quella della storia, ma quella della crescita economica. Rovesciamento dell’asse temporale, autorizzazione all’oblio, crescita economica: c’è tutto questo nel cuore stesso del funzionamento del sistema economico‑politico tedesco. Troviamo la libertà economica co‑prodotta dalla crescita del benessere, dello Stato e dell’oblio della storia34.

Insomma, con la crescita basata sulla libertà del mercato e sulla concorrenza come imperativo sociale, nella Germania federale crescerà sia la legittimità del nuovo Stato sia la possibilità di lasciarsi alle spalle un passato altrimenti “insuperabile”. Implicitamente Foucault ci fa intendere che in tal modo il neoliberalismo tedesco riformula in termini radicalmente economici quel rapporto fra governo e società che il nazismo aveva declinato nei termini decisamente bio- e tanato-politici del razzismo di Stato. Così il popolo tedesco potrà proporsi non più come la “razza superiore” che pretende di soggiogare le “sottorazze”, ma come una società capace di vendere in tutto il mondo le proprie merci e di trainare come una locomotiva la crescita degli altri paesi, governando se stessa secondo criteri radicalmente economici. Proprio rinviandoci a queste implicazioni dell’affermarsi del neoliberalismo, Foucault ci induce a considerare che questa governamentalità si basa su una nuova forma di “governo delle condotte”, fondata sulla responsabilizzazione economica dell’individuo e della società35. È anche in tal senso che può essere letto il discorso – di cui Foucault commenta brevi passaggi36 – tenuto da Ludwig Erhard nel 1948 durante l’occupazione anglo-americana della Germania Ovest. [O]ggi siamo di fronte ad una scelta fra due opposti tipi ideali: o libera economia di mercato o assoluto totalitarismo. La direzione che dobbiamo seguire è chiara […]: liberazione dall’economia statale coercitiva, che sottoponendo gli uomini al degradante giogo della burocrazia soffoca la vita e mortifica non solo ogni senso di responsabilità e di dovere, ma anche ogni volontà di produrre, facendo Ivi, p. 83. Fondamentale in proposito – e non solo – è lo studio, largamente ispirato alla genealogia foucaultiana della governamentalità, di P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009, trad. it. di R. Antonucci e M. Lapenna, revis. di I. Bussoni, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. 36 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 78-80. 34 35


Dal potere sulla vita al governo dell’ethos 233 di conseguenza un ribelle anche del più pacifico cittadino. Ma né l’anarchia né lo Stato‑formicaio sono forme di vita adatte all’uomo. È soltanto dove la libertà e il dovere diventano leggi vincolanti che lo Stato trova la giustificazione morale per parlare e agire in nome del popolo. In concreto ciò significa che noi ridaremo […] il più ampio spazio alla volontà e all’attività umana sia nella sfera della produzione sia in quella del consumo, ed allora si apriranno automaticamente possibilità di sviluppo alla libera concorrenza nella produzione37.

Un altro momento cruciale della storia del neoliberalismo, su cui Foucault si sofferma a lungo, è infine quello dell’affermarsi negli USA della teoria del capitale umano. Insistendo sull’importanza di questa teoria, egli mette sotto i nostri occhi una forma dell’ethos dell’individuo contemporaneo, che corrisponde in modo preciso e compiuto alla razionalità politica neoliberale. Si tratta del modo di condursi di un individuo che, al limite, non è più necessario governare secondo criteri economici, dal momento che è pronto per conto proprio a ricondurre la sua libertà al comportamento “economicamente razionale” e ad accrescere sistematicamente le sue capacità psico‑fisiche per aumentare le sue possibilità di reddito. I sostenitori di questa teoria – dice Foucault – tendono ad estendere indefinitamente l’analisi economica del comportamento dell’uomo, descrivendo gli individui come incarnazioni di un capitale umano sul quale loro stessi o – se sono giovani – le loro famiglie operano investimenti mediante l’istruzione, la formazione, l’emigrazione, le cure mediche, le buone abitudini, la scelta del partner, le decisioni sulla procreazione o sull’allevamento dei figli, ecc.. L’estensione indefinita di questo tipo di analisi conduce i teorici del capitale umano ad esaminare in termini economici persino il crimine: chi decide di commetterne uno non è che un soggetto economico il quale calcola i rischi effettivi della propria decisione ed accetta di correrli, poiché i benefici che possono derivarne gli appaiono superiori a quelli di altre scelte. Questi teorici non pretendono di dimostrare così che la natura dell’uomo sia intrinsecamente economica. In maniera apparentemente più modesta, essi ritengono piuttosto che non si debba rinunciare troppo facilmente a cercare le motivazioni economiche del comportamento umano e che occorra perciò applicare questo approccio anche alle sfere dell’esistenza L. Erhard, Deutsche Wirtschaftspolitik, Econ-Verlag GmbH., Dusseldorf-Wien 1962, trad. it. di M. Barbagli, La politica economica della Germania, Garzanti, Milano 1963, p. 39. 37


234 Ottavio Marzocca che paiono lontane dall’economia38. In ogni caso, ciò che le loro analisi tendono a “dimostrare” è che un “soggetto economico”, anche se non esiste in natura, può auto‑prodursi liberamente improntando il proprio ethos alle “verità” del libero mercato. Governo di sé ed ethos della libertà Dopo aver spinto la sua ricerca fino a toccare le tendenze più recenti del neoliberalismo, nei Corsi successivi Foucault, in modo apparentemente inaspettato, si allontana decisamente dalla modernità per avvicinarsi all’antichità39. In questo cambiamento di rotta, comunque, sono proprio il governo e l’autogoverno dell’ethos ad assumere una centralità inequivocabile. In tal senso, egli studia innanzitutto l’evoluzione delle pratiche della confessione e dell’esame di coscienza nel cristianesimo primitivo: qui il nesso fra l’esplicitazione da parte dell’individuo degli “arcani” della sua coscienza e l’obbedienza incondizionata all’autorità religiosa gli si presenta come il fondamento di un governo delle anime che tende a produrre mortificazione e rinuncia40. Successivamente egli risale all’antichità grecoromana e mette a fuoco le pratiche etiche della cura di sé e del coraggio della verità (parrêsia), contrapponendole apertamente alle esperienze cristiane, poiché gli sembrano dar luogo a forme relativamente libere di autogoverno etico dell’individuo. In realtà, si può ritenere che queste pratiche siano – per così dire – alternative anche a quelle cui si dedica l’homo oeconomicus liberale e neoliberale. Questo – come vedremo – è quanto verosimilmente si può sostenere se si tiene conto in particolare degli ultimi tre Corsi tenuti da Foucault. Nel Corso del 1982, egli pone in luce le differenze che si danno riguardo alla cura di sé fra la Grecia classica e la Roma dei primi due secoli dopo Cristo. Nel contesto greco, la cura di sé consiste soprattutto nell’impegno che l’uomo libero dedica all’acquisizione di un “dominio di Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 180-220. Sull’improponibilità delle valutazioni basate sullo «sconcerto» e sullo «stupore» per questo «vertiginoso salto» di Foucault verso l’antichità, cfr. M. Bertani, La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 75-79. 40 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012, trad. it. di D. Borca e P.A. Rovatti, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014. 38 39


Dal potere sulla vita al governo dell’ethos 235

se stesso”, che gli consenta di partecipare al governo della polis senza farsi travolgere dalle ambizioni smodate di potere. In tal senso la cura di sé che Socrate raccomanda ad Alcibiade corrisponde ad un’opera di formazione etica riguardante prevalentemente i giovani che si accingono ad accedere alla vita pubblica41. Nel contesto dell’impero romano, invece, la cura di sé viene proposta generalmente come una pratica da svolgere durante l’intera esistenza e sembra comportare il ripiegamento dell’individuo su se stesso42. Ma – secondo Foucault – più che un allontanamento dalla vita collettiva e pubblica, essa implica un atteggiamento disincantato e problematico verso la politica. A Roma la dimensione “locale” della polis è stata ormai sopravanzata dalla dimensione “globale” dell’impero. Perciò, prendersi cura di se stessi significa innanzitutto divenire consapevoli dell’enorme complessità del mondo con cui si ha a che fare. Ciò che l’uomo libero deve acquisire occupandosi di se stesso non è tanto una padronanza di sé che possa tradursi in pubblica virtù, quanto una distanza radicalmente critica dall’esercizio del potere. Una funzione fondamentale in tal senso sembra svolgere l’otium, ovvero la capacità di affiancare alle attività pubbliche un tempo libero di riflessione dedicato a se stessi. Così, anche se riveste cariche politiche di grande rilievo, l’individuo riesce a tenersi lontano dal «delirio di presunzione di un potere che risulta debordante rispetto alle sue funzioni reali»43. Chi si prende cura di sé – dice Foucault – «non si crede un altro Principe, non ritiene di essere il sostituto del Principe, e neppure si confonde con il rappresentante globale del potere totale del Principe»44. Importante riguardo alle differenze fra il contesto greco e quello romano è la questione del rapporto necessario fra la cura e la conoscenza di sé. La filosofia di epoca imperiale, soprattutto con gli stoici, si allontana Cfr. M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981‑1982, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2001, trad. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 3-70. 42 Ivi, pp. 71-97 e 155-163. 43 Ivi, p. 337; cfr. Id., Le souci de soi, trad. it. cit., pp. 90 e 95-96. 44 M. Foucault, L’herméneutique du sujet, trad. it. cit., p. 336. Sul rapporto fra cura di sé e limitazione dell’esercizio del potere si veda anche Id., L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, intervista con H. Becker, R. Fornet-Bétancourt e A. Gomez‑Müller, in «Concordia», n. 6 (1984), pp. 99-116, trad. it. di S. Loriga, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 280-281. 41


236 Ottavio Marzocca dalla visione platonica della conoscenza di sé come «riscoperta dell’essenza dell’anima», come «ricordo delle forme pure» che l’anima stessa «ha potuto contemplare un tempo». Qui la conoscenza di sé consiste piuttosto in un percorso «attraverso le cose del mondo e le loro cause»45. Essa tende a cogliere «la nostra relazione con il mondo, […] la nostra eventuale dipendenza o indipendenza nei confronti degli eventi che accadono»46. In definitiva, qui la riflessione su di sé implica «una modalità di sapere di carattere relazionale», mediante la quale l’individuo acquisisce una visione adeguata del fatto che è solo «un punto nel sistema generale dell’universo»47. Insomma, l’uomo della cura di sé si affranca così dall’illusione di poter operare le sue scelte senza esporsi alle peripezie dell’esistenza e alle sventure del mondo. Egli apprende in tal modo a rimanere libero soppesando sempre attentamente queste scelte48. Perciò la conoscenza di sé in relazione al mondo non produce semplici descrizioni “scientifiche”, ma si traduce in prescrizioni, ovvero nella elaborazione di un ethos, in una etopoiesi, poiché lo «stesso modo di essere soggetti ne risulta […] trasformato»49. Nelle ricerche su queste esperienze Foucault fa emergere l’importanza cruciale che vi riveste la pratica della parrêsia, ovvero il coraggio di dire la verità, la franchezza come implicazione necessaria dell’autogoverno etico cui tende la cura di sé50. Si tratta di un tema che il filosofo francese esamina in modo ampio soprattutto nei due ultimi Corsi tenuti al Collège de France. La parrêsia – secondo lui – intrattiene un rapporto privilegiato con la politica e, in particolare, con la democrazia. Questa, infatti, garantendo ai cittadini l’uguale diritto di partecipare alla vita politica e di parlare pubblicamente, ne costituisce la condizione più favorevole. Ma, per le stesse ragioni, essa crea anche la possibilità della degenerazione della parrêsia, della sua confusione col discorso demagogico, con la prestazione retorica tesa a conquistare le posizioni più elevate nella gerarchia del potere. In definitiva, favorendo la trasformazione della franchezza in libertà di dire qualunque M. Foucault, L’herméneutique du sujet, trad. it. cit., p. 249. Ivi, p. 446. 47 Ivi, pp. 207 e 245. 48 Cfr. ivi, pp. 242-253. 49 Ivi, p. 208; si vedano pure le pp. 209-210. 50 Cfr. ivi, pp. 214-216 e 330-368. 45 46


Dal potere sulla vita al governo dell’ethos 237

cosa senza impegnarsi per la verità, la democrazia crea anche i presupposti della propria crisi e di quella della politica in generale51. Questa è la ragione principale per cui – secondo Foucault – la filosofia antica si fa carico del compito della parrêsia, praticandola nei termini di un’attenzione etico‑politica al potere, che – in ogni caso – non si identifica mai con l’esigenza di razionalizzarne l’esercizio. Foucault individua due declinazioni generali della parrêsia filosofica: la prima corrisponde alla tendenza platonica a sollecitare chi esercita il potere, o è destinato a farlo, a governare bene innanzitutto se stesso se vuole governare bene gli altri, cercando le verità a cui ispirarsi nel mondo sovrasensibile delle idee; la seconda consiste invece nella tendenza socratica e, soprattutto, cinica ad assumere il proprio modo di vivere come condizione che consente di dire sia ai governanti che ai governati le verità che non vorrebbero sentire52. Nel primo caso – come dimostrano i viaggi di Platone a Siracusa – la parrêsia filosofica si rivolge soprattutto ai detentori di un potere sovrano, esponendo il filosofo al rischio di divenire un semplice cortigiano del principe53; nel secondo, invece, essa rimane vicina alla pratica della cittadinanza e della partecipazione politica, mostrando al tempo stesso la differenza radicale fra l’attenzione civica alle sorti comuni e l’esercizio del potere fine a se stesso. Questo è possibile riscontrare se si pensa alla capacità di Socrate di lasciare le cariche pubbliche per non essere complice di ingiustizie e alle esortazioni che egli rivolge ai suoi concittadini affinché si occupino di se stessi, del loro modo di vivere, piuttosto che degli onori, della ricchezza o della gloria54. Questo è possibile riscontrare inoltre, e soprattutto, se si pensa all’atteggiamento di derisione e sfida con cui i cinici si rivolgono ai potenti, alla povertà che essi praticano e ostentano sulla pubblica piazza per sollecitare gli altri uomini a sottrarsi anche al potere dei bisogni Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 19821983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, trad. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2010, pp. 168-179 e 191-195. 52 Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 156-187. 53 Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, trad. it. cit., p. 281. 54 Ivi, pp. 301-307. 51


238 Ottavio Marzocca superflui55. Ciò che Foucault pone in chiara evidenza in tal modo è che la parrêsia richiede una sorta di “rapporto triangolare” fra un impegno per la verità, un’attenzione critica al governo e una pratica etica della libertà56. Intesa in questi termini, soprattutto nella declinazione socratico‑cinica, essa si presenta come un esercizio di libertà indispensabile per chiunque avverta nel governo degli uomini un problema più che una necessità e, perciò, non intenda farsi governare in qualunque modo e a qualunque prezzo57. Libertà a confronto Paradossalmente, per questi suoi aspetti, la parrêsia sembra assimilabile – in un certo senso – all’indocilità verso il governo teorizzata dal liberalismo come attitudine del “soggetto di interesse” che agisce nella dimensione del libero mercato58. Si può dire forse che anche nel suo caso il rapporto problematico con la politica si esplichi in una triangolazione fra un “discorso vero”, una critica del governo e una pratica attiva della libertà59. Foucault, in realtà, ci consente sia di inquadrare in termini simili il rapporto dell’homo oeconomicus con il potere e con se stesso, sia di riconoscere le differenze irriducibili che lo distanziano dalla pratica etica della parrêsia filosofica. Il soggetto di interesse trova – per così dire – già pronte le “verità”, cui intende richiamare il governo, nel sapere economico che teorizza il funzionamento spontaneamente benefico del mercato o la propensione dell’individuo ad agire come “imprenditore di se stesso” che opera investimenti sul proprio capitale umano per “allocarlo” nel modo più proficuo; il soggetto di interesse, inoltre, è pronto a criticare i governanti se non sono capaci di autolimitarsi, ma lo fa soprattutto affinché non ne sia limitata la Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, trad. it. cit., pp. 246-255; si veda inoltre Id., Le gouvernement de soi et des autres, trad. it. cit., p. 330. 56 Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, trad. it. cit., pp. 288-292 ; Id., Le courage de la vérité, trad. it. cit., pp. 71-76. 57 A questo riguardo si veda M. Foucault, Qu’est que la critique? (Critique et Aufklärung), in «Bulletin de la Société Française de Philosophie », n. 2 (1990), pp. 35-63, trad it. di P. Napoli, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997. 58 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, trad. it. cit., pp. 221-236. 59 Cfr. ivi, pp. 261-264. 55


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libertà dei governati di perseguire il loro vantaggio economico; egli, infine, sente il prepotente bisogno di “occuparsi di se stesso”, ma lo fa considerando il proprio ethos – o la propria “condotta” – non come oggetto di riflessione critica e di trasformazione, bensì come inclinazione necessaria e incomprimibile a fare il proprio interesse. Nel caso dell’“imprenditore di se stesso”, in particolare, questo soggetto generalmente non avverte l’esigenza di cambiare la forma della sua esistenza, ma piuttosto quella di rafforzare le sue abilità e le sue competenze per potenziarle in quanto capitale umano e fonti di reddito60. Cogliendo queste differenze fra la pratica della libertà del soggetto di interesse e quella del filosofo-parresiasta, possiamo fare delle considerazioni conclusive tenendo conto soprattutto dell’analisi foucaultiana della teoria del capitale umano. Nel suo Corso del 1979, Foucault dice che i sostenitori di questa teoria non si limitano a riproporre in forma aggiornata la figura dell’homo oeconomicus; essi ci fanno capire piuttosto che questa figura non corrisponde più, o non ha mai corrisposto, alla rappresentazione che ce ne ha offerto il liberalismo classico indicando nella sua libertà «la sfera definitivamente inaccessibile ad ogni azione di governo»; ormai – come imprenditore di se stesso – l’individuo medio della società neoliberale è «colui che risulta eminentemente governabile», purché lo si governi secondo la razionalità politica che favorisce il gioco mercantile degli interessi privati61. Insomma, quest’“uomo libero” è solo parte attiva di un “governo degli uomini” che passa soprattutto attraverso il suo auto‑governo economico. Il che rende evidente una volta di più che l’ethos, ancor più della vita, è la vera posta in gioco del governo di sé e del governo degli altri. Ottavio Marzocca Università degli Studi di Bari Aldo Moro ottavio.marzocca@uniba.it

60 61

Ivi, pp. 184-191. Ivi, pp. 220-221.


240 Ottavio Marzocca

. From Power on Life to Government of Ethos. The Genealogical Centrality of Governmentality This paper tries to show the crucial importance that the shift from the genealogy of biopolitics to that of governmentality assumes in the courses held by Foucault between 1976 and 1984. Governmentality proves to be irreducible to the idea of biopolitics because the main object of the government of men is not their life, but their conduct, their ethos; furthermore, especially in its liberal and neoliberal versions, governmentality asserts itself as the indispensable framework of genealogical research on the political rationality prevailing in our society. When, in the Eighties, Foucault turned his attention to antiquity, he also gave us the possibility to recognize the radical difference between the subject of interest of liberal society, and the man of antiquity, who devoted himself to the care of the self through philosophical parresia. The first is an individual considered free, yet his ethos is eminently governable according to the rationality of the market economy; whereas the second is a man who practices his freedom ethically, escaping the political rationality of the government of men through the courage of truth. Keywords: Biopolitics, Governmentality, Ethos, Liberalism, Neoliberalism, Political Economy, Parresia.



Sguardi foucaultiani


Il muro del silenzio Philippe Bazin

Nel dicembre 2013 mi sono recato a Istanbul, su invito dell’Università

di Galatasaray, per partecipare al convegno Critica e autonomia, organizzato in collaborazione con l’Università Paris VIII. Il soggiorno in questa grande città di dimensioni mondiali, prolungato di due settimane, è continuato con lo scopo di produrre un lavoro fotografico documentario in seguito agli avvenimenti di Gezi Park del giugno 2013. Il soggiorno si è però anche svolto al momento dello scandalo della “scatola da scarpe”, scandalo che ha messo in luce la corruzione ai vertici dello Stato turco e la lotta per il potere cui si dedicano due fazioni interne al partito di governo. Già la prima sera del mio soggiorno si è svolta una manifestazione fuori dall’università, in cui la folla lanciava scatole da scarpe sulla facciata della Banca Nazionale, la Halkbank. Il direttore generale di questa banca aveva nascosto in casa 4,5 milioni di dollari, in una scatola da scarpe. Durante il resto del soggiorno, le manifestazioni si sono susseguite a ritmo sostenuto, spesso con molta violenza. I sette morti del giugno 2013 erano presenti nei vari striscioni dispiegati sulla piazza centrale di Kadikoÿ, nella parte asiatica della città. Del resto, il quartiere di Tarlabasi, vicinissimo a Piazza Taksim, è stato completamente svuotato dei suoi abitanti storici, i Greci, per essere completamente trasformato in luogo d’affari e di turismo. Più in generale, si è trattato di fare del centro di Istanbul un centro internazionale di affari e di turismo di lusso, circostanza che è all’origine degli eventi di Gezi Park. Il quartiere è ormai solo un succedersi di strade circondate da facciate le cui costruzioni sono state demolite, strade che, come in un labirinto, hanno perso ogni punto di riferimento singolare, per presentarsi come una successione di pareti di lamiera ondulata. È contro tutto ciò che protestano i manifestanti, protesta che si ritrova nelle varie città del mondo che sottomettono le loro popolazioni più modeste a espulsioni di questo tipo. Il progetto fotografico Il muro del silenzio, realizzato sul posto nel dicembre 2013, tenta di articolare questa molteplicità di dati in un montaggio fotografico e videografico che riunimateriali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 243-245.


244 Philippe Bazin sce vari elementi: Gli innocenti (manifestazione a Kadikoÿ), Svuotare i luoghi (quartiere di Tarlabasi), Manifestazioni I, II e III (insieme disparato composto dalle facciate che costeggiano Gezi Park, dal nuovo suolo creato dallo sradicamento degli alberi, da un video della traversata del Bosforo e dalla fotografia di una facciata di un edificio sostenuta posteriormente da un’impalcatura, come una torre di guardia). Biografia Philippe Bazin ha dedicato più di vent’anni alla realizzazione del progetto La radicalisation du monde (testi di Didi-Huberman e Christiane Vollaire, L’Atelier d’édition, Paris 2009), che prende in considerazione le relazioni che intratteniamo con le istituzioni e che spesso inquadrano e organizzano la nostra esistenza. Dal 2001 lavora a una serie di progetti fotografici che interrogano le condizioni cittadine di circolazione degli uomini in un mondo globalizzato, come anche i processi di riconciliazione messi in opera da vari paesi (Cile, Sudafrica, Turchia). Il suo ultimo lavoro fotografico si è soffermato, nel dicembre 2013, sulla situazione turca, sei mesi dopo le proteste di Gezi Park. Le Milieu de nulle part (Créaphis, Grâne 2012), ultimo progetto pubblicato, è stato realizzato in collaborazione con la filosofa Christiane Vollaire, in Polonia, in diciotto centri di accoglienza, aperti e chiusi, per richiedenti asilo. Questo progetto sviluppa anche le condizioni di lavoro comune tra una filosofa che lavora sul campo e un fotografo documentarista critico. Dal settembre 2014, Philippe Bazin è professore di fotografia all’École Nationale Supérieure d’Art di Digione, in Francia, e HDR (Habilité à Diriger des Recherches) in Arti plastiche. Ha condotto una ricerca sui recenti sviluppi delle fotografie documentarie critiche.


Il muro del silenzio 245

Le Mur, dicembre 2013, Istanbul La facciata di Piazza Taksim e del Gezi Park a Istanbul non era visibile fino a quando duecento alberi non sono stati sradicati, innescando cosÏ le proteste di giugno 2013. La facciata di quindici edifici è stata ricostituita in un montaggio non raccordato, sopprimendo tutti gli spazi creati dalle vie adiacenti. Formato variabile, altezza minima 2 metri. A poca distanza, nel quartiere di Tarlabasi, tutti gli edifici antichi sono stati demoliti, fatte salve le facciate decorative di inizio Novecento. Si prepara un quartiere di affari e turismo di lusso.


Nascita della societĂ punitiva


Nota introduttiva

Il Corso su La société punitive tenuto da Michel Foucault al Collège de

France tra il 3 gennaio e il 28 marzo 1973, e recentemente pubblicato in edizione francese a cura di Bernard E. Harcourt1, costituisce il primo grande cantiere di elaborazione di una serie di tematiche che il filosofo francese svilupperà negli anni seguenti – in particolare in Sorvegliare e punire2. Constatare che ne La société punitive si trovano anticipati ed enucleati alcuni temi chiave della produzione foucaultiana, ampiamente sviluppati poi in altri testi, è uno dei motivi intorno ai quali si articolano molti dei commenti relativi al Corso del 1973. Si pensi ad esempio all’analisi fatta da Foucault sulla produzione degli illegalismi e sull’emergenza storica della prigione, ripresa poi in Sorvegliare e punire, o alle indicazioni di metodo relative allo studio delle relazioni di potere, che Foucault fornisce spostando lo sguardo dal livello giuridico dell’interdizione o dell’esclusione a quello del funzionamento effettivo dei meccanismi di assoggettamento. Nella prima lezione de La société punitive, commentando un passaggio di Tristi tropici di Lévi-Strauss, Foucault critica in modo deciso la nozione di “esclusione”, della quale lui stesso ammette di aver fatto uso in passato per designare lo statuto che una società riconosce ai delinquenti, ai malati mentali e, più in generale, a tutti gli individui considerati “anormali” o “devianti”3. Ora, se questo concetto di esclusione ha senza dubbio esercitato una «funzione critica» utile a rovesciare le nozioni psicologiche di devianza e anomalia – nozioni nelle quali il contenuto “scientifico” mascherava in realtà le tecniche e le procedure concrete di potere per mezzo delle quali la società operava al proprio interno il partage tra la normalità e l’anormalità –, esso è però ormai «insufficiente», secondo Foucault: tale concetto ci restituisce, in realtà, soltanto lo statuto dell’individuo escluso nel campo delle rappresentazioni sociali, e non ci aiuta ad analizzare «le [lotte], i rapporti, le operazioni specifiche del potere a partire dai quali si opera, precisamente, l’esclusione». Allo stesso tempo, tale concetto sugM. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, EHESS/Gallimard/Seuil, Paris 2013. 2 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1993. 3 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 4. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 247-252.


248 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli gerisce una sorta di opposizione binaria esclusione-assimilazione, quando in realtà, se ci collochiamo a livello di un’analisi concreta dei meccanismi di potere, le procedure di esclusione «non sono per nulla opposte alle tecniche di assimilazione»4. Questa tesi, che i lavori successivi di Foucault svilupperanno ampiamente, si trova elaborata per la prima volta in modo sistematico ne La société punitive, dove è associata alla critica di una nozione «correlativa» a quella di esclusione: la nozione di “trasgressione”, centrale nelle prime opere dello stesso Foucault, ma ora considerata come dipendente dal medesimo sistema generale di rappresentazioni contro il quale essa intendeva battersi. Per questo Foucault sostiene che «le direzioni indicate dalle analisi condotte in termini di esclusione e di trasgressione devono essere seguite aprendo nuove dimensioni, dove il problema non sarà più la legge, la regola, la rappresentazione, ma il potere – piuttosto che la legge – e il sapere – piuttosto che la rappresentazione»5. Rispetto a La société punitive, un’altra operazione possibile da compiere, e altrettanto proficua, consiste nel rintracciare alcuni nodi tematici che aprono a riflessioni mai, di fatto, sviluppate da Foucault stesso, ma che trovano attualmente un’importante risonanza all’interno del dibattito teoricopolitico. In particolare, ci interessa soffermarci su due problematizzazioni che emergono nel Corso del 1973, l’una in maniera più implicita (il governo della mobilità dal punto di vista dell’autonomia delle migrazioni) e l’altra come questione espressamente sottolineata da Foucault, soprattutto nelle lezioni conclusive (il governo della forza lavoro dal punto di vista del rifiuto dei soggetti di essere “fissati” agli apparati di produzione). Due problematizzazioni che corrispondono, in fondo, a due “oggetti” precisi – mobilità e forza lavoro –, rispetto ai quali la specificità di Foucault consiste non tanto nell’aver sollevato il problema in sé, quanto nel tipo di sguardo e di approccio attraverso cui tali temi vengono affrontati; in altre parole, nella postura analitica adottata. Un modo per far lavorare il pensiero foucaultiano negli spazi del presente consiste allora non tanto nel soffermarsi sugli argomenti che Foucault ha esplicitamente trattato ne La société punitive, quanto piuttosto nell’interrogarsi su come il suo approccio a un determinato tema e alcune delle sue analisi aprano a riflessioni attuali (che egli non ha direttamente affrontato) e dialoghino a distanza con esse. Questo tratto caratteristico dello sguardo foucaultiano nel problematizzare questioni del tutto attuali ritracciandone l’emergenza storica è par4 5

Ivi, pp. 4-5. Ivi, p. 7.


Nota introduttiva 249

ticolarmente visibile nelle considerazioni sul governo della mobilità o, per meglio dire, su quelle pratiche di mobilità che la lingua inglese indica con il termine “the mob” – ovvero, la mobilità non autorizzata che risulta in eccesso rispetto agli stessi meccanismi di sfruttamento e di governo delle migrazioni irregolari. Di fronte alla moltiplicazione di meccanismi di controllo della mobilità non autorizzata, e dunque illegalizzata, il gesto teorico forte di Foucault consiste nel guardare a queste tecniche di fissazione e monitoraggio dei movimenti leggendole come strategie di contenimento e confinamento delle pratiche di libertà che si concretizzano precisamente nella fuga, nella diserzione e nella migrazione. In realtà, questo gesto metodologico racchiude in sé almeno due presupposti teorici che val la pena anticipare per arrivare alle riflessioni attuali sull’autonomia delle migrazioni. Il primo corrisponde alla messa in discussione del nesso, apparentemente evidente, tra migrazioni e governo, grazie all’individuazione del momento storico in cui esso è emerso al cuore delle tecnologie governamentali: la mobilità umana, e in particolare i movimenti non autorizzati, ci spiega Foucault, hanno cominciato ad essere oggetto di politiche di controllo e confinamento precisamente all’epoca del primo capitalismo industriale. Ad essere sanzionati e imbrigliati sono, a ben vedere, «modi di esistenza», come Foucault li definisce, che provano a resistere e a sottrarsi alla capitalizzazione della vita in forza lavoro, nonché alla gestione del tempo tramite gli “apparati di sequestro”. Movimenti e condotte la cui “pericolosità” risiede nella produzione di «una contro-collettività che minaccia l’istituzione stessa»6. Chiaramente non si tratta di trasporre nel nostro presente le logiche di controllo all’opera nel XVIII secolo, né le analisi di Foucault sui meccanismi disciplinari e di assoggettamento dal punto di vista del governo della mobilità non autorizzata. Piuttosto, ad essere in gioco è la possibilità stessa di non assumere il governo in quanto tale come paradigma di partenza indiscusso attraverso il quale guardare alle pratiche di migrazione; e di mobilitare invece una lettura della governamentalità dei movimenti come campo conflittuale di lotte, in cui le tecniche di controllo funzionano come strategie di contenimento nei confronti di strategie di fuga e di resistenza – cioè di condotte indisciplinate. Il secondo presupposto implicito nell’analisi foucaultiana del governo delle migrazioni consiste nell’assumere i meccanismi di controllo come strategie di imbrigliamento delle condotte “pericolose” e disordinate di 6

Ivi, p. 219.


250 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli mobilità e, al tempo stesso, come strumenti giuridici e politici di illegalizzazione di una parte della forza lavoro. Ebbene, è proprio a partire da questi due assunti che, alla fine degli anni novanta, si è sviluppata una produzione critica sul governo della mobilità (non autorizzata) centrata sulla nozione di “autonomia delle migrazioni”. Anziché partire dai meccanismi di controllo, tale approccio si propone di assumere il punto di vista delle pratiche di migrazione come pratiche di resistenza e di libertà a certi meccanismi di presa sulle vite e di normazione sociale, e di guardare alle politiche migratorie come meccanismi di contenimento e cattura di questi movimenti. Pratiche di rifiuto che, nel XIX secolo, erano definite “illegalismi”7 per il fatto stesso di sottrarsi alla «fissazione degli individui all’apparato di produzione»8. Un rifiuto esercitato tramite comportamenti moralmente sanzionati come la pigrizia, la dispersione delle forze, la dissipazione, o molto spesso tramite la mobilità nello spazio9. Questa prospettiva specifica – il rifiuto del lavoro – attraverso la quale Foucault analizza la serie di illegalismi che emergono nel XIX secolo e che divengono oggetto del potere disciplinare, ci conduce direttamente al secondo nucleo tematico preannunciato. In effetti, le forme di resistenza alla sintetizzazione della vita in forza lavoro, come efficacemente le descrive Foucault, ci segnalano che «il tempo e la vita dell’uomo non sono per natura lavoro, ma al contrario sono piacere, discontinuità, festa, riposo, bisogno, istante, azzardo, violenza»; e che è proprio «questa energia esplosiva che bisogna trasformare in una forza lavoro continua e continuamente offerta sul mercato»10. Una simile “presa” trasformativa sulla vita si realizza dunque, ancora seguendo Foucault, attraverso un controllo sulla temporalità delle esistenze e sui movimenti, controllo esercitato anche grazie al lavoro delle norme. È importante notare che, sganciando la vita dal lavoro come presunta determinazione naturale degli individui (tema che ritorna anche ne La verità e le forme giuridiche11), le pratiche di resistenza a ciò che Foucault, dal 1976, definirà con il termine “biopolitica” si riferiscono essenzialmente a comportamenti (irregolari) e condotte che tentano di sfuggire a quella capitalizzazione delle vite. Mentre nei testi in Su questa nozione, così come sula nozione di “gestione differenziale degli illegalismi”, si veda il contributo di Grégory Salle pubblicato nel presente dossier. 8 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 201. 9 Ivi, pp. 192-193. 10 Ivi, p. 236. 11 M. Foucault, La vérité et les formes juridiques, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1406-1514. 7


Nota introduttiva 251

cui tratteggia il funzionamento specifico della biopolitica Foucault si sofferma sugli elementi di novità di questa tecnologia di potere, ne La société punitive lo sguardo è orientato su condotte e comportamenti attraverso i quali i soggetti rifiutano e si sottraggono alla messa al lavoro delle proprie vite, e dunque al biopotere, mobilitando pratiche di resistenza che hanno nella vita stessa il proprio punto di appoggio. Del resto, il lavoro vivo cui si riferiscono molte delle riflessioni sulle forme contemporanee di biopotere rimanda proprio allo scollamento, segnalato da Foucault, tra la produttività della vita in quanto tale e il suo sfruttamento come forza lavoro “fissata” a un certo dispositivo disciplinare. Il Corso del 1973 può, in questo senso, essere letto seguendo il filo conduttore di pratiche, condotte e movimenti di resistenza all’allora emergente meccanismo di produzione capitalista, in risposta ai quali si sono strutturati una serie di meccanismi di cattura – di presa sulle vite – di tipo disciplinare e biopolitico. È indubbio, tuttavia, che il tema centrale de La société punitive sia quello della prigione, o meglio – come sottolinea Frédéric Gros nel primo contributo di questo dossier –, quello della comparsa improvvisa dell’evidenza carceraria all’inizio del XIX secolo. Nelle lezioni del 31 gennaio e del 7 febbraio 1973, introdotte dall’esplicitazione del passaggio metodologico da un’analisi di tipo archeologico a un’analisi di tipo “dinastico” o genealogico, Foucault precisa che il proprio scopo è di mettere in luce «i rapporti di potere che hanno reso possibile l’emergenza storica di qualcosa come la prigione»12. Da dove viene questa forma-prigione – la nostra forma presente, attuale della prigione? Foucault sostiene che, verso la fine del XVIII secolo, negli Stati Uniti, si è cominciata ad operare una giunzione paradossale tra un principio giudiziario (la pena come conseguenza dell’infrazione e come mezzo di protezione della società) e un principio morale (la pena come processo di penitenza in seguito a una colpa): si assiste così a un’«invasione del penitenziario nel penale e nel giuridico»13. Tale invasione, attraverso una moralizzazione della penalità e una statalizzazione degli strumenti di tale moralità penale articolate su un retroterra religioso (per esempio, le comunità di dissenters protestanti anglosassoni), ha dato luogo in Europa all’«elemento del coercitivo», caratterizzato da una coercizione «che è quotidiana, [che] si applica sulle maniere di essere e [che] cerca di ottenere una certa correzione degli individui»14, o, in altri termini, a una M. Foucault, La société punitive, cit., p. 86. Ivi, pp. 92-93. 14 Ivi, p. 114. 12 13


252 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli «penalizzazione dell’esistenza»15 – giacché questa coercizione è necessaria «per integrare il corpo, il tempo, la vita degli uomini nella forma del lavoro, nel gioco delle forze produttive»16. Tale processo, secondo Foucault, permette di spiegare l’impressione di “anzianità” trasmessa dalla prigione: se la forma-prigione appare così profondamente radicata nella nostra cultura, è perché si è innestata su una morale cristiana «che le ha dato una profondità storica che essa non aveva». Per questo, ancora oggi, la prigione ci sembra un’«evidenza»17, un dato naturale e necessario – un dato che, tuttavia, le analisi genealogiche di Foucault, ne La société punitive e poi in Sorvegliare e punire, mirano a contestare, a smontare, a restituire a una dimensione storica e contingente. Così, il lavoro storico-filosofico di Foucault si pone in continuità diretta con i movimenti di “dissidenza morale” fioriti negli anni sessanta e settanta in Europa e negli Stati Uniti al fine di lottare per il diritto all’aborto, all’omosessualità, all’ozio, ecc. – ovvero, per tentare di rompere quel legame tra morale, difesa dei rapporti di potere caratteristici della società capitalista e apparati di controllo statali che ha costituito il retroterra fondamentale della generalizzazione della forma-prigione all’intera società (un legame sul quale si concentra Corentin Durand nel proprio contributo). Lottare contro l’elemento del coercitivo significa dunque, secondo Foucault, mettere in atto una dissidenza morale attraverso l’uso dell’illegalità come strumento di battaglia, attaccando direttamente la connessione tra morale, potere capitalista e Stato18. È questo l’obiettivo delle analisi genealogiche di Foucault, che rintracciano e mettono in luce i processi storici di costituzione di tale connessione e, di conseguenza, il suo carattere eminentemente nonnecessario. In questo senso, ancora una volta, la storia assume, in Foucault, una portata essenzialmente politica19. Londra, Parigi, Pisa, Tunisi marzo 2015 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Ivi, p. 197. Ivi, p. 201. 17 Ivi, p. 94. 18 Ivi, pp. 115-116. 19 Su questa dimensione di «impegno politico» rintracciabile ne La société punitive, impegno che prende la forma (inusuale in Foucault) di un atteggiamento combattivo, aggressivo e distruttivo, insiste in particolare Sacha Raoult nel suo contributo al presente dossier. 15 16


Foucault e la società punitiva Frédéric Gros

Sorvegliare e punire di Michel Foucault, pubblicato nel 1975 , costituisce 1

senza alcun dubbio uno dei contributi più importanti, dal punto di vista storico, sociologico e filosofico, al problema della prigione. Questo libro è diventato rapidamente un punto di riferimento e un classico, e ancora oggi si continua a citarlo abbondantemente. Innumerevoli commentari, esegesi, critiche, numeri speciali di riviste hanno tentato, da quasi quarant’anni a questa parte, di esplorare le sue poste in gioco teoriche e pratiche2. Accanto a una tale massa critica, è possibile oggi avere accesso a un insieme di analisi foucaultiane che furono decisive per la scrittura dell’opera del 1975: si tratta del corso pronunciato da Foucault al Collège de France tra il 3 gennaio e il 28 marzo 1973, intitolato La société puntive e recentemente pubblicato in francese nell’edizione stabilita da Bernard E. Harcourt3. Il mio scopo, qui, non sarà fornire una sintesi completa del corso, ma cercare di mettere in luce le principali linee di forza di queste lezioni, che propongono per la prima volta il tema della comparsa improvvisa dell’evidenza carceraria all’inizio del diciannovesimo secolo. In Sorvegliare e punire, un certo numero di analisi dell’inverno del 1973 saranno ricontestualizzate, riproblematizzate, rimesse in prospettiva, arricchite, e anche talvolta accantonate; cercherò di discutere le più significative tra quelle presentate ne La société punitive con un taglio e un’incisività che non troveremo più in seguito. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976. Si veda, per una buona sintesi complessiva, F. Boullant, Michel Foucault et les prisons, PUF, Paris 2003. 3 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard, Paris 2013. Già da qualche anno erano disponibili il riassunto del corso redatto da Foucault stesso (La société punitive, in M. Foucault, Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1324-1338), nonché una conferenza pronunciata in Brasile nel maggio del 1973, nella quale Foucault propone una sintesi dei risultati del corso tenuto qualche mese prima (La vérité et les formes juridiques, in M. Foucault, Dits et écrits I, cit., pp. 1456-1491). Si vedano, inoltre, due interviste dello stesso periodo nelle quali Foucault evoca i medesimi temi trattati nel corso (Prisons et révoltes dans les prisons e À propos de l’enfermement pénitentiaire, in M. Foucault, Dits et écrits I, cit., pp. 1293-1300 e 1303-1313). 1 2

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 253-262.


254 Frédéric Gros La messa in evidenza di un cambiamento Foucault cerca quasi subito di dissipare un primo malinteso (lezione del 3 gennaio 1973, pp. 3-16): no, non si tratta ancora una volta di mettere in opera una retorica dell’esclusione, non si tratta di denunciare una società intollerante, né di valorizzare i «margini». Al contrario: questa analisi della prigione presuppone una critica sistematica dei concetti di trasgressione e di esclusione. Prima di rinunciarvi per sempre, però, Foucault sottolinea rapidamente che la nozione di esclusione non è stata del tutto inutile, in passato, in particolare per smascherare una violenza originaria che i concetti di psicopatologia tentano di far dimenticare (si tratta dell’idea secondo la quale la società ha cominciato con il rifiutare coloro che presenta come «anormali» o «devianti»). D’altro canto, il concetto di «trasgressione» ha avuto il merito di far valere un rapporto al limite più profondo di quello alla legge. Tutti questi temi erano stati abbondantemente trattati da Foucault in Storia della follia4, il cui capitolo intitolato Il grande internamento aveva a suo tempo fatto scalpore: in esso, Foucault sosteneva che la grande ratio occidentale (oggettiva, metodica e neutra) fosse nata grazie all’immenso rifiuto della follia. L’affermazione calma della Ragione, che si prolungherà nella conoscenza psichiatrica, riposerebbe dunque su un’esclusione originaria e fondatrice. Tuttavia, come Foucault afferma nel 1973, non si tratta, a proposito della prigione, di ripetere il medesimo schema e di interpretarla immediatamente come strumento di esclusione dei devianti. Una simile analisi, pur senza essere del tutto inesatta, sarebbe troppo superficiale, poiché, al momento della sua nascita, piuttosto che rigettare al di fuori della società una serie di popolazioni indesiderabili, la prigione moderna integra, progetta, purifica, ricicla strategie sociali di potere, e così facendo ridistribuisce flussi di popolazione più di quanto non li elimini. L’idea è di considerare la prigione come un rivelatore di strategie piuttosto che come il semplice effetto istituzionale di un gesto politico monotono e massiccio (eliminare la contestazione, bandire la plebe sediziosa). La prigione dovrà essere analizzata come una specifica strategia di potere. Foucault insiste per fare della reclusione, più che un contenuto penale determinato, una vera e propria tattica penale, che si aggiungerebbe ad altre tre grandi tattiche: bandire (interdire la presenza del criminale in alcuni luoghi); redimere (imporre un sistema di obblighi e di compensazioni); 4

M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Rizzoli, Milano 1963.


Foucault e la società punitiva 255

marcare (far apparire sul corpo le cicatrici del potere). Si parla qui di «tattiche penali», giacché si tratta di far dipendere queste procedure non da un sistema di rappresentazioni o da una mentalità, ma da una certa maniera che i gruppi sociali hanno di farsi guerra reciprocamente. La prigione, in altri termini, dovrà essere interpretata come un elemento tattico all’interno di una guerra sociale. Troviamo quindi già nel 1973 l’idea, che sarà ripresa da Foucault nel corso al Collège de France pronunciato nel 19765, secondo la quale, al di sotto della patina della pace civile, ogni società è attraversata da un rapporto fondamentale di guerra (lezione del 10 gennaio 1973, pp. 23-39). Questa «guerra civile» fondamentale ha poco a che vedere con l’incubo messo in scena da Hobbes nel suo Leviatano, cioè con il conflitto mortale che presiede all’istituzione dell’autorità politica, poiché non è una guerra di tutti contro tutti – nella quale si affrontano individui invidiosi e calcolatori delle proprie possibilità di sopravvivenza –, bensì una guerra tra gruppi dagli interessi divergenti, una lotta tra classi che godono di diritti contraddittori. Il potere, secondo Foucault, non è ciò che fa cessare la guerra, ma ciò che la struttura, riassorbendola al fine di mantenere o di modificare le sue dinamiche e le sue peculiarità6. È soprattutto con la nuova definizione del criminale come «nemico sociale» che tale sfondo di guerra diviene intelligibile. Nel corso del Medioevo, il crimine e il furto sono qualificati o come rotture dell’equilibrio all’interno di sistemi di obblighi e scambi, equivalenti in fondo a contrarre un debito privato, o come violazioni blasfeme di interdetti sacri, insulti alla religione. L’età moderna fa valere poco a poco l’idea che le infrazioni devono essere considerate come rotture del contratto sociale, come lesioni agli interessi pubblici. Con il passare dei decenni, si impone il tema – sostenuto dall’istituzione del procuratore, che segna una statalizzazione della giustizia – secondo il quale il criminale rappresenta essenzialmente una minaccia all’ordine pubblico, piuttosto che agli interessi privati o ai valori sacri. I testi di Beccaria e di Brissot, per esempio, danno una definizione del delinquente come nemico sociale finalmente scevra da tutte le antiche ambiguità. Questa socializzazione della figura del criminale trova un’interessante illustrazione nella nuova caratterizzazione del vagabondo, M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1997), Feltrinelli, Milano 1998. Questa dimensione si fa evidente, per esempio, al momento della messa in atto, in Francia, del codice penale e d’istruzione criminale: i deputati (Foucault cita l’intervento alla Camera, il 23 dicembre 1831, di un deputato del Var, che tuttavia non aveva letto Marx) riconoscono che le leggi penali sono istituite da una classe sociale per essere applicate a un’altra. 5 6


256 Frédéric Gros come si può vedere nel famoso Mémoire sur les vagabonds et les mendiants di Le Trosne (lezione del 17 gennaio 1973, pp. 45-57). Il testo dimostra che ciò che va punito non è esattamente l’ozio come vizio morale o ancora la mendicità in quanto svalutazione del lavoro, ma il vagabondaggio come ethos. La condizione nomade minaccia i processi economici più elementari (si sfugge alle tasse, si disperde in modo anarchico la propria forza lavoro, non si partecipa alla produzione, e così via). Più che come un fannullone, il vagabondo è costruito, in questo testo del 1764, come un parassita: più che le leggi morali, egli insulta le regole della produzione. Due cose, quindi, sono state stabilite finora: da una parte, la prigione deve essere interpretata come uno strumento tattico all’interno di una guerra civile ininterrotta, e non come il semplice effetto di un grande gesto di esclusione; dall’altra, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, diversi testi qualificano il criminale come un «nemico sociale». Logicamente, ci si potrebbe attendere la conclusione seguente: l’evidenza della prigione come pratica penale pubblica si impone a partire da un’esigenza di eliminazione dei criminali, nel quadro di questa guerra condotta contro i nemici sociali. Ma si tratterebbe di una conclusione affrettata. È infatti impossibile far apparire la prigione come la conseguenza pratica di una caratterizzazione ideologica del criminale in quanto nemico sociale. In effetti, quando si tratta di tirare le somme della definizione del crimine come danno pubblico, autori come Beccaria, Brissot o ancora Lepeletier de Saint-Fargeau pensano a tutto tranne che alla prigione: l’infamia, il taglione, il lavoro forzato o la deportazione rispondono più efficacemente a una strategia di contrattacco sociale che diversifichi le risposte a seconda dei tipi di minacce arrecate agli interessi pubblici (lezione del 24 gennaio 1973, pp. 63-74). Non è dunque una nuova filosofia penale ad imporre l’evidenza della prigione. Bisogna forse dedurne che quest’ultima è sempre esistita, e che si tratta semplicemente di ridurre la panoplia penale? Ma la prigione, in passato, non era considerata una pena, e l’imprigionamento, nel contesto delle misure giudiziarie, aveva il ruolo di un «pegno», attraverso il quale ci si assicurava della persona dell’incolpato. Funzione della prigione nell’età industriale Sorge allora l’idea che la giustizia penale avrebbe, nel diciannovesimo secolo, reinvestito antiche strutture paragiudiziarie di reclusione. L’origine


Foucault e la società punitiva 257

della prigione è ricercata da Foucault o dal lato della procedura francese delle lettres de cachet – si imprigionano persone senza giudicarle, facendo redigere dall’ufficiale di polizia una lettera firmata dal re –, o da quello di società religiose inglesi, metodiste e quacchere – si costituiscono gruppi privati incaricati di controllare severamente la moralità dei membri della comunità. Questi ambienti rigoristi, del resto, imporranno negli Stati Uniti il modello della prigione, come nel caso della prigione di Filadelfia (lezioni del 7 e del 14 febbraio 1973, pp. 103-118 e 125-138). I due sistemi possono sembrare estremamente eterogenei, ma si ricongiungono, secondo Foucault, nella nozione di penitenziario. Il penitenziario, nelle lezioni del 1973, corrisponde all’idea di una reclusione che, più che sanzionare l’infrazione a una legge, sanziona l’irregolarità del comportamento. Esso si fonda dunque su una percezione morale delle condotte, attenta a reperire deviazioni, scarti, atteggiamenti inappropriati, vite dissolute. Si tratta di una reclusione che presuppone strutture di sorveglianza, di controllo, e che ha come obiettivo la trasformazione del comportamento individuale. Si imprigiona un individuo non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è (la sua natura viziosa, le sue cattive inclinazioni, e così via). L’invenzione della prigione coincide, secondo Foucault, con il momento in cui lo Stato si impossessa di una pratica penitenziaria e la trasforma in un contenuto di penalità pubblica. Il problema diviene: perché si è andati a cercare dal lato delle pratiche penitenziarie paragiudiziarie (che si tratti della procedura delle lettres de cachet o delle società inglesi di controllo) per nutrire la penalità statale, nonostante la rivoluzione ideologica imponesse altre modalità punitive? Quale interesse poteva avere lo Stato ad adottare massicciamente, a partire dall’inizio del diciannovesimo secolo, tali pratiche così profondamente estranee alla sua cultura giudiziaria? Quale contesto sociale generale ha potuto imporre un’evidenza carceraria che solo qualche decennio prima non esisteva? La risposta di Foucault è semplice nel suo aspetto eziologico, ma complessa nella sua descrizione. Nel 1973, Foucault individua nelle grandi trasformazioni economiche (avvento di un capitalismo della produzione industriale di massa e generalizzazione della proprietà contadina) la ragione che impone la prigione come evidenza penale. Ma spiegare non significa comprendere, giacché non si riesce immediatamente a capire come la grande industria o la piccola proprietà agricola abbiano potuto esigere che la prigione diventasse una modalità punitiva esclusiva. A meno che non si sostenga che la prigione serve a riassorbire il sovrappiù di mano d’opera


258 Frédéric Gros o a rinchiudere la plebe sediziosa, il che sarebbe allo stesso tempo insufficiente e semplicistico. L’idea che le trasformazioni del capitale siano all’origine della prigione si sviluppa, nelle lezioni del 1973, lungo una duplice dimensione, illustrata da due concetti: quello di illegalismo e quello di coercitivo. Nel primo caso, si tratta di mettere in luce una funzione della prigione nei rapporti sociali, mentre nel secondo si tratta di considerare la prigione come un simbolo di questi stessi rapporti sociali: un’utilità e un’utopia sociali. La nozione di illegalismo. La nozione di illegalismo abbraccia l’insieme delle pratiche che trasgrediscono deliberatamente, aggirano o perfino manipolano la legge. Le leggi, naturalmente, impongono un certo numero di interdizioni, di obblighi, di limiti. Ma l’equilibrio sociale, secondo Foucault, più che il risultato del rispetto delle leggi, è conseguenza della maniera in cui si stabiliscono una serie di complicità per aggirare una certa legalità. L’idea di fondo consiste nel sostenere che la comparsa di nuove forme di produzione si è tradotta in una riconfigurazione del gioco degli illegalismi popolari (lezioni del 21 e del 28 febbraio 1973, pp. 143-154 e 159-170). Schematizzando, si potrebbe dire che, al tempo dell’Ancien Régime, l’illegalismo contadino era tollerato nelle grandi proprietà nobiliari, poiché permetteva ridistribuzioni economiche e consentiva di porre un argine alla grande miseria. Dal canto loro, nelle città, i mercanti erano complici diretti degli artigiani nell’aggirare i regolamenti. In fondo, ogni volta, si trattava di contestare leggi restrittive o diritti feudali che erano immediatamente percepiti, dalle classi popolari così come dalla borghesia, come veri e propri abusi di potere. Ma la comparsa di un capitalismo industriale su larga scala presuppone la costruzione di magazzini, la creazione di fabbriche che raggruppino macchinari costosi e l’accumulazione di prodotti manifatturieri, mentre la progressiva erosione delle terre comunali trasforma ogni terreno nella proprietà di un individuo particolare. In questo modo, spiega Foucault, si ottiene un «corpo a corpo» immediato e diretto: l’operaio o il bracciante sono messi direttamente a contatto con i beni, e l’illegalismo, che prima contestava dei diritti, rischia ora di esercitarsi direttamente sulle ricchezze. Si passa da un illegalismo della frode a un illegalismo del furto e della razzia. Senza evocare la forma estrema della rivoluzione, la borghesia – che era stata complice dell’illegalismo popolare poiché, in passato, borghesia e classe popolare avevano lo stesso avversario (il prelievo di tipo feudale) – considera ora tale illegalismo come qualcosa di pericoloso e nocivo, poiché minaccia direttamente le ricchezze accumulate (merci, macchinari,


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prodotti agricoli). Occorre quindi spezzare l’antica tradizione dell’illegalismo popolare attraverso la costituzione di un illegalismo specifico e funzionale: l’illegalismo della delinquenza, che servirà allo stesso tempo come contro-modello e come mezzo di infiltrazione. La prigione, grazie alla sua logica specifica (recidiva, prossimità, complicità), permette la costituzione di un ambiente di delinquenza. Così, da una parte, il «buon popolo» sarà incline a rifiutare ogni tipo di illegalismo, dato che la prigione produce un illegalismo che è presentato alla classe operaia come pericoloso, degradante e ostile; e, dall’altra, la borghesia potrà sempre sfruttare questa delinquenza, vuoi per svolgere lavori sporchi, vuoi per infiltrarsi tra i proletari e prevenire la minaccia di rivolte politiche. Se chiamiamo «penitenziario» il tema di una prigione che va ben al di là del principio di una detenzione sancita dalla giustizia per un’infrazione definita dalla legge, e che costruisce l’idea di una reclusione per cattiva condotta funzionale a «rigenerare» questi individui sottoposti a una vigilanza perpetua, ebbene potremmo chiamare «carcerario» il tema di una prigione come produzione di una delinquenza utile alla classe dominante e funzionale a scoraggiare ogni forma di illegalismo politico. Il concetto di coercitivo. Il terzo concetto che Foucault costruisce nel 1973, al fine di comprendere cosa abbia potuto imporre l’evidenza della prigione nel corso del diciannovesimo secolo – quando, al contrario, la teoria penale dei riformatori suggeriva modalità punitive totalmente diverse –, è quello di «coercitivo» (lezioni del 7 febbraio e del mese di marzo 1973, pp. 103-118 e 175ss.). Il coercitivo, in Foucault, comprende un insieme di istituzioni che, nel diciannovesimo secolo, inquadravano la vita degli individui dalla nascita alla morte. Asilo, convitto, caserma, fabbrica, ospedale, ospizio… Tutte queste istituzioni «coercitive» funzionano secondo uno stesso modello: sorveglianza continua degli individui, condita di micro-punizioni in caso di condotta inappropriata; esame regolare delle abilità, sanzionato da un sistema di castigo-ricompensa e che produce un sapere normativo degli individui, identificati sulla base del loro scarto rispetto a una norma (di eduzione, di salute, di lavoro, ecc.) – sapere individuale che si realizza in rapporti, annotazioni, dossier, e così via –; infine, organizzazione rigorosa e praticamente esaustiva del tempo (attività, spostamenti, riposo, ecc.). Accanto a tali istituzioni «pesanti», che si concretizzano in architetture accurate, sono messi in opera dispositivi più flessibili, come il libretto di lavoro, le casse di risparmio, i tribunali del lavoro o le città operaie, che permettono altresì di normare il comportamento degli individui e di scoraggiare gli atteggiamenti giudicati devianti (alcolismo, instabilità, ecc.).


260 Frédéric Gros Rispetto a questo livello del coercitivo, la prigione ha un doppio statuto di isomorfismo e di realizzazione. Innanzitutto, essa è al contempo accettabile ed evidente, perché è l’istituzione coercitiva per eccellenza: condensato di sorveglianza ininterrotta, reclusione radicale ed esami ripetuti, la prigione non può più apparire come il simbolo di un abuso di potere, dal momento che assomiglia a tutta una serie di istituzioni parallele, perfettamente accettate dalla società. La peculiarità del coercitivo è in fondo quella di stabilire, da una parte, ciò che potremmo chiamare l’estensione del punitivo e, dall’altra, la continuità del punitivo e del penale. L’estensione del punitivo corrisponde semplicemente all’idea secondo la quale essere sorvegliati o valutati significa essere puniti. Attraverso il gioco di questa sintesi di sorveglianza, esame e punizione stabilita dal coercitivo, quando un medico mi pone domande a proposito del mio stato di salute, quando un professore mi interroga, quando un capomastro mi chiede come ho lavorato o un superiore quello che ho fatto – ebbene, tutte queste domande sprigionano immediatamente una certa «aura» punitiva. Il coercitivo esclude la possibilità di una vigilanza improntata alla sollecitudine o a una semplice neutralità scientifica. «Chi sei?», «Come stai?», «Cos’hai fatto?», «Cosa sai?» sono domande che, in fondo, potrebbero manifestare soltanto una curiosità scientifica o una preoccupazione etica per l’altro. A causa del coercitivo, invece, esse risvegliano in ciascuno di noi la paura di essere punito, se la risposta tradisce uno scarto rispetto a una norma (di salute, di istruzione, di comportamento, ecc.), e perfino la certezza angosciata, se lo scarto è troppo grande, di finire in prigione… Quest’ultima certezza è alimentata, infatti, dalla continuità stabilita tra il punitivo e il penale: è l’idea secondo la quale la sanzione naturale per tutti gli sconfinamenti e le irregolarità è la reclusione nelle prigioni dello Stato. Di conseguenza, nonostante i grandi teorici utilitaristi e liberali moderni abbiano fatto di tutto per dissociare l’infrazione e la colpa, per separare il penale dal morale, per distinguere in modo netto le leggi pubbliche e le norme etiche, la prigione, nella quale la pena è messa in opera, fa sì che la punizione pubblica e la sanzione morale siano saldamente interconnesse. Occorre però domandarsi un’ultima cosa: a che serve questo dispositivo punitivo generalizzato? La risposta del corso del 1973 è di un’incisività sorprendente: serve a trasformare il tempo della vita in forza lavoro. In fondo, sostiene Foucault, tutto lo sforzo di Marx è consistito nello spiegare come il capitalismo prenda in ostaggio la forza lavoro, come l’alieni, la sfrutti, come la trasformi – per trarne profitto – in forza produttiva. È il segreto di questa


Foucault e la società punitiva 261

alchimia di trasformazione ad essere svelato nel Capitale. Ma, innanzitutto, bisognerebbe descrivere il modo in cui il tempo della vita, che comprende la festa, la pigrizia, la fantasia e i capricci del desiderio, sia già stato trasformato in forza lavoro. Le istituzioni coercitive non hanno in fondo altro scopo se non una tale trasformazione. Esse danno la caccia a tutte le forme della dissipazione: l’imprudenza, l’irregolarità, il disordine, tutto ciò che disperde inutilmente il tempo della vita – «inutilmente» dal punto di vista del profitto capitalista. Il coercitivo, quindi, è ciò che permette di far coincidere il tempo vitale degli esseri umani con il ritmo dei macchinari e i cicli della produzione. Conclusione Con una grande chiarezza concettuale, il corso del 1973 costruisce dunque la prigione come il momento storico nel quale tre dimensioni giungono a connettersi: il «penitenziario» (genealogia religiosa), il «carcerario» (funzionalità politica) e il «coercitivo» (pertinenza economica). Naturalmente, questo studio vale soprattutto per la prigione del diciannovesimo secolo e per i discorsi che tentavano di legittimarla a quell’epoca. E tuttavia, in conclusione, potremmo porre il problema dell’attualità di queste analisi foucaultiane e dell’interesse che essere rivestono ancora oggi. Un certo numero di elementi sono infatti ancora attuali. Per esempio, l’idea di una preminenza del penitenziario sul penale appare chiaramente nella messa in atto delle «peines de sûreté»: la prigione si presenta così, in modo evidente, come qualcosa di diverso rispetto alla detenzione legale, e diviene manifesto come l’incarcerazione sia giustificata sulla base di ciò che l’individuo è piuttosto che di ciò che ha fatto. Foucault, ne La société punitive, parla della criminologia come strumento di mutua codifica dell’ambito giuridico e dell’ambito medicosociale, spiegando in questo modo il successo di una nozione come quella di «pericolosità». Sappiamo quanto questa nozione sia stata notevolmente riattualizzata nel corso degli ultimi anni, nel quadro delle nuove politiche penali. Lo sviluppo degli «obblighi di cura» e di altre «ingiunzioni terapeutiche», all’interno della prigione stessa, produce una confusione sempre maggiore tra la punizione e la cura – confusione che Foucault aveva già individuato come una caratteristica delle società disciplinari. Ma il corso del 1973 ci permette anche, credo, di sollevare almeno due questioni. Innanzitutto, è qui che si trova l’idea che il capitalismo della produzione industriale di massa e dello sfruttamento sistematico delle proprietà


262 Frédéric Gros agricole, all’inizio del diciannovesimo secolo, abbia richiesto una ridefinizione massiccia del gioco degli illegalismi tra la borghesia e le classi popolari. Potremmo domandarci allora cosa implichi l’emergenza, all’inizio degli anni ottanta, di un nuovo capitalismo – il capitalismo finanziario –, al livello della ridistribuzione degli illegalismi, giacché il problema non consiste più nel corpo a corpo dell’operaio con la merce. La creazione della ricchezza, infatti, dipende oggi più che altro da capacità di anticipazione dei flussi e di padronanza di reti informali, e occorrerebbe, a partire da qui, descrivere le nuove complicità e le nuove scissioni. Ma il corso del 1973 permette anche di comprendere la crisi attuale della prigione e la sua trasformazione: è l’indebolimento del peso sociale delle istituzioni coercitive descritte da Foucault a comportare l’obliterazione della sua evidenza, anche perché la sicurezza è interpretata oggi molto più a partire da una logica di controllo dei flussi che non sulla base di una logica di reclusione. Così, il grande paradigma attuale della sicurezza è l’aeroporto, non più la prigione. Perché allora la prigione rimane la modalità punitiva più diffusa? Per mancanza di immaginazione punitiva? Oppure perché ciò che conta, oggi, è che ci si passi prima di raggiungere un’altra centrale, che vi si lascino tracce e dossier informatici, da completare al passaggio successivo? Gli ospedali, le prigioni e le scuole, oramai, risuonano insieme non più a causa dell’imposizione autoritaria di norme, ma a causa dei dispositivi di tracciabilità. Traduzione dal francese di Daniele Lorenzini

Frédéric Gros Sciences Po Paris frederic.gros@sciencespo.fr

. Foucault and the Punitive Society In this article I discuss the main theses of Michel Foucault’s 1972-1973 lectures at the Collège de France, The Punitive Society, in which he analyses for the first time the theme of the sudden emergence of the carceral evidence at the beginning of the 19th Century. Keywords: Michel Foucault, The Punitive Society, Prison, Criminal, Illegalism, Coercive, Justice.


The Missing Link

An Inquiry into Michel Foucault’s Distinction from “Penal Evolution” Literature between The Punitive Society and Discipline and Punish (1973-1975) Sacha Raoult

Introduction

Foucault did not offer in his written work many references to second-

ary sources, in fact he even mocked the obsession with “footnotes” in the introductory lecture of Society Must be Defended, the type of «useless knowledge, […] sumptuary knowledge, the wealth of the parvenu – and, as you know, its external sign are found at the foot of the page» gathered by «people who love libraries, documents, references, dusty manuscripts, texts that have never been read»1. This posture is peculiar in the academic world, although other influential figures of the 20th century, among which the most notable was Albert Einstein, have been famous for being very sparse with scholarly references as well. As an example of this scarcity, his magnum opus, Discipline and Punish, cites in the early pages only two major works from which Foucault wishes to distinguish his own inquiry: Durkheim’s Two Laws of Penal Evolution, a 27-pages paper published in l’Année Sociologique in 1900 and Rusche and Kirchheimer’s Punishment and Social Structure, published in 1939 but rediscovered in the late 1960s. The edition of The Punitive Society (La société punitive) in its original French version, rebuilt from Foucault’s manuscript and recordings in late 2013, is an important insight in Foucault’s positioning in relation to those two academic works. The Punitive Society is one of Foucault’s earliest Collège de France lecture, given in 1972-1973 (he got elected at the Collège in 1970)2. It is is an important book, part draft, part prelude, part alternative to Discipline and Punish. According to Daniel Defert, Foucault himself did not see a clear separation between The Punitive Society and Discipline and 1 2

M. Foucault, “Society Must Be Defended”, Picador, New York 2003, p. 4. Several translations of these lectures are now in the works.

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 263-282.


264 Sacha Raoult Punish, for him it was all «the same project»3. We know that Foucault mentioned his work on a «book on sentences» to Daniel Defert in a September 1972 correspondence, and he alludes to «completing the first draft» in April 19734 – a few weeks after The Punitive Society lectures were finished. The last part of the seminar certainly fits this description “of a single project”. In it, we can see “early drafts” of Discipline and Punish most famous points, most notably a description of “disciplinary procedures” (March 21st and 28th lectures) and the idea of prison architecture as a metaphor for the modern economy of power (March 28th lecture). But the majority of The Punitive Society has a somewhat different tone than Foucault’s later work, and is perhaps closer to an «alternative Marxism»5. It is also the peak of Foucault’s «political engagement»6. My first impression of the first half of The Punitive Society was that it was a shocking and combative endeavor. The jusque-boutisme and radicalism of the thesis that are exposed in The Punitive Society exude a strong Nietzschean posture of controversy, aggression, desire of demolition. In this paper I argue that this radical posture is in part the corollary of Foucault’s emphasis on two ideas, two kind of “work hypotheses” that appear to be problematic inside the lecturer-audience relationship, and to necessitate on Foucault’s part a certain quantity of explanations in the tone of controversy. Those two problems are that (a) punishment is a tool of class warfare and that (b) prison is a discontinuity in the history of punishment. I also argue that while those two problems were perceived as controversial, needing heavy emphasis and explanations in 1973, the prominence placed on them faded in the following years. Those “working hypotheses” became “obvious statements” in 1975. In fact, the link between punishment and political economy on one hand, and the novelty of prison on the other, are the starting point of Discipline and Punish. They do no longer need demonstration, part of this will result in Foucault will D. Defert in É. Balibar, D. Defert and B.E. Harcourt, Journée d’études autour de Michel Foucault, “La société punitive”, EHESS, 17 December 2013: <http://www. canal-u.tv/video/ehess/1ere_session_autour_de_michel_foucault_la_societe_ punitive_1972_1973.13895>. 4 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/ Gallimard/Seuil, Paris 2013, p. 313. 5 É. Balibar in É. Balibar, D. Defert and B.E. Harcourt, Journée d’études autour de Michel Foucault, “La société punitive”. 6 B.E. Harcourt in ibidem. 3


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detaching himself from the stronger Marxist rhetoric and shifting the focus from the novelty of the birth of prison to the strangeness of the death of corporal punishment. Finally, I argue that Discipline and Punish can be positioned “two steps” away from the classical approaches of changes in punishment policies, what was called at the time “penal evolution” literature. In this perspective, I see the recently published The Punitive Society as a “missing link”, a “transitional form” in this movement of detachment, distinction, demarcation from a classical literature that still had strong roots in 19th century historicism. After situation Discipline and Punish in this particular context, I will present the problem of the novelty of prison as well as the problem of class warfare. The Context: Discipline and Punish as a Detachment from “Penal Evolution” Literature In Discipline and Punish Foucault situates his enterprise as a clean break from a 20th century literature that still had strong ties to the 19th century. This posture is similar to one stated clearly in an 1966 interview after the French publication of The Order of Things: «Je crois que nous vivons actuellement la grande coupure avec le 19ème siècle, avec tout ce début du 20ème siècle. Cette coupure au fond nous l’éprouvons comme, non pas le refus ni le rejet, mais comme la distance prise par rapport à Sartre»7. This notion of distance towards the 19th-20th century’s idols and their way of posing and solving problems is essential. In regards to punishment, the figure Foucault is detaching from is not Sartre, but a body of literature that dealt, like Discipline and Punish, with the question of the modernization of the criminal justice system at the turn of the 18th century in France. A Foucault scholar will analyze the study of “the birth of prison” as a replication of an earlier approach already pursued by the author (“the birth of the asylum”, “the birth of the clinic”8). From this perspective, one will describe Discipline and Punish as a refinement and an application, M. Foucault, Entretien au sujet de “Les mots et les choses”, INA, 1966. See M. Foucault, The Lost interview, 1971, 2012: <http://fonselders.eu/eu/FS_ EBKviewer.php?Pid=6&Bid=166>. 7 8


266 Sacha Raoult for the third time, of the discourse analysis methodologies (archeology and genealogy) to another birth of a “total institution”, in the words of Goffman9, of a “heterotopia” in his own words. But the birth of the modern criminal justice system was also a recurring focus of socio-historical literature. First, we have the 19th century “philosophy of history”, or “historicism” – that drew several examples out of penal history. Second, we have the early sociology of punishment that had a strong historical approach. Those two literatures have a lot in common and have been sometimes been regrouped as the “penal evolution” literature10. The starting point of this literature is Hegel’s Lectures on the Philosophy of History, in which the modernization of punishment is an important (if anecdotal) evidence of a more general «rationalization process» that governs human history and defines it «as a progress of the consciousness of liberty»11. To illustrate this progress in the rationalization of criminal law, Hegel refers to the infamous punishment of the debtor by dismemberment in the law of the XII tables (secare partis) as an example of the first steps of a journey from barbarism to modernity. The fact that this law has for a long time now been considered a fabrication of later generations12 is telling to say the least. While the 19th century saw the rise of several Darwin-inspired “evolutionary” theories on the history of punishment (the most famous being Spencer), Hegel’s approach was followed by Rudolf von Jhering’s, in particular his Zweck im Recht and his Spirit of the Roman Law13. Jhering placed his historical perspective on punishment as a scholarly application of the Hegelian “progressive” view of History. Hence, his work is more detailed than Hegel’s. It rests on two principles: (a) the laws of punishment in a given Society are, more than any other type of law, a reflection upon the E. Goffman, Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, Anchor Books, New York 1961. 10 See E.W. Patterson, Historical and Evolutionary Theories of Law, in «Columbia Law Review» (1951), pp. 681-709; A. Hopkins, On the Sociology of Criminal Law, in «Social Problems», vol. 22 (1975), no. 5, pp. 608-619; S. Raoult, Etiologie d’une dépossession. L’histoire pénale comme perte progressive de contrôle, in «Jurisprudence. Revue critique», no. 2 (2011). 11 G.W.F. Hegel, The Philosophy of History, Courier Dover Publications, Mineola 2004. 12 See M. Radin, Secare Partis: The Early Roman Law of Execution against a Debtor, in «American Journal of Philology» (1922), pp. 32-48. 13 R. von Jhering, Geist des römischen Rechts: auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, Vol. 1. Breitkopf und Härtel, 1874; Id., Der Zweck im Recht, vol. 2, Breitkopf und Härtel, 1905. 9


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“psychology” and “morality” of that Society and (b) the history of punishment is a rationalization and humanization process. Hence, Jhering’s conclusion is that the humanization and rationalization of punishment (which he famously dubbed «the history […] of a constant abolition») reflects the rationalization and humanization of mankind as a whole. Jhering’s approach, as well as Spencer’s, was famously critiqued by Nietzsche in the Genealogy of Morals second essay on Guilt, Bad Conscience and the Like14. Those are the “classics” of the 19th century. At the turn of the 20th century, Émile Durkheim attempted to emancipate historical perspectives on punishment from both biological metaphors and the philosophy of History. To that end, he published in 1900 a paper entitle Two Laws of Penal Evolution15. This article is a fascinating read and a necessary premise to understanding the clear contribution of Foucault on the modernization of punishment. Durkheim’s empirical resources are not different in nature from Hegel’s and Jhering’s, although he is more systematic and less selective. Another common feature of his approach is that he studies the history of punishment on the longest period possible. Durkheim first gathers historical data on a dozen “epochs”: Pharaoh’s Egypt, Manu’s code, Hebraic laws, Ancient Greece, Roman Republic, Roman Empire, Barbaric France, the Ancien Régime and Modern France. He then classifies those countries in terms of «intensity of repression», and it gives a dual trend: first, cycles of oscillating intensity in repression and second «an overall trend of softening in sentences». The Durkheim paper contains several insights that will be present, reworked, argued for and against in Foucault’s work. Apart from the depiction of modernity as the ultimate step in the general «softening of sentences», and the centrality of prison punishment in the modern era, Durkheim also refers to an inverse relationship between the intensity of moral constraint and the width of moral control: Telle est la cause qui a déterminé l’affaiblissement progressif des peines. On voit que ce résultat s’est produit mécaniquement. La manière dont les sentiments collectifs réagissent contre le crime a changé, parce que ces sentiments ont changé. Des forces nouvelles sont entrées en jeu ; l’effet ne pouvait pas rester le même. Cette grande transformation n’a donc pas eu lieu en vue F. Nietzsche, On the Genealogy of Morals and Ecce Homo, Random House LLC, New York 2010. 15 É. Durkheim, Two Laws of Penal Evolution, in «Economy and Society», vol. 2, no. 3 (1973), pp. 285-308. 14


268 Sacha Raoult d’une fin préconçue ni sous l’empire de considérations utilitaires. Mais, une fois accomplie, elle s’est trouvée tout naturellement ajustée à des fins utiles. Par cela même qu’elle était nécessairement résultée des conditions nouvelles dans lesquelles se trouvaient placées les sociétés, elle ne pouvait pas ne pas être en rapport et en harmonie avec ces conditions. En effet, l’intensité des peines ne sert qu’à faire sentir aux consciences particulières l’énergie de la contrainte sociale ; aussi n’est-elle utile que si elle varie comme l’intensité même de cette contrainte. Il convient donc qu’elle s’adoucisse à mesure que la coercition collective s’allège, s’assouplit, devient moins exclusive du libre examen. Or c’est là le grand changement qui s’est produit au cours de l’évolution morale. Quoique la discipline sociale, dont la morale proprement dite n’est que l’expression la plus haute, étende de plus en plus son champ d’action, elle perd de plus en plus de rigueur autoritaire. Parce qu’elle prend quelque chose de plus humain, elle laisse plus de place aux spontanéités individuelles, elle les sollicite même. Elle a donc moins besoin d’être violemment imposée. Or, pour cela, il faut aussi que les sanctions qui lui assurent le respect deviennent moins compressives de toute initiative et de toute réflexion16.

This relationship between the width and the intensity of control is an essential mechanism studied in Discipline and Punish, however Foucault believed it was too superficial in Durkheim’s work: By studying only the general social forms, as Durkheim did, one runs the risk of positing as the principle of greater leniency in punishment processes of individualization that are rather one the effects of the new tactics of power, among which are to be included the new penal mechanisms17.

The inverse relationship and the overall “utility” of leniency has a more central place in Foucault’s work, where it is depicted as (1) a project («leniency as a technique of power»18): [The modern] reform must be situated in a process that historians have recently uncovered through the study of legal archives: the relaxation of penalty in the eighteenth century or, to be more precise, the double movement by which, during this period, crimes seemed to lose their violence, while punishments, reciprocally, lost some of their intensity, but as the cost of greater intervention19. É. Durkheim, Deux lois de l’évolution pénale, in «L’Année sociologique», vol. 4 (1900), pp. 24-25. 17 M. Foucault, Discipline and Punish. The Birth of the Prison, Random House LLC, New York 1977, p. 23. 18 Ibidem, p. 24. 19 Ibidem, p. 75. 16


The Missing Link 269 The criticism of the reforms was directed not so much at the weakness of cruelty of those in authority, as at a bad economy of power […] the paralysis of justice was due not so much to a weakening as to a badly regulated distribution of power, to its concentration […] It was not so much, or not only, the privilege of justice, its arbitrariness, its archaic arrogance, its uncontrolled rights that were criticized, but rather the mixture of its weaknesses and excesses, its exaggerations and its loopholes20.

As well as (2) an effective, actual metamorphosis of power, from hard and narrow to soft and wide: Il est certain que cette gouvernementalité n’a pas cessée, d’un certain point de vue, de devenir plus stricte au cours des âges […]21.

This being part of the larger critique of Humanism: J’ai essayé de montrer comment l’humanisme était cette espèce de fabrication de l’être humain sur un certain modèle et qu’il ne fonctionne absolument pas comme libération de l’homme mais au contraire comme enfermement de l’homme à travers un certain type de forme qui sont toutes commandées par la souveraineté du sujet22.

On specific examples, Foucault often referred to the most serious punishment as “anecdotic” and “weak” as well as more lenient punishment as “efficient” and “deep”. For instance on the repression of homosexuality he stated in an interview for Gai pied: I do not know the current situation well […] but, until the 1970s, we knew very well that bar and sauna owners were racketeered by the police; there is here a complex, efficient and heavy chaining of police repression23.

An efficient system that Foucault contrasted to the «almost inexistent» burnings of homosexuals under the Ancien Régime24. Ibidem, pp. 79-80. M. Foucault, Entretien à l’Université catholique de Louvain, 1981. 22 M. Foucault, The Lost interview, 1971. 23 M. Foucault, Foucault: non aux compromis, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, t. IV, p. 336. 24 Ibidem. 20 21


270 Sacha Raoult Apart from these similarities, Discipline and Punish distinguishes itself from this literature in three fundamental ways, and it is notable that each of those methodological points are emphasized in The Archeology of Knowledge (published a few years earlier). We can find those three methodological tools explained as well in several later interviews and debates: (a) the description of historical changes as transformation rather than progress, (b) the focus on an “historical moment” rather than on “History” as a whole, and (c) the emphasis of breaks over continuity. The description of historical changes as transformations rather than progress is one of Foucault’s main contention in the history of Knowledge. It is a strong aspects of The Order of Things25, and in his 1971 debate versus Noam Chomsky, Foucault was even clearer on his contention: For a long time the idea has existed that the sciences, knowledge, followed a certain line of “progress”, obeying the principle of “growth”, and the principle of the convergence of all these kinds of knowledge. And yet when one sees how the European understanding, which turned out to be a world-wide and universal understanding in a historical and geographical sense, developed, can one say that there has been growth? I, myself, would say that it has been much more a matter of transformation. Take, as an example, animal and plant classifications. How often have they not been rewritten since the Middle Ages according to completely different rules: by symbolism, by natural history, by comparative anatomy, by the theory of evolution. Each time this rewriting makes the knowledge completely different in its functions, in its economy, in its internal relations. You have there a principle of divergence, much more than one of growth. I would much rather say that there are many different ways of making possible simultaneously a few types of knowledge. There is, therefore, from a certain point of view, always an excess of data in relation to possible systems in a given period, which causes them to be experienced within their boundaries, even in their deficiency, which means that one fails to realise their creativity; and from another point of view, that of the historian, there is an excess, a proliferation of systems for a small amount of data, from which originates the widespread idea that it is the discovery of new facts which determines movement in the history of science26. M. Foucault, The Order of Things. An Archaeology of the Human Sciences, Psychology Press, Hove 2002. 26 N. Chomsky and M. Foucault, Human Nature: Justice versus Power, 1971: <http://www.chomsky.info/debates/1971xxxx.htm>. 25


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Like the “history of science” literature, “penal evolution” literature had emphasized several “progresses” in the history of punishment: rationalization, humanization, softening, “abolition”. In Discipline and Punish, Foucault is careful not only never to admit those as fact, but to emphasize the other side of each trend: humanization translate a change in focus from the crime to the criminal, rationalization “a displacement of penal economy”, softening “a search for greater efficiency”. The change cannot be described as going from point A to point B on a bi-dimensional figure (progress or decadence), it is a metamorphosis, a redistribution. This disengagement from the inherent linearity of penal evolution literature is facilitated by Foucault’s refusal to study History as a whole but instead to describe a single historical moment. Hence, Foucault on crime and punishment reads much differently than penal evolution literature, there is no discussion of a “trend”, of “the long run”. But it is Foucault’s last point of distinction, the emphasis of breaks over continuity, that The Punitive Society offers the most information on the stages followed before arriving to Discipline and Punish. The Emphasis of Break over Continuities, the Problem of “the Novelty of Prison” and the Opposition to Durkheim in The Punitive Society In The Archeology of Knowledge, Foucault would write «I have decided to ignore no form of discontinuity, break, threshold, or limit»27. This emphasis of breaks over continuities is one of Foucault’s “signature” research strategies. He explained the reason of this choice at several points of his career, but the most extended discussion of this choice rests in the introduction of this book. After explaining the social function of continuities in academic discourse: If the history of thought could remain the locus of uninterrupted continuities, it could endlessly forge connexions that no analysis could undo without abstraction, if it could weave, around everything that men say and do, obscure synthesis that anticipate for him, prepare him, and lead him endlessly towards his future, it would provide a privileged shelter for the sovereignty of consciousness. Continuous history is the indispensable correlative of the founding function of the subject: the 27

M. Foucault, The Archeology of Knowledge, Tavistock, London 1972, p. 31.


272 Sacha Raoult guarantee that everything that has eluded him may be restored to him; the certainty that time will disperse nothing without restoring it in a reconstituted unity28.

Foucault provides examples of the «preserv[ation] against all decentring, [of] the sovereignty of the subject»29 by the focus on continuities: Against the decentring opered by Marx – by the historical analysis of the relations of production, economic determinations, and the class struggle – it gave place, toward the end of the nineteenth century, to the search for a total history, in which all differences of a society might be reduced to a single form, to the organization of a world-view. […] [Against] the decentring operated by the Nietzschean genealogy, it opposed the search for an original foundation that would make rationality the telos of mankind, and link the whole history of thought to the preservation of this rationality, to the maintenance of this teleology, and to the every necessary return to this foundation30.

Eleven years later, in an interview for Campus report reworked for the Three Penny Review Foucault gave perhaps the clearest testimony of his voluntary emphasis on discontinuities as a methodological choice, a “fiction” at the service of a political truth: Je ne suis pas véritablement historien […] Je pratique une sorte de fiction historique. D’une certaine manière, je sais très bien que ce que je dis n’est pas vrai […]. Je sais très bien que ce que j’ai fait (sur la folie) est, d’un point de vue historique, partial, exagéré. Peut-être que j’ai ignoré certains éléments qui me contrediraient. Mais mon livre a eu un effet sur la manière dont les gens perçoivent la folie. Et donc mon livre et la thèse que je développe ont une vérité dans la réalité d’aujourd’hui […]. J’ai écrit un livre sur les prisons. J’ai essayé de mettre en évidence certaines tendances dans l’histoire des prisons. “Une seule tendance”, pourrait-on me reprocher. “Alors, ce que vous dites n’est pas tout à fait vrai”, Mais, il y a deux ans, en France, il y a eu de l’agitation dans plusieurs prisons, les détenus se sont révoltés. Dans deux de ces prisons, les prisonniers lisaient mon livre. Depuis leur cellule, certains détenus criaient le texte de mon livre à leurs camarades. Je sais que ce que je vais dire est prétentieux, mais c’est une preuve de vérité, de vérité politique, tangible, une vérité qui a commencé une fois le livre écrit31. Ibidem, p. 12. Ibidem. 30 Ibidem, pp. 12-13. 31 M. Foucault, Foucault étudie la raison d’État, in Dits et écrits, t. IV, pp. 40-41. 28 29


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Indeed Foucault’s work is full of “novelty”, “breaks”, “discontinuities”. The main themes of foucaldian research revolved around “births” (the birth of the asylum, the birth of the clinic, the birth of prison, the birth of sexuality) and “metamorphoses” (from thanato-power to biopower, from norm-rule to norm-normality). For the enterprise behind Discipline and Punish to be meaningful, its subtitle “The birth of prison” must signify novelty, a real transformation, something that needs to be explained. And behind the historical question (is prison novel?), there is the political one (is prison necessary?), as the proof of novelty is also the proof of the possibility of disappearance: […] ce que j’ai voulu faire c’est de montrer combien finalement cette adéquation, pour nous si claire et simple, de la peine avec la privation de liberté était en réalité quelque chose de récent, c’est une invention, c’est une invention technique, dont bien sûr les origines sont lointaines, mais qui a été intégré véritablement à l’intérieur du système pénal, et qui a fait partie de la rationalité pénale à partir de la fin du 18ème siècle. Et j’ai essayé d’interroger les raisons pour lesquelles la prison était ainsi devenue une sorte d’évidence dans notre système pénal. Il s’agit donc de rendre les choses plus fragiles par cette analyse historique, ou plutôt de montrer à la fois, pourquoi et comment les choses ont pu se constituées ainsi mais montrer en même temps qu’elles se sont constituées à travers une histoire précise. Il faut donc montrer la logique des choses […] et […] du moment que (notre rapport à la prison et à la folie) est historiquement constitué, il peut être politiquement détruit […] J’ai voulu déchoir (la prison) de leur statut d’évidence pour leur redonner la mobilité qu’elles ont eu et qu’elles doivent toujours avoir dans le champ de nos pratiques32.

In an Italian interview, Foucault was even clearer on this plasticity he was trying to give to power mechanisms, as a self-defined «artificer», «fabricating tools for a siege, a war, a destruction»: De ce point de vue, toute ma recherche repose sur un postulat d’optimisme absolu. Je n’effectue pas mes analyses pour dire : voilà comment sont les choses, vous êtes piégés. Je ne dis ces choses que dans la mesure où je considère que cela permet de les transformer33.

Pierre Bourdieu, one of Foucault contemporary seemed to criticize this posture that placed emphasis on discontinuities, labelling it an “extreme” and a “delusion”, symmetrical to the emphasis on continuities by “conservative sociologists”: 32 33

M. Foucault, Entretien à l’Université catholique de Louvain. M. Foucault, Conversazione con Michel Foucault, in Dits et écrits, t. IV, p. 93.


274 Sacha Raoult [U]n des grands problèmes des sociologues, c’est d’éviter de tomber dans l’une ou l’autre des deux illusions symétriques, l’illusion du “jamais vu” [...], des phénomènes inouïs, des révolutions […] et celle du “toujours ainsi” (qui est plutôt le fait des sociologues conservateurs : “rien de nouveau sous le soleil, il y aura toujours des dominants et des dominés, des riches et des pauvres…”). Le risque est toujours très grand, d’autant plus grand que la comparaison entre les époques est extrêmement difficile : on ne peut comparer que de structure à structure, et on risque toujours de se tromper et de décrire comme quelque chose d’inouïe quelque chose de banal, simplement par inculture34.

In Discipline and Punish, the fact that “prison is novel” and that this novelty needed to be explored is not extensively argued. Instead, what is central to the demonstration is the corollary of the birth of prison: the sudden disappearances of the cruelest corporal punishment. The book starts with the torment (supplice) of Damiens and follows by a question: how could this horrendous, revolting practice disappear so quickly? «Why this universal horror of torture and such lyrical insistence that punishment be “humane”?»35. The disappearance of corporal punishment is an obvious and widely accepted discontinuity in the recent history of punishment. Foucault does not have to argue against anyone that this “break” happened, that it is sudden, unique, and that it needs to be explained. Another obvious and widely accepted fact is that this sudden disappearance of the cruelest punishment created an emptiness that was almost “mechanically” filled by the prison. If the murderer cannot be punished by torment, he has to be punished by imprisonment, on the model of other disciplinary institutions, will add Foucault. Hence the focus on “humanization”. But in The Punitive Society, Foucault’s approach was different. The book does not address corporal punishment and its disappearance. The “modernization” discontinuity is still the focus but Foucault examines the other side of the coin, the novelty of prison itself, not the novelty of abolition. «La prison est introduite de biais dans la trame dérivative des théories et pratiques, et comme à l’improviste, de force»36. The whole lesson of January 31st argues that modern prison punishment is a «novel» institution, one that has «no historical depth». That which was obvious in Discipline and Punish needed to be extensively demP. Bourdieu, Sur la télévision, Raisons d’agir, Paris 1996, p. 49. M. Foucault, Discipline and Punish, p. 74. 36 M. Foucault, La société punitive, p. 86. 34 35


The Missing Link 275

onstrated a few years before, in The Punitive Society, as it may, after all, raise several objections: Je voudrais commencer cette analyse à partir d’une objection : n’est-il pas périlleux de dire que la prison surgit brusquement à l’intérieur du système pénal vers la fin du 18ème siècle, alors que l’on vit dans une société qui connaît la clôture monastique, une forme-couvent présente depuis des siècles ? Ne serait-il pas plus raisonnable de chercher si ce n’est pas à partir d’une certaine forme de communauté conventuelle que l’on peut retracer la généalogie de la formeprison ? Ainsi en France, c’est dans les couvents que se sont logés les prisons : l’enfermement cellulaire des prisons37.

What and who is Foucault arguing against? Two adversaries, at least. Common ignorance of course is his first target, as he emphasized in a later interview at the Université catholique de Louvain: Quand on discutait […] au début des années 1970 avec les gens sur la réforme du système pénale, une chose me paraissait très frappante, c’est que, par exemple la, bien sûr on posait la question théorique du droit de punir, bien sûr, d’un autre côté, on posait le problème de comment on peut aménager le régime pénitentiaire mais cette espèce d’évidence, si vous voulez, que la privation de liberté est, au fond, la forme la plus simple, la plus logique, la plus raisonnable, la plus équitable de punir quelqu’un parce qu’il avait commis une infraction, cela n’était pas tellement interrogé38.

But the most serious adversary, who is not quoted in The Punitive Society, but who will be referenced in Discipline and Punish, is Émile Durkheim. The Two Laws of Penal Evolution 1900 paper especially argues that modern prison is not a novelty, that it is “third stage” in a historical progression. This element is with any doubt essential to Durkheim’s demonstration, after all it is one of the “two laws” the paper is about (the first is the softening of sentences and the second one is the progressive replacement of all punishment by the deprivation of liberty). For Durkheim, prison had known three stages in the history of punishment: a preventive stage, when jails were only being used for pre-trial detention and prisoners awaiting execution (Socrates jail cell in the Crito is the most famous example of this use); a punitive stage, when the church sought to replace corporal and monetary punishment by the penitence in monasteries; a generalized stage when 37 38

Ibidem, p. 87. M. Foucault, Entretien à l’Université catholique de Louvain.


276 Sacha Raoult prison becomes the reference punishment for all crimes. Prison punishment is not novel, it is an invention of the church. This is precisely the view against which Foucault argues in The Punitive Society, stating that «prison is not the monastery of the Industrial era»39. This demonstration is essential and one might wonder how and why it disappeared from Discipline and Punish. Was it not deemed compelling enough? In Durkheim’s view, the prison is a “vertical” descendant of the monastery while in Foucault’s view it is a “horizontal” sibling of its contemporary disciplinary institutions (the asylum, the barracks, the manufacture, the juvenile correction facility, etc.). What arguments does Foucault offer against Durkheim’s views? First, there is the similarity of prison punishment to other structures of the capitalist era. Many of those points will be further developed in later works, but the most striking contribution of The Punitive Society is the question of the choice of “time” as the unit of punishment as a mirror of what he calls the “salary-form”, that is time as a unit of one’s work value in the capitalist era: Salaire et prison se rattachent, chacun à son niveau et à sa manière, à cet appareil de pouvoir qui assure l’extraction réelle du temps et qui introduit [le temps] dans un système d’échanges et de mesure40.

Second, Foucault differentiates «the function»41 of the monastery and that of the prison. The monastery protects the inside from the exterior, not the outside world from the interior, «the permeability» is «on the other side»42. Also, the monastery, while «linked to Sin» is «not punishment in itself» but «the condition of penitence», that is, it gives meaning to other punishments such as flailing or deprivation that will be done inside it. Third, Foucault argues that the “punitive use” of monastery by the Church was marginal and on the decline. «In France, canonical imprisonment was forbidden by the Church in 1629»43, and was only practiced in M. Foucault, La société punitive, p. 88. Ibidem, p. 86. 41 Ibidem, p. 87. 42 Ibidem. 43 Ibidem, p. 88. 39 40


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borderline cases that had to do with interferences between temporal and spiritual justices. Foucault concludes: «I do not think that imprisonment is the secularization of a catholic punishment»44, and, that is the most interesting part, spends the rest of the lecture arguing that after prison punishment emerged as the sole mode of punishment of the modern era is was «reChristianized»45, «by its base» says a note on Foucault’s manuscript46. That is, the prison religious personnel, the intervention of the priests during the 19th century is what gives «an impression of old age», «a thousand-year depth» to «this small model»47. In Discipline and Punish, this angle will be abandoned, replaced by perhaps a more effective and convincing focus, not on the novelty of prison, but on the novelty of the disappearance of corporal punishment. To show the abruptness of the discontinuity, Foucault resorts to his usual process of exposing “strangeness”. In Discipline and Punish, he makes the case that Damiens’ torment is strange and foreign to us, and perhaps traveling history in this direction makes an easier case. Foucault still emphasizes the difference between his approach and Durkheim’s work in the first pages of Discipline and Punish, but the emphasis is on the method one should use to study the modernization break: [To avoid] run[ning] the risk of allowing a change in collective sensibility, an increase in humanization or the development of human sciences to emerge as a massive, external, inert and primary fact […] [t]his study obeys four general rules: 1. Do not concentrate the study of the punitive mechanisms on their “repressive” effects alone, on their “punishment” aspects alone, but situate them in a whole series of their possible positive effects, even if these seem marginal at first sight. As a consequence, regard punishment as a complex social function. 2. Analyze punitive methods not simply as consequences of legislation or as indicators of social structures, but as techniques possessing their own specificity in the more general field of other ways of exercising power. Regard punishment as a political tactic. 3. Instead of treating the history of penal law and the history of the human sciences as two separate series whose overlapping appears to have had on one Ibidem. Ibidem, p. 95. 46 Ibidem, p. 92. 47 Ibidem, p. 94. 44 45


278 Sacha Raoult or the other, or perhaps on both a disturbing or useful effect, according to one’s point of view, see whether there is not some common matric or whether they do not both derive from a single process of “epistemologico-juridical” formation; in short, make the technology of power the very principle both of the humanization of the penal system and of the knowledge of man. 4. Try to discover whether this entry of the soul on the scene of penal justice, and with it the insertion in legal practice of a whole corpus of “scientific” knowledge, is not the effect of a transformation of the way in which the body itself in invested in power relations48.

Foucault positioning towards Rusche and Kirchheimer’s work is more subtle, and in this regard, The Punitive Society represents a remarkable step in Foucault’s relation to Marxism. The Problem of Punishment as a Tool in Class Warfare The philosophy of history that gave birth to the “penal evolution” literature became slowly discredited at the beginning of the 20th century. Two famous attacks on this intellectual movement are Karl Popper’s On the Misery of Historicism and Raymond Aron’s Introduction à la philosophie de l’Histoire. By the second half of 20th century “long trends” were being replaced by socio-histories of particular moments. But a jewel shined in the ruins of penal evolution literature, a swan song of sorts: Rusche and Kirchheimer’s Punishment and Social Structure. The first work of the Frankfurt school to be published, in 1939, this Marxist take on the history of punishment was to be forgotten and rediscovered in 1968 – although there was no French translation before the 1990s. The book is subtle and achieves several ends, among which is the last (to the best of my knowledge) “long history” of punishment. Interestingly enough, Rusche and Kirchheimer notice the same type of “punishment cycles” that Durkheim highlighted, although they give no reference to Durkheim’s work. However, while Durkheim explained these cycles by «variations in the absolutism of central political power», Rusche and Kirchheimer see in variations of the harshness of punishment a correlation to «phases of economic development» and «demand for man 48

M. Foucault, Discipline and Punish, pp. 23-24.


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power»49. Punishment is harsher when economic conditions worsens, this is the “Rusche and Kirchheimer hypothesis” that has a major success in contemporary academia50. This idea that punishment is not primarily a “response” to crime but a form of management of social marginality is an essential part of The Punitive Society, with surprisingly, no reference (yet51) to Punishment and Social Structure. In fact, the amount of energy and examples Foucault uses to demonstrate that criminal justice perpetuates a class war is striking for the Foucault scholar, as it is not his habitual modus operandi. Most of Foucault’s lectures are about discussing and dissecting a few examples. In The Punitive Society, Foucault buries his audience under examples, of a criminal law forged “against a class” – while showing, as Bernard Harcourt remarks in his Situation du cours52, a certain malaise towards Marxist vocabulary (the best example being the expression “class struggle” written on the manuscript, where “struggle” is barred and replaced by “relations”53). These examples are the articulation of a global discourse of a war against the dangerous class that has to be waged by criminal law, a discourse repeated by elected officials: Un député du Var disait : “Les lois pénales, destinées en grande partie à une classe de la société, sont faites par un autre […] la presque totalité des délits, surtout de certains délits, est commise par la partie de la société à laquelle n’appartient pas le législateur. Or, cette partie diffère presque entièrement de l’autre par son esprit, ses mœurs, toute sa manière d’être”54.

By physiocrates, like LeTrosne: [Les vagabonds] “sont des insectes voraces […] des troupes ennemies répandues sur toute la surface du territoire, qui y vivent à discrétion, comme dans un pays conquis et qui y lèvent de véritables contributions sous le titre d’aumône”55. G. Rusche and O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure, Transaction, New Brunswick 2003, p. 8. 50 Ibidem, p. xxiii. 51 As explained supra and infra, Discipline and Punish references Rusche and Kichheimer’s “great book”. 52 M. Foucault, La société punitive, p. 295. 53 Ibidem, p. 222. 54 Ibidem, p. 24. 55 Ibidem, p. 50. 49


280 Sacha Raoult By religious communities: Wesley disait devant un de ses filiales en 1763, que la tâche principale de l’association est d’empêcher “la classe la plus basse et la plus vile de la société de se saisir des jeunes gens inexpérimentés et de leur extorquer leur argent”56.

By civil societies, composed of «notables, lords and member of the church»: En 1804, l’évêque Watson, prêchant devant la “Société pour la suppression du vice” disait : “les lois sont bonnes ; mais elles sont toujours éludées par les lower classes et les higher classes les tiennent pour rien”57.

Or, by Colquhoun, founder of the first London regular police: Cette agence aura pour cible propre les lower classes : “toutes les fois qu’une grande quantité d’ouvriers sera rassemblée en un même lieu, il s’y trouvera nécessairement beaucoup de mauvais sujets, qui, par la raison de leur réunion dans un moindre espace […] pourront, par leur conduite turbulente, nuire d’avantage à la chose publique”58.

All references to the use of punishment as a tool in a “civil war”, in a “class warfare” rhetoric is not gone from Discipline and Punish, but the focus on Marxism is considerably lighter, approached with more distance. Most notably, this heavy emphasis of The Punitive Society seems to be “replaced” by a reference to Rusche and Kirchheimer’s work: Rusche and Kirchheimer’s great work, Punishment and Social Structure, provides a number of essential reference points. We must first rid ourselves of the illusion that penalty is above all (if not exclusively) a means of reducing crime and that, in this role, according to social forms, the political system or beliefs, it may be severe or lenient, tend towards expiation of obtaining redress, towards the pursuit of individuals or the attribution of collective responsibility. […] We must show that punitive measure are not simply “negative” mechanisms that make it possible to repress, to prevent, to exclude to eliminate; but that they are linked to a whole series of positive and useful effects which it is their task to support […]. Ibidem, p. 106. Ibidem, p. 109. 58 Ibidem, p. 113. 56 57


The Missing Link 281 Form this point of view, Rusche and Kirchheimer relate the different systems of punishment with the systems of production within which they operate: thus, in a slave economy, punitive mechanisms serve to provide an additional labor force – and to constitute a body of ’civil’ slaves in addition to those provided by war or trading; with feudalism, at a time when money and production were still in a early stage of development, we find a sudden increase in corporal punishment – the body being in most cases the only property accessible; the penitentiary (the Hôpital Général, the Spinhuis or the Rasphuis), forced labor and the prison factory appear with the development of the mercantile economy. But the industrial system requires a free market of labor and, in the nineteenth century, the role of forced labor in the mechanisms of punishment diminished accordingly and “corrective” detention takes its place. There are no doubts a number of observations to be made about such a strict correlation. But we can surely accept the general proposition that, in our societies, the systems of punishment are to be situated in a certain “political economy” of the body59.

To demonstrate the link between the means of punishment and class war, Foucault gave in The Punitive Society a plethora of examples in the discourse while Rusche and Kirchheimer gave «a strict correlation», for which «there are no doubts a number of observation to be made». In Discipline and Punish, like the novelty of prison, the link between punishment and political economy no longer has to be demonstrated. But this time, instead of proposing a methodological opposition like with Durkheim, Foucault will use Rusche and Kirchheimer as a stepping stone that one must recognize, but also surpass. An interview given five years later is most telling on Foucault’s reaction to reading Punishment and Social Structure: Je savais peu de choses sur l’école de Francfort. J’avais lu quelque textes de Horkheimer, engagés dans tout un ensemble de discussions dont je comprenais mal l’enjeu et dans lesquelles je ressentais comme une légèreté, par rapport aux matériaux historiques qui étaient analysées. Je me suis intéressé à l’école de Francfort après avoir lu un livre très remarquable sur les mécanismes de punition qui avait été écrit aux États-Unis, par Kirchheimer. À ce moment-là, j’ai compris que les représentants de l’école de Francfort avaient essayé d’affirmer, plus tôt que moi, des choses que je m’efforçais moi aussi de soutenir depuis des années. […] 59

M. Foucault, Discipline and Punish, p. 25.


282 Sacha Raoult Quand je reconnais les mérites des philosophes de l’école de Francfort, je le fais avec la mauvaise conscience de celui qui aurait dû les lire bien avant, les comprendre plus tôt. Si j’avais lu ces œuvres, il y a un tas de choses que je n’aurais pas eu besoin de dire, et j’aurais évité des erreurs60.

Did this “late discovery” happen after The Punitive Society? Was this focus on class warfare «something that needn’t be said» after reading Rusche and Kirchheimer? From a personal conversation with Daniel Defert on December 17th 2013, it seems that it is not something we can establish or deny with the chronology we have now. Sacha Raoult Aix Marseille Université sacha.raoult@univ-amu.fr

. The Missing Link. An Inquiry into Michel Foucault’s Distinction from “Penal Evolution” Literature between The Punitive Society and Discipline and Punish (1973-1975) Michel Foucault presents his starting point in Discipline and Punish by positioning his work in relation to two major socio-historical milestones: a short article by Émile Durkheim, who was trying to explain “the gradual softening of punishment”, and the book Punishment and Social Structure published by Rusche and Kirchheimer during the interwar period, which laid the groundwork for an economic analysis of criminal justice systems. This positioning is made on two pages of Discipline and Punish. Thanks to the recent publication of Foucault’s The Punitive Society, we find more advanced arguments over these issues and see how, in the months prior to the completion of Discipline and Punish, Foucault moved and refined what seemed the most problematic with modern penality. Keywords: Michel Foucault, The Punitive Society, Discipline and Punish, Penal Sociology, Marxism, Prison, Poverty.

60

M. Foucault, Conversazione con Michel Foucault, pp. 73-74.


Per una sociologia morale delle traiettorie di controllo Una lettura de La société punitive Corentin Durand

Introduzione

Per le scienze sociali, la lettura di Michel Foucault è stata – e resta –

un vettore importante d’innovazione teorica e metodologica1. La société punitive, nuova opera del lavoro di edizione delle sue prese di parola e di scrittura, rinnova l’invito all’immaginazione sociologica. Pronunciato al Collège de France nel 1973, il Corso non ha certo la novità delle lezioni successive alla pubblicazione di Sorvegliare e punire. Tuttavia propone, al sociologo della penalità, alcune piste originali per la definizione di oggetti e di metodologia di ricerca2. L’immagine è nota, e ha acquisito anche uno statuto di evidenza. La prigione è lo specchio – a ingrandimento o deformante – della società libera. I rapporti di potere che vi sono all’opera si ritrovano, in forme attenuate, nei rapporti sociali dell’esterno. Il 28 marzo 1973 Foucault sembra non dire altra cosa: «Il punto del mio proposito: la prigione come forma sociale, ossia come forma secondo cui il potere si esercita all’interno di una società»3. Ne La société punitive, la prigione è esplicitamente presentata come un mezzo per caratterizzare una forma di potere che la oltrepassa, il potere disciplinare. Poiché essa intrattiene con il resto della società una relazione particolare, permette di cogliere l’essenza della società in cui viviamo – o forse nella quale vivevano i suoi ascoltatori nel 1973: «una società Le discussioni con Bernard E. Harcourt durante il lavoro di edizione del Corso, hanno nutrito le riflessioni presentate in questo articolo e per questo lo ringrazio. 2 Secondo l’espressione di C. Lemieux, Filosofia e sociologia: il prezzo di un passaggio, in «Sociologie», vol. 3 (2012), n. 2. In questo articolo, l’autore si interroga d’altronde esplicitamente sul posto di Foucault all’interno della letteratura sociologica: «come dei sociologi hanno potuto assimilare l’opera di Foucault a un territorio familiare e trattarla in fonte di ispirazione?» (p. 203). 3 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard, Paris 2013, p. 203. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 283-306.


284 Corentin Durand a potere disciplinare 4, ovvero dotata di apparati la cui forma è il sequestro, la cui finalità è la costituzione di una forza lavoro, e il cui strumento è l’acquisizione delle discipline e delle abitudini»5. La forza de La société punitive consiste nell’affrontare senza deviazioni la questione della relazione tra la prigione e la società. L’immagine quasimagica dello specchio fa posto a due genealogie che tracciano legami inversi e complementari tra l’istituzione carceraria e i differenti dispositivi di controllo che inquadrano le nostre esistenze. Secondo l’ipotesi penitenziaria, è la prigione che diffonde le proprie funzioni al resto della società. Secondo l’ipotesi coercitiva, la prigione marca il prolungamento e l’esito di una serie di istituzioni di costrizione. Insieme, le due ipotesi disegnano un oggetto di studio poco esplorato: le continuità e le rotture delle prese in carico istituzionali che inquadrano l’esistenza di certi individui e all’interno delle quali l’esperienza dell’incarceramento acquista un senso. Queste traiettorie di controllo non sono tuttavia facili da cogliere. Prodotto delle interazioni con una vasta diversità di istituzioni, queste possono essere approcciate attraverso la collezione di racconti di traiettorie individuali, o attraverso l’osservazione di più luoghi di contatto istituzionale. Nel suo Corso del 1973, Foucault abbozza una metodologia originale, ancorata ad una riflessione sui rapporti costitutivi tra morale e potere. Proponendo di fare una storia della morale come strategia, indirizzandosi su ciò che definisce il fuori testo (hors texte), Foucault fornisce un appiglio per comprendere i rapporti di potere che forgiano la diversità delle traiettorie di controllo. Tra penitenziario e coercitivo: cogliere le traiettorie di controllo Lo sforzo di localizzazione della prigione nella società, al cuore dell’argomentazione de La société punitive, non può mancare di entrare in risonanza con i numerosi lavori che, nel campo della sociologia carcerale, hanno tentato di affrontare questo problema. Con la sua nozione di «istituzione totale», Erving Goffman nel 1961 aveva contribuito al dibattito con una risposta netta: a caratterizzare tali istituzioni è precisamente il fatto che esse accolgono individui «tagliati fuori dal mondo esterno per un periodo Nel manoscritto Foucault precisa di parlare di «una forma di potere che avevo chiamato punitivo, e sarebbe meglio dire disciplinare» (ivi, p. 240). 5 Ibidem. 4


Per una sociologia morale delle traiettorie di controllo 285

relativamente lungo»6. La relazione delle istituzioni di incarceramento con il mondo esterno è poco analizzata, o allora lo è semplicemente a partire dalla nozione di esclusione. Ora, il 3 gennaio 1973, Foucault apre il proprio Corso precisamente con una critica di questa nozione, nozione che rinchiude l’analisi e impedisce di cogliere la dimensione produttiva della marginalizzazione. Produttiva all’interno dell’istituzione stessa, e altrettanto all’esterno: «così, l’ospedale psichiatrico è certamente il luogo istituzionale dove e attraverso cui viene messa in atto l’espulsione del folle; al tempo stesso, e attraverso il gioco di questa espulsione, è un foyer di costituzione e ricostituzione di una razionalità che viene instaurata autoritariamente nel quadro delle relazioni di potere all’interno dell’ospedale e che viene riassorbita all’esterno come sapere sulla follia»7. Come l’ospedale, la prigione ha elaborato un sapere sul crimine e sul criminale che alimenta i rapporti di potere all’esterno. Ma La société punitive tratteggia relazioni più dirette tra la prigione e la società. Queste si esprimono in termini genealogici, attraverso una tensione che si può sovrapporre – senza dubbio forzandone un po’ il tratto – a quella di due concetti: il penitenziario e il coercitivo. Attraverso il penitenziario, la prigione sembra diffondersi – o piuttosto diffondere le proprie funzioni – all’insieme del corpo sociale, quando il coercitivo invita a pensare la prigione come il prolungamento e l’esito di una serie di istituzioni di controllo, penali e para-penali. Il penitenziario, o come la prigione ha carcerizzato la società Il penitenziario è il «campo associato alla prigione»8, a questa prigione penale indissociabile dalla morale religiosa dalla quale è nato. Tuttavia, lungi dall’esserlo, non si riduce a quello. «Si tratta di una dimensione generale di tutti i controlli sociali che caratterizzano delle società come le nostre»9. In ciò, il penitenziario è certamente una maniera di pensare la “forma-prigione”, l’intimità che intrattiene la prigione con la società tutta intera. Una maniera di cui le esitazioni del manoscritto marcano la complessità. La lezione del 7 febbraio 1973, in cui viene sviluppata la nozione di penitenziario, si intitola nel manoscritto «Generalizzazione della E. Goffman, Asiles. Études sur la condition sociale des malades mentaux et autres reclus, Éditions de Minuit, Paris 1979, p. 41. 7 M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 5-6. 8 Ivi, p. 104. 9 Ibidem. 6


286 Corentin Durand prigione». Ma subito dopo il manoscritto esita: «generalizzazione non è il termine giusto»10. Né il titolo, né la rettifica saranno ripresi nella lezione. In questo modo, dunque, il penitenziario non si limita all’imprigionamento. La prigione è tuttavia il foyer a partire dal quale si sviluppano tutta una serie di istituzioni e pratiche di imprigionamento, di sorveglianza e di penitenza. La relazione tra la prigione e la società si presenta allora essenzialmente in questi termini: se la società è punitiva, lo è nella misura in cui si carceralizza; vale a dire, nella misura in cui la prigione diffonde le proprie logiche e le proprie funzioni all’insieme del corpo sociale. In una conferenza pronunciata il 15 maggio del 1976 all’Università di Montreal, Foucault si spinge oltre: a breve termine, la diffusione delle funzioni penitenziarie all’interno della società renderà la prigione obsoleta. Interrogato sullo sviluppo delle alternative alla prigione, Foucault propone di vedere nelle proprie parole l’annuncio del declino del penitenziario e l’avvento di un «vero sotto-potere penale, o un sotto-potere carcerale, che si sta sviluppando, nella misura in cui l’istituzione della prigione sta diminuendo»11. Questa diluzione della prigione all’interno del corpo sociale non significa tuttavia in alcun modo un indebolimento del penitenziario. Allo strumento «in definitiva grossolano che era quello della coppia prigione-delinquenza»12, si sostituisce la coppia controllo-anormali. Ancorata allo sviluppo dei saperi psicologici, psichiatrici e criminologici, la diffusione delle funzioni penitenziarie si accompagna con il perfezionamento del controllo. La presa sul corpo lascia il posto alla soppressione di taluni diritti (di incontrare determinate persone, di guidare), alla sorveglianza di certe attività (cambiamento di alloggio, spostamenti), all’imposizione di altre (obbligo di esercitare un lavoro). Un individuo in prova, bene! È un individuo che è sorvegliato nella pienezza o nella continuità della sua vita quotidiana, in ogni caso all’interno dei suoi rapporti costanti con la sua famiglia, con il suo mestiere, con le sue frequentazioni; di un controllo che si esercita sul suo salario, sul modo in cui egli usa il suo salario, e il modo in cui gestisce il suo budget; al tempo stesso sorveglianza sul suo ambiente13. Ivi, p. 103. M. Foucault, Alternatives à la prison: diffusion ou décroissance du contrôle social?, in «Criminologie», vol. 26 (1993), n. 1, p. 13. 12 Ivi, p. 27. 13 Ivi, p. 13. 10 11


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Il penale diffonde il penitenziario oltre la prigione. L’ambiente aperto perfeziona e allarga il controllo dello spazio carcerale: irriga la società tutta intera. Se l’annuncio del declino del penitenziario non può non suonare falso all’orecchio contemporaneo, alcune analisi relative alla progressione recente delle pene in ambiente aperto rafforzano l’ipotesi penitenziaria formulata da Foucault. Dunque, secondo Marie-Sophie Devresse, l’esecuzione delle sanzioni penali nella società libera innescherebbe «una dinamica di arruolamento di una diversità di attori altri rispetto a quelli che, essendo chiaramente situati all’interno del campo penale, partecipano al processo repressivo»14. Lavoratori sociali delle strutture ricettive, datori di lavoro, famiglie e parenti sono chiamati a giocare un ruolo, formale o informale, per richiamare e controllare gli obblighi e le interdizioni che pesano sul condannato. Mettendo fine a un contratto di lavoro, il datore di lavoro è suscettibile di mettere la persona condannata in una situazione di rottura di fronte ai suoi obblighi penali, allo stesso titolo della struttura di accoglienza che non rinnova un posto. Nel quadro delle osservazioni che ho condotto all’interno di un centro di accoglienza e di reinserimento sociale nella regione parigina, una persona posta sotto sorveglianza tramite il braccialetto elettronico ha rassicurato il proprio lavoratore sociale in merito al rispetto degli orari al momento delle visite alla sua famiglia: ogni fine settimana sono i suoi bambini a spingerla sul treno per paura che arrivi in ritardo. L’ipotesi di una diffusione delle funzioni penitenziarie di controllo e di sorveglianza si trova qui rinforzata dalla messa in evidenza di una moltiplicazione di attori che le prendono in carico, talvolta involontariamente. Secondo Marie-Sophie Devresse, queste osservazioni accreditano la tesi secondo cui «l’intervento penale in ambiente aperto opera una forma di contagio della sfera relazionale […] l’idea di contagio rinvia dunque al fatto che le esigenze della sanzione intervengono nella relazione, al punto che questa si trova influenzata, notoriamente per il fatto che questa arruola dei terzi e produce degli effetti sul destino del condannato»15. Lo sviluppo dell’ambiente aperto – che prende in carico oggi in Francia circa tre volte M.-S. Devresse, Investissement actif de la sanction et extension de la responsabilité. Le cas des peines s’exerçant en milieu ouvert, in «Déviance et société», vol. 36 (2012), n. 3, p. 313. 15 Ivi, p. 314. 14


288 Corentin Durand tanto il numero di persone rispetto alla prigione16 – rinforza l’interesse per la ricerca empirica dell’ipotesi penitenziaria formulata da Foucault. Essa ci invita a cogliere la circolazione di logiche, pratiche e oggetti che, forgiati attraverso e per la prigione, si diffondono dentro altri spazi sociali. Il coercitivo, o come la prigione prolunga i controlli sociali A questa prima genealogia dei rapporti tra la prigione e la società, il Corso del 1973 ne aggiunge una seconda, più complementare che contraddittoria. La prigione vi è descritta come l’escrescenza di una società punitiva, o piuttosto disciplinare. Qui, la forma-prigione avanza a fianco della sua gemella storica, la forma-salario. Insieme, queste marcano «l’introduzione del tempo nel sistema di potere capitalista e all’interno del sistema di penalità»17. Il legame tra la prigione e il resto della società è allora caratterizzato da una continuità, quella dell’elemento coercitivo, che attraversa il sistema penale fino alle sue manifestazioni infinite di un «sistema punitivo extragiudiziario»18. Bisogna anche sottolineare che dietro le interdizioni propriamente legali va sviluppandosi tutto un gioco di costrizioni quotidiane, relative ai comportamenti, ai costumi, alle abitudini e che hanno come effetto non quello di sanzionare un’infrazione ma di agire positivamente sugli individui, di trasformarli moralmente, di ottenere una correzione. In tal modo ciò che si mette in gioco non è soltanto un controllo giuridico, un controllo statalizzato a profitto della classe, è qualcosa come l’elemento del coercitivo19.

Il potere capitalista mette in atto una serie di istituzioni, penali e parapenali, che tessono una trama ininterrotta di controllo e costrizione. Il libretto operaio permette un controllo economico e morale della mobilità dei lavoratori; il libretto di risparmio consente il controllo della previdenza; la regolamentazione della pigrizia pubblica, del matrimonio, delle festività pubbliche, permette il controllo della loro temperanza. L’insieme di queste istituzioni, punitive o penali, mira a produrre norme sociali e a Al primo gennaio 2013, l’amministrazione penitenziaria prendeva in carico 251.998 persone, di cui 66.572 detenute (fonte: amministrazione penitenziaria). 17 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 73. 18 Ivi, p. 198. 19 Ivi, p. 113. 16


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costringere gli individui, a integrarli con abitudini e discipline. La funzione di marginalizzazione è secondaria; essa riguarda soltanto coloro che resistono. Costoro sono presi in carico da altre istituzioni, e in ultima istanza dalla prigione. Come dice frequentemente il personale penitenziario, la prigione interviene quando tutte le altre istituzioni hanno fallito. «La prigione è il luogo in cui i principi generali della coercizione, le sue forme, le sue tesi e le sue condizioni, sono concentrati ad uso di coloro che hanno cercato di fuggire alla coercizione stessa. La prigione è il raddoppiamento del sistema di correzione nella forma penitenziaria»20. Il penitenziario è quindi un prolungamento e un risultato di questa coercizione etica e politica necessaria affinché il corpo, il tempo, la vita, gli uomini siano integrati sotto la forma del lavoro all’interno del gioco delle forze produttive21. È precisamente per il fatto che la prigione costituisce il prolungamento effettivo del coercitivo che essa ha potuto, e può ancora, apparire accettabile e anche necessaria. In quanto esito naturale di una forma di potere che investe le nostre vite, la sua esistenza non può essere rimessa in discussione. Come osserva Frédéric Gros, rispetto a questo livello del coercitivo, «la prigione ha un doppio statuto di isomorfismo e di realizzazione»22. È per il fatto che tutta la società è investita dal coercitivo che qualcosa come la prigione è possibile. La condizione di accettabilità della prigione è precisamente il coercitivo. Mentre il penitenziario disegna la diffusione delle funzioni carcerarie di controllo e di sorveglianza nei confronti di tutta la società, il coercitivo concepisce la prigione come l’esito e il prolungamento necessario di una serie di istituzioni che hanno come obiettivo di costringere gli individui a integrare le forme di potere capitalista. Questi due modi di caratterizzazione della forma prigione e della sua relazione con la società tutta intera sono meno contraddittori che complementari; non si tratterà qui di separarli. Presteremo d’altronde meno attenzione alla loro dimensione genealogica che alle prospettive che aprono queste ipotesi in termini di programmi di ricerca empirici. Tracciando relazioni complesse tra la prigione e una molteplicità di istituzioni sociali – penali e para-penali, che praticano o meno l’imprigionamento –, La société punitive può essere letta come un invito a decarcerizzare lo studio della prigione, ossia ad analizzarla più nelle sue relazioni con il resto Ivi, p. 114. Ivi, p. 201. 22 F. Gros, Foucault e la società punitiva, supra, p. 260. 20 21


290 Corentin Durand della società che come un’istituzione chiusa. Questa prospettiva di ricerca non è certo nuova; essa aveva già dato luogo a qualche lavoro importante. Ma il Corso pronunciato al Collège de France nel 1973 ne tratteggia una formulazione originale, le cui potenzialità in termini di oggetti di studio e di metodologia di inchiesta restano in gran parte inesplorate. Dal genealogico al sociologico: seguire traiettorie di controllo Per spingersi oltre, la riflessione deve abbandonare per qualche istante la scala istituzionale per adottare una grana più fine, quella delle traiettorie individuali. Questa prospettiva permette di attraversare la molteplicità delle istituzioni penitenziarie e coercitive e di costituire un oggetto di ricerca originale. Le due ipotesi de La société punitive permettono allora di esplorare le dimensioni complementari. Nella sua presentazione del coercitivo, Foucault insiste sul fatto che la moltitudine delle istituzioni di controllo si coglie pienamente al livello dell’esistenza degli individui: Al momento della nascita essi sono messi in un asilo nido; durante la loro infanzia vengono inviati a scuola; sono in officina; durante la loro vita rientrano nelle competenze di un ufficio di beneficienza; possono deporre in una cassa di risparmio; finiscono all’ospizio. In breve, durante la loro vita le persone intrattengono una molteplicità di legami con una molteplicità di istituzioni, di cui nessuna li rappresenta esattamente, e di cui nessuna li costituisce come gruppo23.

Per cogliere il tipo di potere che si dispiega, bisogna seguire questi passaggi e questi imbottigliamenti di presa in carico istituzionale. Bisogna coglierne le continuità e le eventuali contraddizioni. Bisogna anche rendere conto di ciò che la prigione ha fatto a queste traiettorie. Per questo è necessario concepire la prigione come un «luogo di passaggio»24. Passaggio talvolta lungo25, spesso determinante. Ma passaggio che invita a descrivere un prima e un dopo della prigione, così come il suo peso specifico all’interno delle esperienze degli individui. Analizzando M. Foucault, La société punitive, cit., p. 211. G. Chantraine, Par-delà les murs. Expériences et trajectoires en maison d’arrêt, PUF/Le Monde, Paris 2004. 25 La durata media si situa negli ultimi anni attorno ai dieci mesi di imprigionamento. Ricordiamo che circa 250 persone muoiono ogni anno in prigione (OPALE, Les décès sous écrou en 2013 et évolutions, 2014). 23 24


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questi racconti di vita raccolti nelle carceri, Gilles Chantraine mostra come la prigione rappresenti talvolta una catastrofe, una rottura improvvisa con tutta la vita sociale anteriore, talaltra una continuità, vissuta da sempre come ineluttabile26. In questi ultimi racconti, l’incarceramento prende senso all’interno di un percorso di esclusione, di galera e di tossicomania. L’ineluttabilità della prigione è la sorte di coloro che Gilles Chantraine qualifica – dopo Robert Castel – gli «inutili al mondo»27. In un articolo del 2004, Gilles Chantraine e Fabien Jobard cercano dunque di descrivere le similitudini delle interazioni tra queste popolazioni e la polizia, in prigione28: «le pratiche, le strategie e le costrizioni che il soggetto mette in opera quando viene detto “libero” nel suo quartiere, e quando viene “privato di libertà” all’interno della prigione, vanno a costituire un’esperienza simile». Se questa è ancora troppo ridotta per cogliere la diversità del coercitivo, a essere qui delineata è la descrizione delle «traiettorie di controllo»29, quella delle continuità nei rapporti di potere tessuti con differenti istituzioni. Una continuità che si declina tuttavia ben diversamente a seconda del pubblico che l’attraversa, e la cui diversità – se questa è correttamente descritta – permette di complicare specialmente la comprensione delle forme di potere della nostra società. I lavori di Coline Cardi sul controllo sociale riservato alle donne mostrano la ricchezza di una tale prospettiva. La piccola percentuale di donne in prigione (circa 4%) è analizzata come un invito a studiare l’articolazione specifica delle istituzioni penali e para-penali nel trattamento della devianza femminile. In maniera simile a come Yannick Ripa aveva mostrato come, nel XIX secolo, si privilegiava l’internamento per le donne e l’incarcerazione per gli uomini30, Coline Cardi afferma che «bisogna considerare la prigione non come un’istituzione autonoma, ossia totale, ma come l’ultimo anello di una catena che ingloba tutta una serie di dispositivi che distribuiscono in modo differenziale la devianza degli uomini e delle Oltre a queste due modalità, l’opera di G. Chantraine disegna una tipologia di sei ideal-tipi dei rapporti all’imprigionamento in un luogo di detenzione. 27 G. Chantraine, Prison, désaffiliation, stigmates. L’engrenage carcéral de l’“inutile au monde” contemporain, in «Déviance et société», vol. 27 (2003), n. 4, pp. 363-387. 28 F. Jobard e G. Chantraine, Trajectoires du contrôle, in «Vacarme», n. 29 (2004), pp. 138-141. 29 Il titolo dell’articolo non è tuttavia ripreso nel corpo del testo e non ha dato luogo a una definizione più precisa. 30 Y. Ripa, La ronde des folles. Femmes, folie et enfermement au XIXe siècle, Aubier, Paris 1986. 26


292 Corentin Durand donne»31. Il controllo sociale riservato alle donne, tanto dal punto di vista delle istituzioni che lo prendono in carico, che delle norme che vi sono dispiegate, permette di descrivere relazioni di potere specifiche, in cui le norme generate servono sia da costrizioni, sia da risorse. Qui ancora, la nozione di “traiettorie di controllo” appare utile per pensare queste forme di potere associate non alla prigione stessa, ma all’insieme di istituzioni penali e para-penali che comunicano. Inoltre, tale nozione costituisce il contrappunto della nozione di “carriera deviante” forgiata da Horward Becker32. Non si tratta più tanto di cogliere le assegnazioni identitarie prodotte attraverso le interazioni istituzionali formali e informali, ma di prendere queste ultime per oggetto. La questione è allora di cogliere il tipo di rapporti di potere che fabbricano tali traiettorie, più che di sapere come si diventa delinquente, o anche come tali traiettorie sono integrate all’interno di un’esperienza individuale. Un potere che non risiede in una o nell’altra di queste istituzioni, ma piuttosto nel movimento di circolazione tra esse. Il posto che occupa la prigione in questa nebulosa coercitiva può dunque essere precisato. Perché se la prigione prolunga le interazioni di certe popolazioni con la polizia, e senza dubbio con altre istituzioni, che ne è del reciproco? Nel corso del 2012, l’amministrazione penitenziaria ha registrato 87.958 uscite dalla prigione. Che cosa cambia il passaggio attraverso il penitenziario nella quotidianità delle traiettorie istituzionali di “coloro che escono dalla prigione”? Jobard e Chantraine notano giustamente che l’espressione stessa sottolinea che la prigione è un’esperienza che conduce oltre il momento dell’esecuzione della pena; la formula corretta sarebbe “usciti di prigione”. Comprendere gli effetti dell’incarcerazione sulle interazioni con le diverse istituzioni che inquadrano la vita di tutti e di ciascuno – e più ancora dei più poveri 33 – permetterebbe di descrivere la specificità delle traiettorie di controllo penitenziarizzate. Per questo, è la diversità delle istituzioni con le istituzioni penali e para-penali che bisogna cogliere, nella loro continuità e nella loro ripetizione. Di fronte all’ampiezza di un tale programma di ricerca, si impone un dubbio. Come osservare l’infinità dei controlli quotidiani? Come seguire C. Cardi, Le contrôle sociale réservé aux femmes: entre prison, justice et travail social, in «Déviance et société», vol. 31 (2007), n. 1, p. 13. 32 H.S. Becker, Outsiders. Études de sociologie de la déviance, Métailié, Paris 1985 [1963]. 33 A. Sarat, “The Law is All Over”. Power, Resistance and the Legal Consciousness of the Welfare Poor, in «Yale Journal of Law and the Humanities», vol. 2 (1990), pp. 343-379. 31


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le traiettorie degli individui al di là delle istituzioni in cui la permanenza di muri le offre allo sguardo dell’osservatore? Ogni approccio trans-istituzionale urta, nelle scienze sociali, contro spinose questioni metodologiche e pratiche. Una prima risposta consiste nel considerare le traiettorie delle persone a partire dai racconti biografici. È dunque prima di tutto il lavoro biografico degli attori che il ricercatore potrà analizzare. In effetti, se la prigione deve essere considerata come un luogo di passaggio, questo «non è vuoto di senso per l’attore; episodio specifico di una biografia, la detenzione obbliga l’attore incarcerato al lavoro biografico, nel corso del quale passato, presente e futuro si ridisegnano»34. La moltiplicazione di interviste nel tempo permetterebbe allora di osservare che il contatto con le differenti istituzioni si modifica nel lavoro biografico degli attori, ma questo urta contro una quasi-impossibilità di metterle in pratica. La situazione di esclusione all’interno della quale vive gran parte delle persone che passano dalla prigione rende difficile seguirle nei loro percorsi. Nel momento in cui questo è possibile, pochi accettano di prolungare una relazione di inchiesta nata in un contesto istituzionale stigmatizzante35. Spesso bisogna decidere di abbandonare gli individui, per seguire le traiettorie di controllo a livello delle istituzioni. Questa scelta metodologica non determina tuttavia necessariamente il ritorno a una prospettiva macro-sociologica. Ipotizza che sussista una somiglianza molto forte tra i percorsi di individui situati all’interno di condizioni comparabili per potere, variandone i punti di osservazione, ricostruire dei tipi di traiettorie di controllo. È la scelta metodologica che ha alimentato i lavori di Coline Cardi, ricordati più sopra, e di Fabrice Fernandez, dedicati ai consumatori di droghe36. Moltiplicando i punti di osservazione e i luoghi in cui sono state realizzate le interviste (prigioni, ospedali, associazioni di prevenzione, case di accoglienza per coloro che escono di prigione), l’autore si costruisce i mezzi per descrivere un’“esperienza totale”, interamente rivolta al consumo di droga, ma modellata da una diversità di contatti istituzionali. G. Chantraine, Par-delà les murs, cit., p. 13. Un’equipe di ricerca ha realizzato alcune interviste con minori, durante e dopo l’imprigionamento, riguardanti le loro traiettorie e le loro prospettive. Malgrado l’interesse dei risultati avanzati, il rapporto d’inchiesta sottolinea le resistenze e gli angoli generati attraverso questo percorso. Cfr. G. Chantraine, Trajectoires d’enfermement. Récits de vie au quartier mineur, in «Études et données pénales», n. 106 (2008). 36 F. Fernandez, Emprises. Drogues, errance, prison: figures d’une expérience totale, Boeck & Larcier, Bruxelles 2010. 34 35


294 Corentin Durand Malgrado la loro relativa rarità, questi esempi mostrano l’interesse dei metodi tradizionali dell’etnografia – l’osservazione e l’intervista – per cogliere l’articolazione della presa in carico istituzionale, oltre le differenziazioni giuridiche tra il penale e il para-penale. Le traiettorie qui descritte restano tuttavia ancorate all’esperienza degli individui. In tal modo, esse mostrano prima di tutto gli effetti delle prese istituzionali sul vissuto e sull’esperienza delle persone, che caratterizzano le forme di potere che vi si giocano. Quest’ultima dimensione è evidentemente presente – attraverso un’analisi dei processi di soggettivazione – ma non è centrale. Nella seconda parte di questo artico si vuole suggerire che La société punitive propone una metodologia innovativa per seguire queste traiettorie di controllo, non più da un punto di vista biografico, ma alla luce delle relazioni morali con le istituzioni. Si tratta dunque di una deviazione –che si spera produttiva – che viene proposta al lettore, una deviazione attraverso la caratterizzazione ricca e complessa dei legami tra morale e potere affrontata nel Corso del 1973. Alla fine di questo, cercheremo di mostrare che lo studio che Foucault chiama la morale del fuori testo costituisce un ingresso metodologico innovativo per analizzare i rapporti di potere che modellano le traiettorie di controllo. Afferrare il potere attraverso la morale del fuori testo Ne La société punitive, la morale si trova situata al cuore del processo che costituisce la società disciplinare, ossia il doppio movimento di moralizzazione della penalità e di penalizzazione dell’esistenza. Gli sviluppi che seguono non hanno tuttavia per obiettivo di tornare su questa caratterizzazione del potere disciplinare, già ampiamente commentata. Si cercherà piuttosto di seguire gli sforzi metodologici e teorici mobilitati da Foucault per delimitare ciò che è il potere e, indissociabilmente, ciò che è la morale. La société punitive invita infatti a caratterizzare la natura dei rapporti di potere all’interno di una società attraverso lo studio di una morale che non è quella dei moralisti, ma è quella del fuori testo, così come la definisce Foucault. In questo, il Corso del 1973 dialoga – a sua insaputa – con un dibattito rilanciato, negli anni ottanta, dalla nascita della sociologia politica e morale. Sotto l’impulso di Luc Boltanski e di Laurent Thévenot, questa corrente di


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pensiero reagiva alla relegazione, da parte di una certa sociologia bourdesiana, delle giustificazioni morali degli attori al rango di mere giustificazioni a posteriori, forgiate dagli interessi e dalla posizione sociale degli attori stessi. Al contrario, all’interno di una prospettiva pragmatista, che talvolta fa qualificare questa corrente di ricerca come sociologia pragmatica della critica, Luc Boltanski e Laurent Thévenot proponevano di considerare ciò che la morale, o piuttosto la pluralità delle grammatiche morali, produce nelle interazioni quotidiane37. Una delle parole d’ordine di questo sforzo teorico e metodologico è stata quella di prendere sul serio gli attori e la loro morale. Qui si vuole suggerire che gli sviluppi che Foucault consacra alla morale nei rapporti di potere riattivano questa parola d’ordine, inscrivendola da subito in una teoria politica dei rapporti di potere. Fare la storia della morale come strategia Una morale materialista? La citazione riportata nella quarta di copertina del libro è eloquente: nessun bisogno di leggere la Fondazione della metafisica dei costumi o qualunque opera speculativa per comprendere ciò che è e soprattutto ciò che fa la morale. Foucault lo ripete a più riprese: la storia della morale non può essere, ad ogni modo non può esserlo essenzialmente, una «storia delle idee morali»38. La soluzione individuata da questo passaggio non è tuttavia del tutto soddisfacente. La lezione prosegue in questo modo: «Per comprendere il sistema di moralità di una società è necessario porsi la domanda: dov’è la fortuna? La storia della morale deve ordinarsi interamente alla questione della localizzazione e dello spostamento della fortuna». Qui si intende ragionare delle forti tonalità materialiste, che d’altronde fanno eco ai testi di Marx e Blanqui, che Foucault aveva citato due settimane prima. Su registri sensibilmente differenti, e a qualche anno di distanza, il giovane Marx39 L. Boltanski e L. Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris 1991. 38 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 267. 39 Senza entrare qui nelle controversie sulla periodizzazione dell’opera di Marx, con questa qualificazione che i testi sul furto di legna marcano per il loro autore (e come Marx stesso ammette) si vuole sottolineare la sua «prima occasione di occuparsi di questioni economiche» (K. Marx, Contribution à la critique de l’économie politique, citato da P. Lascoumes e H. Zander, Marx: du «vol de bois» à la critique du droit, PUF, Paris 1984, p. 9). Molti commentatori vedono in questi articoli l’atto di nascita del pensiero critico del giovane Marx; è il caso di P. Lascoumes e H. Zander (ivi, p. 10), ma anche di L. Althusser (cfr. B.E. Harcourt, Situation du cours, in M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 296-297). 37


296 Corentin Durand e Blanqui prigioniero denunciavano entrambi il voto di leggi che, sotto copertura di moralità, avevano come unico obiettivo quello di favorire gli interessi della classe dominante: nel caso di Marx, attraverso la penalizzazione della raccolta di legna nelle foreste private; nel caso di Blanqui, attraverso un’imposta sulle bevande, che gravava essenzialmente su quella fascia di popolazione che frequentava café e cabaret. Questi due testi colpiscono per il parallelismo della loro forma: un resoconto giornalistico preciso relativo agli interventi dei legislatori, intramezzato da commenti aspri, cui, nel caso di Marx, si aggiungono considerazioni teoriche. Ciò che colpisce è soprattutto il tono ironico che vi traspare. Il sarcasmo di Marx, in particolare, è inseparabile dalla postura critica che costruisce: «l’impegno teorico di Marx è preceduto da un impegno stilistico» scrivono Lascoumes et Zander40. In effetti, al di là delle precauzioni per aggirare la censura, l’ironia di Marx sottolinea le contraddizioni dei discorsi dei parlamentari tra le ideologie che mobilitano e gli interessi materiali che mascherano. Si tratta della “liberazione delle illusioni” di cui parla Althusser in questi testi41. Più crudo e meno teorico, lo stile di Blanqui – imprigionato da un anno e mezzo per aver tentato di organizzare un colpo di forza contro l’Assemblea – permette una postura comparabile. Egli riporta così l’intervento alla tribuna di uno dei parlamentari, M. de Charencey: Et puis, l’impôt s’en vient, à la tribune, faire de la morale de la vertu, de l’attendrissement. Il verse des larmes sur les malheurs et les dégradations de l’ivresse. Il trace des tableaux déchirants de ces familles infortunées, victimes du vice abject de l’ivrognerie. […] Quelle sincérité dans ces lamentations! Quelle vérité dans ces anathèmes! Quelle franchise surtout dans ces conseils vertueux, dans ces vœux de moralisation universelle! Que ces prédicateurs ont bonne grâce! […] Que deviendraient les 108 millions [la recette attendue de ce nouvel impôt], si on prenait au mot leurs exhortations? […] Que deviennent les 108 millions, cette précieuse toison d’or, dont la conquête est en définitive le seul but des homélies et des désolations qui retentissent à nos oreilles? Ah! Si les Français pouvaient se faire tout à coup buveurs d’eau? Comme ils attraperaient ce fisc si austère et si philanthrope, ce fisc si prude et si collet-monté, qui détourne la tête en allongeant les doigts42.

P. Lascoumes e H. Zander, Marx: du «vol de bois» à la critique du droit, cit., p. 28. Citato in B.E. Harcourt, Situation du cours, cit., p. 297. 42 A. Blanqui, Critique sociale, Felix Alcan, Paris 1885, t. 2, pp. 194-195. 40 41


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Là ancora, l’ironia, facendo corpo unico con l’argomentazione, permette di sottolineare la duplicità dell’oratore, la vacuità del suo discorso moralizzante e ne svela le vere intenzioni. Nei testi sul furto di legna, così come in quelli sulla tassa sul vino, la morale appare come una strategia per dissimulare gli interessi materiali. È questo velo che deve essere squarciato, ed è a questo che si attaccano l’ironia di Marx e le recriminazioni di Blanqui. La morale come strategia. La filiazione de La société punitive dagli scritti di Marx e di Blanqui è reale, ma egualmente limitata. Se Foucault cerca di mettere in evidenza gli interessi della borghesia, invita a sorvegliare più specificamente la ricchezza capitalista. Infatti, il nuovo modo di produzione capitalista mette l’operaio in contatto con una ricchezza che non possiede. Da questo contatto paradossale nasce la paura della depredazione operaia, paura «collegata alla presenza fisica del corpo dell’operaio, del suo desiderio, al corpo stesso della ricchezza»43. Come riassume Foucault, «è nella misura in cui è laboriosa che questa classe è pericolosa»44. È ciò che determina l’importanza dell’esempio del porto di Londra, luogo di convergenza delle ricchezze e di una mano d’opera, priva di ogni cosa, che le manipola. Il porto di Londra vede, fin dal 1792, la creazione della prima polizia regolare d’Inghilterra, che ha come scopo la protezione delle fortune accumulate nei porti, contro la depredazione degli operai che le caricano e le scaricano. Foucault invita esplicitamente il lettore a cercare che cosa sia la morale proprio negli scritti dell’inventore di questa polizia, Colquhoun, laddove la morale si mette al servizio della protezione della ricchezza borghese, attraverso il controllo del corpo e del desiderio degli operai. Inscrivendosi nella linea di Marx e di Blanqui, Foucault intraprende dunque un compito sensibilmente differente. Nei suoi Corsi, la morale non è semplicemente un velo; l’ammirazione di Foucault per la «prodigiosa lucidità»45 dei testi che analizza non ha alcunché di ironico. Ne La société punitive, la morale fa ben di più che mascherare i rapporti di produzione. Essa non è tanto indicizzata a rapporti economici, quanto a rapporti di M. Foucault, La société punitive, cit., p. 176. Ivi, p. 177. Sul dialogo silenzioso sull’opera di Louis Chevalier ne La société punitive, si veda l’apparato critico dell’opera e in particolare la nota 8, pp. 186-187. 45 Ivi, p. 168. 43 44


298 Corentin Durand potere. Alla fine della lezione del 7 febbraio 1973, Foucault spiega: «la morale non è nella testa delle persone: è nei rapporti di potere»46. Ora, il 28 marzo 1973, nel suo ultimo Corso, Foucault precisa la propria teoria del potere, chiarendo retrospettivamente la relazione tra potere e morale. Contrariamente alla fortuna, il potere non si possiede: «arriva o meno a esercitarsi: è dunque sempre una certa forma di scontri strategici istantanei e continuamente rinnovati tra un certo numero di individui»47. La nozione di strategia connota dunque l’instabilità del potere, la sua natura fondamentalmente bellicosa, contro le teorizzazioni che lo situerebbero una volta per tutte nelle mani di un gruppo o di una classe sociale, che avrebbe, come unico merito, quello di averlo ricevuto in eredità. Al contrario, ciò che importa è disfarsi del «tema per intellettuali»48, cioè la pretesa sciocchezza della borghesia. Rompere con questa tradizione confortevole di pensiero è una condizione indispensabile per voltare la schiena alla ricerca del non-detto, in cui la lotta politica – dal momento che è su questo terreno che Foucault situa la propria discussione – dovrebbe decelerare la duplicità dei dominanti. «Coloro che lo negano», afferma a chiare lettere Foucault in un passaggio che non ha ripreso nel suo Corso, «sono animatori pubblici. Essi deridono ciò che di serio vi è nella lotta»49. Accettare la lucidità della borghesia significa fornire i mezzi per rintracciare nei suoi scritti le strategie che essa ha messo in atto per conquistare e preservare il potere. Questa lotta, fatta di una molteplicità di scontri strategici, fa eco a ciò che Foucault diceva durante le prime lezioni del suo Corso, a proposito della nozione di guerra civile. Contro Hobbes, egli affermava che «il potere non è ciò che sopprime la guerra civile, ma è ciò che la conduce e la perpetua»50. Ora, per comprendere le strategie di potere, bisogna afferrare la morale. L’analisi proposta da Foucault della «presa di potere globale sul tempo»51 fornisce un buon supporto per precisare il posto della morale nell’instaurazione e nella perpetuazione dei rapporti di potere. In effetti, per salvaguardare la ricchezza dei porti londinesi, la legge negativa “questo non è tuo” non è sufficiente. È necessario «un supplemento di codice che Ivi, p. 117. Ivi, p. 231. 48 Ivi, p. 168. 49 Ibidem. 50 Ivi, p. 34. 51 Ivi, p. 73. 46 47


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arriva a completare e a far funzionare questa legge: bisogna che l’operaio stesso sia moralizzato»52. Oltre a essere un pericolo, il corpo dell’operaio è una forza produttiva; forza che deve mettere in vendita sul mercato del lavoro e consacrare alla produzione. Al rischio della depredazione, che si attacca al corpo della ricchezza, si aggiunge dunque quello della dissipazione, attraverso cui l’operaio dilapida la propria forza lavoro. La festa, il concubinaggio, il matrimonio precoce, la mancanza economica e quella igienica, il rifiuto di ricevere un’educazione, la lotteria, la pigrizia sono ricodificati attraverso tre grandi forme di dissipazione: «l’intemperanza, come spreco del corpo; l’imprevidenza, come dispersione del tempo; e il disordine, come mobilità rispetto alla famiglia, al lavoro. Così il modo di produzione capitalista istituisce una qualità morale del lavoratore»53. La vita dell’operaio si trova presa all’interno di un controllo morale continuo, che permette – attraverso il controllo del risparmio, la regolamentazione delle feste, il libretto operaio, ecc. – di inculcare una morale della previdenza, della temperanza, dell’economia e dell’ordine, una morale del lavoratore che offre la propria forza produttiva sul mercato. La presa del potere sul tempo, attraverso le forme storicamente gemelle che sono il salariato e la prigione, viene resa possibile attraverso la moralizzazione dell’integralità della vita degli operai, dalla nascita alla morte: «dall’orologio dell’officina fino al fondo pensione, il potere capitalista si aggrappa al tempo, si appropria del tempo, lo rende acquistabile e utilizzabile»54. Deve allora essere spostato lo sguardo sulle prediche della borghesia. Si tratta più di seguire ciò che – all’interno di questi discorsi – rende possibile e consolida i rapporti di potere e di produzione, che di rivelare la realtà degli interessi materiali. Analizzare una forma di potere – in questo caso il potere disciplinare – significa dunque fare ciò che Foucault chiama una «storia della morale come strategia»55. E per cogliere queste strategie non c’è alcun bisogno di guardare sotto il testo, bisogna afferrare fuori dal testo. Il fuori testo: la morale come atto Che cos’è il fuori testo? Che cos’è dunque questo fuori testo che deve fornirci la chiave della morale come pratica e, al termine, permetterci di Ivi, p. 153. Ivi, p. 197. 54 Ivi, p. 73. 55 Ivi, p. 170. 52 53


300 Corentin Durand decifrare le lotte di potere? La nota rimanda in modo evidente, anche se implicitamente, alla celebre affermazione di Jacques Derrida, nel 1967, nella Grammatologia: «non vi è fuori testo»56. Per il filosofo della decostruzione, il rigetto del fuori testo contrasta, prima di tutto, il rischio di una lettura esterna che autorizzerebbe a «trasgredire il testo verso altro che esso stesso, verso un referente (realtà metafisica, storica, psico-biografica, ecc.) o verso un significato fuori testo il cui contenuto potrebbe aver luogo, avrebbe potuto aver luogo fuori dalla lingua, cioè, nel senso che diamo a questa parola, fuori dalla scrittura in generale»57. La lettura sintomale, notoriamente difesa da Althusser58, viene qui particolarmente contrastata per il fatto che essa eccede la «tessitura propria [del testo] […] verso un significato psico-biografico il cui legame col significante letterario diviene perciò perfettamente estrinseco e contingente»59. La dequalificazione del fuori testo non è tuttavia il manifesto per una lettura interna, in cui il testo costituirebbe un oggetto autonomo da analizzare indipendentemente dal suo contesto di produzione. La lettura interna non è per Derrida che una barriera contro la tentazione di esternalità. La lettura critica difesa da Derrida non rigetta l’idea di contesto. Essa afferma che il contesto – questo fuori dal testo – deve essere colto all’interno del testo stesso. In effetti, ci ricorda Derrida, il testo «implica tutte le strutture dette “reali”, “economiche”, “storiche”, socio-istituzionali, in breve tutti i referenti possibili»60. Contro l’opposizione classica tra rappresentazione e presenza, tra testo e realtà, Derrida rifiuta l’esistenza di un pre-testo, di una presenza che precederebbe la rappresentazione. Il testo non rinvia a nient’altro che a se stesso, e non dice niente rispetto all’esistenza di cose al di fuori di se stesso. Come riassume Christian Ferié, «quest’altra cosa verso cui la lettura critica apre non è altro che il testo, ma il contesto stesso del testo in quanto è iscritto nel testo stesso»61. J. Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1998. Ivi, p. 219. 58 Inspirata dalla psicanalisi freudiana, «la lettura sintomale […] rivela l’inrivelato all’interno del testo stesso che legge e lo rapporta a un altro testo, presenta un’assenza necessaria nel primo» (L. Althusser et alii, Lire Le Capital, Maspero, Paris 1968 [1965], vol. 1, pp. 28-29). 59 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 220. 60 J. Derrida, Limited Inc., Galilée, Paris 1990, p. 273. 61 C. Ferrié, Pourquoi lire Derrida? Essai d’interprétation de l’herméneutique de Jacques Derrida, Kimé, Paris 1998, p. 161. 56 57


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La critica foucaultiana del non-detto si ricongiunge, in parte, alle critiche che Derrida indirizza alla lettura sintomale e, più in generale, alle letture esterne, in parte soltanto perché, dal momento che Derrida ricerca, con la lettura critica, di oltrepassare l’opposizione tra interpretazioni interne ed esterne, Foucault si oppone alla nozione stessa di interpretazione. Infatti, rimettendo in discussione la nozione di testo, quelle di lettura e di interpretazione diventano a loro volta inoperanti. L’interpretazione presuppone in effetti la delimitazione di un testo, la sua costituzione in quanto oggetto. Ora, ciò che importa a Foucault non sono questi oggetti testuali circoscritti, ma «la massa attiva, strategica dei discorsi»62. Ne La société punitive, l’oggetto testuale è rimpiazzato dall’atto discorsivo. Il fuori testo è l’insieme degli atti discorsivi e degli atti di scrittura che non sono costituiti come testi, ossia che non sono stati attaccati a un autore, a un’opera. Non si tratta più di sapere ciò che il testo “vuol dire”, come in Althusser, ma di comprendere ciò che esso produce. La nozione di fuori testo ci invita dunque finalmente a una forma di pragmatica del discorso. Dalla strategia al consenso. Dove ci porta il filo di Arianna del fuori testo? In un passaggio del manoscritto, non ripreso tuttavia nella presentazione del Corso, Foucault traccia un primo inventario di questi atti discorsivi necessari ad analizzare una storia della morale come strategia: «atti di processo, perizie mediche, casi di coscienza, rapporti di polizia, atti di tutte le società di moralizzazione, processi verbali di tutte le istanze dirigenti»63. Questa lista disegna bene una morale come strategia, quella degli organi disciplinari dello Stato e quella dei circoli della borghesia capitalista. Il fuori testo sembra costituito esclusivamente dalla strategia di coloro che emergono vittoriosi dall’infinità degli scontri che costituiscono i rapporti di potere; la morale è il vettore univoco della loro dominazione. Non è inutile, per sfumare questa prima impressione, ritornare alla lezione pronunciata due settimane prima, il 14 febbraio 1973. Nove anni prima della pubblicazione, con Arlette Farge, di Le désordre des familles64, Foucault propone una prima analisi della pratica delle lettres de cachet, adottata durante l’Ancien Régime. Prendendo in contropiede la storiografia del M. Foucault, La société punitive, cit., p. 169. Ivi, p. 170. 64 A. Farge e M. Foucault (a cura di), Le désordre des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille, Gallimard/Julliard, Paris 1982. 62 63


302 Corentin Durand XIX secolo che le aveva rappresentate come «il simbolo di un potere autocratico, arbitrario»65, Foucault e Farge mostrano, attraverso lo studio degli archivi della Bastiglia relativi agli anni 1728 e 1758, che queste domande provengono soprattutto da famiglie, e soltanto marginalmente dalle grande famiglie aristocratiche. Esse chiedono la sanzione di un membro che conduceva una vita troppo dissipata: «la lettura di questi dossier ci ha messo meno sulla traccia delle collere del sovrano che su quella delle passioni del popolo minuto, al centro delle quali si trovano le relazioni della famiglia –uomini e donne, genitori e bambini»66. Foucault ci fa leggere strategie non più del potere ma destinate al potere. Le lettres de cachet permettono in effetti «un’appropriazione temporanea del potere reale»67 da parte di un numero importante di individui. Ora, ciò che Foucault dice ne La société punitive, è che questa appropriazione presuppone – e produce – un «certo consenso morale»68 tra le famiglie e il potere politico. In effetti, le domande di internamento, di liberazione o di prolungamento del confinamento, indirizzate dalle famiglie, dai reclusi o da terzi, mobilitano un numero relativamente limitato di categorie morali: l’onore, la dissolutezza, la mancanza di religione, la follia, lo squilibrio, l’ubriachezza, il pentimento, la correzione, ecc. Qualificate da Foucault e da Farge come “parole chiave”, “chiavi magiche” o “leitmotiv”, queste categorie morali consentono una doppia operazione. Da un lato, attivano e solidificano un consenso morale tra coloro che sollecitano e l’amministrazione che risponde. Prendiamo, per esempio, la categoria dell’onore: «come si potrebbe sollecitare la benevolenza del Sovrano per una questione così minore se non si fa valere una categoria che si reputa essenziale per tutti coloro che hanno una qualche importanza e fanno “figura” nel mondo?»69. Il pentimento diventa ugualmente «una sorta di chiave magica che permette di imprigionare al fine di ottenere e liberare una volta che ciò è avvenuto»70. Per formulare queste domande di fronte al potere reale, le famiglie si appoggiano ad una «morale comune»71. D’altra parte, l’attivazione di queste categorie permette alle famiglie di negoziare le frontiere, affermando che il caso che esse Ivi, p. 129. Ivi, p. 10. 67 Ivi, p. 163. 68 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 132. 69 Ivi, p. 168. 70 Ivi, p. 45. 71 Ivi, p. 346. 65 66


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sottomettono al sovrano rileva della riprovazione o dell’approvazione che devono suscitare. La strategia delle lettres de cachet risiede sia nella mobilitazione di certe categorie morali presunte consensuali, sia all’interno della descrizione di fatti e gesti che sembrano poter essere attaccati a questa categoria. Se il pegno o la messa in vendita del letto matrimoniale costituiscono, per il periodo studiato, luoghi comuni delle doléances per denunciare la dissipazione di un coniuge72, la lettre de cachet permette ugualmente di categorizzare nuove pratiche come reprensibili o degne di lode. Come notano Foucault e Farge, «questa pratica così singolare delle lettres de cachet offre dunque la possibilità di veder funzionare concretamente un meccanismo di potere; non certamente come manifestazione di un “Potere” anonimo, oppressivo e misterioso; ma come un tessuto complesso di relazioni tra partner molteplici: un’istituzione di controllo e di sanzione che ha i propri strumenti, le proprie regole, la propria tecnologia, è investita da tattiche diverse, a seconda degli obiettivi di coloro che se ne servono o che le subiscono»73. Dunque, l’esempio delle lettres de cachet permette di riprendere a più voci il tema della storia della morale come strategia. Questa pratica si caratterizza in effetti per «un incrocio di tattiche»74, in cui si incontrano la morale delle famiglie e i precetti dell’ordine pubblico. La nozione di strategia morale deve dunque essere pensata nella sua pluralità, come un elemento costitutivo degli «scontri strategici e continuamente rinnovati tra un certo numero di individui»75 di cui sono fatti i rapporti di potere. La morale non è un semplice velo che maschera gli interessi dominanti; essa non è più uno strumento univoco di oppressione. È un campo di contatto e di lotta tra i gruppi e le classi sociali, indissociabile dai rapporti di potere che essa contribuisce a costruire. È a questo livello che la teoria foucaultiana offre una presa metodologica originale: fare la storia della morale come storia delle strategie, al fine di darsi i mezzi empirici per caratterizzare le forme di potere. La nascita della sociologia politica e morale era stata caratterizzata dalla presa di distanza dalle situazioni di violenza e di scontro76. Si Ivi, p. 29. Ivi, p. 347. 74 Ibidem. 75 Ivi, p. 231. 76 L. Boltanski e L. Thévenot, in De la justification, preferiscono lasciare le situazioni di violenza e di asimmetria radicale «al di fuori del campo della nostra ricerca senza, 72 73


304 Corentin Durand trattava allora di mostrare che la giustificazione morale si compie nelle interazioni quotidiane, e dunque [si trattava] di interessarsi prima di tutto alle situazioni in cui essa era più centrale77. La société punitive può, dal punto di vista di questa tradizione sociologica, essere letta come un invito a pensare i rapporti costitutivi della giustificazione e della violenza, dell’argomentazione e della strategia, della morale e del potere, e a farlo alla luce del fuori testo. Conclusione: interrogare le traiettorie del controllo alla luce del fuori testo Nella prefazione del libro che Bruce Jackson ha consacrato alle vite dei prigionieri e degli antichi detenuti, Foucault scriveva: I muri della prigione devono il loro formidabile potere meno alla loro impermeabilità materiale che ai fili innumerevoli, ai mille canali, alle fibre infinite e incrociate che li attraversano. La forza della prigione è l’incessante capillarità che l’alimenta e la svuota; essa funziona grazie a tutto un sistema di valvole grandi e piccole che si aprono e si chiudono, aspirano e espirano, scaricano, riversano, deglutiscono, evacuano. Essa è situata in un groviglio di rami, di anse, di vie di ritorno, di sentieri che entrano ed escono. Non bisogna vedere in essa l’altezzosa fortezza che si chiude sui grandi signori della rivolta o su una sotto-umanità maledetta, ma la casa lasciapassare, la casa di passaggio, l’inevitabile Motel78.

Se la prigione connota lo studio delle forme di potere in una società, ciò non significa che ne sia un semplice riflesso – per quanto deformante. Essa si inscrive all’interno della vita sociale nella maniera più concreta. Il suo posto all’interno delle traiettorie di controllo si rende notoriamente descrivibile attraverso la circolazione delle persone tra una moltitudine di istituzioni e di dispositivi. Parlare della forma-prigione come di una forma evidentemente, negare loro la possibilità e il ruolo che esse possono giocare nelle vicende umane» (L. Boltanski e L. Thévenot, De la justification, cit., p. 54). 77 Cfr. per esempio L. Boltanski, E. Claverie, N. Offenstadt e S. Van Damme (a cura di), Affaires, scandales et grandes causes, Stock, Paris 2007. 78 M. Foucault, Préface, in B. Jackson, Leurs prisons. Autobiographies de prisonniers et d’exdétenus américains, Plon-Terre Humaine, Paris 1975 [1972], citato da G. Chantraine, La sociologie carcérale: approches et débats théoriques en France, in «Déviance et société», vol. 24 (2000), n. 3, p. 308.


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«sociale generale»79 significa porre la questione del potere non soltanto all’istituzione carceraria stessa, ma anche e soprattutto alle sue relazioni con il resto della società. Il fuori testo fornisce precisamente una presa originale per seguire queste traiettorie di controllo. Esse sono fatte di interazioni dirette o indirette con differenti istituzioni, la cui presa sugli individui non è mai univoca. Anche nelle istituzioni più costringenti, si formano contatti tra gli individui e i rappresentanti dell’autorità. Vengono formulate domande, vengono scritte denunce, emergono mobilitazioni che rispondono alle strategie dei loro destinatari. Come nelle lettres de cachet, l’asimmetria della relazione non interdice né la costituzione di punti di appoggio morali consensuali (per esempio, per il periodo attuale, il riferimento all’umanità e ai diritti che vi sono attaccati80), né i margini di manovra che la loro interpretazione conferisce agli attori. È seguendo la forma e il tenore di questi scambi, la loro continuità e la loro trasformazione, al di là della circolazione tra le differenti istituzioni, che diventa possibile caratterizzare i rapporti di potere che vi si giocano. È ugualmente descrivendo ciò che il passaggio attraverso la prigione fa alla forma e al tenore delle interazioni con altre istituzioni che si può cogliere il posto singolare dell’istituzione penitenziaria all’interno delle traiettorie di controllo. Quindi, il fuori testo permette di cogliere, nella sua dimensione morale, la molteplicità dei rapporti di potere che rigiocano, ogni giorno, le interazioni con le autorità. L’analisi di questi atti discorsivi e scritti, delle categorie morali che vi si dispiegano, offre una presa originale per caratterizzare ciò di cui sono fatte le traiettorie di controllo, e il luogo che vi occupa l’incarcerazione. La lettura de La société punitive può dunque servire da risorsa ai ricercatori che si avventurano in questo campo largamente inesplorato, tanto nella delimitazione degli oggetti di ricerca, quanto nella determinazione della metodologia. Traduzione dal francese di Martina Tazzioli

Corentin Durand École des Hautes Études en Sciences Sociales corentin.durand@ens.fr M. Foucault, La société punitive, cit., p. 244. C. Durand, Construire sa légitimité à énoncer le droit. Étude de doléances de prisonniers, in «Déviance et société», n. 87 (2014). 79 80


306 Corentin Durand

. For a Moral Sociology of the Trajectories of Control. A Reading of The Punitive Society This paper seeks to investigate two patterns that stem, from a sociologist’s point of view, from the reading of La société punitive. First, the Collège de France 1973 Lectures can be read as an invitation to re-engage the question of the relation between prison and society from the perspective of an understudied object: continuities and disruptions in the mechanisms of institutional control that shape the existence of certain individuals and in which the meaning of the experience of incarceration is forged. Such trajectories of control, involving a multiplicity of interactions with diverse institutions, are not easy to describe. In his 1973 Lectures, Foucault sketches an original methodology anchored in a reflection on the constitutive relationship between morals and power. By suggesting engaging in a history of morals as a strategy, by focusing on what he calls the hors-texte, the Lectures provide a useful take to describe and analyze power relations that shape trajectories of control. Keywords: Trajectories of Control, Foucault, Coercive, Penitentiary, Morals, Power, Hors-texte.


Dall’illegalismo alla gestione differenziale degli illegalismi: ritorno su un concetto Grégory Salle

Introduzione: un ambivalente ritorno di visibilità

Le nozioni di “illegalismo/i” e, per estensione, di “gestione differenziale

degli illegalismi”, elaborate da Michel Foucault nella prima metà degli anni settanta, hanno conosciuto, in questi ultimi anni, un ritorno in grande stile nella produzione universitaria e, più generalmente, intellettuale, se non addirittura militante. Certamente, queste nozioni sono ben lontane dall’aver conosciuto la stessa fortuna di concetti-chiave come governamentalità, disciplina, biopolitica/biopotere o archeologia/genealogia, che sono stati invece oggetto di una gran quantità di discussioni e analisi. Si possono citare molti indizi di tale relativa mancanza di visibilità. “Illegalismo/i” – vedremo che la scelta grammaticale del singolare o del plurale non è senza importanza – non è presente nel Vocabulaire de Michel Foucault di Judith Revel (nel quale si trovano termini che paiono meno specificamente foucaultiani, come “controllo” o “evento”), né, dal lato anglofono, nel voluminoso Cambridge Foucault Lexicon, che contiene però circa un centinaio di voci tematiche1. Analogamente, il termine non compare nemmeno una volta nel volume collettivo Michel Foucault. Un héritage critique, come anche in quello intitolato Usages de Foucault, nonostante un contributo specificamente dedicato a Foucault e il problema carcerario2. Potremmo citare altri indizi3 del fatto che le discussioni su questa nozione e le poste in gioco che solleva restano marginali rispetto ai dibattiti sull’eredità foucaultiana e su J. Revel, Le vocabulaire de Michel Foucault, Ellipses, Paris 2002; L. Lawlor e J. Nale (a cura di), The Cambridge Foucault Lexicon, Cambridge University Press, Cambridge 2014. 2 J.-F. Bert e J. Lamy (a cura di), Michel Foucault. Un héritage critique, CNRS éditions, Paris 2014; H. Oulc’hen (a cura di), Usages de Foucault, PUF, Paris 2014. 3 Ad esempio, tale questione non è trattata da Michel Senellart nella sua riflessione sullo Stato di diritto in Foucault. Cfr. M. Senellart, La question de l’État de droit chez Michel Foucault, in J.-L. Fournel, J. Guilhaumou e J.-P. Potier (a cura di), Libertés et libéralismes: formation et circulation des concepts, ENS éditions, Lyon 2012, pp. 297-314. 1

materiali foucaultiani, a. III, n. 5-6, gennaio-dicembre 2014, pp. 307-322.


308 Grégory Salle come prolungarla; una simile “relegazione” è già una prima giustificazione per soffermarcisi. Detto ciò, i concetti di illegalismo/i e di gestione differenziale degli illegalismi hanno conosciuto recentemente un sensibile ritorno di visibilità. Restando in ambito francofono, li ritroviamo in particolare negli studi sociologici che hanno per tema i controlli della polizia sulla prostituzione, sugli squat, sul rap, sulle devianze giovanili o sulla mafia, ma anche sulla Borsa, sul riciclaggio di denaro sporco a livello internazionale, sulla “delinquenza dal colletto bianco” in generale e sulla frode fiscale in particolare, fino al controllo interno delle violazioni alle regole, commesse nelle carceri stesse. A prima vista, sembra ci siano tutti i motivi per rallegrarsi di un tale successo, tanto più che la posterità immediata della nozione – tema centrale dell’argomentazione sviluppata nel 1975 in Sorvegliare e punire – era rimasta debole o superficiale. Il fatto che, in un qualche modo, si recuperi un ritardo, ha quindi tutta l’aria di una buona notizia e può essere percepito come il segnale di un significativo ritorno del pensiero critico nel campo della devianza, della giustizia, della sicurezza, del controllo sociale, ecc. Tuttavia, pur dando vita a riprese stimolanti, tale recrudescenza non è scevra di problemi. La diffusione del termine ha in effetti, come contropartita, un utilizzo incerto, indeterminato, che genera una certa vaghezza concettuale e origina talvolta dei controsensi – e l’autore di queste pagine non fa eccezione. Con il pretesto di una ripresa dell’impulso foucaultiano, ma anche di un prolungamento o di un affinamento della sua griglia d’analisi, si ha perfino l’impressione che, nel “cambio”, ci si rimetta. E questo a causa di usi discutibili, in primo luogo per imprecisione (ed è proprio questo aspetto che tratterò prima di tutto), in secondo luogo perché tali usi smorzano l’incisività iniziale di tale nozione, separandola dall’insieme teorico di cui fa parte e dal quale è rigorosamente indissociabile per poter dispiegare tutta la propria potenza. Ecco perché non sembra inutile un ritorno teorico su questa nozione, soprattutto se non ci si sofferma troppo nell’esegesi, ma si indirizza lo sforzo di chiarificazione verso l’attualità del concetto, la sua caratteristica più promettente per contribuire a decifrare la situazione presente. Inoltre, tre motivi supplementari possono giustificare una piccola messa a punto teorica, che non vuole tanto evocare la nozione in generale, quanto mettere in luce una tensione semantica e concettuale in particolare. Il primo motivo è interno al lavoro di Foucault: in un certo modo, la riflessione su questo tema è una conseguenza della recente pubblicazione del cor-


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so al Collège de France del 1973-1974, La société punitive, che testimonia dell’emergenza del concetto nel suo lavoro e offre così alcuni chiarimenti preziosi. Il secondo motivo è che il concetto di gestione differenziale degli illegalismi potrebbe costituire una vantaggiosa armatura teorica a certi lavori (soprattutto di taglio storico), spesso appassionanti sul piano descrittivo. Da qui deriva il terzo motivo, più generale: la tendenza, avvertita in modo significativo nell’ultimo ventennio, di gran parte delle scienze sociali francesi a un ripiegamento su un empirismo rigoroso, dove la feticizzazione del “terreno” va di pari passo con un certo disprezzo, o almeno una mancanza di interesse, nei confronti dei problemi teorico-politici4. Un ripiegamento che spiega solo parzialmente la mancanza di volontà da parte dei sociologi, dei politisti e degli storici ad affrontare apertamente il problema della gestione differenziale degli illegalismi, problema che, tuttavia, è sempre attuale. Una tensione semantica e (quindi) concettuale Il modo più discutibile di utilizzare il termine illegalismo/i è probabilmente il farlo senza precisare veramente cosa giustifichi tale uso, talvolta riferendosi in modo vago o puramente formale a Foucault, talvolta senza neppure citarlo, come se si trattasse di un termine consueto5. Ora, non è affatto così, dato che tale termine non compare nei dizionari correnti6. Nel suo Dictionnaire historique de la langue française, Alain Rey, che fa risalire il termine agli anni venti – ma se ne trovano occorrenze anteriori, almeno dagli anni 18907 –, constata che si tratta di un termine utilizzato Questa “svolta empirica” è segnalata, per esempio, da Frédéric Lordon in Philosophie et sciences sociales: vers une nouvelle alliance?, in «Cahiers philosophiques», n° 132 (2013), pp. 110126, pp. 117-118. Nella sua postfazione alla nuova traduzione di Contribution à la critique de l’économie politique de Marx (Paris, Éditions sociales, 2014), Guillaume Fondu parla addirittura di un periodo di «vuoto teorico rivendicato» delle scienze sociali (p. 246). 5 Per un esempio tipico di tale uso, in cui Foucault non compare in bibliografia, nonostante nel testo e perfino nel titolo sia questione di “gestione differenziale degli illegalismi”, si veda F. Bailleau, La justice pénale des mineurs en France, ou l’émergence d’un nouveau modèle de gestion des illégalismes, in «Déviance et Société», vol. 26 (2002), n° 3, pp. 403-421. 6 Non compare né nel Petit Robert, né nel Larousse. 7 Una ricerca nel motore di ricerca del sito Gallica della Bibliothèque nationale de France (<http://gallica.bnf.fr>) mostra che le prime occorrenze del termine risalgono almeno agli anni 1890. 4


310 Grégory Salle raramente. A tal proposito, se non si tratta di un neologismo di forma, e neppure, senza dubbio, di un neologismo di senso, Foucault ha contribuito grandemente a rimetterlo in circolazione. Bisogna però sottolineare che, anche se tale termine esisteva già, veniva usato in un senso diverso da quello attribuitogli poi da Foucault. In precedenza, tale utilizzo era propriamente politico, ed era legato alla tradizione anarchica. Pur senza essere per forza pienamente integrata nel suo lessico come nozione ben costituita8, vi riveste però un ruolo importante, del quale troviamo traccia fino all’età contemporanea9. Foucault non ignora questo uso anarchico: lo ricorda espressamente fin dal corso La société punitive, poi, più tardi, in Sorvegliare e punire, alla fine del capitolo «Illegalismi e delinquenza»10. Ma il senso foucaultiano è molto diverso: è più esteso o più generico. Nell’accezione anarchica, l’illegalismo – necessariamente al singolare – si oppone certo al legalismo, ovvero al rispetto scrupoloso e assoluto della legge, nella sua lettera e nel suo spirito, ma non si tratta semplicemente di un gioco con le regole. Si tratta invece di una teoria e di una pratica politiche, pienamente consapevoli (in opposizione al fatto di trasgredire una regola istituita quando si ignora la sua esistenza o il suo ambito di validità), che acquisiscono il proprio senso solamente nel dibattito sulle modalità legittime ed efficaci dell’azione rivoluzionaria. Foucault non fa questa connessione, o comunque non la fa più automaticamente: nei suoi sviluppi, l’illegalismo politico e soprattutto rivoluzionario non è che una modalità tra le altre, la più direttamente sediziosa di un insieme eterogeneo di trasgressioni alle regole in vigore. Ricordata questa distinzione, la nozione si rivela, nell’uso, meno chiara di quanto non sembri. Il miglior indizio è che sembra spesso difficile definire positivamente tale nozione, in un’accezione scevra di ambiguità, anche negli autori più addentro alla questione. Per quel che ne so, Foucault stesso non la definisce mai veramente, benché lo abbia fatto per termini come Osserviamo così che il Petit lexique philosophique de l’anarchisme di Daniel Colson (Le Livre de poche, Paris 2001), che contiene numerose voci, non include la voce “Legalismo/ Illegalismo”, e tali concetti sono trattati solo tangenzialmente (per esempio nelle voci “Diritto”, “Stato”, “Insurrezione”, ecc.). 9 Come per il “rapinatore libertario di banche” Louis Beretti quando racconta «i propri anni d’illegalismo» (L. Beretti, Même à mon pire ennemi… Souvenirs d’une parenthèse: prison de Fresnes 1980-1985, L’Insomniaque, Montreuil 2010, p. 33). 10 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/ Gallimard/Seuil, Paris 2013; Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 323. 8


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governamentalità o genealogia, a prescindere dalle variazioni delle corrispondenti formulazioni. A tal proposito, si pensi a ciò che dirà Gilles Deleuze –«Foucault non si accontenta nemmeno di dire che bisogna ripensare certe nozioni, non lo dice neppure, lo fa, proponendo così nuove coordinate per la pratica» – al termine di un passaggio dedicato proprio a questo tema degli illegalismi, considerato «uno dei più profondi» di Sorvegliare e punire11. Molti commentatori si sono quindi dedicati a un lavoro esplicativo; ma, mi pare, senza riuscire a togliere tutte le tracce di equivoco. Succede così anche nell’introduzione realizzata da uno dei migliori conoscitori francesi degli scritti foucaultiani: la nozione di illegalismo/i, scrive, consente «di mettere in luce una realtà che non era mai stata considerata da questo punto di vista», formula che indica bene la sua grande importanza; tuttavia, la definizione seguente, che evoca «una nozione che rinvia a pratiche sociali, a percezioni e usi diversi del diritto»12, dà l’idea di menare il can per l’aia. «In Foucault, l’illegalismo non designa solamente un certo tipo di comportamenti trasgressivi alle norme in vigore, ma, soprattutto, rinvia all’insieme delle attività di differenziazione, di categorizzazione, di gerarchizzazione e di gestione sociale di condotte definite indisciplinate», spiegava Pierre Lascoumes una ventina di anni fa, in una delle rare riprese di questo tema, prima di condensare la definizione: «insieme delle pratiche sociali che “giocano” con le regole»13. Puntava così il dito su un aspetto essenziale, rilevato a giusto titolo in una distinzione recente, definendo gli illegalismi come «le pratiche illecite che non mirano ai beni o alle persone, ma a trasgredire le leggi o i regolamenti»14. È proprio questo, in effetti, il punto cruciale. La nozione di “pratica”, comune a queste tre definizioni, esprime però una tensione inerente agli usi della nozione, se non alla nozione stessa. Non possiamo fare a meno di rimarcare che tali definizioni sembrano ritrarsi di fronte al ricorso all’etimologia del termine, che offre la soluzione più chiara: l’illegalismo è l’il-legalismo, è il rovescio, il negativo del legalismo. Legalismo che, da parte sua, si coniuga solamente al singolare e tollera male il plurale (non si parla di “legalismi”). Di conseguenza, ciò che è indicato direttamente dal proprio contrario, l’illegalismo, non sono G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986, pp. 37-38 (il corsivo è mio). J.-F. Bert, Introduction à Michel Foucault, La Découverte, Paris 2011, pp. 55-56. 13 P. Lascoumes, L’illégalisme, un outil d’analyse, in «Sociétés et représentations», n° 3 (1996), pp. 78-84, pp. 78-80. 14 Editoriale del dossier L’État face aux illégalismes, in «Politix», n° 87 (2009), pp. 3-6, p. 4. 11 12


312 Grégory Salle propriamente tipologie di atti o di fatti (per i quali si avrebbe la tentazione di utilizzare il termine di “pratica/che”), ma un rapporto – un rapporto alle norme, di solito scritte. Allo stesso modo, ciò che è gestito, nella “gestione differenziale degli illegalismi” (espressione che, del resto, Foucault non usa frequentemente e sistematicamente), non sono tanto certi atti o fatti empirici determinati (rubare un bene, attentare all’integrità fisica altrui, fare uso di una droga illegale…), quanto il fatto stesso di “prendersi delle libertà” rispetto alla legge, di sottrarsi a una parte delle interdizioni che esprime e, più generalmente, di scostarsi dalle norme o di trasgredirle. Sembra di profferire una banalità, se non addirittura un truismo. Tuttavia, l’imprecisione che spesso caratterizza gli usi attuali del termine obbliga a ritornare sull’accezione letterale. Almeno in sociologia e in scienze politiche, in effetti, tale termine è utilizzato frequentemente in modo tale da confonderlo con quelli dai quali, al contrario, intende distinguersi (considerandoli tutti en passant come oggetti di un’analisi genealogica), cioè, da una parte, la nozione giuridica di infrazione e, dall’altra, la nozione criminologica di delinquenza15. Ciò avviene in particolare quando il termine è singolarizzato fino ad essere utilizzato su scala individuale: un individuo “commetterebbe” un certo illegalismo, tacitamente definito come atto illegale o illecito, in altre parole, come infrazione… Ma la nozione non mira esattamente a questo: parafrasando Didier Fassin quando spiega che «la biopolitica non è una politica della vita»16, si potrebbe dire che l’illegalismo non è un atto illegale. È una nozione che, del resto, non ha realmente senso se non a livello di un gruppo sociale e, in particolare, di una classe sociale; per definizione è un fenomeno sociale e, più precisamente, un fenomeno di classe, fenomeno che assume, in ogni classe, forme parzialmente diverse17. Bisogna aggiungere che l’illegalismo non si sovrappone assolutamente all’illegalità – se così fosse, perché ricorrere a un termine differente e, oltretutto, poco usato? –, almeno nell’accezione giuridica classica del terÈ in particolare su questo punto che insiste giustamente Pierre Lascoumes in L’illégalisme, un outil d’analyse, cit. 16 D. Fassin, La biopolitique n’est pas une politique de la vie, in «Sociologie et sociétés», vol. 38 (2006), n° 2, pp. 35-48. 17 Tra le numerose formulazioni, possiamo citare la seguente: «in ogni regime, i differenti gruppi sociali, le diverse classi, le diverse caste hanno ciascuno il proprio illegalismo» (M. Foucault, À propos de l’enfermement pénitentiaire (1973), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1303, il corsivo è mio). 15


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mine18. L’illegalità designa tradizionalmente uno statuto, un carattere stabilito, che sia puntuale (trovarsi in stato di illegalità commettendo un’azione proibita dalla legge e passibile di sanzioni penali) o permanente (come quando si dice di un gruppo militante che “oscilla nell’illegalità” attraverso la clandestinità). Potremmo dire che se l’illegalità, come stato o condizione “fuori-legge” temporanei o durevoli, è rigida, l’illegalismo, come rapporto, è flessibile («oscillante», dice Foucault nella lezione del 21 febbraio 1973 de La société punitive): contiene infatti la possibilità di un rispetto puntuale della legge, a seconda delle circostanze. L’illegalismo non è una rottura netta e permanente con il legalismo; è il fatto stesso di introdurre un gioco, una distanza più o meno grande rispetto alle norme legali. In altre parole, è un rapporto slegato dal diritto che, tuttavia e per ciò stesso, autorizza momenti di unione, non fosse altro che per motivi di interesse. «Non si tratta di una scelta, fatta una volta per tutte, di passare dall’altra parte della legge e di praticare l’illegalità. […] Si potrebbe quasi dire che il rispetto della legalità non è che una strategia in questo gioco dell’illegalismo»19. Di modo che l’illegalismo si riserva il diritto di rispettare la legge, se ne può ricavare un beneficio… Ripiegare il termine illegalismo/i sull’uno o l’altro (sull’infrazione in un piano specifico o sull’illegalità in un piano generico) significa quindi finire nella trappola del “giuridismo”, del quale al contrario tale nozione mira a disfarsi completamente. Nei termini di Deleuze, significa contribuire al mascheramento della «mappa strategica» operato dal «modello giuridico»20. Mettere in luce tale mappa richiede, per esempio, di analizzare Da questo punto di vista, la traduzione scelta da Alan Sheridan per Discipline and Punish, illegality/illegalities, maschera tale differenza. Lo stesso index dei Dits et écrits non è scevro di ambiguità, dal momento che, per comodità, propone una voce comune: “Illegalismo (o illegalità)”. Metto qui da parte le analisi dell’illegalità che sono state formulate esplicitamente contro il feticismo giuridico e che si riconnettono in effetti a una prospettiva di analisi in termini di gestione differenziale degli illegalismi – in particolare quella di Nicholas de Genova (che mette sempre “illegality” tra virgolette) in The Legal Production of Mexican/Migrant “Illegality”, in «Latino Studies», vol. 2 (2004), n° 2, pp. 160185. Cfr. anche S. Chauvin, En attendant les papiers. L’affiliation bridée des migrants irréguliers aux États-Unis, in «Politix», n° 87 (2009), pp. 47-69. 19 M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 147-148. 20 G. Deleuze, Foucault, cit., p. 38. In questo senso, se possiamo definire anti-giuridico un approccio simile, ciò non implica l’assenza di pensiero o il rifiuto di pensare il diritto stesso, in quanto materia e in quanto disciplina, al contrario: «la critica del giuridismo non preclude, in Foucault, la possibilità di cogliere il giuridico, e anzi rappresenta una condizione 18


314 Grégory Salle il modo in cui si può svolgere una ridistribuzione dei rapporti di forza tra gli illegalismi (al contrario, per esempio, del celebre caso studiato da Edward Thompson, autore dell’edizione del Black Act nel suo libro Whigs and Hunters, pubblicato lo stesso anno di Sorvegliare e punire21) sullo sfondo di una definizione legale delle infrazioni che resta immutata. In questo senso si può anche cogliere lo spostamento operato da Foucault quando scrive che «se l’opposizione giuridica passa tra l’illegalità e la pratica illegale, l’opposizione strategica passa tra gli illegalismi e la delinquenza»22 – delinquenza pensata dunque non come un concetto o un termine descrittivo, ma come un oggetto di studio storico-filosofico (così come essa è più una figura politica derivante da uno strappo strategico, che un fenomeno sociale). Occorre aggiungere a tutto ciò che questa prospettiva si fonda su un postulato molto diverso dal “giuridismo”, postulato che offusca ogni separazione in compartimenti stagni tra innocenza e colpevolezza: “tutti” (e non solo alcuni individui), ad un certo momento, violano, tanto o poco, la legge; è su questa base che si attua la selezione. Origini ed espressioni di questa tensione Da dove derivano allora le confusioni esistenti intorno al termine illegalismo/i, il fatto che lo si utilizzi per designare direttamente tipi empirici di trasgressione e non come il negativo del legalismo? Saremmo tentati, a questo proposito, di dare una risposta netta: a Foucault la chiarezza perfetta, ai suoi eredi le riprese maldestre se non addirittura sbagliate; sarebbe tutta colpa degli epigoni. Ma bisogna ammettere che anche in Foucault si trovano talvolta formulazioni che alimentano la confusione. Tale ambiguità trova espressione sintattica nel passaggio – a volte chiaro, a volte meno – dal singolare al plurale. Il carattere sconcertante di questa ambiguità riguarnecessaria alla comprensione adeguata di cosa sia davvero il diritto. […] Foucault non sostiene mai che il diritto è una dimensione secondaria o inconsistente dell’esperienza sociale – egli lo considera semplicemente come un modello inadeguato a fornire categorie alla filosofia politica, e un oggetto reso illeggibile perché interamente investito dal discorso sulla sovranità» (M. Potte-Bonneville, Droit, in Ph. Artières e M. Potte-Bonneville (a cura di), D’après Foucault. Gestes, luttes, programmes, Les Prairies ordinaires, Paris 2007, pp. 205233, pp. 210 e 215). 21 E.P. Thompson, La guerre des forêts. Luttes sociales dans l’Angleterre du XVIIIe siècle (1975), La Découverte, Paris 2014. 22 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 305.


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da anche la temporalità. Non abbiamo a che fare con una nozione che, nei suoi primi usi, sarebbe un po’ incerta o brancolante, per prendere poi, in seguito, un senso più netto, se non definitivo. Al contrario, è dopo che determinate formulazioni sembrano, a torto o a ragione, equivoche, o, più precisamente, che una certa oscillazione tra singolare e plurale può sconcertare; oscillazione alla quale non sfugge la Situation du cours de La société punitive23. Segnalarlo non significa pretendere di rendere giustizia ai fatti una volta per tutte, ma sottolineare una reale e logica tensione semantica. Nessun problema quando Foucault usa il termine al singolare, per esempio per definire socialmente l’illegalismo (illegalismo borghese, popolare, operaio, ecc.), o quando utilizza, in Sorvegliare e punire, formule come «la rigorosa repressione dell’illegalismo», o «un’intolleranza sistematica e armata all’illegalismo», o anche quando prende in prestito il linguaggio matematico per parlare di un «tasso di illegalismo» in un passaggio di Nascita della biopolitica. Nessun problema neppure su certi plurali, come quando Foucault parla di «campo diffuso degli illegalismi» o anche degli «illegalismi popolari», dove il plurale può almeno giustificarsi con il fatto che la categoria “popolari” comprende illegalismi parzialmente distinti secondo le classi e le frazioni di classe: l’illegalismo operaio non è l’illegalismo contadino, ecc. Sono i casi più comuni. Al contrario, in taluni altri casi, certamente minoritari, le cose sembrano un po’ meno chiare. Per esempio quando Foucault parla degli «illegalismi della classe dominante», dove il plurale “illegalismi” si accorda meno facilmente con una “classe dominante” al singolare, che appare dunque, in un qualche modo, unitaria. Così, anche quando parla di «illegalismi finanziari», espressione che pare rinviare direttamente a determinati tipi di atti (per esempio, l’abuso di beni pubblici, la frode fiscale o il falso in bilancio) piuttosto che a un rapporto con le regole; o quando si riferisce, in un’intervista del 1976, a «tutto un gioco di legalità e di illegalismi»24, opposizione che, così formulata, scompiglia un Cfr. B.E. Harcourt, Situation du cours, in M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 292295 («La nozione degli illegalismi», «delle pratiche d’illegalismi», ecc.). 24 M. Foucault, Michel Foucault, l’illégalisme et l’art de punir (1976), in Dits et écrits II, cit., p. 88. Esempio simile nel seguente passaggio, tipico di una messa al plurale che induce confusione: «Credo occorrerebbe studiare […] anche la quantità e tutte le forme d’illegalismi che la prigione suscita. Ancora meglio, occorrerebbe studiare tutti gli illegalismi che sono necessari al funzionamento della prigione. La prigione, in fondo, è un focolaio di illegalismi intensi» (M. Foucault, «Alternatives» à la prison: diffusion ou décroissance du contrôle social?, in «Criminologie», vol. 26 (1993), n° 1, p. 23). 23


316 Grégory Salle po’ le carte in tavola. Un buon esempio è un passaggio di Sorvegliare e punire dedicato agli «illegalismi operai», a questa «serie di illegalismi» che vanno «dai più violenti, come spaccare le macchine, ai più duraturi, come costituire associazioni, fino ai più quotidiani come l’assenteismo, l’abbandono del lavoro, il vagabondaggio, le frodi sulle materie prime, sulla quantità e qualità del lavoro finito »25: ogni atto citato è qui tacciato di illegalismo, quando si sarebbe potuto dire, piuttosto, che si tratta di modalità dell’illegalismo operaio, non soltanto distinte, ma anche posizionabili, agli occhi dei governanti, su livelli diversi di gravità. La recente pubblicazione de La société punitive, in cui il termine illegalismo/i appare per la prima volta nel vocabolario di Foucault (o, almeno, così possiamo dire basandoci sullo stato attuale delle conoscenze, dato che il corso precedente, Théories et institutions pénales, è ancora inedito), offre un chiarimento istruttivo, che autorizza una spiegazione. In primo luogo, le occorrenze iniziali del termine sono abbastanza chiare26. Foucault distingue rispettivamente l’illegalismo “popolare”, “affarista”, “privilegiato”, “del potere”; in altre parole, per ogni gruppo o livello sociale, utilizza il termine al singolare (lo usa al plurale quando sono interessati più gruppi sociali) designando, in tal modo, il non legalismo più che le forme di trasgressione empiricamente determinate. In secondo luogo, Foucault parla poi di forme distinte o di tipi distinti di illegalismo, e opera in particolare la distinzione, manifestamente abbandonata in seguito, tra illegalismo di depredazione (illégalisme de déprédation), da una parte, e illegalismo di dissipazione (illégalisme de dissipation), dall’altra27. Questa distinzione tra due tipi di illegalismo chiarisce in buona parte la confusione cui si accennava precedentemente: parlare di illegalismi popolari al plurale significa dunque indicare non solo differenze sociologiche (tra illegalismi contadino, operaio, ecc.), ma anche differenze di modalità (all’occorrenza, dissipazione versus depredazione, ma sulla base dello stesso modello si potrebbero caratterizzare ad esempio gli “illegalismi finanziari” citati sopra). L’arte di aggirare la legge si coniuga al plurale. In terzo luogo, l’incertezza che può contraddistinguere la nozione viene anche da un allargamento concettuale operato da Foucault in determinati momenti del proprio corso, quando egli estende esplicitamente la nozione a un livello che eccede quello delle M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 302. Cfr. M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 144ss. 27 Si veda la lezione del 14 marzo 1973 in ivi, pp. 191ss. 25 26


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regole scritte (e dunque delle infrazioni), un livello “infra-legale”, quello dell’immoralità, dell’indisciplina, dell’irregolarità28. Ciò nonostante, il termine illegalismo/i designa il fatto stesso di prendersi delle libertà nei confronti della legge e, più generalmente, della norma (attraverso una sottrazione, un aggiramento, un’opposizione frontale, ecc.), prima ancora di indicare le modalità pratiche (questo o quell’atto o comportamento) di tale trasgressione. È solo così che si può comprendere l’idea, formulata già a partire dal 1973, di un «conflitto tra gli illegalismi» dalla seconda metà e soprattutto alla fine del XVIII secolo; problema peraltro distinto da quello trattato da Thompson, nello stesso periodo, del «conflitto tra legalità»29. Ampiezza e prospettive di un insieme teorico-politico Rimane un problema, di altro tipo. Concerne quella che è forse la ripresa più stimolante, almeno per come percorre la pista foucaultiana attraverso sentieri empirici. Tale prospettiva, che prende come punto di osservazione privilegiato lo Stato nelle sue istituzioni più o meno coercitive, affronta il tema della gestione differenziale degli illegalismi da una doppia prospettiva: l’applicazione differenziale del diritto, da un lato (quello delle giurisdizioni), e degli usi sociali del diritto, dall’altro lato (quello dei giudicabili)30. Questo doppio aspetto costituisce il cuore stesso del problema e apre la strada a ricerche approfondite ed istruttive, ad esempio sugli effetti del confronto interattivo tra proprietà sociali degli agenti e degli amministrati. Tuttavia, esso non esaurisce l’ipotesi foucaultiana, come dimostrano gli sviluppi di Sorvegliare e punire a proposito della «strategia globale degli illegalismi»31. L’approccio sopra citato ha molti meriti, tra Cfr. specialmente ivi, p. 196. Il periodo considerato, notiamolo en passant, è posteriore all’edizione del codice penale del 1791. 29 Tale conflitto oppone legalità scritta e legalità consuetudinaria (E.P. Thompson, La guerre des forêts, cit., pp. 99-125). 30 Si veda, in questa prospettiva, A. Spire e N. Fischer, L’État face aux illégalismes, in «Politix», n° 87 (2009), pp. 7-20, nonché i contributi al dossier che tale testo introduce. 31 «E se si può parlare di una giustizia di classe, non è solo perché la legge stessa o il modo di applicarla servono gli interessi di una classe, ma perché tutta la gestione differenziale degli illegalismi, con l’intermediario della penalità, fa parte di questi meccanismi di domino» (M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 300). 28


318 Grégory Salle cui quello di non limitarsi alle sole istituzioni giudiziarie per considerare, ad esempio, i rapporti sociali con l’amministrazione fiscale, ed ha anche il merito di evitare lo scoglio della parafrasi, considerando le cose da un’angolatura specifica. Eppure rischia di impedire una visione d’insieme. Un rischio connesso è di riprendere la nozione senza “importare” contemporaneamente l’insieme teorico di cui fa parte; in altre parole, di prendere un anello della catena concettuale, separandolo dagli altri (illegalismi < > prigione < > delinquenza…32) e facendogli così in parte perdere il suo valore teorico. È il problema della metafora della “scatola degli attrezzi” che, come ha segnalato Alain Brossat, ha avuto il torto di legittimare usi poco rigorosi o tradimenti teorici che hanno svuotato il lavoro foucaultiano della sua carica sovversiva33. In ogni caso, si tratta di un vasto programma di ricerche che fino ad ora non è stato mai veramente affrontato in maniera globale, e che apre la possibilità di valutare la triplice utilità economica e politica della gestione differenziale degli illegalismi, così come Foucault ha potuto sintetizzarla e che possiamo qui brevemente ricordare34. In primo luogo, la cristallizzazione delle paure sociali su un bersaglio preciso, una forma particolare di illegalismo, tanto diffusa quanto concreta: la delinquenza (la sua teatralizzazione, la sua drammatizzazione, ecc.), pretesto e mezzo per un consenso facilitato della popolazione a un’estensione e a un rafforzamento dei controlli di polizia (e, più in generale, di ciò che Foucault comincia a chiamare, ne La société punitive, il “coercitivo”). Su questo piano è decisiva l’analisi del ruolo dei media e sono dedicati alla stampa molti sviluppi di Sorvegliare e punire; sul tema, disponiamo del resto di lavori appassionanti, come quelli dello storico Dominique Kalifa. In secondo luogo, l’illegalismo è tollerabile quando è redditizio economicamente per le classi dominanti, cioè quando lo scarto dalla legge o la sua trasgressione possono essere reinvestiti e riassorbiti dalla legalità. Foucault prende volentieri come esempi l’organizzazione della prostituzione e persino quella del commercio delle armi e delle droghe, ma parla anche, all’occorrenza, dei Un po’ come in Pierre Bourdieu, anche se su un registro diverso, dove chi dice habitus dice campo, dice capitale, dice illusio, ecc. 33 A. Brossat, Boîte à outils ou supermarché aux idées?, in J.-F. Bert e J. Lamy (a cura di), Michel Foucault, cit., pp. 263-268. 34 Cfr. ad esempio M. Foucault, Il faut tout repenser, la loi et la prison (1981), in Dits et écrits II, cit., pp. 1021-1023. 32


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servizi segreti («i grandi assassinii son diventati il gioco silenzioso dei saggi», «Le belle uccisioni non sono per i piccoli guadagni dell’illegalismo», si legge in Sorvegliare e punire35) o della speculazione immobiliare, ambito quanto mai propizio al riciclaggio di denaro sporco. Da questo punto di vista, non pare eccessivo pensare che le scienze sociali siano in ritardo rispetto alle serie televisive, come Boardwalk Empire o The Wire, che sanno abilmente mettere in scena proprio questi problemi; molte opere che ne trattano non ne fanno menzione, anche quando il soggetto sembra particolarmente adatto36. In terzo luogo, i delinquenti patentati costituiscono un vivaio che può venire mobilitato dalle élite per soddisfare talune basse necessità: picchiatori negli scioperi o confidenti per la polizia, infiltrati nei sindacati e nei movimenti sovversivi, guardie del corpo di personalità ufficiali, ecc.37; e, più generalmente, per mantenere una divisione all’interno del popolo tra il (buon) popolo e la (vile) plebe. Verosimilmente, tale aspetto è il meno documentato, anche se si possono trovare begli esempi, che non per forza si riferiscono Foucault38. Possiamo quindi avanzare l’ipotesi che il concetto di gestione differenziale degli illegalismi inglobi, e al limite soppianti, due concetti più comuni, più visibili, concetti che include superandoli. Il primo è quello di giustizia di classe, che ne è evidentemente una componente essenziale, centrale. Essa però non esaurisce, come abbiamo visto, l’insieme dei canali attraverso i quali si effettua la gestione differenziale degli illegalismi: basti pensare al canale mediatico, che partecipa attivamente alla drammatizzazione delle trasgressioni popolari, qualunque esse siano, anche e soprattutto quando si tratta di modalità di trasgressione commesse allo stesso modo dalle élite. Il secondo concetto è quello di “delinquenza dal colletto bianco”, proposto Su questo punto la tesi recente dello storico A. Rios-Bordes, Les précurseurs sombres. L’émergence de l’«État secret» aux États-Unis (1911-1941), Éditions de l’EHESS, Paris 2014, fornisce un’ampia documentazione. 36 Cfr. ad esempio R. Muchembled, Les ripoux des Lumières. Corruption policière et révolution, Seuil, Paris 2001. 37 Le idee di Foucault si articolano qui sulle tesi di Marx, secondo il quale la riserva militare serve non soltanto da vivaio produttivo nel quale pescare a piacimento e da fattore di pressione rispetto alla riduzione dei salari – utile dunque sia quando è disoccupata sia quando è occupata –, ma anche da popolazione resa manovrabile nelle lotte di classe dalla sua posizione di classe incerta. 38 Cfr. ad esempio S. Chauvin, Les agences de la précarité. Journaliers à Chicago, Seuil, Paris 2010, pp. 235-275. 35


320 Grégory Salle dal sociologo statunitense Edwin Sutherland negli anni quaranta. Anche se molto utile, soprattutto al tempo della sua elaborazione, per allontanare i pregiudizi dell’epoca, tale concetto soffre di almeno due limiti. Da una parte, era inizialmente concepito in un’accezione restrittiva: si riferiva alle trasgressioni commesse dalle élite nell’ambito della loro attività professionale (il medico o l’avvocato che frodano sui propri onorari, ecc.)39. Dall’altra parte, tale concetto non si articola su una teoria della dominazione sociale; ora, come abbiamo visto – e La société punitive lo mostra in maniera evidente – la questione dei conflitti di classe è imprescindibile. Conclusione: una carica sovversiva sempre vivace La teorizzazione foucaultiana conserva una carica sovversiva ben lontana dall’aver esaurito i propri effetti. Per convincersene, basta citarne una recente riattivazione: «La più grande delle imposture del sistema giudiziario-penitenziale consiste certamente nel pretendere di esistere per punire i criminali, quando non fa altro che gestire gli illegalismi. Qualsiasi padrone […], qualsiasi presidente del consiglio generale […], qualsiasi poliziotto sa quanti illegalismi bisogna commettere per esercitare correttamente il proprio mestiere. Oggi, il caos delle leggi è tale che è meglio non cercare di farle rispettare troppo, e anche la narcotici fa bene a limitarsi solo a regolare il traffico [di stupefacenti], e non a reprimerlo, il che sarebbe un suicidio sociale e politico. Il partage non passa dunque, come vorrebbe la finzione giudiziaria, tra il legale e l’illegale, tra gli innocenti e i criminali, ma tra i criminali che si pensa sia opportuno perseguire e quelli che lasciamo vivere in pace, come richiesto dalla “polizia” generale della società»40. Una carica sovversiva che diviene evidente anche quando si considera che la legge è, in se stessa, una gestione degli illegalismi (essa integra la virtualità della Sui dibattiti successivi a tale accezione restrittiva, si veda A. Spire, Pour une approche sociologique de la délinquance en col blanc, in «Champ pénal/Penal field», Vol. 10 (2013), <http://champpenal.revues.org/8582>. 40 J. Coupat, La prolongation de ma détention est une petite vengeance, in «Le Monde», 18 dicembre 2009. Leggiamo, qualche riga più in basso: «Ecco alcune delle conclusioni alle quali lo spirito è spinto quando rilegge Sorvegliare e punire dalla Santé. Forse dovremmo suggerire, visto quello che fanno i foucaultiani, da vent’anni a questa parte, dei lavori di Foucault, di spedirli in pensione, per un po’, da queste parti…». 39


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propria trasgressione)41, come è illustrato per esempio dalla tesi, persa di vista dopo gli anni settanta, secondo la quale le pene pecuniarie sono più una tassa che le classi agiate pagano per avere il privilegio di violare la legge (e, al contempo, un obolo che contribuisce a finanziare prigioni riservate ai membri delle classi dominate), che una sanzione in sé. Ricordiamo allora che, così come in Marx il concetto di capitale designa un rapporto sociale e non una “cosa” (un certo volume monetario, una quantità determinata di valore), come vorrebbe una concezione sostanzialista/feticista ancora molto in voga, la legge deve anch’essa essere compresa come un rapporto sociale. Dai falsi in bilancio al lavoro nero (ivi compresi – il colmo dell’ironia! – i cantieri edili per la costruzione di prigioni), dal tax ruling alla penalizzazione selettiva dell’uso di droghe passando per la sorveglianza di massa, pubblica e privata, non mancano certo episodi di grande attualità, sia dal lato dell’illegalismo degli affari, sia dal lato dell’illegalismo del potere, per mostrare l’esistenza di una massiva gestione differenziale degli illegalismi. Tuttavia, presa nel suo insieme, la teorizzazione foucaultiana continua a rovesciare le nostre rappresentazioni spontanee, cioè ereditate, su questi problemi. Sono rari gli studi empirici che la assumono come punto di partenza reale, anche se si trovano facilmente ricerche che le fanno eco, come il libro di Sandrine Lefranc Politiques du pardon (sulle procedure giudiziarie in contesto di “transizione democratica”), che ha un incipit sferzante: «I più grandi criminali sono capi di Stato». E più avanti l’autrice afferma che «i crimini di massa, gli assassinii politici, i genocidi ordinati da autorità più o meno legittime sono ancora largamente al di là della portata della giustizia» (a differenza della stigmatizzazione sociale della delinquenza comune)42. Se la delinquenza delle élite è attualmente oggetto di un ritorno di attenzione e se le cose sono un po’ cambiate dagli anni settanta, il tutto non ha nulla a che vedere con l’ampiezza delle poste in gioco e con la massa degli studi esistenti sulla delinquenza ordinaria dei poveri, talvolta nel diniego un po’ ipocrita di una posizione etico-politica soggiacente. Al di là di questo o quell’altro caso specifico, il problema degli illegalismi e della loro gestione offre sempre un eccellente appiglio per cogliere, in modo diretto ma anche trasversale, i meccanismi di (ri)produzione delle Cfr. G. Deleuze, Foucault, cit., p. 37 e la citazione di Foucault sulla quale si fonda (nota 9). 42 S. Lefranc, Politiques du pardon, PUF, Paris 2002, pp. 7-8. 41


322 Grégory Salle ineguaglianze e dei rapporti di dominio inerenti al funzionamento capitalista. Oggetto particolare, fornisce anche, contemporaneamente, una porta d’entrata, troppo poco utilizzata, sull’analisi dei rapporti sociali in generale. Per questo c’è bisogno di un’altra raccomandazione: ripensare tutte le divisioni, tutti i partage tra comportamenti socialmente tollerati, o addirittura incoraggiati, e comportamenti biasimati o condannati: Bisogna chiedersi cosa meriti effettivamente di essere punito. Cosa pensare dei partage oggi ammessi tra ciò che è sanzionabile per legge e ciò che praticamente non lo è. Mettiamo in opera tante precauzioni perché i “costumi” non siano “oltraggiati” e il “pudore” pervertito; ma così poche perché il lavoro, la salute, l’ambiente, la vita non siano messi in pericolo43… Traduzione dal francese di Daniele Lorenzini

Grégory Salle CNRS-Clersé/Université Lille 1 gregory.salle@univ-lille1.fr

. From Illegalism to Differential Administration of Illegalisms: Return to a Concept The concept of “illegalism” (and by extension the concept of “differential administration of illegalisms”), which has been elaborated by Michel Foucault during the early 1970s, has visibly re-emerged in recent years, being applied to a various range of topics. This resurgence certainly gives rise to stimulating developments; however, it appears as a mixed success, considering some inaccurate uses of the term as well as misconceptions. The ambition of this article is to take a close look at it for the sake of theoretical clarification, highlighting a semantic and thus a conceptual tension: even though the concept specifically means a relation (to law, to rules), it tends to be directly applied to certain practical infringements. Keywords: Michel Foucault, Illegalism, Differential Administration of Illegalisms, Legalism, Law, Justice, Crime.

43

M. Foucault, Il faut tout repenser, la loi et la prison, cit., p. 1022.


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