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anno IV, numero 7-8 gennaio-dicembre 2015 ISSN 2239-5962


materiali foucaultiani peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE

Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO

Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

© 2015 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini Immagine in copertina | Cecilia e Gaia Picciotto


materiali foucaultiani ANNO IV, NUMERO 7-8

GENNAIO-DICEMBRE 2015

SOMMARIO 4 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Foucault – un “classico”?

Il pensiero politico di Foucault 11 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro Introduzione 17 Ottavio Marzocca Foucault e la post-democrazia neoliberale. Oltre la “critica inflazionistica dello Stato” 39 Jacques Bidet Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx 53 Marco Assennato Ambiguità di Foucault 67 Salvo Vaccaro Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 83

Frédéric Rambeau Lo sciopero della politica. Foucault e la rivoluzione soggettiva

97 Pierandrea Amato Ethos animale. Filosofia e politica nell’ultimo Foucault 123 Sandro Luce La doublure di Foucault. Il pensiero del “fuori” e le pratiche del vero 137 Daniele Lorenzini Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 149

Orazio Irrera Foucault e la questione dell’ideologia

173 Laura Bazzicalupo Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 189 Laura Cremonesi Spectator novus: trasfigurazione e straniamento in Foucault, Hadot e Ginzburg 203 Arianna Sforzini “Drammatizzare” la scrittura. Il theatrum politicum di Michel Foucault 217 Guillaume le Blanc Il dir-vero come elemento del “morire bene”? Sulla creazione di Aides in Francia


233 Philippe Sabot Disciplinare e guarire. La “realtà” come posta in gioco del potere psichiatrico secondo Foucault 247 Martina Tazzioli The government of the mob? Produzione del resto e suo eccesso

Saggi 261 Françoise Collin Il pensiero della scrittura: différance e/o evento. Maurice Blanchot tra Derrida e Foucault 275 Federico Rahola As we go along. Spazi, tempi e soggetti delle controcondotte 295 Paolo B. Vernaglione Michel Foucault e l’eredità della critica


Foucault – un “classico”? di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Nell’ultimo editoriale , pubblicato un anno fa su questa rivista in aper1

tura del numero doppio dedicato, da una parte, alla parrhesia e all’attualità politica della critica e, dall’altra, alla nascita della società punitiva, ci eravamo interrogati su due prospettive, opposte ma in un certo senso complementari, che rappresentano ai nostri occhi altrettanti rischi da evitare a tutti i costi nel lavoro che può essere fatto su, con e a partire da Foucault. Da un lato, il rischio di ridurre un approccio, un metodo, una serie di domande e di cantieri di problematizzazione dotati di una specificità storica e politica ben precisa a un’impresa di “attualizzazione a tutti i costi” – impresa che, in maniera pressoché necessaria, trasforma quindi la boîte à outils foucaultiana in una griglia analitica che si suppone (magicamente) capace di decodificare ogni aspetto del presente. Dall’altro lato, il rischio della “monumentalizzazione” di Foucault, ovvero della trasformazione del suo pensiero in un classico che sarebbe legittimo soltanto interpretare, studiare filologicamente nella sua genesi e nel suo accidentato sviluppo, e che non avrebbe dunque più nulla da dirci su noi stessi e sul nostro presente – un pensiero, perciò, inutilizzabile. Concludevamo allora sull’importanza vitale di percorrere una strada diversa, che non si arroghi il diritto di formulare a priori giudizi di legittimità/illegittimità o di fedeltà/infedeltà, ma che al contempo non rinunci a intraprendere una riflessione (necessariamente a posteriori) sugli usi di Foucault che si rivelano essere interessanti, innovativi e ricchi di conseguenze e su quelli che, invece, si dimostrano sterili, banali e banalizzanti, privi di interesse e di conseguenze significative. In altri termini, ci sembrava – e ci sembra – cruciale, a questo proposito, evitare di cristallizzare una distinzione che si ha sempre più tendenza a tracciare, ovvero quella tra un approccio interessato a sondare la coerenza storicofilosofica di un pensiero situato e un altro che valorizza aprioristicamente la molteplicità degli usi che il pensiero foucaultiano suscita e continuerà a suscitare. Evitare, insomma, il feticismo della lettera in quanto lettera così come quello dell’uso in quanto uso, sforzandosi invece di creare le condizioni propizie per un dialogo aperto e per un’ibridazione feconda tra queste due prospettive – dialogo e ibridazione che soli possono nutrire il lavoro del pensiero e della sperimentazione. Cfr. L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli, Il lavoro della sperimentazione, in «materiali foucaultiani», vol. 3 (2014), nn. 5-6, pp. 4-7. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 4-9.


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Lo scorso novembre, Foucault è “entrato nella Pléiade”2. Questo evento, che negli altri paesi si ha forse tendenza (probabilmente con buone ragioni) a sottostimare, ha suscitato vivaci reazioni e una serie di spinosi interrogativi nel mondo intellettuale e universitario francese. Al centro di questi ultimi, ancora una volta, la questione del rischio di una “monumentalizzazione” del pensiero di Foucault, che tale operazione trasformerebbe in un’opera canonizzata e quindi condannerebbe, in un certo senso, a divenire sterile oggetto di commento. In altri termini, si è suggerito da più parti che la scelta di far entrare Foucault nella Pléiade – questa istituzione prettamente francese che consacra scrittori e filosofi come “classici” – implicherebbe necessariamente una normalizzazione del suo pensiero attraverso la fissazione di un corpus di testi, accompagnati da introduzioni savantes e da un corposo apparato critico, la cui lettera è stata precedentemente (ri)stabilita seguendo le esigenti regole della filologia. È forse vero, allora, che d’ora in poi si daranno solo due possibilità – la fedeltà all’ortodossia foucaultiana, che troverà la sua più alta espressione nell’esercizio del commentaire al testo, e l’eterodossia irriverente degli usi, che più nulla avranno a che fare con il pensiero del Maestro? Una volta di più non si tratta di sostenere che questa domanda (o inquietudine) sia del tutto campata in aria, quanto piuttosto di lavorare all’elaborazione di una terza prospettiva, che sfugga alla trappola di tale dicotomia e che sappia rendere giustizia alla ricchezza e alla vivacità di un pensiero che precisamente della critica ad ogni forma di fissazione e di normalizzazione ha fatto il proprio obiettivo primario e il motore stesso del proprio dinamismo. A questo proposito, ci sembra opportuno svolgere due ordini di riflessioni. Da una parte, per quel che concerne nello specifico la Pléiade Foucault, la scelta che è stata fatta di includervi soltanto i libri e una piccola selezione di articoli “fondamentali” (nella piena consapevolezza, del resto, del carattere necessariamente arbitrario di tale selezione) ha il grande merito di rendere esplicito, fin da subito, il suo carattere non esaustivo e non canonizzante: nessuno, infatti, potrebbe ormai sostenere, con cognizione di causa, che la “verità” o l’“integralità” del pensiero di Foucault si trovi soltanto in questi testi, e non anche nei Corsi al Collège de France e nelle sue innumerevoli conferenze, nei seminari, nelle interviste, ecc. L’“operazione Pléiade”, nel caso di Foucault, confessa quindi immediatamente la propria 2

Cfr. M. Foucault, Œuvres I e II, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 2015.


6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli impotenza a racchiudere in un corpus prestabilito un pensiero in perpetuo movimento, capace di disinnescare – in un certo senso con le proprie stesse forze – ogni tentativo di monumentalizzazione, di canonizzazione o di normalizzazione. Al contempo, però, come ha di recente sottolineato il suo curatore, Frédéric Gros3, la Pléiade Foucault ha per vocazione anche quella di correggere l’idea (opposta) che, nel corso degli ultimi due decenni, si è andata sedimentando in Francia, in Italia, nel mondo anglosassone e in tanti altri paesi, ovvero che la “verità” del pensiero di Foucault sia contenuta innanzitutto nei Corsi al Collège de France. La Pléiade mette invece chiaramente in luce la fecondità e la ricchezza, un po’ dimenticate, dei libri di Foucault, offrendoli al pubblico dei lettori (vecchi e nuovi) in un’edizione rigorosa e aprendo così la possibilità di un nuovo dialogo – ora che tutti i Corsi al Collège de France sono stati pubblicati, e nell’attesa che lo siano anche i Corsi anteriori a questi ultimi – tra l’“opera scritta” e l’“opera orale” del filosofo francese. D’altra parte, per porre il problema su un piano più generale, l’entrata di Foucault nella Pléiade incita a elaborare una riflessione più attenta su una nozione – quella di “classico” – che non ha mai cessato di sollevare interrogativi, e che tuttavia merita, proprio per questo, una disamina più approfondita. Ci sono infatti almeno due modi di intendere tale nozione. Da un lato, “classico” sarebbe un pensiero che fa scuola, che genera discepoli ed epigoni, e rispetto al quale si porrebbe dunque la questione della fedeltà e dell’infedeltà, dell’ortodossia e dell’eterodossia – ove la fedeltà e l’ortodossia consisterebbero, del resto, in un’infinita opera di commento e di interpretazione del Testo. Vi è però un’altra maniera di intendere tale nozione, secondo la quale “classico” sarebbe un pensiero irriducibile alla molteplicità delle sue (re)interpretazioni e dei suoi usi; “classico” sarebbe cioè un pensiero al quale è sempre possibile ritornare per trovarvi nuove idee, nuove problematizzazioni, nuove piste di ricerca – un pensiero, insomma, che ha sempre qualcosa da dirci, e che senza dubbio ha sempre qualcosa di diverso da dire a seconda della prospettiva, delle domande e delle circostanze storiche, sociali e politiche a partire dalle quali viene volta a volta interrogato. In questo secondo senso, un “classico” non è un pensiero normalizzato e canonizzato, che imporrebbe a priori una police discorsiva volta a bollare come “inesatto” o “illegittimo” ogni uso che vada al di là Cfr. F. Gros, Foucault est-il devenu classique?, intervento alla giornata di studi «Relire le Foucault de la Pléiade», organizzata da Bernard Harcourt all’EHESS il 6 gennaio 2016. 3


Foucault – un “classico”? 7

del semplice commento; al contrario, un “classico” si configura come una fonte (potenzialmente) inesauribile di nuovi spunti, di nuove riflessioni, di nuovi inizi, di modalità inedite di guardare al proprio presente. Insomma, come una fonte inesauribile di nuovi usi. È per questo che il lavoro di edizione critica e di commento dei testi (con la sua inevitabile tendenza “filologizzante”) e il lavoro con e a partire da Foucault (ovvero i molteplici usi che di tali testi possono essere fatti, nel presente) non possono e non dovrebbero essere disgiunti in modo radicale. Il primo lavoro è essenziale per rendere disponibili quei testi agli studiosi e al pubblico, ricordando in maniera salutare che un pensiero non si forma mai nel vuoto, ma che è sempre situato, e che comprendere le sue condizioni storiche e sociopolitiche di emergenza significa già, almeno in parte, intuirne le potenzialità euristiche e critiche nei confronti del presente. Il secondo lavoro, dal canto suo, rende giustizia a un impulso che rappresenta il motore stesso del pensiero di Foucault, ovvero il tentativo di andare costantemente oltre se stesso, di superarsi, mettendo in discussione i propri stessi limiti e aprendo ogni volta lo spazio per quella sperimentazione della quale già si è detto. Ci sembra, del resto, che questo doppio lavoro si possa riscontrare anche nel rapporto che Foucault stesso, in particolare alla fine della sua vita, ha stabilito con i “classici” del pensiero antico: estremamente attento alla lettera del testo, alle sfumature della lingua greca e latina, alle interpretazioni savantes, Foucault non si è però mai accontentato di fornire un (ulteriore) commento ai “classici” che volta a volta ha analizzato – Platone, Seneca, Marco Aurelio, Epitteto, ecc. –, ma li ha piuttosto utilizzati (in un gesto che esclude sin dall’inizio l’applicazione, a suo proposito, delle categorie di fedeltà/infedeltà, legittimità/illegittimità) per nutrire un pensiero che non ha mai cessato di essere mosso da preoccupazioni e da poste in gioco derivate dal suo presente. Come detto in apertura, ci sembra del resto che la stessa postura analitica debba essere mobilitata di fronte a ciò che definiamo qui “Foucault come metodo”. Con tale espressione non intendiamo in generale l’uso, o meglio gli usi, fatti delle analisi foucaultiane in molteplici campi del sapere, ben oltre la filosofia, né crediamo che si tratti di fissare limiti o criteri per gli usi “legittimi” e possibili dei testi di Foucault. “Foucault come metodo” designa piuttosto la tendenza, sempre più visibile nel campo delle scienze politiche e sociali (in particolare nel mondo anglosassone), a erigere Foucault e il suo lavoro a una sorta di grimaldello metodologico attraverso il


8 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli quale sarebbe possibile decifrare e interpretare ogni fenomeno e trasformazione sociale. Anche in questo caso, ciò che si rischia di produrre è una “fissazione” del pensiero di Foucault, per quanto in un senso differente rispetto alla sua riduzione a oggetto di interesse meramente filologico. La monumentalizzazione di Foucault può significare, infatti, la sua normalizzazione come autore e la neutralizzazione della politicità intrinseca delle sue analisi, in nome di una esegesi dei testi che tende a imporre una scala di “gradi di fedeltà” a questi ultimi. Ciò che chiamiamo “Foucault come metodo” – ovvero, Foucault come griglia analitica esclusiva attraverso la quale leggere e interpretare qualunque oggetto di ricerca – si basa invece su un’opera di normalizzazione non tanto rispetto al contenuto della produzione foucaultiana, quanto precisamente in relazione alla sua capacità di funzionare da metro normativo di lettura di tutti i fenomeni. In tale prospettiva, Foucault si trova altrettanto “rinserrato” e schiacciato sui propri testi, e questo in una duplice direzione. Da una parte, mettendo tra parentesi la complessità e le sfumature del suo lavoro, vengono mobilitate le tesi più conosciute di Foucault, riducendolo spesso a una serie di formule e asserzioni relative al potere disciplinare, al rapporto poteri/resistenze o alla governamentalità. D’altra parte, i testi di Foucault – da lui stesso concepiti come “bombe” da utilizzare per mettere in luce configurazioni emergenti di potere e per mostrarne la modificabilità e la contingenza – vengono di fatto “disinnescati” nei loro effetti potenziali di interruzione delle forme di pensiero correnti: più che strumenti da utilizzare per far emergere l’intollerabile dei meccanismi di assoggettamento in un contesto dato, i testi di Foucault vengono così elevati a mera armatura teorico-metodologica da mobilitare contro paradigmi alternativi – si pensi ad esempio allo scontro al quale assistiamo da qualche anno, nel campo delle relazioni internazionali, tra agambeniani (sostenitori delle tesi sullo stato di eccezione e sulla nuda vita) e foucaultiani. Tuttavia, mettere in discussione il gesto accademico di assumere “Foucault come metodo” e come metro di ogni analisi non significa affatto volersi esimere dal rivendicare e dall’esercitare un atteggiamento metodologico di tipo foucaultiano. Al contrario, vi è un’accezione possibile di “Foucault come metodo” che si distanzia da ogni metro normativo costruito a partire dai testi foucaultiani per orientarsi invece verso una problematizzazione del tipo di produzione di sapere che si dà oggi nello spazio accademico e al di fuori di esso. Ripartire dalle indicazioni metodologiche di Foucault


Foucault – un “classico”? 9

rispetto alla politica e alla funzione del sapere e utilizzarle come armi per affermare l’indefinita criticabilità del proprio presente significa attingere alle sue analisi nel tentativo di riattivarne il potenziale esplosivo, aprendo così spazi di critica e di azione rispetto all’oggi che spetta a noi creare senza (volerne o poterne) cercare la formulazione nei testi di Foucault. In questo senso, ci possiamo rifare al celebre avvertimento metodologico enunciato da Foucault in Nietzsche, la genealogia, la storia: «il sapere non è fatto per conoscere, è fatto per prendere posizione»4. Oggi si tratta forse di spingere ancora oltre tale avvertimento, interrogandosi su cosa “prendere posizione” voglia dire e su come ripensare la nostra posizione all’interno della produzione di sapere contemporaneo. Londra, Marsiglia, Parigi, Pisa marzo 2016 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli

M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, p. 55. 4


Il pensiero politico di Foucault a cura di Orazio Irrera e Salvo Vaccaro


Introduzione Orazio Irrera, Salvo Vaccaro

Questo dossier monografico di materiali foucaultiani raccoglie i contributi relativi al Convegno Internazionale “Il pensiero politico di Foucault: governamentalità, biopolitica, post-democrazia”, svoltosi a Palermo il 27 e il 28 novembre 2014. La scelta di dedicare questo evento al pensiero politico di Foucault non deve certamente essere letta in riferimento alle sue particolari idee in fatto di politica, né all’interrogazione tutta accademica se sia lecito parlare di teoria politica nel quadro del pensiero di Foucault o sia più opportuno declinare il suo interesse verso la politica in senso analitico, piuttosto che filosofico-politico. In effetti, molteplici sono i significati della nozione foucaultiana di politica, tanto quanto lo sono gli effetti politici del suo pensiero. In questo lemma, convivono quindi diversi percorsi di analisi, legati reciprocamente ma snodabili singolarmente. Uno di questi è rintracciabile nella critica del paradigma sovranista, tipico dell’intera teoria politica moderna, che Foucault intraprende sia per disvelare la finzione contrattuale quale base trascendente dell’affermazione di una autorità politica legittima, sia per analizzare lo specifico détournement che la pratica liberale di governo effettua contro i poteri tradizionali di ordine regale all’indomani della Gloriosa rivoluzione e, più in generale, nel momento in cui le forze liberali cercano di proporre e imporre il modello di mercato quale sfondo vincolante dell’esistenza dello Stato nazionale. A partire da questa critica, si possono individuare diverse linee di riflessione che declinano la problematizzazione della politica in Foucault (o a partire da Foucault) in funzione dei temi principali proposti al convegno di Palermo: tanto quelli della governamentalità e della biopolitica, quanto quelli meno direttamente foucaultiani legati all’idea di post-democrazia. Sono queste linee di riflessione a fornire i principali assi tematici attorno ai quali si sviluppano molti dei contributi presenti in questo numero. La prima linea di riflessione intende restituire, sottraendola alla rimozione subita, la violenza costitutiva dello Stato moderno, nato materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 11-15.


12 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro dall’accentramento di poteri singolari e di autonomie diffuse nel corpo di una società della quale lo Stato, cercando di diventarne padrone, ha tendenzialmente saturato ogni vitalità, lasciando al lavoro del genealogista la scoperta di tutta una serie di saperi minori e assoggettati nel corso di tanti conflitti, le cui tracce, pur essendo labili, costituiscono nondimeno un contrappunto indispensabile per cogliere il punto di vista di Foucault. In questo senso, si tratta di mostrare come Foucault rimetta il modulo della guerra in quanto analyseur delle relazioni di potere al centro non solo della storia, bensì della vita politica moderna, legando tra loro vari momenti della modernità – dall’attacco all’autorità assoluta condotto, dal Rinascimento ai Lumi (con i suoi intenti progressisti e liberatori), attraverso prerogative discriminanti e in favore di diritti in capo ai singoli individui, tra l’emergere di pratiche e istituzioni penali in cui lo Stato si manifesta per punire e l’affermazione di un diritto di conquista su cui la colonizzazione europea si è considerevolmente appoggiata, servendosi delle colonie come di un laboratorio della propria modernità. La seconda linea di riflessione, parallelamente, esamina da vicino e in modo minuzioso i regimi discorsivi e i dispositivi di potere dell’epoca liberale (leggi, libri, regolamenti, norme tecniche, analisi disciplinari, ecc.), operando quella connessione di eterogenei che costituisce una delle cifre più rilevanti del modo di procedere di Foucault. È a questo livello che l’affermazione sempiterna di meno Stato, più mercato non gioca solo il ruolo di efficace slogan elettorale, bensì rivela una razionalità di governo che presenta importanti elementi di specificità rispetto al potere sovrano e che, gradatamente, dispiega una forza di autorità più sottile, più pervasiva, più capace di aggirare, contenere e mettere a tacere i conflitti, più seduttiva (nel senso letterale di “attrarre a sé”). Ma questo slittamento finisce per configurare in modo diverso anche il rapporto tra governanti e governati, secondo quella modalità che Foucault ha designato come governamentalità e che consiste nel condurre la condotta degli uomini, strutturandone in anticipo il loro possibile campo di azione. Da questo punto di vista, i rapporti tra saperi e poteri si configurano in un spazio di dispersione in cui una molteplicità di pratiche discorsive e di dispositivi di normalizzazione che mettono in discussione la centralità e la verticalità del potere sovrano (fino a parlare di “governamentalizzazione dello Stato”) alludono in qualche modo anche a quella stessa dispersione che si può oggi ritrovare nel termine anglosassone di governance.


Introduzione 13

Una terza linea di riflessione insiste invece sul passaggio dall’era moderna all’era contemporanea che si compie seguendo il cammino che dal liberalismo classico conduce al neo-liberalismo odierno, in cui il terremoto sociale prodotto da quest’ultimo colpisce sempre più sia una dimensione interna ai singoli Stati sovrani nazionali, sia un quadro geopolitico transnazionale, segnato dalla globalizzazione di capitali, merci e stili di vita, in cui le cose acquistano più valore degli individui, ridotti a non-persone, a prescindere dal colore della pelle o dalle fedi anelate. Così, l’indicibilità della violenza costitutiva del potere sovrano, rimossa attraverso l’idea di contratto sociale, dislocata in uno spazio pre-politico, forclusa dall’istanza liberale di governo razionale, relegata a emergenza eccezionale nel pieno dello scontro imperiale delle guerre mondiali o mondializzate, patologizzata sotto forma di reazione animalesca di istinti primordiali duri a civilizzarsi, scaraventata infine nelle periferie del mondo per procura, ritorna prepotentemente nella quotidianità sotto forma di precarietà generalizzata dell’esistenza (considerata nelle sue determinazioni di classe, razza o genere), e finisce persino per modificare la forma stessa della politica. Con ciò sembrerebbe che la discorsività politica in senso aureo si sia inceppata là dove il pensiero politico declinava il realismo politico sul piano interno e internazionale, immunizzandosi attraverso questo stesso gesto dal virus della potenza, della forza violenta elevata a cifra sistemica. Ma questo accadeva non nel segno dell’oscillazione disgiuntiva, come si è sempre data la dialettica tra due ottiche egemoni di lettura (o violenza sovrana o contratto sociale), bensì sotto il prisma della coincidenza, ossia nella compresenza necessaria delle due tattiche del potere politico, ricondotte a unità e allo stesso tempo sovradeterminate dalla governamentalità neoliberale. Soffermarsi allora sul nesso tra governamentalità e potere significa analizzare i modi in cui Foucault precisa la sua nozione di razionalità di governo, mostrandoci l’intreccio di saperi e poteri che la costituiscono, le pressioni normalizzanti che producono determinati e sottili effetti di soggettivazione, la soglia di biforcazione con il paradigma della sovranità attraverso il prisma delle contro-condotte e delle resistenze che la governamentalità neoliberale produce. Significa esaminare da vicino il complesso della governamentalità neoliberale, nella sua ricostruzione storica e nelle sue conseguenze distruttive per la società e in relazione a una certa economia che subisce un appiattimento dirompente sulla preponderante dimensione finanziaria. Significa altresì interrogarsi sulle trasformazioni del potere


14 Orazio Irrera, Salvo Vaccaro politico, del suo concetto e della sua pratica, inseguendone le dinamiche barocche sin dentro le sue pieghe più profonde in cui esso appare lontano da ogni dinamica di rappresentanza. Significa anche sondare l’anima delle tattiche governamentali nei suoi riflessi sui processi di soggettivazione, i quali trovano una feconda base di partenza nelle analisi foucaultiane intorno all’obbligo di dire il vero su di sé in Occidente, una dimensione che Foucault chiama “aleturgia” e all’interno della quale si collocano le sue analisi, dalle perizie medico-legali alla confessione cristiana, dalla cura di sé alla parrhesia. È rispetto a questa dimensione aleturgica che si tratta di cogliere come, secondo Foucault, gli stessi rapporti tra soggettività e verità si ridisegnino a partire dallo sforzo politico di rimettere in questione ogni presunta evidenza e necessità del potere. Da questa prospettiva si tratta di andare al di là della questione marxista dell’ideologia e di far apparire sotto una nuova luce l’intento di storicizzazione radicale implicito nelle analisi genealogica delle modalità attraverso le quali la verità si manifesta nella costituzione stessa di una soggettività – sospesa tra l’assegnazione normativa di un’identità e la possibilità di un atteggiamento critico volto a contestare quelle stesse norme che cercano di costituirla. Questo modo di problematizzare i rapporti tra soggettività e storia politica della verità si pone quindi come un’alternativa rispetto alla trama liberale intessuta di diritti e obblighi di natura normativa che avvolge il soggetto e determina i suoi rapporti con il potere e la verità. Attraverso questi snodi concettuali la nozione di governamentalità, in quanto “condotta delle condotte”, mostra quella molteplicità di significati che Foucault stesso ha spesso rilevato: dirigere e comandare, ma pure orientare e guidare, e infine anche modo di condursi. A partire da questa polisemia, il tema del potere risulta strutturalmente attraversato da una conflittualità che lo rende, nel solco di Nietzsche, lo spazio di un agonismo incessante, nella cui immanenza si sviluppano resistenze, pratiche o saperi attorno ai punti di non-accettazione del potere, i quali possono politicamente comporsi attraverso l’invenzione di inedite forme di esistenza che eccedono l’ordine discorsivo e normativo del potere. Da qui, peraltro, si arriva anche a comprendere meglio lo scetticismo di Foucault verso la democrazia nella forma dello Stato di diritto – regime politico non certo al centro delle sue preoccupazioni teoriche e analitiche. Ed è proprio questo scetticismo a far sì che il suo pensiero politico si presenti anche come


Introduzione 15

una griglia di intelligibilità per la comprensione di uno scenario post-democratico in cui si assiste, da un lato, alla de-politicizzazione delle società moderne e contemporanee, ipotecate dal liberalismo classico prima e dal neoliberalismo successivamente; e dall’altro, all’emergere di esperienze di auto-organizzazione politica e sociale che tentano di sottrarsi alla trama vischiosa della politica istituita, creando spazi di invenzione e di sperimentazione politica. Bisogna infine osservare come, specialmente in Italia, il concetto di biopolitica e di biopotere, anch’essi al centro di alcuni dei contributi di questo numero, delineino da tempo un orizzonte analitico e politico di cruciale importanza, non solo perché sono al centro di numerose riflessioni filosofiche che vanno persino oltre il campo delle analisi foucaultiane, ma anche perché risultano strumenti fondamentali per rivolgersi alla nostra attualità. Investigando tanto le odierne modalità di azione del potere politico quanto la specificità delle nuove configurazioni globali della politica attraverso il prisma di una biopolitica che si trasforma in funzione delle esigenze dell’attuale governamentalità neoliberale, diventa possibile individuare alcuni dei suoi più importanti effetti, transnazionali e locali: dai rapporti tra capitale e lavoro alla gestione e alla moltiplicazione di spazi e frontiere sui cui insistono tragicamente i percorsi di vita di milioni di persone, dalla pressione sulle finanze nazionali e familiari fino ai nuovi assetti del mondo del lavoro precarizzato. È proprio in virtù dell’ampiezza di questo orizzonte tematico e della molteplicità degli angoli di attacco relativi alla questione della politica in Foucault che la convergenza di numerosi studiosi internazionali attorno a questo tema ci è sembrato, ad oltre trent’anni dalla sua scomparsa, un compito ineludibile, sia rispetto alle sue analisi e al presente da cui esse sono scaturite, sia rispetto alla loro incredibile attualità, che può ancora oggi essere colta grazie ai suoi strumenti concettuali e alle sue strategie analitiche, permettendoci infine di problematizzare il nostro atteggiamento intorno ai modi politici di stare al mondo.



Foucault e la post-democrazia neoliberale Oltre la “critica inflazionistica dello Stato” Ottavio Marzocca

Liberalismo, democrazia, governamentalità

Prenderò spunto da un testo pubblicato da Norberto Bobbio nel 1981

(Liberalismo vecchio e nuovo), nel quale il filosofo italiano coglie lucidamente il nesso che in quel momento si va delineando tra l’ascesa prepotente del neoliberalismo e la possibilità di una “crisi della democrazia”. Nel suo testo, Bobbio ricostruisce i termini essenziali del discorso con il quale il neoliberalismo si sta affermando progressivamente insistendo nella sua critica radicale del welfare state: quest’ultimo – secondo i neoliberali – si è arrogato il compito di offrire in misura crescente assistenza e servizi sociali ai cittadini, adottando inevitabilmente decisioni parziali a favore di alcuni e a svantaggio di altri, accrescendo a dismisura la spesa statale, mortificando la libertà di iniziativa economica e imboccando così «la via della schiavitù [the road to serfdom]», come recita il titolo del libro più famoso di Friedrich A. von Hayek. Secondo Bobbio, attraverso questa critica neoliberale delle politiche del welfare state, «liberalismo e democrazia […] mostrano di non essere più del tutto compatibili», dal momento che quelle politiche sono comunque frutto degli sviluppi della democrazia1. Insomma, ciò che al filosofo italiano sembra del tutto chiaro è che il discorso neoliberale non soltanto si sta traducendo in politiche vincenti con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, ma ormai mette decisamente in questione la forma democratica dello Stato come si è configurata storicamente attraverso il suffragio universale, i partiti di massa e la nascita dello Stato sociale2. Nulla di tutto questo sembra emergere immediatamente dal Corso che Foucault dedica al liberalismo e al neoliberalismo due anni prima, nella N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in «MondOperaio», vol. 34 (1981), n. 11, pp. 86-94, ora in N. Bobbio, Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di M. Revelli, Arnoldo Mondadori, Milano 2009, p. 898. 2 Ivi, pp. 888-901. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 17-37.


18 Ottavio Marzocca stessa cruciale congiuntura storica. Ciò che a lui interessa è mettere a fuoco innanzitutto gli elementi essenziali della governamentalità liberale e, in secondo luogo, le trasformazioni che l’hanno portata ai suoi aggiornamenti neoliberali. Perciò, pur ponendo in luce con nettezza che il neoliberalismo ormai determina «il senso del vento»3, egli non sembra percepire il rapporto fra l’imporsi di questo «senso del vento» e la possibile crisi della democrazia, che Bobbio invece intravede. Da parte mia, qui cercherò di verificare se ci si possa accontentare di questa impressione o se piuttosto il lavoro svolto da Foucault nel Corso del 1979 non ci solleciti a impostare diversamente la questione, ovvero innanzitutto a riconoscere come una caratteristica intrascurabile del liberalismo la debolezza del suo legame con la democrazia e, in secondo luogo, a verificare in quale misura questa debolezza si ripresenti nel neoliberalismo. Comunque sia, l’apparente disattenzione foucaultiana verso i destini immediati della democrazia a prima vista sembra potersi spiegare con il suo marcato dissenso – messo bene in luce da Senellart – verso gli allarmi per i pericoli di «fascistizzazione» dello Stato, lanciati negli anni settanta da certi movimenti della sinistra francese4. Ciò che, però, è interessante in proposito è che – secondo Foucault – questi allarmi di fatto convergono con la ricorrente denuncia neoliberale delle tendenze alla statalizzazione della società e delle minacce totalitarie che ne deriverebbero. Sia questa denuncia sia i timori di fascistizzazione dello Stato a lui appaiono ingannevoli soprattutto per una ragione: perché, a suo avviso, nella nostra epoca lo Stato non è lo strumento di una statalizzazione crescente e oppressiva della società, ma è piuttosto l’oggetto di una governamentalizzazione che lo tocca e lo oltrepassa al tempo stesso5. Insomma, il suo dissenso verso certe enfatizzazioni negative del ruolo dello Stato deriva dal suo rifiuto di un «luogo comune critico» che egli definisce «fobia di Stato»6. Si tratta – a suo parere – di una «fobia» che M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, p. 197. 4 Ibidem; M. Foucault, Michel Foucault: la sécurité et l’État, intervista con R. Lefort, in «Tribune socialiste», 24-30 novembre 1977, ora in M. Foucault, Dits et écrits, 1954-1988, a cura di D. Defert et F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, t. III, p. 387; M. Senellart, Situation du cours, in M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004, pp. 385-386. 5 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 197-198; cfr. Id., Sécurité, territoire, population, cit., pp. 112-113. 6 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 193. 3


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trova nel neoliberalismo alcune delle sue espressioni più problematiche, che nel suo Corso egli pone decisamente in discussione7. Ora, io credo che proprio in questo modo Foucault ci offra la possibilità di mettere a fuoco l’attuale debolezza del rapporto fra liberalismo e democrazia; ma non meno importante è che nel suo Corso egli ci aiuta anche a ricostruire i presupposti storici di questa debolezza. Opportunità più che necessità Nel suo Corso del 1979 Foucault non riconosce alcun legame privilegiato fra il liberalismo e la democrazia, limitandosi peraltro ad intendere per “democrazia” le forme istituzionali che normalmente vengono identificate con la “democrazia liberale”, ossia il sistema rappresentativo e lo Stato di diritto. Tutto questo risulta in qualche modo dal fatto che la sua indagine inquadra il liberalismo non tanto come cultura politica, quanto come razionalità e pratica di governo. Da questo punto di vista, per lui, il liberalismo non è altro che una “continuazione con altri mezzi” della governamentalità essenzialmente economica inaugurata dalla Ragion di Stato e praticata dallo Stato di polizia mediante le politiche mercantiliste. In definitiva la governamentalità liberale trova le sue condizioni di possibilità in un contesto storico in cui né il diritto né la rappresentatività di chi governa né la democrazia costituiscono preoccupazioni primarie. Partendo da queste condizioni, il liberalismo continuerà ad affrontare gli stessi problemi di cui si occupava già lo Stato di polizia e a perseguire i suoi stessi obiettivi: arricchimento dello Stato, crescita della popolazione in rapporto allo sviluppo della produzione, equilibrio competitivo fra i paesi8. Impostando in questi termini la genealogia del liberalismo, Foucault ne spiega il successo storico soprattutto col fatto che attraverso l’economia politica esso riesce a far funzionare il libero mercato come principio di limitazione interna delle pratiche di governo tendenzialmente illimitate, inaugurate all’epoca della Ragion di Stato. Ciò che più conta in tal senso – secondo lui – è che l’economia politica liberale indica nel libero funzionamento del mercato la natura indipendente delle cose di cui il governo deve comunque occuparsi, senza aspirare però a determinarle o a controllarle 7 8

Ivi, pp. 113-120 e 192-198. Ivi, pp. 12-16.


20 Ottavio Marzocca in ogni loro aspetto. La libertà del mercato è appunto il limite di fronte al quale una governamentalità costituitasi da tempo come essenzialmente economica, dovrà sapersi arrestare all’occorrenza, cercando di governare il meno possibile9. Se Foucault attribuisce all’economia politica liberale quest’importanza fondamentale è perché riconosce il ruolo preponderante ed essenziale che la razionalità economica svolge nella governamentalità moderna rispetto alla razionalità giuridica, ossia al diritto. Certo, anche il diritto può essere usato come strumento di limitazione degli eccessi di governo; ma esso non è decisivo in tal senso, poiché è e resta «esterno» rispetto al terreno prevalentemente economico su cui la governamentalità moderna si esercita dai tempi della Ragion di Stato. Mediante gli strumenti giuridici si possono eventualmente richiamare i governanti al rispetto dei principi che legittimano il loro potere o dei diritti naturali dell’uomo; questi strumenti però non servono a stabilire se una pratica di governo sia o non sia economicamente efficace e se, perciò, abbia ragion d’essere oppure debba essere evitata o limitata. Viceversa, l’economia politica liberale pretende di avere questa capacità sia per la sua “affinità” con la materia economica delle cose da governare sia perché – come dice Foucault – essa si chiede sempre: «quali sono gli effetti reali della governamentalità al termine del suo esercizio, e non: quali sono i diritti originari che possono fondare questa governamentalità?»10. Perciò, se è certamente vero che il diritto e i limiti giuridici cui dovrebbe attenersi un governo non avevano grande importanza all’epoca dello Stato di polizia, è altrettanto plausibile che con la governamentalità liberale essi non assumeranno una centralità definitiva e incrollabile. Il che – secondo Foucault – è dimostrato dal fatto che la prima grande scuola del liberalismo economico – vale a dire la Fisiocrazia – indica nel dispotismo il regime politico capace di garantire e controllare efficacemente il buon funzionamento di una libera economia di mercato11. Indubbiamente, la proposta di un simile connubio fra dispotismo e libero mercato può essere il frutto dell’immediata contiguità fra il liberalismo economico dei fisiocrati e l’assolutismo dell’ancien régime; ma Foucault va oltre questo inquadramento della questione proiettandola in una dimensione più ampia e mettendo Ivi, pp. 16-21. Ivi, p. 17. 11 Ibidem. 9

10


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in luce la problematicità complessiva del rapporto fra liberalismo, da un lato, diritto e democrazia, dall’altro. A questo riguardo, ovviamente, egli non nega lo «stretto legame» che il liberalismo instaurerà nel XIX secolo con lo Stato di diritto e con i sistemi parlamentari rappresentativi; ma questo, a suo avviso, accadrà soprattutto per ragioni di opportunità, perché – secondo le sue parole – nella «ricerca di una tecnologia liberale di governo […] la regolazione mediante la forma giuridica» risulterà «uno strumento assai più efficace della saggezza e della moderazione dei governanti»; analogamente, «la partecipazione dei governati all’elaborazione della legge in un sistema parlamentare» rappresenterà «lo strumento più efficace di economia governamentale»12. Ciò non toglie, in ogni caso, che per comprendere a fondo la governamentalità liberale – secondo Foucault – occorra tener presente un dato storico intrascurabile che egli illustra in questi termini: come l’economia politica utilizzata innanzitutto come criterio della governamentalità eccessiva, non era liberale né per natura né per virtù, e anzi essa ha ben presto indotto atteggiamenti antiliberali (sia nella Nationalökonomie del XIX secolo sia nelle economie pianificate del XX secolo), allo stesso modo la democrazia e lo Stato di diritto non sono stati necessariamente liberali, né il liberalismo è stato necessariamente democratico o vincolato alle forme del diritto13.

Naturalmente, questa labilità del rapporto fra governamentalità liberale, da un lato, democrazia e diritto, dall’altro, non può essere interpretata come un’inconciliabilità insuperabile. Infatti, il liberalismo elabora certamente delle soluzioni giuridiche formalmente democratiche del problema della limitazione del governo. Esso però ci riesce in modo efficace per i suoi scopi governamentali soprattutto quando segue la sua tendenza a non assolutizzare in maniera irrevocabile il legame dell’azione di governo con il diritto. È per ragioni simili che – secondo Foucault – fra le due principali soluzioni giuridiche elaborate storicamente in tal senso dal liberalismo, quella utilitarista inglese nei fatti ha prevalso sulla soluzione assiomatica scaturita dalla Rivoluzione francese – pur combinandosi in diverse maniere con essa. La soluzione utilitarista è la sola fra le due ad aver affrontato il problema dei limiti del governo economico 12 13

Ivi, p. 326. Ivi, p. 327.


22 Ottavio Marzocca sul suo terreno specifico; in essa infatti la definizione legislativa di questi limiti non viene impostata a partire dai diritti imprescrittibili dell’uomo; viene impostata piuttosto nei termini variabili dell’utilità, dell’inutilità o della dannosità delle leggi e dell’intervento politico del governo rispetto agli interessi – innanzitutto economici – che sono in gioco di volta in volta14. Comunque sia, è abbastanza plausibile che un approccio del genere – portato alle estreme conseguenze – possa finire per sottoporre la stessa democrazia alla valutazione secondo il criterio dell’utile e dell’inutile. Una questione di moralità critica Se questo è ciò che si può dire – molto in generale – sul liberalismo classico riguardo ai suoi rapporti con il diritto e la democrazia dal punto di vista foucaultiano, che cosa si può dire, invece, sul neoliberalismo allo stesso riguardo e dallo stesso punto di vista? È a questo proposito che assume un valore decisivo la problematizzazione della «fobia di Stato». La necessità di questa problematizzazione viene indicata dallo stesso Foucault come una delle ragioni principali che lo hanno spinto a rivolgere tanta attenzione al neoliberalismo. Egli dice infatti che questa attenzione non è dovuta soltanto al fatto che l’indagine sulla governamentalità come «politica economica» l’ha resa necessaria; essa è motivata anche da una «ragione di moralità critica» – come lui la definisce – ovvero dall’esigenza di porre in discussione la «critica inflazionistica» del ruolo dello Stato, che il neoliberalismo non ha mai smesso di svolgere almeno dagli anni trenta del Novecento15. Affrontando quest’esigenza come una questione di «moralità critica», Foucault ci offre un esempio concreto della centralità che nella sua ricerca riveste il rapporto fra discorso critico, attenzione all’esercizio del potere ed impegno etico. Si tratta di un rapporto per lui imprescindibile, che egli tematizza chiaramente già negli anni della sua intensa genealogia della governamentalità16 e che, successivamente, nella sua riflessione sulla parrhesia fiIvi, pp. 40-48. Ivi, pp. 191-192. 16 Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), in «Bulletin de la Société française de Philosophie», n. 2 (1990), pp. 35-63. 14 15


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losofica proporrà con estrema nettezza nei termini di un’impossibilità di pensare le questioni della verità, del potere e dell’ethos al di fuori di una reciproca relazione al tempo stesso necessaria e problematica17. Tornando alla critica neoliberale dello Stato, ciò che di essa a Foucault appare inaccettabile è innanzitutto «l’idea che lo Stato possieda in sé, grazie al suo stesso dinamismo, una sorta di potenza di espansione, un’intrinseca tendenza a crescere, un imperialismo endogeno che lo spinge incessantemente ad espandersi» fino «a prendere totalmente in carico la società civile». Di questa critica, inoltre, a lui risulta profondamente discutibile l’idea che esista una parentela, una sorta di continuità genetica, di implicazione evolutiva tra diverse forme di Stato, lo Stato amministrativo, lo Stato assistenziale, lo Stato burocratico, lo Stato fascista, lo Stato totalitario, considerate tutte, a seconda del tipo di analisi, come i rami successivi di un solo e identico albero che crescerebbe nella sua continuità e nella sua unità, e che sarebbe il grande albero statale18.

Una volta date per scontate l’intrinseca tendenza dello Stato a fagocitare la società e la temibile parentela fra tutte le forme di statalismo vero o presunto, una serie indefinita di cortocircuiti analitici diviene possibile, secondo Foucault: si può arrivare a sostenere, per esempio, che gli apparati amministrativi su cui si basa la sicurezza sociale rischino di avviarci verso i campi di concentramento; in qualunque atto autoritario delle istituzioni politiche si può finire per ravvisare l’annuncio del peggio; e così non ci si sentirà più tenuti ad analizzare nella loro specificità i problemi e i pericoli veramente attuali19. Comunque sia, a rendere decisamente inaffidabile la critica neoliberale dello Stato – secondo Foucault – è che essa non si interroga affatto su se stessa; essa è del tutto indisponibile a riconoscere il peso delle condizioni storiche in cui i suoi argomenti sono maturati. Queste condizioni – egli dice – si sono date soprattutto negli anni trenta e quaranta del Novecento, quando il neoliberalismo ha dovuto fare i conti non solo con le politiche del socialismo sovietico e del nazismo, ma anche con il Keynesismo, il M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009, p. 65. 18 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 192-193. 19 Ivi, pp. 193-194. 17


24 Ottavio Marzocca New Deal americano, il Fronte popolare francese, il Piano Beveridge inglese e così via20. Da quel momento il fallimento del liberalismo classico, cui rinviava ognuno di questi fatti storici, è stato rovesciato nell’idea che ciascuno di essi fosse apparentato con l’altro da una «invariante anti-liberale». Assimilando fra loro strategie, situazioni e regimi diversi in quanto uniti dall’anti‑liberalismo, autori come Friedrich A. von Hayek e Wilhelm Röpke hanno cominciato a indicare nell’interventismo economico-politico che li segnava in misure differenti, il fattore che comunque li legava al totalitarismo o li incamminava sulla sua strada21. A questo riguardo Foucault non si limita ad obiettare, in particolare, che lo «Stato assistenziale, lo Stato del benessere, non ha la stessa forma, né […] la stessa matrice, la stessa origine dello Stato totalitario, dello Stato nazista, fascista o stalinista»22; egli sostiene soprattutto che il totalitarismo, in realtà, è l’esito di una delle due forme di indebolimento dello Stato, che si affermano nel Novecento ognuna attraverso una propria governamentalità: la prima è la governamentalità di partito che ha prodotto i regimi totalitari sottomettendo le istituzioni statali alla ferrea supremazia degli apparati partitici, appunto; la seconda, invece, è esattamente la governamentalità neoliberale che destabilizza continuamente il ruolo dello Stato, denunciandolo come fonte di pericoli costanti23. Può forse suscitare sorpresa la nettezza con cui Foucault respinge le enfatizzazioni neoliberali del ruolo negativo dello Stato. Da lui ci si aspetterebbe piuttosto il sostegno a qualunque denuncia dei pericoli derivanti dalla presenza statale nella società. Ma questa aspettativa si basa, in realtà, sull’idea secondo la quale la sua visione del potere sarebbe riducibile a una sorta di “antistatalismo” preconcetto. Proprio una simile idea, infatti, ha spinto certi suoi critici a interpretare l’attenzione che egli ha dedicato al neoliberalismo come la prova di una fascinazione inconfessata che esso avrebbe esercitato su di lui. Perciò, soprattutto il Corso del 1979 non sarebbe che l’espressione velata di una «profonda affinità» fra il suo pensiero e il neoliberalismo, basata sul «comune sospetto verso Ivi, pp. 194-195. Ivi, pp. 114-115 e 195-196; cfr. F.A. von Hayek, The Road to Serfdom (1944), Routledge, London-New York 2001; W. Röpke, Civitas Humana: Grundfragen der Gesellschafts und Wirtschaftsreform, Rentsch, Erlenbach-Zürich 1944. 22 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 196 23 Ivi, pp. 196-198. 20 21


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lo Stato»24. Leggendo i testi di questi critici, però, ci si rende conto facilmente che essi ignorano deliberatamente – o per pura superficialità – il netto dissenso che Foucault ha espresso verso la critica neoliberale dello Stato. Lo stesso “antistatalismo” che gli si può attribuire, attraverso questo dissenso si rivela tutt’altro che conciliabile col neoliberalismo. Per lui, infatti, non esiste alcun nesso necessario fra l’esigenza di problematizzare il ruolo dello Stato e la sua riduzione a fattore di sottomissione inarrestabile della società. Quest’esigenza nella sua ricerca si traduce piuttosto nel decentramento costante della sua attenzione verso le forme di “governo degli uomini”, che aggirano e attraversano lo Stato rivelando il suo essere parte di insiemi di poteri più complessi di quelli immaginati da chi ne enfatizza il ruolo in senso positivo o negativo25. In ogni caso, proprio su queste basi Foucault riesce a smontare nel modo che abbiamo visto la critica neoliberale dello Stato. Ed è così che indirettamente egli ci pone anche in condizione di comprendere quale spazio il neoliberalismo sia veramente disposto a concedere alla democrazia. La rifondazione economica dello Stato Innanzitutto, in proposito è importante considerare che nell’analisi foucaultiana è il neoliberalismo tedesco ad assumere la rilevanza maggiore. Fra le ragioni di questa rilevanza certamente c’è il fatto che esso è la prima forma di neoliberalismo a mettere in pratica – all’indomani della seconda guerra mondiale – una governamentalità nettamente basata sull’assunto secondo il quale l’interventismo economico-politico sarebbe da scartare a priori in quanto potenzialmente totalitario. Altrettanto importante, inoltre, è che i neoliberali tedeschi (“ordoliberali”) svolgono un ruolo fondamentale nella ricostruzione dello Stato nella Germania occidentale: dal loro punto di vista, se uno Stato democratico può essere ricostruito dopo il nazismo, esso non può essere uno Stato democratico qualunque; esso M.C. Behrent, Le libéralisme sans l’humanisme. Michel Foucault et la philosophie du libre marché, 1976-1979, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale, Aden, Bruxelles 2014, p. 46; cfr. D. Zamora, Foucault, la gauche et les années 1980, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault, cit., pp. 6-11; Id., Foucault, les exclus et le dépérissement néolibéral de l’État, in D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault, cit., pp. 87-113. 25 Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., pp. 112-113, 253, 362. 24


26 Ottavio Marzocca deve essere piuttosto uno Stato i cui cittadini saranno posti fin dall’inizio nelle condizioni di esercitare la propria libertà innanzitutto come libertà economica26. Su questa base – sostiene Foucault – viene inaugurato un rapporto di funzionalità diretta fra Stato di diritto ed economia di mercato, per cui si può dire che lo Stato della Germania occidentale si costituisca come «Stato radicalmente economico»27. Lo Stato democratico, insomma, qui si profila fin dall’inizio come il guardiano attento del libero mercato, che eventualmente può operare degli interventi non tanto sull’economia, quanto su ciò che dall’esterno ne può compromettere il funzionamento secondo il principio della concorrenza28. In realtà – come emerge dalla stessa analisi di Foucault – non sono soltanto gli ordoliberali tedeschi a teorizzare la necessità di un nesso immediato fra Stato di diritto e libertà economica. A questo riguardo, infatti, è imprescindibile anche l’influentissima riflessione di Friedrich A. von Hayek. Ferme restando le intrascurabili differenze di posizioni che si danno fra gli ordoliberali ed Hayek, anche secondo quest’ultimo la stabile garanzia giuridica della libertà come libertà economica è la condizione costantemente necessaria della legittimità di uno Stato di diritto democratico. Anche per lui lo Stato di diritto scongiura il rischio totalitario soltanto se istituisce e fa rispettare regole certe e universalmente valide del gioco della concorrenza economica29. Comunque sia, tanto nel caso di Hayek che in quello dei neoliberali tedeschi, «l’idea di far valere i principi di uno stato di diritto nell’economia» non mira semplicemente a ripudiare le esperienze nazi-fasciste e il socialismo sovietico. In realtà, quest’idea mira «a tutt’altro» – dice Foucault –; essa mira «a tutte le forme di intervento legale nell’ordine dell’economia che […] soprattutto gli stati democratici» hanno cominciato a praticare col «New Deal americano» e con «la pianificazione di tipo inglese»30. Da questo punto di vista, in sostanza, a risultare intollerabile per il neoliberalismo è il fatto che delle politiche interventistiche siano scaturite dal seno stesso di paesi liberali per antonomasia. Anche per questo – in particolare per i neoliberali tedeschi – il libero mercato M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 82-86. Ivi, p. 87. 28 Ivi, pp. 176-184. 29 Ivi, pp. 177-179; cfr. F.A. von Hayek, The Road to Serfdom, cit., pp. 75-90. 30 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 176-177. 26 27


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non può più essere considerato nei termini di un ingenuo “naturalismo”: per loro, il mercato non è più la “natura” delle cose economiche cui lo Stato deve semplicemente concedere spazio. Esso deve essere l’oggetto di un’opzione preventiva e permanente che definisce le funzioni principali e delimita lo spazio delle istituzioni politiche, fondandone così la legittimità e marcando precisamente il senso del loro essere democratiche31. Acrobazie del diritto Anche il ruolo che qui Foucault riconosce al diritto sembra poter suscitare qualche sorpresa. Egli, infatti, generalmente ne mette profondamente in discussione l’importanza sia politica che euristica, poiché lo considera strettamente connesso all’idea riduttiva di potere, corrispondente al concetto di sovranità32. In ogni caso, nel Corso del 1979 la “secondarietà” del diritto viene confermata, dal momento che esso risulta comunque meno adeguato dell’economia politica sul piano governamentale. Tuttavia Foucault lo associa in modo esplicito anche alla democrazia, pur considerando quest’ultima nelle sue canoniche forme istituzionali. Di conseguenza, la “secondarietà” del diritto all’interno della governamentalità liberale finisce per rivelarsi una prova importante, per quanto indiretta, della stessa debolezza del rapporto fra liberalismo e democrazia. Ciò non toglie che, secondo Foucault, in certi contesti storici il diritto instauri una netta relazione di funzionalità con la razionalità economica; esso perciò acquista un suo rilievo sul piano governamentale come accade nei casi della sua declinazione utilitarista, dell’approccio neoliberale tedesco o della prospettiva delineata da Hayek. Negli ultimi due casi si assiste peraltro a una chiara ripresa del concetto di Stato di diritto. Va sottolineato, però, che qui questo concetto viene mutuato dalla tradizione tedesca del Rechtstaat e da quella anglosassone del Rule of Law, ossia da culture giuridiche differenti dalla visione assiomatico-illuministica che ha prodotto la centralità dei diritti dell’uomo. A partire da quelle tradizioni il diritto può essere concepito come armatura giuridica formale che deve garantire Ivi, pp.85-86. Cfr., tra l’altro, M. Foucault, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France. 1976, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Seuil/Gallimard, Paris 1997, pp. 23-25, 30-33. 31 32


28 Ottavio Marzocca la certezza, la stabilità e l’imparzialità della legge, ma non necessariamente l’irrinunciabilità di determinati principi o finalità33. Per questo i neoliberali possono pensare di trasformarlo in strumentazione direttamente funzionale alla supremazia dell’economia di mercato, rendendo costantemente possibile al tempo stesso la divergenza fra governo economico, da un lato, agibilità della democrazia politica, dall’altro. In ogni caso, secondo Foucault, le pratiche concrete di governo nella storia del liberalismo non restano mai vincolate a rigide visioni dottrinarie della legge. Nella loro analisi, perciò, diviene imprescindibile la messa a fuoco della sicurezza come «criterio per calcolare il costo della libertà», che consente a queste pratiche di variare secondo convenienza il loro rapporto col diritto e con le condizioni di democrazia 34. Si tratta di un orientamento che il neoliberalismo conferma decisamente, declinandolo – come direbbe Robert Castel – in termini di «sicurezza civile» e di ordine pubblico più che di «sicurezza sociale» e di welfare35. Anche per questo Foucault, opponendosi a questa tendenza nell’attualità della società neoliberale nascente, arriva a sostenere che «ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi»36. Anche per questo, inoltre, i diritti degli uomini in quanto governati per lui diverranno oggetto di preoccupazione e di impegno politico crescente37.

M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 172-181; cfr. M. Senellart, La questione dello Stato di diritto in Michel Foucault, in M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, duepunti edizioni, Palermo 2009, pp. 239-268; J. Raz, The Rule of Law and Its Virtue, in A. Kavanagh e J. Oberdiek (a cura di), Arguing About Law, Routledge, London-New York 2009, pp. 181-192. 34 Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 66-70. 35 Cfr. R. Castel, L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protégé?, Seuil, Paris 2003. 36 Cfr. M. Foucault, Michel Foucault: “Désormais, la sécurité est au-dessus des lois”, intervista con J.-P. Kaufmann, in «Le Matin», n. 225 (1977), p. 15, ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. III, pp. 366-368. 37 Cfr. tra l’altro M. Foucault, Va-t-on extrader Klaus Croissant?, in «Le Nouvel Observateur», n. 679 (1977), pp. 62-63, ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. III, pp. 361365; Id., Face aux gouvernements, les droits de l’homme, in «Libération», n. 967 (1984), p. 22, ora in M. Foucault, Dits et écrits, cit., t. IV, pp. 707-708; S. Vaccaro, I diritti dei governati, in M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 7-30. In proposito mi permetto di rinviare inoltre a O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, manifestolibri, Roma 2007, pp. 50-51, 131-134. 33


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Verso l’individuo impresa La generalizzabilità dello schema analitico che emerge dal Corso foucaultiano del 1979, naturalmente, andrebbe verificata attentamente. Essa sembra trovare una conferma addirittura “per eccesso” nella specifica declinazione del rapporto fra Stato e mercato, che – secondo lo stesso Foucault – è stata promossa dal neoliberalismo americano: quest’ultimo sbilancia più nettamente di quanto non accada in altri casi tale rapporto a favore del mercato il quale diviene perciò un «tribunale economico permanente» di ogni iniziativa e di ogni politica statale38. Non si può dimenticare, d’altra parte, che la prospettiva delineata dal neoliberalismo dopo la seconda guerra mondiale è stata condizionata profondamente dalle lotte sociali e dalle politiche welfariste dei trent’anni gloriosi. Di certo, però, la conversione della socialdemocrazia tedesca agli imperativi dell’economia di mercato – verificatasi con il Congresso di Bad Godesberg nel 1959 – mostra in modo chiaro fin dove sia arrivato il successo conseguito dagli ordoliberali nella loro rifondazione radicalmente economica dello Stato della Germania occidentale39. In generale, inoltre, l’analisi foucaultiana sembra in gran parte applicabile alla storia – soprattutto recente – dell’Unione Europea40. Anzi, oggi si può dire che l’Unione Europea non possa pretendere di divenire un’istituzione attendibilmente democratica, poiché – da un punto di vista neoliberale – non sembra mai poter garantire fino in fondo di basarsi sulla supremazia del mercato. Al di là di tutto questo, però, non bisogna perdere di vista l’effetto sociale principale della prevalenza del neoliberalismo sulle altre forme di governo, che Foucault indica chiaramente: si tratta della diffusione «della forma “impresa” all’interno del corpo sociale»41. In altre parole, protagonista della società neoliberale – secondo lui – è il soggetto economico inteso non più semplicemente come attore dello scambio, ma come individuo-impresa, detentore di un capitale umano, imprenditore e venditore di se stesso42. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 253. Ivi, pp. 89-92. 40 Cfr. P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009, parte III, cap. 11. 41 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 154. 42 Ivi, pp. 231-232; cfr. P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde, cit., pp. 409-414; M. Nicoli, «Io sono un’impresa». Biopolitica e capitale umano, in «aut aut», n. 356 (2012), pp. 85-99; M. Nicoli e L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 49-74. 38

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30 Ottavio Marzocca Si sa con quanta efficacia Foucault individui in questa ridefinizione dell’homo oeconomicus l’espressione compiuta di una soggettività pronta a rispondere generalmente con un comportamento economico alle modificazioni del suo ambiente. I teorici americani del capitale umano portano alle estreme conseguenze questa visione considerando anche l’individuo criminale come una «qualunque persona che investa in un’azione, si attenda da ciò un profitto e accetti il rischio di una perdita» che, nel caso specifico, è la «perdita economica che viene inflitta da un sistema penale»43. Il crimine stesso, dunque, viene assunto come un fenomeno economico, come un’«offerta» che occorre scoraggiare con una «domanda negativa». Ed è proprio a questo riguardo che, secondo Foucault, emerge il valore paradigmatico delle tecniche di condizionamento ambientale dei comportamenti in quanto sensibili «ai cambiamenti nei guadagni e nelle perdite»44. La legge stessa, infatti, qui figura come «regola del gioco», che determina costi e benefici per gli attori sociali i quali saranno indotti così ad agire secondo una razionalità di tipo economico45. Insomma – secondo Foucault –, l’homo neoliberalis è il soggetto più prevedibile e più adatto ad essere governato mediante gli stimoli appropriati46. Può apparire singolare, perciò, che egli lo avvicini al soggetto di interesse secondo la raffigurazione che ne ha dato Hume, ossia come soggetto essenzialmente irriducibile al governo. Ma, in realtà, le ragioni per cui questo avvicinamento è possibile si possono capire agevolmente; d’altra parte, occorre comprendere bene anche le differenze che intercorrono fra il contesto del classico soggetto d’interesse e quello dell’individuo-impresa contemporaneo. Interesse e rappresentanza Hume, in effetti, disegna il soggetto d’interesse come profondamente indisponibile ad obbedire indefinitamente al governo; questa sua indisponibilità, in ogni caso, si dà nella misura in cui il governo tende ad ingiungergli di prescindere dal suo interesse in nome di una razionalità giuridico-politica M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 258. Ivi, p. 264. 45 Ivi, pp. 256-266. 46 Ivi, pp. 272-275. 43 44


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“superiore”. Poiché l’interesse è la motivazione assolutamente incoercibile dell’azione di questo individuo, la sanzione legislativa e politica dei suoi obblighi non può che esserne profondamente condizionata: essi valgono davvero – secondo Hume – finché il potere che li impone garantisce la sicurezza del commercio e delle relazioni da cui questo individuo ricava i propri vantaggi; questi obblighi, perciò, dovranno cessare quando venga meno l’interesse a rispettarli47. Di conseguenza – osserva Foucault – il soggetto di interesse non potrà mai identificarsi interamente col soggetto di diritto. Il primo non potrà che eccedere indefinitamente i limiti del secondo in relazione al variare dei propri interessi e delle capacità del governo di garantirli48. L’implicazione principale di questo rapporto fra interesse e diritto sembra essere la seguente: questo rapporto non può che comportare una revocabilità permanente di qualunque decisione politica che pretenda di far valere soprattutto ciò che è pubblico rispetto a ciò che è privato, ciò che è comune rispetto a ciò che è proprio. E questo lo si può dire anche nel caso in cui questa decisione sia presa da un potere democraticamente rappresentativo. Anzi, se esso è rappresentativo, può e deve essere tanto più funzionale agli interessi. Anche se Foucault non assume tra i suoi riferimenti Benjamin Constant, sarà quest’ultimo a esplicitare chiaramente queste conseguenze della centralità socio-politica del soggetto di interesse. È in tal senso che si possono leggere le conclusioni che egli trarrà dal suo paragone fra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Nel suo testo più famoso, Constant non si limita a porre in luce che l’uomo moderno non riesce a partecipare pienamente alla vita politica come il cittadino dell’antichità, poiché le società in cui vive sono più grandi e complesse di quelle delle antiche città-stato. Secondo lui, sono soprattutto altre due le implicazioni inaggirabili di questa situazione: la prima è che la libertà cui i moderni possono dedicarsi, e difatti si dedicano, davvero nelle loro società troppo grandi e complesse consiste nel godimento della loro indipendenza privata; la seconda è che il sistema politico rappresentativo è il più adeguato a questo stato di cose proprio perché lascia Ivi, pp. 277-278; D. Hume, Of the Original Contract, in Id., Essays Moral, Political, and Literary. Part II (1752), in Id., The Philosophical Works, a cura di Th. Hill Green e Th. Hodge Grose (Reprint of the new edition Longman, London 1882), Scientia Verlag Aalen, Darmstadt 1964, vol. III, pp. 455-456; D. Hume, A Treatise of Human Nature and Dialogues Concerning Natural Religion (1739-1740), in Id., The Philosophical Works, cit., vol. II, p. 316. 48 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 275-280. 47


32 Ottavio Marzocca agli individui la possibilità di perseguire indefinitamente i loro interessi particolari, demandando ai rappresentanti politici il compito di garantirne la sicurezza e revocando il loro mandato se essi non rispondono a questo compito49. L’autore, naturalmente, raccomanda ai moderni di non trascurare del tutto la partecipazione politica e di trovare il modo di praticarla in qualche misura. Ma è evidente che essa non potrà che restare profondamente condizionata dalla priorità degli interessi privati e ingabbiata nei limiti di una vigilanza da esercitare sul governo affinché li promuova effettivamente. Democrazia condizionata Tornando dunque a Foucault, qual è il nesso fra l’indocilità del classico soggetto di interesse rispetto al governo e l’essenziale governabilità che egli attribuisce all’individuo-impresa contemporaneo? A tale riguardo vale certamente l’indicazione che Foucault stesso fornisce implicitamente, domandandosi se l’homo oeconomicus non fosse fin dall’inizio – ossia già nella forma di puro e semplice soggetto di interesse – un «soggetto che permetteva a un’arte di governare di regolarsi secondo il principio dell’economia»50. Insomma, dal suo punto di vista, si può dire che l’homo oeconomicus in qualunque sua “versione” sia “ingovernabile” solo nella misura in cui non lo si governa in base agli interessi che vuol far valere sul mercato. Questo individuo, in altre parole, può essere considerato libero e governabile al tempo stesso, poiché nella società liberale, da un lato, viene concepito come un uomo che può sentirsi libero se riesce a fare il proprio tornaconto e, dall’altro, viene posto nelle condizioni politiche perché continui a comportarsi in tal modo, dando per certo che ne derivi un vantaggio generale. Una volta che la sua inclinazione a fare il proprio interesse venga assunta come propensione indiscutibile che scaturisce spontaneamente dal suo comportamento, il governo che si impegnerà nel promuovere questa sua propensione potrà comunque continuare a governarlo a questo scopo B. Constant, De la liberté des anciens comparée a celle des modernes, in Id., Collection complète des ouvrages publiés sur le Gouvernement représentatif et la Constitution actuelle de la France, formant une espèce de Cours de politique constitutionnelle, Bechet, Paris-Rouen 1820, vol. IV, pp. 238-274. 50 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 275. 49


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e la sua libertà individuale potrà continuare ad essere considerata generalmente salva e pienamente esercitata. Detto questo in generale, Foucault ci consente di dire anche qualcosa di più preciso sulla nostra attualità. Poiché il neoliberalismo ormai promuove, da un lato, la funzionalità diretta delle istituzioni politiche al mercato e, dall’altro, il deciso privilegiamento governamentale dell’individuoimpresa, l’originaria indocilità del soggetto di interesse al governo qui non è più semplicemente la causa di rotture eventuali del patto fra governati e governanti in nome degli interessi. Essa si trasforma in una ragione determinante per rendere funzionali la politica e la democrazia alla prevalenza dell’interesse sia come motivazione spontanea del comportamento individuale, sia come attitudine necessaria di tutti e di ciascuno a realizzare la propria libertà sul mercato in forma economica e privata. Perciò quel rapporto problematico con il diritto e la democrazia, che a Foucault sembra caratteristico del liberalismo nel suo complesso, col neoliberalismo tende a tradursi in rinunciabilità permanente della democrazia, ancor più che del diritto, in nome della prevalenza del mercato e dell’individuo-impresa. È noto del resto che Friedrich A. von Hayek, come pure Isaiah Berlin, sono piuttosto espliciti sulla “ricusabilità” della democrazia: il liberalismo e la democrazia – secondo loro – non corrispondono necessariamente l’uno all’altra, poiché il primo è interessato alla limitazione dei poteri di chi governa, in funzione della libertà privata dell’individuo; la seconda tende invece a legittimare il perseguimento di qualunque finalità politica, purché confortata dal consenso maggioritario dei governati. Proprio per questo – a loro avviso – la democrazia può sempre divenire illimitata e quindi totalitaria; di conseguenza essa non sarà sempre e comunque preferibile ad altri regimi politici51. In base a tutto questo è possibile forse confrontare due casi storici di applicazione della razionalità politica neoliberale come la Germania occidentale del secondo dopoguerra e il Cile di Pinochet, osservando ciò che segue: la Germania occidentale si è costituita come Stato democratico impegnandosi preventivamente ad essere uno Stato radicalmente fondato sull’economia di mercato; il Cile, invece, nel 1973 ha “cessato” di essere uno Stato democratico poiché – in quanto tale – non garantiva effettivaF.A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge & Kegan Paul, London 1982, vol. III, pp. 1-40; I. Berlin, Two Concepts of Liberty, in Id., Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford 1969, pp. 129-131. 51


34 Ottavio Marzocca mente la libertà del mercato ed è stato perciò sottoposto a un governo “dispotico” che assicurasse in modo radicale questa libertà. Come si sa, del resto, a questo riguardo gli esponenti più autorevoli del neoliberalismo non hanno mancato di esprimere il loro consenso sull’opportunità di una simile “sospensione” della democrazia52. Post-democrazia Volendo concludere, a questo punto si può sostenere che – inquadrata in questi termini – l’indagine foucaultiana su liberalismo e neoliberalismo non serva soltanto a precisare i termini di quella “crisi della democrazia”, che Bobbio paventava a suo tempo, ma abbia anche molto da dirci sul tema della post-democrazia che emerge dalle riflessioni di autori come Colin Crouch e Jacques Rancière. Non si tratta, però, di segnalare in modo inevitabilmente sommario affinità e divergenze tra Foucault e questi autori. Piuttosto, si può provare a porre qualche questione conclusiva richiamando rapidamente le loro tesi. Per Crouch – come è noto – la post-democrazia è la condizione che si crea oggi non tanto con il declino della democrazia rappresentativa liberale, quanto con la riduzione progressiva della politica al funzionamento autoreferenziale dei suoi meccanismi elettorali e, soprattutto, con la privatizzazione crescente di attività e servizi fino a ieri di competenza pubblica. Secondo l’autore, la democrazia liberale riafferma in tal modo la sua vocazione a concedere il massimo spazio agli interessi privati, spingendo proprio così la società verso la post-democrazia; oggi, infatti, il regime democratico-liberale ormai «lascia un largo margine di libertà alle attività delle lobby, […] soprattutto a quelle economiche, e incoraggia una forma di governo che evita interferenze con l’economia capitalistica»; d’altra parte, esso scoraggia sempre più il «coinvolgimento» di cittadini e «organizzazioni» che sono «al di fuori dell’ambito economico»53. Secondo Rancière, invece, si dà post-democrazia quando la politica viene identificata senza resti con la pratica della concertazione degli interessi. Post-democrazia è la riduzione governamentale della democrazia Cfr. F.A. von Hayek, De la servidumbre a la libertad, intervista con L. Santa Cruz, in «El Mercurio», 19 aprile 1981, pp. D1-D2; J. Primera, Milton Friedman y sus recomendaciones a Chile, in «Cato», 17 novembre 2006, <http://www.elcato.org/autor/jos-piera-0> (consultato il 18-02-2016). 53 C. Crouch, Post-democrazia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 5-6. 52


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alla composizione consensuale degli interessi mediante la distribuzione di ruoli e di “quote” alle parti sociali. Qui il problema maggiore consiste nel fatto che le “parti sociali” vengono date come certamente identificabili e naturalmente riconducibili ad un assetto armonizzabile della società. In tal modo, è la politica stessa – insieme alla democrazia – a declinare, poiché la condizione di entrambe è piuttosto la possibilità del disaccordo, la comparsa di soggettività che sollevano in modo radicale la questione dell’eguaglianza, rompendo così il gioco degli interessi e delle identità riconoscibili in relazione a questo gioco54. In definitiva, sia per Rancière che per lo stesso Crouch la democrazia e le soggettività politiche che la rendono effettiva, si danno soprattutto come eccedenze rispetto al protagonismo politico-economico del soggetto di interesse e, più in generale, rispetto ai processi di privatizzazione della sfera pubblica. In generale, dunque, sembra che le analisi dei due autori possano articolarsi in modo fecondo con lo schema analitico che si può ricavare dal lavoro di Foucault. Tuttavia, non credo che esse possano servire a “incorniciare” il discorso foucaultiano. Infatti, potrebbe essere più opportuno fare il contrario per porre in luce alcuni problemi intrascurabili che paiono sfuggire ai due autori. Essi, in particolare, non mettono a fuoco in alcun modo il fatto che nella società attuale i processi di privatizzazione si basano sempre più sul consenso e sulla presenza socialmente diffusa di un individuo-impresa ormai profondamente permeato di governamentalità neoliberale. Questo individuo non soltanto è una figura refrattaria all’idea di democrazia, ma è anche una soggettività che si contrappone o viene contrapposta sistematicamente a chi interviene nello spazio pubblico per porre problemi non riducibili alla razionalità economica. Il che accade anche o soprattutto quando questa figura si scontra con le crescenti difficoltà a farsi valere su un mercato globale sempre meno controllabile, scoprendosi sempre più spesso come semplice «uomo indebitato»55. Mi riferisco – per fare solo qualche esempio – alle esplosioni di crescente aggressività nei confronti degli immigrati e di chi rivendica diritti per loro o all’ordinaria indisponibilità dell’homo neoliberalis a farsi carico – in quanto “cittadino” e “abitanJ. Rancière, La Mésentente. Politique et Philosophie, Galilée, Paris 1995, pp. 141-143; Id., Who Is the Subject of the Rights of Man?, in «The South Atlantic Quarterly», vol. 103 (2004), n. 2-3, p. 306. 55 Cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, Paris 2011. 54


36 Ottavio Marzocca te” – della grave complessità dei problemi dell’ambiente, del territorio e dei beni comuni, se non contestando i governi nei momenti dei disastri e delle emergenze. In una situazione simile sorgono esigenze radicali di “contro-condotta” democratica, post-liberale e trans-economica, cui non si può pensare di rispondere semplicemente affidandosi all’irruzione imprevedibile dei «senza parte» (Rancière) o alla rigenerazione volontaristica del rapporto fra «partiti progressisti» e movimenti sociali (Crouch). Queste esigenze, infatti, ci pongono di fronte a questioni generali che qui mi limiterò a sintetizzare con una domanda semplice: quali percorsi di soggettivazione – etica e politica, individuale e collettiva – consentono oggi di far valere delle verità irriducibili all’economia e di innestarle su pratiche conseguenti della politica e della democrazia? Naturalmente, interrogativi come questo non andrebbero rivolti soltanto a Crouch e a Rancière. Comunque, forse per cercare qualche risposta bisognerebbe partire dal Foucault che, prima della sua morte, riflette sulla figura del filosofo cinico il quale pratica la parrhesia – ossia il coraggio di parlare con franchezza – sia dicendo sfrontatamente la verità sulla pubblica piazza sia vivendo una vita scandalosamente povera. Egli sfida e ridicolizza così non solo la prosopopea dei governanti, ma anche l’attitudine dei governati a ripiegarsi sulle proprie misere ambizioni56. Questa riflessione – come si sa – è il punto di arrivo di un percorso che Foucault dedica in gran parte alla relazione fra crisi della democrazia antica e crisi della parrhesia57. Nella sua analisi, le due crisi sembrano alimentarsi a vicenda; ma il filosofo cinico – radicalizzando la pratica parresiastica con il suo modo di vivere e protraendola fin dentro l’epoca della Roma imperiale – dimostra che solo la democrazia non sopravvive alla sua crisi se si riduce ad essere “governo” degli uomini, che per lo più ne asseconda il tornaconto. Ottavio Marzocca Università degli Studi di Bari Aldo Moro ottavio.marzocca@uniba.it

Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., pp. 152-294. Ivi, pp. 33-107; M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 137-204. 56 57


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. Foucault and the Neoliberal Post-Democracy. Beyond the “Inflationary Criticism of the State” Foucault does not recognize any special relationship between liberalism and democracy, even though he contemplates the second in its forms which are generally associated with liberalism itself. In this sense, it is easy to see the profound difference that he points out, in his 1979 Course, between the economic rationality of liberal governmental practices and the legal rationality of human rights. Furthermore, his rejection of the “inflationary criticism of the State” which neoliberalism propounds in the 20th century, can be interpreted in a similar way. Recognizing an unprovable totalitarian danger in any political intervention in the market, neoliberalism also casts permanent suspicion on democracy, conditioning it and limiting it considerably. These implications of Foucault’s research seem to agree to some extent with the current analyses of post-democracy. However, these analyses do not focus on the ethical and political supremacy of the entrepreneur of himself, as pointed out by Foucault. Today this supremacy creates a need for ways of “alternative subjectification”, that have not yet been suitably deliberated. Keywords: Liberalism, Neoliberalism, Democracy, Criticism of the State, Entrepreneur of Himself, Post-Democracy, Governmentality.



Pensare Marx con Foucault e Foucault con Marx Jacques Bidet

Il mio libro Foucault avec Marx

si propone di cercare le condizioni di una collaborazione critica fra le prospettive dei due autori. Si tratta del Foucault degli anni settanta in relazione al Marx del Capitale. Li analizzo mediante un programma di ricerca che definisco un approccio “metastrutturale” della modernità2. 1

1. Parto da un errore di Marx. Questi intraprende, com’è noto, un’analisi della società moderna come “fenomeno sociale totale” in movimento, che articola tecnologia, economia, sociologia, aspetto giuridico-politico e cultural-ideologico. Si veda lo schema che Marx propone nella forma di edificio infra/sovrastruttura. L’“errore” di cui parlo non riguarda specificamente la “base economica”, ma il paradigma nel suo complesso, l’uso che ne fa Marx per l’analisi della società moderna (nel senso ampio in cui intende questo termine). Marx considera la modernità non in termini di “ragione”, ma di strumentalizzazione della ragione – da non confondersi con lo schema francofortese di una “ragione strumentale”. La prima Sezione del Libro I del Capitale definisce la logica di produzione del mercato, nella quale si trova implicata la ragione giuridico-economica mercantile. La terza Sezione mostra come, quando la forza-lavoro stessa diviene una merce, questa ragione mercantile si trovi strutturalmente strumentalizzata. Ma, agli occhi di Marx, la struttura capitalistica presenta una tendenza storica che spinge verso la propria autodistruzione: è la conclusione verso la quale tende tutto il Libro I. In effetti, se la società capitalistica è governata dal mercato, l’impresa J. Bidet, Foucault avec Marx, La fabrique éditions, Paris 2014. Vi si troverà un’argomentazione più articolata e documentata delle prospettive qui presentate. 2 Questo concetto di “metastruttura” è al centro dello schema di analisi sul quale lavoro da tre decenni e che sviluppo ulteriormente nel libro sopracitato. Rinvia all’idea che le strutture moderne di classi devono essere comprese a partire dalla strumentalizzazione dei loro presupposti razionali, nel senso in cui, secondo Marx, il capitalismo strumentalizza il mercato (la propria metastruttura) che esso stesso suppone e produce. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 39-51.


40 Jacques Bidet che emerge al suo interno funziona secondo l’altro modo di coordinazione razionale su scala sociale, cioè l’organizzazione3. Man mano che il capitalismo si sviluppa, le imprese sono sempre più grandi e sempre meno numerose. Alla fine, forse una per settore, dice Marx4. La logica del mercato si trova allora messa ai margini da quella dell’organizzazione. E la classe operaia industriale, sempre più numerosa, istruita dalla tecnica e organizzata dal processo stesso di produzione, non può evitare di darsi come prospettiva un’appropriazione comune della macchina produttiva nel suo insieme e un governo della produzione secondo dei piani concertati fra tutti5. I produttori si riapproprieranno così della loro capacità di ragione comune. Si riconosce qui il grande mito emancipatore del XX secolo. L’errore di Marx si manifesta nella prospettiva teleologica così sviluppata. Aveva d’altronde egli stesso intravisto il pericolo. La ben nota affermazione della Critica del programma di Gotha ne è una testimonianza: in una prima fase del comunismo, dopo la sparizione del potere-capitale, resterà ancora, dice Marx in buona sostanza, la “subordinazione asservente” che è quella del “lavoro manuale” al “lavoro intellettuale”. Per dirlo con Foucault: resterà il potere-sapere. Il seguito della storia ha mostrato come quest’ultimo sia effettivamente divenuto sempre più potente, al punto da suscitare, nel “socialismo reale”, una nuova classe dominante. Ma l’errore non è soltanto teleologico. È ontologico. Si lega paradossalmente a una scoperta essenziale di Marx: il carattere centrale della coppia mercato/organizzazione, che egli rende il perno della propria analisi. Marx comprende questi due termini come le due mediazioni razionali, di cui si può dire che sostituiscano l’immediatezza della relazione discorsiva propria alla cooperazione immediata. Ma le comprende in una sequenza storica, che conduce progressivamente dal mercato all’organizzazione. In realtà, nella società moderna, queste due mediazioni sono strutturalmente contemporanee, poiché formano i due poli della sua razionalità economica, quello del tra-singoli e quello del tra-tutti. Di cui l’altra faccia, giuridico-politica, sono la contrattualità interindividuale e la contrattualità centrale, alias “libertà È l’oggetto della sezione 4 del capitolo 14 (12 nell’edizione tedesca) del Libro I del Capitale, che tratta della “divisione del lavoro nella manifattura e nella società”, compresa secondo la coppia mercato/organizzazione. 4 K. Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 24, II (parte finale), MEW 23, S. 655-656. 5 Questo è il senso generale del penultimo capitolo del Libro I del Capitale, che viene considerato a giusto titolo come la sua conclusione generale. 3


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dei Moderni” e “libertà degli Antichi” (altrettanto moderna). Se così è, la Ragione strumentalizzata della società moderna, la finzione moderna di Ragione, sempre presupposta e allo stesso tempo riprodotta, è da comprendere nei termini di questa bipolarità. Queste due forme di coordinazione danno luogo a due specie di privilegi: uno di proprietà sul mercato, l’altro di “competenza” nell’organizzazione. Ecco perché la classe dominante comporta due poli, quello del potere-capitale, esplorato da Marx, e quello del potere-sapere, descritto da Foucault (e alcuni altri…). Si intravede qui un punto di giunzione possibile tra i due, ancora problematico. È il pilastro dell’analisi che designo come “metastrutturale”. 2. Il potere del proprietario capitalista è quello di comprare, vendere, investire, assumere, licenziare, prestare, prendere a prestito, localizzare, delocalizzare, ecc. In Sorvegliare e punire, Foucault mostra chiaramente che c’è un altro potere, che consiste nel marcare i luoghi e i tempi, gli itinerari e le tappe, nel determinare norme, performance, nel fissare compiti e prove, classificare e gerarchizzare, includere ed escludere. E ciò in tutti i campi: impresa, amministrazione, ospedale, prigione, scuola, esercito. Anche Bourdieu riconosce un “capitale culturale” di fronte al “capitale economico”; sviluppa un concetto di “distinzione” secondo uno schema analogo di normazione e gerarchizzazione, inclusione ed esclusione; e propone una teoria della riproduzione di questo rapporto sociale. Foucault non cerca di sapere come quest’ultimo si riproduce, ma come si esercita. Si esercita in pratiche, in atti che sono anche atti di parola, in un linguaggio che è quello del trattamento dell’uomo da parte dell’uomo. Foucault si propone di farne la storia, che designa come una “storia della verità”. Non una storia delle conoscenze scientifiche. Ma una storia di ciò che è proposto e ricevuto come vero. Questa “verità” di cui Foucault parla deve essere presa, mi sembra, nel senso pieno di “validità”, nei termini di un agire comunicazionale6. Si tratta di una pretesa di validità, Geltungsanspruch, che si declina secondo il triplo registro del vero, wahr, del giusto, richtig, e dell’autentico, wahrhaftig. È noto il paradigma dell’ascensorista che dichiara “è vietato fumare”: si presume che enunci una verità vera (è pericoloso per tutti), una norma giusta (sarebbe scorretto), un’autorità autentica (ho il potere di dirvelo). Allo stesso Si veda in particolare J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1985, S. 397-426. 6


42 Jacques Bidet modo per il discorso foucaultiano. Si afferma una pretesa di verità-efficacia che è quella della scienza, che si tratti della follia, della sessualità, della delinquenza, e il cui effetto presunto è guarire, correggere, educare, ecc. Una pretesa di giustezza, quella della norma, che si pensa permetta di distinguere malati, anormali, devianti, ecc. Una pretesa di autorità autentica: l’uomo di scienza è legittimato nella sua esigenza di ricevere la confessione della propria sessualità, della propria colpa, della propria ignoranza, ecc. E ciò in uno spazio pubblico di comunicazione che si suppone universale. C’è quindi un altro potere, che non è quello del capitale. È quello dei manager, se si dà a questo termine un senso lato, riferendosi a tutte le funzioni direttive: dalla produzione di cose, beni e servizi, al management dei corpi e delle anime. Se c’è un potere di proprietà sul mercato, siamo qui di fronte al potere di competenza nell’organizzazione, un potere che non è la pratica di una scienza, ma l’esercizio di una “competenza” ricevuta. Si può allora dare alla teoria di Marx una base più larga e più realistica. La classe dominante comporta effettivamente due poli, nel senso in cui Foucault parlò un giorno del “nemico principale” e del “nemico immediato”. Se così è, bisogna concludere che la “lotta di classe” si annuncia come un gioco a tre, in cui bisogna tuttavia sottolineare che “l’altro potere” è di natura differente, perché non si esercita che comunicandosi. La teoria di Marx si trova rimessa in movimento. 3. Vi sono tuttavia un certo numero di ostacoli lungo il cammino. Una controversia filosofica, innanzitutto. Si è in effetti tentati di opporre uno “strutturalismo” di Marx, che comprende la condizione degli individui a partire delle strutture di classe, e un “nominalismo” di Foucault, che rifiuta ogni idea di totalità e di grande soggetto sociale7. Vi sono soltanto soggetti individuali che si affrontano in una moltitudine di funzioni e posizioni sociali, in congiunture particolari, i cui elementi si rapportano a temporalità e spazialità diverse. Le totalità in cui si incontrano i viventi sono soltanto “dispositivi”, amalgami eterogenei di discorsi, istituzioni, disposizioni tecniche e territoriali. Foucault parla certo di “classe borghese”, ma invita a considerare le classi come “gli effetti” di pratiche particolari e interconnesse. In fondo, si trova qui davanti a un problema che è quello di ogni sociologia: pensare la relazione tra l’individuale e il collettivo. La sua 7

Questa questione è discussa nel capitolo 3 di Foucault avec Marx.


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parola d’ordine – «cominciare dall’individuo»8 –, è certamente feconda, in particolar modo nel suo rapporto critico a certe tradizioni del marxismo. Ma si tratta di un assioma euristico piuttosto che di una teorizzazione alternativa. Marx, del resto, comincia anche lui il proprio discorso dagli individui. Spiega che non si può dire nulla delle classi se non si parte – come fa lui, Sezione 1 – da quell’inter-individualità mercantile che caratterizza la condizione dell’uomo moderno. E questa si trova corroborata quando si arriva in seguito (Sezione 3) alla relazione salariale attraverso la quale si concretizza il rapporto di classe. Lo sfruttamento dell’uomo “libero” è tale solo perché si svolge sul terreno di un rapporto mercantile, quello del mercato della forza-lavoro, in cui si conoscono soltanto relazioni interindividuali: tra capitalisti, tra salariati e tra capitalisti e salariati. È vero che lo sfruttamento salariale produce una scissione di classe tra coloro che, attraverso questo processo, si appropriano dell’apparato produttivo e gli altri. Si costruisce così una struttura, di cui bisogna ben considerare l’essere sociale specifico. Ma la divisione così definita fra due classi sociali non produce due soggetti sociali. Forma un processo attivo, una frattura che dà luogo a raggruppamenti, diversi secondo i tempi e i luoghi. Nella “lotta di classe”, non sono classi che entrano in lotta ma gruppi sociali più o meno capaci di costruirsi come attori storici, come “soggetti” più o meno effimeri. Questi devono essere concepiti nei termini di amalgama: la “classe operaia” è un bricolage storico di corpi al lavoro, di tecniche industriali, di rapporti di produzione, di configurazioni di sesso e di “razza”, di corpus di parole sedimentate, di acquisizioni sociali e politiche. Quando questa classe operaia industriale scompare, la stessa struttura di classe dà luogo ad altri conglomerati analoghi, il cui potenziale storico deve essere preso in considerazione. L’interesse dell’approccio marxiano in termini di “struttura”, in contrapposizione alla considerazione foucaultiana più immediatamente concreta in termini di “dispositivi”, risiede nel fatto che essa permette di interrogarsi sulle tendenze del processo storico. Marx esamina le tendenze della struttura capitalistica. Sono queste, in effetti, che definiscono campi di possibilità, autorizzando prospettive strategiche secondo le congiunture. Si sbaglia sul tenore della tendenza, che interpreta come orientata dal Su questo tema si veda M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1996, pp. 121-129. 8


44 Jacques Bidet mercato (capitalistico) all’organizzazione (socialista). Ma ciò non invalida questa problematica struttura/tendenza. Eccetto che, per farne un uso pertinente, è necessaria una teorizzazione pertinente della struttura. Ed è ciò a cui, precisamente, può servire il ricorso a Foucault. Si sarà capito che non perseguo il progetto di mettere in relazione due “filosofie”, che si suppone essere sovrane sullo sfondo. Lascio ad altri il deciframento di tutte le aporie che si possono incontrare su questa strada, sapendo anche che Marx et Foucault sono, l’uno e l’altro, penetrati di questioni che provengono da filosofie diverse. Resto sul piano della “teoria”, se si intende con ciò il progetto di far collaborare in una coerenza d’insieme i diversi saperi sociali – economia, sociologia, diritto, storia, psicologia, ecc. – attenendosi all’obbligazione critica di un lavoro filosofico. 4. Un secondo ostacolo riguarda tuttavia precisamente la domanda sulla possibilità di un incontro teorico fra le due prospettive. In altri termini, Marx e Foucault parlano della stessa cosa? La questione si pone in particolare per i Corsi degli anni 1977-1979. Vi si ritrova un lungo racconto, che si designa come una “storia della ragione governamentale”, che va dallo “Stato di giustizia” allo “Stato amministrativo”, quindi al “governo” liberale, e per finire, saltando l’episodio dello “Stato sociale”, all’emergenza dello “Stato neoliberale”. Il grande racconto si conclude però con un grande quadro, quello di una società contemporanea in cui queste differenti “verità” si mescolano, in cui nulla è mai completamente immobile. Ora, questa composizione sapiente presenta un tratto notevole: il “liberalismo” si trova regolarmente messo in valore come la posizione di equilibrio che si appoggia sulle leggi supposte naturali del mercato, mirando allo stesso tempo alla promozione della vita collettiva delle popolazioni. Si trova così dotato di un duplice potenziale di ragione, concernente da un lato il mercato, dall’altro l’organizzazione. Ma senza che sia mai fornito il principio che permetterebbe di accordare queste due facoltà alternative, e che darebbe precedenza alla prima sulla seconda. Di nuovo, il contrasto con Marx non è totale. Perché la “storia della ragione governamentale” fa certo parte di una “storia della verità”: storia di ciò che è considerato vero, storia delle pretese di verità. Foucault lo sottolinea a proposito della “società civile”. Invita a restare «molto prudenti quanto al suo grado di realtà», poiché non si tratta in questo caso, afferma, che di «realtà di transizione», che si danno come tali all’interno


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di relazioni di potere9. Chiaramente, è ciò di cui Marx stesso parla nella Sezione prima del Libro I. Vi propone un’analisi rigorosa di questa “società civile”, cioè della società moderna considerata come “società di mercato”. E lo fa in termini di “verità di transazione”, di pretesa di validità, secondo la triplice declinazione del vero, del giusto e dell’autentico. La verità del mercato: configurazione concorrenziale efficace che assicura allo stesso tempo la produttività, l’equilibrio tra i settori e l’informazione dei produttori: tutto ciò è incluso nel corpus di concetti che compongono la “teoria-lavoro” del valore (cosa che gli economisti comprendono più facilmente dei filosofi10). La giustezza del mercato: la sua legittimità intrinseca come configurazione di relazioni fra partner che si considerano liberi, uguali e razionali. L’autenticità del mercato: le merci non entrano sul mercato da sole, è necessario uno schiocco di dita iniziale, una decisione, un “atto fondatore comune”, scrive Marx, un patto tra noi tutti, che consiste nel rimetterci al mercato, promosso da noi a ordine naturale, a ordine trascendente al quale ci sottomettiamo. Risiede in ciò, mi sembra, la vera ontologia del feticismo – un’ontologia in cui l’essere è atto – esposta nel secondo capitolo (il primo capitolo ne espone ancora soltanto una fenomenologia: le merci sembrano scambiarsi fra di loro). Tutto ciò insieme compone la “finzione moderna”, per come Marx la definisce, la pretesa comune all’era moderna, la verità dei Moderni. Il tessuto della loro “transazione”. A questo punto, Marx e Foucault sono nello stesso discorso. Quello della metastruttura. Marx pone tuttavia immediatamente un’altra questione: come può una tale finzione sorgere e sussistere storicamente? Qual è la struttura che suppone e produce, riproduce, questa metastruttura? Risposta: la struttura si trova realizzata quando la forza-lavoro vi diviene merce. Perché allora tutto è merce, dal momento che il salariato vive del salario con il quale compra delle merci. Si può quindi dichiarare che il mondo è un mercato. È quando il rapporto sociale viene strutturato dallo sfruttamento che si può praticarlo come mercato integrale. Quando tutto è così mercificato, M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/ Gallimard, Paris 2004, pp. 300-301. 10 Per esempio, l’idea che il lavoro “socialmente necessario” si comprenda qui come dipendente innanzitutto dalla concorrenza all’interno del settore, e che la considerazione del “lavoro astratto”, indipendente dal suo contenuto concreto-utile specifico, riguardi la concorrenza fra settori. 9


46 Jacques Bidet tuttavia, non siamo giustamente più in una società di mercato, ma in una “società di classe”, dotata di tutt’altra logica che quella del mercato: la logica del plus-valore. Marx ci insegna tale “passaggio” dalla società civile alla società di classe. Non un passaggio storico. Ma questa relazione, immanente alla forma moderna di società, tra la metastruttura, tale finzione, verità affermata e ricevuta, e la struttura che la presuppone e la pone. Quando si ha compreso ciò, ci si può porre altre questioni rispetto a quelle di cui ci alimenta Foucault: le questioni della struttura capitalistica di classe e delle sue tendenze storiche. Eppure ciò non dà ragione a Marx. Bisognerebbe infatti ancora comprendere in cosa consista precisamente la moderna struttura di classe. E assumere il fatto, strutturale, che essa combini potere-capitale e poteresapere. 5. Si noterà che Foucault, che all’epoca di Sorvegliare e punire si era mostrato così produttivo sul terreno della struttura, al termine del decennio, parlando del governo, giunge a circoscrivere la propria analisi sul piano della metastruttura. Si occupa certo delle pratiche politiche concrete, ma nei termini dei loro agenti, della loro pretesa, mentre Marx cerca di coglierli nelle loro relazioni alla struttura di classe. È ciò che fa la differenza fra una storia delle “ragioni” di governo e una storia dei “rapporti” di classe. Siamo qui di fronte a una contrapposizione che non è d’ordine filosofico, bensì politico. Ne è testimone l’apparizione di una figura nuova, quella del Buon Pastore11. Si tratta di un’antica parabola cristiana, che si afferma tuttavia in epoca moderna come uno schema della teoria politica, alternativo a quello del contratto. Foucault ne ripercorre le tracce dalla sua gestazione nei monasteri fino allo stadio finale del pastorato sovietico. Si interessa in particolare al compito, che il liberalismo è supposto darsi, di limitare il potere del Pastore: il suo potere di governo delle condotte di tutti e di ciascuno. Siamo qui di fronte a uno schema a doppia entrata, che può tradursi altrettanto bene nel linguaggio della lotta inespiabile tra i governanti e i governati. Si è in perpetuo movimento: il potere si alimenta della resistenza che gli è opposta, e nutre la potenza che cerca di controllare. Si esige naturalmente di essere governati il meno possibile. E il “governo” M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil/ Gallimard, Paris 2004, pp. 204-234. 11


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liberale ha precisamente come obiettivo di intervenire il meno possibile, lasciando giocare un ordine naturale di mercato. Sembra tuttavia che si debba ancora e sempre resistere, in particolare perché il Buon Pastore – nella sua rete infinita di conduzioni di condotte – presenta una tendenza allo sviluppo illimitato delle proprie prerogative organizzazionali, normatrici e gerarchizzanti. In tutto ciò, la resistenza non è passivamente negativa; è produttrice di effetti, generatrice di vita. Ma alimenta paradossalmente la propria rabbia nell’idea che vi saranno sempre governanti e governati. Come vi saranno sempre ricchi e poveri. Foucault è cosciente che esiste un’altra via per la teoria politica. La via non della resistenza, ma della rivoluzione, di cui dichiara la sconfitta12. Si tratterebbe non di essere governati il meno possibile, di essere governati “altrimenti”, ma di governare se stessi. Il cittadino diventerebbe sovrano. Si abbandona allora la tematica della governamentalità per quella dell’auto-governo. Non è più questione di resistere al potere, ma di abbatterlo. Abbattere il potere di classe, appropriandosi della base economica delle sue prerogative di governo. Al di là delle tattiche giorno per giorno, si tratterebbe di costruire delle strategie d’insieme, portate da una nuova soggettività sociale. Se si privilegia tuttavia questa direzione, resta ancora da interrogarsi sul suo significato concreto, che non sembra aver dato prova della propria evidenza. Piuttosto che contrapporre frontalmente Marx e Foucault, sarebbe forse meglio scommettere su una loro possibile complicità. Ma ciò è concepibile soltanto, a mio avviso, a un prezzo teorico elevato, che vorrei tentare di circoscrivere. 6. Bisogna, mi sembra, ripensare la “teoria” di Marx nella forma di un “meta-marxismo” che porta il segno di Foucault, ma anche di tutti coloro che hanno contribuito (in termini di “burocrazia”, di “tecno-struttura”, di “potere manageriale”, di “capitale culturale”, ecc.) a mostrare che, parallelamente al potere-capitale sul mercato, esiste un potere-sapere nell’organizzazione – il quale agisce e si riproduce in tutt’altro modo. Partiamo dall’ipotesi generale di Marx. Egli considera la modernità, lo si è visto, nei termini di strumentalizzazione della ragione: il capitalismo procede da una pretesa di razionalità economica e di ragione politica, secondo la quale la nostra società sarebbe da concepire come un mercato 12

M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 43-45.


48 Jacques Bidet fra persone libere, uguali e razionali. Tale è la “verità” del liberalismo, che pretende, come dice Foucault, di ancorare il diritto all’economia13, un’economia naturalmente di mercato. La strumentalizzazione consiste nel fatto che, quando tutto diventa mercato, la forza-lavoro diventa essa stessa merce. Il mercato, questo bene comune della nostra razionalità, diventa allora lo strumento di una classe dotata dei privilegi di potere-proprietà, o potere-capitale. Marx non coglie pienamente che l’organizzazione, l’altra forma di coordinazione su scala sociale che vede crescere in forza fino a neutralizzare il mercato, porta in sé un potenziale analogo di strumentalizzazione, attraverso l’altro privilegio, quello del potere-sapere. In realtà, nella “modernità” e sin dal suo inizio per tracce successive all’interno di ordini sociali anteriori (in diversi luoghi del mondo, dall’Asia all’Europa), le due mediazioni razionali, mercato e organizzazione, funzionano come i due fattori di classe che convergono nel rapporto moderno di classe. La classe dominante presenta così due poli, due teste, due forme di poteri. Foucault ha considerato quest’altro potere su registri ben definiti, come quelli del trattamento sociale del corpo, analizzando il suo ruolo nella costituzione del soggetto. Ma da queste ricerche particolari trae un insegnamento più generale. Mi sembra infatti che si debba innanzitutto riconoscergli di avere, meglio di ogni altro, chiaramente stabilito che esiste effettivamente un altro potere rispetto a quello dei capitalisti: di aver cioè mostrato, contro la tradizione marxista, che i manager non sono solo i loro delegati, né gli amministratori pubblici i loro funzionari incaricati. E che questo potere è trasversale e struttura tutte le sfere della società. Ha in effetti contribuito all’identificazione di questo potere riferendolo al sapere, non alla conoscenza, ma alla competenza ricevuta, alle sue “verità” nel senso delle pretese riconosciute, verità socialmente produttive. Mette così in luce che questo potere-sapere è differente dal potere-proprietà per il fatto che si esercita soltanto comunicandosi. Se così è, la lotta di classe è proprio uno scontro fra due classi, di cui una, oligarchica, si nutre dei propri privilegi riproducibili, di proprietà o di competenza, e l’altra è la moltitudine popolare. Una lotta a due classi, ma fra tre forze sociali primarie, dal momento che la dominante è a due teste. Alla base, in quella che conviene designare come la “classe fondamentale”, ci si Esso rappresenta, spiega Foucault, «l’économie juridique d’une gouvernementalité indexée à l’économie économique» (ivi, p. 300). 13


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trova divisi in frazioni diverse a seconda che si sia strutturati piuttosto dalla mediazione mercantile o piuttosto dalla mediazione organizzazionale. E anche in diversi strati a seconda che si detenga, frutto di “lotte secolari”, una certa presa su questi meccanismi di mercato e di organizzazione – o che ci si trovi consegnati a essi come fattori di esclusione, integrati come esclusi, fattori sui quali Foucault ha in modo particolare concentrato il proprio sguardo. In alto, c’è senza dubbio una sola classe dominante, perché le due “mediazioni-fattori di classi”, mercato e organizzazione, esistono solamente in costante interferenza. Esiste in effetti una “Ragione” (strumentalizzata) soltanto nella loro interrelazione, mobile e multiforme. Non si può avanzare una prospettiva economica “razionale” che non sia un’articolazione tra mercato e organizzazione, né un ordine giuridico-politico “ragionevole” che non risponda alla co-implicazione della libertà tra ciascun singolo e la libertà tra tutti. La teoria meta-strutturale presenta così una semplicità di principio che parrebbe farne una metafisica. Essa è tuttavia il contrario, dal momento che ciò che mette in avanti non è la “ragione”, ma la pretesa di ragione, la pretesa moderna di governarsi attraverso il discorso comunicazionale immediato distribuito fra tutti (ogni voce equivale a un’altra), prolungato dalle due “mediazioni” che si danno come tramite, nella complessità sociale, fra questa immediatezza discorsiva e la cooperazione diretta che essa permette. È tutto questo insieme, immediatezza e mediatezza, che si trova strumentalizzato nel rapporto moderno di classe, via i privilegi del potere-capitale e del potere-sapere. In basso, c’è allo stesso modo una sola classe, perché queste due “mediazioni-fattori di classe”, interferendo tra loro a tutti i livelli, strutturano la società intera e la vita di ciascuno. È questo il principio della sua unità. Ma questo è anche il principio delle sue divisioni in frazioni e strati diversi. Orizzontalmente, alcuni sono implicati più di altri nel fattore mercato (dal contadino o commerciante di ieri all’“auto-imprenditore” di oggi), altri nel fattore organizzazione (funzionari), altri ancora in posizione intermediaria (salariati del settore privato). Verticalmente, alcuni dipendono da raggruppamenti che hanno acquisito una certa presa su questi meccanismi di mercato o di organizzazione, mentre altri (tra gli abitanti delle campagne, i giovani, le donne, ecc. – e gli stranieri: nel punto di interferenza con l’altra dimensione della forma moderna di società, che non è la struttura-di-classe ma il sistema-mondo) ne sono più o meno privi.


50 Jacques Bidet L’unità della classe fondamentale emerge soltanto dalla vittoria su queste divisioni, così individuate. La caratteristica di una “teoria generale” – all’occorrenza una teoria della modernità – è di essere semplice nel suo principio e tuttavia capace di investirsi e di moltiplicarsi nei diversi campi della vita sociale, sui terreni della sociologia, dell’economia, della politica, della storia, del diritto e della cultura. Bisogna evidentemente fare attenzione a molti malintesi, dal momento che si tratta di concetti iniziali. Si noterà semplicemente che si trovano qui definite in alto un’oligarchia, in basso una moltitudine, ma che tutto ciò deve essere compreso in termini di processo, dal momento che le classi non sono gruppi sociali14. La lotta moderna di classe si analizzerà così attraverso il prisma dei “regimi di egemonia”15. Intendo con questa nozione i diversi modi di assemblaggio, variabili nello spazio e nel tempo durante l’era moderna, di queste tre forze sociali, a seconda che il potere-sapere si trovi alleato al poterecapitale, o al contrario si avvicini alla classe fondamentale, cioè al popolo in quanto massa. Quest’ultimo non può emanciparsi dalle dominazioni di classe se non lottando sui due fronti. Ma il potere-sapere, che si esercita solo comunicandosi, gli è più vicino, più accessibile. La saggezza del popolo moderno risiede dunque nel cercare di egemonizzare il potere-sapere per marginalizzare il potere-capitale. In altri termini, nel cercare di dominare il mercato attraverso l’organizzazione, e l’organizzazione attraverso la lotta democratica, la parola condivisa fra tutti – lotta tanto culturale quanto politica. Questa “lotta” si definisce, a differenza della “guerra”, attraverso il suo riferimento metastrutturale. La sua insurrezione si dichiara in nome di “verità” che si considerano comuni, e tuttavia “essenzialmente contestate”, nella loro anfibologia costitutiva. La libertà-uguaglianza-razionalità è allo stesso modo proclamata da coloro che la considerano stabilita e da coloro che esigono che essa lo sia. Il “partito dal basso” è un’entità fugace e polimorfa, che ha segnato in profondità, e a tratti civilizzato, la società moderna. Oggi, nel regime neo-liberale in cui il potere-capitale ha preso il controllo del potere-sapere, esso non esiste che in una dispersione di organizzazioni, di indignazioni, Mi permetto di rinviare all’analisi che propongo nel quinto capitolo di L’État-monde, PUF, Paris 2011. 15 Questo concetto è al centro delle analisi che sviluppo in due lavori di prossima pubblicazione: Le néolibéralisme et ses sujets e Le peuple comme classe. 14


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di sindacati, di associazioni, di movimenti, di appelli, di circoli di studio, di collettivi e di rivolte. Potrà sollevarsi dalle proprie sconfitte solo giungendo a concepire la propria unità pratica. Che non può essere soltanto di classe ma anche di sesso e di “razza”, poiché la società moderna non si definisce integralmente attraverso la propria “struttura di classe” (ma ciò esula dal tema della presente trattazione). Foucault può aiutare a pensare questo amalgama. Poiché ciò che egli ci insegna è anche che questa “grande storia” strutturale, alla quale non abbiamo motivo di rinunciare, è sempre solo la storia incerta dell’impresa comune. E non la quintessenza della storia umana, che è propriamente impossibile da totalizzare, essendo fatta anche di tutto ciò che non può trovarvi spazio: desideri e passioni, mancanze e sventure, godimenti e miserie, infamie e accidenti. La nostra vita di soggetti non è fatta soltanto dall’“insieme dei nostri rapporti sociali” che ostentano le loro verità, ma di tutto questo magma insolito, nel quale tali “verità” disegnano cammini discordanti. Traduzione dal francese di Arianna Sforzini

Jacques Bidet Université Paris Ouest Nanterre La Défense j.bidet@wanadoo.fr

. Thinking Marx with Foucault and Foucault with Marx This article is the presentation of my book Foucault avec Marx (Paris, La fabrique éditions, 2014; London, Zed Books, 2016) aiming at studying the conditions of a critical collaboration between their two perspectives. The Foucault of the 1970s is reported to the Marx of Capital. They are addressed through a research program I call the “metastructural approach” of modernity. Keywords: Discipline, Gouvernementality, Knowledge-Power, Nominalism, Liberalism, Strategy, Marx.



Ambiguità di Foucault Marco Assennato

L’ipotesi di partenza di questi appunti è di tipo metodologico e tiene insieme

tre parole: politica – intesa come sperimentazione collettiva e plurale che agisce sui modi di vita che si sviluppano nella società; ambiguità – come spazio di un possibile metodo realista (quando non si volesse osare il termine materialista); e critica – come attitudine etico-politica evocata da Foucault nella sua nota conferenza del 27 maggio 1978, intitolata appunto Che cos’è la critica?1. Si tratta insomma di chiedersi: in che maniera questo tema dell’ambiguità assume valore metodologico? E cosa c’entra con il “pensiero politico” di Michel Foucault? Per rispondere a queste domande, però, mi pare necessaria una cautela. Sia chiaro: usare la cassetta degli attrezzi di Foucault è sempre possibile, persino auspicabile. Si può addirittura usare Foucault contro Foucault. E tuttavia mi pare che per usare Foucault politicamente, per verificarne il lavoro su campi vari e disparati, anche molto lontani da quelli che egli stesso ha potuto direttamente indagare, sia opportuno stabilire una cornice metodologica specifica, una serie di direzioni del lavoro – che si debba, insomma, farlo con metodo, rispettarne il verso, l’attitudine o l’atteggiamento2. Andiamo con ordine: i maggiori e più recenti studi sul pensiero politico di Foucault vertono sul problema della costituzione dei soggetti. Con buone ragioni, mi sembra. Tanto che – di là dal fatto che si tratti esplicitamente del tema – la questione della soggettivazione, dei suoi modi e delle sue possibilità, attraversa come un’ombra inquieta l’intera riflessione politica contemporanea – sia quella direttamente dedicata all’analisi di Foucault, M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in «Bulletin de la Société française de Philosophie», vol. 84 (1990), n. 2, pp. 35-63, ormai in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015. 2 Proprio di attitudine critica, o di critica come atteggiamento, relazione pratica a un determinato campo di sapere parla Foucault nella sua conferenza del 27 maggio 1978: «il me semble qu’entre l’haute entreprise kantienne et les petites activités pólemicoprofessionnelles qui portent ce nom de critique […] il y a eu une certaine manière de penser, de dire, d’agir également, […] un rapport aux autres aussi et qu’on pourrait appeler, disons l’attitude critique» (Ivi, p. 34, corsivi miei). 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 53-66.


54 Marco Assennato sia quella che da Foucault trae concetti e strumenti di lavoro, sia quella che ha radice in altri riferimenti teorici. Ora, si può convenire sul fatto che tale questione sia stata affrontata in due modi dallo stesso Foucault. Ad una prima analisi del potere come forza che produce gli individui – che li fabbrica attraverso meccanismi di nominazione, identificazione, circoscrizione, gerarchizzazione, atti ad ottenere corpi docili ed economicamente utili – subentra una seconda ipotesi, più vicina, che funziona, per usare una prima approssimazione, estendendo (o intensificando) la categoria classica di sfruttamento, di matrice marxista. Nel tardo Foucault, infatti, attraverso il filtro della normalizzazione biopolitica, il potere pare investire tutto lo spazio dei modi di vita e tutti i luoghi dell’esperienza storica: in una battuta si potrebbe dire ch’egli intuisce il passaggio dalla fabbrica alla società del dispositivo di cattura e captazione del valore prodotto dal lavoro vivo. Del resto, la ricezione di Foucault che in Italia si è determinata nei primi anni settanta in ambito post-operaista, si gioca tutta su quest’analogia3. Ma l’analisi di Foucault non si ferma qui, poiché definisce altresì, un doppio movimento di estrema importanza: individua innanzitutto una sostanziale mutazione nelle forme della razionalità necessarie per governare la vita e guadagnare una siffatta, onnipotente estensione o intensificazione del dispositivo normativo; e in secondo luogo rileva come l’insieme di tecniche che determinano l’ambiente biopolitico, non cessi tuttavia di produrre soggetti, i quali, per quanto normati, tengono aperta al contempo la possibilità di modi di vita autonomi, inventivi e sperimentali. Ora però, contro questa linea, per così dire, soggettivista, se ne sono diffuse almeno altre due, che provano a smentire tali esiti e allontanarne i fantasmi. Due ipotesi che io considero metodologicamente scorrette, perché rovesciano il senso e sviliscono le potenzialità del Foucault politico. Foucault e la tentazione liberale La prima ipotesi è quella del Foucault neoliberale. Traccia che si è articolata in due versioni speculari, connesse alle convinzioni politiche degli autori, tuttavia entrambe convergenti nel dipingere un Foucault acritico rispetto al paradigma oggi dominante: l’economia politica. Lo dimostrerebbe proprio Cfr. T. Negri, Quand et comment j’ai lu Foucault e S. Chignola, Une rencontre manquée ou seulement différée: l’Italie, in Foucault, Éditions de l’Herne, Paris 2011, pp. 199-208 e 244-251. 3


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il corso celeberrimo al Collège de France del 1978-1979 intitolato Nascita della biopolitica4, nel quale, secondo alcuni, il filosofo avrebbe messo in luce la potenzialità dinamica della razionalità neoliberale, quale manifestazione di una radicale opposizione allo Stato, ai suoi apparati e alla sua ragione governamentale. I neoliberisti, in sintesi, integrando ed esprimendo in politiche efficaci tutte le resistenze e i conflitti contrari alla forma sovrana “classica”, avrebbero dato luogo ad una inedita forma di valorizzazione delle libertà individuali. Geoffroy de Lagasnerie5 arriva a questa conclusione scovando in Foucault una lettura della Scuola di Chicago come interpretazione proficua della rivalutazione di spazi di azione individuale contro i dispositivi centralistici che il filosofo, nel clima successivo al maggio francese, avrebbe promosso. La dernière leçon di Michel Foucault sarebbe dunque dedicata all’esaltazione di qualsivoglia iniziativa efficace nel disfare la società, nel decostruire l’apparato centralizzato del sovrano westfaliano, tanto da esaltare indistintamente ogni pratica eterodossa e deviante – comprese quelle che traducono continuamente la critica in occasione di valorizzazione e innovazione del dispositivo normativo e produttivo. Secondo altri, al contrario, il liberalismo di Foucault deriva come ovvia conseguenza dal fatto che il filosofo francese non sarebbe altro che l’incarnazione dello spirito degli anni ottanta. Di una filosofia addomesticata, quindi, perché contraria alle più serie analisi ortodosse del pensiero anticapitalista, anarchico o marxista, e che dunque profila un cedimento irresponsabile alla tentazione neoliberale6. Nelle sue due varianti, questo primo capovolgimento del pensiero politico di Foucault, è francamente fragile7. Si riassume insomma nell’immagine del samurai in vestaglia di seta, anticonformista e libertario – M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004. 5 G. de Lagasnerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la politique, Fayard, Paris 2012 e Id., Néolibéralisme, théorie politique et pensée critique, in «Raisons Politiques», n. 52 (2013), pp. 63-76. Su queste tesi mi permetto di rimandare al mio M. Assennato, Foucault per tutti. Lezioni di critica al neoliberismo, in <http://www.uninomade. org/foucault-per-tutti/> (consultato il 3-02-2016). 6 Cfr. D. Zamora (a cura di), Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale, Aden, Bruxelles 2014. 7 Per una analisi più equilibrata e fondata del rapporto tra Foucault e il neoliberismo si rimanda qui ai testi raccolti nell’ottimo dossier intitolato Les néolibéralismes de Michel Foucault, curato da F. Gros, D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini per «Raisons Politiques», n. 52, 2013, pp. 13-108, in particolare agli articoli di M. Lazzarato (pp. 51-62), L. Paltrinieri (pp. 89-108) e all’importante editoriale firmato dai curatori (pp. 5-12). 4


56 Marco Assennato uno scettico che aveva rinunciato a trovare un senso alle cose del mondo, perfettamente compatibile con i nuovi assetti istituzionali – che già Paul Veyne aveva tratteggiato nel suo ricordo dell’amico scomparso8. Ma questa linea risulta debole, facilmente falsificabile anche semplicemente scorrendo il testo del Corso al Collège de France: com’è d’altronde noto, infatti, Foucault discute di ordoliberali tedeschi e di neoliberali americani, sempre tentando di impostare un’analisi delle modifiche che sono sopravvenute nella coscienza di sé dei governanti, attraverso differenti momenti storici9. E anche se volessimo farne un uso attuale, saremmo costretti a riconoscere che l’analisi del neoliberalismo in Foucault resta l’analisi di una forma innovativa di governamentalizzazione della vita. Foucault sta parlando, insomma, del lato disciplinare di uno specifico passaggio storico. Che ne riconosca forza e spessore politico, che ne sottolinei la razionalità, è considerazione ovvia. Altrimenti, si direbbe, perché discuterne? Tuttavia già questo primo filone di lettura ci pone una questione: quando Foucault riconosce al neoliberalismo questo radicale rifiuto dell’invasione dell’umanità da parte dello Stato – e più in generale la capacità di mettere all’opera un quadro analitico non totalizzante, unificatore, sintetico, idealistico, contrario alla ragion di Stato perché sbilanciato sull’eterogeneità e la molteplicità delle azioni singolari – dà spazio o margine a una qualche ambiguità? La risposta che proverò ad argomentare è: sì. Il problema però è mettersi d’accordo su cosa sia, questa ambiguità. Foucault destituente Veniamo alla seconda linea di lettura: ipotesi di maggiore insidia perché teoricamente più densa e informata, essa si è sviluppata a partire da alcune suggestioni di Giorgio Agamben e Roberto Esposito, verso forme essenzialmente difettive della politica10, o, in divergente accordo, attorno alla definizione di etopolitica11. Come procedono queste letture? Cfr. P. Veyne, Foucault. Sa pensée, sa personne, Albin Michel, Paris 2008, pp. 227-243. Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., lezione del 10 gennaio 1979, pp. 3-28. 10 Cfr. G. Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Neri Pozza, Vicenza 2014, in particolare l’Epilogo, pp. 333-352, ma più in generale mi pare si dovrebbe rileggere in tal senso tutto il ciclo agambeniano di Homo sacer, e il pensiero di Esposito almeno fino a R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. 11 Cfr. D. Tarizzo, Dalla biopolitica all’etopolitica: Foucault e noi, in «Nóema», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 43-51. 8 9


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Il ragionamento mi pare il seguente: ne La volontà di sapere, testo determinante per le definizioni stesse di biopolitica e biopotere, Foucault scrive: «i nuovi procedimenti di potere sono basati non sul diritto ma sulla tecnica, non sulla legge ma sulla normalizzazione, non sul castigo ma sul controllo»12. Poi, più avanti definisce il biopotere «uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo»13. E due anni dopo, nel già citato corso al Collège de France, allarga l’ipotesi descrivendo un quadro in cui potere politico e potere economico invertono il loro rapporto e formano una grande tecnologia economico-politica che produce, letteralmente, l’intero dei corpi sociali, modificando così la forma di sovranità classica in un’inedita tecnologia che presuppone «un sovrano – dice Foucault – che non è più sovrano di diritto o in funzione di un diritto, ma […] un sovrano suscettibile di amministrare»14. L’ipotesi suona talmente familiare in questo tempo di governi tecnici, di esperti, di specialisti, che non occorre certo argomentarla. La cosa che più conta qui è un’altra. La razionalità neoliberale presuppone soggettività politiche recalcitranti, riottose al potere, ma ne interpreta la volontà di non esser troppo governate, valorizzando e mettendo a lavoro esattamente questo spirito, così da evitare che tali forze soggettive risultino ingovernabili: la governamentalità neoliberale in questa seconda linea di lettura, sarebbe allora una forma di cattura del vivente estremamente raffinata, anche oltre ciò che lo stesso Foucault aveva visto, perché in grado di ottimizzare le ribellioni individuali, rovesciando così ogni atto di resistenza, come per una astuzia della ragione, in servitù volontaria. Dunque non valgono qui le accuse prima rivolte a Foucault, eppure se ne mantiene un punto decisivo: il conflitto si riduce in ogni caso a punto residuale o funzionale alla macchina biopolitica. Riepilogando: secondo questa linea di lettura, l’unico discorso effettuale è ormai quello della tecnica, nel senso di razionalità scientifica realizzata, logica economica, calcolante, probabilistica; l’unico soggetto reale è quello prodotto dal biopotere; l’unica libertà esistente è quella valorizzata dalla macchina neoliberista. La vita è falsa e, come avrebbe detto Adorno, non si dà vita vera, nella falsa. Presi nella macchina del biopotere capitalistico non resta che la possibilità di far lavorare la critica per sottrazione. M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 118. Ivi, p. 185. 14 M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., p. 287. Si vedano anche le pp. 84-85, 106-107, 120-121, 146-147, 168-170 e 246-249. 12 13


58 Marco Assennato Questa linea, ho già detto, è più insidiosa da contestare, certo più intelligente, e del resto estremamente diffusa anche in ambito – se mi è permessa l’espressione – militante. Tuttavia mi pare un buon esempio di “cattivo uso di Foucault”. In effetti, il vero grande filosofo che abita questa impostazione – seppure in un rapporto tipicamente dialettico, di superamento – non è Foucault, ma Heidegger. Heidegger è il filosofo della tecnica come politica e Heidegger ha opposto – dopo aver provato con le croci uncinate – un gesto parmenideo all’epoca della ragione calcolante, per frenarne il destino. «Se esistono ancora filosofi – scriveva l’heideggeriano Massimo Cacciari nel 1976 – allora pensino Parmenide» perché «altri luoghi liberi non si danno!»15. Leggere le categorie foucaultiane attraverso Heidegger (o sulla base di Heidegger) porta dunque a una postura di questo tipo: il biopotere riduce tutto l’essere a esser-ci, Da-sein appunto, pro-dotto, mero valore, vita inautentica. Solo l’esserci si dà effettualmente, solo il lavoro del potere che opera costantemente sulla vita e la manipola, la sposta, la trasforma, abita la storia. Ciò dipende dal curioso destino della ragione umana analizzato, come è noto, in termini di storia dell’ontologia fondamentale da Hedeigger: l’illuminismo che scopre la sua dialettica, e compie la conoscenza in dominio, Wille zur Macht, volontà di potere, ne è una delle tarde figure. La critica è allora, se critica può darsi, disperato e disincantato Andenken, ri-memorazione, ricordo della differenza essenziale dell’essere e dell’ente, dell’animale e del culturale, della vita e della politica. L’unico spazio critico non pensato consiste nel pensare l’oggetto storico, come Gegen-über, dice Heidegger16: oggetto, fatto o evento che sorprende perché non è rivolto al soggetto, non dipende dalla sua volontà di potenza, non è mathémata ma a-lètheia, intesa tuttavia da alcuni suoi tardi interpreti, in modo radicale, come negazione ultima del valore, della tecnica, della ragione calcolante, dell’operosità umana. Non si dà vita vera nella falsa. Non c’è azione possibile tra le maglie del potere. Non resta che il romantico rifiuto della storia. Si può solo, nella vita falsa, ricordare l’Essere, pensarne l’assenza, o persino organizzare questa assenza sottraendosi al mondo storico-sociale in nome della sua origine comune, del suo presupposto naturale, del suo potenziale metafisico: zoé, nuda vita, “naturalmente” inoperosa e M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 68. Cfr. su questo la seconda parte di M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 2000, e ancora la pagina di Cacciari sopra richiamata. 15 16


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destituente – e perciò – ingovernabile. Questa impostazione, rilevabile in un certo uso italiano delle nozioni foucaultiane di biopolitica, governamentalità e soggettivazione è a mio avviso scorretta. Perché? E cosa c’entra l’ambiguità cui accennavo all’inizio? Foucault e la critica Per molte delle questioni che abbiamo attraversato sin qui, la conferenza che Foucault ha pronunciato nel 1978 alla Societé française de Philosophie, poi pubblicata sotto il titolo Che cosa è la critica?, mi pare illuminante. Cosa significa produrre lavoro critico? si chiede Foucault. E risponde: «è la questione della quale ho sempre voluto discutere […] in direzione di una filosofia a-venire […] forse al posto di ogni filosofia possibile»17. Dunque qui la critica è qualcosa che eccede la filosofia, la sbilancia su un esterno. O qualcosa che, in ogni caso, si colloca in uno spazio possibile che succede alla riflessione filosofica classica, arenata nella dialettica del conoscere e del potere, della razionalizzazione e del dominio. Subito all’inizio della conferenza, Foucault dice: dobbiamo provare a definire la critica in sé. Una notazione interessante e curiosa, perché di solito consideriamo la critica eteronoma ovvero come fosse «uno strumento, un mezzo […] uno sguardo su un dominio in cui vuole fare pulizia ma in cui non è capace di fare legge»18. Insomma, siamo abituati a pensare che non si dia critica in sé, ma solo critica di qualcosa: della filosofia, della scienza, della politica, della morale, del diritto, dell’economia politica, e così via seguitando. E invece Foucault cerca proprio questa critica in sé come ciò di cui avrebbe voluto parlare da sempre. Lungo la conferenza, della quale non si può qui rendere un riassunto puntuale19, l’atteggiamento critico, viene definito da Foucault in termini etici: la critica è virtù fondamentale che nasce in epoca moderna, accanto alla M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 34. Ibidem. 19 Si rimanda tuttavia agli ottimi lavori di Daniele Lorenzini, in particolare D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 11-30; D. Lorenzini, Dall’ermeneutica del sé alla politica di noi stessi, in «Nóema», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 1-10 e, per estensione, D. Lorenzini, La tentazione ontologica di Michel Foucault, in «Quadranti. Rivista internazionale di filosofia contemporanea», vol. 3 (2014), n. 1, pp. 23-38. 17 18


60 Marco Assennato domanda – come governare gli uomini? – raddoppiata dalla questione: come non essere governati? L’atteggiamento critico è quindi «una parte, o piuttosto allo stesso tempo un partner e un avversario, dell’arte di governare, come un modo di non fidarsi, di rifiutare, di limitare, […] di trasformare […] ma anche, a partire da qui, di sviluppare l’arte di governare»20. L’ipotesi sembra, a una prima lettura, tipicamente dialettica: potere e libertà, arte del governo e virtù della critica, vivono di un rimando continuo nel quale l’uno invera l’altro. Tanto che Foucault può dire in modo esplicito che governamentalizzazione e critica stanno «una in rapporto all’altra» e danno luogo a «fenomeni capitali» nello sviluppo delle conoscenze scientifiche, delle analisi giuridiche, delle pratiche istituzionali e dei modi di pensare21. La critica sarebbe allora un’indocilità ragionata che riapre sempre, in forza di ragione e verità, l’ordine del discorso. Cosa succede – si chiede tuttavia Foucault – quando con il XIX e il XX secolo, «la scienza inizia a giocare un rapporto sempre più determinante nello sviluppo delle forze produttive e […] i poteri statali possono giocarsi sempre di più attraverso tecniche raffinate»22? Quando, in altri termini, la scienza e la tecnica – figure di un lògos storicamente realizzato – diventano le potenze fondamentali dell’epoca e il potere si incarna in una rete anonima e globale di cattura delle forme di vita? A questo livello dello sviluppo moderno, secondo Foucault la semplice macchina dialettica non basta più: perché l’indagine rileva gli «eccessi di potere» e gli «effetti di governamentalizzazione» della ragione stessa23. Ciò che doveva liberare, imprigiona. La filosofia allora, modifica la domanda critica e la rende in questi termini: «com’è possibile che la razionalizzazione conduca al furore e al potere?»24; com’è possibile che l’esito più recente della storia della conoscenza umana porti a produrre un mondo in cui vediamo solo una vita falsa, alienata, catturata, calcolata, dominata? Siamo all’altezza dei francofortesi, dei grandi storici della scienza francesi, dell’esistenzialismo e della fenomenologia, di Heidegger e di Husserl il quale, nota Foucault riconduceva già nel 1936, la Krisis dell’umanità europea ai rapporti tra episteme e techné, ragione calcolante e potere25. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37. Ivi, p. 39. 22 Ivi, p. 43. 23 Ivi, p. 44. 24 Ivi, p. 46. 25 Cfr. ivi, p. 44. 20 21


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Generosa, importante di certo, è stata questa filosofia. Ma, secondo Foucault, i vari tentativi filosofici di risolvere il rompicapo prodotto dalla scoperta della violenza normativa della ragione non hanno funzionato. E allora egli propone un altro metodo: anziché partire dal tema de la ragione, si dovrebbe cominciare «dal tema del potere», quindi immergersi nel «campo d’immanenza» del reale e seguirne l’evenemenzialità, per definire gli insiemi storici come «singolarità assolute» che articolano specifiche forme del sapere in determinate organizzazioni istituzionali26. Sono pagine, se mi è permessa l’accezione larga, di grande epistemologia politica. Il cui esito è noto: l’attenzione non può che andare alle rotture e alle discontinuità e l’archeologia non può che lasciare il passo alla genealogia «che tenta di ricostruire – dice Foucault – le condizioni di apparizione di una singolarità a partire da molteplici elementi determinanti di cui essa appare l’effetto»27. A questo punto pare lecito chiedersi: che ne è, in questo quadro, della dialettica tra potere e libertà? Dobbiamo accontentarci di considerare di volta in volta la soggettivazione come risultato, effetto, di una serie di elementi determinanti, ad esempio quelli analizzati nel corso sulla biopolitica? In questo caso avrebbero ragione le letture heideggeriane o post-heideggeriane di Foucault. Ed invece no. La genealogia resta critica – cioè riapre il rapporto potere-libertà – nella misura in cui «rende intellegibile» il fatto che le singolarità storiche «non funzionano secondo un principio di chiusura», ma risultano da dispersioni e differenze, casualità e fortuna, conflitti e rapporti di forza28. La genealogia, insomma, inscrive nella trama archeologica la possibilità di eventi a-venire. L’analisi genealogica rileva in primo luogo che «le relazioni che permettono di dare conto di un dato effetto singolare sono […] delle relazioni d’interazione tra individui e gruppi e cioè implicano dei soggetti, dei tipi di comportamento, di decisione, di scelta»29. Di conseguenza essa si fonda sull’importanza di ampli e sempre variabili margini d’incertezza. Ivi, p. 51. Ivi, p. 55. Si veda a tal proposito la voce Généalogie, in J. Revel, Dictionnaire Foucault, Ellipses, Paris 2008, pp. 63-64, soprattutto laddove Revel nota: «ciò significa che la genealogia non cerca nel passato semplicemente la traccia di eventi singolari, ma pone la questione della possibilità degli eventi presenti» (corsivo mio). 28 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 55-56. 29 Ivi, p. 56. 26 27


62 Marco Assennato In secondo luogo la genealogia insegna che nessuna singolarità storica può essere pensata su un unico piano: in termini di biopotere, ad esempio. Le diverse interazioni che costituiscono una singolarità storico-sociale, infatti, possono sempre trovarsi in contraddizione l’una con l’altra «cosicché nessuna di queste interazioni appare come assolutamente totalizzante»30. Insomma il potere (come il sapere) in Foucault è «una relazione in un campo di interazioni»31. Ciò significa essenzialmente che ogni potere è «associato ad un campo di possibilità e dunque di reversibilità e di rovesciamento possibili»32. A questo punto potere e sapere, forme della ragione e forme istituzionali, non sono più gli oggetti dell’analisi, ma il fronte su cui l’analisi si dispiega. Su questo fronte, l’atteggiamento critico è necessario, perché è l’unico che coglie l’ambiguità dei fenomeni storico-politici, l’unico che analizza le relazioni di dominio e conoscenza, le forme di legittimazione e le meccaniche operative di una data singolarità, insistendo sul fatto che «ogni relazione può essere spostata in un gioco che la eccede»33. La possibilità di mettere al lavoro giochi eccedenti, insomma, è interna a relazioni di tipo asimmetrico e differenziale come quelle che normalmente si suppongono quando si discute di rapporti di potere. Non una sostanza – ha più volte detto Foucault – ma un rapporto conflittuale tra stili di vita originariamente liberi e tentativi di cattura normativa che non implementano (e casomai sviliscono) la potenza delle pratiche critiche. E lo stesso varrebbe per altre parole: tecnica, ragione, cultura, ecc. Qui insomma, non è più questione di una critica de la ragione occidentale, o del sistema di potere connesso allo sviluppo scientifico, o della società della tecnica, perché Tecnica, Ragione e Potere, non sono più considerati in termini di unità, ma nella loro regionalità storica e quindi nella loro costitutiva ambiguità. La rottura dell’idea unitaria di ragione, mi pare di capitale importanza perché falsifica ogni tentativo di leggere Foucault attraverso Heidegger, o attraverso la filosofia tedesca dedicata al tema della razionalizzazione. Verrà confermata, tra l’altro, dallo stesso Foucault nel corso di due conferenze all’Università di Stanford, il 10 e il 16 ottobre del 197934. Laddove egli Ibidem. Ivi, p. 57. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 56. 34 M. Foucault, “Omnes et singulatim”: vers une critique de la raison politique, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 953-980. 30 31


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sottolinea a più riprese che la sua analisi non si applica alla ragione in generale35, e neppure alla decostruzione dell’onnipotenza presunta del processo di razionalizzazione. Anzi, razionalizzazione è «parola pericolosa», perché tratta «della società e della cultura come un tutto»36, perdendo di vista dunque le contraddizioni specifiche che si producono nei vari ambiti di potere e di sapere: «non è sufficiente fare il processo alla ragione in generale. Ciò che occorre rimettere in questione – dice Foucault – è la forma di razionalità presente […]. La questione è: come vengono razionalizzate le relazioni di potere? Porre una tale questione è il solo modo di evitare che altre istituzioni, con gli stessi obiettivi e gli stessi effetti, prendano corpo»37. Come è evidente, dunque, il fatto che la politica assuma sempre di più carattere tecnico, burocratico, scientifico, non porta Foucault a concludere con l’equivalenza tra razionalità e istituzionalizzazione delle pratiche sociali, tecnica e politica. Al contrario disegna un solco profondo attraversato da mille, specifiche e mobili, condizioni tecniche di politicizzazione del sapere. Ma ci sono ragioni differenti che abitano questo mondo, non ricomponibili in un unico destino. Esistono certo cattivi usi della scienza e della tecnica ma ci sono anche ottime ragioni e usi positivi del sapere umano: quelli che spezzano la logica del vilain pouvoir38, riaprendo le forme istituzionali della conoscenza allo scambio e all’esame critico. Si tratta dunque di dissociare i diversi tipi di razionalità e liberare le loro contraddizioni specifiche, così da individuare spazi concreti di azione politica. In ciascun dominio, in ogni spazio disciplinare, il rapporto tra potere e libertà può sempre sbilanciarsi, aprirsi, non è destinato a chiudersi dialetticamente. Il problema non sarà più: in forza di quale errore o illusione, di quale destino, è possibile che la razionalizzazione e la conoscenza umana portino al dominio, all’assoggettamento, alla riduzione dell’essere a ente? Quanto piuttosto: come l’indissociabilità moderna di sapere e potere produce ad un tempo e nello spazio di una medesima singolarità storica, dinamiche di assoggettamento e un «campo di possibili, di aperture, di indecisioni, di rovesciamenti e dislocazioni eventuali» che rende ogni biopotere, sempre, fragile39? Fin qui arrivano l’archeologia e la genealogia di Foucault. È già tanto e siamo ormai fuori dall’impianto heideggeriano. Ma non basta. L’ambiguità di Foucault non è ancora sazia. Ivi, p. 969. Ivi, p. 954. 37 Ivi, p. 980. 38 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 62. 39 Ivi, p. 57. 35 36


64 Marco Assennato Oltre la critica: la politica La ricerca infatti a questo punto si riapre su quell’esterno, o su quell’oltre la filosofia che costituisce lo spazio specifico della critica e della soggettivazione. Più che attardarsi a pensare differenze essenziali tra essere ed ente, Foucault riapre il discorso procedendo per «analisi strategiche», o meglio per «strategie concrete» che tengono insieme sapere e potere a partire dalla volontà «insieme individuale e collettiva» di «non essere governati»40. Le tecniche ontologiche di sé, o l’ontologia storico-critica di noi stessi di cui Foucault parlerà altrove, dipendono da questo fondamentale atteggiamento rispetto ai fenomeni storici, interamente spostato sulla pratica41. Le forme di vita si muovono in un contesto che non è mai destinale, ma compiutamente immanente e soggettivante. Contro Heidegger, Foucault s’immerge nell’universo inautentico del Da-sein; oltre Adorno, Foucault si muove nella vita falsa. Libertà e potere, biopolitica e biopotere compongono certo l’indissociabile Giano bifronte della soggettivazione, ma ciò non porta Foucault a concludere con la loro equivalenza. Al contrario: apre il cantiere di una ricerca che definirei agonistica. Lo afferma lo stesso Foucault: si tratta di «un agonismo – di un rapporto che è insieme di incitazione e di lotta»42. Ora, come ha scritto Judith Revel incrociando l’ontologia politica di Foucault con l’iperdialettica di Merleau-Ponty: Questa compossibilità non era facile da pensare. Si dava come un chiasma. […] Il Chiasma è una struttura non soltanto doppia, ma che lega in modo indissociabile le due facce che presenta e vi assegna la caratteristica della simultaneità: l’uno e l’altro lato del chiasma si presentano sempre insieme e allo stesso tempo, la loro reversibilità riguarda dunque questa compresenza necessaria. Ora – tutta la difficoltà sta qui – noi percepiamo sempre solo l’uno o l’altro lato: noi ci consideriamo come vedenti o visti, come toccanti o toccati, anche se invero noi siamo le due cose insieme […]. In Foucault, allo stesso modo, lo scandaglio delle determinazioni storiche e l’apertura del presente a ciò che non contiene, […] si danno insieme43.

Ivi, pp. 56 e ss. Cfr. D. Lorenzini, Dall’ermeneutica del sé alla politica di noi stessi, cit. 42 M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1057. 43 J. Revel, Foucault avec Merleau-Ponty. Ontologie politique, présentisme et histoire, Vrin, Paris 2015, pp. 12-13. 40 41


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La ricerca sul come non esser troppo governati, in altri termini, non allude ad alcun esterno dalla governamentalizzazione, non è una fuga generica – che sarebbe peraltro solo teorica – dal mondo della storia in uno spazio esterno al biopotere, e neppure può essere assimilata, dice Foucault a «una sorta di anarchismo di fondo, che sarebbe come una forma di libertà originaria, assolutamente ribelle ad ogni governamentalizzazione»44. Non essere governati è volontà strategica insieme individuale e collettiva che contesta specifici modi di governo della vita attraverso forme autonome di soggettivazione. L’atteggiamento critico dunque rinvia a qualcosa che è dell’ordine delle «pratiche storiche di rivolta, di non accettazione di un governo reale»45. Si tratta insomma di pensare la questione della soggettivazione autonoma in modo non dialettico e tuttavia complesso. Si tratta di mettere al lavoro l’ambiguità, sperimentando la dismisura dell’innovazione e della libertà rispetto alle tecniche di cattura degli stili di vita. Dunque: ambiguità del Foucault politico? Sì. Ma nel senso percorso già da tutta la tradizione realista e materialista, almeno a partire da Machiavelli, inventore di un metodo capace di mordere il tempo storico tenendosi sempre dietro alla verità effettuale della cosa, piuttosto che perdendosi appresso all’immaginazione di essa. Perché nel concreto della storia si danno solo processi ambigui, insieme di dominio e spazi di libertà, campi di tensione all’interno dei quali occorre schierarsi. Ambiguità, quindi, come «apertura di mondo, apertura nel mondo»46. E sembra quasi di vederlo, questo Foucault, che sottoscrive il gesto di quel poeta italiano capace ancora, nel fuoco degli anni sessanta, del coraggio di parlar delle rose. Lettore di Adorno, ne corresse il motto rovesciandone per doppia negazione la tragedia in politica: non si dà vita vera “se non” nella falsa – diceva il poeta47. Perché vita vera è quella che si conquista, trasformando le maglie del biopotere in biopolitca, direbbe il filosofo. Marco Assennato École Normale Supérieure d’Architecture Paris-Malaquais marco.assennato@gmail.com M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 65. Ibidem. 46 J. Revel, Foucault avec Merleau-Ponty, cit., p. 206. 47 F. Fortini, Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Guaraldi Editore, Rimini 1971 (ora in <www.lavoroculturale.org>). 44 45


66 Marco Assennato

. Foucault’s Ambiguity This article aims to analyze the recent interpretations of the relationship between Foucault and neo-liberalism. By extension it aims at highlighting the potential criticism of Michel Foucault’s political thought. Three lines of interpretation must be opposed: the Foucault neoliberal; the Foucault critic of traditional political philosophy; and Foucault as a thinker of subjectivation. The premise is methodological and holds together three words: politics – intended as collective and plural experimentation acting on lifestyles that develop in society; ambiguity – as a space of a realistic (or materialistic) method; and criticism as ethico-political attitude. Keywords: Neo-Liberalism, Criticism, Subjectivation, Epistemology, Politics, Biopolitics, Governmentality.


Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica Salvo Vaccaro

In un articolo recensivo sulla London Review of Books del Foucault di Gilles Deleuze e di una rassegna critica americana curata da David Hoy, il filosofo Vincent Descombes chiudeva nel 1987 così il suo ragionamento:

Il Foucault americano non condivide l’“anarchismo” del Foucault francese. […] Il Foucault americano è qualcuno con cui si entrerebbe volentieri in “dialogo”. Il Foucault francese non crede nel “dialogo” (persino Dreyfus e Rabinow si sentono obbligati a porre il termine tra virgolette). Né ricerca un “linguaggio comune” o rispetta tradizioni venerabili. Non legge Wittgenstein bensì i surrealisti. Il Foucault americano può prendere molto sul serio i nostri impegni e le nostre pratiche. Ma forse è il Foucault “anarchico” che tiene avvinghiati i suoi lettori1.

Questa sorta di esergo mi è funzionale come cornice di lettura di un sapere, quello di Foucault in ogni sua sfaccettatura, intrinsecamente politico perché votato “anarchicamente”, come ben dice Descombes, a dissodare ogni “venerabile tradizione”. La dissacrazione critica di Foucault è la sua posizione politica per definizione, al di là delle forme assunte, degli impegni presi, delle attività svolte in politica da Foucault stesso, ma al di qua di ogni intesa linguistica preliminare, giacché per Foucault pensare significa prima di tutto prendere posizione, e questa presa di posizione è Critica, una Kritik mossa innanzitutto da un atto di sospensione scettica, di incredulità ponderata, di sorveglianza dei «poteri eccessivi della razionalità politica»2. Una ricognizione sulle modalità e sui percorsi con cui Foucault ha pensato la politica tanto come apparato quanto come campo d’esperienza umana non può disgiungersi dal processo genealogico che segna il metodo foucaultiano di analisi. La destituzione di ogni orizzonte uniV. Descombes, Je m’en Foucault, in «London Review of Books», vol. 9 (1987) n. 5, p. 21 (traduzione mia). 2 M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto (1982), in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa usher, Firenze 2010, p. 281. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 67-82.


68 Salvo Vaccaro versalistico che pretenda di inglobare sul piano ontologico ed essenziale l’esperienza umana incide a fondo sul pensare la politica nella cifra della sua contestualità storica, della sua articolazione discontinua, della sua forma finita. Ciò si traduce nella sottrazione dell’analitica della politica dalla sua narrazione mitica che la af-fonda quale seconda natura di un umano socialmente organizzato (essendo la prima quella di un animale socievole ma privo di parola e di ragione), restituendola quale effetto discorsivo di una serie di ingiunzioni strategiche, di tattiche conflittuali resistenti e di trame linguistiche (visuali, testuali, plastiche ed orali); si traduce nella sua sottrazione da un itinerario epocale continuo, molare, per presentarla nelle metamorfosi e nelle biforcazioni di senso di cui ricostruire elementi di continuità e discontinuità da rendere evidenti; si traduce nella sottrazione da un’aura destinale che moltiplica il dosaggio di potenza che la politica riesce ad accumulare nel nesso tra violenza e autorità, tra esercizio della forza ed immaginario simbolico, tra sangue e corpo, tra fatto e rappresentazione. In ultima analisi, lo sfondo critico da cui si staglia l’architettura genealogica di Foucault, nel solco di una linea di pensiero da Kant ad Adorno rielaborata radicalmente, si precisa come una macchina teorica che terremota il significato ereditato della politica, che interroga per sovvertirle le tecniche di produzione, di significazione, di dominio (sin qui “contromimando” Habermas) e di verità/veridizione, che immette segnali di incertezza e di acuto scetticismo sulle cornici consolidate di riflessione teorica ed analitica, che produce bruschi scarti di direzione là dove siamo trasportati placidamente ad ossequiarne totem e mantra eretti per distogliere lo sguardo dalla sua caducità, dalla sua finitudine, dalla sua contingenza. In questo saggio, cercherò di evidenziare il doppio spiazzamento che Foucault effettua rispetto alla concezione moderna della politica, da una parte aggirando il concetto su cui questa si impernia, ossia la sovranità assoluta, utilizzando la nozione di governamentalità liberale, dall’altra rigettando l’idea di politica come sfera separata e autonoma della società, proponendo una analitica del potere che costituisce l’elemento differenziale e contingente di una più ampia e articolata visione dell’insieme societario. Il prisma utilizzato per questa duplice lettura sarà il dispositivo sapere-potere-sé nella sua formazione e deformazione.


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Politica dello scetticismo La politica si presenta a Foucault soprattutto come un campo agonale, un teatro di battaglia non solo metaforica in cui si misurano e si scontrano tattiche di potere tese weberianamente a orientare e guidare, se non sovradeterminare, condotte altrui. La scena politica è innanzitutto spazializzata, visualmente individuabile attraverso strategie discorsive in cui si incarnano le forze relazionali che esercitano potere. Apparati, istituzioni, luoghi cruciali, sono costruzioni che non trovano corrispondenza nell’impalcatura sovrana che a lungo ha eretto l’edificio teorico della politica, né si dislocano secondo quella finzione di separazione tra sfera politica e società civile cara sia a Hegel che a Marx, pur se per ragioni diverse. Proprio sul pilastro fondativo della teoria politica moderna, il concetto di sovranità, si misura la critica foucaultiana, tesa a riconfigurare la nozione di potere secondo una spazialità non più verticale, tipico della gerarchia, bensì orizzontale, tipico della reticolarità al cui interno le dinamiche sono «mobili, reversibili e instabili»3, continue e discontinue secondo i casi, anziché inamovibili, necessarie, ontologicamente costituenti e costituite. Al concetto di sovranità, Foucault imputa una rigidità modulare inadatta a spiegare narrativamente la costituzione degli apparati di dominio statuali, dissimulando il primato della violenza e della forza bellica sotto un discorso contrattuale di legittimità dalle maglie troppo larghe per intravedere le molteplici affezioni che reggono l’impalcatura statuale. Sovranità e unità statuale dissolvono l’esperienza storicamente reperibile delle serie eterogenee di poteri e autorità locali ricondotte e riaccentrate secondo una topologia piramidale. L’uso della discorsività giuridica ha permesso non solo la concettualizzazione dello stato assoluto, ma anche l’emergenza del suo modello contrapposto, lo stato moderno liberale, giacché egualmente catturabile dalle élites in cerca di assicurarsene il possesso a fini governamentali, come se il potere fosse una sostanza per l’appunto detenibile4. Le tecniche di governo inaugurate dal liberalismo e inseguite sino al XX secolo definiscono una pratica politica molto differente dal dispositivo dello stato assoluto, e non solo per il mutato verso della biopolitica – dal M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 284. 4 Cfr. le prime lezioni del corso del 1975-1976, “Bisogna difendere la società” (Feltrinelli, Milano 1998), nonché le due conferenze del 1976 dal titolo Le maglie del potere (in Archivio Foucault 3, cit., in particolare pp. 157-158). 3


70 Salvo Vaccaro «vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere al potere di far vivere o di respingere nella morte»5 – bensì per la cura pastorale con cui si governa il trittico territorio-sicurezza-popolazione secondo una modalità politica estranea alla logica della sovranità. Il dispositivo sapere-potere non emerge entro tale ottica, ed è proprio su di esso che Foucault si distacca delineando una lettura alternativa del potere nella sua relazionalità orizzontale e nella sua potenza di oggettivazione tanto disciplinare, quanto governamentale. Grazie a questo dispositivo, Foucault ricostruisce lo scenario della politica, lo sfondo e le sue quinte, le sue trame anonime e impersonali, ma non per questo deserto, anzi pullulante di personaggi, taluni in maschera, per simulare e dissimulare, altri riconoscibili per funzioni e status seppure investiti da tale dispositivo in modo ben differente rispetto al paradigma sovranista. Scena mobile, invero, nessun ruolo fisso, eterno, inamovibile, nessuna parte affidata da un Regista più o meno occulto, invisibile perché osceno, trascendente, fuori scena. La politica secondo Foucault non è pratica da arcana imperii, non è un plot permanente di tragici complotti e oscure dietrologie. La sua opacità è decifrabile inseguendo sagacemente i piani plurali delle tattiche discorsive in cui il sapere-potere opera come cemento di unificazione di frammenti altrimenti dispersivi. Anzi, in una prospettiva visuale e discorsiva, il legame di interdipendenza tra «forza del potere» e «manifestazione del vero» trama una verità aleturgica in cui la politica emerge come quella pratica suprema di «governare gli uomini in generale, sia nella forma collettiva di un governo politico, sia nella forma individuale di una direzione spirituale»6. Il regime antico di obbligazione politica del sapere-potere si arricchisce della dimensione dell’obbligo di verità, meglio: alla verità, che insinua la costrizione all’obbedienza lungo un percorso “agostiniano” che dalla repressione dall’esteriore giunge all’assoggettamento volontario interiorizzato sino a chiudere il cerchio, con il monachesimo cristiano e l’istituto M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978, p. 122. Come opportunamente nota Nikolas Rose, anche oggi, in era di globalizzazione neoliberale, le crescenti diseguaglianze tra nord e sud del mondo e le relative politiche di cooperazione configurano un «lasciar morire in scala di massa e globale» (N. Rose, La politica della vita, Einaudi, Torino 2008, p. 101). 6 M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, pp. 21 e 60. «Governo inteso in senso ampio: maniera di formare, di trasformare e di dirigere la condotta degli individui» (M. Foucault, Mal fare, dir vero. Corso di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 15). 5


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della confessione, tra direzione e obbedienza, tra soggezione volontaria e annichilimento di una volontà autonoma. «Il valore dell’obbedienza dipende essenzialmente dal fatto che si obbedisce», nulla di più, nulla di meno7. Nella modernità, invece, se la narrazione contrattuale delle teorie della sovranità ci offre lo scambio libertà-sicurezza in cui registriamo una cessione di volontà, ossia un regime di verità politica che è posto sulla volontà singolare che pure l’ha voluto e legittimato, il nesso triangolare saperepotere-verità ci offre di contro la coesistenza di volontà dei governanti e dei governati, il cui dispositivo governamentale è tale da indurre i secondi a volere sempre ciò che vogliono i primi, senza annullarsi bensì entro un legame «libero, volontario e illimitato», senza minaccia di sanzione o coercizione8. Ed anche senza saturazione definitiva, anzi con una eccedenza irriducibile che Foucault avverte nella sua analisi del destino del soggetto sul campo di forze in cui si gioca il governo delle sue condotte. L’indicatore di riferimento è «il movimento per liberarsi del potere»9, il vettore è il «déprise de soi-même» nella misura in cui il sé è l’effetto di una pratica di veridizione legata alla rinuncia alla propria volontà autonoma, il presupposto è la libertà la cui pratica si offre come partner resistenziale in ogni rapporto di potere; in tal senso il potere è duale, esibendo due tensioni immanenti al gioco stesso e segnando il sentiero verso una biforcazione: la prima, tipica della filosofia politica che pretende di fondare o rinnovare il potere, nel segno della precettistica delle regole, della pedagogia della moderazione, della morale dei limiti, aspira a «prendere esattamente, virtualmente, anche segretamente il posto del potere», operando una sostituzione di figure; la seconda, invece, muovendo dalla libertà come «condizione ontologica dell’etica», tende verso una etopolitica che «assume [quel]la libertà» come rifiuto del gioco stesso di potere, denunciando l’insopportabilità «in sé» dell’esercizio del potere, l’inaccettabilità del gioco sino al punto di impedire «al gioco di essere giocato», destabilizzandolo «senza fine». È la biforcazione delle «lotte anarchiche»10. Nella critica alla filosofia politica classica e moderna, ciò che è in gioco è il pilastro della sovranità che affonda la sua solidità sulla narrazione conM. Foucault, Mal fare, dir vero, cit., p. 130. M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 232-233. Per il regime di direzione antica, particolarmente cfr. p. 276. 9 Ivi, p. 85. 10 M. Foucault, La filosofia analitica del potere (1978), in Archivio Foucault 3, cit., pp. 103-109. 7 8


72 Salvo Vaccaro trattuale che conferisce una legittimità ex ante ad ogni esercizio del potere, grazie ad essa impresso come necessità inesorabile. Lo spiazzamento proposto da Foucault è di segno scettico, e viene definito anarcheologia: È un atteggiamento che consiste innanzitutto nel dirsi che nessun potere va da sé, nessun potere, qualunque esso sia, è evidente o inevitabile, nessun potere, di conseguenza, merita di essere accettato fin dall’inizio del gioco. Non c’è una legittimità intrinseca del potere. […] Nessun potere è fondato di diritto o per necessità, dato che ogni potere poggia sempre e solo sulla contingenza e sulla fragilità di una storia, che il contratto sociale è un bluff e la società civile una favola per bambini, che non c’è alcun diritto universale, immediato ed evidente che sia in grado di sostenere dovunque e sempre un rapporto di potere, qualunque esso sia. […] Innanzitutto, non si tratta di tendere a una società senza rapporti di potere come conclusione di un progetto. Al contrario, si tratta di mettere il non-potere o la non-accettabilità del potere non a conclusione dell’impresa, ma all’esordio del lavoro, nella forma di una messa in questione di tutti i modi con cui effettivamente si accetta il potere. In secondo luogo, non si tratta di dire che ogni potere è malvagio, ma di partire dall’idea che nessun potere, qualunque esso sia, sia accettabile a pieno diritto e sia assolutamente e definitivamente inevitabile11.

Cura di sé e contro-soggettivazione plurale L’apparenza di dissolvimento del soggetto nella presa del sapere-potere si rivela tale nel momento in cui quel dispositivo si rinnova sempre in atto proprio perché l’obiettivo ultimo di richiudere quel campo si allontana sempre di più. La centrifugazione delle forze sul campo della politica eccede il sapere-potere che pure le costituisce, grazie al cruciale gioco tra derivazione e dipendenza, tra genealogia e libertà, tra analitica e autonomia12. L’evidenza delle contro-condotte elude la dialettica dell’antagonismo pur sempre costola di un protagonismo intronato non certo dal paradigma sovrano, bensì dal dispositivo sapere-potere. Le contro-condotte emergono da un sé, da un movimento di soggettivazione il quale, tuttavia, per stagliarsi in libertà, aprendo quindi nuovi scenari nell’agire politico e dunque M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 85-86. «L’idea fondamentale di Foucault è una dimensione della soggettività che deriva dal potere e dal sapere, ma non ne dipende» (G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002, p. 135). 11 12


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diverse concatenazioni tra sé conflittuali in contro-condotta, ha necessità di legare la propria volontà alla rescissione di ogni nesso con quel dispositivo di costituzione. La soggettività, infatti, è intesa doppiamente «come l’insieme dei processi di soggettivazione ai quali gli uomini si sono sottomessi o che hanno messo in atto verso se stessi»13, pertanto l’opposizione segnala una biforcazione qualitativa che attiva scarti ed eccedenze rispetto alla formazione identitaria di sé. Il movimento disciplinare di oggettivazione del soggetto moderno trova sponda, nell’itinerario foucaultiano, nel contro-movimento di soggettivazione di sé come snodo plurale di differenti linee di volizione, tramite le quali costruire quel sé che si autoforma rimodulando il dispositivo di sapere-potere, per così dire, dal basso. Le diverse forme che assume il processo di soggettivazione non incitano sempre all’autonomia della formazione di sé, le tecniche che lo costituiscono lo vincolano in una piega interiore di esteriorità, laddove la ricerca foucaultiana tende precisamente all’opposto. Una soggettivazione che non si faccia costituire esteriormente deve inventare il sé attraverso diversi movimenti, dal distacco da sé, il distanziamento da ciò che si è per divenire qualcun altro, alla pratica di sé che attiva in maniera anti-individualistica una “ascesi” che trasfigura il sé lungo un lavorio di auto-conversione che «sottrae il soggetto al suo statuto e alla sua condizione attuale»14, sino alla cura come arte di vita, «una intensificazione dei rapporti sociali»15, quindi una gravosa ricerca, nient’affatto una rinuncia, «come andando verso una meta»16, della propria singolare autonomia nella relazione tanto con sé quanto con l’altro che viene rafforzata da una ferrea volontà di attenersi ad essa quale legame di verità. La dimensione etico-estetica, in ultima analisi pragmatica del volere emerge, nell’analitica foucaultiana, sia come urgenza di ricostruzione genealogica delle condizioni della libertà e dell’autonomia, rispetto ad un processo moderno, troppo moderno, di liberazione che finisce con il riconfigurare l’eteronomia di sempre, il dominio sull’altro congelando la reversibilità delle posizioni di potere. Ma anche come delineazione dell’etopoiesi quale spazio di libertà del sé al singolare che si esonera dalla cattura M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, Seuil/ Gallimard, Paris 2014, p. 287 (corsivo mio). 14 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 17. 15 M. Foucault, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985, p. 57. 16 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 190. 13


74 Salvo Vaccaro introducendo una distanza critica tra sé e sé ereditato, tra esperienza e mondo, lungo un faticoso percorso di auto-costituzione volontaria che assume diverse figure nel corso della nostra civiltà. Foucault scommette, perdendo, sulla temporalità classica per individuare una serie di posizioni tanto teoriche quanto effettive in grado di declinare la pratica di sé e di articolarla in direzione di una capacità di autogoverno di sé, utile altresì a ipotizzare un governo degli altri, decifrabile, in negativo, come una tecnica di non assoggettamento, bensì di scambio reversibile di posizioni simmetriche che interrompa il privilegio aristocratico («comportamento d’élite»17) di autogoverno e governo altrui. Beninteso, l’analitica di Foucault è perfettamente in grado di individuare nella classicità, di volta in volta, diverse figure emergenti dalle quali trarre indicazioni di libertà e di autogoverno, dalla precettistica stoica al cinismo, operando le dovute differenze concettuali e strategiche tanto rispetto alla morale platonica la cui parrhesia socratica è radicalizzata contro Platone, quanto rispetto alla prescrizione proto-cristiana che chiude progressivamente lo spazio all’etopoiesi per affermare una carica normativa di morale eteropoietica («l’asserzione vale come prescrizione»18) che instaura una gerarchia verticale tra spiritualità dell’anima e azione plasmatrice del corpo mortificato, tra ricerca di una verità interiore e obbligo della sua coincidenza con la verità enunciata da autorità spirituali superiori. Tuttavia, l’analisi foucaultiana del mondo greco e romano, al di qua della tara di un semplicistico transfert analogico con il contemporaneo, staglia e ritaglia il movimento autopoietico come un processo costruttivo tutto imperniato sul singolo individuo, smarrendo da un lato la possibilità che tale ricerca di un sé libero la cui libertà dipende da un distacco da sé – da una ascesi che non significhi l’abbandono dalla scena mondana in favore di una dimensione ultraterrena da privilegiare, come il cristianesimo finirà per imporre quale ethos millenario, bensì una capacità di stare in questo mondo con una visione critica capace di scardinare il senso comune esperito e di innovare le pratiche di condotta – possa rispecchiarsi esclusivamente in una postura elitaria e privilegiata, «un problema di scelta personale, […] riservato a poche persone all’interno della popolazione, […] una piccola élite»19. E dall’altro, Foucault si accorge ben presto come l’avventura pure affascinante nel monIvi, p. 67. Ivi, p. 312. 19 M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress (1983), in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 302. 17 18


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do greco conduca ad una sorta di disillusione20 rispetto all’investimento strategico poiché l’ethos collettivo che quel movimento autopoietico, di cura del sé, prometteva si risolve alla fin fine nella riproposizione di una continuità pericolosa e inquietante tra autogoverno e governo degli altri, senza alcuna interruzione di senso in grado di evocare una autonomia di libertà nel gioco discorsivo del dispositivo allargato sapere-potere-volere. «Essere padroni di se stessi significava essere capaci di governare gli altri. In tal modo il dominio di se stessi era direttamente riferito a una relazione asimmetrica con gli altri. Si doveva essere padroni di se stessi nel senso dell’attività, asimmetria e nonreciprocità»21. Come se la radicalità delle pratiche di sé non fuoriuscisse dal segno singolare del gesto individuale, dello stile di vita neutralizzabile perché individuale e non collettivo, senza cioè forza per diffondersi nel corpo della società quale segno plurale e condiviso. Eccedenza e libertà La scomparsa prematura di Foucault interrompe la ricerca di e su un terreno etopolitico che risponda a tale limite. E tuttavia. Come emerge dagli ultimi suoi corsi, il richiamo alla parrhesia in ottica anti-platonica istituisce un terreno di analisi in cui la funzione del dir-vero all’autorità politica procede da una sfida elitaria, come era concepita appunto nella VII lettera, in direzione di uno stile del parlare in tensione di vero che, con la filosofia cinica, fuoriesce dagli angusti limiti autoriali per divenire cifra tangibile e altresì simbolica di un attacco al potere politico senza subirne il fascino seduttivo della mimesi. Su questo piano, dal parlar-franco del cinismo alla militanza dissidente dell’era moderna e contemporanea, al di là Tanto nella conversazione sulla genealogia dell’etica del 1983, quanto nell’ultima intervista concessa nel 1984 pochi mesi prima della morte, Foucault si pronuncia severamente sulla società classica greco-romana, a suo avviso né ammirevole né esemplare: «Non un granché. […] Mi sembra che l’intera Antichità sia stata un “profondo errore”» (M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, cit., p. 264). «L’etica greca del piacere è legata a una società virile, alla dissimmetria, all’esclusione dell’altro, a una ossessione della penetrazione, e a una specie di minaccia di essere privati della propria energia, e così via. Tutto ciò è molto disgustoso» (M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, cit., p. 306). 21 M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, cit., p. 315. E poco oltre, sul «perfetto governo di sé» che chiude in maniera inquietante e totalizzante la tensione tra etica e «politica permanente tra sé e sé»: «la virtù consiste essenzialmente nel governare perfettamente se stessi, vale a dire nell’esercitare su se stessi una padronanza esattamente uguale a quella di un sovrano contro il quale non ci sarebbero più rivolte» (ivi, p. 320, corsivo mio). 20


76 Salvo Vaccaro beninteso di tutte le trasformazioni di contesto intercorse, diventa possibile pensare l’interruzione del processo di produzione di soggettivazione che interpola l’emergenza costitutiva del sé con l’abilità indotta di collegarla al governo degli altri; diventa ossia più visibile lo spazio di tangenzializzazione di un divenire-soggetto polimorfo, sdrucciolevole, che non si lascia irretire in classificazioni, che non si lascia facilmente catturare dalle forze seducenti (in senso letterale) che lo neutralizzano ponendolo entro un dispositivo mobile di guida delle condotte altrui. In tale senso, quello spazio di eccedenza al potere politico sempre immanente ad ogni reversibilità delle relazioni di potere spezza il legame di continuità che congiunge governanti e governati, non per situarli su due mondi distanti, bensì per ritagliare all’interno della sfera dei governati una postura, se vogliamo un diritto dei governati, a non essere governati tout court, secondo una interruzione della tipica procedura di postulazione di riconoscimento che alimenta ogni dinamica politica nella individuazione di uno spazio di intersezione ove riallacciare quel legame di concatenazione che vincola il governato a farsi guidare dal governante. La politica non viene più pensata come sfera separata bensì come arte creativa delle condotte, estetica dell’esistenza, quindi etopolitica, «l’idea che l’etica possa essere una struttura determinante dell’esistenza, senza alcuna relazione né con il giuridico in quanto tale, né con un sistema autoritario, e nemmeno con una struttura disciplinare»22. È noto come Foucault oscilli a definire l’opposto della governamentalizzazione proprio al suo sorgere, nel XVI secolo. In un certo senso, non ammette che possa emergere una posizione tipicamente anarchica («non vogliamo essere governati in alcun modo», «affatto»23), sebbene proprio Étienne de La Boétie possa in qualche maniera essere considerato il precursore nel medesimo XVI secolo di una posizione che si affermerà successivamente nel XVIII con William Godwin. La servitù volontaria che regge l’impalcatura del dominio sovrano allude esplicitamente ad una arte della volontà di non farsi assoggettare sul versante di una contro-soggettivazione spesso bollata come idealista, ma che proprio Foucault evoca in senso affermativo alla ricerca di una postura individuale e collettiva di segno etico, visibile in contro-condotte reali. Ivi, p. 308. Diversa è la posizione di Rose (La politica della vita, cit., pp. 39-40, 152), secondo il quale per etopolitica occorre intendere un governo degli individui declinato in senso etico, ossia agendo su sentimenti, stili e modi di vita, pratiche valoriali, tecnologie del sé, al fine di migliorarsi. 23 M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, pp. 37 e 71. 22


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Nella discussione che segue la celebre conferenza su Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), Foucault non si pronuncia in senso anarchico, sebbene non lo «esclud[a] categoricamente», preferendo slittare verso locuzione del genere «non vogliamo essere governati in questo modo», oppure non vogliamo essere governati «eccessivamente», essere governati «così»24. È possibile fornire varie interpretazioni agli slittamenti lessicali segnalati. A me sembra che ribadiscano il metodo foucaultiano di parlare puntualmente e per contesti ben precisi, senza generalizzazioni sovra storiche o peggio universali, come quando rigetta «una sorta di anarchismo fondamentale, […] una libertà originaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione»25. Certo, non è pensabile un Foucault che usi le locuzioni puntuali per accettare una sorta di governamentalizzazione “buona” contro la quale non scatta alcuna «volontà decisoria di non essere governati». Ad ogni governamentalizzazione scatterà un movimento di resistenza anarchico sempre puntualmente legato agli specifici effetti attivati da quella governamentalità. Del resto, il triangolo che Foucault individua a proposito del governarsi, del lasciarsi governare e di governare altri, con la sottodivisione del governo di sé nel senso di una adesione spontanea e volontaria alla pressione conformista di auto-adeguarsi alle pratiche di governamentalità oppure di autogovernarsi sfuggendo alla pressione eteronoma, va interrogato muovendo dalle soglie di interruzione di continuità tra i movimenti dell’anima, come emerge alla fine della lunga ricerca nell’antichità classica, in cui invece i rispettivi movimenti erano connessi strettamente gli uni agli altri secondo una continuità inquietante che integra l’autonomia del sé nel processo eteronomo di guida e di governo degli altri e dagli altri. Piuttosto, mi sembra importante osservare che la tensione duale tra desiderio di asservimento, passione a lasciarsi governare e suo contromovimento di non farsi governare denoti una rottura di tonalità, di Stimmung, segni cioè una biforcazione perenne, una oscillazione instabile che caratterizza un pensiero antimetafisico in cui si nega tanto una origine Ivi, pp. 37-38, 71. «La posizione che assumo non esclude assolutamente l’anarchia – e in fondo, ancora una volta, perché l’anarchia sarebbe così deprecabile? Lo è automaticamente, forse, soltanto per coloro che ammettono che c’è sempre necessariamente, essenzialmente, qualcosa come un potere accettabile» (M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., p. 86). Amplio a questo punto quanto esposto nel mio La volontà di non essere governati, in S. Marcenò e S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, duepunti edizioni, Palermo 2011, pp. 51-71. 25 Ivi, p. 71. «Ci si solleva, questo è un fatto» (M. Foucault, Sollevarsi è inutile? (1979), in Archivio Foucault 3, cit., p. 135). 24


78 Salvo Vaccaro assoluta, una arché originaria, quanto un destino fatale, una teleologia onto-logica. Nulla è fondamentale. Questa è la cosa interessante nell’analisi della società. È questa la ragione per cui non c’è nulla che mi irriti più delle domande – metafisiche per definizione – sulla fondazione del potere all’interno di una società o sull’auto-istituzione di una società. Questi non sono fenomeni fondamentali. Ci sono solo relazioni reciproche, e scarti continui, di un’intenzione rispetto all’altra26.

Se leggiamo poi tale campo di tensione irriducibile tra relazione di potere e esercizio della libertà quale sua condizione preliminare, al di qua e al di là della politica, l’obiettivo di esautorare ogni immaginario di inesorabile necessità del potere, di destituire di senso ogni concezione metafisica, ontologica del Potere (con o senza la P maiuscola) viene perseguito, sulla scia weberiana, rendendo indisgiungibili l’esercizio del potere nella sua cifra relazionale con la sfida agonistica della libertà, con la «provocazione permanente» tra due partner tesi a governare la condotta altrui, a «strutturare il campo di azione possibile» per l’altro. Il gioco del governo degli altri possiede al proprio interno, e in maniera costitutiva, il proprio «limite permanente, un punto di possibile rovesciamento», la propria potenza che lo nega. «La relazione tra il potere e il rifiuto della libertà a sottomettervisi non può perciò essere sciolta. […] Nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza della volontà e l’intransigenza della libertà»27. Forse in questo momento, M. Foucault, Spazio, sapere e potere (1982), in M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 181. «Nelle società umane non c’è potere politico senza dominazione. Ma nessuno vuole essere comandato, anche se sono molti gli esempi di situazioni nelle quali la gente accetta la dominazione. Se esaminiamo dal punto di vista storico la maggior parte delle società che ci sono note, constatiamo che la loro struttura politica è instabile. Non mi riferisco alle società extra-storiche – alle società primitive. La loro vicenda è del tutto dissimile dalla nostra. Ma tutte le società appartenenti alla nostra tradizione hanno conosciuto instabilità e rivoluzioni» (M. Foucault, Studiare la ragion di stato (1979), ivi, p. 153). 27 M. Foucault, Come si esercita il potere? (1982), in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., pp. 292, 296, 293. «Dire infatti che non può esistere una società senza relazioni di potere non equivale a dire che le relazioni che si sono istituite risultano necessarie, e nemmeno, in ogni caso, che il potere costituisce una fatalità irraggiungibile nel cuore della società» (ivi, p. 294). 26


Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 79

Foucault è più vicino di quanto non si pensi all’idea di Deleuze che le cose hanno rilievo nel mezzo, né all’inizio né alla fine, e che la società è un costrutto esistenziale che sfugge immanentemente ad ogni chiusura totalizzante, ad una unità costitutiva. Lungo tale percorso, la politica viene pensata non più sotto il profilo del campo di oggettivazione configurato di volta in volta da un dispositivo ad hoc di sapere-potere, bensì contro-pensata come arte di sottrazione, come effetto di «una insubordinazione e una libertà essenzialmente irriducibile»28, come «volontà»29 di non farsi governare, esattamente come la pensavano de La Boétie30, gli anarchici (ad esempio, il Malatesta di Pensiero e volontà) nonché, tangenzialmente, anche Deleuze. Una sottrazione etopolitica, in cui appunto si coalizzano eterogeneamente esperienze individuali e lotte politiche. Del resto, Foucault, analizzando minuziosamente il celebre testo kantiano Risposta alla domanda: Was ist Aufklärung? nella lezione del 5 gennaio 1983, rievoca il lemma analogo di Ausgang, uscita dallo stato di minorità in cui in gioco non è affatto una infanzia dell’umanità ancora immatura per una autonomia da conseguire, bensì un deficit di volontà, «un difetto, […] una Ivi, p. 296. «Una impazienza pronta a ribellarsi» (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 213). 29 M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 73. L’idea di approfondire il senso politico profondo della “volontà” emerge tanto nel dibattito del 1978, quanto nello scritto di postfazione del 1982. Tuttavia Foucault – per il quale «il problema cruciale del potere non è quello della servitù volontaria (come potremmo noi desiderare di essere schiavi?)» (M. Foucault, Come si esercita il potere?, cit., p. 293) – non intende tale lemma nel senso “volontaristico” del termine, come invece tendono a fare gli anarchici da de La Boétie a Malatesta, quanto in forma esperienziale, pragmatica, empirica, al cui interno quell’interrogativo è riassorbito come fattispecie secondaria dalla tensione ineludibile tra potere e libertà. Del resto, che si possa dare «subordinazione senza alienazione» è quanto emerge visibilmente dalle pratiche ingiuntive di obbedienza proattiva e di confessione e dalla loro funzione nell’ascesi cristiana e nel governo dell’anima condotte nelle lezioni sul Governo dei viventi e Mal fare, dir vero. In tal senso, cfr. M. Nicoli e L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in «aut aut», n. 362 (2014), in particolare p. 66. 30 Sono dell’avviso che Foucault legga in maniera ristretta e unilaterale il pamphlet del XVI secolo, come denota la battuta rievocata nella nota precedente. De La Boétie intende, a mio parere, sottolineare la fragilità costitutiva dell’autorità, la precarietà sospesa del potere, l’assenza di qualsiasi necessità di ordine metafisico, anzi la contingenza del suo esercizio si lega, direi quasi proto-foucaultianamente, ad una visione ascendente della sua dinamica dal basso verso l’alto. Espongo tali considerazioni nel mio Genealogia del potere destituente. L’inattualità tenace di Étienne de La Boétie, in L. Lanza (a cura di), L’anarchismo oggi: un pensiero necessario, Mimesis/Libertaria, Milano 2014, pp. 133-143. 28


80 Salvo Vaccaro certa forma di volontà» che limita l’accesso alla facoltà critica non solo della ragione, ma anche della pratica di sé, seguendo le critiche kantiane; né è in ballo una espropriazione giuridica, «un qualsiasi spossessamento (giuridico o politico)». In effetti, sostiene Foucault, l’uscita si rende necessaria «perché agli uomini manca la capacità o la volontà di dirigere se stessi e perché degli altri, con molta benevolenza, si sono offerti di prenderli sotto la loro guida. Kant si riferisce a un atto, o piuttosto a un atteggiamento, a una modalità del comportamento, a una forma della volontà che è generale, permanente, e che non crea assolutamente un diritto, ma solo una sorta di stato di fatto in cui allora – per benevolenza e, in qualche modo, per una forma di cortesia leggermente venata di scaltrezza e astuzia – certuni si trovano ad aver assunto la direzione degli altri»31. Benevolenza, scaltrezza, astuzia, sono tante denominazioni dell’eteronomia, per così dire, “in buona fede”, pur se fondano in un’unica scena la pratica dell’obbedienza e l’insufficienza della ragione: si tratta di rifiutare la prima sulla scena pubblica e di far valere la seconda nella costruzione autonoma della pratica di sé, oltrepassando decisamente la conciliazione kantiana tra obbedienza e ragionamento nella distinzione delle due sfere, invece tanto nel privato quanto nel pubblico, sconnettendo capacità di autonomia e relazioni di potere eteronome32. Insomma, facendo la rivoluzione. Parrhesia e forma di vita In Foucault, tale interruzione radicale, tale posizione di dissenso irrecuperabile, è leggibile, da un lato, dagli atti della sua pratica politica, una parrhesia non in attesa di una risposta solutiva di una denuncia avanzata nella privazione consapevole del carattere di istanza; tutt’altro, la parrhesia declina l’esercizio della libertà contro l’autorità – non per dirle cosa fare, sul modello del consigliere del principe, bensì «in rapporto al potere, […] in una sorta di faccia a faccia […] con il potere», sfidandolo «in una certa relazione con l’azione politica»33 – nel legame libero e volontario tra il volere la libertà e l’obbligo di attenersi coerentemente a tale volere che si tiene per vero, che riM. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, rispettivamente p. 36 e p. 37. 32 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in Archivio Foucault 3, cit., p. 230. In Foucault, «la libertà è definita non come un diritto a essere ma come una capacità di fare» (M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 296). 33 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 275. 31


Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica 81

tiene veridico, che si enuncia come vero e quindi autovincolante nella pratica autonoma di costituzione del proprio sé. Coerenza tra attitudine critica della ragione insofferente all’obbedienza (che sia cieca o troppo illuminata tale da accecare) e stile di vita, modalità di condotta. Un legame tra parrhesia e bios, «maniera di vivere»34, che offre la postura di sé come esemplarità autorevole al di qua di ogni primato sensoriale del logos o della scrittura in funzione di autorità costituita. Un corpo parresiasta che urla il vero per proclamare, non reclamare, la propria libertà. Anche e soprattutto a rischio della propria vita, «perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio»35. In tal senso, il legame tra etopoiesi e etopolitica, tra dimensione individuale e dimensione collettiva diviene nitido. La parrhesia è così «la garanzia che ognuno sarà per se stesso la propria autonomia, la propria identità, la propria singolarità politica»36. La forza dell’interruzione tende ad aprire uno spazio eterotopico dentro il topos disciplinare e governamentale, al fine di giocare la soglia mobile del fuori come incavo del dentro da cui proseguire l’eccedenza radicale di senso e di immaginario rispetto ai confini del politicum possibile. L’eredità dei cinici, lungo un percorso storico in cui ovviamente sono cambiate condizioni e contesti di senso, viene assunta dal dissidente radicale, dal rivoluzionario portatore di un mondo nuovo nel proprio cuore, e non soltanto vettore di una particolare analisi ideologica del mondo o di un progetto politico. Se la parrhesia declina il dire-il-vero anche nel senso estetico dell’esistenza, ossia come prefigurazione visibile, come testimonianza mondana e non trascendente della possibilità di una organizzazione della società differente, allora «la rivoluzione ha funzionato come un principio che ha prodotto un certo modo di vita», cioè una militanza che intesse la vita come attività rivoluzionaria nella socialità, manifestando «direttamente, nella sua forma visibile, nella sua pratica costante e nella sua esistenza immediata, la possibilità concreta e il palese valore di un’altra vita; un’altra vita che è la vera vita»37. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 129. 35 M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, p. 9. «Il corpo steso della verità è reso visibile, e risibile, attraverso un certo stile di vita: una vita concepita come presenza immediata, eclatante e selvaggia della verità» (M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 171). 36 M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 193 (corsivo mio). 37 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., pp. 180, 181. «Un militantismo nel mondo e contro il mondo» (ivi, p. 272). 34


82 Salvo Vaccaro Il nesso tra parrhesia e aletheia non è quindi di natura epistemica o religiosa, bensì etica, apre il varco per una vita filosofica non-dissimulata, segnata dall’irruzione di una «vita radicalmente e paradossalmente altra» che rompa le pratiche della quotidianità in segno di rottura totale con l’esistente e la sua organizzazione istituita, ereditata, la forma-di-vita da cui sottrarsi e fuoriuscire, verso «la trasformazione del genere umano e del mondo»38. L’etopolitica evocata, invocata da Foucault si affida allo sforzo singolare di dis-identificazione legato ad un movimento plurale, che trova nella parrhesia la forza di risonanza necessaria ad produrre eco sotto forma di una stilizzazione collettiva della vita. Il passaggio dall’etopoiesi individuale ed elitaria all’etopolitica plurale trova nel dire-il-vero quella forza di auto-obbligazione non fideistica – giacché «laddove c’è obbedienza, non può esserci parrhesia» – in cui l’immanenza come forza-di-vita rilancia «una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra»39. Salvo Vaccaro Università degli Studi di Palermo salvo.vaccaro@unipa.it

. Foucault: From Ethopoiesis to Ethopolitics In my article, it is my intent to connect, from one part, the critical perspective of usual political philosophy with which Foucault erases the concept of sovereignty in favor of an analysis of power that finally takes him to biopolitics and governementality, and, from the other, the aesthetics of existence with which Foucault is styling a care of self typically ethical. I think that the practice of parresia brings further this tactics of thinking towards an ethopolitics viable to define a form of life founded on the will to not be governed. Keywords: Foucault, Critique, Care of the Self, Parresia, Ethopolitics, Biopolitics, Governmentality.

38 39

Ivi, pp. 236 (passim, anche p. 258), 298. Ivi, pp. 317, 321.


Lo sciopero della politica

Foucault e la rivoluzione soggettiva Frédéric Rambeau

Lo spostamento della problematizzazione politica del soggetto verso un

paradigma etico o etico-estetico della soggettività ha segnato, come sappiamo, il pensiero di Foucault sulla “soggettivazione”. Un tale spostamento è legato all’esigenza di una riappropriazione dei mezzi di produzione della soggettività che ha fatto nascere l’analisi critica dei regimi di enunciati e di visibilità, secondo i quali i dispositivi istituzionali fabbricano dei soggetti governandone i corpi e la vita. Ma le relazioni tra soggettivazione etica e “disassoggettamento” sociale possono essere solo indirette. Ma in mezzo resta uno scarto irriducibile che in Foucault segna l’assenza di una teoria della soggettivazione politica. Il significato politico – strategicamente decisivo – dell’aver evitato la soggettivazione politica in favore della soggettivazione etica è una questione che Foucault avrebbe lasciato aperta, come sospesa. A questo proposito è fondamentale la sua ultima presa di posizione durante gli eventi in Iran. Da un lato, essa rivela la forza politica che un insieme di prescrizioni etiche può assumere, e indica come alla successiva ricerca di Foucault sulle pratiche di sé e sugli esercizi spirituali, che riguarda una soggettivazione che non si costituisce specificamente in un ambito politico, corrisponde ugualmente una posta in gioco politica. Dall’altro lato, questa presa di posizione ci invita a riconoscere la consistenza soggettiva che possono produrre le rivolte, le quali, dissociate dalla problematizzazione occidentale della libertà politica e del diritto della “soggettività infinita”, si percepiscono spiritualmente piuttosto che formularsi ideologicamente e si fondano sul terreno della religione o delle “visioni” dell’immaginazione piuttosto che legittimarsi su quello della politica e della deliberazione: «Essi inscrivevano la loro fame, le loro umiliazioni, il loro odio nei confronti del regime e la loro volontà di ribaltarlo ai confini del cielo e della terra, in una storia sognata che era sia religiosa sia politica»1. M. Foucault, Inutile de se soulever?, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 792; trad. it. Sollevarsi è inutile?, in M. Foucault, Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 133. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 83-96.


84 Frédéric Rambeau Una volta ripristinato il legame, antico e complesso, tra escatologia religiosa e rivoluzione, categorie come quelle di “fanatismo” o l’opposizione tra “Illuminismo” e “Oscurantismo” non ci appaiono più soltanto come confuse semplificazioni. Esse assomigliano a quegli schermi la cui luce artificiale dissimula malamente quello che dovrebbe nascondere, la povertà etica e talvolta l’ignominia dei modi di esistenza e di pensiero che ci sono proposti in funzione delle esigenze di mercato. L’inchiesta di Foucault in Iran mostra il ruolo che può svolgere la cultura religiosa nell’insorgere di una “volontà generale”, in quanto garanzia di un cambiamento reale, di massa, e popolare del modo di vivere. D’altra parte, colpisce constatare lo scarto che separa questa aspirazione di tutto un popolo a un’altra temporalizzazione della vita e questa presunta fede, in cui tale aspirazione si affievolisce fino a ridursi alla sola fascinazione «ultraterrena» della pulsione di morte, in fondo così debole, così poco fiduciosa di sé, che nell’attualità di una situazione sceglie di distruggere ciò che è incapace di rendere impossibile – sconfortante doppio di questa nullità etica dell’Occidente che questa stessa aspirazione denuncia, ma per contrapporle nient’altro che questo semplice programma di abolizione di se stessa e degli altri. Tuttavia, l’ammirazione di Foucault per questa “rivolta a mani nude” che inscriveva la propria forza antagonista in un’esperienza spirituale, la sua attenzione verso la maniera in cui essa era vissuta, verso la sua “soggettivazione” piuttosto che alle sue cause oggettive o alle sue ragioni profonde, non l’hanno condotto, d’altronde, a sottovalutare la sua totale ambiguità? Poiché l’appello a un’altra soggettività, a un cambiamento radicale della forma di vita, riguarderebbe anche, e allo stesso tempo, questo tipico processo di auto-appropriazione attraverso cui un soggetto, un popolo o una comunità si rapportano a se stessi solo in quanto tali2. L’“assoluta” vicinanza tra l’essenza spirituale del sollevamento e gli arcaismi della religione, l’immediata prossimità tra l’irrigidimento conservatore della soggettività e le esigenze emancipatrici, non indicano forse l’ambivalenza di questo balzo dalla politica alla soggettività – e il prezzo (elevato) da pagare per avere evitato attraverso l’etica la questione della soggettivazione politica? È nota la critica di Jacques Rancière. Poiché il suo pensiero della politica è costruito essenzialmente sulla questione del potere, del suo investimento Se questo processo di auto-appropriazione ha segnato, come è noto, la forma occidentale della libertà (che Foucault cerca di disarticolare), esso è anche alla base dei diversi fondamentalismi che pretendono di affermarsi in nome di una fede. 2


Lo sciopero della politica 85

positivo nella gestione della vita e nella produzione di forme ottimali d’individualizzazione, poiché esso può essere indifferentemente chiamato “biopotere” o “biopolitica”, Foucault non si sarebbe interessato, in ogni caso non da un punto di vista teorico, alla questione della soggettivazione politica3. Ma, in verità, questa critica non è estranea al rimprovero che nel 1977 Foucault rivolgeva a se stesso in La vita degli uomini infami (un bell’esempio, d’altronde, di parrhesia): «Qualcuno obietterà: rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove o dal basso; sempre la stessa scelta, di collocarsi dalla parte del potere, di che esso dice o fa dire»4. Sempre con la stessa incapacità di oltrepassare il confine… Deleuze dal suo canto presenta il riorientarsi di Foucault verso i modi di soggettivazione etica come il tentativo di aprirsi una via di fuga, un varco al di fuori della dimensione onnipresente delle relazioni di potere nella quale egli avrebbe finito per sentirsi rinchiuso: «La volontà di sapere termina esplicitamente con un dubbio. L’impasse in cui si viene a trovare Foucault dopo l’uscita di questo libro non è però dovuta al suo modo di pensare il potere, ma piuttosto al fatto di aver scoperto l’impasse in cui ci pone il potere stesso, nella nostra vita così come nel nostro pensiero, proprio noi che ci scontriamo con il potere nelle nostre più piccole verità»5. Questa interpretazione presenta il vantaggio di far apparire la questione che resta fondamentalmente nascosta nella prospettiva di Foucault, come insabbiata non solo sotto la genealogia delle forme moderne dell’assoggettamento, ma anche sotto quelle antiche del rapporto a sé. La soggettivazione indica un’altra dimensione strategica dell’esperienza umana (quella del governo Cfr. J. Rancière, Biopolitique ou politique, in «Multitudes», n. 1 (2000), ripreso in Id., Et tant pis pour les gens fatigués, Éditions Amsterdam, Paris 2009, p. 217. Cfr. anche Id., La Mésentente, Galilée, Paris 1995, pp. 55-56; trad. it. Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, pp. 50-51. 4 M. Foucault, La vie des hommes infâmes, in Dits et écrits II, cit., p. 241; trad. it. La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009, p. 23. Questa formulazione del 1977 sarà rinviata da Jacques Rancière al suo autore l’anno seguente in La pensée d’ailleurs: «Ma se la devianza o la rivolta non appaiono mai se non nella forma in cui i discorsi del potere le costituiscono, la filosofia non riprende con la mano sinistra quello che aveva lasciato con la mano destra, permettendo alla fine che, attraverso il concetto di potere, si reinstauri quel discorso di previdenza retrospettiva che riporta la grande ragione delle oppressioni e delle rivolte alla piccola ragione dei libri di filosofia», J. Rancière, La pensée d’ailleurs, in «Critique», n. 369 (1978), pp. 242-245.. 5 G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986, p. 103; trad. it. Foucault, Cronopio, Napoli 2002, p. 127. 3


86 Frédéric Rambeau di sé) a fianco di quelle del potere e del sapere? O sorge invece come un eccesso rispetto ad esse, non tanto rispetto alla politica o alla scienza, quanto rispetto alla logica che lega insieme queste due dimensioni del potere politico e della verità scientifica? La dimensione “strategica” (nel senso delle “relazioni di potere”, della libertà come relazionalità del potere) riguarda tanto l’etica quanto la politica. Proprio per questo l’etica, con le “pratiche di sé” o con le pratiche di libertà, non riempie la forma del disassoggettamento aperta dall’inerenza delle resistenze al potere, ma lasciata vuota dall’assenza di una teorizzazione della soggettivazione politica. La soggettivazione etica non è meno strategica dell’assoggettamento sociale. Il governo di sé non è meno strategico del governo degli altri. Ne è (e non senza ironia) la condizione: la libertà è la condizione ontologica del potere («se le relazioni di potere attraversano tutto il campo sociale, è perché la libertà è dappertutto»6). Il rapporto a sé è la condizione della governamentalità. Non ci sarebbero dunque altre pratiche di libertà se non delle forme di governamentalità, nel senso più ampio che Foucault attribuisce a questo concetto: «l’insieme delle pratiche attraverso cui si può costituire, definire, organizzare, strumentalizzare le strategie che gli individui, nella loro libertà, possono avere tra di loro»7. Tuttavia, certi punti di resistenza indicano sicuramente un fuori delle relazioni di potere, un limite esterno del diagramma dei poteri, che non è certo anteriore ai loro meccanismi, ma che deriva dal loro esercizio immanente, eccedendoli, e quindi alla fine senza dipenderne. Il potere produce nella logica immanente del proprio esercizio una forza che lo eccede e che in parte va sempre al di là di esso. Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente8.

Se è vero che in Foucault non vi è una teorizzazione della soggettivazione politica propriamente detta, è tuttavia proprio tale questione che, nel suo M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits II, cit., p. 1539; trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., p. 285. 7 Ivi, p. 1547; trad. it. cit., p. 293. 8 M. Foucault, Pouvoirs et stratégies, in «Les Révoltes Logiques», n. 4 (1977), pp. 89-97, ripreso in Dits et écrits II, cit., p. 421; trad. it. Poteri e strategie, in Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994, p. 21. 6


Lo sciopero della politica 87

impegno politico in conflitti concreti, polarizza le sue prese di posizione. Queste ultime sono puntualmente rivolte verso l’emergere di nuove forme di soggettivazione collettiva. Da questo punto di vista, la soggettivazione non designa più soltanto la dimensione etica delle pratiche di sé e il campo di storicità che le è proprio. Essa indica l’apertura di uno scarto, la disarticolazione del diagramma dei poteri. Inoltre è proprio quando la soggettivazione appare irriducibile alla socializzazione dei soggetti all’interno delle relazioni di potere che la politica si disarticola rispetto al diagramma dei poteri che copre tutta la superficie del campo sociale. Che si tratti della rivolta di un delinquente contro pene abusive, o di un folle contro il suo deperire e la sua reclusione, o di una sollevazione popolare, secondo Foucault, il momento di sganciamento (point de décrochage) dalle relazioni di potere, per come esso appare sotto la forma dell’intollerabile, è sempre costituito dall’esigenza che invoca un cambiamento radicale della soggettività: «Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale»9. La soggettività diviene il luogo di questa resistenza che non è più interna alle relazioni di potere, ma apre una dimensione che rispetto ad esse resta irriducibile. Tuttavia, un tale scarto non sorge tanto come una discontinuità politica ma come una discontinuità rispetto alla politica stessa. L’irruzione della soggettività sulla scena politica porta allo stesso tempo quest’ultima verso il suo fuori, verso i suoi margini esterni chiamati a circoscrivere la sua attività o il suo ambito statutario attraverso pratiche prive di enunciati, impersonali e radicalmente mute, o ancora, tramite aspirazioni soggettive di natura spirituale. La soggettivazione non è più solamente una funzione della resistenza rispetto all’oggettivazione degli individui oppure solo una reazione al loro assoggettamento sociale. Essa acquista un contenuto positivo e affermativo. Ma questo è più etico che politico. Tutto accade come se, in Foucault, la soggettivazione non possa essere una forma collettiva di libertà se non alla condizione di essere la manifestazione di una libertà diversa dalla politica. La dimensione della soggettivazione è la sola in grado di dare alla politica un senso irriducibile all’evoluzione storica di una funzione diagrammatica. Ma appena la politica trova nella dimensione della soggettivazione una forma di eterogeneità concreta rispetto alla storia delle pratiche materiali di potere, essa si rovescia immediatamente nell’etica. 9

M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 793; trad. it. cit., p. 135.


88 Frédéric Rambeau A questo riguardo la sua inchiesta sulla Rivoluzione islamica iraniana è esemplare. Lo stesso processo rivoluzionario (la destituzione di una forma di organizzazione sociale e l’affermazione di una volontà generale) presuppone un’esperienza etica. L’esperienza politica è indissociabile da un’esperienza spirituale. Ma è esemplare anche perché questa soggettivazione di massa, rivoluzionaria e “anti-strategica” appare agli occhi di Foucault come uno “sciopero della politica”: non tanto un’interruzione politica ma una interruzione della politica stessa. L’attenzione accordata da Foucault ai processi di soggettivazione gli avrebbe dunque permesso di reperire una delle più decisive dinamiche degli anni a venire. Egli identifica immediatamente questo fenomeno decisivo, che all’epoca non si offriva con la stessa evidenza che oggi ha per noi: il peso dell’islam in quanto forza politica10. Per questa sollevazione popolare la religione non è un rivestimento ideologico, ma risponde piuttosto a un’esigenza etica. Non è l’obbedienza alla legge, la religione appare piuttosto come una promessa e una garanzia in virtù di un cambiamento radicale della soggettività: quella di una rivoluzione reale del modo di vita. In questo modo che essi hanno avuto di vivere la religione islamica come forza rivoluzionaria, c’era una cosa diversa dalla volontà di obbedire alla legge il più fedelmente possibile, c’era la volontà di rinnovare la loro intera esistenza riallacciandola con un’esperienza spirituale che pensavano di trovare nel cuore stesso dell’islam sciita11.

Le pratiche, le condotte, gli obblighi politici o morali sono determinati da un mondo fatto di universi spirituali, in cui si dispiegano i cicli dell’immaginazione e gli eventi profetici. Nelle specificità culturali e teologiche dell’islam sciita (di cui prima non si era mai occupato), Foucault sottolinea tutto quello non corrisponde all’obbedienza ai codici e alle forme gerarchiche e centralizzate di organizzazione12. Così «Il problema dell’islam come forza politica è un problema essenziale per la nostra epoca e per gli anni a venire» (M. Foucault, Dits et écrits II, cit., p. 708). «L’islam – che non è solo una religione, ma un modo di vita, un’appartenenza a una storia e a una civiltà – rischia di costituire una gigantesca polveriera su una scala che comprende centinaia di milioni di persone. Da ieri, ogni Stato mussulmano può essere rivoluzionato dall’interno, a partire dalle sue tradizione secolari» (ivi, p. 761). 11 M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, in Dits et écrits II, cit., p. 749. 12 Il modo di insegnamento e il contenuto esoterico dell’islam sciita separano l’obbedienza esteriore al codice e la profondità della vita spirituale. La sua modalità 10


Lo sciopero della politica 89

vengono separate l’aspirazione a un governo islamico e la realtà di un regime politico diretto dal clero, per mostrare meglio come nella prima vi sarebbe la manifestazione stessa della sollevazione in quanto forma di vita. Le promesse dell’aldilà, dell’incontrastato regno del bene e del ritorno del tempo, riportano la sollevazione iraniana a ciò che durante i secoli ha costituito, là dove la forma della religione vi si prestasse, «non un abito ideologico, ma il modo stesso di vivere le sollevazioni […]. Sovrapposizione sorprendente, che faceva apparire, in pieno secolo XX, un movimento abbastanza forte per rovesciare un regime apparentemente tra i meglio armati, pur essendo vicino ai vecchi sogni che l’Occidente ha conosciuto un tempo, quando si volevano inscrivere le figure della spiritualità nel terreno della politica»13. L’escatologia religiosa costituisce il contenuto positivo, affermativo di quella sollevazione che non è solamente un rifiuto del regime esistente, che non riguarda nemmeno un’organizzazione politica, ma è innanzitutto una percezione collettiva: la rivendicazione d’un altro mondo in questo mondo, ovvero di un’altra maniera di vivere. L’esperienza spirituale rende questa sollevazione irriducibile alle lotte contro la dominazione (la lotta contro l’imperialismo americano) e alle lotte contro lo sfruttamento (la lotta di classe). Che vi sono certo strettamente legate: la forma di soggettività che rifiutano gli iraniani è chiaramente quella della “modernizzazione”, l’universalizzazione del modo di vita capitalista. Ma questa sollevazione non dipende da essa. Anche se essa è articolata alle contraddizioni che attraversano la società iraniana, questa rivoluzione non è una lotta anti-imperialista classica (come, ad esempio, quella del Vietnam), in cui la religione sarebbe solo un paravento. La dimensione religiosa, poiché è collettivamente percepita come cambiamento di soggettività, non è riducibile a una semplice rivestimento ideologico della lotta contro la dominazione imperialista da parte delle masse contadine e dei mussulmani non arabi più recentemente convertiti. Foucault vede negli avvenimenti iraniani l’apertura di uno scarto tra la storia dei dispositivi di potere, degli interessi di classe e delle strategie di credenza si basa sul principio secondo il quale la verità non è stata compiutamente realizzata dall’ultimo profeta; ma grazie al ritmo ciclico della serie degli imam, essa illumina gli uomini: attraverso il loro operare essi potranno far tornare il dodicesimo imam che ristabilirà, nella sua perfezione, la giustizia che ha creato la legge (e non il contrario). Infine, la sua modalità di organizzazione riposa sull’assenza di gerarchia nel clero, sull’importanza dell’autorità puramente spirituale e sulla indipendenza delle varie autorità religiose. 13 M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 792; trad. it. cit., p. 133.


90 Frédéric Rambeau politiche da un lato, e l’essenza della sollevazione dall’altro. Quest’ultimo è vissuto secondo una speranza e un’esperienza caratterizzate da una storia spirituale e da una coscienza religiosa irriducibili alla storia empirica, eterogenee rispetto al tempo stesso della storia. Questa “frattura del presente attraverso l’intemporale” vale come un’interruzione del gioco politico, quello dei partiti, del governo, ma certamente anche di quello delle strategie e dei calcoli rivoluzionari. Per questo non vi ritroviamo le dinamiche abitualmente riconoscibili in una rivoluzione, in primo luogo le contraddizioni interne a una società, la lotta di classe e la presenza di un’avanguardia (classe, partito o ideologia politica)14. Gli scarti che Foucault cerca di rendere visibili, tra aspirazione generale a un governo islamico e governo dei mollahs («La spiritualità a cui si riferiscono coloro che stavano per morire non è paragonabile al governo cruento di un clero integralista»15), tra forma di soggettività e dispositivo materiale di potere, tra sollevazione e rivoluzione, e infine tra politica e storia, non dipendono più da un antagonismo fondamentale. Ma restano in compenso sospesi e, in definitiva, fondati, sulla differenza tra la storia religiosa e delle condizioni storiche e politiche. È solo in quanto esistenza spirituale che la soggettività può produrre questo scarto rispetto alle strategie del potere politico, che sia quello dello Stato o quello del clero. Secondo Foucault, gli avvenimenti iraniani acquistano tutto il loro senso solo a condizione di dissociare l’evento (o “l’essenza”) della sollevazione e la sua realizzazione empirica. Esso si basa su una storia “trascendentale”, posta al di là della storia materiale e reale, una meta-storia che si svolge secondo gli eventi ideali dell’islam sciita. Gli avvenimenti in Iran si trovano in questa intersezione, in questo incrocio tra la storia essenzialmente pensata, quella degli “eventi del cielo”, e la storia concreta dei dispositivi empirici di potere (il dispotismo, l’imperialismo occidentale, la corruzione dei dirigenti, ecc.). Il sorgere di un fuori rispetto alle relazioni di potere si colloca nel legame indissolubile tra soggettività e spiritualità. Il senso politico che Foucault attribuisce alla spiritualità o alla dimensione religiosa è legato al cambiamento radicale della soggettività che essa esige. Ma, al contrario, il valore che Foucault accorda a questa Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, cit., p. 744: «Che cos’è per noi un movimento rivoluzionario in cui non si può collocare la lotta di classe, in cui non si possono collocare le contraddizioni interne alla società e in cui non si può neppure individuare un’avanguardia?». 15 M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 793; trad. it. cit., p. 134. 14


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rivendicazione di una nuova soggettività dipende dalla politica spirituale che la rende possibile. L’esperienza spirituale e la dimensione etica non sono modi possibili o una delle tante forme dell’esigenza di un cambiamento radicale della soggettività; ne sono piuttosto la condizione. L’attenzione alla maniera di vivere, alla conversione dello sguardo operata da questo punto orientale della sollevazione ci porta a rompere con il modello storicista che definisce la soggettività come un fenomeno semplicemente derivato dai più fondamentali meccanismi di sfruttamento economico e di dominazione politica. Quello che resta in sospeso è tuttavia l’articolazione antagonista tra i due una volta che si è decostruito il loro rapporto “ideologico”. Secondo Foucault in definitiva quest’ultimo tende sempre a naturalizzare, a oggettivare, a scientificizzare il rapporto – operazione dinanzi alla quale la soggettività non sopravvive e con la quale essa perde la sua realtà, il suo peso ontologico. Ma tutto questo non porta anche a spiritualizzare, inversamente, il rapporto tra i due? Come opera questa differenza, come si produce questo scarto tra soggettività e dispositivi materiali di potere, in modo tale che la prima non sia il terminale o la semplice derivata dei secondi, se non fondandosi su un’esperienza spirituale e una meta-storia religiosa, come nel caso della Rivoluzione islamica e dei suoi esiti catastrofici? Foucault sembra attribuire a questa soggettività spirituale elementi che in verità non sono mai stati separati dalle lotte socialiste e rivoluzionarie. Certo, ed è con tutta evidenza quello che Foucault cerca, la forma di soggettività marxista prodotta nella lotta rivoluzionaria contro lo sfruttamento è ritenuta essere nient’altro che il soggetto di questa rivoluzione. Certamente, questo soggetto della rivoluzione è innanzitutto per Marx un soggetto prodotto dalla scienza de Il Capitale. Ed è solo in quanto concetto scientifico che il proletariato sarà ritenuto adeguato a svolgere il ruolo di soggetto in quanto soggetto della rivoluzione. È probabilmente a questo che pensa Foucault quando presenta la Rivoluzione (da cui distingue quel che chiama la Sollevazione) come una forma di oggettività scientifica fondata sulla coerenza d’insieme e la sistematizzazione totalizzante, una strategia di potere che dipende dalla costruzione di un’avanguardia, e infine come un’economia interna al tempo stesso che colloca la rivoluzione nella storia fissandola al suo interno16. Ma quando Marx si trova davanti alle lotte concrete, quando descrive per esempio la Comune di Parigi, o nei Manoscritti del ’44, anch’egli testimonia 16

Ivi, p. 791; trad. it. cit., p. 133.


92 Frédéric Rambeau di questo scarto tra soggettivazioni all’opera nelle attività rivoluzionarie e quello che i proletari sono tenuti a essere: lucidi su quel che essi sono e su quel che questo essere li obbliga storicamente a fare. Queste trasformazioni della soggettività, per mezzo di possibilità che si danno nell’immediatezza, infiltrano nel combattimento politico e nel conflitto di classe spazi contesi e un tempo rubato in cui si inventano nuovi rapporti con sé e con gli altri17. Al contempo, tali trasformazioni fanno anche sì che la “politica spirituale” faccia vivere diversamente il tempo e la temporalizzazione, e questo anche oggi stesso. Allo stesso modo, tutto ciò relativizza la differenza sottolineata da Foucault tra le lotte del XIX secolo contro lo sfruttamento e quelle contemporanee, o anche più vecchie, contro l’assoggettamento. L’indipendenza che Foucault riconosce a questa dimensione della soggettivazione rispetto ai processi storici, economici e sociali, che si basa su una storia religiosa, lascia di fatto interamente aperta la questione del tipo di rottura che questa forma di soggettività e questa politica spirituale sono suscettibili di produrre con questi processi. In che senso l’assenza di ogni politica di divisione, di ogni conflitto “partigiano” o interno alla popolazione (che secondo Foucault testimonia una forma reale, concreta – e non solamente teorica – di “volontà generale”), sarebbe il segno della forma più moderna di rivolta? Non è proprio questo il punto che rende ancora più incerto che tale sollevazione sia in grado di resistere alla sua propria sedimentazione in nuovi stati di dominazione e nella continuazione, o nella permanenza, della stessa dinamica economica e sociale del capitalismo mondiale? L’impegno di un militante del FLN nella lotta di liberazione nazionale non implica uno sconvolgimento soggettivo meno importante, né conseguenze meno decisive in materia di de-soggettivazione e risoggettivazione, di quelle veicolate dall’esigenza etica di una forma di Cfr. K. Marx, Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris 1996, pp. 194-195; trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, p. 130. Questo desiderio degli operai di fare qualcosa di diverso dal proprio lavoro, questa emancipazione riguardo le virtù stesse del lavoratore sono descritte da Jacques Rancière in La nuit des prolétaires. In Savoirs hérétiques et émancipation des pauvres, egli mostra come negli anni trenta del XIX secolo le pratiche selvagge di appropriazione intellettuale e di riqualificazione del loro universo materiale da parte di operai e di falegnami filosofi (i “Socrati della Plebe” come Ballanche o Gauny) si svolgono secondo la duplice esigenza di una “cura di sé” e di una “cura degli altri” inscritta nella solidarietà degli esseri. Cfr. J. Rancière, Les scènes du peuple, in Les Révoltes Logiques, 1975-1985, Éditions Horslieu, Lyon 2003, p. 37. 17


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vita più spirituale. Raggiungere il partito comunista ha spesso significato un cambiamento radicale di soggettività. Dando simultaneamente all’antagonismo di classe la sua dimensione soggettiva e la sua dimensione politica, tale impegno resta irriducibile a un calcolo tattico volto a razionalizzare e istituzionalizzare l’appartenenza etica alla Rivoluzione in quanto modo di esistenza o “ethos rivoluzionario”. Ed è quello che Foucault non menziona quando, cercando di circoscrivere e di promuovere la dimensione etica del rapporto a sé (ne L’ermeneutica del soggetto) a proposito dell’esperienza rivoluzionaria del XIX secolo, distingue e disgiunge da un lato la dimensione etica e la conversione, e dall’altro, l’appartenenza alla rivoluzione tramite l’adesione a un partito18. Egli mette così da parte la questione tuttavia decisiva del rapporto tra questo schema pratico o etico della conversione (che sarebbe stato assorbito, prosciugato, annullato in quello dell’adesione al partito) e la strategia politica rivoluzionaria. L’ammirazione di Foucault riguarda questa percezione collettiva che conferisce al processo rivoluzionario una potenza irriducibile al potere di un’organizzazione politica. Ma questa aspirazione comune al governo islamico (tanto “generale” e condivisa nella sua forma, quanto confusa e indeterminata rispetto al suo contenuto) tende alla fine a sostituirsi al processo di legittimazione politica, al posto di condurvi. Essa apre così la via che porta all’istituzionalizzazione del momento della rivolta e della sua materia in fusione tanto questo processo diventa sanguinario e repressivo. Questa etica collettiva, che potrebbe dare la sua forza soggettiva alla rivendicazione di una democratizzazione politica, finisce in realtà per prevalere su di essa e, poiché è essenzialmente determinata da una coscienza religiosa e da un’esperienza spirituale, giunge infine ad esserne dissociabile. La coscienza religiosa di una identità già data, le rivendicazioni di pratiche tradizionaliste per Foucault non sono incompatibili con un cambiamento radicale della soggettività: «Quando dico che essi cercavano attraverso l’islam un cambiamento nella loro soggettività, è del tutto compatibile con il fatto che la pratica islamica tradizionale era già data e le assicurava la loro identità»19. Siamo d’accordo. Tuttavia esse non sono però incompatibili nemmeno con il mantenimento o il ripristino dei dispositivi M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/ Gallimard, Paris 2001, p. 2001; trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 184-185. 19 M. Foucault, L’esprit d’un monde sans esprit, cit., p. 749. 18


94 Frédéric Rambeau politici di dominazione e di quelli economici di sfruttamento. È questo che rende così incerta la presa di questa “soggettività rivoluzionaria” sulla logica internazionale e immanente del Capitale. Visto che quest’ultima si “riterritorializza” costantemente, come affermano Deleuze e Guattari, su forme identitarie e tradizionaliste. Molto ispirato dal libro di Ernest Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza), Foucault si concentra soprattutto sulla relazione tra le lotte religiose, antiche e precapitaliste, che riguardano le “contro-condotte”, e quelle contemporanee che sono rivolte al rifiuto di ciò che siamo e all’invenzione di altre forme di soggettività20. Non gli appartiene invece la questione dell’esteriorità o, al contrario, dell’omogeneità di questa politica spirituale (non più centrata sul marxismo) con il programma o la logica del Capitale. L’attenzione di Foucault si dispiega allora sul modo in cui questa sollevazione è vissuta, senza cercare di scovarne le «ragioni profonde»21. Ma tale questione resta nondimeno essenziale per l’intelligibilità di ciò che rende questo rifiuto, questa immensa protesta del popolo iraniano contro la «modernizzazione» (i.e. contro il modo di esistenza prodotto da questa logica e in base a questo programma), irriducibile a una rivolta contro lo sfruttamento? La logica del capitalismo, come è noto, non corrisponde più solamente alla globalizzazione egemonica della soggettività europea, e al discredito che al contempo essa attribuisce alle forme di vita che non sono al passo di questo modello occidentale di libertà politica. Se la doxa dello scontro di civiltà è così palesemente falsa, questo è precisamente legato al fatto che, come l’hanno mostrato Deleuze e Guattari nei due tomi di Capitalismo e Schizofrenia, le soggettività contemporanee prodotte dall’assiomatica capitalista sono esse stesse divise tra il passato e l’avvenire, tra l’arcaismo e la modernità, simultaneamente in ritardo e in anticipo su esse stesse22. Queste sono costituite da una combinazione di attaccamento M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244: «Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo […]. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli». 21 M. Foucault, Inutile de se soulever?, cit., p. 792; trad. it. cit., p. 133. 22 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Éditions de Minuit, Paris 1972, p. 307; trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 294. 20


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arcaicizzante a tradizioni culturali o a vecchie forme di soggettività e di aspirazioni alla modernità tecnologica e scientifica, tanto in Oriente quanto in Occidente23. L’essenza soggettiva della ricchezza che ha fatto del Capitale una forza della coscienza, un’impresa globale di soggettivazione (la proprietà privata come attività per sé, soggetto, persona), è duplicata attraverso le riterritorializzazioni conservatrici della soggettività che marcano l’incessante ricodificazione dei suoi propri limiti in «arcaismi a funzione […] attuale», svolta mediante l’assiomatica capitalista24. L’accento posto sull’etica, la preminenza dell’esperienza spirituale e dell’escatologia religiosa hanno certo permesso a Foucault di riconoscere la singolarità di questo luogo orientale della sollevazione, testimoniando nuovamente la sua sorprendente intuizione politica. Ma lo hanno anche condotto a mettere da parte, l’inesplorata relazione tra questa irruzione della soggettività sulla scena politica internazionale e le ricodificazioni dell’assiomatica capitalista necessarie alla globalizzazione. Come rendere conto allora della totale ambiguità di questa rivoluzione soggettiva che ha attraversato il popolo iraniano, mescolando nello stesso processo di soggettivazione tanto un senso di emancipazione, quanto atteggiamenti sociali conservatori, un’esperienza spirituale “trascendentale” e arcaismi religiosi del tutto empirici? Anche l’inchiesta di Foucault in Iran manifesta le difficoltà, e forse i limiti, della dislocazione etica dell’antagonismo politico che ha segnato la sua ultima filosofia. La questione della soggettivazione attribuisce a ciò che era considerato inessenziale, secondario o derivato, l’importanza della cosa più solenne e più materiale. La dislocazione decisiva della questione politica (“che fare?”) verso quella della produzione di nuovi modi di soggettività attribuisce a quello che era ritenuto superficiale (le parole, i La coesistenza per esempio della nuova economia delle transazioni digitali e il risorgere dei valori tradizionali della famiglia, o di dio, o ancora la riaffermazione delle identità etniche in un mondo tuttavia regolato da una globalizzazione che va oltre le nazionalità e gli Stati-nazione. Cfr. F. Guattari, Chaosmose, Galilée, Paris 1992, p. 13; trad. it. Caosmosi, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 11-12. 24 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., pp. 306-307; trad. it. cit., pp. 293294. Come l’ha mostrato Marx, la produzione «per il capitale» fissa al capitalismo dei limiti immanenti allo sviluppo assoluto della sua produttività sociale, che esso non può superare se non riproducendosi su una scala allargata (cfr. K. Marx, Le Capital, livre III, chapitre 15, Éditions sociales, Paris 2015, p. 263; trad. it. Il capitale, Libro III, cap. 15, Einaudi, Torino 1975). 23


96 Frédéric Rambeau discorsi, i desideri, le immaginazioni) l’importanza di quello che vi è di più profondo. Essa apre così la possibilità di una critica e di una creazione dei modi di apparire, che non sarebbe tuttavia causata da una trasformazione fondamentale delle forme delle società capitaliste e dalla dinamica di accumulazione che le sostengono. Il cambiamento radicale della forma di vita o del modo di esistenza non è più considerato come la manifestazione naturale di una rottura nei rapporti di sfruttamento e di dominazione. Ma, ritenuto valere di per se stesso, esso tende allora a evitare gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione, e per questo esso è costretto ad assumere la forma dell’invocazione di un’esigenza etica, il cui rapporto con i dispositivi politici non costituirebbe più la determinazione fondamentale. Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Frédéric Rambeau Université Paris 8 fredericrambeau304@gmail.com

. The Strike in Relation to Politics. Foucault and the Subjective Revolution In the late 1970s, Foucault regards the uprising of the Iranian people as the demand of a dramatic change of subjectivity. Religion (Shiite Islam) appears as the guarantee of an actual transformation in the mode of existing. In this situation, he shows that the political strength of Islam stems from the fact that it does not primarily speak the language of politics, but of ethics. According to Foucault, such spiritual politics, away from Marxism, cannot be reduced to a strategic rationalization and, therefore, provokes discontinuity from politics. It points to the spring and the critical impulse of Foucault’s ethics. It also leads to consider “subjectivation” as a dimension that could slip from the circle of freedom drawn by its total immanence to power. This very issue is at stake in the Foucaldian concept of “relation to oneself ”, and in its aporia: it is both the first condition of governmentality and the ultimate point of resistance against any governmentality. It thus reveals the difficulties involved in Foucault’s skirting of political subjectification in favour of ethical subjectification. Keywords: Subjectification, Politics, Ethics, Spirituality, Iran, Governmentality, Revolution.


Ethos animale

Filosofia e politica nell’ultimo Foucault Pierandrea Amato

Prologo nietzscheano

Nelle letture dedicate a uno dei documenti più noti dell’anti-storicismo

tedesco, la seconda considerazione inattuale di Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), passa generalmente inosservato che al fondo del discorso nietzscheano vi è una radicale ipotesi antropologico-politica concepita mediante una filosofia dell’animalità1. L’uomo, secondo il giovane Nietzsche, agisce, e in questa maniera diviene effettivamente un uomo, quando provoca ciò che non c’è; ossia, se ostruisce la sovranità di Kronos e sperimenta il tipo di relazione estatica che l’animale instaura con il tempo: una relazione mesmerica, frammentaria, sincopata, evenemenziale. Per Nietzsche, una vera azione, un’azione in grado di concepire una durata e una storia, non possiede un fondamento storico, ma erompe da un’infondatezza siderale e plebea. Un’azione è veramente tale, se si rivela infedele a qualsiasi operazione della coscienza e del sapere. Per intenderci, l’antropologia-politica del giovane Nietzsche prende platealmente le distanze dalla filosofia fenomenologica di Hegel: l’uomo della coscienza diventa un uomo nella Fenomenologia dello spirito quando traccia una linea di separazione dal proprio presupposto naturale-animale e allora diviene auto-cosciente perché agisce e dialetticamente trasforma il mondo e si trasforma2. Anche in due studi preziosi dedicati alla seconda Considerazione inattuale manca un riferimento all’inclinazione politica che custodisce, nel giovane Nietzsche, il tema dell’animalità: cfr. J. Salaquarda, Studien zur Zweiten Unzeitgemässen Betrachtung, in «Nietzsche Studien», n. 13 (1984), pp. 1-45; J. Le Rider, La vie, l’histoire et la mémoire dans la seconde considération inactuelle de Nietzsche, in «Revue internationale de philosophie», n. 1 (2000), pp. 77-98. Egualmente, in un’ampia ricerca sulla simbologia politica dell’animalità, pure dove si parla di Nietzsche, la questione in riferimento alla Seconda inattuale passa inosservata: B. Accarino, Zoologia politica. Favole, mostri e macchine, Mimesis, Milano 2013, in part. pp. 49-61. 2 Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 97-121.


98 Pierandrea Amato L’inquietudine animale della seconda inattuale nietzscheana non si limita a rovesciare la preoccupazione antropologica di Hegel, ma abita un territorio estraneo anche a una tesi che affiora in una costellazione concettuale dove l’auto-coscienza non presenza alcuna rilevanza per stabilire lo statuto dell’umano: nel 1929, in un ciclo di lezioni universitarie, Concetti fondamentali della metafisica, Heidegger stabilisce la divaricazione ontologica tra l’uomo e l’animale; la differenza si fonderebbe proprio sull’ipotesi che l’animale, a differenza dell’uomo, non può agire ma soltanto reagire a uno stimolo3. Il giovane Nietzsche pensa, al contrario, l’animalizzazione dell’uomo, perché soltanto l’animale, in quanto privo di storia, fornirebbe la chance per sgravare l’uomo dal peso eccessivo della storia. La responsabilità più grave della cultura scientifica, in questo senso, è procurare la strutturale dissociazione tra ciò che è animale nell’uomo e le funzioni teoretiche del suo logos. Sull’utilità e il danno della storia per la vita è una critica al processo di storicizzazione disciplinare del sapere. Indica, più precisamente, nella frattura tra la vita e il sapere, la logica simbolica e materiale del progetto moderno. La malattia storica della civiltà moderna, ciò che il XIX secolo avrebbe prodotto con un accumulo straordinario di conoscenze filologiche sul tempo passato, affiora quando la storia tende, almeno idealmente, ad assumere il medesimo statuto epistemologico delle scienze forti; si corromperebbe, a questo punto, l’istinto che permette all’uomo di riconoscere quando è il caso di sentire in mondo storico e quando, invece, è preferibile voltare le spalle al passato e agire come un animale; vale a dire, senza alcuna percezione del tempo. Quali sono gli effetti degenerativi più gravi della malattia storica? Secondo Nietzsche, con l’incondizionata storicizzazione della cultura, la natura umana dissipa la propria falda animale; ossia, la sua capacità di agire. L’azione evidentemente, per il giovane Nietzsche, ha un carattere preciso ma circoscritto: si dà un’azione non semplicemente quando si trasforma l’esistente ma quando la sua creazione proviene dal nulla, da una dimensione infondata, inconcepibile, imprevedibile, da un recesso animale che, ogni qualvolta agiamo, improvvisamente erompe. Per questo motivo, secondo Nietzsche, per «ogni agire ci vuole oblio (Zu allem Handeln gehört Vergessen)»4; in altre parole, per agire, ci dobbiamo dimenticare chi siamo. Per agire veramente, dobbiamo trascurare la nostra storia, il nostro passato, da dove proveniamo. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il Melangolo, Genova 1999. 4 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1991, p. 8. 3


Ethos animale 99

Ma l’uomo moderno è consegnato a un destino d’infelicità perché la sua cultura non prevede sfasature del tempo, lacune storiografiche, omissioni del passato. In questa maniera però, secondo Nietzsche, l’uomo si ammala: sfiorisce, diventa triste e sofferente. Al contrario, l’animale – un essere non storico – è felice perché istituisce un rapporto epifanico con il tempo. Il tema dell’azione, nella seconda inattuale nietzscheana, come soglia che separa la dimensione storica da quella non storica, potrebbe esibire un inatteso valore politico. Naturalmente, la politica in Nietzsche non stabilisce un legame con gli orientamenti giuridici tradizionali della filosofia politica. Ad esempio, per schematizzare una questione in realtà difficile, è troppo noto il giudizio nietzscheano nei confronti dello Stato perché possano sorgere equivoci sull’irriducibilità della sua posizione a una definizione giuridica della politica (pensiamo soltanto, per limitarci a un esempio tratto dal giovane Nietzsche, ai brani della terza considerazione inattuale, Schopenhauer come educatore, dove si critica pesantemente la funzione culturale dello Stato)5. Tuttavia, per quanto sia giusto essere prudenti quando si attribuisce alla filosofia nietzscheana una tonalità politica, è possibile, sin dagli scritti giovanili, rinvenire in Nietzsche una forma di coalescenza dionisiaca tra la politica e la vita basata su una concezione evenemenziale dell’azione. La politica nietzscheana non è un’arte di governo – lo spazio dell’amministrazione dei comportamenti – né un regime di controllo; piuttosto, separata può definire l’indice fondamentale della trasformazione; l’epifania del divenire che non sacralizza la vita nella sua dimensione organica, ma nelle sue deformazioni permanenti. La politica nel giovane Nietzsche, in questo senso, è un evento; un’eccedenza animale. Evoca l’irruzione (dionisiaca) della vita nella storia, perché, per Nietzsche, un’azione rappresenta una sottrazione dell’umano a se stesso come evocazione di una condizione estetica, concreta e infondata al contempo, in grado di infrangere la datità della cosa del mondo. L’uomo, per essere felice, felice se non altro per un attimo, secondo la Considerazione inattuale sulla storia, deve agire; vale a dire, è chiamato a sospendere il corso ordinario del tempo e a schivare l’eccedenza del passato: il peso delle norme, delle regole (sociali) consolidate. A ben vedere, dunque, l’uomo, per essere felice, deve trovare il coraggio di essere incivile; irresponsabile; ferino; deve trovare la forza per trascendere le norme sociali 5

H. Ottmann, Philosophie und Politik bei Nietzsche, De Gruyter, Berlin-New York 1987.


100 Pierandrea Amato e le frontiere epistemologiche. Soltanto provocando la propria animalità può diventare ciò che esso è, un uomo, e non un animale gregario. Non si può comprendere la trasformazione dell’uomo moderno in un animale gregario, problema che domina, ad esempio, Genealogia della morale, senza tenere conto che per Nietzsche l’uomo agisce, cioè, non è un animale gregario, esclusivamente se non è un animale mansueto, ma si comporta senza fare calcoli particolari sul proprio destino. In Sull’utilità e il danno della storia per la vita la soglia temporale che separa immancabilmente l’uomo da se stesso, ossia, da ciò che è stato, non è la causa dell’annichilimento culturale dell’uomo. Per quanto la tesi principale della seconda inattuale sia radicale – l’esistenza è un essere stato e l’uomo è per natura un incompiuto –, in realtà il livello in cui il giovane Nietzsche si muove riguarda essenzialmente un ambito pedagogico-culturale in cui è la storia, come disciplina scientifica, l’oggetto contro il quale si esercita la critica. Nietzsche lo dice chiaramente: l’uomo ha bisogno di storia. Tuttavia l’accesso all’animalità del non storico è il presupposto per una relazione non sclerotizzata con il passato: (r) esiste un passato – come un ricordo qualsiasi – se il passato può essere dimenticato. Nella trama di questo esodo dal tempo, di questa sospensione (animale) del tempo, si schiude lo spazio per l’azione. Il sentire non storico, sia ben chiaro, non è per Nietzsche una condizione idillica; anzi, è una situazione tragica, perché coincide con un impulso della vita che si oppone agli orientamenti della sua organizzazione sociale. Una condizione in cui il valore della tradizione è sospeso; in cui qualsiasi riferimento persino ideale all’oggettività del sapere è bandito. Nondimeno, in realtà, la dimensione non storica diventa condizione favorevole per la vita proprio per la sua essenziale ingiustizia, dal momento che corrisponde a quanto di più vero ci sia nella vita: la sua irrappresentabilità; la sua eccedenza nei confronti di qualsiasi codice prestabilito. Esclusivamente se il tempo non è il campo in cui domina l’inesorabile, ma diventa il terreno dove può accadere l’impossibile (la sospensione del tempo: un altro tempo nel tempo), l’uomo diventa un animale storico in grado di non lasciarsi annichilire da ciò che è stato. Per un motivo molto semplice: la vita è «una forza non storica»6. Eccede, precede, interrompe la storia. 6

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 16.


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L’uomo non è un animale soltanto se può diventare un animale. Il suo essere animale non sarà mai una semplice condizione biologica, una mera datità, piuttosto incarna il divenire: l’essere che potremmo essere; la nostra potenza estranea alla sua cristallizzazione. Per agire e resistere al potere (del tempo), dunque, bisogna imitare Gregor Samsa: non è come un insetto ma diventa effettivamente un insetto. Che cosa significa per Nietzsche essere un animale? Vuol dire essere leale: «l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per tutto come ciò che è, quindi non può essere nient’altro che sincero»7. Ciò che fa di un uomo un animale, la sua mancanza di ipocrisia, si basa sul rapporto che instaura con se stesso: vivere e la verità nel divenire animale dell’uomo tendono a mescolarsi; un animale dice sempre, a modo suo, la verità su di sé nel momento in cui la dice. Probabilmente, a questo proposito, non è esagerato considerare nel suo complesso l’impresa del giovane Nietzsche, che sperimenta la praticabilità di una filosofia del presente, alla luce della conclusione della prima considerazione inattuale, David Strauss, quando Nietzsche sancisce la propria estraneità all’epoca, almeno fino a quando «sarà considerato inattuale quello che attuale fu sempre e che oggi più che mai è attuale e fa bisogno – dire la verità»8. Estetica ed etica L’eredità della filettatura politica della seconda considerazione inattuale nietzscheana, consegnata a una teoria dell’azione zoo-antro-politica, riemerge in un tornante decisivo delle ricerche del cosiddetto ultimo Foucault; quando, dopo l’indagine sulla natura extra-giuridica del potere politico moderno, dall’inizio degli anni ottanta, allestisce un cantiere su alcuni nodi del pensiero antico, la cui posta in gioco, in estrema sintesi, è la definizione genealogica di un’etica del sé e, più in generale, di una rigenerazione della politica legata alla definizione delle condizioni di una democrazia radicale come eccedenza permanente rispetto a qualsiasi governo democratico della vita. Ciò avviene senza rinunciare al problema apicale della filosofia, la verità, né alla questione 7 8

Ivi, pp. 6-7. F. Nietzsche, David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano 1991, p. 104.


102 Pierandrea Amato del soggetto e del potere, ma declinando la vicenda in un senso apertamente anti-scientifico e, per quanto strutturato sulla scia inaugurata da Platone, in una direzione esplicitamente anti-platonica. È in questa costellazione teorica, la separazione tra la verità e la conoscenza, che il problema dell’animalità, il nodo teorico che guida la composizione di queste pagine, diventa un elemento in grado di svelare la logica interna dell’intero itinerario dell’ultimo Foucault. In effetti, già nella tesi di dottorato del 1961, Storia della follia, dove l’animalità ritrae il prisma per verificare la trasformazione che subisce lo statuto della follia nel passaggio tra il Rinascimento e l’età moderna, sia successivamente, quando negli anni settanta Foucault inizia una capillare analitica del potere moderno, la simbolica animale ha un peso notevole nelle ricerche foucaultiane. In realtà, però, non è mia intenzione adesso documentare neanche brevemente il valore che custodisce in Foucault, in termini generali, il problema dell’animalità nell’economia della sua esplorazione del nesso che si instaura tra il sapere e il potere9. Piuttosto, si tratta di allestire un’indagine più circoscritta e fare i conti, tra le pieghe dell’inchiesta che Foucault intraprende sull’antico, con una faccenda più specifica: la chance politica di un’emergenza etica dell’animalità. L’aspirazione politica del suo interesse per i temi dell’etica del sé, e la sua rilevanza per un’ontologia del presente, emerge, ad esempio, in una lezione del 17 febbraio 1982 al Collège de France: Nella serie di tentativi e di sforzi, più o meno bloccati, e chiusi su se stessi, per restaurare un’etica del sé, così come nel movimento che, ai giorni nostri, fa sì che ci riferiamo continuamente a tale etica del sé, ma senza però mai conferirle alcun contenuto, penso vi sia forse da sospettare qualcosa come una sorte di impossibilità, e precisamente l’impossibilità di costituire un’etica, oggi, un’etica del sé. Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé a sé10. Indaga l’intero itinerario foucaultiano, attraverso il filo rosso dell’animalità, un saggio di qualche anno fa: S. Chebili, Figures de l’animalité dans l’œuvre de Michel Foucault, L’Harmattan, Paris 1999. 10 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 222. La produzione critica sull’ultimo Foucault recentemente, com’era prevedibile, considerando la sequenza delle pubblicazioni delle lezioni al Collège de France, è straripante. Mi limito allora a indicare due volumi molto utili comparsi recentemente in Italia: S. Ferrando, Michel Foucault. La politica presa a rovescio. La pratica antica della verità nei corsi al Collège de France, FrancoAngeli, Milano 2012; L. Bernini (a cura di), Michel Foucault. Gli antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità, ETS, Pisa 2011. 9


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L’etica del sé concepisce forme di resistenza diverse da quelle che si definiscono, nell’età moderna, attraverso la contrapposizione nei confronti di un sovrano di cui si vorrebbe prendere il posto. L’obiettivo nell’esplorazione foucaultiana dell’antico è di esaminare una composizione della soggettività che implichi una rottura del sé con il sé; una trasformazione che ritrae, nell’intenzione di Foucault, il presupposto per accedere a un’idea della verità che prenda le distanze da qualsiasi disegno epistemologico (in effetti, nelle sue ultime ricerche, rispetto al passato, la nozione che più di ogni altra è messa da parte o, quanto meno, subisce una rivisitazione radicale, è quella di sapere). Ciò che interessa Foucault non è la verità, come fenomeno esterno al soggetto che conosce, ma le relazioni che il soggetto, in nome della verità, stabilisce con se stesso. Tutto ciò avrebbe un insospettato spessore non soltanto etico ma anche politico. Facciamo un breve passo indietro: non si comprendono le motivazioni della sterzata teorica foucaultiana, vale a dire, il suo abbandono della modernità come campo d’indagine privilegiato, senza comprendere il tipo di relazione tra le sue ricerche nell’etica classica e quelle condotte, alla fine degli anni settanta, sul neoliberalismo contemporaneo come esito estremo della logica della governamentalità moderna. Il neoliberalismo, secondo Foucault, in estrema sintesi, è un dispositivo di potere che si esercita non contro ma mediante la libertà: alterando la dinamica platonica-hobbesiana, non governa ostruendo i desideri individuali, ma tramite una serie di tecniche in grado di scatenare gli impulsi privati come presupposto indispensabile per gestire una società molecolare e complessa. Ciò significa che il neoliberalismo governa promuovendo un desiderio particolare e politicamente inaudito: quello di essere governati. O, più precisamente, come sostiene Foucault, il neoliberalismo, articolando senza sosta un discorso critico nei confronti dello Stato, in realtà, lavora all’evocazione di un desiderio dello Stato11. In particolare nel ciclo di lezioni del 1979 al Collège de France, Nascita della biopolitica, l’obiettivo è mostrare che le forme di governo contemporanee si basano su una capillare diffusione della libertà in quanto presupposto per estendere in maniera potenzialmente illimitata il controllo sulla vita. M. Foucault, Metodologia per la conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 267. Sul rapporto tra Stato e desiderio in Foucault, in particolare con riferimento a Sicurezza, territorio, popolazione, si veda il mio Bio-politica e sovranità, in Tecnica e potere. Saggi su Michel Foucault, Mimesis, Milano 2008, pp. 103-143. 11


104 Pierandrea Amato L’idea che la libertà sia una tecnica di governo conduce Foucault a una impasse teorico-politico, dal momento che nelle forme di potere neoliberale ciò significa che tenderebbe a svanire la possibilità di rintracciare un punto di fuga; una via d’uscita dalle sue maglie mutevoli e, allo stesso tempo, estese. La riduzione del ruolo dello Stato nella meccanica dei dispositivi disciplinari, ad esempio, non diminuisce, al contrario, la diffusione di pratiche di assoggettamento: nello spazio neoliberale, le tecniche di sorveglianza non sono meno intrusive di quelle sovrane e disciplinari. Anzi: fondate sul consumo di libertà, si rivelano più efficienti di quelle disciplinari, perché rendono pressoché impraticabile l’emergenza di pratiche di resistenza efficaci. Il neoliberalismo, in sostanza, corrode qualsiasi legame (affettivo, economico, politico, culturale in generale), ma, allo stesso tempo, produce nuove forme di controllo collegate alla sua capacità discorsiva sia di rendere la logica del mercato la fonte di inediti processi di verità sia di definire la propria fisionomia come un’espressione del fondo più genuino della natura umana. Senza tenere conto dell’integrazione della libertà nei dispositivi di potere contemporanei, non è possibile orientarsi adeguatamente tra le maglie dell’ipotesi che stimola l’iniziativa foucaultiana sul pensiero antico. Se il potere si esercita sempre sull’azione dell’altro, il neoliberalismo crea le condizioni per cui il soggetto stesso istituisce i presupposti del proprio assoggettamento, ostacolando l’opportunità di lasciare condensare una relazione con l’altro nella quale la libertà può circolare nella forma di una messa in discussione dei giochi di potere. È nelle maglie di questo precipizio politico che emerge l’urgenza di verificare l’accessibilità di pratiche di resistenza fondate su un soggetto estraneo alla costituzione cartesianohobbesiana (la coscienza e il diritto sovrano), tenendo presente, però, rispetto alla dinamica classica, che la libertà non rappresenta più il polo dialettico negativo in grado di ostacolare l’esercizio del potere. Foucault studia il rapporto che nell’età classica il soggetto instaura con la verità. In questa operazione genealogia, più specificatamente, esamina la nozione di cura di sé (epimeleia heautou): ne indaga la fisionomia e lo sviluppo storico, articolando un confronto critico con la nozione che più di ogni altra tende a definire l’auto-riconoscibilità della cultura occidentale nella forma del rapporto che il soggetto instaura con se stesso: il conosci te stesso (gnoti seauton). Cartesio è il nome che L’ermeneutica del soggetto considera il suggello storico-concettuale in cui si consuma il tramonto della cura di sé nella cultura moderna: trionfa il soggetto che conosce se stesso mediante


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un metodo in cui la teoria della conoscenza ha una rilevanza assoluta. Nella filosofia cartesiana, infatti, il rapporto del soggetto con la verità riguarda la coscienza e non la vita: la verità, in questa maniera, diventa oggetto di una procedura; di un atto di conoscenza. La filosofia moderna, per questo motivo, non prevede alcun esercizio particolare su di sé del soggetto che conosce per accedere alla verità; è sufficiente, per la legalità della conoscenza, che il soggetto si sottometta alla logica del cogito e rispetti un iter. Per il resto, può essere anche un criminale. La cura di sé, al contrario, ha uno spessore esistenziale; definisce uno stile di vita che espone un doppio movimento: uno sguardo lanciato verso di sé che, però, non è separato da un’azione su di sé. La verità, allora, può essere considerata l’esito, sempre aperto e mai concluso, di un’esperienza. È una pratica; un evento. Per il nostro obiettivo, la verifica della condensazione di un legame tra etica e animalità nell’ultimo Foucault, è ragionevole giungere rapidamente alla soglia teorica probabilmente cruciale nell’economia della cura di sé: nella costituzione del soggetto etico, nell’ambito del profilo della cura di sé classica, Foucault attribuisce una consistenza speciale a una figura frastagliata che gioca un ruolo cardine nel suo discorso sull’estetica dell’esistenza (la bella vita come forma di vita in grado di ritrarsi dalla cattura del potere): la parrhesia. La nozione di parrhesia è un principio formato da stratificazioni storiche notevoli che tra le mani di Foucault non cessa di esprimere variegate e complesse sfumature concettuali. Tuttavia è utile tentare una sintesi: sostanzialmente, delinea un’etica del linguaggio in cui il nesso verità e libertà è messo in gioco sino all’estremo e, per questa ragione, non è azzardato pensare che sia una teoria e pratica del conflitto politico. Si tratta, infatti, di dire la verità al potere: il parlar franco impone al soggetto di rinunciare a qualsiasi protezione. Il gesto parresiastico, in questo senso, dimostra di avere una funzione politica decisiva: smaschera l’ipocrisia del potere; innanzitutto, il suo impiego della parola come dispositivo di governo della vita. Il parresiaste dice la verità nella contingenza: senza alcuna pretesa di universalità e totalizzazione, contesta la verità al potere nel caso concreto (al contrario, è il compito della confessione cristiana oggettivare e universalizzare la possibilità di dire il vero, innanzitutto su se stessi, mediante sofisticati dispositivi di assoggettamento). Interviene nella congiuntura dell’adesso; è spinto da una passione che lo costringe a dire la verità senza fare calcoli


106 Pierandrea Amato particolari. Agisce, parla e si prende cura di se stesso, dicendo la verità. In questa maniera segnala la propria alterità: la dissonanza, l’eccedenza etica della propria esistenza. Nella parrhesia una decisione individuale, dire la verità al potere, una risoluzione di natura squisitamente etica, è in grado di sprigionare una carica politica. Dire la verità, non tirarsi indietro e mostrare pubblicamente le cose come stanno, introduce uno scarto, una differenza politica, all’interno della polis. La differenza parresiastica della verità: la sua alterità è ciò che il potere non può catturare, perché non è in grado di manipolare un soggetto che elude qualsiasi forma di socievolezza consolidata. È vero che Foucault tendenzialmente, più che alla dimensione politica della parrhesia (che riguarderebbe, in particolare, il suo impiego platonico; si veda l’Alcibiade I), è attirato dalla metamorfosi del soggetto che dice la verità. Il cui riscontro, l’indice etico di questa modificazione, è lo stile di vita che si adotta per testimoniare la verità di ciò che si dice. Nella parrhesia la controprova per la fondatezza di quanto viene detto, è la condotta di chi pretende di dire la verità; l’armonia tra ciò che si dice e ciò che si fa prevede una co-implicazione concreta tra il soggetto che parla e il soggetto che agisce. La verità etica, in questo modo, diviene un ethos; non rappresenta, cioè, l’elencazione di principi cui il soggetto deve sottostare, ma emerge mettendo in gioco la propria vita. Il soggetto, in questo modo, non è più il prodotto di forze che lo modulano, seducono, violentano, assoggettano; piuttosto, è una forza che si costituisce da sé nel momento in cui afferma e pratica la verità. Kant e la catastrofe L’esplorazione foucaultiana del pensiero classico, lo dicevamo, è l’indice di una rivelazione teorico-politica collegata ai suoi studi dedicati alla ragione governamentale contemporanea: il corto-circuito tra neoliberalismo e biopolitica consuma l’efficacia di qualsiasi forma di resilienza al potere, dal momento che le forme dell’organizzazione sociale si fondano su un investimento antropologico in grado di determinare in un senso esclusivamente anti-conflittuale le condotte individuali. In altre parole, e un po’ brutalmente, direi che le ultime indagini di Foucault sulla ragione governamentale – ciò che nessuna esegesi può rimuovere senza eludere il nucleo fondamentale delle sue ricerche – mettono a fuoco la catastrofe del presente, perché scoprono che qualsiasi processo di soggettivazione


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si rivela un programma di assoggettamento concepito manipolando la logica della libertà. Foucault, malgrado il presupposto che guida i lavori che ruotano intorno a La volontà di sapere (1976), cioè, la realtà concreta del potere non è una gabbia d’acciaio, ma, al contrario, il sintomo dell’esistenza di forme di resistenza, rivela in Nascita della biopolitica che tutto ciò nell’universo delle relazioni neoliberali va in crisi. L’intero progetto moderno, la totalità della sua architettura, inclusi gli arnesi tradizionalmente destinati a smontare le coordinate e le prassi del potere economico-politico, sono coinvolti in un programma di governo della vita in cui non è più concepibile alcuna effettiva presa di distanza, perché è la stessa logica delle rotture, delle dispersioni, che, in realtà, mediante sofisticati dispositivi di controllo, ci governa senza sosta, sino a determinare la fisionomia dei nostri desideri. Per essere più precisi: rende i nostri desideri, come Foucault sostiene nella lezione del 25 gennaio del 1978 (Sicurezza, territorio, popolazione), l’a priori economico-politico in grado di raffigurare il punto di raccordo di qualsiasi forma di governo destinato a gestire una società potenzialmente ingovernabile. Scatenare le pulsioni fuori controllo, secondo la logica neoliberale, quindi è l’occasione per tenerle tenacemente a bada. Il capitalismo neoliberale, maneggiando la vita sino alla sua falda biologica, suscitando e annodando i desideri della popolazione, è capace di rendere utile l’inutile, apprezzabili le dissonanze, fruttuoso il dissenso. L’anarchia del potere contemporaneo è in grado di coltivare qualsiasi piega dell’esistenza mediante l’attivazione di una strategia che fa dell’uomo materialmente e simbolicamente un homo oeconomicus. L’uomo del mercato è privo di qualsiasi ambizione politica, uomo post-conflittuale, nel neoliberalismo pensa esclusivamente a soddisfare i propri desideri (che, fatalmente, in realtà, assomigliano a quelli di tutti gli altri). Di fronte a un’epifania teorica del genere – la libertà rappresenta un estremo dispositivo di controllo –, non è possibile, molto semplicemente, continuare a lavorare, vivere, pensare, come prima; piuttosto, bisogna rivoltarsi, agire, ripensare la propria prassi teorica e concepire nuovi campi di esplorazione concettuale. Foucault avverte l’esigenza di un mutamento radicale nei modi di formazione del sé in grado di promuovere una singolarità capace, nel rapporto con sé, di eludere la cattura di un potere sinuoso e polimorfo. Per fare tutto ciò è indispensabile inaugurare un’avventura critica in grado di demolire ciò che simbolicamente e materialmente siamo


108 Pierandrea Amato diventati, in modo che, tramite questo rifiuto, sia possibile elaborare nuove pratiche di soggettivazione. In Foucault lo studio del pensiero classico non possiede un’autonomia storica, ma concerne – “alla Nietzsche” – l’attualità. Allora, ricalcando le orme del giovane Nietzsche, quando si tratta di parlare del presente, di intervenire in maniera diretta nel proprio tempo, egli fa l’unica cosa saggia che può fare un ricercatore: diventa intempestivo e si mette a studiare gli antichi. È nella trama di questo complesso programma filosofico che Foucault si impegna nell’individuazione di un’etica del sé come modello alternativo al programma di soggettivazione moderno definito, da un lato, dal soggetto cartesiano decorporeizzato e, dall’altro, nell’economia di governo neoliberale, da una figura della soggettività fabbricata secondo le regole del mercato. Tuttavia, prima di sondare una faglia significativa di questo programma di ricerca, ossia, la condensazione cinica della parrhesia, in modo da apprezzarne la portata teorica e politica, è indispensabile evocare un gesto ad esso parallelo: il ritorno a Kant da parte Foucault. Foucault, in effetti, a partire dal 1978, esamina in tre occasioni il celebre contributo kantiano del 1784 sull’illuminismo: Was ist Aufklärung?12. Interesse teorico che, come vedremo, è inscritto nell’ambizione foucaultiana di considerare la filosofia uno strumento ostile nei confronti di una definizione funzionale della verità. Kant, notoriamente, attraverso la mediazione dell’interpretazione di Heidegger (si veda il Kantbuch heideggeriano del 1929: Kant e il problema della metafisica), ha un peso cruciale nell’economia della traiettoria filosofica di Foucault sin dai tempi della seconda tesi di dottorato dedicata all’antropologia pragmatica kantiana (1961)13; lavoro che si riversa nel 1966 nel L’adozione foucaultiana del testo kantiano sull’illuminismo inizia nel 1978, in occasione di una conferenza, Qu’est-ce que la critique?, tenuta alla Société française de Philosophie: M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997. Prosegue in una lezione al Collège il 5 gennaio 1983: M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-47. E si conclude con una conferenza americana, What is Enligthenment?, pubblicata nel 1984: M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232. 13 Nel 1964 Foucault si limita a pubblicare soltanto la traduzione del testo kantiano: I. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, Vrin, Paris 1964. La versione del 1961, corredata dall’ampia introduzione, è resa pubblica solo di recente: I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, introduzione e note di M. Foucault, Einaudi, Torino 2010. 12


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progetto di Le parole e le cose. Senza dimenticare che il programma archeologico foucaultiano degli anni sessanta deve il suo nome all’archeologia filosofica kantiana14. Con l’irruzione nei primi anni settanta della genealogia nietzscheana nel lavoro di Foucault, invece, il ruolo della filosofia kantiana nell’analitica foucaultiana del potere sembra diventare irrilevante. Eppure gli interventi sullo scritto kantiano sull’illuminismo non devono meravigliare; non è, peraltro, difficile comprendere le ragioni di questa ulteriore irruzione kantiana: tenendo presente che i due corsi al Collège de France del 1978 e del 1979, Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica, ruotano intorno al problema filosofico del presente, come d’altronde l’inchiesta sull’etica del sé classica riguarda l’attualità, il lavoro kantiano del 1784, agli occhi di Foucault, avrebbe il merito di consegnare alla filosofia moderna la questione dell’oggi come suo oggetto privilegiato e, di conseguenza, di porre l’urgenza storica, per ogni periodo storico, di un’ontologia del presente. Tra le mani di Foucault le tesi kantiane costituiscono il momento più notevole della filosofia moderna nella sua attitudine critica: l’uscita dalla minorità, attraverso un gesto che ci farebbe abbandonare una condizione di assoggettamento permanente, senza scampo e senza evoluzione, è un’impresa cui Kant attribuisce la più elevata importanza filosofica e che, secondo Foucault, tende a mutare il ruolo e i compiti della filosofia. Foucault, nel celebre incipit kantiano del 1784, «l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole», intravede una situazione etica legata al tipo di cambiamento che il soggetto, con coraggio («Sapere aude!»), deve operare su se stesso, perché sia concepibile un gesto auto-critico effettivo. La minorità, in questo senso, è una condizione nella quale la nostra esistenza è nelle mani di un altro; mentre l’illuminismo sarebbe il movimento che ci spinge a pretendere di essere governati diversamente; o, meglio, di meno. Non dovrebbe essere difficile capire perché, a questo punto, l’analisi foucaultiana dello scritto kantiano del 1784 vada gestita in parallelo con le sue indagini sulla cura di sé: in entrambi i casi l’elusione di una condizione di prevaricazione, nella quale il soggetto si rivela l’effetto di un’amminiFoucault ricava da uno scritto kantiano, Quali sono gli effettivi progressi compiuti dalla metafisica in Germania dall’epoca di Leibniz e Wolff?, pubblicato poco dopo la morte di Kant, nel 1804, l’idea di una dimensione archeologica del sapere fondata sulla possibilità di individuare una serie di a priori storici. 14


110 Pierandrea Amato strazione eteronoma, impone innanzitutto un lavoro su di sé per abbandonare la propria ignobile condizione. Non c’è dubbio che il testo kantiano sull’illuminismo riveste per Foucault un antecedente genealogico prezioso in preparazione della sua ricerca nell’etica classica (altrimenti, ad esempio, non si comprenderebbe perché Foucault si concentri sul saggio di Kant nella prima lezione di un corso al Collège dedicato alle pratiche classiche della cura di sé)15. Ma in realtà, probabilmente, più che per stabilire una filiazione, il riferimento a Kant segnala una separazione: esiste uno scarto concettuale tra Kant e Foucault che lascia divergere irrimediabilmente le due ontologie del presente in gioco. Per quanto l’atteggiamento di Foucault nei confronti Kant sia diverso da quello adottato da Nietzsche nella terza inattuale, Schopenhauer come educatore (Kant, secondo il giovane Nietzsche, non è un filosofo perché la sua esistenza, il suo modo di comportarsi non presenta nulla di esemplare), infatti, se si adopera una corretta prospettiva ermeneutica, l’illuminismo di Kant, anche per Foucault, si rivela un atteggiamento critico insufficiente. Come se Foucault, rivolgendosi al testo kantiano, ci mettesse in guardia: non è più tempo di limitarsi a dire la verità; non è nella dimensione del logos che si può giocare la partita contro l’assoggettamento. O almeno: non è più il tempo di criticare immaginando che ciò sia sufficiente per alienare la libertà dalle mani del potere quando oggi essa raffigura un vettore favorevole per instaurare dispositivi di governo capillari e permanenti. La critica illuministica nel senso kantiano è un esercizio di emancipazione qualora la libertà sia la fonte potenziale d’infrazione di un sistema fondato su una logica pastorale guidata dall’imperativo dell’obbedienza per l’obbedienza. Alla fine del XX secolo tutto ciò tende a diventare irrimediabilmente marginale: la razionalità biopolitica neoliberale erige la propria legittimità favorendo il massimo consumo di libertà per la definizione di programmi di controllo della vita in cui il disordine non va soffocato ma semplicemente amministrato. Il potere non ci chiede più di obbedire, ma di trasgredire, di eccitarci senza sosta, per permettere ai sistemi di controllo di transitare ovunque. Cfr. S. Chignola, Il coraggio della verità. Parrhesia e critica, in Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 171-198. Per un inquadramento sistematico della lettura foucaultiana del saggio di Kant sull’illuminismo, si veda almeno M. Passerin d’Entrèves, Critique and Enlightenment. Michel Foucault on “Was ist Aufklärung?”, in «Manchester Papers in Politics», n. 1 (1996), pp. 1-28. 15


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Foucault, prendendo congedo dalla modernità, revoca il valore di qualsiasi ambizione illuministica: lascia da parte la coscienza, la responsabilità, la civiltà. Prende commiato da Kant e dalla ragione morale e da qualsiasi filosofia critica d’ispirazione kantiana16: non c’è più tempo per dialogare, conversare, capirsi; spiegarsi, criticare, commentare. Almeno, è questo che pensa Foucault mentre inizia a studiare l’esistenza di Diogene il cinico. Che la definizione kantiana dell’illuminismo, come operazione di modificazione del sé, non vada, peraltro inevitabilmente, oltre certi limiti, sembra affiorare già nel dibattito che segue la conferenza del 1978, Che cos’è la critica?, dove Foucault precisa che la critica in Kant, come lavoro su di sé per abbandonare uno stato di minorità, riguarda il desiderio di essere governati altrimenti, ma senza mettere in discussione in quanto tale il governo della vita: Non mi riferivo a una sorta di anarchismo fondamentale, a una libertà originaria assolutamente refrattaria a ogni governamentalizzazione. Non l’ho detto, anche se non significa che lo escludo categoricamente. […] se volessimo esplorare questa dimensione della critica, che mi pare importante perché è contemporaneamente all’interno e all’esterno della filosofia, se tentassimo questa impresa non troveremmo lo zoccolo duro dell’atteggiamento critico in qualcosa che sarebbe la pratica storica della rivolta, della non accettazione di un governo reale da un lato, o l’esperienza individuale del rifiuto della governamentalità dall’altro17?

Dove si spinge, sopravanzando l’intenzione kantiana, lo statuto della critica nell’ultimo Foucault? Foucault organizza una mossa rischiosa: nel corso di lezioni al Collège della France tenuto prima della morte, Il coraggio della verità, una sorta di testamento politico e spirituale, rinverdendo la tradizione inaugurata dal giovane Nietzsche nella seconda inattuale, concepisce una radicale diserzione etica e politica che si spinge al punto, per eludere la presa del potere, di pensare una metamorfosi animale dell’uomo. Non ci sarebbe, infatti, altra soluzione che compiere una ricusa antropologica, Nel 1962, nel suo Nietzsche, Deleuze rivela i limiti del criticismo kantiano che Nietzsche, invece, sarebbe in grado di oltrepassare: Kant non spingerebbe il suo metodo sino all’estremo, perché non criticherebbe chi critica. In Kant, in altre parole, l’auto-critica si rivelerebbe una sorta di auto-assoluzione. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano 1992. 17 M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., pp. 71-72. 16


112 Pierandrea Amato dal momento che l’investimento sulla natura umana, la sua definizione biopolitica democratica, è la prestazione economico-politica fondamentale del neoliberalismo. Dobbiamo, allora, secondo Foucault, diventare impresentabili socialmente, finanche poveri di parole e di logos. Insomma, dobbiamo essere capaci, se necessario, di diventare dei nuovi barbari; privi della capacità di comunicare secondo norme linguistiche codificate e restii a imbastire qualsiasi discorso. È probabile che, in termini generali, la filiazione kantiana dell’impiego etico-politico foucaultiano della parrhesia sia corretto. Tuttavia si può dimostrare che le cose cambiano quando Foucault realizza che la soggettivazione parresiastica più stimolante, per l’obiettivo che si prefigge il suo lavoro sull’etica della cura di sé (una costituzione della soggettività esterna al sistema dell’assoggettamento e collegata alla logica della trasformazione), è la versione cinica. Si ha in questo caso l’impressione che il filo di continuità si interrompa, perché se con Kant ci troviamo ancora in una dimensione legata alla direzione delle condotte di vita, con il cinismo emerge una pratica non associabile a un esercizio critico intellettuale, ma, al contrario, inquadrata nel rigetto persino ostentato di qualsiasi regola di comportamento prestabilita18. Svergognato: un’estetica della verità Le ricerche sulla parrhesia antica – dire la verità al potere senza fare calcoli – sfociano in Foucault in un’inchiesta sui lineamenti prevalenti nel movimento cinico. Il cinismo costituisce una cerniera tra le varie traiettorie dell’etica del sé perché elabora una forma di vita condensata nella materializzazione della verità: «mi sembra che nel cinismo, nella pratica cinica, l’esigenza di una forma di vita decisamente tipica […] sia fortemente articolata con il principio del dire-il-vero, del dire il vero senza vergogna né timore, del dire-il-vero senza limiti e con coraggio»19. Gli stili della cura di sé studiati da Foucault rintracciano nel cinismo un approdo: un’arte dell’imparare a vivere quando viviamo in un universo di relazioni dove non Sulla definizione in Kant del tema delle condotte di vita, si veda N. Pirillo, Morale e civiltà. Studi su Kant e la condotta di vita, Loffredo, Napoli 1995. 19 M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 163. 18


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è più possibile vivere e dove ci possiamo soltanto vergognare per come siamo diventati. Il cinismo, allora, si rivela l’occasione per uscire dall’angolo; per smettere di vergognarsi e muoversi senza paura, in modo da eludere una situazione nella quale il governo della vita non rende concepibile vie d’uscita, dal momento che il soggetto è pietrificato dal desiderio di consumare e di essere governato. L’analisi del cinismo in Foucault incarna il culmine dell’implicazione tra la vita e il pensiero come acme della logica della cura di sé e della vera vita filosofica. Attenzione: in Foucault la parrhesia cinica non allude al primato etico di una forza vitale incontaminata, ma concerne la definizione di una forma di vita in grado di desiderare in maniera diversa da come il potere pretende che noi desideriamo. Per quanto incarni una delle ipotesi più delicate di Foucault sulla cura di sé – delicata perché la cura di sé si dovrebbe fondare innanzitutto sulla virtù della singolarità – il cinismo promuove inediti processi di soggettivazione etica la cui occulta inclinazione politica – cioè, si passa dal singolare al plurale – si basa sul valore non prescrittivo dell’esempio (“come si deve vivere” non costituisce una norma né sociale né morale né giuridica ma l’occasione per cambiare la propria vita20). L’assenza di principi universali e un’apertura alla contingenza, fa dell’esperienza cinica un esperimento di democrazia – letteralmente anarchica: priva di archè – ostile a ogni governo, seppure democratico, della legge. La condotta cinica segna, evidentemente, la fine di qualsiasi etica dei principi; rende impraticabile qualsiasi morale non aperta al valore della contingenza e del gesto semplicemente replicabile quando rivela la propria efficacia21. A questo punto non sarebbe probabilmente esagerato pensare che più che nella parrhesia politica platonica, è in quella etica, nello specifico cinica, che emerge il potenziale politico più significativo del progetto foucaultiano della cura di sé. Il cinico è l’uomo della parrhesia; ma per diventare un parresiaste, non è più un uomo come tutti gli altri. Si deve spingere oltre le soglie dell’umano, perché, per manifestare la verità, per sprigionare una forma radicale di aleturgia, in fondo devi essere un incosciente (ossia, un animale, un P. Sloterdjik, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Cortina, Milano 2010. O. Irrera, Parrēsia ed exemplum. La parrēsia e i regimi aleturgici dell’exemplum a partire da L’ermeneutica del soggetto di Michel Foucault, in «Noema», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 11-31. Si veda, inoltre, T. O’Leary, Foucault and the Art of Ethics, Continuum, London-New York 2002. 20 21


114 Pierandrea Amato bambino, o un folle che va al mercato). In questa metamorfosi si annida il principio della rivolta cinica: la logica della sua singolare esperienza etica e politica. Con il cinico non si conversa. Il cinico non ti critica, ma, come Diogene, si masturba in pubblico. Non prende semplicemente la parola per indicare ciò che non va, ma ti fa vedere materialmente, attraverso il suo corpo, che le cose non possono più continuare allo stesso modo. È difficile pensare che una masturbazione pubblica, ad esempio, in una sala dove si svolge un convegno dedicato a un’analisi delle forme del capitalismo contemporaneo, sia semplicemente una critica nei confronti, ad esempio, di un intervento soporifero o troppo riformista. Più probabilmente, sarebbe uno scandalo: una violenta, ingestibile presa di posizione contro ogni regola e convenzione. Il suo autore, il disturbatore – masturbatore, a questo punto, sarebbe considerato un maniaco, un folle, una bestia. Qualcuno, al più, da commiserare. Ma certo nessuno si sognerebbe di derubricare la cosa come a una forma di mera disapprovazione intellettuale. Il filosofo cinico non presenta nulla di cinico. Piuttosto, il contrario: il suo candore fa del suo rigetto del potere una ragione di vita. Non sopporta che una teoria critica resti solo una teoria critica: il suo corpo, la sua esistenza, sono la testimonianza delle sue intenzioni in grado di segnalare la natura della sua differenza. Il cinico non ammette alcun legame particolare con il potere: prende da esso le distanze; una distanza tanto grande e difficile da sostenere che impone, a chi diventa un filosofo cinico, di non essere più un uomo ma di diventare qualcosa d’altro; di andare oltre l’uomo; oltre ciò che esso è, per diventare ciò che esso ancora non è. Per il cinico, diventare animale, quindi, non significa un improbabile ritorno alla natura, ma l’adesione a uno stile di vita che si rifiuta di essere calcolato, decifrato, simbolizzato. Il cinico, come l’animale, senza essere un animale, non è mai nudo perché non può non esserlo; in altre parole, dire la verità, per il cinico, è una ragione di vita. Il cinico è chi conduce la filosofia a un punto limite in cui le dottrine che guidano l’azione svaniscono nella pura prassi sino a lasciare evaporare gli stessi principi cui dovrebbero sottostare. La libertà per Diogene il cinico, ad esempio, non è altro che la possibilità di dire come stanno effettivamente cose: il suo parlar franco non ammette eccezioni e limitazioni rispetto al suo modo di vivere.


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La contiguità umana con l’animale costituisce un compito etico per l’esistenza cinica; un’esigenza ascetica in grado di invertire l’ordine delle cose. Le testimonianze antiche, generalmente, dipingono il cinico come un cane: non conosce la vergogna e il pudore (per verificare la distanza dalla posizione assunta da Foucault, con il riferimento al cinismo, e la posizione kantiana, è sufficiente ricordare che nel lavoro sull’illuminismo Kant lascia coincidere la minorità umana con una forma di istupidimento animale). Il cinismo è indecente perché passa dalle parole ai fatti; spalanca l’osceno che una vera esperienza della libertà prevede. È una dimostrazione vivente della verità, perché la verità non è custodita in un libro o in un discorso, ma diventa accessibile a tutti, senza, però, diventare un modello ideale/ universale; piuttosto si consuma nella pubblica piazza; erompe nella polis, insorge politicamente. Nell’economia delle ricerche foucaultiane sulle correnti filosofiche greco-romane interessate da un’etica del sé (epicureismo, stoicismo), il cinismo riveste un’importanza speciale. Foucault, a differenza di quanto, ad esempio, ritiene Pierre Hadot, considera il cinismo un’esperienza unica innanzitutto perché, per quanto i principi della sua dottrina siano rudimentali, finanche elementari, tuttavia, consegnando un valore assoluto alla prassi, è in grado di suscitare gesti di repulsione radicali22. Se le techne tou biou studiate da Foucault sono generalmente esercizi per il dominio di sé e il governo degli impulsi, nel cinismo si rovescia sistematicamente l’intenzione canonica della cura di sé: i cinici rinunciano a qualsiasi tentazione aristocratica e universalizzante nella cultura dell’etica del sé. La loro è un’esperienza della povertà che si realizza nella rinuncia e nel rifiuto del potere23. Si rivela, allora, una forma d’ascesi che ha l’obiettivo di provocare una profonda trasformazione del sé e in questa metamorfosi etica diffonde una carica filosofica e politica inattesa24. Per il cinismo il modo di vivere promuove la condizione per la filosofia. Non c’è concetto, senza una forma d’esistenza adeguata alla sua creazione che precede sempre necessariamente la sua invenzione. Il cinismo Cfr. L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico. Spunti per una critica dell’attualità, ETS, Pisa 2008, in part. pp. 171-188. 23 Sulla rinuncia, come tensione ascetica fondamentale nel cinismo antico, si veda la prima parte di un lavoro del 1969 di Arnold Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, ombre corte, Verona 2001. 24 E.F. McGushin, Foucault’s Akesis. An introduction to the Philosophical Life, Northwestern University Press, Evanston 2007. 22


116 Pierandrea Amato fa della forma di esistenza la pratica di riduzione che lascerà spazio al dire il vero. Infine, fa della forma di esistenza un modo di rendere visibile, nei gesti, nel corpo, nella maniera di vestirsi, nella maniera di vita, dell’esistenza, del bios, ciò che potremmo chiamare un’aleturgia, una manifestazione della verità25.

L’elogio cinico dell’animalità fa parte di una più ampia considerazione positiva della natura: Il principio di una vita dritta che deve essere parametrata sulla natura, e solamente sulla natura, implica la valorizzazione positiva dell’animalità. Ed è qualcosa che […] è singolare e scandaloso nel pensiero antico. Si può dire in generale, molto sinteticamente, che l’animalità rappresenta un punto di assoluta differenziazione per l’essere umano. È distinguendosi dall’animalità che l’essere umano afferma e manifesta la sua umanità. Rispetto alla costituzione dell’uomo come essere ragionevole, l’animalità provoca sempre, più o meno, un movimento di repulsione26.

La dottrina liberale governa le condotte favorendo gli interessi individuali. Contro l’artificio dello Stato, promuove un discorso nel quale la natura rappresenta un veicolo di organizzazione politica e uno strumento su cui organizzare l’ordine sociale. Potrebbe apparire, in questo senso, una sorta di rivisitazione contemporanea dell’ispirazione cinica. In realtà, al contrario, il governo neoliberale manipola in un senso squisitamente ideologico il proprio discorso intorno alla natura, affidando la propria legittimità a meccanismi di controllo sofisticati e orientando l’esuberanza animale della natura umana in un senso meramente economico. Il cinismo, invece, provoca una trasformazione animale nella natura umana M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 170. Per mettere a fuoco la fisionomia del cinismo antico è indispensabile un confronto con il cinismo moderno tanto che la questione meriterebbe una trattazione ampia che qui non è possibile articolare. Mi limito, invece, a una breve indicazione: la dimensione dell’animalità del cinismo antico probabilmente è il modo migliore per distinguerlo dal cinismo moderno (una figura estrema d’individualismo). La frattura, in altre parole, si consuma innanzitutto perché il secondo è privo di quella che potremmo chiamare la predisposizione selvaggia del primo: se il cinico antico è il nome di uno scandalo, il cinico moderno si dimostra ben integrato nella società da cui sostiene, solo a parole, di prendere le distanze. Sulle divaricazioni tra cinismo antico e moderno resta indispensabile il primo libro che diede notorietà a P. Sloterdijk, Critica della ragione cinica (trad. it. parziale), Garzanti, Milano 1992. 26 M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 254. 25


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e per questa ragione giunge sino alla soglia in cui umanità e animalità tendono a implicarsi, lasciando svanire qualsiasi separazione tra la teoria e la prassi nella definizione di una forma di vita. Rovesciando un valore fondamentale del mondo classico (l’uomo è un essere ragionevole perché non è un animale), l’animalità gioca presso i cinici un ruolo dirompente. Anzi, è un gesto, il divenire animale del filosofo, cui è affidata la massima disapprovazione nei confronti di chi detiene il potere: l’animalità è una missione filosofica e un compito etico. Per questa ragione, in fondo, il cinismo rompe gli schemi della stilizzazione classica della vita filosofica: il suo appello alla filosofia si rivela un cavallo di Troia, perché evoca una forma di vita che fa coincidere animalità e filosofia, intrattabilità ferina e pensiero. La vraie vie diventa per il cinico una pratica pubblica; la città è una scena dove incontrare l’altro, quando un esercizio critico, privo di mediazione, potrebbe rischiare di restare isolato27. Il cinico, a ben vedere, lascia deragliare qualsiasi distinzione tra oikos e polis; tra pubblico e privato: ciò che si fa in privato, può essere ripetuto anche alla luce del sole; e viceversa. Senza vergogna e paura. Se il cinico è un animale senza vergogna, la sistemazione del cinismo all’interno della storia della filosofia potrebbe suscitare qualche imbarazzo. La vergogna è un topos filosofico dalla durata invidiabile – almeno dal Protagora platonico sino a Levinas – che il cinismo capovolge: ritrae tradizionalmente la situazione emotiva che registra una frattura rispetto all’esistente, producendo la faglia indispensabile al pensiero per diventare una forma di critica del presente. Al contrario, proprio l’assenza di vergogna, l’attitudine squisitamente animale del cinico, diventa una condotta etica radicale. Nella fondazione teoretica della filosofia platonica, la vergogna rappresenta una scintilla del pensiero. Agli occhi del cinico, al contrario, che sposta il problema della filosofia su tutt’altro terreno rispetto a quello teoretico-metafisico, la vergogna rivela una concezione della filosofia ancora eccessivamente astratta e collegata all’elaborazione concettuale dei contraccolpi della nostra corporeità. L’assenza di vergogna del cinico è la controprova del suo disinteresse per la teoria. Forse nessuno come Deleuze e Guattari spiegano quest’imD. Lorenzini, Foucault, il cinismo e la “vera vita”, in L. Bernini (a cura di), Michel Foucault. Gli antichi e i moderni, cit., pp. 75-99. Inoltre, cfr. C. Van Caillie, Alterità della vita e alterazione del mondo. Ritorno sulla figura del cinico in Foucault e la performance drag in Butler, in «materiali foucaultiani», vol. 2 (2013), n. 4, pp. 95-114. 27


118 Pierandrea Amato passe, ossia la densità politica della questione, quando lavorano, in Che cos’è la filosofia?, a una rivendicazione del compito esclusivo della filosofia come fabbricazione di concetti: Noi non ci sentiamo al di fuori della nostra epoca, al contrario non cessiamo di scendere con essa a compromessi vergognosi. Questo sentimento di vergogna è uno dei temi più potenti della filosofia […] per sfuggire all’ignobile non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all’animale che muore che non all’uomo vivo28.

Non vergognarsi per ciò che siamo diventati, impone un primo, imprevedibile movimento che ci dovrebbe spingere, secondo Deleuze e Guattari, a diventare animali: l’animalità è una condizione etica collocata al di là di qualsiasi prescrizione morale e tipo di legge che ci impone che cosa dobbiamo fare. Facendo i conti con il paradigma animale del cinismo, i commentatori antichi, pur annotando l’inadeguatezza della teoria cinica, nondimeno la giudicano inaccettabile. Ciò accade sostanzialmente al cinismo che riesce a trasformare principi tutto sommato elementari in uno scandalo, dal momento che li incarna sino all’estremo. Ad esempio, la virtù della povertà non rappresenta per il cinico un’aspirazione intellettuale o una consolazione morale, ma è il nome di un’esperienza di presa di distanza dal potere che va portata sino alle estreme conseguenze: spogliarsi di tutto. Questo atteggiamento conduce, senza mezzi termini, il problema della parrhesia dal dire al fare, come soltanto il cinico sa fare, dimostrando che cosa dovrebbe essere materialmente una vita filosofica. Il cinismo rapisce l’attenzione di Foucault perché fa della filosofia una pratica; «un’estetica dell’esistenza»; una storia delle forme di vita filosofiche. Per questa ragione, diversamente da Heidegger, che non attribuisce alcun valore alla biografia filosofica (vedi, ad esempio, le battute del suo Nietzsche, dove si esclude qualsiasi valore alla vita del filosofo per mettere a fuoco la cosa del suo pensiero29), Foucault intravede nella condotta cinica, invece, l’emergenza della verità; l’occasione dove collaudare e verificare l’attendibilità del pensiero. Per questa ragione, allora, la parrhesia, la cura di sé che ne governa la manifestazione, secondo 28 29

G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. 101. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.


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Foucault, non si limita a configurare una possibile alterazione dell’etica e della politica; ma provoca anche lo statuto della filosofia. La critica della parola parresiastica incarna uno stile; una forma di vita ostile a qualsiasi attitudine filosofica che si risolve esclusivamente in una semplice teoria. Il parlar franco, un gesto contrario a qualsiasi retorica e forma di adulazione, si rivela in grado di produrre le condizioni per un’altra pratica del pensiero. Tra le mani di Foucault, a ben vedere, la parrhesia dissoda dal di dentro la tradizione filosofica ma, allo stesso tempo, la logora, come dal di fuori, scombinando la sua storia affidata, almeno nella modernità, essenzialmente allo studio delle condizioni di possibilità della sua esistenza epistemologica e disciplinare30. Postilla nietzscheana Foucault vede la catastrofe ma non si lascia andare. Ricomincia da capo. Apre un nuovo cantiere, ben inteso, denso di ostruzioni, inconvenienti, impedimenti concettuali, tuttavia pieno di promesse. Socchiude una porta, dove si intravede una via nella quale la politica potrebbe diventare nuovamente praticabile a patto di mettere in gioco la propria vita; a patto, cioè, di rifiutare ciò siamo diventati. Foucault ci ha lasciato da pensare l’impensabile? Ma che cosa dovrebbe fare un filosofo se non lasciare in eredità un’eredità ingestibile? È cessato il tempo in cui avevamo il compito di individuare chi siamo, per scoprire di essere uno, nessuno e centomila; nella realtà post-edipica cui attualmente siamo consegnati, dove, per chi ha occhi per vedere, non ci sono più idoli da soffocare, al contrario, ci dobbiamo dissolvere e rifiutare (non mi devo più chiedere chi sono, ma chi potrei essere). Senza questo gesto, secondo Foucault, non possiamo immaginare di desiderare altrimenti da come chi ci governa ci impone di fare. Essere-barbari, rifiutarci sino al punto da diventare animali, è il compito politico che ci resta: ci devono essere istanti in cui, privi di logos, dobbiamo inventare e parlare un’altra lingua. Una lingua persino incomprensibile per chi gestisce la nostra vita. Sul valore, per il destino della filosofia, delle ricerche foucaultiane sull’antico, in particolare alla luce delle lezioni al Collège de France del 1984 incentrate sulla parrhesia cinica, cfr. P. Cesaroni, Michel Foucault e la filosofia. Una traccia di lettura dei corsi al Collège de France, in G. Gamba, G. Molinari e M. Settura (a cura di), Pensare il presente, riaprire il futuro. Percorsi critici attraverso Foucault, Benjamin, Adorno, Bloch, Mimesis, Milano 2014, pp. 39-46. 30


120 Pierandrea Amato Per concludere questa breve esposizione della differenza cinica nella ricerca foucaultiana di un’etica sé, che lo stesso Foucault, d’altronde, aveva da poco, prima della morte, iniziato a esplorare, potrebbe essere utile recuperare l’esordio nietzscheano di questo contributo e in questa maniera insistere sulla carica etico-politica che sostiene l’ipotesi foucaultiana sul cinismo. Nel primo capitolo di Sull’utilità e il danno della storia per la vita, quando Nietzsche associa la chance della felicità umana a un’istanza animale, si dimentica che, come pure potrebbe essere lecito attendersi dove si esaltano le virtù dell’animalità, non si ricusa alla filosofia, ma si colloca la sua emergenza in un movimento preciso: il cinismo. Il cinico, secondo il giovane Nietzsche, è proprio chi sa diventare animale; chi sa scoraggiare l’autorità (del tempo). È un filosofo, un uomo felice, perché sa essere, quando serve, un animale: Se è una felicità, se è un correr dietro a una nuova felicità ciò che in un certo senso trattiene in vita il vivente e continua a spingerlo alla vita, nessun filosofo ha forse ragione più del Cinico, poiché la felicità dell’animale, come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo31.

La genealogia foucaultiana eredita dalla filosofia di Nietzsche il valore del corpo per la formulazione di qualsiasi concetto. Non ci deve sorprendere se l’ultima rivelazione di Foucault, l’ethos animale del cinismo, si inscrive in una rivalutazione somatica della verità che ha nel programma del giovane Nietzsche un antecedente fondamentale. L’animalità non è ciò cui siamo consegnati, ma diventa una missione etica per salvaguardare, al di là di qualsiasi interferenza dialettica, la differenza che ci costituisce; l’alterità che sempre siamo a noi stessi. Vale a dire, ritrae il rifiuto di qualsiasi soggettivazione umana che non consideri l’identità come un altrove da sé costituito dall’eccedenza del divenire. L’animalità nell’ultimo Foucault non è né un’idea limite né una vaga attitudine iper-intellettuale ma una tensione all’impossibile: dunque una profonda riterritorializzazione della politica. Un modello di irriducibilità quando, persino la libertà, la libertà dei moderni, diventa uno strumento di controllo della vita. La componente animale allude, nelle intenzioni di Foucault, al primato del divenire estraneo alla supremazia di una visione 31

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 7.


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meramente organica dell’esistenza; ossia, la dimensione su cui si installa qualsiasi potere per definire la propria egemonia. La vera vita, nell’inclinazione cinica, si scaglia contro ogni forma di totalità; è un’apertura incalcolabile e imprevista nei confronti di qualsiasi potere che tenda, pure quando appare un magma senza centro, a bloccare la vita tramite forme di cristallizzazione del divenire. Pierandrea Amato
 Università degli Studi di Messina pierandrea.amato@unime.it

. Animal Ethos. Philosophy and Politics in the Late Foucault This paper aims to show that Foucault’s last idea, the animal ethos in Cynic philosophy, is linked to a somatic revaluation of the truth inspired by the young Nietzsche. Animality is not a fate but an ethical task whose objective is to safeguard the difference that constitutes us, the otherness we always are in relation to ourselves. Thus, in the late Foucault, animality is a tension toward the impossible that implies a deep reterritorialization of politics, when even freedom – freedom of the Moderns – becomes an instrument for the control over life. Keywords: Animality, Biopolitics, Cynicism, Critique, Ethics, Nietzsche, Subjectivity.



La doublure di Foucault

Il pensiero del “fuori” e le pratiche del vero Sandro Luce

Perché il fuori

Foucault ci ha fornito una notevole quantità di spunti che ancora oggi,

a distanza di trent’anni dalla sua morte, risultano indispensabili per un lavoro di critica e problematizzazione del presente. Quest’intervento si concentrerà su un tema che, a mio avviso, attraversa tutta la sua opera, a volte in modo esplicito, più spesso solo sotterraneamente. Mi riferisco alla questione del “fuori”, che assume nell’opus foucaultiano una particolare rilevanza sia rispetto alla concezione del potere che a quella ad essa annessa delle soggettivazioni. Cercherò di far emergere la densità politica che questo concetto presenta fin dagli anni sessanta, quando Foucault lo puntualizza nei cosiddetti lavori letterari, ma soprattutto proverò a mostrare, attraverso una lettura circolare dell’opera foucaultiana, come esso riemerga, sia pure con degli slittamenti, nei suoi lavori sulla soggettivazione etica. Fare una riflessione sul “fuori” significa inesorabilmente confrontarsi con l’attualità di un mondo globale ove non sembra esserci spazio per alcun “fuori”. Numerose sono infatti le letture, sia pure con prospettive differenti, che considerano la società contemporanea come un unico spazio liscio nel quale i confini territoriali divengono sempre più porosi fino a sparire nell’unicità del mondo globalizzato1. Viene spesso sottolineato come la sparizione di ogni limite sia l’effetto principale dell’ordine neoliberale, che si universalizza attraverso il felice connubio Su questo punto, sia pure da prospettive differenti, si vedano C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001 e Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000 (trad. it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2011). Il confine è invece inteso come un dispositivo riemergente e fondamentale nell’articolazione degli flussi globali da S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham 2013 (trad. it. Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2014). 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 123-136.


124 Sandro Luce tra un discorso del capitale, che anziché interdire comanda di godere, e il discorso sovversivo sessantottino, che ha rivendicato la liberazione del desiderio detronizzando la figura del padre. Sarebbero questi gli effetti di ciò che Recalcati, attraverso Lacan, chiama l’evaporazione del padre2; ed è un aspetto sul quale, con un’impronta più sociologica che psicoanalitica, si soffermano le analisi di Chiappello e Boltanski, mettendo in luce la brusca inversione di tendenza del capitalismo che, alla fine degli anni settanta, fa proprie le rivendicazioni estetiche della critique artistique, implementando la creatività come fattore di partecipazione e di crescita individuale3. Il limite è anche ciò che per il liberalismo classico doveva segnare le azioni di governo, seguendo logiche utilitariste o giuridicodeduttive, al fine di creare i presupposti per l’affermazione del laissezfaire, mentre oggi il discorso neoliberale rappresenta la forma stessa del governo attraverso un sistema di norme impresse nelle pratiche governamentali: è normatività pratica4. Svanisce il limite che distingueva tra sfera del politico e sfera dell’economico o, per usare un’espressione di Bazzicalupo, si assiste al passaggio dalla biopolitica alla bioeconomia, in cui la normatività si struttura non sulla nuda vita, sulla zoè, ma sulla vita desiderante5. Queste analisi convergono su un punto, che rappresenta il vero nodo problematico ed è sintetizzabile in questi termini: come destabilizzare le fondamenta del discorso neoliberale che è, ripeto, non solo una teoria o una scienza, ma una logica, che si costituisce e si rafforza attraverso le pratiche dei soggetti. Soggetti liberi di costruirsi come un’impresa che potenzia il proprio capitale umano, liberi di godere senza costrizioni e senza quelle dilazioni che la weberiana etica protestante imponeva al capitalismo classico. Soggettivazioni – come mostrato da Foucault nei corsi del 1978-1979 – ovviamente ambivalenti, in quanto assoggettate ad un discorso che le produce come libere, ma al contemCfr. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013; Id., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011. 3 Cfr. L. Boltanski e È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. 4 Cfr. P. Dardot e C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009. 5 Il tema, già affrontato in L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari, 2006, viene ulteriormente indagato e approfondito in Ead., Dispositivi e soggettivazioni, Mimesis, Milano 2013. 2


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po nega questa libertà, che resta sempre al di là delle procedure che le fanno esistere. Non abbiamo altra strada che provare a ripristinare quei limiti e quei confini che surrettiziamente ristabiliscano un’autorità trascendente, o si possono configurare soggettivazioni resistenti che, “fuori” da quell’ordine discorsivo, ne mettano in discussione dall’interno, e dunque immanenti ad esso, l’autorità e le modalità? E soprattutto, come queste soggettivazioni possono produrre verità che non coincidono con quella dominante che assoggetta le nostre vite? A queste domande si può cercare di trovare una risposta, del tutto provvisoria e sempre in bilico con le incertezze dei nostri tempi, muovendo dalle analisi foucaultiane e dalla trama che egli tesse tra soggetto, linguaggio, etica e verità. Il vuoto del soggetto moderno L’incontro con la letteratura, o meglio con una certa letteratura – quella di Sade, Artaud, Bachelard, Bataille, Klossowski, Roussel – nasce da una duplice necessità. Innanzitutto esso contribuisce a rafforzare l’operazione di decostruzione del soggetto moderno, che implica non solo lo svuotamento del soggetto da ogni fondamento metafisico, ma anche una problematizzazione del suo rapporto con la verità. Questa necessità teorica costituisce una sorta di premessa, indispensabile per affrontare una sottostante dimensione politica legata al potenziale sovversivo del linguaggio. Foucault individua nella letteratura contemporanea6 un luogo privilegiato di critica e dissoluzione della ratio moderna e del suo linguaggio e, dunque, una straordinaria arma per colpire il soggetto della modernità, che egli non cessa di riconoscere come il mito di una pratica discorsiva, che ha tutte le caratteristiche di un ordine del discorso, costruita sull’assoluta priorità del conoscere rispetto alle pratiche. È a questo soggetto fondatore di discorsività e di conoscenza che Foucault, e più in generale il pensiero filosofico francese di quegli anni, muove un attacco frontale. Significativo dello scarto messo in campo da Foucault è, tra gli altri, uno scritto del 1969 intitolato Qu’est-ce qu’un auteur? Sullo sfondo dei due temi che affronta – Qui intendo per contemporanea ciò che Foucault chiama moderna, in contrapposizione alla letteratura classica, caratterizzata dal venir meno di una Parola Prima, ossia della garanzia di Dio. 6


126 Sandro Luce l’autoreferenzialità della scrittura e la parentela della scrittura con la morte – affiora la questione del soggetto e del processo di identificazione tra questi e la parola, che nasce all’interno del modello dell’interiorità del soggetto in quanto autocoscienza. Secondo Foucault: «il legame del nome proprio con l’individuo nominato e il legame del nome d’autore con ciò che esso nomina non sono isomorfi e non funzionano allo stesso modo»7 perché, come chiarisce più avanti, «un nome di autore non è semplicemente un elemento in un discorso […] esso stabilisce una funzione classificatoria […] caratterizza un certo modo di essere del discorso»8. Per questa ragione Foucault sostituisce all’autore la “funzione-autore” e, ricollegandosi alla ricerca svolta ne L’archéologie du savoir, definisce le condizioni di apparizione del discorso come presupposto metodologico necessario al processo di decostruzione del “soggetto-autore”. L’enunciato è per Foucault ciò che determina «le condizioni in cui si è esercitata la funzione che ha dato ad una serie di segni un’esistenza»9. L’enunciato viene sottratto ad una dimensione prettamente strutturale, per essere definito come funzione di esistenza, che si materializza in presenza di alcuni requisiti come quello di un “campo associato”, che non va considerato come un mero contesto, ma come il luogo di prassi discorsive e non, che rende possibile l’apparizione di un enunciato. Questo diviene riconoscibile e acquista un significato solo all’interno di quel particolare territorio. La questione, ricondotta all’ambito letterario, non è quella di definire colui che parla, né di affermare la coincidenza di un’opera con la forma di espressione di una particolare individualità, ma di rendere visibile lo spazio vuoto da cui la funzione enunciativa emerge. Non c’è un soggetto pensante che si riconosce come autore del discorso, ma è quest’ultimo ad individuare il luogo da cui, in un determinato momento storico, è possibile parlare ed essere ascoltati. Questo è il senso della ricerca archeologica, tesa ad individuare le condizioni formali di specifiche pratiche discorsive. Così concepito il discorso non è l’espressione di un soggetto che pensa, conosce e dice, ma la superficie di dispersione del soggetto, un “mormorio M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? (1969), in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 825; trad. it. Che cosa è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004, p. 7. 8 Ivi, p. 826; trad. it. cit., p. 8. 9 M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, p. 142; trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999, pp. 145-146. 7


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senza autore”, che apre ad una molteplicità di significati nuovi e, aggiungerei, di verità, non più affidate alla parola del soggetto conoscente o a quella di dio. Come afferma Foucault: «il soggetto della letteratura (ciò che parla in essa e ciò di cui essa parla) non è tanto il linguaggio nella sua positività quanto il vuoto in cui esso trova il suo spazio quando si enuncia nella nudità dell’“io parlo”», quindi «l’“io parlo” funziona in senso inverso a quello dell’“io penso”. Quest’ultimo ci portava alla certezza indubitabile dell’Io e della sua esistenza; quello là invece spinge indietro, disperde, cancella quest’esistenza e non ne lascia apparire che il posto vuoto»10. Vuoto perché ha a che fare con un oggetto esso stesso inafferrabile, come un simulacro, che proprio per la distanza che pone tra linguaggio, letteratura e soggetto, può solo lambire la soglia, il limite, di ciò che egli è11. È attraverso la letteratura e il soggetto della letteratura che Foucault evoca, in modo più o meno esplicito, i limiti di quello che, nei corsi su L’herméneutique du sujet, chiamerà, con qualche precauzione, “momento cartesiano”, che ha attraversato tutta la modernità e trova ancora residui nella fenomenologia di quegli anni12. Proprio nella lezione inaugurale di questi corsi Foucault sottolinea come il momento cartesiano abbia prodotto una riqualificazione dello gnōthi seautòn socratico poiché esso: «si riferisce alla conoscenza di sé almeno come forma di coscienza»13, con il conseguente M. Foucault, La pensée du dehors (1966), in Dits et écrits I, cit., p. 548; trad. it. Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, cit., p. 113. 11 M. Foucault, Linguaggio e letteratura (1964), trad. it. in «materiali foucaultiani», vol. 2 (2013), n. 3, p. 30; su questo tema, nello stesso volume, cfr. J.-F. Favreau, La distanza che ci separa dalla letteratura, pp. 69-90 (p. 71). Vorrei sottolineare come la figura del negativo, incarnata secondo Foucault dalla trasgressione e dal divieto, trovi una significativa consonanza con il refus di Blanchot; cfr. M. Blanchot, Le refus, in Écrits politiques, Lignes/ Éditions Léo Scheer, Paris 2003, pp. 11-12. 12 Sul rapporto conflittuale con la fenomenologia si veda J. Revel, Foucault, le parole e i poteri. Dalla trasgressione letteraria alla resistenza politica, Manifestolibri, Roma 1996, la quale sottolinea come gli attacchi di Foucault hanno di mira prevalentemente la fenomenologia husserliana, mentre è possibile trovare un punto di contatto, pur con le dovute differenze, con Merleau-Ponty e con il suo tentativo di mostrare l’impossibilità di trovare un punto di contatto tra la logica della lingua e la creazione letteraria. Decisamente tranchant è invece Deleuze: «Il fatto è che per Foucault non c’è niente al di sotto del sapere. Tutto è sapere. Questa è la sua rottura con la fenomenologia. Non c’è come diceva Merleau-Ponty, una “esperienza selvaggia”, un vissuto. Piuttosto, il vissuto è già sapere» (G. Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986), Ombre Corte, Verona 2014, p. 39). 13 M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/ Gallimard, Paris 2001, p. 16 (trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (198110


128 Sandro Luce obnubilamento delle forme di epimeleia heautou. Vi è un’indubbia differenza tra il procedimento cartesiano e lo gnōthi seautòn socratico, tuttavia, il suo obiettivo è mostrare come l’inversione nel rapporto gerarchico tra i due principi dell’Antichità sia sintomatico di un sostanziale mutamento nel rapporto che si instaura tra filosofia e verità: l’accesso a questa non è più l’esito di un lavoro che il soggetto compie su se stesso, ma nient’altro che il processo indefinito della conoscenza, che non è più «capace di trasfigurare e salvare il soggetto»14. Quelle condizioni di spiritualità che permettevano al soggetto di accedere alla verità, attraverso una serie di trasformazioni e di modificazioni, vengono liquidate, nel corso della modernità, con l’affermarsi di un soggetto che viene concepito come aperto, per la sua stessa struttura, alla verità teoretica, una verità che non è pratica, né patica15. Una riduzione del soggetto a soggetto della conoscenza, che ha permesso di scindere la coppia sapere/potere, celando il potere ed elevando il sapere a valore autonomo di verità. È questa operazione che la letteratura, nel suo essere simulacro non riconducibile ad un soggetto fondatore di discorsività, disvela. La dissonanza del discorso letterario Considerare gli scritti letterari di Foucault come estemporanee incursioni di natura prettamente estetica, o come interventi di critica letteraria – categoria, peraltro rigettata dallo stesso Foucault –, costituisce un’operazione teoricamente parziale e inadeguata rispetto allo spessore e alla profondità che li attraversa. Essi costituiscono invece un tassello decisivo per rispondere ad un’urgenza politica – la seconda necessità cui prima accennavo – che interroga e cerca risposta nelle prospettive dischiuse dall’incontro tra linguaggio letterario e filosofia. 1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 16), ove Foucault sottolinea come Cartesio, affermando che è sufficiente un soggetto qualsiasi capace di vedere ciò che è evidente, ha sostituito l’evidenza all’ascesi nel punto in cui la relazione con sé interseca la relazione con gli altri e con il mondo. Su questo tema si veda M. Foucault, À propos de la généalogie de l’éthique: un aperçu du travail en cours, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1202-1234. 14 M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., p. 20; trad. it. cit., p. 21. 15 Ivi, pp. 27-30 e 181-185; trad. it. cit., pp. 22-25 e 167-169 (Foucault precisa come «ci troviamo di fronte non ad un conflitto tra spiritualità e scienza, quanto tra spiritualità e teologia»).


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Abbiamo visto come il linguaggio afferma, attraverso la letteratura, la sua irriducibilità al pensiero, l’impossibilità di fungere da pura traduzione delle rappresentazioni della coscienza, per apparire nella sua frammentarietà e nel suo anonimato. Questa è la ragione per la quale, ricorda Foucault, «la riflessione occidentale ha così a lungo esitato a pensare l’essere del linguaggio: come se essa avesse presentito il pericolo che l’esperienza nuda del linguaggio farebbe correre all’evidenza dell’“io sono”»16. Il soggetto ha un linguaggio che parla e di cui non è padrone, questo è il segno del disgregamento della soggettività delle rappresentazioni, che si riflette nel silenzio del linguaggio, nel suo essere senza parola, perché ripiegato su di sé, divenendo un oggetto di conoscenza tra i tanti17. La parola riemerge solo ricorrendo a forme estreme. La letteratura, come la filosofia, «non può riprendere la parola, né riprendersi in essa se non sui bordi dei suoi limiti: il limite ha a che fare con la trasgressione, è un’apertura sull’illimitato, ma, ricorda Foucault: «la trasgressione non sta (dunque) al limite come il nero sta al bianco, il proibito al permesso, l’esteriore all’interiore, l’escluso allo spazio protetto della dimora. Essa è legata al limite, piuttosto, secondo un rapporto di avvolgimento di cui nessuna effrazione da sola potrà venire a capo»18. Il limite è quello, ci dice Blanchot, verso cui va spinto il pensiero19. Ma costituisce anche il tratto peculiare di alcune esperienze di vita, come la follia, capaci di disobbedire al codice del linguaggio e di istituire una diversa riserva di senso. Viene stabilito con il linguaggio un rapporto attivo, produttivo, che proprio nel solco della distanza che scava dalle sue norme, trova nuovi sentieri di significato, nuove verità. La letteratura contemporanea, così come la follia, è un linguaggio “secondo”, ripiegato su se stesso poiché «vuole dire altro da ciò che dice»20. Esso nasconde, sotto la superficie chiara delle parole, l’ombra di significati nascosti: la piega è il disvelamento del limite della logica discorsiva, ne è non solo il rovesciamento, ma il vero e proprio “impensato”, inteso M. Foucault, La pensée du dehors, cit., p. 548; trad. it. cit., p. 113. M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 309; trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, p. 320. 18 M. Foucault, Préface à la transgression (1963), in Dits et écrits I, cit., p. 265; trad. it. Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, cit., p. 59. 19 M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; trad. it. La scrittura del disastro, Edizioni Sé, Milano 1990. 20 M. Foucault, Philosophie et psychologie (1965), in Dits et écrits I, cit., p. 471; trad. it. Filosofia e psicologia, in Archivio Foucault 1, Feltrinelli, Milano 1996, p. 104. 16 17


130 Sandro Luce non come ciò che si oppone al pensiero, ma come ciò che è stato scisso dalla propria attitudine critica. Paradigmatica di come il rapporto tra esperienza e linguaggio divenga attivo, produttivo di nuovi significati, e trovi nella letteratura un meccanismo di raddoppiamento21, è l’opera di Raymond Roussel, unico tra gli scrittori “maledetti” al quale Foucault abbia dedicato un intero saggio. Un interesse suscitato dalla specificità di un’opera letteraria, che fonda la trasgressione del codice del linguaggio non sulla violazione delle sue convenzioni e delle regole grammaticali, bensì sul loro rispetto e sulla loro proliferazione. La follia di Roussel si traduce in una scrittura anormale nel suo essere rigorosa: le regole del procédé non hanno alcun carattere repressivo, ma tendono ai limiti il processo di significazione, fanno esplodere qualsiasi unitarietà del linguaggio, scavando al suo interno lo spazio necessario per esprimere nuovi ed originali significati22. Roussel fabbrica l’impossibile da pensare facendo ripiegare il linguaggio su se stesso, mostrandone la doppiezza, la maschera, la doublure, «il vuoto che si apre all’interno di una parola»23 che, anziché costituire una proprietà dei segni verbali, apre lo spazio per significati eccedenti la relazione puramente rappresentativa tra cose e parole. Si tratta di una prospettiva di profondità, che squarcia la correlazione perpetua ed oggettivamente fondata tra visibile ed enunciabile per dischiudere un “fuori”, che non si presenta nelle vesti di una pura esteriorità, ma come ciò che si scava dentro, nelle trame del linguaggio, nella rete inesauribile dei segni che si intrecciano in un rapporto infinito24. Le macchine linguistiche di Roussel, come il corpo senza organi di Artaud, o le perversioni di Sade rimandano ad una letteratura che, lungi dall’essere una mera forma di espressione estetica, si presenta come spazio di espeM. Foucault, Linguaggio e letteratura, cit., p. 37: «la letteratura è un linguaggio unico, ma contemporaneamente sottomesso alla legge del doppio». 22 Per comprendere la natura “artificiale” e “combinatoria” delle sue opere, cfr. R. Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, Pauvert, Paris 1963, in particolare pp. 11-35. 23 M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963, p. 28; trad. it. Raymond Roussel, Ombre Corte, Verona 2001, p. 46. 24 Su questo punto si veda J. Revel, Vita altra, attitudine critica, sperimentazione, in «Iride», vol. 25 (2012), n. 66, pp. 317-327, la quale individua una strategia delle differenze, come presupposto di un fuori, contro il rischio di “riduzione al medesimo”, tuttavia mette in guardia dalla possibilità che questa posizione possa essere considerata un’uscita dalla storia e dai rapporti di potere. 21


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rienza del pensiero, indisgiungibile dalla “vita vera”, intesa non solo nei termini di un vissuto esistenziale, ma nel senso prossimo a quello dei cinici, di una vita scandalosa attraverso la quale manifestare la propria verità e testimoniarla attraverso la scrittura. Come sottolinea Macherey, a proposito dell’opera di Roussel, essa si presenta «come il luogo di emergenza di una verità, non nel senso psicologico dell’uomo e della sua “malattia”, ma in quello di una verità propriamente letteraria»25, una verità – aggiungerei – dal potenziale sovversivo poiché capace di mettere in discussione, di disordinare l’ordine del significante padrone, smascherandone la doppiezza, la sua irriducibilità al rapporto tra visibile e significato. Il divenire etico A questo punto, può risultare lecita una domanda: è possibile stabilire una relazione tra questo Foucault e il Foucault ultimo, che si occupa dei processi di soggettivazione etica e dei giochi di veridizione? E, soprattutto, come dare forza all’ipotesi di un “fuori” che non consista in una pura esteriorità, impersonale e impolitica, ma si costituisca come piega che stria lo spazio liscio del discorso egemone (chiaramente quello neoliberale)? Come noto, Foucault intraprende negli anni settanta un’analisi genealogica, che lo conduce a riconoscere nel nesso sapere-potere uno strumento essenziale di analisi dei processi di assoggettamento, mentre il discorso, lontano da qualsiasi connotazione letteraria, diviene un dispositivo di produzione di verità26. Tuttavia già nella sua Préface à la transgression afferma: «una filosofia, la quale s’interroga sull’essere del limite, recuperi una categoria come questa, è evidentemente uno degli infiniti segni che il nostro cammino è una via di ritorno e noi stiamo tornando ogni giorno più greci»27. Non si tratta certo di un annuncio programmatico rispetto alla sua ricerca, ma, sulla scia di Nietzsche, egli ha presente, sin dagli anni sessanta, come i Greci rappresentino quella «distanza dalla quale la filosofia P. Macherey, À quoi pense la littérature? Exercice de philosophie littéraire, PUF, Paris 1990, p. 179. Dello stesso autore si confronti anche la prefazione a M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1992. 26 Cfr. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. 27 M. Foucault, Préface à la transgression, cit., p. 267; trad. it. cit., p. 61. 25


132 Sandro Luce ci parla»28. È in questa distanza che il lavoro di Foucault si insinua, compiendo una sorta di ripiegamento, una doublure all’interno del suo percorso intellettuale, reso necessario dalla necessità di individuare processi di soggettivazione attivi, in grado di sottrarsi alle dinamiche di assoggettamento così come da lui descritte negli anni precedenti. È stato Deleuze, nel suo lavoro dedicato a Foucault, a sottolineare come gli esercizi di autogoverno della tradizione greca permettono una duplice separazione: dal potere come rapporto di forze e dal sapere come forma stratificata, organizzando una fodera interna (doublure), metafora della curvatura delle forze del fuori. Il soggetto, che nella lettura deleuzeana è pensato come un fascio di forze29, si costituisce solo perché in grado di intrattenere un rapporto agonistico con le forze. Da una parte c’è un rapporto a sé che deriva da una relazione con gli altri, dall’altra c’è un rapporto a sé che assume una propria indipendenza, in ragione del piegamento dei rapporti del fuori, che vanno a «costituire un dentro che si scava e si sviluppa secondo una direzione propria»30. Come sottolinea Deleuze il problema di fronte al quale si trova Foucault dopo La volonté de savoir, e che giustifica il suo lungo silenzio prima della pubblicazione de L’usage des plaisirs e de Le souci de soi, è quello di «concepire un “potere della verità” che non sia più “verità di potere”, che sia una verità che sorge dalle linee trasversali di resistenza»31. La piega suggerisce quindi il carattere interstiziale, la posizione di confine di una soggettività che, pur derivando dal potere e dal sapere, tuttavia non ne dipende. Si viene così a delineare un soggetto che è solo uno dei soggetti possibili, come una linea che taglia, attraversando con modalità e percorsi variabili, il campo dei saperi e dei poteri. Una soggettività nomade che non si costituisce nell’ordine dell’identità, ma in un divenire senza fine e senza alcun telos, che, proprio in ragione di una trasformazione permanente, si presenta come un divenire creativo. Una possibilità dischiusa, secondo Deleuze, dall’apparire di nuove “forze del fuori”, che non sono più legate alla “forma Dio” o alla “forma uomo”, ossia le forme che caratterizzavano rispettivamente l’episteme classica e quella moderna – ma al salto verso la biologia molecolare e al “finito illimitato” che essa ha portato con sé, ossia all’infinito numero di combinazioni Ivi, p. 270; trad. it. cit., p. 64. Deleuze le definisce come «un rapporto di affezione della forza con sé, un potere di autoaffezione, un’affezione di sé attraverso sé»; cfr. G. Deleuze, Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986, p. 108; trad. it. Foucault, Cronopio, Napoli 2002, p. 133. 30 Ivi, p. 107; trad. it. cit., p. 133. 31 Ivi, p. 101; trad. it. cit., p. 126. 28 29


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alle quali è riconducibile ogni situazione di forza32. È l’odierna condizione antropologica in cui il pensiero della finitudine si apre verso un’illimitatezza certamente pericolosa, in quanto priva di direzionalità e dunque esposta a qualsiasi deriva, ma anche condizione potenziale di mutamento e produttrice di nuove forme. Collocate in questa prospettiva, le ricerche sull’etica antica rispondono certamente ad una necessità di ordine metodologico, che le pone all’interno del programma di ricerca sulle forme di governo e sui rapporti tra processi di soggettivazione e dire il vero su se stessi33. Ma derivano soprattutto ad un’urgenza filosofica e politica, che si esplicita nel tentativo di delineare una distanza che il soggetto scava da se stesso (dêpendre de soi même), dal suo essere soggetto assoggettato ai saperi e alle verità dominanti per farne apparire la contingenza storica. Questo è il senso della problematizzazione cui Foucault fa appello, rivendicando la specificità del ruolo e delle competenze dell’intellettuale34. Se l’allotropo empirico trascendentale si è ritrovato impigliato nella doppia veste di fondatore e oggetto di un discorso vero su di sé, solo striando lo spazio discorsivo e universalizzante con contro-discorsi che fanno appello alle verità dei soggetti, si ha la possibilità di preservare un’apertura, uno spazio dell’invenzione e delle singolarità. Ed è in questo senso che l’esplorazione foucaultiana del mondo antico trova il suo esito nel riferimento alla parrhesia, alla filosofia che si fa forma di vita, testimonianza e presa di parola rischiosa. Foucault, Ivi, p. 140; trad. it. cit., p. 174. Deleuze ne parla in termini di «una superpiega, di cui ci testimoniano i piegamenti propri delle catene del codice genetico, le potenzialità del silicio nelle macchine della terza generazione, così come i contorni della frase nella letteratura moderna allorché il linguaggio può solo ricurvarsi in un perpetuo ritorno su di sé». 33 Come sottolinea Foucault nel Corso che inaugura il suo lavoro sull’etica antica: «ho operato due spostamenti successivi: uno andava dalla nozione di ideologia dominante a quella di sapere-potere e ora un secondo spostamento che va dalla nozione di saperepotere alla nozione di governo attraverso la verità» (M. Foucault, Du gouvernment des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, Seuil/Gallimard, Paris 2012, p. 12; trad. it. Del Governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, p. 23). 34 Sulla funzione dell’intellettuale, cfr. M. Foucault, L’intellectuel et les pouvoirs, in Dits et écrits II, cit., pp. 1566-1571; Id., La fonction politique de l’intellectuel, ivi, pp. 109-114; Id., Le souci de la vérité, ivi, pp. 1487-1497. Questo tema è inscindibile dalla più ampia questione della critica intesa, a partire da Kant, come «l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata»; cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, ivi, pp. 1381-1397 e 1498-1507; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232 e 253-261. 32


134 Sandro Luce nel sottolineare l’irriducibilità della parrhesia ad un atto enunciativo esclusivamente performativo, sottolinea come: «essa determina una situazione aperta, o piuttosto apre la situazione e rende possibile un certo numero di effetti che non sono propriamente conosciuti. La parrhesia non produce un effetto codificato. Essa apre la possibilità di un rischio indeterminato»35. Se si può ipotizzare una possibilità del divenire in Foucault, essa non può prescindere da un processo di trasformazione personale, da una trasfigurazione esistenziale che conduce ad uno stile di vita, una techne tou biou, che non teme lo scandalo. L’estetica dell’esistenza si raccorda, in modo «flessibile e variabile», ad una “vita vera” attraverso un pratica di cura del sé36: questo indica nella terminologia deleuziana, la possibilità dell’affezione di sé attraverso un continuo “piegamento” dell’esteriorità nell’interiorità. Un piegamento che non è una prassi di interiorizzazione che ci riporta alla coscienza, né è un atto egoistico che assorbe il “fuori” in un “dentro” autoreferenziale. Si tratta piuttosto di un movimento che fa del “fuori” la condizione di possibilità per un piegamento interiore, permettendo al rapporto a sé di divenire principio di autoregolazione pur senza esprimere alcun rapporto originario con la propria interiorità. Mi pare significativo, anche rispetto a questa lettura, come la questione etica, che nei corsi sul Le gouvernement de soi et des autres si combinava con l’aspetto politico intorno alla figura del parresiasta, venga radicalizzata nell’ultimo Corso tenuto al Collège de France37 e vada ad investire la vita e la sua capacità di sopportare quelle verità, anche intollerabili, manifestate attraverso un certo modo di esistere. Di qui l’interesse per i Cinici la cui etica, come osserva Frédéric Gros, è «una messa alla prova della vita attraverso la verità»38. Si tratta di verità che, lontane da qualsiasi senso epistemico, e dunque dalla dipendenza da un discorso che le racchiude nelle condizioni a M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 60; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 67. 36 Si tratta di un aspetto che Foucault sviluppa a partire dal confronto tra l’Alcibiade e il Lachete nella lezione del 29 febbraio 1984 in M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, Gallimard, Paris 2009, in particolare pp. 148-152. 37 Su questo tema si veda P. Cesaroni, Verità e vita . La filosofia in “Il coraggio della verità”, in Id. e S. Chignola (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1981-1984), Ombre Corte, Verona 2013, pp. 132-160. 38 F. Gros, La parrhêsia chez Foucault, in Id. (a cura di), Foucault, le courage de la vérité, PUF, Paris 2002, p. 165. 35


La doublure di Foucault

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priori che disciplinano il linguaggio, sono legate alla modalità dell’atto e al rischio al quale espongono il soggetto: verità incarnate e singolari, seppure in relazione con gli altri. La parrhesia dei cinici apre lo spazio all’irruzione di un ingovernabile, a qualcosa che non occupa alcun posto nell’ordine esistente, né ha alcun sapere da trasmettere in quanto non risponde ad alcun logos, ma è essenzialmente ergon, vita e azione. È la vita, e il modo in cui viene condotta e trasformata, a manifestare la verità, perché sospinta oltre il confine tra ciò che è razionale e ciò che non lo è, perché eccedente rispetto a qualsiasi senso comune, potremmo dire un’esperienza limite in cui la verità, totalmente immanentizzata, si riduce ai suoi effetti, cioè all’esperienza di una vita altra. Attraverso le pratiche etiche dei cinici Foucault ci fa scorgere la possibilità di una critica del tutto immanente, che coincide con il suo sapersi fare realtà e modo di essere. Un’attitudine teorica e pratica, che rende insopportabile e scuote la realtà così come è, ponendo le condizioni per uno scarto rispetto all’esistente che situa le soggettività attraverso un continuo movimento di differenziazione. La possibilità di pensare un fuori ai dispositivi di assoggettamento su cui si struttura l’odierna razionalità governamentale, e quindi la possibilità di offrire una resistenza ad essi, muove dalla capacità di “mobilitare” l’oggetto per eccellenza di questi discorsi di verità: la vita. Vivere una “vita vera” (vraie vie) è da intendersi nei termini di una vita combattiva, di una prassi dissidente, di una vita che fa scandalo perché rompe con l’ethos condiviso e indifferenziato, appellandosi ad altre verità. Manifestare, attraverso la nostra condotta, il disaccordo – che è anche una distanza – nei confronti dei discorsi ai quali siamo assoggettati, è una possibilità che abbiamo di aprire varchi al loro interno, perché, come Foucault aveva compreso, essi non sono mai del tutto totalizzanti, non aderiscono mai completamente al tessuto sociale, in essi si insinuano spesso pieghe che vanno scoperte e attraversate, per questo «oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo»39. Sandro Luce Università degli Studi di Salerno sluce@unisa.it

M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244. 39


136 Sandro Luce

. Foucault’s Doublure. The Thought from the “Outside” and the Practices of Truth This essay focuses on the concept of “dehors” in Foucault’s thought. Through a “circular” reading of Foucault’s works, the author shows the extensive persistence of this concept from so-called “literary works” of the 1960s to the last texts on ethics. The aim is to avoid interpretations stressing the impolitic and impersonal dimension of “dehors”, in order to show how this concept represents, conversely, a fold, immanent to the processes of subjectivation, and filled with political sense. Keywords: Dehors, Literature, Political Subjectivity, Ethics, Parresia, Truth, Governmentality.


Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico Daniele Lorenzini

Lo scopo di questo articolo è circoscritto ed estremamente preciso: si

tratta di mettere a fuoco il rapporto che è possibile istituire, nei lavori di Michel Foucault, tra la nozione di “contro-condotta”, elaborata per la prima volta nel corso al Collège de France del 1977-1978, Sicurezza, territorio, popolazione1, e poi rapidamente abbandonata, e la nozione di “atteggiamento critico” (attitude critique), che emerge nella famosa conferenza Qu’est-ce que la critique?, pronunciata da Foucault alla Société française de Philosophie poco dopo la fine di quello stesso corso al Collège de France, il 27 maggio 19782. Condurre, lasciarsi condurre, condursi Il concetto di contro-condotta emerge, come correlativo di quello di condotta, quando Foucault comincia a porre le basi per la sua analisi delle pratiche di governo e della governamentalità, nei primi mesi del 1978. In questo contesto, tuttavia, è innanzitutto la nozione di condotta ad essere filosoficamente cruciale, e non è un caso che essa rimanga al centro degli interessi di Foucault sino alla fine della sua vita3: a partire dal 1978, infatti, Foucault non smetterà più di riflettere – sebbene da prospettive sempre diverse e specifiche – sul problema del governo, del governo degli altri ma anche del governo di sé. È del 1980 la definizione (o ridefinizione) forse più significativa del concetto di governo che si possa trovare in Foucault: Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005. 2 Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015, pp. 33-70. 3 Si pensi, per esempio, al terzo paragrafo dell’introduzione all’Uso dei piaceri: M. Foucault, Histoire de la sexualité II. L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; trad. it. L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, a cura di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 30-37. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 137-147.


138 Daniele Lorenzini il governo è il «punto di contatto tra il modo in cui gli individui sono condotti dagli altri e il modo in cui conducono se stessi»4. La nozione di contro-condotta è quindi caratterizzata sin dall’inizio da una sorta di “dipendenza teorica” nei confronti della nozione di condotta e, sebbene si tratti di una nozione filosoficamente molto ricca e interessante5, Foucault non le attribuirà mai uno statuto concettuale autonomo. Nella lezione del primo marzo 1978 di Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault definisce la condotta come «uno degli elementi fondamentali introdotti dal pastorato cristiano nella società occidentale», e propone di tradurre, con questo termine, ciò che i Padri greci chiamavano «economia delle anime» (oikonomia psuchon), ovvero l’insieme delle tecniche e delle procedure che caratterizzano il pastorato in quanto arte di governare gli esseri umani6. Il termine “condotta” sembra a Foucault particolarmente appropriato proprio a causa dell’ambiguità che lo contraddistingue: la condotta, infatti, indica certo l’attività del condurre, ma anche il modo in cui gli individui si conducono e il modo in cui si lasciano condurre. Questo termine possiede quindi tre significati interconnessi, ma distinti: condurre qualcuno, essere condotti (cioè lasciarsi condurre) da qualcuno, condursi. Così, in Foucault, la condotta si pone esplicitamente, e sin dall’inizio, al contempo su un piano politico e su un piano etico. Anche nell’articolo Le sujet et le pouvoir, pubblicato nel 1982, Foucault mostra chiaramente come la nozione di condotta (con la sua ambiguità) sia di cruciale importanza nella definizione del concetto stesso di governo: governare significa condurre la condotta degli individui, agendo sulle loro possibilità di azione, strutturando il loro campo di azione eventuale7. Tale definizione del governo permette inoltre di precisare che esso si fonda sempre sulla libertà degli individui: in altri termini, come spiega Foucault, la libertà degli individui costituisce la «condizione di esistenza del potere»8, M. Foucault, L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth College, 1980, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2013, pp. 38-39; trad. it. mod. Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012, p. 40. 5 Cfr. A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, in «History of the Human Sciences», vol. 24 (2011), n. 4, pp. 25-41. 6 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 143-144. 7 Cfr. M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, p. 1056. 8 Ivi, p. 1057. 4


Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 139

o meglio di questa forma specifica di potere che chiamiamo “governo” e che non deve essere confusa né con lo stato di dominio, né con l’utilizzo della forza bruta o con l’esercizio della coercizione pura e semplice. Il governo – nel senso foucaultiano del termine – può essere esercitato soltanto su soggetti liberi e soltanto nella misura in cui essi restano liberi, ovvero mantengono aperto dinanzi a sé «un campo di possibilità ove molteplici condotte […] possono realizzarsi»9. Più precisamente, è possibile descrivere la dinamica complessa che struttura il governo degli esseri umani come una tensione permanente tra le tre dimensioni, o i tre sensi, del termine “condotta” evocati sopra – condurre qualcuno, essere condotti (cioè lasciarsi condurre) da qualcuno, condursi. Si osserverà così che è la dimensione o il senso “intermedio” a giocare un ruolo cruciale: tra le molteplici istanze che cercano di governare gli individui e la possibilità che questi ultimi hanno di governare se stessi in (relativa) autonomia, è proprio il fatto – o meglio la decisione, la volontà – di essere condotti (cioè di lasciarci condurre) in questo modo specifico, da questa istanza particolare, che definisce e struttura il campo di esercizio della libertà di ciascuno. Una libertà che, di conseguenza, non ha nulla di metafisico, ma che al contrario è sempre contingente, puntuale e legata a una specifica configurazione dei rapporti di potere; e tuttavia, proprio per questo, secondo Foucault essa possiede una forza di insoumission (di ribellione, di renitenza, di resistenza) da non sottovalutare: La relazione di potere e l’insoumission della libertà non possono quindi essere separate. Il problema centrale del potere non è quello della “servitù volontaria” (come è possibile desiderare di essere schiavi?): ciò che è al cuore della relazione di potere, ciò che la “provoca” ininterrottamente, è la rétivité [l’essere recalcitrante, ribelle] del volere e l’intransitività della libertà10.

Che nome dare, allora, a questa rétivité del volere e a questa intransitività (o a questa insoumission) della libertà? Che nome dare, in altri termini, al rifiuto di un individuo di essere condotto in questo o quel modo specifico? In Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault risponde a queste domande coniando la nozione di contro-condotta11. Ivi, p. 1056. Ivi, p. 1057. 11 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 151. 9

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140 Daniele Lorenzini Una condotta “altra” Foucault, nel suo corso al Collège de France del 1977-1978, dopo aver analizzato in maniera dettagliata le caratteristiche di quello che ha definito “potere pastorale”, si interessa ai «punti di resistenza», alle «forme di attacco e di contrattacco che si sono affermate proprio nel campo del pastorato»12. È evidente già in questo corso (e lo sarà sempre più negli anni successivi) come Foucault cerchi di dare al concetto di resistenza un significato positivo, produttivo, e non semplicemente “negativo” o “reattivo”, come alcune sue analisi della prima metà degli anni settanta sembravano a tratti suggerire – nonostante Foucault avesse sempre tentato di evitarlo. Nel quarto capitolo de La volontà di sapere, per esempio, Foucault aveva scritto: [L]à dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. […] [I rapporti di potere] non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere13.

Come Foucault ha ripetutamente spiegato in seguito, lo scopo di queste affermazioni non era suggerire che siamo sempre e comunque dentro al potere e che quindi è inutile anche solo tentare di resistergli, ma proprio il contrario: dato che il potere è dappertutto, anche la resistenza può sorgere ovunque, e dato che il potere funziona di solito in modo “relazionale”, c’è e ci sarà sempre qualcosa che possiamo fare per resistere, cambiare, sovvertire una data relazione di potere. A partire dal 1978, Foucault propone una radicale riformulazione della coppia concettuale potere-resistenza, ridefinendo il potere nei termini del governo e la resistenza nei termini della soggettivazione. La prima ridefinizione, però, precede cronologicamente la seconda di almeno due anni, e così, in Sicurezza, territorio, popolazione, il primo concetto che Foucault utiIvi, p. 144. M. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 84-85. 12 13


Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 141

lizza per ridefinire la resistenza nell’ambito della governamentalità è quello di “contro-condotta”, funzionale a dare alla resistenza un significato esplicitamente positivo e produttivo. All’interno del pastorato cristiano, Foucault individua una serie di «rivolte specifiche di condotta», di movimenti che avevano come obiettivo «un’altra condotta», di individui che hanno voluto «essere condotti in altro modo [autrement], da altri conduttori, da altri pastori, per raggiungere altri obiettivi e altre forme di salvezza, con altre procedure e altri metodi»14. L’insistenza di Foucault sull’alterità che caratterizza tali rivolte di condotta non è fortuita, e va interpretata come la chiara indicazione della sua convinzione – rimasta intatta – secondo cui la resistenza non sorge mai dal nulla, ma è sempre resistenza a qualcosa o a qualcuno. È per questo che Foucault decide di coniare il termine “contro-condotta”, che a suo avviso ha il grande vantaggio di mantenere il senso attivo della parola condotta15 e, al contempo, di evitare il rischio di ricadere nell’idea tradizionale di una Resistenza (con la R maiuscola) che si oppone al Potere (con la P maiuscola). La contro-condotta implica quindi, da una parte, un potere o un’istanza di tipo governamentale che cerca di condurre gli individui in un modo specifico, e, dall’altra parte, un netto rifiuto espresso da tutti o da alcuni individui, con il conseguente tentativo di condursi (o di farsi condurre) autrement. Ora, sebbene Foucault utilizzi questa nozione innanzitutto e soprattutto nella sua analisi delle lotte antipastorali medievali, è cruciale sottolineare come la definizione che egli ne dà sia ben più generale e lo configuri come uno strumento concettuale da applicare – potenzialmente – a molti altri contesti storici. Dalla contro-condotta all’atteggiamento critico Foucault, tuttavia, abbandona quasi immediatamente il concetto di contro-condotta, che non riemergerà più nei suoi scritti e nei suoi interventi degli anni successivi. Perché? È naturale ipotizzare che questo concetto non lo soddisfacesse, forse perché rischiava di essere percepito ancora come troppo “interno” alle dinamiche governamentali, come un 14 15

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 144-145. Cfr. ivi, p. 151.


142 Daniele Lorenzini semplice “dire no” destinato ad essere immediatamente riassorbito nelle maglie del potere; o forse, al contrario, Foucault temeva che potesse essere interpretato nel senso di un’opposizione binaria tra potere e resistenza, come se si trattasse di due sostanze eterogenee, e non di due poli di una medesima relazione. Ma poco importano, in fondo, le ragioni specifiche di tale abbandono. L’essenziale è che il contenuto del concetto di controcondotta non viene in realtà ricusato da Foucault, ma è al contrario “trasferito” tel quel in un altro concetto – quello di “atteggiamento critico”. La conferenza Qu’est-ce que la critique?, pronunciata il 27 maggio 1978, costituisce la prima grande elaborazione, da parte di Foucault, del tema della critica, o meglio dell’atteggiamento critico (attitude critique) in quanto atteggiamento specifico della civiltà (occidentale) moderna. Tuttavia, l’atteggiamento critico non è altro che una forma (o forse la forma) tipicamente moderna di contro-condotta. Non è vero invece il contrario, anche se una lettura rapida e superficiale della conferenza potrebbe suggerirlo: la contro-condotta non può essere considerata come una forma particolare, tipicamente medievale, dell’atteggiamento critico, poiché Foucault lega in modo estremamente preciso ed esclusivo il concetto stesso di atteggiamento critico al «grande processo di governamentalizzazione della società [occidentale]» prodottosi a partire dal XV-XVI secolo16. Foucault afferma infatti chiaramente che l’atteggiamento critico emerge in quanto contrepartie, partner e al contempo avversario dell’arte di governare gli esseri umani nel corso della prima età moderna17. Certo, quest’arte di governare era stata elaborata in precedenza dalla Chiesa nella forma del potere pastorale, ma era rimasta a lungo legata a una serie di pratiche relativamente limitate, ed è solo tra il XV e il XVI secolo che essa si “laicizza”, distaccandosi dal contesto religioso, e si diffonde nella società civile, moltiplicandosi e colonizzando svariati campi che vanno dal governo dei bambini, dei poveri, dei mendicanti, a quello di una famiglia, di una casa, dell’esercito, di una città o di uno Stato. Tuttavia, proprio come all’arte pastorale della condotta sono state opposte, nel Medioevo, diverse contro-condotte specifiche (l’ascetismo anacoretico, le comunità, la mistica, la lettura diretta della Scrittura e la credenza escatologica18), anche le arti “laiche” di governo hanno suscitato svariate reazioni, conteM. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 41. Cfr. ivi, p. 37. 18 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 153-163. 16 17


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stazioni, contro-condotte – potremmo dire –, che Foucault definisce coniando precisamente la nozione di atteggiamento critico. Il problema che tale atteggiamento critico solleva è però analogo a quello che Foucault aveva individuato al cuore delle contro-condotte pastorali: non «come non essere governati affatto», ma «come non essere governati così, in questo modo, da questa istanza, in nome di questi principi, in vista di questi obiettivi e attraverso questi procedimenti»19 – il “contro” delle contro-condotte è richiamato dal “così” della definizione foucaultiana dell’atteggiamento critico, per sottolineare in entrambi i casi la dimensione essenzialmente locale e strategica di queste forme di resistenza20. L’atteggiamento critico è una sorta di «forma culturale generale», un atteggiamento al contempo morale e politico che consiste nell’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo – la critica, dunque, come «arte di non essere eccessivamente governati»21. Vale la pena sottolineare, qui, il carattere provocatorio, per non dire rivoluzionario, di questa tesi di Foucault. In Qu’est-ce que la critique?, Foucault sostiene che Kant, dopo aver elaborato il tema dell’atteggiamento critico nel suo testo sull’Illuminismo, l’ha poi trascritto e stemperato, in un certo senso, inscrivendolo all’interno della questione della critica epistemologico-trascendentale. Ebbene, Foucault ha intenzione di percorrere il cammino inverso, operando così uno spostamento che lui stesso definisce indecente (dal punto di vista della filosofia tradizionale): la domanda epistemologico-trascendentale della prima Critica di Kant, “Che cosa posso sapere?”, diviene nelle mani di Foucault una «questione di atteggiamento», e la critica risulta ridefinita come «il movimento attraverso cui il soggetto si attribuisce il diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e il potere sui suoi discorsi di verità» – un movimento che mira al «disassoggettamento nel gioco della politica della verità»22. Tale spostamento è frutto dell’opposizione del Kant delle Critiche a un altro Kant – al Kant di un testo minore e marginale, che all’epoca era quasi del tutto ignorato dai commentatori. Non dovremmo dimenticare né sottovalutare il valore sovversivo di questa operazione. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37. Cfr. D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, cit., p. 17. 21 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 37. 22 Ivi, p. 39. Cfr. anche D. Lorenzini e A.I. Davidson, Introduction, cit., p. 15. 19

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144 Daniele Lorenzini Foucault, in Qu’est-ce que la critique?, trasferisce quindi il contenuto concettuale del termine “contro-condotta” nella nozione di atteggiamento critico. Ma, così facendo, trasforma il significato e l’obiettivo delle sue analisi. In effetti, nella conferenza alla Société française de Philosophie, Foucault presenta (implicitamente) lo studio delle contro-condotte pastorali che aveva proposto qualche mese prima al Collège de France come una tappa della genealogia dell’atteggiamento critico: non soltanto il primo «punto di ancoraggio storico» di tale atteggiamento al quale si riferisce è il «ritorno alla Scrittura»23, ma durante il dibattito Foucault evoca anche la mistica e afferma che occorre ricercare l’origine storica dell’atteggiamento critico proprio nelle lotte religiose della seconda metà del Medioevo24. Ciò non significa, tuttavia, che contro-condotta e atteggiamento critico possano essere considerati due concetti interscambiabili: se l’atteggiamento critico è una forma specifica di contro-condotta che emerge nell’Europa della prima età moderna, infatti, non è vero l’inverso. Questi due concetti danno piuttosto luogo a due imprese, a due forme di analisi storico-filosofica differenti. Da una parte, l’atteggiamento critico, in quanto forma storicamente specifica di resistenza ai meccanismi governamentali di potere – una forma che, secondo Foucault, pur essendo nata diversi secoli or sono, è ancora attuale –, dà luogo come già segnalato a un’inchiesta genealogica che, tuttavia, lungi dall’arrestarsi alle lotte spirituali del Medioevo (come Foucault sembra suggerire nel 1978), deve essere spinta ben più indietro nel tempo. L’analisi foucaultiana della parrhesia antica, infatti, non è altro che un tassello di tale genealogia, e Foucault ne è perfettamente cosciente. Nell’ultima lezione del corso al Collège de France del 1982-1983, Il governo di sé e degli altri, egli afferma esplicitamente che il testo di Kant sull’Illuminismo costituisce per la filosofia un modo di prendere in considerazione «quelli che erano, nel mondo antico, i problemi tradizionali della parrhesia»25; e nell’autunno del 1983, a Berkeley, sostiene in modo ancora più chiaro che, «facendo l’analisi della nozione di parrhesia», egli intende «abbozzare la genealogia di ciò che potremmo chiamare l’atteggiamento critico nella nostra società»26. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 37-38. Cfr. ivi, pp. 59-60. 25 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009, p. 333. 26 M. Foucault, Discours et vérité précédé de La parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2016, p. 103. 23 24


Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 145

D’altra parte, il concetto di contro-condotta sembra piuttosto poter dare luogo a un’impresa che Foucault non ha mai intrapreso in modo sistematico, ma della quale ci ha lasciato svariati “frammenti” e che potremmo definire, riprendendo la sua idea di un «cinismo trans-storico» evocata durante la lezione del 29 febbraio 1984 del corso al Collège de France Il coraggio della verità, nei termini di uno studio della contro-condotta in quanto «categoria storica che attraversa, in forme diverse e con svariati scopi, tutta la storia occidentale»27. Conclusione In ogni caso, è proprio grazie ai concetti di contro-condotta e di atteggiamento critico che Foucault comincia ad operare una ridefinizione fondamentale del problema della resistenza, in un percorso che lo condurrà infine, dopo alcune peripezie, all’elaborazione della questione della soggettivazione in quanto (possible) pratica di resistenza. Più precisamente, è un problema, una impasse dinanzi alla quale si trova in Qu’est-ce que la critique? a contribuire in modo decisivo a tale sviluppo – impasse che costituisce forse anche una delle ragioni per le quali Foucault decide di non correggere il testo della conferenza inviatogli dalla Société française de Philosophie in vista della sua pubblicazione. Si tratta, naturalmente, del problema della volontà28. In Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault evoca la nozione di volontà soltanto nella discussione dell’ascetismo anacoretico come forma di contro-condotta vis-à-vis del campo di obbedienza generalizzata organizzato dal monachesimo, il cui scopo sarebbe precisamente la negazione, la soppressione, l’annientamento della volontà dell’individuo, di colui che è diretto29 – e, a questo proposito, è significativo come, nel corso al Collège de France del 1979-1980, Del governo dei viventi, Foucault sostenga al contrario che il meccanismo di obbedienza “pura” che caratterizza l’ascetismo M. Foucault, Le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1984), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 172. 28 La mia riflessione su tale problema è debitrice di un dialogo filosofico ricco e stimolante con Arnold Davidson che dura ormai da molti anni, e per il quale lo ringrazio di cuore. 29 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 156. 27


146 Daniele Lorenzini cenobitico non implichi la soppressione della volontà del diretto, che resta intera e intatta, ma richieda l’identificazione della sua volontà con quella del direttore30. Anche in Qu’est-ce que la critique? Foucault tenta di evitare di soffermarsi su tale nozione di volontà, senza tuttavia riuscirci del tutto. Nella conclusione della conferenza, infatti, Foucault fa riferimento a una «volontà decisoria di non essere governati»31 (così, in questo modo, da queste istanze, a questo prezzo), e nella discussione ammette che è necessario, in un certo senso inevitabile, porre il problema della volontà, «tanto nella sua forma individuale quanto nella sua forma collettiva» – il problema di cosa sia questa volontà di non essere governati così. Un problema che, spiega, «ho tentato di evitare il più a lungo possibile», a causa della sua difficoltà, della sua delicatezza, ma soprattutto a causa dei presupposti che lo accompagnano e che derivano da più di duemila anni di storia della filosofia occidentale32. Problema fondamentale, tuttavia, specie se ci rendiamo conto che i meccanismi governamentali di potere agiscono sulla base di e grazie alla libertà degli individui – e dunque sulla base di e grazie a un “Io voglio” originario e reiterato ad ogni istante, sebbene in maniera spesso implicita. Di conseguenza, l’atteggiamento critico in quanto forma moderna di contro-condotta, in quanto resistenza anti-governamentale, si fonda sulla possibilità di dire “Non voglio più” (essere governato, diretto, condotto così), una possibilità che a sua volta deve essere resa visibile – ed è questo in fondo lo scopo delle analisi storico-filosofiche di Foucault. Tuttavia, questa volontà di non essere governati così non va interpretata alla luce di una concezione filosofica tradizionale della volontà: non si tratta né di un concetto metafisico, né di un concetto giuridico, ma di un concetto essenzialmente strategico, e per evitare ogni possibile confusione converrebbe forse parlare, piuttosto, di “decisione”, di “sforzo”, di “messa alla prova”, di “assunzione di rischio” o di “coraggio” (termini che Foucault stesso utilizzerà nei propri lavori degli anni ottanta) all’interno di una configurazione sempre specifica di rapporti di forza e pratiche di governo. Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012; trad. it. Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), a cura di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 232-233. 31 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., p. 58. 32 Ivi, p. 66. 30


Foucault, la contro-condotta e l’atteggiamento critico 147

Ciò non toglie che l’elaborazione foucaultiana, nel 1978, dei temi della contro-condotta e dell’atteggiamento critico apra uno spazio inedito – lo spazio dell’etica – al cuore stesso di un’analisi che è e resterà sempre politica33. La resistenza, ridefinita nei termini di una condotta o di un atteggiamento, al contempo morale e politico, che l’individuo mette in atto volontariamente, coraggiosamente, dinanzi a una specifica istanza governamentale che pretende di condurlo e per cercare al contrario di condursi autrement, la resistenza così ridefinita punta già chiaramente in direzione del valore politico che Foucault, negli anni ottanta, attribuirà ai processi di soggettivazione, ovvero di strutturazione, di creazione di un certo rapporto di sé con sé come modalità cruciale di opposizione all’assoggettamento – alla costituzione di sé nella forma di un soggetto assoggettato, mero ingranaggio dei meccanismi governamentali di potere34. Daniele Lorenzini Université Paris-Est Créteil d.lorenzini@email.com

. Foucault, Counter-Conduct, and Critical Attitude The main objective of this article is to explore the relationship between the notions of “counter-conduct” and of “critical attitude” in Michel Foucault’s thought, and to show how the elaboration of these two concepts, in 1978, opens at the very heart of his political analyses the space of ethics. It is indeed thanks to the notions of counter-conduct and critical attitude that Foucault accomplishes the first, significant redefinition of the problem of resistance, thus inaugurating a path which will eventually lead him, in the eighties, to study the issue of subjectivation as a (possible) practice of freedom. Keywords: Critical Attitude, Counter-Conduct, Will, Governmentality, Michel Foucault, Subjection, Subjectivation. Cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de nous-mêmes. À partir de Michel Foucault et Stanley Cavell, in D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et vérité, 1980-1984, Vrin, Paris 2013, pp. 239-254. 34 Cfr. A.I. Davidson, Dall’assoggettamento alla soggettivazione: Michel Foucault e la storia della sessualità, in «aut aut», n. 331 (2006), pp. 3-10. 33



Foucault e la questione dell’ideologia Orazio Irrera

Nella lezione del 30 gennaio del suo Corso del 1980 al Collège de

France Du gouvernement des vivants, Foucault ribadisce il suo rifiuto di analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» nei termini di un’analisi ideologica, aggiungendo che, praticamente ogni anno, durante ogni suo corso, è ritornato su questa esigenza di distinguere il suo modo di procedere da una prospettiva basata sull’ideologia, operando ogni volta un piccolo spostamento per conferire alla sua critica nuove forme di intelligibilità1. Perché tutta questa insistenza nel respingere così sistematicamente la nozione di ideologia, soprattutto quella elaborata dal marxismo althusseriano? Proprio il fatto di aver reiterato così a lungo questa esigenza la rende forse una sorta di Verneinung che lascia apparire nella filigrana dei suoi libri, dei suoi scritti, dei suoi corsi e delle sue interviste un percorso sotterraneo fatto di diversi momenti e differenti angoli di attacco nei confronti della nozione di ideologia. In questo contributo ci si soffermerà in primo luogo su alcuni punti salienti relativi a questa critica soprattutto in riferimento alla concezione althusseriana dell’ideologia e al paradigma storiografico della storia delle mentalità. Successivamente, si prenderà in esame l’ipotesi che una prospettiva basata sulla norma come quella di Foucault non sia per forza in disaccordo con una teoria più sofisticata dell’ideologia, come quella recentemente proposta da Pierre Macherey attraverso il concetto di «infra-ideologia». Infine, si verificherà come, negli ultimi corsi al Collège de France, i tentativi di smarcarsi da un’analisi ideologica conducano Foucault a formulare la sua concezione dei rapporti tra verità, soggettività e critica all’interno del suo progetto di una genealogia del soggetto occidentale.

M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012, pp. 74-75; trad. it. Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, pp. 83-84. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 149-172.


150 Orazio Irrera La critica alla concezione althusseriana dell’ideologia e al paradigma della storia delle mentalità Il confronto con Althusser si presenta da subito di difficile lettura, visto che proprio mentre Foucault alla fine degli anni sessanta (come ne L’archeologia del sapere e in altre interviste dello stesso periodo) esponeva le sue critiche alla formulazione althusseriana della nozione di ideologia, concentrandosi in particolare, nei testi raccolti nel suo Pour Marx (1966), sulla «coupure épistémologique» che opponeva scienza e ideologia, lo stesso Althusser, nello stesso momento, rielaborava consistentemente la sua concezione, dando alle stampe nel 1970, il celebre testo «Ideologia e apparati ideologici di Stato»2. A partire da questo momento, da un lato, come è stato recentemente notato da Étienne Balibar, Althusser avrebbe maggiormente politicizzato il rapporto dell’ideologia con la storia, attenuando le rigidità che derivavano da un approccio troppo “scientista”3, mentre dall’altro lato, come è noto, sullo sfondo di una distinzione tra apparato repressivo di Stato e apparati ideologici di Stato, avrebbe offerto, pur nella sua frammentarietà e problematicità, una teoria dell’ideologia volta a spiegare la riproduzione delle condizioni di produzione. Quest’ultima avrebbe tenuto assieme alcune tesi non facilmente suturabili tra loro: l’ideologia non ha storia; l’ideologia rappresenta il rapporto immaginario degli individui con le loro reali condizioni di esistenza; l’ideologia ha un’esistenza materiale; l’ideologia interpella gli individui come soggetti4. M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980; L. Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965; trad. it. Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967; L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État (1970), in Positions, Éditions Sociales, Paris 1976, pp. 67-125; trad. it. Ideologie e apparati ideologici di Stato, in «Critica marxista», settembre-ottobre 1970, pp. 23-65. Cfr. anche D. Lecourt, Pour une critique de l’épistémologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, Maspero, Paris 1974; F. Raimondi, Il custode del vuoto. Contingenza e ideologia nel materialismo radicale di Louis Althusser, Ombre Corte, Verona 2011. 3 É. Balibar, Lettre à l’éditeur du cours, in M. Foucault, Théorie et institutions pénales. Cours au Collège de France. 1971-1972, a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2015, pp. 285-289. 4 Cfr. L. Althusser, Ideologie e apparati ideologici di Stato, cit., passim. Sulle difficoltà nell’opera di Althusser, cfr. W. Montag, “The Soul Is the Prison of the Body”: Althusser and Foucault, 1970-1975, in «Yale French Studies», n. 88 (1995), pp. 53-77, articolo ripreso e rielaborato apparso col titolo Althusser and Foucault: Apparatuses of Subjection, in Id., Althusser and His Contemporaries. Philosophy’s Perpetual War, Duke University Press, Durham 2013, pp. 141-170; F. Raimondi, Il custode del vuoto, cit., pp. 80-150; D. Melegari, Due fratelli silenziosi. Althusser, Foucault al bivio dell’ideologia, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», vol. XXVI (2014), n. 50, pp. 137-159. 2


Foucault e la questione dell’ideologia 151

Tale spostamento avrebbe successivamente indotto Foucault a modificare l’oggetto della propria critica: non si trattava più infatti di mostrare che dal punto di vista del sapere, l’ideologia e la scienza potevano funzionare l’una accanto all’altra, lungo le diverse soglie di scientificità che un discorso deve oltrepassare per costituirsi come scienza5. Come si può ricostruire soprattutto dai Corsi pronunciati al Collège de France tra il 1970 e il 1973 (Leçons sur la volonté de savoir, Théories et institutions pénales e La société punitive), così come dalle conferenze che riprendono le ricerche esposte in questi corsi (La vérité et les formes juridiques), Foucault critica la distinzione tra un apparato repressivo (che funziona prevalentemente tramite il potere muto della violenza) e gli apparati ideologici (che funzionano invece in base all’ideologia e alle sue giustificazioni), mostrando come in realtà «ogni punto di esercizio del potere costituisce nello stesso tempo lo spazio di formazione, non dell’ideologia ma del sapere, e in compenso ogni sapere costituito permette e assicura l’esercizio di un potere»6. Tutto questo segnala, nel solco di Nietzsche, un rovesciamento di prospettiva e implica in primo luogo che il soggetto non si costituisce mediante la sua inscrizione all’interno di un ordine simbolico, secondo un’istanza che lo forza contemporaneamente a riconoscersi come tale e a misconoscere il processo della sua stessa costituzione, ma in base all’«estrazione, l’appropriazione, la distribuzione o la fissazione di un sapere» che si sono storicamente formati in Occidente all’interno di alcune matrici giuridicopolitiche legate a una volontà di verità, ovvero come meccanismi che permettono la creazione di una scena in cui la verità si deve manifestare7. In secondo Cfr. D. Lecourt, Pour une critique de l’épistémologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, cit.; J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, in P. Wagner (a cura di), Les philosophes et la science, Gallimard, Paris 2002, pp. 920-963; P. CassousNoguès e P. Gillot (a cura di), Le concept, le sujet, la science. Cavaillès, Canguilhem, Foucault, Vrin, Paris 2009; L. Paltrinieri, L’expérience du concept. Michel Foucault entre épistémologie et histoire, Publications de la Sorbonne, Paris 2012; A. Ryder, Foucault and Althusser: Epistemological Differences with Political Effects, in «Foucault Studies», n. 16 (2013), pp. 134-153. 6 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2013, p. 237; cfr. anche Id., Théories et institutions pénales, cit., pp. 197-227; Id., La vérité et les formes juridiques, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 1406-1514 (in part. pp. 1420-1421); trad. it. La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165. Su questo punto si veda anche la ricostruzione di M. Senellart, Situation du cours, in M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., pp. 323-350, in particolare cfr. pp. 337-341; trad. it. Nota del curatore, in M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., pp. 340-342. 7 M. Foucault, Théories et institutions pénales, cit., p. 233. Cfr. anche Id., Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France. 1970-1971, a cura di D. Defert, Seuil/Gallimard, Paris 2011; trad. it. Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), Feltrinelli, Milano 2015. 5


152 Orazio Irrera luogo, questa estrazione di sapere, che costituisce il soggetto attraverso le pratiche della misura, dell’inchiesta, dell’esame e della confessione che aprono così la strada alla costituzione delle scienze umane, non presuppone una disponibilità ontologica da parte del soggetto a parlare o a riconoscersi liberamente come tale, ma ha come propria condizione di possibilità una presa sul corpo degli individui, che Foucault esamina sia all’interno di una genealogia delle teorie e delle istituzioni penali, sia all’interno dei processi che costringono gli individui a essere fissati, nell’apparato di produzione, in una società disciplinare o di normalizzazione (normalizzati attraverso una serie di dispositivi disciplinari: ospedali, manicomi, prigioni, ecc.). Dal canto suo, Althusser, alla fine degli anni settanta, sosteneva di non aver mai escluso dalla sua concezione della materialità dell’ideologia il fatto che essa, per produrre i propri effetti, dovesse aver presa sui corpi, affermando che le ideologie «hanno sempre un rapporto con la pratica, [e] ispirano sempre un certo sistema di giudizi e di attitudini pratiche, [pertanto] bisogna comprenderle nella loro attività di corpi, dunque anche nei corpi. Sì, le ideologie hanno dei corpi, da cui emanano, così come poggiano su dei corpi», aggiungendo significativamente in nota: «Foucault l’ha mostrato bene, ma con un linguaggio teorico diverso che evita di porre il problema dello Stato e, dunque, degli Apparati ideologici di Stato e, dunque, dell’ideologia»8. Resta tuttavia uno scarto difficile da colmare tra il modo di pensare il soggetto nella scena althusseriana dell’interpellazione (l’inscrizione nell’ordine simbolico del linguaggio e della Legge) e la pratica più generale di estrazione del sapere che per Foucault caratterizza la genealogia del moderno soggetto occidentale, ovvero la confessione – intesa più precisamente come «un atto verbale attraverso cui il soggetto fa un’affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso»9. L. Althusser, Que faire?, 1978, manoscritto inedito, p. 10, citato in F. Raimondi, Il custode del vuoto, cit., p. 177. Su questo punto, cfr. anche W. Montag, Althusser and Foucault: Apparatuses of Subjection, cit., pp. 155ss. 9 M. Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Cours de Louvain, 1981, a cura di F. Brion e B.E. Harcourt, Presses universitaires de Louvain, Louvain 2012, p. 7; trad. it. Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 9. 8


Foucault e la questione dell’ideologia 153

Nondimeno, resterebbe riduttivo pensare che il rifiuto della nozione di ideologia da parte di Foucault riguardi solo il suo tentativo di smarcarsi da Althusser e da un certo marxismo. Infatti, bisogna anche considerare in che modo, attraverso la critica dell’ideologia, Foucault cerchi pure di distinguersi dal paradigma storiografico noto con il nome di storia delle mentalità, e sul ruolo che in esso giocherebbe l’ideologia in quanto sistema di rappresentazioni associato a certe categorie di percezione, sensibilità, espressione e certe forme di concettualizzazione che in una determinata epoca si tengono assieme in un quadro sufficientemente coerente, in una sorta di universo mentale collettivo10. Secondo questo paradigma, come ammoniva Lucien Febvre, ritenuto insieme a Marc Bloch uno dei suoi iniziatori, lo storico, per spiegare la complessità dei processi storici e accedere alla mentalità collettiva di un’epoca, deve innanzitutto situarsi «nella coscienza degli uomini che vivono in società»11. È esattamente questo assunto che Foucault – dopo i primi malintesi che portarono storici come Robert Mandrou e Fernand Braudel a salutare la Storia della follia come un importante contributo alla storia delle mentalità12 – cerca di respingere e, a partire dagli anni settanta, comincia a far sue le critiche che uno storico come Paul Veyne, con cui avrebbe avuto un’intensa e duratura collaborazione, indirizzava già da tempo ai modelli di spiegazione causali che implicavano l’ideologia e le mentalità, ovvero il primato della coscienza (collettiva) e del vissuto, cui gli storici della mentalità facevano riferimento13. F. Hulak, Michel Foucault, la philosophie et les sciences humaines: jusqu’où l’histoire peut-elle être foucaldienne?, in «Tracés. Revue de Sciences humaines», n. 13 (2013); J. Revel, Machines, stratégies, conduites: ce qu’entendent les historiens, in Au risque de Foucault, Éditions du Centre Georges Pompidou, Paris 1997, pp. 109-128; J. Le Goff, Foucault et la nouvelle histoire, in Au risque de Foucault, cit., pp. 129-141; L. Paltrinieri, L’expérience du concept, cit., pp. 168-181. 11 L. Febvre, Projet d’enseignement pour le Collège de France, Paris 1928, citato in A. Burguières, La notion de “mentalité” chez Marc Bloch et Lucien Febvre: deux conceptions, deux filiations, in «Revue de synthèse», n. 111‑112 (1983), p. 340 ; J. Le Goff, Les mentalités: une histoire ambiguë, in J. Le Goff e P. Nora (a cura di), Faire l’histoire, vol. III, Nouveaux Objets, Gallimard, Paris 1974; J. Revel, Mentalités, in A. Burguières (a cura di), Dictionnaire des sciences historiques, PUF, Paris 1986, pp. 450-456. 12 Si vedano i testi raccolti in Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault. Regards critiques, 1961-2011, IMEC Éditions/Presses universitaires de Caen, Caen 2011; J. Revel, Le moment historiographique, in L. Giard (a cura di), Foucault. Lire l’œuvre, Jérôme Million, Grenoble 1992, pp. 83-96; A. Farge, Michel Foucault et les historiens: le malentendu, in «L’Histoire», n. 154 (1992), pp. 74-76. 13 P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, Seuil, Paris 1971, in part. pp. 119-138; Id., L’idéologie selon Marx et selon Nietzsche, in «Diogène», n. 99 (1977), pp. 93-115. 10


154 Orazio Irrera Nell’ultima parte di questo contributo, torneremo a vedere come Foucault elabori tale questione, agganciandola a una più ampia problematizzazione dei rapporti tra soggettività, verità e potere. In ogni caso, se Paul Veyne invitava piuttosto a privilegiare la dimensione delle pratiche, portando il modo di procedere di Foucault stesso come esempio14, quest’ultimo dal canto suo, nella lezione inaugurale del Corso del 1982-1983, Le gouvernement de soi et des autres, pur distinguendo la storia delle mentalità e una storia delle rappresentazioni, ribadisce di volersi smarcare da questi «due metodi» in cui, implicitamente o esplicitamente, si ha a che fare con l’ideologia o con le sue funzioni di trasposizione (traduzione, riflesso, espressione), giustificazione, mascheramento: Volevo smarcarmi da due metodi […], anzitutto da ciò che si […] chiama storia delle mentalità e che sarebbe […] una storia situata su un asse che va dall’analisi dei comportamenti effettivi alle espressioni che possono accompagnare questi comportamenti, sia che questi li precedano, sia che li seguano, sia che li traducano, sia che li prescrivano, sia che li mascherino, sia che li giustifichino, ecc.. D’altra parte, volevo anche smarcarmi da ciò che si potrebbe chiamare una storia delle rappresentazioni o dei sistemi rappresentativi, cioè una storia che avrebbe, che potrebbe avere, che può avere due obiettivi. Il primo sarebbe l’analisi […] del ruolo che possono giocare le rappresentazioni sia in rapporto all’oggetto rappresentato, sia in rapporto al soggetto che le rappresenta: un’analisi, diciamo, che sarebbe l’analisi delle ideologie. E poi […] l’analisi delle rappresentazioni in funzione di una conoscenza – di un contenuto di conoscenza o di una regola, di una forma di conoscenza – considerata come criterio di verità15.

A questi due metodi Foucault contrappone il proprio, quello di una «storia del pensiero», ovvero un’analisi dei «campi di esperienza» in cui si articolano tra loro «le forme di un sapere possibile, le matrici normative di comportamento e dei modi virtuali di esistenza per dei possibili soggetti»16. P. Veyne, Foucault révolutionne l’histoire, in Comment on écrit l’histoire, cit., seconda edizione, 1978, pp. 201-242; trad. it. Foucault rivoluziona la storia, in P. Veyne, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, Ombre Corte, Verona 1998, pp. 7-65. 15 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 4; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 12. 16 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., pp. 4-5 (trad. it. cit., pp. 12-13). 14


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La norma e l’ideologia sono tra loro conciliabili? L’infra-ideologia di Pierre Macherey Nonostante tutte queste critiche che Foucault rivolge alla nozione di ideologia, recentemente non sono mancati tentativi volti a rendere compatibili la prospettiva foucaultiana sulla normalizzazione e quella althusseriana sull’ideologia. In questo senso, il libro di Pierre Macherey, Le sujet des normes, segna uno dei tentativi più degni di nota, proponendo di rifondare l’ideologia attraverso una sua «rimaterializzazione» riferita all’insieme di pratiche alle quali essa rinvia17. Questo tentativo approda a forgiare una teoria più sofisticata dell’ideologia, designata col termine di «infraideologia». Lungi da ogni cedimento di fronte ai ritornelli a lungo ripetuti all’epoca delle democrazie neoliberali, che dall’alto del loro pragmatismo tecnocratico sulla «fine delle ideologie» affermano che le ideologie, in quanto tali, non orienterebbero più la condotta degli individui – viene al contrario osservato come, nella società delle norme in cui viviamo, l’ideologia resta comunque un concetto indispensabile per spiegare come le norme fabbrichino il sociale attraverso certi processi di soggettivazione/ assoggettamento. L’azione strutturante delle norme prevede infatti non solo una presa sui corpi (tanto individuali quanto collettivi), ma anche la produzione di un effetto di illusione, che tuttavia rimane immanente rispetto al campo di intervento della norma stessa. Ma la funzione di questa forma di ideologia non è più quella di produrre, per così dire “positivamente”, rappresentazioni della realtà alle quali si dovrebbe aderire prendendo direttamente posizione a favore o contro determinate idee. L’ideologia di cui parla Macherey non giunge né alla formulazione di una giustificazione, né all’elaborazione di una razionalizzazione dell’ordine esistente. L’infraideologia cerca semmai di occultare il funzionamento delle norme e il loro carattere storico (e contingente), facendo retrocedere sullo sfondo la loro razionalità governamentale intrinseca, al fine di trasformare le istanze di una società di normalizzazione in qualcosa di necessario ed evidente, ovvero in una «seconda natura» che si basa su automatismi che aggirano il piano delle rappresentazioni coscienti. È attraverso questa via che Macherey giunge all’idea che in fondo non vi sia una vera contraddizione tra la norma e l’ideologia, nonostante la diffidenza che Foucault ha riservato P. Macherey, Le sujet des normes, Éditions Amsterdam, Paris 2014. La traduzione dei brani successivamente riportati è nostra. 17


156 Orazio Irrera a questa nozione: «se ci si sofferma a osservare al di là delle parole, ci si accorgerà che quel che Althusser intende tramite la denominazione di “ideologia in generale” presenta un certo numero di punti comuni a ciò che Foucault, dal canto suo, cercava di pensare con il concetto di norma, che, al pari dell’ideologia per Althusser, gli serve a designare un processo di assoggettamento»18. Per cogliere più esattamente questa convergenza (certo, non si tratta mai di una corrispondenza esatta, in quanto lo stesso Macherey sottolinea come l’ideologia in Althusser e la norma per Foucault non siano interamente sovrapponibili), bisogna preliminarmente osservare che entrambi cercano di liberarsi, oltrepassandola, di una concezione negativa (o difettiva) dell’ideologia che «si definisce per quello che non è […], per la distanza che essa mantiene rispetto al reale e alla sua materialità, ciò che fa di essa un tessuto di illusioni […]: in questa prospettiva, l’ideologia che si limita a “riflettere” qualcosa, non partecipa in modo effettivo al processo di produzione sociale di cui viene pertanto fornita, retrospettivamente, solo una visione capovolta, mistificata, immaginaria che maschera i problemi reali»19. Tuttavia, se Foucault rifiuta non soltanto questa accezione negativa dell’ideologia, ma anche il semplice ricorso a questo termine, Macherey nota invece come Althusser proponga, al contrario, di continuare a utilizzare la nozione di ideologia in vista di una sua ri-materializzazione, concependola quindi «come agente effettivo del processo della riproduzione sociale». A questo scopo, da una parte, si tratta di abbandonare «una concezione puramente rappresentativa dell’ideologia» intesa come «sistema di idee», «concezione del mondo», o ancora «concatenamento di rappresentazioni; mentre, dall’altra parte, si deve invece respingere «il ruolo semplicemente reattivo e repressivo che la mantiene a rimorchio del reale e ne conferma il carattere improduttivo»20. Come è noto, prima di avanzare la tesi dell’esistenza materiale dell’ideologia, Althusser teneva a precisare che al cuore e al principio di ogni rappresentazione ideologica non vi sono solamente delle concezioni del mondo, ma anche e soprattutto il rapporto immaginario degli individui rispetto alle loro reali condizioni di esistenza21. Macherey si interroga allora Ivi, p. 57. Ivi, p. 52. 20 Ibidem. 21 L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d’État, cit., pp. 101ss. (trad. it. cit., pp. 48ss.). 18 19


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sullo statuto di questo rapporto che, per un verso, resta immaginario, poiché «produce degli effetti situati sul piano dell’immaginario», dal momento che esso accompagna di fatto delle rappresentazioni deformate del reale; mentre, d’altra parte, esso non può essere interamente ridotto alla semplice rappresentazione. Un tale rapporto è quindi anche reale nella misura in cui corrisponde alla «forma necessaria secondo la quale le condizioni di vita degli uomini […] si manifestano alla coscienza»: è a questo titolo, d’altronde, che tale rapporto è produttivo: produce «una certa maniera di essere al mondo», associata all’«essere soggetto» di cui l’ideologia è «in ultima istanza la causa o il principio motore»22. Così, se vi sono rappresentazioni che possono dirsi ideologiche e immaginarie, questo accade solo alla fine del processo di ideologizzazione, quando esse assumono l’aspetto di rappresentazione e si configurano in modo specifico all’interno di una situazione storicamente determinata. Questa maniera di concepire la produttività dell’ideologia implica quindi uno spostamento ulteriore della prospettiva: non si tratta più di partire dalle idee, dalle rappresentazioni, dalle concezioni del mondo, ma dalle modalità secondo le quali le idee e le rappresentazioni sono inserite e prodotte entro la dimensione materiale ed effettiva delle pratiche. Questo permette a Macherey di avanzare l’idea che «ciò che Althusser ha cercato di fare per il concetto di ideologia, Foucault dal canto suo l’avrebbe fatto per il concetto di norma: ovvero mostrare che ciò che è implicato, nell’uno come nell’altro termine, sono delle logiche pratiche di comportamento, delle maniere di agire e non dei sistemi formali di rappresentazioni che costituiscono un ordine a parte e che di fronte alla realtà sociale mantengono una relazione di esteriorità, su uno sfondo fatto di trascendenza e di proibizione»23. Per questa ragione, per Althusser, vivere nell’ideologia significa condursi in questa o quest’altra maniera, adottando tale o talaltro comportamento. L’ideologia fa quindi agire ed è a questo titolo una azione sulle azioni degli altri che consiste, in ultima analisi, a inserire certe azioni all’interno di pratiche collettive socialmente organizzate. D’altra parte, secondo Macherey, con l’idea di «governo» di Foucault ci troveremmo di fronte a un quadro teorico molto simile, nella misura in cui si tratta di intendere il 22 23

P. Macherey, Le sujet des normes, cit., pp. 54-55. Ivi, p. 59.


158 Orazio Irrera potere come ciò che «struttura il possibile campo di azione degli altri»24. Così, le idee degli uomini che sembrano dirigere le loro pratiche si rivelano in realtà silenziosamente e preliminarmente orientate dall’ideologia, la quale, non essendo più basata su ciò che avviene nella testa delle persone, organizza uno spazio regolato di pratiche in cui questi individui diventano, senza rendersene conto, soggetti. L’ideologia predispone dunque tutto un ventaglio di pratiche possibili e ammissibili secondo una razionalità che si incarna nel modo di essere del soggetto stesso, al di qua della sua coscienza e delle sue rappresentazioni. Ad essere in gioco è quindi la strutturazione di un soggetto attraverso la preventiva costituzione di un campo di virtualità e di possibilità che devono predeterminare sia i suoi comportamenti effettivi, sia le sue idee. Secondo Macherey questa produzione di virtualità costituisce il terreno privilegiato di intervento sia della norma, sia dell’ideologia. Tanto l’una quanto l’altra si riferirebbero non tanto a ciò che esiste effettivamente (per esempio un’azione già compiuta in base alla quale si tratterebbe di punire l’agente), bensì a ciò che virtualmente può esistere, la cui esistenza, cioè, è diagnosticata e calcolata in anticipo. Ognuno è quindi esposto permanentemente a essere giudicato non per gli atti che ha commesso, ma per quello che potrebbe fare e per quello potrebbe essere, per mezzo di un criterio di valutazione stabilito da certe norme. Questa valutazione attraverso la norma (la cui azione, nei termini in cui l’intende Macherey, è comparabile a quella dell’ideologia) le determinazioni occasionali in fatti di natura tramite meccanismi di essenzializzazione e di idealizzazione. Inoltre, in questo contesto, sono le scienze umane a schedare, archiviare e marcare tutti i fenomeni che costituiranno poi il bersaglio della cattura delle norme e del loro potere di controllare, sorvegliare e prevenire. Per realizzare questa impresa di normalizzazione, bisogna che l’azione della norma o dell’ideologia «sia completamente immanente al campo all’interno del quale essa produce i suoi effetti, in quanto il primo risultato della sua azione, che ne condiziona in ultima istanza tutti gli altri, è proprio la costituzione di questo campo. Se l’ideologia (o la norma) trasformano, non è penetrando progressivamente un terreno preesistente al suo interM. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1056; trad. it. Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 245-254, in part. p. 249. 24


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vento […], ma producendo qualcosa che è trasformabile, cioè la struttura all’interno della quale essa insinua i suoi effetti»25. È così che l’ideologa (o la norma) arrivano a fabbricare matrici di assegnazione normativa di identità, destinate ai diversi soggetti. Queste matrici disegnano lo spazio di virtualità in cui i soggetti sono, per così dire, “attesi” e rispetto al quale questi soggetti sono tenuti a conformarsi (o a normalizzarsi) senza rendersene conto, ovvero senza che questo processo passi attraverso rappresentazioni coscienti e razionalizzabili in termini linguistici. Per corroborare ancora di più questa compatibilità di fondo tra norma e ideologia, Macherey compie due operazioni concettuali parallele, che cercano di modificare in alcuni punti la nozione di ideologia che si ritrova tanto in Althusser, quanto in Foucault (benché in forma negativa, come bersaglio delle sue critiche). L’obiettivo di questo modo di procedere è duplice: per quel che riguarda Althusser, si tratta di precisare come il carattere produttivo dell’ideologia possa accordarsi con il funzionamento della norma, mentre per quel che concerne Foucault, si tratta piuttosto di mostrare che il suo sforzo per liberarsi dell’ideologia lo conduce verso contraddizioni irresolubili. Perché si possa parlare di una convergenza effettiva tra norme e ideologia, rispetto ad Althusser, bisognerebbe innanzitutto rinunciare al carattere onnistorico dell’ideologia a favore del carattere storico, che è proprio dei dispositivi di cui si compone una società di normalizzazione – ciò che peraltro permetterebbe di cogliere più perspicuamente come una molteplicità di dispositivi normativi possono funzionare concretamente “in rete”, penetrando diffusamente la società26. In secondo luogo, bisognerebbe anche che il processo di assoggettamento proprio all’ideologia, quello che interpella gli individui costituendoli come soggetti, non si basi più sull’iscrizione di questo soggetto all’interno del campo simbolico del linguaggio e della Legge – proprio quel campo che, nel solco di Lacan, Althusser considerava lo spazio di riferimento privilegiato in cui l’individuo è chiamato a prendere posto, trasformandosi così in soggetto27. In una società delle norme, il linguaggio non può più essere un vettore di soggettivazione in quanto portatore di significati. Così, per una concezione dell’ideologia che opera come una norma, o comunque all’interno di un processo di normalizzazione, la fabbricazione del campo in cui il soggetto P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 93. Ivi, pp. 57-58. 27 Su questo punto, cfr. P. Gillot, Althusser et la psychanalyse, PUF, Paris 2009.

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160 Orazio Irrera va a costituirsi (ovvero il sito immanente alle norme del suo assoggettamento) «non assume la forma comunicativa di un messaggio o di un segnale, come nella scena dell’interpellazione, ma si esercita direttamente sui corpi che vengono sottomessi a una procedura ortopedica di dressage»28. Per questo motivo la società delle norme taglia all’ideologia ogni relazione con il simbolico per inserirla direttamente, attraverso la costituzione di appositi dispositivi che si rivolgono anzitutto ai corpi, all’interno di pratiche che mettono fuori gioco il senso e agiscono tacitamente per trascriversi solo successivamente nel linguaggio della rappresentazione, quando, cioè, il loro compito di strutturazione è stato eseguito29. Rispetto a Foucault invece, per poter articolare norma e ideologia, si dovrebbe operare una revisione di quest’ultima nozione, visto che i tentativi che Foucault ha fatto per sbarazzarsene, secondo Macherey, avrebbero prodotto solo quella che egli chiama «una falsa uscita dall’ideologia», considerando che «nel quadro delle società di normalizzazione [continuano a essere importanti] degli atteggiamenti basati sulle rappresentazioni che sembra naturale riportare alla voce “ideologia”»30. Per spiegare come la nozione di ideologia resiste alle critiche formulate da Foucault, Macherey si concentra su due punti. Il primo è legato al ruolo e alla funzione indispensabile che, dal diciottesimo secolo, l’opinione pubblica ha progressivamente assunto nelle società di normalizzazione, un’opinione il cui giudizio si rivela sempre fondamentale, poiché, anche quando resta solo una finzione, non se ne può comunque fare a meno: ciò significa allora reintrodurre la questione dell’ideologia nell’organizzazione delle rappresentazioni formulate pubblicamente e quindi consapevolmente. Il secondo punto riguarda invece la tematica del «liberalismo» con il suo discorso e la sua ideologia che si basa sul principio che tutto deve derivare dalle scelte libere e spontanee degli individui. Si tratta in entrambi i casi di una dimensione ideologica indispensabile al funzionamento della società delle norme, dal momento che il suo potere di naturalizzazione può esercitarsi più efficacemente se esso si nasconde dietro l’illusione, o la finzione, di una libertà di cui gli individui, considerati sia singolarmente sia collettivamente, disporrebbero naturalmente (l’opinione è allo stesso tempo particolare, ma si compone anche in un quadro P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 63. Ivi, pp. 299-301. 30 Ivi, p. 222. 28 29


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di insieme in cui assume precisamente la forma dell’opinione pubblica). L’analisi che Macherey conduce a partire dai contributi foucaultiani (soprattutto quelli della seconda metà degli anni settanta), mostra come Foucault, a dispetto delle critiche esplicite che rivolge all’ideologia, resterebbe tuttavia consapevole dell’importanza dell’opinione pubblica, la quale avrebbe la funzione di dissimulare il funzionamento delle discipline e delle norme sotto la maschera (in fondo ideologica) che il regime parlamentare e rappresentativo assegna alla finzione del contratto, inscrivendola all’interno di un quadro giuridico. Inoltre, Macherey giunge anche a sostenere che quando Foucault parla del diritto, senza accorgersene, reintrodurrebbe surrettiziamente l’idea che, al cuore del potere di normalizzazione, permane l’esigenza di mascherare, agli occhi dei soggetti che vivono in società, quello che avviene a livello delle relazioni di potere. Ma questo corrisponderebbe a una tacita riabilitazione del vecchio schema marxista base/sovrastruttura, di cui Foucault ha del resto cercato ostinatamente di sbarazzarsi31. E là dove Foucault cerca di correggersi, come nel caso della sua analisi del liberalismo (quando si tratta di mettere in relazione la cosiddetta «ideologia della libertà» e il liberalismo inteso come tecnica di governo), apparirebbe comunque costretto a pensare se non una relazione di dipendenza tra questi due termini, almeno una stretta correlazione, dunque uno spazio in cui l’ideologia conserverebbe ugualmente un ruolo importante, se non addirittura insostituibile. Anche qualora si considerasse che «gli schemi comportamentali, prima di essere ideologia, riguardano una tecnologia di potere che ha la priorità sulla loro forma ideologica, sembra comunque che si ritorni così al modello interpretativo della sovrastruttura, che presenta l’ideologia come un effetto di superficie alle spalle del quale c’è in gioco qualcos’altro»32. D’altra parte, una volta che lo Stato risulta permeato, lungo tutta la sua storia, dalla ragione governamentale, l’ideologia continua a sopravvivere attraverso le forme giuridiche e statali del diritto, come elemento essenziale che permette di rendere conto della coesistenza e della correlazione tra quel che accade a livello della tecnologia di potere (e del suo regime di veridizione) e quello che avviene a livello delle rappresentazioni dei soggetti. In altri termini, il potere funziona meglio se viene tollerato e il diritto, l’ideologia della libertà, le manifestazioni dell’opinione pubblica, 31 32

Ivi, p. 226. Ivi, p. 230.


162 Orazio Irrera svolgerebbero una funzione ideologica, facendo sì che nelle rappresentazioni coscienti degli individui sia disattivata la percezione di tutto ciò che è potenzialmente inaccettabile e intollerabile. Ma se i rapporti tra l’ideologia (soprattutto nella forma dell’opinione pubblica) e le norme dovrebbero costituire l’oggetto di un’indagine che, lungi dall’essere chiusa, dovrebbe al contrario essere rilanciata, si tratta pure di osservare che l’ideologia non si dà più (o almeno non principalmente) come insieme di rappresentazioni consapevoli ed esplicitamente formulabili, ma piuttosto come «processo di naturalizzazione e di quotidianizzazione» delle norme e dei comportamenti che queste norme predeterminano. È in virtù di questo processo infra-ideologico che gli individui pensano di poter decidere liberamente il posto che è loro destinato dall’operatività delle norme e dai modelli di comportamento che esse mirano a imporre. In termini althusseriani questo equivarrebbe al loro «essere-sempre-già-soggetti». Per mezzo dell’ infra-ideologia, gli individui sarebbero di fatto «moralizzati» grazie all’acquisizione disciplinare di certe abitudini volte a fissarli all’apparato di produzione, rendendoli così soggetti produttivi33. Tuttavia, e proprio rispetto a questo carattere produttivo, nella nozione di infra-ideologia resta probabilmente ancora una piccola ambiguità che il libro di Macherey non arriva forse a dissipare interamente. Infatti, non sembra affatto semplice stabilire se la funzione dell’infra-ideologia sia di riprodurre i rapporti di produzione (come ci si aspetterebbe da un punto di vista marxista e althusseriano) oppure se il suo legame costitutivo con il funzionamento delle norme la collochi all’interno di una prospettiva più vicina a quella di Foucault, secondo la quale il potere non riproduce i rapporti di produzione come un supplemento che si aggiunge dall’esterno, ma al contrario «è di fatto uno degli elementi che costituisce il modo di produzione e funziona al cuore di quest’ultimo»34. A questo proposito Macherey sostiene: Su questo punto si veda il terzo capitolo «Le Sujet productif. De Marx à Foucault» (pp. 149-212) di Le sujet des normes, già apparso autonomamente in traduzione italiana un anno prima dell’uscita del libro in Francia. P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona 2013. 34 M. Foucault, La société punitive, cit., p. 234. Su questo si veda anche J. Pallotta, L’effet-Althusser sur Foucault: de la société punitive à la théorie de la reproduction, in Ch. Laval, L. Paltrinieri e F. Taylan (a cura di), Marx & Foucault. Lectures, usages, confrontations, La Découverte, Paris 2015, pp. 132-133. 33


Foucault e la questione dell’ideologia 163 La normatività, che condiziona l’assoggettamento, corrisponde quindi a un processo che è “ideologico” nella misura in cui esso è simultaneamente, e forse anche prioritariamente, “economico”: esso interviene mediante il meccanismo dei rapporti di produzione di cui costituisce un ingranaggio. Si spiega in questo modo il double bind che è proprio al funzionamento della società capitalista, che ha messo l’economia al posto di comando assegnando allo sfruttamento della forzalavoro la forma della sua liberazione e che costituisce il risultato di una manipolazione […]. In questa prospettiva, l’ideologia, rimaterializzata da cima a fondo, non è più un supplemento o qualcosa che sopravvive, ovvero un qualcosa in più, o di troppo, che viene ad aggiungersi; ma viene incorporata al reale che essa stessa elabora e che contribuisce a produrre, in particolare predisponendo la posizione di soggetto, che è indispensabile al funzionamento della sua “economia”35.

In ogni caso, quel che bisogna sottolineare a proposito dell’infra-ideologia è che la sua presa generale sulla vita degli uomini tramite le norme, la sua capacità di aderire alle pieghe più profonde e quotidiane dell’esistenza in quanto «ideologia dell’ordinario», produce un ordine che ha incessantemente bisogno di essere riconfigurato, e che per questo resta un ordine paradossale, poiché ricava la sua forza di riproduzione dalla sua stessa fragilità. Questo apre, secondo Macherey, una possibilità di reversibilità che «lascia spazio a un lavoro del negativo, che prende la forma di resistenze […], delle nuove forme di adattamento, che sono tanto provvisorie quanto lo sono quelle di cui esse hanno preso il posto»36. Questo processo di assoggettamento mostra così un rovescio difficile da pensare, quello della resistenza, impossibile da predeterminare a partire dall’ordine che l’assoggettamento instaura. A ogni modo, la dimensione dalla quale tale resistenza scaturisce resta per Macherey la stessa dell’infra-ideologia, ovvero quella dell’ordinario, con il quale ogni individuo ha a che fare37. Secondo Macherey, è proprio questa immanenza rispetto all’esistenza e alla vita che costituisce il bersaglio privilegiato del potere naturalizzante delle norme, un’immanenza che «una volta generalizzata, conserva una trascendenza che le è propria»38 e diventa il punto di riferimento per ogni possibilità di critica o di contestazione dell’esistente, il punto di partenza per un’alterazione dei rapporti di forza entro un orizzonte che è quello della politica. P. Macherey, Le sujet des normes, cit., pp. 301-302. Ivi, pp. 351-352. 37 Su questo punto cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les techniques de l’ordinaire, Vrin, Paris 2015. 38 P. Macherey, Le sujet des normes, cit., p. 351. 35 36


164 Orazio Irrera Ideologia e aleturgia: la soggettivazione a partire dai punti di non-accettazione del potere Per sviluppare queste osservazioni su come articolare etica e politica, è importante ritornare ai Corsi che Foucault pronuncia al Collège de France a partire dal 1980, un materiale di recente pubblicazione che del resto lo stesso Macherey non arriva a prendere analiticamente in considerazione nel suo libro39. In effetti, la citazione dal Corso del 1980 riportata in apertura, nella quale Foucault ricorda di aver fornito, lungo tutti i suoi corsi, critiche sempre diverse a una prospettiva basata sull’ideologia, fa parte di un’importante riformulazione delle sue ricerche, un campo di problematizzazione entro cui si inscriveranno tutte le sue analisi successive, fino a quelle dell’ultimo corso dedicato alla parresia e ai Cinici40. Questo campo di problematizzazione è legato alla centralità di ciò che Foucault chiama «aleturgia», ovvero l’insieme delle procedure possibili, verbali o non, attraverso le quali viene manifestato quel che è posto come vero in opposizione al falso, al nascosto, all’indicibile, all’imprevedibile, e all’oblio. Secondo Foucault, infatti, non vi potrebbe essere alcun esercizio del potere senza qualcosa come l’aleturgia41. Ma questa aleturgia non riguarda solo l’insieme di atti attraverso cui la verità si salda all’esercizio di un potere di normalizzazione, ma riguarda anche il modo e gli atti attraverso cui il soggetto si costituisce, conformandosi a un certo regime di verità oppure, al contrario, contestandolo. Questo processo, al posto dell’interpellazione ideologica, si basa invece sull’esame delle modalità storiche attraverso cui è emerso, e si è di volta in volta modificato, l’obbligo di manifestare la verità su se stessi. Si tratta di un elemento imprescindibile per intraprendere quella genealogia del soggetto occidentale moderno che ha lungamente occupato Foucault nell’ultima fase delle sue ricerche. In effetti, nel Corso del 1980, Du gouvernement des vivants, il rifiuto di un’analisi in termini di ideologia è articolato a partire da un nuovo angolo di attacco, centrato sui rapporti tra verità e soggettività. Si tratta di un passaggio fondamentale per comprendere l’orizzonte tematico in cui la questione della verità verrà affrontata durante gli anni ottanta. Così, con uno scarto che è tipico della sua maniera di procedere, Foucault sostiene che, per studiare Per possibili linee di sviluppo a partire dalla prospettiva di Macherey, cfr. O. Irrera, Michel Foucault et les critiques de l’idéologie. Dialogue avec Pierre Macherey, in «Methodos», n. 16 (2016). 40 Cfr. S. Luce, Dall’ideologia all’ordine del discorso: l’interpellazione di Althusser, le parole di Foucault, in «Filosofia politica», n. 2 (2014), pp. 311-324. 41 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 8 (trad. it. cit., pp. 18-19). 39


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come il potere si esercita, bisogna prendere in considerazione anche il modo in cui la verità si produce e si manifesta «nella forma della soggettività» – in cui cioè la soggettività figura come operatore, spettatore (o testimone) e oggetto di questa manifestazione42. In particolare, rispetto al regime di verità del cristianesimo, si tratta di mostrare in che modo la verità che si manifesta nella forma della soggettività produce effetti che vanno ben al di là della semplice conoscenza, essendo dell’ordine della salvezza o, secondo un lessico concettuale più secolarizzato, della liberazione43. Tuttavia, questi rapporti tra governo, verità, soggettività e salvezza, ricorda Foucault, sono stati già indagati attraverso la nozione di ideologia, ovvero in base all’assunto che il governo degli uomini sarebbe possibile attraverso quel tipo di verità che essi manifestano, senza alcuna costrizione, nella forma immaginaria della salvezza. In altri termini, gli uomini finirebbero per sottomettersi spontaneamente a ciò che essi credono e si rappresentano come vero, ovvero in base a una verità che appare anzitutto nel foro della coscienza in quanto rappresentazione. Sarebbe dunque il modo di rappresentare qualcosa di immaginario, una semplice credenza, come verità che garantirebbe l’effetto politico dell’obbedienza e della sottomissione44. Ma questo modo di considerare la situazione appare insufficiente agli occhi di Foucault, in primo luogo a causa delle discrepanze tra quello che gli uomini pensano, o credono di pensare, e quello che concretamente fanno, discrepanze che sono state riscontrate in diverse ricerche storiche sui rapporti tra rivoluzione e religione45. Inoltre, questo modo di vedere le cose attraverso un’analisi in termini di ideologia, secondo Foucault si inscrive entro una questione più ampia e generale sui rapporti tra soggettività, verità e potere, questione che Foucault chiama “filosofico-politica”, e che pone in questi termini: quando il soggetto si sottomette volontariamente al legame della verità, in un rapporto di conoscenza, quando cioè pretende, dopo essersi dato i fondamenti, gli strumenti e le giustificazioni, di fare un discorso di verità – a partire da qui, che cosa può dire a proposito, a favore o contro il potere che lo assoggetta senza che lui lo voglia? In altre parole, il legame volontario con la verità che cosa può dire sul legame involontario che ci fa aderire e ci piega al potere46? Cfr. ivi, p. 79 (trad. it. cit., p. 89). Cfr. ivi, pp. 73-74 (trad. it. cit., p. 83). 44 Cfr. ivi, p. 74 (trad. it. cit., p. 83). 45 Solo a titolo di esempio si veda, ancora una volta, P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, cit., pp. 119-138. 46 M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 75 (trad. it. cit., p. 84). 42 43


166 Orazio Irrera Insoddisfatto da come questo modo di vedere le cose parta dalla garanzia di un diritto all’accesso alla verità e dalla presupposizione di un legame volontario e contrattuale con la verità, Foucault cerca quindi di capovolgere questi interrogativi e di fornire un altro impianto di problematizzazione che articoli i rapporti tra soggettività, verità e potere in modo diverso, partendo cioè dall’esigenza («volontà, decisione e sforzo») di sottrarsi alla presa del potere e al lavoro, per trasformare se stessi e il proprio rapporto con la verità che questa esigenza richiede. A partire da qui si tratta piuttosto di chiedersi: che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza e al legame con la verità con cui egli si trova involontariamente annodato? Non si tratta più di dirsi: essendo dato il legame che mi lega volontariamente alla verità che cosa posso dire del potere? Ma: essendo dati la mia volontà, decisione, sforzo di sciogliere il legame che mi lega al potere, che ne è allora del soggetto di conoscenza e della verità? Non è la critica delle rappresentazioni in termini di verità o di errore, in termini di verità o di falsità, in termini di ideologia o di scienza, di razionalità o di irrazionalità, che deve servire da indicatore per definire la legittimità del potere o per denunciare la sua illegittimità. È il movimento per liberarsi del potere che deve fare da rivelatore delle trasformazioni del soggetto e del rapporto che mantiene con la verità47.

Si tratta di un passaggio molto rilevante che meriterebbe di certo analisi più approfondite. Quello che tuttavia ci si può limitare a osservare rispetto al tema di questo contributo, riguarda il come Foucault concepisca, dal suo punto di vista, il proprio modo di smarcarsi dall’idea di verità implicita nel concetto di ideologia. Questa verità non è qualcosa di immaginario, una credenza ritenuta vera, ma riguarda il modo di affrontare l’obbligo di dire il vero su di sé, di quel meccanismo che ha generalizzato la pratica della confessione inserendone il nucleo pratico e aleturgico all’interno dei dispositivi di normalizzazione agganciati ai regimi di veridizione delle scienze umane48. Ivi, pp. 75-76 (trad. it. cit., p. 85). Su questo passaggio essenziale si vedano le osservazioni che Foucault aveva già fatto nella conferenza alla Société française de Philosophie, il 27 maggio 1978. In particolare, cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015, pp. 39-40. 48 Cfr. M. Foucault, L’origine de l’herméneutique de soi. Conférences prononcées à Dartmouth College, 1980, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2013; versione italiana, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012; L. Cremonesi, A.I. Davidson, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 116-133. 47


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Di fronte all’obbligo di dire il vero su stessi, attraverso il quale il soggetto, affermando la verità di ciò che egli è, si lega a questa verità, collocandosi all’interno di un regime di verità che lo pone in un rapporto di dipendenza nei confronti di qualcun altro e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso, Foucault cerca di trovare un modo di far apparire nel processo di soggettivazione la possibilità di un atteggiamento critico. In altri termini, nello stesso processo di assoggettamento a una verità che costituisce il soggetto, ci sarebbe lo spazio per un intervento di sé su sé, la possibilità di una trasformazione della soggettività stessa, qualcosa che naturalmente eccede il campo delle traiettorie virtuali del suo assoggettamento. Da questa nuova prospettiva, a un’analisi in termini di ideologia, Foucault oppone lo studio dei regimi di trasformazione del rapporto che la soggettività intrattiene con la verità, rapporto messo in opera dalla soggettività stessa. La possibilità di questo governo di sé non è tuttavia ancorata a una dimensione solitaria della soggettività, ma ha luogo sempre in relazione a un universo sociale di riferimento (che non coincide tuttavia con la questione della soggettivazione collettiva, tema che Foucault non affronta), in cui tutti gli sforzi di elaborazione del sé possono assumere un senso prettamente politico solo nella misura in cui aprono uno spazio di sovversione possibile rispetto a una norma di comportamento, a una convenzione sociale che orienta una condotta, a un modo di vita. Dopo il passaggio appena riportato, Foucault fa alcuni esempi per mostrare come un’analisi ideologica parta sempre da qualcosa di reificato, che si dà quindi come già costituito, originario, quasi naturale, qualcosa che, in ultima analisi, si dà come un universale (la follia, l’uomo), per poi domandarsi «a quali motivazioni e a quali condizioni obbedisce il sistema di rappresentazioni che ha condotto a una pratica», come ad esempio quella della reclusione, ampiamente studiata da Foucault 49. Al contrario, un’analisi centrata sulla convinzione che il potere non sia necessario – prospettiva che Foucault chiama «anarcheologia» – parte dalle pratiche e dal sapere messi storicamente in atto dal governo degli uomini e le considera nella loro contingenza e nella loro costitutiva fragilità, al di là di ogni universale che si potrebbe ideologicamente supporre alla base. Si tratta quindi di comprendere l’intelligibilità di questo potere a partire da ciò che a questo potere sfugge, ovvero da quel che Foucault chiama i suoi «punti di non-accettazione», per reperire infine delle tecnologie di potere (o meglio sarebbe dire dei foyers d’expérience), piuttosto che un programma ideale e ideologico di riforma50. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 78 (trad. it. cit., p. 87). Su questo modo di procedere di Foucault, cfr. P. Veyne, Foucault révolutionne l’histoire, cit. 50 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 78 (trad. it. cit., p. 87). 49


168 Orazio Irrera Ma esaminare genealogicamente i rapporti tra soggettività e verità dal punto di vista della non-accettazione e della non-necessità di ogni forma di potere, impone a Foucault di ritrovare, al di qua del regime di verità del cristianesimo, che avrebbe dato luogo ai processi di oggettivazione e normalizzazione del soggetto moderno, configurazione storicamente e morfologicamente diverse del rapporto tra verità e soggettività. Lo studio dell’antichità greco-romana non risponde in alcun caso al bisogno di trovare modelli da applicare anacronisticamente al presente, quanto piuttosto alla capacità fictionnelle propria dell’analisi genealogica di mostrare il presente stesso come nonevidente, non-necessario e non-naturale. È in questo senso che una genealogia del soggetto occidentale si propone di mostrare, per quanto storicamente lontane, altre forme di rapporto tra verità e soggettività in cui, ad esempio, il sé non era ancora qualcosa da oggettivare e verbalizzare dinnanzi a un’altra persona, ma uno spazio di intervento e di trasformazione che implicava una diversa maniera di intendere tanto i discorsi che veicolano una certa verità quanto il loro potere trasformativo. In questo nuovo quadro, il Corso del 1981, Subjectivité et vérité, offre a Foucault un’ulteriore opportunità di smarcarsi da un’analisi in termini di ideologia, e lo spinge a soffermarsi su quello che viene considerato un punto di svolta decisivo nella storia della soggettività in Occidente51. Si tratta dell’epoca dello stoicismo romano, e, più precisamente, del periodo in cui si stava verificando una diffusione delle pratiche matrimoniali e una fissazione di norme giuridiche molto rigorose relative alla vita di coppia (le spose acquisivano nuovi diritti e l’adulterio veniva pesantemente condannato). A questo proposito Foucault si interroga su quale fosse l’esatto statuto dei discorsi filosofici che prescrivevano l’osservanza di un determinato codice di comportamento. Perché questi discorsi avrebbero dovuto prescrivere qualcosa, se la realtà delle pratiche matrimoniali cui queste prescrizioni si riferivano avevano già effettivamente luogo nella società? In altri termini, tale discorso prescrittivo non era forse «di troppo»52? Alla luce di questa coincidenza tra prescrizione ed effettivo andamento della realtà, in che cosa consisterebbe il supplemento che il discorso apporterebbe al reale attraverso la sua semplice enunciazione? Cfr. M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2014. La traduzione dei brani successivamente riportati è nostra. 52 Su questo punto cfr. anche F. Gros, Soggetto morale e sé etico in Foucault, in Foucault e le genealogie del dir-vero, a cura di L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Napoli, Cronopio 2014, pp. 17-31. 51


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Nella lezione del 18 marzo 1981, Foucault passa in rassegna tre modalità di concepire questo rapporto tra i discorsi e le pratiche reali: «il raddoppiamento della rappresentazione», «la denegazione ideologica» e infine «la razionalizzazione universalizzante». Secondo la modalità della denegazione ideologica, il discorso filosofico sul matrimonio costituisce «l’elemento attraverso cui il reale non viene detto»53, e la sua natura prescrittiva serve solo da giustificazione ideologica che occulta, che impedisce di cogliere, che «schiva», una realtà materiale sottostante. Quest’ultima sarebbe infine costituita dalla scomparsa delle strutture economico-politiche della polis e dalla crisi delle sue istituzioni familiari, per cui la perdita di potere e la mancanza di sicurezza derivate dall’affermazione dell’Impero, avevano fatto sì che la vita coniugale si fosse costituita come unico rifugio possibile. Questo processo subirebbe, nel discorso filosofico, uno «spostamento verso l’idealità»54, trasformando una pratica reale già esistente e causata da altri processi, in un obbligo morale da prescrivere. Nondimeno, Foucault giunge a respingere anche questa prospettiva perché in fondo il reale che verrebbe occultato e taciuto dal discorso, non è il reale di cui il discorso filosofico intende effettivamente parlare, ma «la causa che l’analisi ideologica attribuisce, retrospettivamente e ipoteticamente al reale». In questo senso, si presuppone che «sotto una forma capovolta, l’idea che l’esistenza di un discorso è sempre funzione del rapporto del discorso alla verità […], in rapporto a quel che sarebbe l’essenza, la funzione, la natura in qualche maniera originaria, autentica, del discorso fedele al suo essere, che è il discorso che dice il vero»55. Al posto di questo rinvio ideologico a una dimensione della realtà altra rispetto al discorso (per spiegare il rapporto che esso intrattiene con la realtà), Foucault ribadisce che «il reale non contiene in esso stesso la ragione d’essere del discorso»56, ovvero il fatto che tale realtà non ha per forza bisogno di un gioco di veridizione che si articoli con essa, che la determini secondo il gioco del vero e del falso. La verità si afferma come evento, non sopraggiunge necessariamente per giustificare l’adeguamento di un discorso vero alla realtà. Da questo punto di vista la verità è sempre contingente: è ciò che Foucault chiama «una sorpresa epistemica»57. Per M. Foucault, Subjectivité et vérité, cit., p. 242. Ivi, p. 243. 55 Ivi, p. 244. 56 Ivi, p. 237. 57 Ivi, p. 238. 53 54


170 Orazio Irrera intraprendere quella che Foucault designava come «una storia politica della verità», non ci si doveva allora domandare se questo gioco di veridizione, questo discorso vero sia adeguato al, e necessitato dal, reale, ma: «quali effetti di obbligo, di costrizione, di incitazione, di limitazione sono stati suscitati dalla connessione di pratiche determinate con un gioco vero/falso, un regime di veridizione anch’esso specifico»? Bisogna infine chiedersi «a quali obblighi si trova legato il soggetto di questa pratica dal momento che la separazione (partage) del vero e del falso vi svolge un ruolo? A quale obbligo vero/falso si trova legato il soggetto di un discorso vero dal momento che si tratta di una pratica definita?»58. In un quadro più ampio, relativo alle lezioni finali di questo Corso, le tre modalità di concepire il rapporto tra discorsi e pratiche (di cui fa parte la «denegazione ideologica») sono opposte da Foucault al particolare statuto pratico-discorsivo che storicamente avevano assunto in epoca imperiale i cosiddetti aphrodisia rispetto alla condotta matrimoniale e sessuale: si tratta delle technai peri ton bion, delle arti di vivere, ovvero quelle “tecniche” che prendono ad oggetto la vita, l’esistenza59. Tali tecniche sono pensate da Foucault come procedure regolate e consapevoli volte a operare su un soggetto determinato un certo numero di trasformazioni in funzione di alcuni fini da raggiungere. Nella fattispecie, esse si esercitano sul bios, ovvero sulla vita in quanto soggettività, esistenza irriducibile tanto alle proprie determinazioni biologiche, quanto a un qualsivoglia statuto sociale, a una professione o a un mestiere. Rispetto a una prospettiva ideologica e al modo di porre la questione “filosofico-politica” che abbiamo visto nel Corso del 1980, la prospettiva del modello antico di soggettivazione presuppone invece una ricerca continua e indefinita che mira alla padronanza di sé nelle mutevoli circostanze dell’esistenza individuale e collettiva. Di conseguenza, nell’Antichità greco-romana, la sfera delle attività sessuali è inserita da Foucault in un campo di problematizzazione più ampio, nel quale la padronanza e il governo di sé diventano la condizione impre-scindibile per l’esercizio del potere sugli altri, acquisendo dunque un valore anche politico60. Prendendo le mosse da queste analisi è quindi possibile leggere nella loro filigrana anche uno spostamento relativo alla nozione stessa di verità Ivi, p. 239. Cfr. ivi, p. 253. 60 Cfr. ivi, pp. 280-293. 58 59


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e ai suoi rapporti con la soggettività rispetto a quello che era implicito in un’analisi in termini ideologici. La verità legata alle tecniche di sé antiche non era infatti definita né da una corrispondenza con la realtà, né da qualcosa che si troverebbe nelle profondità della coscienza, in un’interiorità psicologica da decifrare incessantemente. La verità in questione riguardava piuttosto la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi danno forma all’esistenza particolare di ciascuno61. Il bios greco si presentava così come la superficie su cui la verità si manifesta (ed è chiamata a manifestarsi) in un rapporto tutto da costruire ed inventare a seconda della situazione, ma che costituiva nondimeno la cifra essenziale della stilizzazione etica e politica dell’esistenza nell’Antichità greco-romana. Tale argomento costituirà l’oggetto di analisi privilegiato negli ultimi tre Corsi di Foucault al Collège de France. Nelle ultime ricerche di Foucault sulla parresia presso i Cinici, anche se la questione dell’ideologia non è più posta direttamente rispetto alla questione della soggettivazione (si è visto come il richiamo all’ideologia nel Corso del 1983 si riferisse soprattutto al tentativo di smarcarsi sia da una storia delle rappresentazioni, sia dalla storia delle mentalità), forse si può nondimeno ritrovare un ultimo e ulteriore elemento di differenza tra il modello di interpellazione all’opera nell’ideologia di cui parlava Althusser e quello messo in atto da Socrate e poi dai Cinici stessi. Quest’ultimo modello, infatti, piuttosto che caratterizzare la scena della soggettivazione come assoggettamento, si pone come una pratica che produce de-soggettivazione, che appartiene a una forma storicamente specifica di quell’«atteggiamento critico» capace di inscrivere direttamente sui corpi, nello spessore delle singole esistenze, una duplice possibilità: da un lato quella della trasformazione del sé nella direzione di una non-accettazione del potere e, dall’altro lato, la possibilità che questa produzione dell’inaccettabile possa strategicamente costituire, entro determinate condizioni, una sorta di intensificatore critico e politico di relazionalità62. In altre parole, un dispositivo in grado di comporre politicamente i punti di non-accettazione del potere e delle sue norme in una forma collettiva di vita “altra”, ma che non risulti comunque mai fissabile all’interno di una configurazione normativa Su questo punto cfr. L. Cremonesi, A. I. Davidson, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Da dove viene il sé?, cit.; O. Irrera, La verità come forza. Dir-vero, potere e soggettività nell’ultimo Foucault, in Foucault e le genealogie del dir-vero, cit., pp. 33-57. 62 Cfr. S. Luce, Dall’ideologia all’ordine del discorso: l’interpellazione di Althusser, le parole di Foucault, cit., in part. pp. 320-324. 61


172 Orazio Irrera stabile e definitiva, che finirebbe per reintrodurre nuove forme di potere. Si tratta allora non solo di produrre una forma di vita altra, ma anche un atteggiamento che mantenga vivo nel rapporto di sé con sé un potere “alterizzante”, in grado di generare una mancanza di conformità, carica di effetti politici, rispetto a ciò che si attende da una soggettività individuale o collettiva, facendo diventare la possibilità stessa di questo spostamento critico qualcosa di costitutivo che deve sempre politicamente accompagnare e limitare il governo degli uomini. Orazio Irrera Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne orazio.irrera@univ-paris1.fr

. Foucault and the Problem of Ideology In his course On the Government of the Living, Foucault affirms that he has always refused to analyze thought, behavior, and knowledge in terms of ideology. He adds that almost every year, in each one of his courses, he has revisited this need for distinguishing what he is doing from a perspective based on ideology, even as he modifies the angle of attack each time by giving his critique new forms of intelligibility. In this article, I analyze the major points of this critique, especially those that bear on the Althusserian conception ideology, as well as on the historiographical paradigm of the history of mentalities. Next, I suggest that a perspective based on the norm, such as the one developed by Foucault, does not necessary diverge from a more sophisticated theory of ideology, as, for example, Pierre Macherey has recently developed with the concept of “infra-ideology”. Finally, I will look at how Foucault, in the final courses at the Collège de France, once again tries to distinguish what he is doing from an analysis of ideologies. Here he formulates his conception of the relations between truth, subjectivity, and critique as part of the larger project of a genealogy of the subject in the West. Keywords: Ideology, Subjectivation, Truth, Norm, Althusser, Practice, History of Mentalities.


Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica Laura Bazzicalupo

Politicità del pensiero e razionalizzazione

Lavorare sull’ultimo Foucault è talvolta inquietante. Se da una parte

non sempre si riconoscono i caratteri del discorso foucaultiano cui eravamo abituati, dall’altra affiniamo l’analisi di questi ultimi scritti perché cerchiamo in essi una chiave per fuoriuscire da una situazione di impasse, da un rinvio claustrofobico alla governamentalità neoliberale che è diventata – malgrado Foucault – una specie di scolastica, con effetti paralizzanti da un punto di vista politico, pur essendo la categoria nella quale la geniale analitica foucaultiana ha mostrato la massima fecondità in relazione al nostro presente. Una tale capacità euristica da essere adottata da studi neoliberali, postcoloniali, neodeleuziani e perfino da paludati studi di diritto amministrativo up date. E questa adozione implica il rischio di un sapere codificato, di una verità epistemica e oggettivante. Il circolo governamentale soggettivazione-assoggettamento può diventare una trappola dalla quale è impossibile uscire, una trappola che trova conferma nella difficoltà di una soggettivazione politica diversa, tanto più urgente quanto più ardua. Questo rischio non può non turbare chi riconosca a Foucault la sua scelta di iscrivere direttamente il pensiero sulla scena politica rifiutando ogni passaggio attraverso la filosofia politica e il logos. Per un pensiero che esca dall’accademia, che circoli nella vita e che sia sempre già una pratica, è stato pronto a smobilitare le codificazioni del proprio metodo, sollecitato dalla contingenza politica. Eppure è evidente, ed è stata notata più volte, l’ambivalenza dei governmentality studies, sviluppati nell’alveo del pensiero foucaultiano che spingono la categoria della governamentalità in direzione di una forma materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 173-188.


174 Laura Bazzicalupo di razionalizzazione1. Che si tratti o meno di razionalizzazione è una questione di importanza cruciale che ci spinge a mettere a fuoco proprio il livello epistemologico del pensiero foucaultiano, per preservare quello che è un grande progetto di storicizzazione e di incidenza politica su di essa. Occorre evitare che il grande tema della trasformazione del potere in senso governamentale sia assorbito in una dimensione epocale, diventi una tappa di una storia delle idee e che perda la dimensione della temporalità attuale, contingente, intesa come campo di forze attive. Il mio intento è dunque di riattivare la tensione epistemologica e pratica della genealogia: lasciar emergere il movimento dinamico che sia il discorso parresiastico, sia il discorso dello storico sia, per certi versi, lo stesso discorso del mercato, con il loro “posizionamento” immanente alla scena politica e sociale, imprimono alla categoria della governamentalità. La traccia epistemica che Foucault ci ha lasciato, è oggi invece piuttosto trascurata: un sentiero interrotto. Forse a causa dell’emergere, nella riflessione postfoucaultiana della via larga del naturalismo, che la trascrive in termini affermativi, ontologici. In questo caso Foucault diventa un passaggio, perché l’obiettivo è il manifestarsi di una autoregolazione immanente del divenire. Ma, a questo punto Foucault è residuale, perché il passo verso la natura è il passo che Foucault non compie e non vuole compiere: la sua analisi gira attorno al fondamento e alla sua assenza abgrund/grund, ma non accede all’abisso della vita come potenza autoregolativa. L’accesso alla “natura” – si ricordi il dibattito con Chomski –, o ancor più alla vita, sono stati sempre per Foucault il cuore dei dispositivi di controllo del vivente2. Fermarsi prima, prima del fondamento, prima dell’origine: fermarsi alla superficie di ciò che è visibile e che è stato realmente detto. Conosciamo il dileggio di Foucault verso le indagini storico-filosofiche che mirano al segreto, al non detto, al mormorio dal quale emergerà la verità e il senso complessivo. La fedeltà strettissima di Foucault all’empiria e alla “positività”, fino al nominalismo e al comportamentismo: è questo il punto. L’empirico non è Cfr. A. Barry, T. Osborne e N. Rose (a cura di), Foucault and Political Reason. Liberalism, Neo-Liberalism and Rationalities of Government, The University of Chicago Press, Chicago 1996; P. Miller, P. Rose e N. Rose, Governing Economic Life, in «Economy and Society», n. 19 (1990); di recente B. Golder (a cura di), Re-Reading Foucault. On Law, Power, and Rights, Routledge, London 2013; in senso critico T. Lemke Neoliberalismus, Staat und Selbsttechnologien: Ein kritischer Überblick über die governmentality studies, in «Politische Vierteljahresschrift», vol. 41 (2000), n. 1. 2 N. Chomsky e M. Foucault, The Chomsky Foucault Debate: On Human Nature (1971), Norton & Company, New York 2006. 1


Storicizzazione radicale, genealogia della governamentalità e soggettivazione politica 175

che una combinazione di connessioni, accessibili solo al livello della loro immanenza, che non solo non autorizza ma è programmaticamente ostile a ogni accesso alla originarietà del fenomeno che, per Foucault, svolge una funzione di occultamento. L’impianto metodologico foucaultiano – di cui si parlò a lungo negli anni dell’Archeologia del sapere e di Le parole e le cose e nel momento del passaggio alla genealogia – impianto sempre ri-posizionato in coerenza con questa assoluta “fedeltà”, che Deleuze definisce dermatologica, al visibile, al detto, è oggi trascurato tanto in direzione di una governamentalità come razionalizzazione quanto in direzione di un accesso alla soglia naturalistica. Proprio oggi, quando l’attualità dell’analitica del potere governamentale e gli studi sulla parrhesia offrono un incrocio prospettico che potrebbe avere una importanza cruciale per il pensiero della politica. Foucault traccia un complesso e multipiano progetto di interpretazione della storicità e dell’ontologia del presente come campo di forze attive, irriducibile ad un unico piano-sequenza, sia esso quello del potere governamentale onnipervasivo che quello della biopotenza. Radicalizzando il percorso Hegel-Nietzsche costruisce daccapo il sapere storico come analisi genealogica dell’evento, della sua differenzialità e irriducibilità all’universale del significato. Con la événementalisation della storia si eludono le strutture necessitanti e si lasciano emergere pratiche, programmi e dispositivi con effetti differenzianti3. Perciò il dispositivo governamentale dovrebbe corrispondere non ad una compatta totalità ma a un insieme di positività disperse indotte dagli effetti di pratiche anonime. Razionalità multiple e strategie locali invece di un unico processo di razionalizzazione. La razionalizzazione è il fronte polemico per Foucault, ma anche il rischio implicato evidentemente nel suo stesso lavoro: Par “gouvernementalité”, j’entends l’ensemble constitué par les institutions, les procédures, analyses et réflexions, les calculs et les tactiques […]. Deuxièmement, par “gouvernementalité”, j’entendes la tendance, la ligne de force qui, dans tout l’Occident, n’a pas cessé de conduire […] vers la prééminence de ce type de pouvoir […]. Enfin, par “gouvernementalité”, je crois qu’il faut entendre le processus […] par lequel l’État […] s’est trouvé petit à petit “gouvernementalisé” 4. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, pp. 59-60. Cfr. anche il concetto di événementialisation in Qu’est-ce que la critique?, in «Bulletin de la Société française de Philosophie», vol. 84 (1990), pp. 42-45, 48. 4 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil/ Gallimard, Paris 2004, pp. 111-112. 3


176 Laura Bazzicalupo Questo passo molto citato oscilla tra aderenza alla dispersa concretezza dei poteri che trova una aggregazione nominalistica nel termine (j’entends l’ensemble), totalizzazione epocale (dans tout l’Occident, n’a pas cessé de conduire vers la prééminence de ce type de pouvoir) e teleologia tendenziale (la ligne de force, le processus): con il rischio di autorappresentarsi nel cerchio della razionalizzazione storica. E se c’è razionalizzazione non ci sono che due possibilità: o la tecnocrazia che ci piega alla razionalità “trionfante” o la valorizzazione simbolica delle nozioni, per cui le veridizioni sono o reazionarie o progressiste5. E si perde la politicità del modo foucaultiano di fare storia: la sua genealogia del modo in cui la verità si istituisce coincide con una politica della verità, delle condizioni di accesso al reale. L’agire politico coincide con il posizionamento al livello delle forze attive e conflittuali. E la genealogia è il punto di vista che “vede” il conflitto, lo scarto differenziale che emerge di volta in volta nelle relazioni governamentali se genealogicamente analizzate6. Il problema peraltro non è solo relativo solamente al tema della governamentalità. Anche gli scritti sulla epimeleia seauton e talvolta anche quelli sulla parrhesia sembrano tradire, con la loro doppia faccia verso la storia delle idee e verso l’evento della soggettività eroica, l’evenemenzializzazione: vi si prendono in esame (come peraltro già in Nascita della biopolitica) teorie, dottrine, testi letterari e filosofici prevalenti su eventi o strutture materiali che rendono possibili quei testi e la loro efficacia. Così che è da quelle teorie o testi letterari e non da queste condizioni di possibilità materiale e concreta che emerge un soggetto etico-libero problematicamente fondato sulla cura di sé sulla distanza rispetto alla propria soggettivazione epistemica. La stessa ipotesi di una parrhesia trans-storica e cripto-idealtipica appare “fondata” e può sconcertare in un autore che afferma che non esistono costanti nella storia7. La relazione tra politica e storia è in Foucault altra cosa rispetto agli ideal-tipi: anche malgré lui, è più fedele alla immanenza dell’agente al campo d’azione. Quell’immanenza cieca che, significativamente, aveva affascinato Foucault nell’anti-governamentalità liberale: la opacità della totalità del mercato come condizione della scelta del libero agente economico, il cui campo di azione è un incrocio di contingenze e precarie necessità. M. Foucault, Sur l’archéologie des sciences. Réponse au Cercle d’épistémologie, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 756. 6 H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault, Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1982; cfr. M. Foucault, The Subject and Power, ivi. 7 Cfr. S. Chignola, Phantasiebildern / Histoire fiction: Weber, Foucault, in P. Cesaroni e S. Chignola (a cura di), La forza del vero, ombre corte, Verona 2013, pp. 30-70; J. Revel, Passeggiate, piccoli excursus e regimi di storicità, ivi, pp. 161-179. 5


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Storicizzazione radicale: livelli che si intersecano Proviamo a ricostruire il gioco di livelli nel progetto foucaultiano di storicizzazione: al livello, condannato perché astraente/mistificante, della filosofia della storia e della razionalità giuridica e filosofica (che conosce il senso del divenire e polarizza la dicotomia potere e libertà) risponde polemicamente il piano prescelto nella genealogia, che analizza le pratiche nella loro dispersività e mette a fuoco in esse le relazioni governamentali e la interdipendenza dei presunti poli oppositivi, decostruendo il momento metafisico della contraddizione. Solo però un ulteriore livello di discorso, del tutto sciolto nell’immanenza di ciascun polo di quelle relazioni, che si muova in un ambiente opaco dove il senso o la valorizzazione di ciascuno dei vettori non è pre-dicibile né controllabile e acquisisce senso solo ex post: solo quando il vettore rinuncia alla visione dell’intero campo di battaglia governamentale e assume le veridizioni partigiane di affrontamento amplificandone l’inquieta contrapposizione (ancorché, si intende, decostruibile nella interdipendenza del governo), solo a questo livello di discorso, rischioso e congetturale, “agisce” e trova l’energia e il coraggio di farlo. E agisce (possibilmente ma non necessariamente) avendo consapevolezza genealogica della politicità delle verità contro cui e con cui combatte. Forse questa dinamica di livelli rinvierebbe a una scomposizione del processo di soggettivazione. Ed è presumibile che da questa esigenza nasca la contaminazione lacaniana di molta filosofia postfoucaultiana. Ma non è questo un problema di Foucault che non indaga la scena, conflittuale e governamentale insieme, che si disloca “dentro” il processo di soggettivazione. Foucault teme l’interiorizzazione e l’originarietà trascendentale che il soggetto vi assumerebbe e considera un perno fondamentale del suo metodo l’analitica del visibile, delle esternizzazioni, delle pratiche. Rimane sulla superficie dermatologica: e questa presenta una serie di piani di discorso ma anche piani di analisi, piani di scelta che tagliano l’evento a differenti livelli: e su essi qui dobbiamo riflettere. E allora? Esclusa qualsiasi scomposizione ontologica della psiche, allora l’agire politico è possibile solo se lo sguardo che ha colto le relazioni governamentali è davvero radicalmente genealogico e non sistemico. La critica illuminista ci offre un esempio dell’intreccio dei livelli prospettici, nella parziale sovrapposizione del livello giuridico/istituzionale e


178 Laura Bazzicalupo metafisico delle verità enunciate (inserite in un costrutto di filosofia della storia) sul livello della veridizione di parte parresiastica che contrappone concretamente un potere/verità ad un altro potere/verità, quello dello stato assoluto, a sua volta concreto e attivo8. I livelli si intersecano: la filosofia della storia intesa con le sue verità giuridiche genera tanto una pratica giurisdizionale agonistica contestualizzata che la universale visione giuridico-istituzionale moderna. Paradossalmente, quest’ultima trascendenza è esattamente il piano che la veridizione critica si sceglie per vincere la sua battaglia; non dentro, non troppo immersi nell’immanenza di una veridizione reattiva che offuscherebbe la sua identificabilità politica. Ci dovremmo chiedere se, piuttosto che una contrapposizione un po’ semplicistica tra verità epistemiche oggettivanti e verità aleturgiche testimoniali, non ci troviamo di fronte ad uno spostamento di prospettiva, di punto di osservazione. È, a mio avviso, l’imperativo epistemico di porsi all’interno, di sottomettersi al fenomeno, assoggettandosi così alle veridizioni che costruiscono le soggettivazioni assoggettandole, a liberare la dimensione aleturgica, non oggettivante e non epistemica, di quelle stesse soggettivazioni. Il focus si sposta dai contenuti universalizzanti alla loro capacità di costruire soggettività autogovernate, stili di vita e di contro-condotta. Ma questo passaggio di livello comporta non solo la relativa opacità sul “senso” dell’insieme (di cui è davvero problematico affermare che sia tendenza epocale, linea di forza o processo dominante in Occidente), ma anche l’opacità circa la dipendenza dell’agente dalla verità istituzionalizzata. Difficile dire a questo proposito se sia indispensabile l’askesis che permette di prendere la distanza, la déprise che sfonda l’immanenza storica: processi etico/filosofici improbabili nei grandi numeri dell’agire collettivo. Oppure se sia sufficiente la curvatura o piega etica che possiamo pensare nei termini di ripetizione differente: variazione senza opposizione, più immaginabile nella soggettivazione governamentale non interdittiva del neoliberalismo. Dobbiamo comunque partire da un evento, da una contingenza che si dà se si dà: una resistenza, una condotta di dissenso, un vivente che afferma una vita altra; un pensiero «focolaio di esperienza»9, che ha voce e che fa scandalo: da dove alza la sua voce? M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 35-63; Id., Qu’est-ce que les Lumières? (1984), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1381-1397. 9 M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Seuil/Gallimard, Paris 2008, p. 13. 8


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Governamentalità tra genealogia e razionalizzazione Ma cos’è da un punto di vista metodico la governamentalità? Di quale approccio epistemico è frutto? Della genealogia, ovviamente: cui in verità la lega una speciale affinità che amplifica i rischi di una razionalizzazione. Se già l’archeologia combatteva contro la filosofia della storia, della coscienza e del soggetto, la genealogia sceglie polemicamente una modalità nietzscheana di tenere insieme storia e prassi, anzi, storia monumentale e un agire politico che non venga mortificato dalla prevaricazione teorica10. Ma c’è di più. Si accumulano diversi indicatori significativi per segnalare una speciale affinità con l’assetto governamentale dei poteri. Innanzitutto la inseparabilità delle conoscenze dalle pratiche di potere: questo significa che non si cercano le condizioni razionali che rendono possibile l’evento, ma le condizioni materiali, inclusive degli elementi eterogenei e slegati che hanno reso possibile quell’evento contingente e non un altro. Non c’è Zeitgeist, non c’è stile comune e tanto meno una razionalità sottesa agli eventi: l’obiettivo è esattamente l’evento, lo scarto discontinuo e contingente che non è riassorbibile in condizioni razionali che ne siano “la causa”. La genealogia vuole «reperire la singolarità degli eventi, fuori di ogni finalità monotona»11: non ci sono essenze, leggi, fini metafisici. Cerca la discontinuità. Evita la profondità: fa apparire gli eventi di superficie, i dettagli, i piccoli mutamenti12. Il genealogista scrive la storia effettiva, la wirkliche historie: non totalizza la storia, né il suo sviluppo interno13. Vede tutto ciò che si muove. In questa prospettiva le pratiche contano più delle generalizzazioni teoriche, scientifiche o meno, che dalle pratiche ricavano la loro efficacia, F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben (1874), in Kritischen Gesamtausgabe (KGW), Abteilung III, Band 1, De Gruyter, Berlin-NewYork 1975. 11 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971, pp. 145-172. 12 M. Foucault, Nietzsche, Éditions de Minuit, Paris 1967, pp. 186-187: «la profondità è restituita come segreto assolutamente superficiale». Analoga la concezione deleuziana di evento di ispirazione nietzscheana: G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962, p. 4. 13 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, cit., p. 160: «Niente nell’uomo è abbastanza saldo – neppure il suo corpo – per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi». 10


180 Laura Bazzicalupo intelligibilità e influenza. Le pratiche sono pervasive, disseminate, complesse, ma anche contingenti e stratificate e qualunque tentativo di totalizzare in una sintesi ciò che accade è destinato ad essere una distorsione pericolosa. Pericolosa? Se ogni storiografia dotata di senso è caratterizzata da una intenzione pragmatica, non si scrive che la storia del presente, storia per la politica. Il genealogista conosce «il segreto che le cose sono prive di essenza o che la loro essenza è stata costruita pezzo per pezzo a partire da figure a loro estranee»14, ma contemporaneamente: «nessuno è responsabile di un’emergenza, nessuno può gloriarsene; essa si produce sempre in un interstizio»15. Compare così la nozione di emergenza che svolge un ruolo chiave nell’analisi foucaultiana della governamentalità, ma anche, significativamente, in quella della parrhesia. E interessante è anche la nozione di interstizio. Il rapporto delle forze che agiscono in una qualsiasi situazione storica è reso possibile dallo spazio, l’interstizio, che definisce queste forze. È questo campo di immanenza ad essere primario per il genealogista: le sue coordinate sono il risultato delle pratiche stabilizzate. E in esso appaiono manovre sociali che hanno rilievo per coloro che vi sono coinvolti, conflitti che definiscono quello spazio d’immanenza. Lo sguardo è su di essi: i soggetti non preesistono, compaiono su quel campo di battaglia, sul quale soltanto svolgono il loro funzionamento. Per lo sguardo comportamentista del genealogista, il mondo è ciò che appare. E appaiono conflitti, rapporti di forze; il genealogista ne vede il rituale con obblighi e diritti, che non dipendono dal soggetto, ma lo fanno funzionare. Aggiungiamo alcune notazioni di Dreyfus e Rabinow: il déchiffrement della genealogia è la presa d’atto che ‹le pratiche sociali si prestano ad una intelligibilità radicalmente diversa da quella che ne hanno gli attori≈; e ancora, per il nostro discorso significativamente: il genealogista osserva le cose da lontano16. Perché ho richiamato sommariamente questi caratteri assai noti del metodo genealogico? Empirismo, positività, materialità, evento, singolarità, emergenza, discontinuità, interstizi e campi di forza, distanza tra gli attori e il sapere degli effetti, impredicibilità, storia visibile, storia concreta, storia effettiva, storie plurali, disperse, non totalizzabili. La diagnosi sul presente di Foucault, che oggi più ci sollecita, mette a fuoco i caratteri del Ivi, p. 148. Ivi, p. 156. 16 H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault, Beyond Structuralism and Hermeneutics, cit., p. 22. 14 15


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potere neoliberale, il suo modus governamentale, in senso lato biopolitico, con il quale si governano le vite. “Vediamo” la governamentalità, come in ogni genealogia, attraverso i conflitti, gli scarti, che ne delineano il campo di immanenza, attraverso cioè le resistenze delle vite che sono riottose a farsi governare tanto o a farsi governare così. È l’evento della resistenza che spezza il continuum di una possibile razionalizzazione e fa emergere il governo delle vite come una relazione di potere, instabile e specifica, diversa a seconda dei luoghi e dei tempi. Notiamo però che molti dei caratteri che abbiamo elencato nell’approccio genealogico trovano una corrispondenza, una risonanza nella scena governamentale: anche qui viene meno la sintesi: nessuno la cerca, tanto meno si cerca una filosofia della storia; anche qui coesistono elementi eterogenei in una inclusività instabile, non identitaria; anche qui si evidenzia senza mascheramento la logica strategica dei saperi, in particolare del sapere economico che attraversa e accomuna i dispersi vettori del campo di forza, senza forzarli in una sintesi di senso: la logica dell’organizzazione volta alla ottimizzazione tramite competizione è il medium che circola unificando il campo senza sintetizzarlo; anche qui soprattutto non è richiesto un sapere totalizzante circa il senso o l’orientamento delle scelte: anzi, stante il modello del mercato e gli standard normativi ex post che sostituiscono le leggi, gli status, un sapere globale sarebbe distorsivo della libera dinamica dei poteri sociali; anche qui soprattutto, non c’è una posizione isolata e contrapposta di ciascuno, ma vige, nonostante l’immaginario individualista, una dipendenza relativa di posizionamento, evidenziata dalla valutazione competitiva cui è demandato il compito di governare l’anarchia dei poteri. E questo significa che mentre il potere non dovrebbe apparire che nel conflitto/resistenza, esso si manifesta piuttosto in una gerarchizzazione delle posizioni che dipendono dagli standard comparativi che a loro volta rinviano alle scelte di ciascuno. Questa risonanza tra governamentalità e sguardo genealogico che la evidenzia non solo mostra come sia ormai svuotata la polemica antitrascendentale che diede origine alla scelta genealogica stessa, ma è carica di effetti rischiosi. Cosa significa vedere genealogicamente (e valorizzare governamentalmente) l’interdipendenza dei poli della relazione di potere? Significa che per quanto la genealogia ci guidi ad una nozione di governamentalità che forzi il continuum nella pluralità irriducibile delle situazioni e degli eventi,


182 Laura Bazzicalupo per quanto questi eventi mostrino la discontinuità, lo scarto, per quanto l’obiettivo sia l’emergenza dell’evento resistenziale, questo stesso apparire dell’oggetto di governo sotto il profilo dell’emergenza che lo rende governabile e la riconduzione della resistenza alla dipendenza reciproca aderisce esattamente al progetto governamentale, lo replica, e dunque lo razionalizza. Differenza e conflittualità sono mantenute e ricondotte alla comparazione competitiva i cui criteri emergono dall’incrocio cieco delle condotte e delle scelte: senza responsabilità che non sia rinviabile a ciascuna di esse. Certo, ogni tecnologia di governo implica una razionalità politica che è in qualche modo bifrontale: da una parte l’asse concettuale rappresenta e razionalizza tecniche di esercizio del potere, un campo discorsivo che individua oggetti, limiti, argomentazioni giustificative e legittimazioni, razionalità normative e regole: quindi un discorso di saperi/verità, attorno a cui si struttura il potere17; dall’altro fa affiorare o meglio accoglie la visibilità di una specifica e concreta forma di intervento di governo: le due facce si condizionano reciprocamente in una trasformazione incessante, secondo il presupposto nietzscheano della impurità costitutiva, della contaminazione inevitabile delle scienze e dei saperi relativi all’oggetto di governo. Ma c’è qualcosa di più che opera nell’intreccio metodo-oggetto, genealogiagovernamentalità: possiamo dire che la genealogia assembla sotto il nome governamentale un dispositivo che costruisce processualmente il proprio oggetto – individui e popolazioni – (lo pone, cioè, nella dimensione della sua governabilità), piegandosi alla sua pluralizzazione concreta e facendone emergere le problematicità (le eventuali carenze e inadeguatezze), per disporre contemporaneamente le strategie per migliorarlo: problem solving. L’oggetto governamentale che emerge dall’indagine genealogica che non si indirizza che alle strategie, è a sua volta squisitamente strategico e, come tale, razionalizzante: costruisce e definisce al fine del controllo. Come conferma la strutturale logica pragmatica operazionale di organizzazione, management che lo denota. L’ontologia cede a questa modalità di approccio curvata su una realtà non definibile a priori, congiunturale e emergenziale. A.I. Davidson, The Emergence of Sexuality. Historical Epistemology and the Formation of Concepts, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 179: «combination of certain techniques for analyzing concepts and of certain techniques for writing their history». Cfr. anche Id., Introduction. Régimes de pouvoir et régimes de vérité, in M. Foucault, Philosophie. Anthologie, Gallimard, Paris 2004, pp. 381-392. 17


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Cambiamenti di livello: emergenze, pieghe e strappi Diamo per dato che l’obiettivo foucaultiano fosse di individuare – in quelle vischiose macchine che sono le relazioni di potere governamentale – il momento delle lotte di resistenza e i vettori di contro-potere. Ma la debole formazione oggi di soggetti politici resistenti e antagonisti sembra rinviare proprio alla capacità della governamentalità neoliberale di metabolizzare e lasciar coesistere forme incoerenti in un insieme privo di sintesi; le emergenze non interrompono, non contestano: divengono punti di forza del controllo e della cattura. Così come l’eccezione viene continuamente sollecitata e valorizzata. La governamentalità si presenta come un dispositivo generatore di eccezioni che incessantemente le razionalizza e le cattura: coincide dunque tanto con le pratiche di razionalizzazione quanto con il nomen genealogico che le dovrebbe evidenziare come resistenze. La stessa analisi foucaultiana oscilla tra un neoliberalismo antigovernamentale e una governamentalità neoliberale che esercita controllo. Dobbiamo dunque lasciar perdere la genealogia e con essa la politica della verità oppure l’obiettivo viene raggiunto con una rotazione epistemica che senza abbandonare il campo della genealogia colloca lo sguardo del filosofo esattamente come quello dell’attore, dentro, il campo di osservazione? Non si tratta di una sconfessione metodologica. È infatti proprio la posizione interna al campo di osservazione che ha caratterizzato l’episteme concreto foucaultiano. Già da sempre si è trattato di un negativismo nominalista, che sostituiva a universali come la follia, il crimine, la sessualità (ora la governamentalità) l’analisi dell’esperienze storiche singolari. Si tratta piuttosto di una ricodificazione del metodo che permetta di mantenere l’assunto di una storicizzazione radicale e dunque politica, radicalizzando in senso stretto la limitatezza, contingenza e pluralità degli sguardi soggettivi immersi nel flusso degli eventi18. Solo il livello di questi sguardi genera la visibilità prospettica delle resistenze senza fagocitarle nella relazione di potere cui pure appartengono e nella quale solo sono reali. È questa posizione che, al di là dell’ovvio riferimento a Nietzsche, definirei machiavelliana – fatto salvo il fraintendimento foucaultiano di Machiavelli – che andrebbe valorizzata nell’ultimo Foucault. Se pratichiamo una storicizzazione radicale del punto di applicazione dell’analisi, le contro-condotte che piegano la governamentalità in senso antigoverna18

M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., p. 22.


184 Laura Bazzicalupo mentale, assumono un contorno più netto e visibile, nello sfondo atonale della relazione governamentale. E, tanto più, le esperienze di parrhesia cinica – letterale incarnazione, farsi carne di una improbabile libertà naturale e di una verità a tutto tondo che si oppone alle opinioni false e ipocrite del mondo – assumono il carattere agonistico di sfida ordalica, che riflette la politicità schietta e innegabile del pensiero. Come si è detto, è un problema di livelli, piuttosto che di rovesciamento prospettico. La nostra domanda è: a quale livello dobbiamo tagliare l’evento, affinché il dato della critica (come della parrhesia, della resistenza, della opposizione veridica alla verità dominante) non risulti assorbito da quello della governamentalità e del sistema di verità che la sostiene e che è stato, molto probabilmente, in grado di sollecitarla? La risposta è sempre la stessa in Foucault: quello che «restituisce al discorso il suo carattere di evento»19, di emergenza. Ma l’emergenza “evenemenziale” si trova nella governamentalità neoliberale eterogenea e antirappresentativa, in una rischiosa risonanza che la contamina: opacità, differenzialità, destrutturazione, disseminazione dei poteri sono assunte come razionalità politica da sollecitare e controllare. Diventa allora necessario andare più a fondo, s-profondare nella stessa razionalità di governo per ritrovarsi nelle sue situazioni differenziali, per aderire a quel livello dermatologico delle conflittualità e delle resistenze: non vedere o rinnegare le interdipendenze. Così il vecchio paradigma del potere battaglia, innestato su quello del governo lo riaccende: se e solo se lo sguardo soggettivo di parte vede un vuoto e una contraddizione dove vuoto e contraddizione non ci sono. Solo se la discontinuità resiste al continuum che le veridizioni governamentali costruiscono, diventa visibile il punto di vista di chi prende posizione, strutturando “liberamente” il campo di azione. La congiuntura torna a se stessa; acquisisce l’aspetto, che noi spettatori percepiamo, di una frattura che spezza il tempo in mille possibili punti. Esattamente come nel discorso dello storico che dà conto della conflittualità, dell’antagonismo tra gruppi, tra razze: potere/battaglia20. In “Bisogna difendere la società” Foucault oppone M. Foucault, L’ordre du discours, cit., p. 40. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 31: «lo studio della microfisica del potere […] come modello gli si conferisce la battaglia perpetua piuttosto che il contratto che opera una cessione, o la conquista che si impossessa di un dominio». Cfr. M. Senellart, Michel Foucault: “gouvernementalité” et raison d’État, in AA. VV., Situations de la démocratie, Seuil/Gallimard, Paris 1993, pp. 276-298. 19 20


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il modello bellico alle teorie contrattualiste proprio per cogliere, nel risentimento segreto degli sconfitti, nella loro contro-storia la persistenza di una irriducibile conflittualità21. Il discorso storico (storico partigiano, storico politico, certo non filosofico-storico), quello di marca tucididea, si sottrae ad ogni universalità; rilevando i posizionamenti antagonisti, opera, effettua (non si può non pensare alla verità effettuale di Machiavelli) la disposizione delle parti, la verità come vittoria di parte (la wirkliche Historie di Nietzsche22). Superfluo ricordare che con il passaggio dal potere/battaglia al potere/governamento la relazione di potere si fa più complessa: entrano in gioco i fattori oblativi, le modalità della cura, i fini protettivi-incrementativi della vita in senso ampio biopolitici e viene messa in gioco la funzione produttiva di soggettivazione del potere governamentale, non frontalmente contrapposto al potere del governato… e la lotta? Essendo il governo azione sulle azioni degli altri si valorizza una forma di libertà dipendente e «conseguentemente non c’è alcun affrontamento faccia a faccia di potere e di libertà che sia reciprocamente esclusivo»23. La genealogia, l’abbiamo detto, si trova di fronte ai dispositivi governamentali che includono relazionalmente in reciproca dipendenza i poli del conflitto. Pur radicalizzando il punto di vista genealogico, mirato alla discontinuità, quest’ultima (che testimonia lo strutturale fallimento dell’assoggettamento) resta inclusa nel dispositivo e non trova emersione nella forma dell’affrontamento. Non potremo vedere lo scarto rispetto all’assoggettamento, il discontinuo della resistenza se non come infinito rinvio di assoggettamento e soggettivazione. Libertà, ma senza affrontamento: piega, dunque. Ma cessa per questo la lotta delle verità che caratterizzava il discorso dello storico? Rivendicando nello stesso saggio, la stretta relazione dell’analisi empirica con le relazioni di potere legate al presente, Foucault insiste “nel considerare come punto di partenza le forme di resistenza opposte alle differenti forme di potere. Per usare un’altra metafora esso (metodo) consiste nell’utilizzare queste resistenze come un catalizzatore chimico che permetta di mettere in evidenza le relazioni di potere, di localizzare la loro posizione, di scoprire i loro punti di applicazione e i metodi utilizzati. Piuttosto che analizzare il potere dal punto di vista della sua M. Foucault, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil/ Gallimard, Paris 1997, pp. 48-53. 22 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, cit., p. 159. 23 M. Foucault, The Subject and Power, cit., p. 249 (corsivo mio). 21


186 Laura Bazzicalupo razionalità interna, si tratta di analizzare le relazioni di potere attraverso l’antagonismo delle strategie24. L’antagonismo delle strategie rende visibile la disposizione delle parti antagoniste, le “localizza”, ne scopre i punti di forza e di debolezza: ciò che separa una forza dall’altra, non ciò che le unisce: “strategie di lotta in cui le due forze (che Michel Senellart giustamente sottolinea essere molteplici25) non giungono a sovrapporsi, non perdono la loro natura specifica e infine non arrivano a confondersi. Ciascuna costituisce per l’altra una sorta di limite permanente, un punto di possibile rovesciamento. Questo il piano dell’antagonismo politico, dello scontro frontale delle veridizioni (come nel caso della critica e della parrhesia), che segnano frontiere ben precise perché legate alla differenziazione tra vero e falso e supportano sì le strategie, ma tramite l’enfasi della contrapposizione. Questa enfasi non è affatto secondaria perché è sulla pubblicità e perentorietà del gesto oppositivo che si innesta l’effetto politico e la capacità di fungere da esempio. Certo il quadro è ben più complesso di quello della semplice ipotesi del potere battaglia, «piuttosto che di un antagonismo essenziale sarebbe meglio parlare di un agonismo, di un rapporto che è allo stesso tempo di incitamento e di lotta»26. Ma l’antagonismo nella parrhesia c’è e affiora in modo deciso, legato a quella virtù del coraggio e alla sfida provocatoria sul rischio di vita chiamato a garantire il maggior valore, la differenzialità etica della verità testimoniata rispetto a quella dominante. La relazione di potere è un affrontamento tra due avversari. Cruciale, suggerisce Foucault, «è la possibilità di decifrare questi stessi eventi dall’interno di una storia delle lotte oppure dal punto di vista delle relazioni di potere»27. Il punto chiave di questo prezioso suggerimento è quel ‘dall’interno’ che permette l’emersione delle lotte. A seconda della direzionalità dello sguardo e della sua immanenza al campo di osservazione avremo significati, concatenamenti, intelligibilità diversi riferibili alla stessa realtà storica, fermo restando che l’analisi che evidenzia le lotte non può non rinviare a quella che focalizza la piega governaIvi, p. 239. Michel Senellart (M. Senellart, Michel Foucault: “gouvernementalité” et raison d’État, cit.) sottolinea il ritorno alla molteplicità della battaglia al di fuori di ogni teleologia rivoluzionaria e di ogni struttura binaria di contrapposizione; Foucault ci dice che ogni strategia di affrontamento mira a diventare una relazione stabile di governo e di “vincere” la resistenza. Provvisoriamente, s’intende, perché la relazione di governo solleverà altra resistenza. 26 M. Foucault, The Subject and Power, cit., p. 315. 27 Ibidem. 24 25


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mentale: in combinazione e rinvio reciproco. Entrambe forme di storicizzazione radicale che, riconoscendo la propria co-appartenenza al piano di immanenza descritto, definiscono il dire-il-vero in tutta la sua contingenza: l’una però rendendoci la prospettività soggettiva del conflitto. Se di fronte allo sguardo che si mantiene aderente all’immanenza storica senza trascenderla, non emergerà la prospettiva rivoluzionaria globale, né la guerra dicotomica e frontale, ma molte pratiche singole di trasgressione e contrapposizione, di contraddizione in fondo, pure la loro incisività sociale, culturale e politica non va sminuita e manifesta un piano del discorso dove è proprio l’antagonismo, lo scontro ad essere cruciale. Saranno lotte trasversali, sempre infra-governamentali, mirate al “nemico immediato”, situato, piuttosto che al “nemico principale”, si tratterà di lotte anarchiche orientate alla “differenza” come sono state quelle del ’68, ma comunque ruotano attorno alla domanda “chi siamo?” e al rifiuto radicale delle oggettivazioni veridiche governamentali sia scientifiche che amministrative, alle forme di sottomissione della soggettività28. Contrapporsi alla marcatura che ci fa soggetti assoggettati, comporta qualcosa di più che una piega: una contrapposizione che pur essendo risolta nella pratica di resistenza, si incardina su un’altra veridizione, contrapposta e dicotomica, oppure così radicalmente ligia alla verità dominante da rovesciarla proprio nel prenderla assolutamente alla lettera. Come facevano i cinici con la verità filosofica. Le pratiche parresiastiche imprimono nelle veridizioni dominanti ripetizioni-variazioni che – lo si vede bene nella parrhesia cinica rispetto al tronco di quella socratica – le piegano, le estremizzano. Sono pieghe che però vengono vissute e testimoniate come uno strappo, un posizionamento frontale e come tali sono percepite anche da chi assiste alla scena. Più che una verità aleturgica contro quella epistemica, abbiamo una radicalizzazione e una ripetizione con differenza: la verità dominante si replica, alterandosi in una smorfia, Butler direbbe: una parodia. È questo il “gioco di specchi” della parrhesia; la parrhesia cinica è lo specchio infranto della filosofia dominante e dunque di una forma di governamentalità. Una ripetizione che non solo non esclude la differenziazione etica, ma che giunge a rompere lo specchio in cui si riflette. Ma la radicalizzazione è così violenta che si spezza il filo, la trama, il tessuto della piega: quando Ivi, p. 244: «Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo». 28


188 Laura Bazzicalupo qualcuno si espone alla morte per la verità fa saltare ogni acconsentimento biopolitico governamentale, a partire da quello hobbesiano. È il piano congiunturale del rapporto a sé, il piano dell’ontologia storica del sé, il piano cioè dell’etica come politica29. Questo piano dipende dalla governamentalità, ma la nega: è parziale e discontinuo rispetto ad essa. Laura Bazzicalupo Università degli Studi di Salerno l.bazzicalupo@unisa.it

. Radical Historicising, Genealogy of Governmentality, and Political Subjectivation The essay focuses epistemic tension between the category of governmentality and the radical historicizing that is implicit in the discourse of the historian and in the category of parresia. Against the use of governmentality in order to rationalize the discontinuities, the essay claims, in the Foucauldian work, the radical empiricism and Nietzschean genealogical analysis of the event. The evenementalisation, keeping open the contingency, avoids historical necessity and reveals practices, programs and devices with differentiating effects that make possible political antagonist action that governmental perspective seems sometimes exclude. Keywords: Governmentality, Radical Historicizing, Parresia, Antagonism, Event, Genealogy, Rationalization.

M. Foucault, Politics and Ethics. An Interview, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, p. 375: «I would more or less agree with the idea that in fact what interests me is much more morals than politics or, in any case, politics as an ethics». 29


Spectator novus: trasfigurazione e straniamento in Foucault, Hadot e Ginzburg Laura Cremonesi

Questo articolo intende aprire un confronto tra pensatori provenienti

da percorsi profondamente diversi, ma che trovano un punto in comune nel far ricorso a un procedimento di modificazione della prospettiva per orientare i loro metodi di indagine. Si tratta di Pierre Hadot, di Carlo Ginzburg e di Michel Foucault, che hanno impiegato le idee di esercizi spirituali, di straniamento e di trasfigurazione per mantenere nei confronti dei loro oggetti di ricerca e delle loro rispettive discipline – dalla filologia alla storia e alla filosofia – una proficua distanza, che permette di modificare efficacemente il nostro sguardo su questi ambiti di studio. Uno dei primi esempi della messa in atto di questa distanza ci è stato infatti offerto da Hadot che, grazie a una lettura dettagliata e attenta dell’opera di Marco Aurelio, ha mostrato come molte delle sue pagine consistano proprio nella deliberata assunzione di un diverso punto di vista nei confronti degli oggetti e degli eventi della vita quotidiana. Questa lettura di Hadot ha un certo rilievo sia per la riflessione di Ginzburg sul procedimento dello straniamento sia, in generale, per il lavoro di Foucault e per le sue considerazioni sul concetto di critica. Sulla scia dei lavori di Arnold I. Davidson1 che, evidenziando chiaramente come il procedimento dello straniamento possa essere letto come un vero e proprio esercizio spirituale, hanno aperto la possibilità di questo confronto, questo articolo ripercorrerà, in un primo tempo, l’interpretazione di Hadot dell’Eis heauton di Marco Aurelio, per poi passare all’importanza cognitiva del procedimento dello straniamento, messa in luce da Ginzburg, e affrontare infine in modo più dettagliato la questione della critica e dei suoi rapporti con la pratica della trasfigurazione in ambito estetico, che appare in alcuni degli ultimi testi di Foucault. Il filo conduttore che unirà questi tre momenti sarà quello della figura dello spectator novus, di colui che sa guardare le cose come se le vedesse per la prima volta. Si veda, in particolare, A.I. Davidson, L’arte di leggere lentamente. Discussione de Il filo e le tracce di Carlo Ginzburg, in «Iride», vol. 20 (2007), n. 51, pp. 381-386 e C. Ginzburg e A.I. Davidson, Il mestiere dello storico e la filosofia, in «aut aut», n. 338 (2008), pp. 178- 202. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 189-201.


190 Laura Cremonesi Pierre Hadot: l’Eis heauton come esercizio spirituale A un primo sguardo, l’Eis heauton appare inevitabilmente come una raccolta disordinata di riflessioni, redatte da Marco Aurelio nelle varie circostanze della sua vita, e forte è la tentazione di leggerle come un diario intimo, testimone della vita psicologica e degli stati d’animo dell’imperatore, perlopiù improntati a un profondo pessimismo e a una tetra disillusione. Una lettura più attenta può però permettere, secondo Hadot2, di far emergere sotto all’apparente disordine dei pensieri una struttura coerente e organizzata secondo determinati princìpi. Il primo passo da compiere sta nel riconoscere il genere letterario cui il testo appartiene, che non è quello del diario intimo: l’Eis heauton è infatti un testo propriamente filosofico. Il secondo passo consiste poi nel riconoscere la natura dell’insegnamento filosofico dell’epoca, che non verteva prevalentemente sulla trasmissione di nozioni astratte, ma aveva lo scopo primario di agire sull’anima del discepolo e di guidarlo verso un modo di vita filosofico, coerentemente con l’idea, che permea la cultura greca, ellenistica e romana, per cui la filosofia è una maniera di vivere, volta al conseguimento dell’ideale – orientativo e irraggiungibile – della saggezza. Come ha ben messo in luce Hadot nel corso delle sue ricerche, questo cammino verso la saggezza si realizzava attraverso un’askesis quotidiana, composta da numerosi esercizi, di cui i testi filosofici antichi ci offrono una preziosa testimonianza. Tra questi esercizi, di capitale importanza era senza dubbio la meditazione (melete)3: si trattava di un lavoro che i discepoli svolgevano sui princìpi fondamentali delle scuole filosofiche, al fine di assimilarli in modo profondo e averli sempre presenti allo spirito e disponibili (sottomano – procheiron) in tutte le circostanze della vita, per orientare il proprio comportamento e regolare le loro disposizioni interiori in modo conforme agli insegnamenti della scuola. Cfr. P. Hadot, La physique comme exercice spirituel ou pessimisme et optimisme chez Marc Aurèle e Une clé des Pensées de Marc Aurèle: les trois topoi philosophiques selon Epictète, in Exercices spirituels et philosophie antique, a cura di A.I. Davidson, Albin Michel, Paris 2002, pp. 145-164 e 165-192; trad. it. Marco Aurelio: la fisica come esercizio spirituale, ovvero ottimismo e pessimismo e Una chiave dell’Eis heauton di Marco Aurelio: i tre topoi filosofici secondo Epitteto, in Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2002, pp. 119-133 e 135-154. 3 Cfr. P. Hadot, Exercices spirituels, in Exercices spirituels et philosophie antique, cit., pp. 19-74; trad. it. Esercizi spirituali, in Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 35-38. 2


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Il testo di Marco Aurelio deve dunque essere ricollocato in questo contesto e letto come una preziosa testimonianza dello specifico esercizio spirituale della meditazione, svolto per scritto «in forma di autentico dialogo con se stesso: eis heauton»4, destinato ad assimilare e a richiamare incessantemente alla memoria le basi dello stoicismo. Ecco quindi che le sue constatazioni, che a un primo sguardo apparivano velate dal più profondo pessimismo, possono essere lette in una luce nuova. Quando Marco Aurelio, ad esempio, non vede nel laticlavio o nei cibi più pregiati altro che una spoglia realtà fatta di sangue e di cadaveri di animali, non sta posando sul mondo uno sguardo disilluso, ma sta mettendo in pratica un preciso esercizio spirituale, che consiste nell’attuare i princìpi della filosofia stoica (e in particolar modo della fisica): Le vivande cotte e altri commestibili del genere bisogna rappresentarseli quali il cadavere di un pesce, di un uccello o di un porcellino; e il Falerno quale succo d’uva; e la porpora quale peli di pecora bagnati nel sangue di una conchiglia5.

È lo stesso Marco Aurelio, secondo Hadot, a spiegare la natura del metodo applicato in questo brano: Occorre sempre dare una definizione o descrizione dell’oggetto che si presenta nella rappresentazione, al fine di vederlo in se stesso, qual è nella sua essenza, messo a nudo tutto intero e in tutte le sue parti secondo il metodo della divisione, e dire a se stessi il suo vero nome e quello delle parti che lo compongono e nelle quali si risolverà6.

Questo esercizio è quindi volto a fornire una rappresentazione esatta, fisica, degli oggetti che ci circondano e degli eventi che suscitano in noi desideri e passioni. Questa descrizione spoglia degli oggetti e degli eventi serve a “vederli in se stessi”, per come sono realmente, ossia staccati dai valori sociali e condivisi che vengono loro convenzionalmente attribuiti. Si tratta quindi di uno sguardo che «attraversa [transperce]»7 cose ed eventi, oltrepassa le valutazioni convenzionali, per guardarli da un altro punto P. Hadot, La physique comme exercice spirituel, cit., p. 150; trad. it. cit., p. 122. Marco Aurelio, Eis heauton, VI, 3; traduzione di Pierre Hadot, ivi, p. 145; trad. it. cit., p. 119. 6 Marco Aurelio, Eis heauton, III, 11. 7 P. Hadot, La physique comme exercice spirituel, cit., p. 152; trad. it. cit., p. 124 (Hadot cita Marco Aurelio, Eis heauton, VI, 13). 4 5


192 Laura Cremonesi di vista. In Marco Aurelio, questa nuova prospettiva è quella della natura universale, della necessaria concatenazione di cause che governa il cosmo e in cui cose ed eventi sono immersi. Questa modificazione dello sguardo ha due effetti: trasfigura cose ed eventi che, visti in quanto parte della natura universale, appariranno dotati di un’inedita bellezza e, al tempo stesso, trasforma il modo di essere di chi esercita questo sguardo, aprendogli la strada per la grandezza d’animo, stato che permette di acquisire una nuova familiarità con il mondo e di accettare e di amare ogni accadimento, perché lo si riconosce come scaturito dalla volontà della natura universale. La fisica, modulata come esercizio spirituale, permette quindi di portare sulle cose uno sguardo nuovo che, pur se derivato da una profonda conoscenza del complesso sistema della filosofia stoica, possiede tutta l’ingenuità di chi vede le cose per la prima volta, senza esser guidato da tutto il sistema di valori sociali che solitamente orienta il nostro modo di guardare. Carlo Ginzburg: l’importanza cognitiva dello straniamento L’ingenuità dello sguardo è anche il filo conduttore scelto da Carlo Ginzburg per descrivere le varie figure di straniamento, nel suo articolo Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario 8, in cui propone un percorso che parte appunto da Marco Aurelio per arrivare a Proust, passando per il genere popolare degli indovinelli, per l’Illuminismo francese, per Tolstoj e, naturalmente, per Viktor Šklovskij, che dello straniamento ha fatto uno dei cardini della descrizione del funzionamento dell’arte, intesa come “congegno” 9. Ed è proprio la lettura dell’Eis heauton fornita da Hadot a permettere a Ginzburg di vedere nelle riflessioni di Marco Aurelio una prima traccia di quel procedimento che avrà tanta fortuna nella letteratura moderna e contemporanea. Se le descrizioni fisiche degli oggetti e degli eventi proposte da Marco Aurelio hanno infatti lo scopo primario di far mutare il nostro sguardo e di farci aggirare il sistema convenzionale di valori che vengono abitualmente loro attribuiti, questo è anche G. Ginzburg, Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario, in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 15-39. 9 V. Šklovskij, Una teoria della prosa, De Donato, Bari 1966. 8


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l’obiettivo che Šklovskij attribuisce all’arte: essa infatti metterebbe in atto dei procedimenti – tra cui lo straniamento – volti a scuoterci dalle nostre abitudini percettive che ci impediscono di vedere le cose che ci circondano e che ci sono eccessivamente vicine e familiari; lo straniamento, come procedimento consistente nel «descrivere [le cose] come se le si vedesse per la prima volta», nel «presentare [ogni evento] come se accadesse per la prima volta» 10, porrebbe tra noi e ciò che ci circonda una distanza che ci permetterebbe una reale visione delle cose. Questo procedimento, continua Ginzburg, era stato impiegato dagli autori dell’Illuminismo francese come strumento efficace di una critica politica e sociale. Un espediente ricorrente e che ha una lunga storia è quello delle figure del selvaggio, del bambino o dell’animale che descrivono dal loro punto di vista costumi e abitudini che non appartengono al loro mondo e che non comprendono pienamente. Questa descrizione ingenua, non condizionata dall’abitudine, coglie però più a fondo la realtà sociale, le sue ingiustizie e le sue assurdità, fornendo un’acuta critica politica che scalza tutte quelle forme di legittimazione che derivano unicamente da ben radicate consuetudini secolari. Come in Marco Aurelio, lo sguardo di queste figure che vedono il nostro mondo per la prima volta riesce a cogliere ciò che è solitamente velato dall’abitudine o dai valori sociali che attribuiamo alle cose. Se, ancora in Tosltoj, lo straniamento ha lo scopo di mostrare le cose come realmente sono, è in Proust che, secondo Ginzburg, esso acquisisce una finalità di segno inverso: Madame de Sévigné ed Elstir condividono il dono di mostrarci le cose preservando la freschezza delle prime impressioni, prima che esse si combinino in una figura riconoscibile; non si tratta, quindi, di cogliere la realtà delle cose tenendole a distanza dalle convenzioni sociali che ci impediscono una loro esatta visione, quanto di portare sulle cose uno sguardo nuovo, “superficiale”, non condizionato da precedenti rappresentazioni. Ed è proprio in riferimento all’Elstir di Proust che Ginzburg chiarisce l’importanza dello straniamento per il metodo storico: 10

Ivi, p. 18.


194 Laura Cremonesi Mi sembra che lo straniamento sia un antidoto efficace contro un rischio cui siamo esposti tutti: quello di dare la realtà (noi stessi compresi) per scontata. Le implicazioni antipositivistiche di quest’affermazione sono ovvie. Ma nel sottolineare le implicazioni cognitive dello straniamento vorrei anche oppormi con la massima chiarezza possibile alle teorie di moda che tendono a sfumare, fino a renderli indistinti, i confini tra storia e finzione. Questa confusione sarebbe respinta dallo stesso Proust. Quando diceva che la guerra può essere raccontata come un romanzo, Proust non voleva affatto esaltare il romanzo storico; al contrario, voleva suggerire che tanto gli storici quanto i romanzieri (o i pittori) sono accomunati da un fine cognitivo. È un punto di vista che condivido pienamente. Per descrivere il progetto storiografico in cui personalmente mi riconosco utilizzerei, con un piccolo cambiamento, una frase di Proust […]: «E se volessimo supporre che la storia fosse scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare, alla rovescia»11.

Il ricorso al procedimento letterario dello straniamento, quindi, lungi dal fare della storia una finzione, è un procedimento cognitivo che può utilmente orientare lo storico che, fermo nella metodologia che gli è propria, può rivolgere il suo sguardo verso il proprio oggetto, in modo da guardarlo come se fosse visto per la prima volta, con quella distanza necessaria per evitare di incorrere nei più comuni errori che costellano il cammino della procedura storica. Come ha ben messo in luce Arnold I. Davidson, anche il metodo storico e filologico di Hadot implica una modificazione del modo di guardare all’oggetto di ricerca. Grazie ai saggi di Hadot, ad essere trasformata è infatti la nostra visione del testo di Marco Aurelio, perché essi rendono infatti visibile una struttura coerente che non è mai stata nascosta ma che, per esser percepita, richiedeva un cambiamento di prospettiva, un modo nuovo di guardare ai pensieri raccolti nell’Eis heauton. Davidson descrive con chiarezza questa trasformazione del nostro modo di vedere: Hadot, discovering the form that “renders all the details necessary”, allows us to read the Meditations coherently, transforms our experience form that of reading a disconnected journal to one of reading a rigorously structured philosophical work12.

C. Ginzburg, Straniamento, cit., p. 34. A.I. Davidson, Introduction. Pierre Hadot and the Spiritual Phenomenon of Ancient Philosophy, in P. Hadot, Philosophy as a Way of Life. Spiritual Exercises from Socrates to Foucault, Blackwell, Malden 1995, p. 12. 11 12


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I lavori di Hadot non svolgono quindi un compito ermeneutico, di messa in luce di un significato soggiacente e invisibile, ma realizzano una trasformazione della nostra esperienza di lettori, grazie a precisi strumenti filologici e storici. Hadot e Ginzburg fanno dunque un uso simile, rispettivamente, degli esercizi spirituali e dello straniamento, considerandoli come una sorta di “libro di bordo” per la ricerca storica, come strumenti che permettono di guardare un oggetto con gli occhi dello “spectator novus”, che dirige sul mondo uno sguardo nuovo, cui fa riferimento Pierre Hadot, quando spiega la storia e l’attualità degli esercizi spirituali antichi, in relazione a un noto passaggio della Lettera 64 di Seneca: Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta [spectator novus]13.

Hadot commenta: Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili14.

Anche per Hadot, quindi, ad esser centrali nello sguardo dello spectator novus sono l’idea dell’abitudine, che rende meccanica la nostra percezione, e quella del distacco, che permette di modificare la nostra prospettiva, idee che costituiscono anche il nucleo dello straniamento.

Seneca, Lettera 64, 6, brano citato in P. Hadot, L’homme antique et la nature, in Études de philosophie ancienne, Les Belles Lettres, Paris 2010, p. 314; trad. it. L’uomo antico e la natura, in Studi di filosofia antica, a cura di A.I. Davidson, ETS, Pisa 2014, p. 275. 14 Ivi, pp. 314-315; trad. it. cit., pp. 275-276. Si veda anche P. Hadot, Le sage et le monde, in Exercices spirituels et philosophie antique, cit., pp. 343-360; trad. it. Il saggio e il mondo, in Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 179-192. 13


196 Laura Cremonesi Michel Foucault: il compito della critica e la trasfigurazione Questa articolazione tra vicinanza, eccessiva familiarità e importanza della messa a distanza si trova anche in Michel Foucault, in alcuni suoi saggi dedicati al compito attuale del pensiero filosofico15. Come è noto, in questi testi Foucault fa risalire la definizione del compito critico della filosofia alla risposta kantiana alla domanda sull’Illuminismo16. In essa, Kant avrebbe ben colto la caratteristica principale dell’Illuminismo, individuandola nel fatto che, da quel momento in poi, il pensiero filosofico non avrebbe più potuto evitare di confrontarsi con la sua attualità. Da allora, la filosofia sarebbe stata inevitabilmente chiamata interrogarsi sul proprio presente, a dirne i caratteri, e a prendere parte attiva ai movimenti di trasformazione che vi accadono e che lo differenziano rispetto al passato. Con Kant, quindi, si inaugurerebbe per il pensiero un modo specifico di essere in rapporto con l’attualità, che secondo Foucault può essere definito come atteggiamento critico. In particolare, Kant realizza questo atteggiamento critico quando individua, come carattere della propria attualità, l’uscita della ragione dalla minorità, e quando assume un compito specifico verso questo movimento di autonomizzazione della ragione, compito che consiste nell’incentivare l’autonomia della ragione, definendo in modo esatto i limiti legittimi del suo uso. Kant mette in luce dunque un tratto caratteristico della propria attualità e lo assume come punto di partenza per il proprio compito filosofico. In che modo, però, Foucault pone il proprio lavoro in continuità con la definizione kantiana dell’Illuminismo? Non si tratta, chiaramente, di dar seguito all’impresa critica kantiana, ma di salvaguardare quel doppio rapporto al presente messo in luce da Kant nella sua risposta sull’Illuminismo. Come ha ben sottolineato infatti Judith Revel, Foucault vede in quel testo In particolare M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 3-39; trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 11-47 e Qu’est ce que les Lumières?, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 1381-1397; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232. 16 I. Kant, Risposta alla domanda: cos’è illuminismo?, in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 45-52. 15


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la messa in opera di un doppio compito per la filosofia: uno da esercitare in relazione al presente, e uno da esercitare in relazione all’attualità. Del presente, infatti, la filosofia deve dire la genealogia, individuare il punto di emergenza storico delle pratiche che lo hanno fatto essere quale è; quando si rivolge all’attualità, la filosofia deve invece mettere in luce le possibilità aperte di trasformazione, divenendo allora sguardo rivolto più al futuro che al passato17. Revel spiega: Il punto di rottura possibile del presente è ciò che Foucault chiama l’attualità – l’attualità: la rottura intima del presente. L’attitudine è ciò che introduce una disgiunzione tra il presente e l’attualità. Il nostro presente è ciò che permane; la nostra attualità è ciò che interrompe il nostro presente attraverso l’introduzione di una differenza possibile che è importante identificare18.

Come si concretizza, quindi, questo doppio atteggiamento critico? Come è possibile introdurre questa “disgiunzione”, come identificare la “differenza” possibile? Per Foucault, una delle possibilità consiste nell’esercizio di quello che egli chiama sguardo “diagnostico”. Adottare un atteggiamento critico nei confronti del presente significa quindi, per Foucault, tentare di conferire al proprio sguardo uno specifico orientamento, che permette di afferrare il presente sotto un’angolatura diversa. Si tratta quindi di assumere in modo deliberato una certa prospettiva, per tentare di ottenere un effetto che Foucault definisce di “fragilizzazione” del nostro modo di essere attuale. Foucault afferma: La critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi. Ma, se la questione kantiana era di sapere quali siano i limiti che la conoscenza deve rinunciare a superare, mi sembra che, oggi, la questione critica debba essere ribaltata in positivo: qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario, obbligato? Si tratta, insomma, di trasformare la critica esercitata nella forma della limitazione necessaria in una critica pratica nella forma del superamento possibile19.

J. Revel, Passeggiate, piccoli excursus, regimi di storicità, in P. Cesaroni e S. Chignola (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France, Ombre Corte, Verona 2013, pp. 161-179. 18 Ivi, p. 178. 19 M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières?, cit., p. 1393; trad. it. cit., p. 228. 17


198 Laura Cremonesi Lo sguardo diagnostico che caratterizza la critica tenta quindi di cogliere la contingenza, l’arbitrario e la singolarità al cuore del nostro essere presente e di mettere in opera quella impresa di storicizzazione che Foucault ha da sempre indicato come compito effettivo della sua pratica archeologica e soprattutto genealogica. La sfida della critica consiste quindi nello spingere lo sguardo diagnostico il più lontano possibile, fino a fargli attraversare le strutture “universali” del nostro essere, a partire proprio dalla forma che ha attualmente la nostra soggettività. Foucault, però, fornisce anche ulteriori indicazioni sui possibili modi in cui questo sguardo critico si può esercitare. Ne La filosofia analitica della politica, ad esempio, egli propone una riflessione sui possibili rapporti tra filosofia e potere e sui vari ruoli che, storicamente, la filosofia ha svolto nei confronti del potere. Come è facile immaginare, per Foucault, il ruolo classico della filosofia, quello di “moderatore” che limita gli eccessi del potere con l’esercizio della ragione, non può che essere illusorio. Egli cerca allora di definire un altro modo in cui la filosofia si può situare nel campo strategico delle relazioni di potere: Da molto tempo sappiamo che il compito della filosofia non è di scoprire ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile ciò che è visibile, di far apparire quello che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi, da non poter essere percepito20.

Compito della filosofia è quindi quello di orientare lo sguardo, di “rendere visibile” il modo effettivo di esercizio del potere. Se abitualmente non percepiamo alcune relazioni di potere, è perché esse sono troppo familiari, intimamente connesse a noi, perché sono ciò che ha costituito la forma presente della nostra soggettività. Per percepirle, non occorre portare alla luce qualcosa che sarebbe invisibile, o nascosto, ma è necessario porre in atto un’operazione di distacco, di perdita di familiarità, di riorientamento della nostra attenzione. Per Foucault, in effetti, il modo di funzionamento del potere non è mai nascosto: non è coperto da un velo di ideologia, né siamo vittime di un’alienazione che ci impedirebbe di vedere le cose per come realmente sono. Per cogliere il modo di azione del potere basta riorientare lo sguardo e, ad esempio, scegliere bene la scala di grandezza: per M. Foucault, La philosophie analytique de la politique, in Dits et écrits II, cit., pp. 540-541; trad. it. La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault, vol. 3, cit., pp. 103-104. 20


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descrivere il modo in cui si è esercitato il potere in certi periodi e contesti storici, uno sguardo “microfisico” può essere più efficace di uno che si colloca al livello dei grandi apparati statali e che non riesce quindi a percepire i meccanismi disciplinari. Il compito della filosofia, come già accennato prima, non è però mai puramente descrittivo. Il gesto della critica è sempre duplice: se da un lato mostra l’azione dei meccanismi di potere nella costruzione del nostro essere storico, dall’altro essa apre lo spazio in cui un’attività di modificazione del presente può realizzarsi. Rendere visibile il presente e, nello stesso gesto, mostrarlo nella sua possibile alterità: per designare questo atto, Foucault impiega l’idea di “trasfigurazione”, che egli trae dall’esperienza letteraria e in particolare dai testi di Charles Baudelaire dedicati al pittore Constantin Guys. In Che cos’è l’Illuminismo?, per descrivere l’ethos su cui la critica deve basarsi, Foucault fa infatti riferimento alle pagine di Baudelaire in cui il poeta si sofferma sul modo in cui Constantin Guys disegna, descrizione che secondo Foucault riesce a isolare proprio quel tipo particolare di sguardo cui la critica deve far ricorso: uno sguardo capace di afferrare il momento presente nella sua realtà contingente e, al tempo stesso, di trasformarlo. [Guys realizza una] trasfigurazione che non è annullamento del reale, ma gioco difficile tra la verità del reale e l’esercizio della libertà […]. Per l’atteggiamento moderno, il grande valore del presente è indissociabile all’accanimento con cui lo si immagina, con cui lo si immagina diversamente da come è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è. La modernità baudelairiana è un esercizio in cui l’estrema attenzione al reale è messa a confronto con la pratica di una libertà che rispetta quel reale, e al tempo stesso lo vìola21.

La trasfigurazione è quindi un esercizio che richiede uno sguardo molto attento al reale, capace di captarne le linee di forza e, al tempo stesso, una decisione di renderlo “altro”. È quindi possibile pensare a un parallelismo tra lo sguardo critico che “rende visibile il visibile” e il lavoro della trasfigurazione in ambito estetico. Va però detto che, concludendo la sua lettura di Baudelaire, M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières?, cit., p. 1389; trad. it. cit., pp. 224-225. Il riferimento è a C. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, a cura di C. Pichois, Gallimard, Paris 1976, t. II, pp. 683-724; trad. it. Il pittore della vita moderna, in Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996, pp. 1272-1319. 21


200 Laura Cremonesi Foucault tiene a sottolineare che, per Baudelaire, questa trasfigurazione del reale rimane di natura puramente estetica e non può essere realizzata nell’ambito socio-politico. Per Foucault, invece, questa operazione appartenente all’ambito estetico sembra capace di offrire un modello possibile per la pratica filosofica nella sua funzione critica. Se poi proseguiamo la lettura del Pittore della vita moderna, che nel testo sull’Illuminismo kantiano Foucault affronta in modo relativamente rapido, ci imbattiamo in una definizione dello sguardo di Guys che ci riporta al nostro punto di partenza. Baudelaire scrive infatti: Si immagini un artista che sia sempre, con il suo spirito, nello stato del convalescente, e si avrà la chiave del carattere di G. Ora, la convalescenza è come un ritorno all’infanzia. Il convalescente possiede in sommo grado, come il bambino, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle all’apparenza più banali. […] Il bambino vede tutto in una forma di novità; è sempre ebbro. Nulla somiglia tanto a quella che chiamiamo ispirazione, quanto la gioia con cui il bambino assorbe la forma e il colore22.

Certo, la connessione tra infanzia e genio artistico in Baudelaire è complessa e non può essere adeguatamente affrontata in questo contesto, ma è interessante ritrovare, a proposito di Guys, quell’idea di spectator novus il cui sguardo si sofferma sulle “cose all’apparenza più banali” per afferrare in esse i tratti di novità. A partire da percorsi molto diversi, Hadot, Ginzburg e Foucault hanno tutti affermato la necessità di operare una modificazione profonda del nostro sguardo, per realizzare compiti di natura diversa, ma dotati di un’analoga finalità. Per Foucault, si tratta di dare concretezza al quel compito critico che, a partire dal testo kantiano sull’Illuminismo, ha indissolubilmente legato la filosofia al proprio presente e alla propria attualità; per Ginzburg, ad essere in gioco è il lavoro dello storico, che può essere utilmente orientato da uno sguardo distaccato nei confronti del suo oggetto di ricerca; per Hadot, infine, lo sguardo nuovo è parte di un esercizio spirituale volto, in primo luogo, a realizzare quello «spaesamento [dépaysement] interiore, [quella] trasformazione spirituale, che procura la pace dell’anima e un nuovo modo di vedere il mondo»23. C. Baudelaire, Le peintre de la vie moderne, cit., p. 690; trad. it. cit., p. 1280. P. Hadot, Le génie du lieu dans la Grèce antique, in Études de philosophie ancienne, cit., p. 322; trad. it. Il genius loci nella Grecia antica, in Studi di filosofia antica, cit., p. 283. Lo spaesamento è anche ciò che orienta la raccolta di saggi di Ginzburg, Occhiacci di legno, che si apre con il saggio sullo straniamento (cfr. pp. 11-13). 22 23


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Tre spunti, questi, di natura diversa ma dotati di finalità analoga, che possono quindi costituire, oggi, degli utili punti di partenza per pensare nel suo versante critico il lavoro filologico, storico e filosofico, inteso non solo come accurato strumento di indagine del proprio oggetto, ma anche nella sua utilità attuale e nel suo rapporto mobile con il presente. Laura Cremonesi Università degli Studi di Pisa cremonesilaura@gmail.com

. Spectator Novus: Transfiguration and Estrangement in Hadot, Foucault, and Ginzburg Spiritual exercises, estrangement and transfiguration: these are three different processes appearing in Pierre Hadot, Carlo Ginzburg and Michel Foucault’s works. In these authors, coming from different theoretical backgrounds, these processes share a common purpose, that is to modify their perspectives, reorient their methodologies and place their research objects at a useful distance. This article analyses these processes, identifies their common framework in the figure of the spectator novus – who is able to see things through a new point of view – and, in conclusion, it underlines the critical force of these processes, not only to renew some research fields but also to redefine the way in which philosophical thought could enter into a critical relation with its present. Keywords: Spiritual Exercises, Estrangement, Transfiguration, Pierre Hadot, Carlo Ginzburg, Michel Foucault, Critique.



“Drammatizzare” la scrittura

Il theatrum politicum di Michel Foucault Arianna Sforzini

Questo breve saggio intende mostrare come la “teatralità” sia un ele-

mento essenziale della logica dell’immaginario e dello stile foucaultiani, intendendo stile in senso nietzscheano: non soltanto la forma della scrittura ma uno strumento a valore filosofico-critico e quindi, per Foucault, politico. Il titolo Theatrum politicum (chiaramente un gioco di parole che richiama un celebre saggio foucaultiano del 1970, Theatrum philosophicum1), è un’espressione che riprendo da un articolo del 2004 di Alessandro Fontana, Il paradosso del filosofo2, pubblicato su aut aut. Vorrei in un primo momento ripercorre il contenuto di questo testo. Cercherò quindi di sviluppare l’intuizione che vi è contenuta secondo la quale il teatro come strumento della scrittura, un discorso teatralizzato, costruito attraverso scene e “personaggi concettuali”, sia una via particolarmente feconda per comprendere il valore critico delle analisi foucaultiane. Metterò infine più esplicitamente in luce la forza politica di tale discorso: ricostruire i molteplici “teatri storici della verità” diventa per Foucault un modo per ripensare una “politica della verità”, rimettere in questione il rapporto che intercorre fra verità e potere, mostrando non soltanto il ruolo che le relazioni di potere hanno nel determinare la nostra concezione della verità ma soprattutto come certe forme di “parlar-vero” divengano vere e proprie armi da far giocare nello spazio politico. Ne Il paradosso del filosofo, Fontana analizza la tesi centrale della Storia della follia (la fondazione del cogito attraverso il “coup de force” cartesiano che esclude la possibilità della follia per il Soggetto conoscente) come l’allestimento da parte di Foucault di una scena filosofica sulla quale recitano due personaggi – personificazioni di due movimenti contrari e complementari di una stessa costellazione di pensiero. Il primo è evidentemente M. Foucault, Theatrum philosophicum, in Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 943-967. 2 Cfr. A. Fontana, Il paradosso del filosofo, in «aut aut», n. 323 (2004), pp. 87-96. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 203-216.


204 Arianna Sforzini Descartes. Nelle Meditazioni metafisiche3 viene descritta un’esperienza di ascesi che, come Foucault mostra bene nel suo corso al Collège de France del 1981-1982, L’ermeneutica del soggetto, è completamente diversa da quella del mondo antico4: il dubbio cartesiano non richiede una lunga serie di esercizi preliminari, allenamento mentale e fisico per rendere il soggetto capace di conoscere e realizzare nel proprio corpo e nella propria esistenza la verità. Il soggetto è in sé, essenzialmente, capace di conoscere il vero, a patto che si sia spogliato di ogni pregiudizio, e cioè: di ciò che gli insegnano il corpo, la sensibilità, l’immaginazione, il sogno. L’esperienza della follia, è ben noto, è esclusa secondo Foucault d’entrée de jeu dallo spazio della soggettività: io che penso non posso ammettere la possibilità di essere folle se non voglio perdere immediatamente il mio statuto di soggetto di verità. Il cogito cartesiano è quindi un evento capitale nella storia del pensiero: il Soggetto, reso solido e impermeabile agli attacchi della Dis-ragione, diventa il padrone universale e assoluto della scienza del mondo, sovrano della natura che può conoscere e soprattutto piegare ai propri desideri attraverso i progressi della tecnica. Ora, analizzare, come fa Foucault, questo momento chiave della cultura occidentale non come un’evidenza nella storia continua e lineare della ragione, ma come un evento, una lotta che conosce vincitori e vinti, uno scarto di cui la ragione non può dire tutta la storia perché è essa stessa prodotto di questa storia, porta a domandarsi cosa ne è di tutto ciò che il progetto totalizzante della ragione non può includere nel suo movimento: la potenza tragica della déraison, il legame tra follia e verità, ma soprattutto la soggettività empirica fatta di passioni, desideri irrazionali, emozioni – l’individuo che è corpo, prima di essere anima. Foucault si trova quindi nella necessità di ritrovare ciò che resta al di fuori del cogito, in uno stile di analisi che non può chiaramente essere più quello del cogito. Ed è per questo, afferma Fontana, che Foucault drammatizza la propria scrittura – una scrittura definita, dice, non senza «una certa ingenuità da qualcuno “barocca”»5. Foucault costruisce l’affermazione del cogito come una scena, e ciò dovrebbe permettergli di prendere in conto anche Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche (1641), Laterza, Roma-Bari 1997. Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 3-36. 5 A. Fontana, Il paradosso del filosofo, cit., p. 89. È Blanchot che parla, a proposito della scrittura di Foucault, di un «grand style baroque» (M. Blanchot, Michel Foucault tel que je l’imagine, Fata Morgana, Paris 1988, p. 11). 3 4


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ciò che, in essa, ha perso la propria voce: ritrovarne protagonisti e comparse; attori e maschere; palcoscenico e “dietro le quinte”. La storia della follia come paradossale archeologia di un «silenzio»6, secondo un’espressione che si trova nella prima prefazione scritta per la Storia della follia nel 1961, diventa possibile perché l’analisi di Foucault procede per scene e non come un discorso codificato e puramente descrittivo. Fare dell’età classica una scena è un modo di eludere la questione della verità del cogito, per porre piuttosto quella della sua emersione in quanto paradigma di verità: il problema della scena sulla quale la cultura occidentale moderna ha separato il vero e il falso e creato i criteri per riconoscere e convalidare i discorsi veri7. Per Fontana, vi è un secondo personaggio al centro di questa scena foucaultiana del pensiero classico: Diderot. Fontana cerca infatti di rintracciare la storia di quell’individuo naturale, residuale, che il cogito aveva escluso dalla propria costituzione – l’ego empirico di fronte all’ego trascendentale che sarà ancora un problema essenziale per Husserl nelle sue Meditazioni cartesiane8. Il rapporto del soggetto concreto alla verità può trovare nel regno del cogito delle forme di espressione? Ebbene, esso si ritrova precisamente a teatro: il teatro delle passioni di Shakespeare e Racine, il teatro barocco, la “commedia dell’arte”, in cui «si attenua sempre più il confine tra il sogno e la realtà, tra il vero e il falso, tra l’essere e l’apparire»9; e poi ancora la commedia borghese di Molière, Marivaux, Goldoni. Questo teatro gioca costantemente con l’indistinzione e la confusione possibili tra essere e apparire, pensiero e corpo, conoscenza universale e calcolo particolare. Se un dubbio è presente, non è certo il dubbio controllato e metodico di Descartes ma il «dubbio che attraversa da parte a parte l’esistenza e il cui solo esito è quello di insediarsi nell’esistenza, nelle imprese, negli scontri, nelle prove della vita, all’orizzonte di una verità che non è ora solo incerta e sempre differita»10. Sulle scene del XVII e XVIII secolo, la verità dell’uomo risiede nelle dinamiche degli affetti singolari. Le passioni dominano il mondo, ridicolizzando la grandeur della ragione e formando quindi davvero «l’altra scena» della nostra modernità. Cfr. M. Foucault, Prefazione, in Follia e discorso. Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste. 1961-1970, Feltrinelli, Milano 1996 [2014], p. 50. 7 Cfr. M. Foucault, La scena della filosofia (1978), in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, pp. 213-240. 8 E. Husserl, Meditazioni cartesiane (conferenze pronunciate nel 1929), Bompiani, Milano 2009. 9 A. Fontana, Il paradosso del filosofo, cit., p. 90. 10 Ibidem. 6


206 Arianna Sforzini Diderot è l’emblema, con il suo Paradosso sull’attore11, di questa dialettica ambigua tra individualità e soggetto razionale. Consiglia a tutti coloro che vogliono diventare attori di spogliarsi completamente delle passioni personali, per recitare con la lucidità della ragione e la capacità analitica. È come un Trattato delle passioni12 per l’attore: Diderot propone un’ascesi che mima quella di Descartes, per governare e persino annullare l’io empirico al di qua del cogito. Bisogna spogliarsi del proprio ego naturale, non per fondare la certezza indubitabile della scienza ma per essere pronti a diventare il “guscio vuoto” di infiniti personaggi possibili, per lasciarsi penetrare dalle loro molteplici anime. L’attore è il fantoccio, il burattino dell’individuo moderno: non è più nessuno; può portare tutte le maschere del mondo, può giocare tutti i ruoli che la vita e il teatro gli impongono. L’attore disindividualizzato è l’altro versante della soggettività cartesiana, rappresentazione della «vana pienezza dell’apparenza»13, per utilizzare un’espressione della Storia della follia: una verità che non si identifica con la certezza scientifica ma con le verità plurali e contraddittorie del teatro; la verità al di fuori della ragione, la verità della follia e della sragione. Descartes e Diderot sono allora davvero i due «personaggi concettuali»14 della nostra modernità: da un lato, la reductio ad unum del molteplice et la disqualificazione del differente, il grande sogno imperialista della ragione occidentale; dall’altro lato, la dissoluzione dell’ego «nel multiplo, nella varietà, nella disseminazione teatrale dell’io» e delle «piccole verità» (secondo un’espressione di Nietzsche) della scena filosofica moderna. «Paradosso del filosofo: molti che divengono uno; paradosso dell’attore: uno che diviene molti. In questo chiasmo, in questo loro incrociarsi, si deciderà forse il destino di tutta la filosofia moderna»15. D. Diderot, Paradosso sull’attore (dialogo scritto tra il 1773 e il 1777, ma pubblicato postumo), Editori riuniti, Roma 1972 [1978], p. 95-96: «Insisto dunque a dire: “È l’estrema sensibilità che fa gli attori mediocri; è la sensibilità mediocre che fa l’infinita schiera dei cattivi attori; ed è l’assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi”. Le lacrime del vero attore discendono dal cervello, quelle dell’uomo sensibile salgono dal cuore. Nell’uomo sensibile sono le viscere che turbano eccessivamente la testa; nell’attore è la testa che reca talvolta un turbamento passeggero nelle viscere; l’attore piange come un prete miscredente che predichi sulla Passione; come un seduttore ai piedi di una donna che non ama ma che vuole ingannare; come un mendicante per la strada o sulla porta di una chiesa, che vi insulta quando non spera di commuovervi; o come una cortigiana che non sente nulla ma che va in smanie tra le vostre braccia». 12 Cfr. R. Descartes, Le passioni dell’anima (1649), Bompiani, Milano 2003. 13 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1963 [BUR,1976], p. 387. 14 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 51-76. 15 A. Fontana, Il paradosso del filosofo, cit., p. 92. 11


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L’intuizione filosofica forte di Fontana è quindi che la Storia della follia, nel suo ritrovare l’evento di svolta della storia della filosofia moderna, può essere letta come una scena in cui il teatro, sotto la maschera di Diderot, rappresenta l’“altro” per eccellenza del movimento centripeta e unificatore che sancisce da Descartes in poi la forma della nostra verità scientifica. Si comprende quindi come una scrittura filosofica teatrale, costruita tramite scene e personaggi, possa divenire per Foucault uno strumento di critica di tale dominio della ragione tecnica. La teatralizzazione della scrittura foucaultiana costituisce un vettore critico contro la sovranità del Soggetto dei filosofi e le teleologie della ragione. È in questa storia dalla doppia faccia, filosofia da un lato, teatro dall’altro, che si iscrivono la posizione e il percorso foucaultiano. […] Bisognerebbe analizzare gli effetti di queste posizioni sul pensiero e sulla scrittura di Foucault, ovvero su un pensiero che ha cominciato a separarsi dal soggetto sovrano, dalla verità del cogito, per aprirsi alla verità della follia, ai discorsi come pratiche, tecniche e strategie, a quelle grandi configurazioni concettuali senza soggetto che sono le epistème, che, com’è noto, si annunciano con quel folgorante squarcio sulle Meninas di Velasquez in Le parole e le cose16.

Foucault fa giocare nello stile delle proprie analisi una teatralità del discorso che è come il mimo inquietante della potenza rappresentativa della ragione cartesiana (che Foucault stesso descrive bene studiando l’archeologia della nozione di rappresentazione ne Le parole e le cose17). È evidente che, se si può parlare di una scrittura “per scene” da parte di Foucault, queste scene non sono “rappresentazioni” vere della realtà, mimesis, ma un modo per mettere in questione le rappresentazioni vere comunemente accettate e far emergere le verità altre nascoste dietro la presunta sovranità “chiara ed evidente” del soggetto trascendentale. Dal momento che la razionalità classica procede per costruzione di quadri, di categorie, di ordini rappresentativi del mondo, un’analisi condotta sì per scene, ma che rompa il legame tra teatralizzazione e rappresentazione, può giocare un ruolo di critica verso le forme tradizionali del sapere e del discorso occidentale18. Ivi, pp. 94-95. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967 [BUR, 1998], pp. 61-92. 18 Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 71-101. 16 17


208 Arianna Sforzini Di fatto, e lo si vede bene se si segue il dibattito critico attorno alla Storia della follia e in generale all’elaborazione del metodo archeologico, Foucault si trova di fronte al difficilissimo problema di dover fare un’analisi della storia dei nostri spazi discorsivi avendo a disposizione un armamentario di concetti e di forme del discorso che di quella storia sono il prodotto. Jacques Derrida lo mette perfettamente in luce, nella polemica con Foucault che segue la pubblicazione della Storia della follia. Muoversi sui bordi dei discorsi, là dove la parola razionale diventa delirio, dove un paradigma di sapere si trasforma in un altro, è un compito arduo e al limite contraddittorio, perché si tratterà sempre di un’analisi formulata in un certo linguaggio, del quale ci si può a giusto titolo domandare «quali saranno la sorgente e lo statuto»19. Non posso qui che accennarvi sinteticamente: quale rapporto la parola stessa di Foucault abbia con i discorsi di cui vuole essere un’archeologia resta un problema cruciale dei suoi primi testi20. Denunciare la sovranità della filosofia del Soggetto e delle dialettiche della storia implica l’invenzione, nella pratica di analisi e di scrittura, di un discorso eterogeneo a quelli di cui si sta facendo l’archeologia, di un linguaggio “eccentrico”, di rottura. È noto come il linguaggio letterario21 abbia rappresentato per Foucault negli anni sessanta un’esplorazione di questa possibile forza disgregante delle parole: la capacità di creare un discorso che contesti quelle stesse regole discorsive nelle quali esso nasce e viene elaborato. Le analisi genealogiche degli anni settanta e ottanta non fanno che spostare e arricchire la questione sul campo più propriamente politico, cioè materiale e conflittuale: non si tratterà più di trovare linguaggi “trasgressivi” rispetto a un certo ordine del discorso ma di pensare la possibilità effettiva di pratiche di resistenza, di spazi e di modi di essere altri . La teatralità diventa a mio avviso per Foucault uno strumento potente per pensare un’analisi critica efficace e interna al piano di discorso e di relazioni di potere su cui opera. La scena è il doppio immanente della realtà, che proprio in questo suo essere “simulacro”, identico e altro allo stesso tempo, può divenirne il luogo di interrogazione e di messa alla prova politica. Avendo cominciato citando un articolo di Fontana, ricordo che lo stesso Fontana, nel suo testo sulla scena per la Storia d’Italia EiJ. Derrida, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971 [1990], p. 44. 20 Cfr. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifesto libri, Roma 1996. 21 Cfr. M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971 [2004]. 19


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naudi22, studia la storia di tale concetto utilizzando insieme Nietzsche e Freud23, e distinguendo scena simbolica, immaginaria e reale. Non è certo un’accezione freudiana della scena che può essere applicata al discorso di Foucault. Ma resta vero che il “rimosso” dell’ordine del discorso ha sempre una ratio politica che può essere esplorata e interrogata. E proprio la teatralizzazione foucaultiana dei giochi di verità è un modo per drammatizzare tale ratio politica e metterla in questione. Non si esce dalla storia materiale, dalle intensità del presente, e non si esce, in un certo senso, dall’ordine del discorso in cui ci si trova a vivere ed eventualmente confliggere. Ma la scommessa di Foucault è quella di mostrare che è possibile immaginare un’attualità inedita, portando al limite le forme, le categorie, le dinamiche dell’ordine costituito sino a produrre in esse uno scarto costituente di verità e di libertà. Teatralizzando, per dirlo in un altro modo, le imposizioni discorsive e politiche, portando in luce la scena nascosta delle retoriche efficaci e assoggettanti dei poteri, dislocando i loro spazi d’imprigionamento. Giocando sul legame classico tra teatro e rappresentazione, per esempio, “mettendo in scena” Descartes, Foucault può utilizzare i concetti e gli strumenti drammatici nella propria scrittura per rompere dall’interno il paradigma rappresentativo, la tirannia del Soggetto che si appropria del mondo sotto il velo della presunta oggettività e purezza della scienza. Più in generale, il teatro come forma dello stile ci consente di ripensare oggi la questione decisiva della filosofia foucaultiana – la verità –, in uno spazio che non è quello del pensiero astratto bensì la “scena” presente della sua affermazione storica. E il semplice fatto di riferirsi a questa scena sposta l’interrogazione in spazi politici vuoti d’essenza – in senso filosofico tradizionale – ma densi di corpi, pratiche, conflitti, eccessi, cedimenti, sottrazioni: la storia della verità che le genealogie foucaultiane vogliono ricostruire non è la dialettica del suo progresso continuo, né una storia «delle “idee”, delle “strutture”, delle “mentalità”», ma storia che «si fa e si costruisce attorno e a partire da eventi, all’interno di scontri, resistenze, combattimenti tra avversari in lotta gli uni con gli altri: theatrum politicum»24, appunto. A. Fontana, La scena, in AA. VV., Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originari, Einaudi, Torino 1972, pp. 794-862. 23 Si veda anche A. Fontana, Un’educazione intellettuale, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 7-34. 24 A Fontana, Il paradosso del filosofo, cit., p. 95. 22


210 Arianna Sforzini In un testo scritto nel 1969 su Logica del senso di Gilles Deleuze, Foucault definisce in questi termini la novità della filosofia deleuzeana: C’è stata (Hegel, Sartre) la filosofia-romanzo; c’è stata la filosofia-meditazione (Descartes, Husserl). Ecco, dopo Zaratustra, il ritorno della filosofiateatro; non riflessione sul teatro; non teatro carico di significati. Ma filosofia divenuta scena, personaggi, segni, ripetizione di un evento unico e che non si riproduce mai25.

Credo che il pensiero stesso di Foucault sia un esempio potente di tale filosofia-teatro: «il teatro meraviglioso – continuando a citare Ariane s’est pendue – in cui si mettono in scena, sempre nuove, queste differenze che siamo, queste differenze che facciamo, queste differenze fra le quali ci muoviamo»26. O ancora, per prendere una definizione contenuta in un articolo del 1970 su Differenza e ripetizione di Deleuze: «La filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee, dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno; teatro dove, sotto la maschera di Socrate, scoppia improvviso il riso del sofista»27. La filosofia-teatro è un pensiero della pluralità, della spazialità, della differenza, dell’immaginario contro l’unicità del senso. Un pensiero che Foucault usa per costruire non un’ontologia dell’immanenza alla Deleuze, ma un’ontologia del presente: non una filosofia immanente della verità ma una genealogia filosofica e critica delle nostre forme di verità, in relazione alla pluralità delle pratiche politiche, discorsive, etiche che danno forma alla nostra esistenza nella storia. Sulla forza della scena come strumento di una storia politica della verità, Foucault si spiega in modo estremamente chiaro in un’intervista tenuta nel 1978 con il filosofo giapponese Watanabe: Forse fin dalla sua condanna da parte di Platone, la filosofia occidentale non si è quasi più per nulla interessata al teatro. Dovremo attendere Nietzsche per potere di nuovo assistere alla riproposizione, all’attenzione della filosofia occidentale, della questione del rapporto tra la filosofia e il teatro in tutta la sua intensità. E credo che la svalutazione del teatro all’interno della filosofia occidentale e un certo modo di porre la questione dello sguardo siano, in effetti, fra loro collegati. M. Foucault, Ariane s’est pendue, in Dits et écrits I, cit., p. 796 (traduzione mia). Ivi, p. 799 (traduzione mia). 27 M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., p. 967 (traduzione mia). 25 26


“Drammatizzare” la scrittura 211 Fin da Platone, e soprattutto a partire da Descartes, una delle questioni filosofiche tra le più importanti è quella di sapere in cosa consista il fatto di guardare le cose, o piuttosto nel cercare di sapere se quel che si vede è vero oppure illusorio, e quindi se ci troviamo nel mondo del reale oppure in quello della menzogna. La funzione della filosofia è così diventata proprio quella di separare il reale dall’illusione, la verità dalla menzogna. Il teatro, invece, è qualcosa che ignora totalmente tali distinzioni. Non ha nessun senso chiedersi se il teatro sia vero, se sia reale, o se invece sia illusorio, mendace. Il solo fatto di porre la questione provoca la scomparsa del teatro. […] Quel che […] vorrei fare è proprio tentare di descrivere il modo in cui gli uomini dell’Occidente hanno potuto vedere le cose senza mai porsi la questione se ciò che vedevano fosse vero oppure no. Vorrei inoltre tentare di descrivere il modo in cui loro stessi hanno allestito, per mezzo della messa in funzione del proprio sguardo, lo spettacolo del mondo. Poco mi importa, in fondo, che la psichiatria sia vera oppure falsa, poiché in ogni caso non è questo il problema che mi pongo. E poco mi importa che la medicina dica cose errate o dica delle verità: ai malati la cosa importa sicuramente parecchio, ma a me in quanto analista, se vogliamo, non è questo che interessa, tanto più che non ho alcuna competenza per stabilire la distinzione fra il vero e il falso. Quel che io, invece, vorrei conoscere è in che modo è stata messa in scena la malattia, ad esempio, o come si è messa in scena la follia, o il crimine. Il che equivale a chiedere in che modo la malattia, o la follia, o il crimine, sono stati percepiti, come sono stati recepiti, quale valore è stato attribuito alla follia, al crimine, o alla malattia, e che ruolo è stato loro assegnato. Quella che vorrei fare è allora una storia della scena su cui si è tentato, in seguito, di distinguere il vero e il falso, anche se ad interessarmi non è tanto questa distinzione, quanto la costituzione della scena e del teatro. È appunto il teatro della verità quello che io vorrei descrivere: in che modo l’Occidente si è costruito un teatro della verità, una scena della verità, una scena per quella razionalità diventata infine, ai giorni nostri, come un contrassegno dell’imperialismo degli uomini occidentali28.

Ritrovando le “scene” molteplici e diversificate, le scene politiche della verità è dunque possibile rovesciare completamente l’approccio filosofico al vero, e cioè parlare (e fare) della verità senza porsi la domanda sulla sua intrinseca verità o falsità. Un’analisi di questo genere scardina quindi le accuse di relativismo mosse da più parti alla filosofia foucaultiana. Come dirà Foucault stesso nel corso del 1983:

28

M. Foucault, La scena della filosofia, cit., pp. 213-214.


212 Arianna Sforzini Alle obiezioni che postulano la squalificazione del nichilismo/nominalismo/storicismo, bisognerebbe cercare di rispondere facendo un’analisi storicista nominalista nichilista di questa corrente. E con questo voglio dire: non si tratta di edificare nella sua sistematicità universale questa forma di pensiero e di giustificarla in termini di verità o di valore morale, ma si tratta di cercare di sapere come ha potuto costituirsi questo gioco critico, questa forma di pensiero29.

Ricostruire la “scena” del relativismo; le “scene”, i “giochi” di verità: ecco la risposta di Foucault a chi lo accusa di non interessarsi o di svuotare di senso la questione sulla verità. Possiamo ripensare in questa chiave l’affermazione, ripetuta più volte da Foucault, di non aver scritto che “finzioni”30. La finzione non è in questo senso un termine che esclude la questione della verità, ma che la ripensa in un contesto plurale e politico, cioè molteplice, differenziale, materiale: la verità teatrale dei doppi e dei simulacri contro l’imperialismo del Logos che si è imposto da Platone in poi (Platone che non a caso vedeva nel teatro tragico e nel tipo di sapere e di verità che esso veicolava il proprio avversario principale). Una filosofia-teatro, une filosofia-fiction pone la questione dell’“alterità” come arma contro ogni forma di riduzionismo e di dominazione. La scrittura “drammatica” di Foucault, giocando sui molteplici legami che il nostro sapere intreccia tra soggetto, verità e rappresentazione, è un modo di deformare creativamente la storia tradizionale della filosofia per metterne in luce le contraddizioni, l’impensato, i pregiudizi non dimostrati, come pure per dare spazio ai corpi che vi sono stati dimenticati, le voci infami, i piaceri marginalizzati. Esiste, a mia conoscenza, un solo tentativo foucaultiano di scrittura effettivamente costruita come una pièce di teatro. Si tratta di una conferenza tenuta il 7 aprile del 1972 all’università del Minnesota, intitolata: Cerimonia, teatro e politica nel XVII secolo. Purtroppo non possediamo M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 15-16. 30 In un’intervista del 1980 a M. Dillon Foucault afferma: «Je ne suis pas véritablement historien. Et je ne suis pas romancier. Je pratique une sorte de fiction historique. D’une certaine manière, je sais très bien que ce que je dis n’est pas vrai. […] J’essaie de provoquer une interférence entre notre réalité et ce que nous savons de notre histoire passée. Si je réussis, cette interférence produira de réels effets sur notre histoire présente. Mon espoir est que mes livres prennent leur vérité une fois écrits et non avant. Mon espoir est que mes livres prennent leur vérité une fois écrits et non avant» (M. Foucault, …, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 859). 29


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il manoscritto della conferenza, ma soltanto un riassunto, benché molto dettagliato, redatto da Stephen Davidson31. Foucault vi analizza un episodio chiave nella storia civile e politica francese: la rivolta dei Nu-Pieds che ebbe luogo nel 1639 in Normandia contro la pressione fiscale imposta da Richelieu, e che è un esempio estremamente importante delle resistenze contro la formazione della monarchia assoluta in Francia. Foucault è soprattutto interessato alle cerimonie volte a riaffermare il potere sovrano dopo la rivolta, che vengono analizzate e messe in scena dalla scrittura come se si trattasse di una tragedia classica, in cinque atti. Secondo il riassunto della conferenza, Foucault spiega all’inizio del suo discorso che il suo scopo è quello di una più vasta analisi delle cerimonie del potere politico dall’Antichità classica sino alla fine del XVIII secolo, dall’agora greca alle rivoluzioni che hanno costruito la modernità occidentale. Foucault sembra avere in mente il progetto di uno studio approfondito delle forme in cui «il potere assume forme visibili o teatrali e lascia la propria impronta sull’immaginazione o il comportamento di un popolo. Si tratterebbe di una vera e propria etnologia delle manifestazioni del potere politico, uno studio del sistema di demarcazione del potere all’interno della società»32. Benché l’idea del potere che lascia la propria traccia su di una popolazione sembra ancora influenzata in un certo modo da una concezione ideologica del potere (che Foucault rifiuterà nettamente in seguito), il progetto di un’esplorazione dei rituali politici è già un chiaro modo di dissociarsi da un’analisi tradizionale e strettamente giuridica del potere. È ben noto, Foucault interroga il potere non solo come un insieme di leggi, istituzioni, pratiche autoritarie, ma come un insieme teatrale di forze; non semplicemente un campo di battaglia ma un “dramma” di conflitti, rapporti di forza, insurrezioni di corpi, occupazione e invenzione di spazi: la manifestazione concreta di strategie, discorsi, verità storicopolitiche, e delle relazioni che tali giochi di verità intrattengono con le soggettività che vi sono coinvolte e costruite. S. Davidson, Michel Foucault. Cérémonie, Théâtre, et Politique au XVIIe siècle, in Acta I. Proceedings of the Fourth Annual Conference of XVIIth Century French Literature, University of Minnesota, Minneapolis 1972, pp. 22-23. Il testo è disponibile online: <http:// progressivegeographies.com/2013/10/10/foucaults-1972-lecture-at-minnesotasummary-now-available/> (consultato il 4-02-2016). L’episodio della rivolta dei Nu-Pieds verrà ripreso nel Corso al Collège de France del 1971-1972; cfr. M. Foucault, Théories et institutions pénales. Cours au Collège de France. 1971-1972, Seuil/Gallimard, Paris 2015. 32 S. Davidson, Michel Foucault. Cérémonie, Théâtre, et Politique au XVIIe siècle, cit., p. 22. 31


214 Arianna Sforzini Foucault non proseguirà per la strada abbozzata all’università del Minnesota e non riproporrà più in occasioni successive un’analisi storica costruita come una pièce e articolata in atti. Ma la teatralità in quanto forma estetico-politica dello stile attraversa, ho cercato di mostrarlo, la pratica intellettuale foucaultiana. L’idea di un’esplorazione della storia della verità come scena multiforme dei rapporti concreti, materiali, persino “corporei” fra veridizione, potere e soggettività ne è un asse portante. Tutta la tematica della parrhesia come coraggio del vero potrebbe essere ripensata nell’ottica di una verità-teatro – Foucault lui stesso parla d’altronde di “drammatica della verità” per indicare «l’analisi di quei fatti del discorso che mostrano come l’evento stesso dell’enunciazione possa influenzare l’essere dell’enunciatore»33, o, secondo un’altra definizione di “drammatica”: «non un qualunque accessorio ornamentale ma ogni elemento che, in una scena, fa apparire il fondamento di legittimità e di senso di quanto vi si svolge»34. In questo senso la filosofia-teatro diventa un elemento essenziale per ripensare il valore critico-politico delle riflessioni di Foucault. In una conferenza tenuta nel 1964 alle Facultés universitaires Saint-Louis, à Bruxelles, intitolata Linguaggio e letteratura», la critica come forma propria all’analisi letteraria contemporanea è definita da Foucault come lo studio della forza di raddoppiamento del linguaggio, l’«analisi delle distanze e delle differenze nelle quali si distribuiscono le identità del linguaggio»35. Non è certo una definizione banale: mettendo in campo, in relazione all’analisi dei discorsi, uno sforzo di ritrovamento non delle analogie, dei rapporti a una parola primordiale e originaria, ma delle differenze reali in cui si situano i sistemi di identità degli enunciati, la critica è per Foucault anche e soprattutto un tentativo di autoriflessione sull’incidenza e le linee di fuga del proprio linguaggio. Si tratta di ritrovare le linee di organizzazione ma soprattutto i punti di frattura dei discorsi. È dunque un esercizio etopoietico di libertà: in un mondo in cui i grandi miti di emancipazione e di rivoluzione politica sembrano aver esaurito la propria forza, afferma Foucault nel 1963, la parola M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 73. M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 202. 35 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, in «materiali foucaultiani», vol. 2 (2013), n. 3, p. 53. 33 34


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come esercizio critico resta la nostra sola via di contestazione e insurrezione36. La critica è quindi già nel 1964 un abbozzo di quella pratica effettiva della distanza e della differenza che Foucault cercherà di realizzare nei propri lavori e con la propria passione civile fino alla fine della sua vita: l’impegno vivo a pensare il mondo in modo diverso, un movimento che vuole toccare i limiti della nostra storia per realizzare un’«ontologia critica di noi stessi […], analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile»37. La critica come « simulacro della filosofia»38 è un altro nome per il teatro politico-filosofico che Foucault intende costruire con e attraverso il proprio pensiero: «il teatro meraviglioso in cui si mettono in scena, sempre nuove, queste differenze che siamo, queste differenze che facciamo, queste differenze fra le quali ci muoviamo». Arianna Sforzini Université Paris-Est Créteil arianna.sforzini@univ-paris-est.fr

. A “Dramatic Style” of Thought. Foucault’s Theatrum Politicum This article aims at exploring the “theatrical” values of Michel Foucault’s philosophy. It formulates the hypothesis that theatre as a style of writing – a M. Foucault, Le langage en folie, in La grande étrangère. À propos de littérature, Éditions de l’EHESS, Paris 2013, pp. 54-55: «Je crois qu’on pourrait dire ceci, qu’au fond, nous ne croyons plus de nos jours à la liberté politique, et puis le rêve, le fameux rêve d’un homme désaliéné est tombé maintenant dans la dérision. De tant de chimères, que nous est-il resté? Eh bien, la cendre de quelques mots. Et notre possible, à nous autres hommes d’aujourd’hui, notre possible, nous ne le confions plus aux choses, aux hommes, à l’Histoire, aux institutions, nous le confions aux signes. […] Au XXe siècle on écrit – je pense bien entendu à la parole littéraire –, on écrit pour faire l’expérience et pour prendre la mesure d’une liberté qui n’existe plus que dans les mots mais qui là s’est faite rage. Dans un monde où Dieu est mort définitivement et où on sait malgré toutes les promesses, de droite et de gauche, de la droite et de la gauche, qu’on ne sera pas heureux, le langage est notre seule ressource, notre seule source». 37 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 229, 231. 38 M. Foucault, Linguaggio e letteratura, cit., p. 53. 36


216 Arianna Sforzini theatrical discourse built upon scenes and “conceptual characters” – is an extremely fruitful device to understand the critical force of the Foucauldian analyses. The essay focuses in particular on the political implications of this theatrical discourse. The multiple historical theatres of truth described by Foucault in his works are a way to formulate new “politics of the truth”: a way to call into question the traditional interactions between truth and power, by showing not only the role of power relations in the foundation of our conception of truth, but also the possibility for specific forms of “truth-telling” to become weapons and forces performing our actual political space. Keywords: Michel Foucault, Theatre, Philosophy, Dramatic, Double, Truth, Power.


Il dir-vero come elemento del “morire bene”? Sulla creazione di Aides in Francia Guillaume le Blanc

I.

In un articolo del 1971 intitolato Gli usi sociali del corpo, il sociologo Luc Boltanski evoca l’esistenza di una «cultura somatica»1 che si diffonde in maniera differenziata tra le classi sociali. Egli nota in particolare che «il linguaggio che serve a esprimere le sensazioni morbose e, più in generale, a parlare della malattia, costituisce l’esperienza che i soggetti sociali hanno della malattia e allo stesso tempo la sua espressione». Questo significa che il linguaggio medico-scientifico informa il modo in cui i malati si presentano, ma anche quello in cui essi possono voler cercare, opponendosi a questo linguaggio medico-scientifico, il loro linguaggio, per definirsi, se non proprio al di fuori della medicina, almeno ai suoi margini. L’esperienza della malattia non si riduce dunque alle condizioni di possibilità o di impossibilità del «colloquio approfondito», ma affiora allo stesso modo in tutto un linguaggio della malattia, la cui portata non si riduce all’annuncio terapeutico della nosologia della malattia, nella diagnosi, ma deve essere restituita all’interno dell’esperienza dello stesso malato. È possibile affermare, almeno come punto di partenza di questa nostra analisi, che la storia contemporanea della medicina potrebbe interpretarsi come l’affermazione della soggettività del paziente di fronte a quella del medico. È stato spesso rilevato che, nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, il paziente è diventato così attivo nella relazione terapeutica da risultare ormai come una persona che si cura da sé (autosoignant), capace attraverso il suo sapere e i protocolli tecnici a sua disposizione, di dializzarsi da solo. Come viene sottolineato da Claudine Herzlich e Janine Pierret, «chi si cura da solo attraverso la propria condotta afferma il suo diritto a tenere un discorso speL. Boltanski, Les usages sociaux du corps, in «Annales. Économies. Sociétés. Civilisations», vol. 26 (1971), pp. 205-233. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 217-231.


218 Guillaume le Blanc cifico sul suo corpo malato»2. Che si parli di «homo medicus» come fa Patrice Pinell3 o di «homosanitas» come per Daniel Delanoe e Pierre Aiach4, si tratta in ogni caso di sottolineare in che modo, specialmente nel quadro delle malattie croniche, al paziente è richiesto di partecipare e di affiancare il medico per il mantenimento della propria salute. Patrice Pinell, in particolare, mostra come la nozione di «homo medicus» sia apparsa tra le due guerre, durante le prime campagne di prevenzione lanciate dalla Lega contro il cancro (Ligue contre le cancer), quando si cercava di coinvolgere il pubblico e di fare di ogni malato un «medico ausiliario». Egli sottolinea quanto la formazione di un pubblico di malati ideali, che aveva a disposizione un solido linguaggio medico, sia stata esplicitamente richiesta proprio in vista del governo dei malati da parte dei medici nella lotta contro il cancro. II. Insomma, la progressiva pubblicizzazione della malattia che si conclude con la promozione delle competenze del malato è uno degli eventi salienti della nostra modernità medica. Ed è proprio questo che mi propongo di interpretare alla luce dell’emergenza del dir-vero nella relazione con la morte, concentrandomi in particolare sulle persone colpite dall’Aids e sull’emergere di collettivi come Aides durante gli anni ottanta. Ovviamente questa pubblicizzazione progressiva della malattia può essere interpretata in diversi modi. a) È innanzitutto il segno più evidente di una democratizzazione della questione medica. Essa concerne sempre meno il governo dei medici e, al contrario, si diffonde ampiamente nella società, attraverso riviste specializzate sempre più numerose e tramite collettivi di pazienti. Questo implica una riflessività medica senza eguali, con la sorprendente conseguenza, sottolineata dallo storico Georges Vigarello, che i Francesi non hanno esitato a dichiarare il 75% in più delle malattie tra il 1970 e il 1980 mentre, nello C. Herzlich e J. Pierret, Malades d’hier, malades d’aujourd’hui, Payot, Paris 1984, p. 271. P. Pinell, Naissance d’un fléau. Histoire de la lutte contre le cancer en France (1890-1940), Metailié, Paris 1992. 4 D. Delanoe e P. Aiach, L’ère de la médicalisation. Ecce homosanitas, Economica, Paris 1998. 2 3


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stesso periodo, questo incremento non presenta alcun rapporto con la cifra delle patologie reali5. b) Questa pubblicizzazione della malattia si svolge nel quadro di quel che il sociologo Dominique Memmi chiama una «bio-oggettivazione di sé», rispetto alla quale il riferimento alla salute è solo un caso particolare6. Con questa locuzione ci si riferisce al fatto che l’espressione dell’individualizzazione contemporanea passa in modo consistente attraverso pratiche che investono il corpo, ma anche attraverso forme di riflessività che fanno del corpo il loro oggetto: «Quello che qui colpisce è la promozione di un pensiero capace di costituire il dato corporale al contempo come uno degli ambiti oggi più rilevanti di costruzione individuale e come problema, come oggetto di riflessività»7. c) La pubblicizzazione della malattia deve essere interpretata come l’apparizione di attori politici nuovi che si sono dati come obiettivo la promozione della difesa del «corpo minacciato»8. In Les enjeux politiques de la santé, Didier Fassin sottolinea che la salute è un «oggetto costruito a posteriori in termini di concorrenze e lotte tra agenti, sia per enunciare quel che essa è, sia per farne prevalere alcuni modelli»9. Lo stato di queste lotte fissa la politica della salute a un dato momento. Tuttavia, questa politica non deve essere interpretata solo come un governo dei malati da parte dei medici, ma allo stesso tempo anche come un governo della malattia da parte dei malati in relazione alle lotte per autodefinirsi e alle pratiche che li contrappongono ai medici. La salute non riguarda dunque il solo corpo fisico, ma anche la politicizzazione del corpo minacciato all’interno del corpo sociale nel suo insieme. E questa politicizzazione si caratterizza nella nostra società, a differenza delle società tradizionali, attraverso l’emergere di uno «spazio politico della salute», nel quale si assiste a una «presa crescente del politico sulle differenti manifestazioni, normali e patologiche, individuali e collettive, della vita umana»10, nel momento in cui, G. Vigarello, Le sain et le malsain. Santé et mieux-être depuis le Moyen-Âge, Seuil, Paris 1983, p. 306. 6 D. Memmi, Faire vivre et laisser mourir. Le gouvernement contemporain de la naissance et de la mort, La Découverte, Paris 2003, p. 284. 7 Ivi, p. 288. 8 Cfr. D. Fassin, L’espace politique de la santé. Essai de généalogie, PUF, Paris 1996; Id., Les enjeux politiques de la santé. Études sénégalaises, équatoriennes et françaises, Karthala, Paris 2000. 9 D. Fassin, Les enjeux politiques de la santé, cit., p. 10. 10 D. Fassin, L’espace politique de la santé, cit., p. 39. 5


220 Guillaume le Blanc come nel caso dell’epidemia di Aids, la politica è messa alla prova dalla salute. A questo titolo la politica è contemporaneamente sia la politicizzazione della salute dispiegata nel quadro nazionale di una sanità pubblica, di un ministero della salute, sia la politicizzazione della salute riaffermata da nuovi collettivi come Act Up, Aides, se si pensa all’Aids, ma potremmo tranquillamente aggiungere Medici senza frontiere, Médecins du Monde in altri contesti, secondo nuove forme di militanza che, come viene sottolineato da Dominique Memmi, si concentrano sulla «sorte riservata al corpo»11. d) La politicizzazione della malattia come elemento centrale della pubblicizzazione della malattia si sviluppa per mezzo del corpo dei malati nella dimensione della vulnerabilità. Con questo si intende che la difesa del corpo minacciato, oggetto non per forza della politica della sanità pubblica e della politica dei nuovi attori politici (associazioni e simili), è soprattutto una difesa del corpo vulnerabile. Il riferimento alla vulnerabilità, che circoscrive un nuovo gioco di linguaggio proprio alle società a noi contemporanee, non rinvia necessariamente a una ontologia della vita del corpo mortale, come una lettura depoliticizzata della storia dell’Aids potrebbe farci credere. Tale riferimento fa apparire piuttosto una nuova coscienza sociale della fragilità, che si organizza secondo due ingiunzioni, fatte parallelamente alla situazione della malattia e del malato posto davanti alla malattia stessa, ovvero da un lato l’inserimento di un capitolo «sanità pubblica» che modifica la situazione che genera vulnerabilità, dall’altro, l’inserimento di un capitolo «comportamentale» individuale che deve modificare la risposta degli individui nei confronti della situazione di vulnerabilità alla quale essi sono esposti. Questo equivale a dire che la vulnerabilità, come categoria, non riguarda tanto i rischi connessi al corpo degli individui. La logica del riferimento alla vulnerabilità è pertanto duplice. Da una parte, essa intende agire sull’ambiente che circonda i corpi per modificarne certe proprietà o per gestirle: se esiste un rischio alimentare, in funzione della considerevole diffusione sul mercato di prodotti ricchi di grassi, carboidrati e sodio, tale logica si sforzerà di limitare la produzione di grassi, di carboidrati e di sodio negli alimenti preconfezionati grazie all’elaborazione di codici di buona condotta presso i gruppi industriali e i poteri pubblici. D’altra parte, essa mira a modificare le condotte alimentari individuali, sviluppando logiche del mangiar bene. La vulnerabilità «permette così di aggiornare il lavoro del corpo sociale per affrontare un rischio e contener11

D. Memmi, Faire vivre et laisser mourir, cit., p. 283.


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ne la concretizzazione»12 sul doppio versante di una modificazione delle condizioni negative dell’ambiente e di una responsabilizzazione dell’agire individuale dei soggetti vulnerabili. III. Che cosa bisogna mantenere dell’argomentazione della progressiva pubblicizzazione della malattia nella relazione con il dir-vero? È importante diffidare dell’illusione secondo cui la pubblicizzazione della malattia caratterizzi una liberazione del malato rispetto al potere medico. Come se assistessimo a un nuovo umanesimo medico. In verità, occorre piuttosto considerare gli spostamenti che vengono operati all’interno delle relazioni di potere che circolano nell’ambito medico. Lungi dall’interpretare la promozione del malato in quanto soggetto della relazione terapeutica come indice di un riequilibrio di quest’ultima che accompagna la riattualizzazione dell’etica medica, ci sembra più giudizioso, sulla scia di Foucault, esplorare il tipo di economia di potere che vi si trova all’opera. Questo non significa in alcun modo rinunciare alla critica del potere medico, ma comprendere tale promozione del malato tanto come un ostacolo del potere medico, quanto come una condizione del suo rilancio, e questo a partire dalla sua storicità. Riprendiamo una frase che Foucault pronuncia in un’intervista: «Quello che cerco di analizzare […] è il modo in cui gli individui, liberamente, nelle loro lotte, nei loro scontri, nei loro progetti, si costituiscono come soggetti delle loro pratiche o al contrario rifiutano le pratiche che vengono loro proposte»13. Possiamo a questo proposito fare riferimento all’Aids e alla testimonianza di Daniel Defert, compagno di Michel Foucault, in un volume di interviste Une vie politique. Rispondendo a una domanda postagli sulle cause della morte di Foucault e sull’ignoranza che egli aveva rispetto alla natura della malattia che se l’è portato via, cioè l’Aids, Defert nota: «Per me non è possibile che qualcuno muoia a questa età per una malattia che i medici conoscevano e lui non conosceva»14. In questa testimonianza appare una M.-H. Soulet, La vulnérabilité, une ressource à manier avec prudence, in La vulnérabilité saisie par les juges en Europe, Éditions Pedone, Paris 2014, p. 23. 13 M. Foucault, Interview de Michel Foucault (1984), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1512; trad. it. Intervista, in Discipline, poteri, verità, a cura di M. Bertani e V. Zini, Marietti, Genova-Milano 2008, p. 197. 14 D. Defert, Une vie politique, Seuil, Paris 2014, p. 95. 12


222 Guillaume le Blanc relazione capovolta con la verità. La verità della malattia è nota al medico, mentre è ignorata dal malato ed è ignorata poiché il medico se la tiene per sé, non giudicando necessario comunicargliela. Diverse sono le ragioni di questo difetto di comunicazione. Una riguarda la natura del potere medico. Il medico, padre di famiglia, conosce quel che è bene per il figlio (il paziente), quel che per il suo bene gli può essere comunicato e quel che non può esserlo. Il contratto terapeutico, all’origine del mito della clinica, si basa su un’appropriazione della verità della malattia da parte del medico, contro la quale i malati, o i collettivi di malati come soggetti delle pratiche mediche, si sono ribellati. L’altra ragione riguarda la natura cosiddetta vergognosa di questa malattia, identificata, all’inizio, con l’omosessualità, «un cancro gay, sarebbe troppo bello»15, freddura che ironizzerebbe sull’inscrizione della perversione nella natura, che assumerebbe la forma di disfunzione genetica cellulare. La realtà è che l’apparizione dell’Aids riguarda la dissimmetria paziente/medico nel rapporto con la verità. E quel che è da discutere è proprio questa appropriazione della volontà di verità da parte del medico e l’elusione del malato. I collettivi come Act Up o Aides criticarono l’esclusività di una verità non condivisa. Nella conferenza alla Société française de Philosophie nel 1978, Qu’est-ce que la critique?, Foucault scrive che «la critica è il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità»16. Così definita, la critica è l’atto di interrogare il potere della verità e la verità del potere, circoscrivendone gli effetti in rapporto alla condotta dei soggetti che queste due economie della verità e del potere implicano. Occorre ricordare che l’importanza della critica deriva proprio dalla sua capacità di interrompere o di contestare la relazione apparentemente organica tra verità e potere. Il diritto dei malati a disporre della verità della loro malattia è stato uno degli obiettivi della creazione di Aides. Questa politicizzazione del diritto alla verità da parte dei malati si accompagna a una importante posta in gioco etica: la persona affetta da Aids non è la sua malattia. Si opera una disidentificazione di sé nel momento in cui si è esposti al rischio della potente identificazione del malato con la sua malattia. La portata critica dei collettivi come Aides proviene dal fatto che il diritto del Ivi, p. 92. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, Vrin, Paris 2015, p. 39; trad. it. Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 40. 15 16


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malato a disporre della verità della sua malattia, lungi dall’identificarlo con essa, gli conferisce al contrario la possibilità di disidentificarsene. È questa posta in gioco che è possibile analizzare più nel dettaglio riferendosi alla creazione di Aides. Si tratta di circoscrivere qui una delle modalità della soggettività malata nella storia di Aides (come momento di una problematizzazione della malattia Aids) che costituisce la presa di parola e la sua capacità di testimoniare la malattia in quanto critica del potere medico. Daniel Defert propone una distinzione interessante, nel solco di Foucault, tra la confessione e la testimonianza: «Non chiamo confessione una parola collettiva»17. La confessione riguarda il sacramento della confessione e si dà in una pastorale: «dimmi chi sei», che può avere la forma di una pastorale cristiana (confessa i tuoi peccati), ma che può ugualmente assumere la forma di una pastorale medica, congiungendo l’esistenza supposta scandalosa del malato e il male della malattia, oppure in modo più neutro, favorendo autobiografie di moribondi, di malati terminali, che sono, per riprendere l’espressione di Dominique Memmi, «autobiografie da istituzione», cioè racconti di sé che confermano le attese dell’istituzione medica, rivelando nella narrazione la struttura benevola del governo dei malati in ospedale. La testimonianza riguarda una pratica completamente diversa e acquisisce senso attraverso l’emergenza di una parola collettiva che essa stessa rende possibile. La confessione riguarda il sé, la testimonianza costruisce un «noi». Si tratta di costituire, grazie alla testimonianza, una politica di noi stessi nel senso in cui Foucault, nella versione americana di Che cos’è l’Illuminismo?, parla di «ontologia critica di noi stessi»18 che egli definiva come la produzione di un «ethos» riferito alla critica dei limiti storici che assoggettano gli individui e alla capacità di superarli. Ora, la testimonianza di un malato affetto da Aids deve mettere in crisi l’appropriazione della verità della malattia da parte del potere medico proprio nello stesso momento in cui intende promuovere una propria cultura omosessuale. Si tratta nello stesso tempo di rifiutare il monopolio del possesso della verità che ha il medico e di dire che cosa ne è, in termini di esistenza, del «noi» omosessuale sconvolto dalla malattia. Là dove l’attenzione mediatica si sofferma D. Defert, Une vie politique, cit., p. 97. M. Foucault, What is Enlightenment?, in Dits et écrits II, cit., p. 1396; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 231. 17 18


224 Guillaume le Blanc sulla magrezza del malato, sui sarcomi di Kaposi, sulla necessità di indossare una tuta speciale per entrare in contatto coi malati, l’obiettivo è quello di fare emergere l’esistenza di persone portatrici del virus, di restituire visibilità a coloro che la vergogna sociale relega nell’invisibilità. Il testo fondatore della costituzione di Aides precisa proprio questi obiettivi. Esso si presenta come una lettera indirizzata da Daniel Defert ad alcuni amici il 25 settembre 1984 cui seguono alcuni spunti di riflessione e di iniziativa. L’obiettivo è la de-medicalizzazione dell’Aids: «Sapevo che la questione dell’Aids non poteva essere ridotta ancora per molto tempo a una questione medica»19. Solo questa de-medicalizzazione dell’Aids poteva introdurre certe rivendicazioni sul modo di essere omosessuali. Il testo enuclea quattro elementi: a) La questione dell’Aids non può più essere considerata solo come una questione medica. b) Si tratta di istituzionalizzare il rapporto con la malattia e, in maniera più generale, con la vulnerabilità là dove la cultura gay si è invece costruita attorno ai valori della salute e della giovinezza. c) Ci si deve rendere conto del nuovo sapere che si sta costituendo per i gay e rifiutare l’arbitrio della parola del medico: «La comunità sarà presto la popolazione più informata dei problemi immunitari, la più allertata sulla semiologia dell’Aids, e i medici limiteranno sempre più i loro scrupoli a tacere o meno la cosa al malato»20. d) Si devono ripensare i rapporti tra sessualità e identità rifiutando la chiusura dell’identità omosessuale entro la sola pratica sessuale per riaprirla a tutti gli affetti, fino a includervi il rapporto con la morte. Bisogna quindi reinventare la soggettività gay de-familiarizzando il suo rapporto con la morte e la sessualità: «non tornerò a morire dalla mamma. Rischiamo di lasciarci rubare una parte essenziale dei nostri legami affettivi. De-familiriazziamo la nostra morte così come la nostra sessualità»21. In questo testo fondatore di Daniel Defert è notevole che, a partire dalla definizione di un inventario dei bisogni dei malati, si proponga una politica di sostegno che si sviluppa allo stesso tempo nella direzione di risposte istituzionali, di lavori di ricerca e di informazione, il cui obiettivo è chiaramente la trasformazione della soggettività gay tramite l’appropriazione della verità della malattia. Da qui si vede che il dir-vero è un elemento fondamentale se non del vivere bene almeno del morire bene. La queD. Defert, Une vie politique, cit., p. 97. Ivi, p. 233. 21 Ivi, p. 234. 19 20


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stione medica è così de-medicalizzata mediante una rivendicazione precisamente parresiastica: non si tratta tanto del fatto che il malato conquista la verità della sua malattia, quanto piuttosto del lasciarsi trasformare da questa verità e questo persino nella relazione con la morte. La soggettività del malato trova nell’appropriazione della verità della malattia la possibilità di trasformarsi attraverso questa appropriazione. Partendo dalla convinzione ribadita nel testo fondatore di Aides che «ogni cultura presuppone lo sviluppo di modelli del morire bene»22, l’appropriazione del sapere della malattia da parte dei malati, ma anche da parte dei parenti e degli amici, per come vengono intesi da Aides (ovvero come coloro che svolgono il ruolo di sostegni) deve rendere possibile questo morire bene. La natura di questo morire degnamente può essere raggiunta solo se la competenza del malato e dei suoi amici è riconosciuta in quanto tale. Questo presuppone un nuovo interesse della medicina verso lo spazio del malato che va oltre la sua malattia e si riferisce non solo al suo proprio sapere, ma anche alla sua esistenza, la quale deve essere riconosciuta all’esterno dell’ospedale perché sia presa meglio in considerazione al suo interno: «L’organizzazione ospedaliera stessa è obbligata a fare entrare tra le sue mura e nella sua disciplina i ritmi della vita economica dei pazienti se non vuole accrescere la loro esclusione professionale» – riconosce Daniel Defert in una conferenza del 1989 intitolata Un nuovo riformatore sociale: il malato23. Questo interesse rivolto al malato è ampiamente costruito dal malato stesso o dai collettivi di malati grazie all’appropriazione del sapere medico. Questa appropriazione non significa solo una volontà di sapere, ma al contempo anche una volontà di potere, intesa come potere di vivere diversamente attraverso il sapere. Essa sola permette, per l’esattezza, una relativa padronanza delle condizioni di vita propria alle persone affette da Aids: «L’irruzione forse più radicale delle persone contagiate dall’HIV per controllare il loro ambiente corrisponde alla loro appropriazione del sapere medico»24. Tale appropriazione del sapere, nel collettivo, permette cosi un’auto-organizzazione dei pazienti su basi alternative rispetto a quelle dell’ambiente familiare. Col passar del tempo questa auto-organizzazione deve indurre una nuova soggettività che non si lascia confondere Ivi, p. 236. Ivi, p. 242. 24 Ivi, p. 243. 22 23


226 Guillaume le Blanc con la malattia. La volontà di dir-vero si accompagna così alla possibilità di viversi diversamente come malato, e questo fino all’imminenza della morte. La prova migliore è data dai movimenti comunitari americani che hanno contrapposto al termine malato l’espressione «persona che convive con l’Aids». Là dove il malato è ancora associato alla malattia che lo definisce e lo identifica negativamente, l’espressione «persona che convive con l’Aids», resa possibile dalla lotta dei collettivi che si organizzano a partire da un diritto al sapere e alla verità, ricrea le condizioni di una identificazione in grado di favorire nuove soggettivazioni, nuove maniere di diventare soggetto persino nella morte. In nessun modo allora il dir-vero è allora un elemento del morire bene soltanto perché costruirebbe una verità della morte accettabile per la persona affetta da Aids, esso lo è semmai poiché crea un rapporto aperto a inedite modalità di considerare la morte come oggetto di riflessione. Ribadire l’espressione «persona che convive con l’Aids» significa rifiutare che la vita di un essere vivente colpito dall’Aids sia normata attraverso la morte: è solamente per un essere vivente capace di vivere persino nel rapporto con la morte che si mantiene la possibilità del morire bene. Questa disidentificazione della persona malata con la persona che convive con l’Aids è l’obiettivo finale della creazione di Aides; la formula che chiude il testo-manifesto di Defert la porta alla luce del sole: «Aides deve essere l’inversione dell’Aids»25. IV. Tale disidentificazione del soggetto affetto da Aids porta con sé un’ambiguità fondamentale che tocca da vicino le relazioni tra medicina e parrhesia. Da una parte, attraverso il dir-vero si tratta di conquistare una nuova forma-soggetto irriducibile alla definizione di sé come malato che l’identificazione della malattia continua a produrre. Dall’altra, tuttavia, questa nuova forma soggetto sembra potersi raggiungere solo a partire da una certa politicizzazione della medicina che presuppone il valore morale, politico e sociale del malato di fronte al medico. Come comprendere il fatto che la possibilità di divenire se stessi, resa possibile dal sapere-potere dei malati (organizzati in collettivi), eccede la forma25

Ivi, p. 237.


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soggetto del malato per giungere così alla prova finale della disidentificazione che sembra permettere la pratica parresiastica da parte dei malati? Può esistere una parrhesia dei soggetti malati che possa operare come una pratica di disidentificazione rispetto allo spazio della malattia e dunque rispetto al riferimento alla soggettività malata? La soggettività del malato può essere una cosa diversa da una soggettività malata grazie alle pratiche del sé che si rapportano al dir-vero della malattia? È proprio questa la posta in gioco pratica che, come abbiamo visto, la creazione del collettivo Aides presuppone, ma può benissimo essere la posta in gioco pratica di ogni soggetto colpito da una qualunque malattia. In che modo il soggetto può essere così diverso dal malato fino a giungere al potere di opporsi al medico o a una équipe medica? Questo problema così formulato dal punto di vista del malato e del suo ethos, può essere riformulato anche dal punto di vista della medicina a partire dalle seguenti questioni. La medicina può affrancarsi da un’ermeneutica del sé, ovvero, da un insieme di tecniche di confessione che costringono il malato a dire chi sia? Egli lo può e lo deve dire davvero? Sono queste due questioni che, infine, bisogna considerare in quanto ciò che le unisce è proprio il problema comune del riferimento alla verità. Ovvero, la verità della malattia comporta, come sua conseguenza obbligata, la verità del malato? Bisogna passare da una all’altra? Quel che può rendere necessario un tale passaggio è che, per meglio gestire il trattamento medico, sembra si debba risalire alla psicologia del malato, interessarsi per esempio alle ragioni che egli può avere avuto per non seguire un certo trattamento. I dispositivi medici oggi sembrano essere, per questa ragione, dei dispositivi psicologici che fanno parlare il malato, spesso per governarlo meglio, per disporre di lui nel migliore dei modi. Questa generalizzazione della parola del malato è legittima per diverse ragioni: a) Dal punto di vista dello stesso dispositivo, il riferimento alla parola del malato può ripristinare la sua singolarità. La medicina è preservata come la clinica contro il suo punto di svolta esclusivamente tecnico, ritenuto disumanizzante. b) La presa di parola del malato riequilibra la dissimmetria di potere e sapere tra il medico e il paziente, quando una volta essa era sbilanciata solo a favore del medico. Essa contribuisce a una riformulazione del contratto terapeutico sulla base dello scambio di due competenze. Occorre ovviamente affrettarsi a restituire questa presa di parola del malato all’interno del dispositivo medico nel quadro di una


228 Guillaume le Blanc generale ascesa del ragionamento psicologico nell’insieme dei dispositivi sociali contemporanei. Ma resta la questione di sapere perché la medicina come sapere-potere abbia infine convocato la verità del malato nel processo che giunge a rivelare la verità della malattia. È una cosa che non è ovvia se la collochiamo nella prospettiva di una storia della medicina e del pensiero medico, a lungo ripiegati sulla convinzione, che ancora era formulata all’inizio del ventesimo secolo dal chirurgo Leriche nella sua Filosofia della chirurgia (Philosophie de la chirurgie), secondo cui il malato è un elemento di disturbo nel dispiegarsi della nosologia patologica che formula la diagnosi. Come interpretare la promozione del malato nella storia dei saperi/poteri medici? Questo ci spinge di nuovo a chiederci da quale punto di vista la lotta dei collettivi di malati (come Aides) ha permesso una politicizzazione della medicina di cui uno degli effetti è stato il rafforzarsi del potere del malato, ma la cui conseguenza ha potuto essere la creazione ex nihilo di un valore del malato come soggetto che esiste in quanto tale. In una tale prospettiva come si fa a ridare senso alla possibilità della disidentificazione del malato di Aids o peggio ancora del «sidaïque» e della «persona che convive con l’Aids» promossa invece da Aides? L’introduzione che Foucault fa del concetto di parrhesia, se la si colloca nel gioco più ampio della politica della verità, per come è messo in pratica dalla duplice prospettiva di un governo dei soggetti attraverso la verità e di una critica degli effetti di potere della verità, si rivela molto interessante, poiché mostra come il dir-vero può comprendersi contemporaneamente come una critica del governo medico e come un’invenzione di forme di soggettività particolari da parte dei malati fino al punto estremo che corrisponde alla prova della disidentificazione relativa allo statuto del malato stesso. Come Foucault scriveva in uno dei suoi ultimi testi, «Il soggetto e il potere»: «Occorre promuovere nuove forme di soggettività»26. Che cosa esattamente è in questione nel concetto di parrhesia? Nella prima lezione del corso del 1984, Foucault stabilisce che la nozione di parrhesia sia, da un punto di vista storico, una nozione politica27. Essa si è M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1051; trad. it. Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244. 27 Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011. 26


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diffusa nel contesto della democrazia ateniese del V secolo a.C., ma è solo successivamente che si è sviluppata nell’ambito della morale. Nel contesto politico della polis ateniese, la parrhesia designa il diritto di ogni cittadino libero, maschio e adulto, di parlare davanti all’Assemblea e di esprimere liberamente il proprio parere su ogni questione di pubblico interesse. La parrhesia dà la possibilità a ogni cittadino di dire tutto28. Il tema del filosofo-re mise un freno alla diffusione di questo ambito del dir-tutto. Dal momento che la città per essere ben governata deve essere in mano ai filosofi, la parrhesia viene distinta dall’isegoria: «Non è perché tutti possono parlare che ognuno può dire il vero»29. Il fatto che la parrhesia sia stata sottratta al demos produce effetti importanti: a) La verità è una questione di potere nel senso di una tecnologia di governo piuttosto che un semplice affare dei governati. b) I governati non sono più considerati soltanto capaci di dire il vero ma, in quanto tali, anche di riconoscerlo. O se lo sono non possono esserlo all’interno del campo politico, ma solo costituendosi come filosofi. c) Foucault mostra che la parrhesia diventa un valore filosofico quando smette di essere un diritto politico garantito a tutti i cittadini30. Da questa analisi storica si può notare che il concetto di parrhesia è impiegato secondo due usi distinti, ma che, in contesti storici differenti, come ad esempio il nostro, possono incontrarsi. Esso definisce per tutti un dovere di veridizione nei confronti della città, un obbligo democratico di dir-vero. Ma definisce anche una maniera di condursi come soggetto morale. La parrhesia, come viene sottolineato da Foucault, è agganciata alla polis e all’ethos. È una differenziazione al contempo politica ed etica che presuppone di conoscere non solo il vero bene della città, ma anche il proprio bene. In termini foucaultiani, la parrhesia è una tecnologia di governo di sé. È una trasfigurazione etica della politica così come una trasfigurazione politica dell’etica. In cosa questo ragionamento di Foucault risulta pertinente per pensare il nostro problema, l’esperienza della déprise de soi del malato all’interno delle forme di sapere-potere medico? Solo di recente il dir-vero è diventato un valore per la medicina. Ma occorre innanzitutto osservare che esso Ivi, p. 33. Cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les techniques de l’ordinaire, Vrin, Paris 2015, p. 250. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 246. 28


230 Guillaume le Blanc è stato per molto tempo un valore del medico piuttosto che del malato. Dire il vero al malato si impone sempre più come il dovere etico per eccellenza da parte del medico. Se le modalità etiche di questo dire il vero sono oggetto di discussione, l’imperativo etico di dire il vero è diventato un’evidenza. L’obbligo di dire il vero al malato sulla natura della malattia da cui è affetto si inscrive nella nuova economia del sapere-potere medico di oggi. Tale obbligo può essere considerato come la maggiore clausola del rispetto che si deve all’integrità del paziente. Ma può essere anche analizzato come una prospettiva supplementare sull’assegnazione di potere del medico nei confronti del paziente. Allo stesso modo questo obbligo può valere come effetto di giurisdizione (juridicisation) della relazione terapeutica, che impone nuove assegnazioni di responsabilità al medico. Tutto questo sarebbe stato inimmaginabile senza il contro-potere che gli stessi pazienti e collettivi di pazienti hanno saputo opporre alle équipe di medici. Tuttavia alla fine di questa analisi resta la questione di cosa diventano le relazioni tra verità e malato. Se è possibile affermare che la verità del malato non si confonde con quella della malattia, sembra che la critica dell’identificazione del malato con la verità della sua malattia presupponga, a rigore, la prova dell’affrancarsi rispetto allo statuto di malato, imposta, in termini più affermativi, dalla malattia. L’ultima posta in gioco di una parrhesia del malato sarebbe allora la capacità di vivere come tutti gli altri. È quello che sembra promettere la pratica di un dir-vero dei malati. Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Guillaume le Blanc Université Paris-Est Créteil guillaume.le-blanc@orange.fr

. Truth-Telling as an Element of “Dying Well”? About the Creation of Aides in France In this paper I discuss the emergence of truth-telling in relation with death, focusing in particular on Aids patients and on the constitution of collective groups like Aides during the 1980s. Only in recent years truth-telling acquired a positive value in medicine, but mostly on the side of the physician, who must


Il dir-vero come elemento del “morire bene�? 231 tell the truth to her patient about the nature of her illness. In this new economy of medical power-knowledge, however, what kind of relations are established between the patient and truth? I argue that the main stake of a practice of truthtelling on the side of the patients lies in their ability to live like everybody else. Keywords: Bioethics, Body, Truth-Telling, Illness, Parresia, Medical Power, Resistance, Vulnerability.



Disciplinare e guarire

La “realtà” come posta in gioco del potere psichiatrico secondo Foucault Philippe Sabot

A partire dal Corso al Collège de France del 1972-1973, La società puni-

tiva, Foucault s’impegna in un’approfondita riflessione sulla fabbricazione del potere che si basa prima sull’analisi della forma-prigione come forma sociale, ovvero come «forma secondo la quale il potere si esercita all’interno di una società»1. Questa analisi lo porta ad individuare gli elementi di un’apprensione concettuale di quel che venne da lui chiamata una «società del potere disciplinare»2, fondata sull’acquisizione di abitudini valenti come norme sociali: la prigione, intesa come un «dispositivo di cattura» (appareil de séquestration), «fabbrica un tessuto di abitudini attraverso cui si definisce l’appartenenza sociale degli individui a una società. [Questo dispositivo] fabbrica qualcosa come la norma […]. La sua funzione è di produrre individui normali»3. Un interessante prolungamento di una tale analisi si trova nel Corso del 1973-1974 dedicato al Potere psichiatrico. Tra il primo e il secondo tuttavia la sua riflessione si modifica in due punti. In primo luogo, non sono più studiate le funzioni normalizzanti della prigione, con il loro collegamento ad un apparato di produzione4, questa volta l’interesse verte piuttosto sul manicomio, identificato come una «scena di affrontamento»5 in cui il medico e il folle si fronteggiano nel quadro di un’operazione terapeutica considerata soprattutto nell’ottica di una relazione di potere 6. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard, Paris 2013, p. 230. 2 Ivi, p. 240. 3 Ivi, p. 242. 4 Ivi, p. 201: «La coppia sorvegliare-punire si instaura come rapporto di potere indispensabile alla fissazione degli individui sull’apparato di produzione, alla costituzione delle forze produttive e caratterizza la società che possiamo chiamare disciplinare». 5 M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, Seuil/ Gallimard, Paris 2003, p. 11; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (19731974), Feltrinelli, Milano 2004, p. 21. 6 In questo senso, Il potere psichiatrico riprende e sposta le analisi che in Storia della follia erano state dedicate alla nascita del manicomio. Foucault si spiega molto chiaramente su questo punto nella lezione del 7 novembre (pp. 14ss.; trad. it. cit., pp. 24ss.). 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 233-246.


234 Philippe Sabot In un certo senso, il modello della «guerra civile» che Foucault proponeva di estendere all’insieme del corpo sociale7 per comprendere la logica interna dei suoi meccanismi punitivi, si trova reinvestito come matrice del «potere psichiatrico» a livello di questo particolare spazio disciplinare che è il manicomio. Successivamente, uno degli obiettivi di questo studio è di mettere in luce più chiaramente rispetto al Corso precedente, e secondo una modalità immanente alle pratiche manicomiali dell’inizio del diciannovesimo secolo, il modo in cui è emersa una forma disciplinare di potere che ha sostituito un potere cosiddetto sovrano. Da questo punto di vista, Il potere psichiatrico mette ormai l’accento su una distinzione cui Foucault aveva solamente accennato nella conclusione del suo Corso su La società punitiva: Fino al diciottesimo secolo, ci si trovava in una società in cui il potere aveva la forma visibile, solenne e rituale della gerarchia e della sovranità […]. Nel diciannovesimo secolo, ciò attraverso cui il potere si esercita non è più questa forma solenne, visibile, rituale della sovranità, ma l’abitudine imposta ad alcuni, o a tutti, rispetto alla quale, innanzitutto e fondamentalmente, alcuni vi si trovano obbligatoriamente piegati. In queste condizioni il potere può perfettamente abbandonare tutta questa sontuosità che è propria ai suoi rituali visibili, ogni suo drappeggio e tutte le sue insegne. Esso assumerà la forma insidiosa, quotidiana, abituale della norma, ed è così che si nasconde come potere e si potrà presentare come società8.

Il Corso dedicato a Il potere psichiatrico tenta per l’appunto di mostrare come questo tipo di potere, un potere disciplinare, al contempo si elabora e si nasconde nelle pratiche manicomiali riguardanti la «proto-psichiatria»9, M. Foucault, La société punitive, cit., p. 14: «[…] per fare l’analisi di un sistema penale, quello che in primo luogo dev’essere delineato è la natura delle lotte che, in una società, si svolgono attorno al potere. È quindi la nozione di guerra civile che deve essere messa al centro di tutte queste analisi sulla sfera penale». 8 Ivi, pp. 242-243. 9 La pratica manicomiale che Foucault designa come «proto-psichiatria» è «quella che si sviluppa tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi venti o trenta del XIX, prima dell’apparizione del grande edificio istituzionale costituito dal manicomio, e che in Francia possiamo collocare nel corso del decennio 1830-1840, più esattamente nel 1838, allorché viene promulgata la legge sull’internamento e l’organizzazione dei grandi ospedali psichiatrici» (M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 27; trad. it. cit., pp. 35-36). 7


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ovvero sviluppandosi indipendentemente dai modelli epistemologici e terapeutici che si erano già imposti in medicina. Si tratta dunque per Foucault di render conto del tipo di razionalità medica o extra-medica che organizzava queste pratiche di una psichiatria in corso di istituzionalizzazione, e di cogliere anche quali sono le sue poste in gioco in termini di relazioni di potere, quali sono le “tattiche” e le “strategie” che comandano tali relazioni di potere. Questa analisi, rivolta a cogliere in qualche modo la nascita della clinica psichiatrica come punto di emergenza di una nuova forma di potere, non ha come punto di partenza le conoscenze psicopatologiche di cui questa clinica sarebbe la realizzazione, l’applicazione pratica. E non ha inizio neppure con un’analisi dell’istituzione psichiatrica, ma si concentra piuttosto sulle stesse pratiche manicomiali, per come sono restituite dagli archivi della proto-psichiatria, attraverso il discorso degli psichiatri stessi, mediante i protocolli o le scene di cura che essi descrivono empiricamente e grazie alle ragioni che adducono per giustificarle. Quel che si può leggere in questi archivi è sicuramente un certo rapporto di forze tra lo psichiatra e la follia, un rapporto che si concatena nella forma di una relazione di potere di tipo disciplinare, caratterizzato in primo luogo da quello che Foucault designa come «contatto sinaptico corpi-potere» o ancora come «congiunzione corpo-potere»10. Tale congiunzione permette così di caratterizzare questa nuova modalità di potere che arriva in qualche modo a sostituirsi col potere sovrano e a spiegare diversamente la razionalità propria all’operazione terapeutica in atto nella clinica psichiatrica all’inizio del diciannovesimo secolo. I corpi in questione designano infatti singolarità somatiche che non possono in alcun modo essere ridotte ai corpi anatomici su cui un sapere medico arriverebbe a individuare i sintomi di un’affezione patologica per adattarli a una griglia di analisi nosografica relativa a un sapere preordinato. Si tratta piuttosto di corpi individuali presi in maniera permanente da un regime di sorveglianza e di registrazione generalizzato, di corpi assoggettati a questo potere di controllo regolare e sottile che ne isola le funzioni e ne organizza i movimenti nello spazio e nel tempo, che li costringe in una «trama di scritture», in «una sorta di plasma grafico che li registra, li codifica, li trasmette lungo la scala gerarchica e finisce col subordinarli a un ordine centralizzato»11. 10 11

Ivi, pp. 42 e 44; trad. it. cit., pp. 48 e 50. Ivi, pp. 50-51; trad. it. cit., p. 57.


236 Philippe Sabot Emerge così, nel cuore dell’esercizio del potere disciplinare, una nuova forma di individualizzazione che non è più l’individualizzazione ascendente propria del potere sovrano, che isolava l’individualità del sovrano rispetto alla molteplicità indistinta dei suoi sudditi, ma piuttosto una «individualizzazione tendenziale molto forte in relazione alla base»12, relativa cioè alle singolarità somatiche. È di nuovo importante sottolineare che l’istituzione psichiatrica non è il terreno privilegiato di elaborazione o lo spazio chiuso di questa forma di individualizzazione propria al potere delle discipline. Essa vi trova al contrario le sue proprie condizioni di possibilità. Questo significa allora che la nuova economia dell’esercizio del potere che Foucault designa nel suo Corso come “disciplina” viene fin dall’inizio a sovradeterminare l’esercizio terapeutico della nascente psichiatria, affiancandolo in qualche modo con una dimensione extra-terapeutica che la spiega e la condiziona. Questa dimensione extra-terapeutica dell’operazione terapeutica in opera nella clinica psichiatrica rinvia esattamente a queste procedure d’individualizzazione e di assoggettamento che sono dirette verso la sottomissione di una forza, verso la padronanza continua di una volontà indocile, caratteristica della follia13. La posta in gioco di queste analisi de Il potere psichiatrico appare allora in tutta la sua chiarezza. Si tratta di sottomettere la psichiatria a una genealogia delle sue pratiche che, anziché appoggiarsi a una pratica e a un sapere medici già dati, che garantivano in qualche modo la loro neutralità oggettiva attraverso il riferimento a una norma scientifica di verità, rinvia direttamente i suoi obiettivi più evidenti (la guarigione dei malati) a una scena di affrontamento, a tattiche e a manovre che trovavano nell’esercizio Ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 64. Questa analisi delle forme di individualizzazione relative alle modalità di esercizio del potere, per come essa è presentata nella lezione del 21 novembre 1973, è ripresa in Sorvegliare e punire, in particolare attraverso l’idea che «le discipline segnano il momento in cui si effettua quello che potremmo chiamare il rovesciamento dell’asse politico dell’individualizzazione». Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, pp. 225-226; trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 (1993), pp. 210-211. 13 Foucault cita così Pinel e la definizione che egli dà della terapia psichiatrica: «l’arte di soggiogare e domare, per così dire, l’alienato, ponendolo in una condizione di stretta dipendenza da un uomo che, per le sue qualità fisiche e morali, sia in grado di esercitare su di lui un imperio irresistibile e di mutare il concatenamento vizioso delle sue idee» (M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 10; trad. it. cit., p. 20). 12


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di un potere disciplinare un sostegno efficace per raggiungere i loro fini, ovvero alla sottomissione e alla padronanza regolata di questa forza insurrezionale della follia per come si manifesta tanto nell’indocilità del corpo quanto nell’indocilità della volontà del folle. All’interno di questo dispositivo genealogico, la clinica proto-psichiatrica propone di conseguenza un particolare modo di annodare il potere e il sapere. Infatti, il potere disciplinare per come funziona all’interno dell’ospedale psichiatrico, mentre risulta impiegato a fabbricare corpi disciplinati, produce e sviluppa tutto un sapere legato a questo insieme di tecniche di sorveglianza generalizzata, di condizionamento e di addomesticamento dei gesti, dei discorsi e delle condotte individuali. L’eterogeneità di partenza tra medicina e psichiatria sfocia dunque in un potere psichiatrico individualizzante che, al posto di affondare su competenze e conoscenze mediche precedenti, è piuttosto il rovescio di un sapere disciplinare individualizzato fondato, per riprendere l’espressione dello stesso Foucault, sull’applicazione della funzione soggetto su una singolarità somatica14. Un tale sapere non è direttamente elaborato nella forma di teorie psichiatriche, ma si costituisce piuttosto come una specie di razionalità implicita che si apre proprio all’interno dei protocolli terapeutici elaborati dagli psichiatri dentro il manicomio e in contatto con i folli, nel gioco di un rapporto di forze. Si spiega così il rapporto con la verità, che poteva essere determinante quando la follia era considerata come un errore15, o esso stesso preso in un certo rapporto con la realtà a partire dal quale si ingaggia l’affrontamento del medico e del folle sulla scena della proto-psichiatria. In definitiva sembra proprio che sia questo rapporto con la realtà a formare qui la posta in gioco del sapere-potere che comanda l’insieme delle operazioni terapeutiche messe in atto nella clinica proto-psichiatrica sotto forma di tattiche disciplinari. La ridefinizione della stessa follia in termini di potere e l’avversità registrata sin dall’inizio del diciannovesimo secolo16, illumina in un certo senso l’orizzonte strategico entro il quale si dispiegano queste tattiche. Il potere Ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 64. Ivi, p. 9; trad. it. cit., p. 19. 16 Ibidem: «a caratterizzare il folle, a rendere possibile l’individuazione della follia del folle [a partire dall’inizio del XIX secolo], è proprio l’irruzione di tale forza, è il fatto che si scateni in lui una determinata forza, una forza che non viene dominata, forse non dominabile […]». 14 15


238 Philippe Sabot che il folle oppone allo psichiatra è infatti chiaramente un potere di opposizione – di resistenza – alla realtà, un “rifiuto” di accordarsi con la realtà: il potere folle di affermare l’irreale in quanto reale e di volere l’irrealtà (fino al delirio). È questa determinazione pratica della follia che va allora a fissare la forma stessa assunta dall’operazione psichiatrica: quella di un contropotere da opporre al potere della follia in vista di “sottometterlo” e di “domarlo” (come diceva Pinel). Ma quale potere si può opporre a una volontà che afferma l’irrealtà, se non la realtà stessa – a condizione tuttavia che si abbia la capacità di fare funzionare la realtà stessa come potere, di dare alla realtà il potere della realtà? È attorno a tale questione che ruota l’analisi foucaultiana della proto-psichiatria per come si è sviluppata all’inizio del corso del 1973-1974. È allora possibile chiedersi come la transizione verso un regime di potere di tipo disciplinare permetta di risolvere praticamente questa tensione, la cui principale posta in gioco è il reale o il rapporto con la realtà. Qual è l’effetto del reale proprio del potere disciplinare? Una tale questione appariva formulata da Foucault sin dall’inizio della lezione del 14 novembre 1973, quando presenta, come contrappunto della «scena iniziale, fondatrice, della psichiatria»17 – quella della “liberazione” dei folli fatta da Pinel – un’altra scena, altrettanto spettacolare, ma getta una luce differente sul dispositivo proto-psichiatrico e sulla « manipolazione regolata e concertata dei rapporti di potere»18 che lo caratterizza. Questa altra scena è quella che riporta lo stesso Pinel nel suo Traité médicophilosophique sur l’aliénation mentale (sezione V, § vii): quella dell’internamento del re d’Inghilterra, Giorgio III19. In realtà, queste due scene «sono in un rapporto di continuità»20: dicono la stessa cosa, anche se solo la prima ha richiamato l’attenzione della storiografia psichiatra attenta a promuovere, per suo tramite, il mito di un trattamento umanitario dei folli. Ma per Foucault ciò che queste scene hanno di fatto in comune è soprattutto il fatto di re-inscrivere la pratica psichiatrica entro l’orizzonte della trasformazione del potere sovrano come rapporti di potere fondati sulla disciplina. Ivi, p. 21; trad. it. cit., p. 29. Ibidem; trad. it. cit., p. 30. 19 Ivi, p. 22; trad. it. cit., p. 30. Il racconto di Pinel è ripreso da Foucault nella lezione del 14 novembre 1973, prima di essere analizzato in modo dettagliato nelle pagine successive. 20 Ivi, p. 30; trad. it. cit., p. 38. 17 18


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In queste condizioni, il racconto dell’internamento di Giorgio III offre proprio un inatteso chiarimento sulla gloriosa narrazione della nascita della psichiatria, tradizionalmente ricostruito a partire dal gesto liberatore di Pinel: […] questa scena di liberazione non è propriamente ispirata a principi di carattere umanitario; credo anzi che la si possa esaminare come se fosse l’espressione di un rapporto di potere, o meglio, come la trasformazione di un determinato rapporto di potere, con la violenza che lo caratterizzava – la prigione, la cella, le catene, ovvero tutto ciò che faceva ancora parte della vecchia forma del potere di sovranità – in un rapporto di assoggettamento, che è essenzialmente un rapporto di disciplina21.

La genealogia della psichiatria che propone Foucault si sofferma dunque sulla trasformazione storica dei rapporti di potere che sembrava compiersi all’inizio del diciannovesimo secolo e che è correlativa della ridefinizione della follia in termini di volontà indocile e di avversione rispetto al rapporto col reale. Ed è proprio questa trasformazione a essere letteralmente incarnata da Giorgio III, sovrano divenuto folle e destituito, a causa della sua stessa follia, della sua sovranità a beneficio di un’altra forma di potere, quella che regna nel manicomio e che è basata sulla disciplina. La scena22 dell’internamento del re si presenta dunque in primo luogo come una scena di intronizzazione reale, ma parodica, ironizzata, e alla fine radicalmente capovolta quando «chi dirige il trattamento [i.e. lo psichiatra] gli dichiara che non solo non è più sovrano, ma deve ormai essere docile e sottomesso»23. Docilità e sottomissione formano allora l’obiettivo terapeutico che lo psichiatra assegna alla sua azione che capovolge la potenza del monarca in impotenza e dipendenza, e applica ormai al corpo nudo del re la potenza anonima, quotidiana, regolare della disciplina, come risposta al disturbo del suo comportamento. All’esercizio di un potere di cui il sovrano, con gli attributi simbolici e le cerimonie rituali che autentificavano Ibidem; trad. it. cit., p. 39. Il manoscritto della lezione del 14 novembre 1973 precisa, a proposito della nozione di “scena” qui impiegata, che deve essere intesa non già come un «episodio teatrale», ma come «un rituale, una strategia, una battaglia» (ivi, p. 34; trad. it. cit., p. 43). Questo non esclude una certa drammatizzazione nell’esercizio strategico dell’operazione psichiatrica che riposa in larga parte su una manipolazione della realtà. 23 Ivi, p. 22; trad. it. cit., p. 30 – citazione estratta dal racconto di Pinel. 21 22


240 Philippe Sabot la sua onnipotenza, era la causa universale ed efficiente, si sostituisce dunque la forma di un potere efficace perché mira soprattutto a produrre una serie di effetti sul suo “bersaglio”, ovvero sul «corpo e la persona stessa del re spogliato delle sue insegne, e che da questo nuovo potere deve essere reso “docile e sottomesso”»24. Questa scena di internamento e il trattamento psichiatrico di cui Giorgio III è stato oggetto illustra quindi perfettamente il rovesciamento dell’asse di individualizzazione del potere25 in quanto questo rovesciamento inaugura una forma paradossale di potere, allo stesso tempo anonimo (quanto al suo esercizio) e individualizzante (quanto al suo “bersaglio”): dal momento che è internato, isolato dal mondo in cui poteva esercitare il suo potere, «le funzioni essenziali della monarchia sono […] messe tra parentesi» e il monarca è oramai ridotto «a quello che egli è, vale a dire al suo solo corpo», è soltanto un corpo tra altri corpi, un corpo da sottomettere e da disciplinare. La stessa guarigione non è niente di più che l’effetto di questo disciplinamento del corpo per come è operato nel manicomio attraverso l’esercizio di «un potere anonimo, senza nome, senza volto; di un potere che risulta suddiviso tra diverse persone e che – ed è questo quel che più conta – si manifesta attraverso l’implacabilità di un regolamento che non viene nemmeno formulato, perché, in fondo, nulla viene detto, […] tutti gli agenti del potere restano muti. Il mutismo del regolamento va a occupare, in un certo senso, il posto lasciato vuoto dalla degradazione del re»26. Tuttavia, la scena d’internamento e di guarigione di Giorgio III presenta agli occhi di Foucault anche un altro interesse, che rinforza ancor più il suo valore esemplare. Infatti, il potere sovrano che Giorgio III sembra potere pienamente incarnare solo al di fuori dello spazio manicomiale, diventa, una volta condotto all’interno di questo spazio, l’utopia di un potere finito, ormai anacronistico e vano, ridotto al livello di una gesticolazione senza fondamento. Ma, in questa dimensione utopica, egli appare allora anche come la figura della follia par excellence. Al potere del sovrano si sostituisce quindi il potere sovrano della follia che consiste nell’affermare come reale questo potere destituito, divenuto irreale. Il potere psichiatrico ha quindi a che fare, con Giorgio III, con la follia di un re decaduto che Ivi, p. 23; trad. it. cit., p. 32. Cfr. supra, nota 12. 26 M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 23; trad. it. cit., p. 31. 24 25


Disciplinare e guarire 241

pretende ancora di avere quel potere che ha perduto, che pretende e vuole essere re quando ormai non lo è più27. La dichiarazione del medico che dice al re «che non è più sovrano» è dunque una dichiarazione di guerra: l’operazione terapeutica si dispiega sullo sfondo di un affrontamento, di una lotta condotta (in nome della guarigione del folle) contro l’insieme di comportamenti indotti dalla dichiarazione avversa («sono il re»), contro l’ostinata volontà che afferma un potere irreale, e di conseguenza, la realtà del potere della stessa follia. La posta in gioco della lotta che ha luogo all’interno del manicomio, la cui finalità è la guarigione del folle (da intendere come la vittoria sulla sua follia), è quindi proprio la realtà stessa28. La razionalità pratica del trattamento degli alienati nella proto-psichiatria dipende strettamente da questa posta in gioco che investe l’intento terapeutico e ordina il disciplinamento dello spazio manicomiale. Si tratterà infatti, in questo spazio, di fare funzionare la realtà stessa come potere, non semplicemente come ciò che è simmetrico rispetto a questa irrealtà affermata come reale dalla follia (questo significherebbe riconoscergli una certa realtà e dunque fare il gioco del folle, o persino a considerare la stessa follia solo come un gioco…), ma come un supplemento di realtà, facendo funzionare la realtà stessa come sovra-potere (sur-pouvoir): lo psichiatra, almeno per come comincia a funzionare nello spazio della disciplina manicomiale, sarà decisamente signore della realtà […]. Lo psichiatra è ormai colui che deve conferire al reale quella forza stringente grazie alla quale il reale potrà impadronirsi della follia, attraversarla per intero e farla sparire come follia. Lo psichiatra è diventato colui il quale – ed è proprio questo aspetto a definirne la funzione e il compito – dovrà assicurare al reale il supplemento di potere necessario affinché possa imporsi alla follia, ma anche chi, inversamente, dovrà togliere alla follia il potere di sottrarsi al reale29. Oppure quando non lo è. Foucault sottolinea infatti che «troviamo sempre una certa affermazione di onnipotenza» (ivi, p. 147; trad. it. cit., p. 140). Questa può esprimersi specialmente sotto forma di mania di grandezza o di delirio di sovranità: si crede di essere e lo si afferma. 28 Questo punto è affrontato da Foucault a partire dalla lezione del 12 dicembre 1973 e si articola a una questione generale relativa alla coppia disciplinare-guarire: «Come e in quale misura può essere attribuito un effetto terapeutico a uno spazio, a un sistema disciplinare [come il manicomio]? […] Ma in che modo si ritiene che questo spazio disciplinare possa guarire?» (ivi, p. 128; trad. it. cit., p. 124). 29 Ivi, pp. 131-132; trad. it. cit., p. 127. 27


242 Philippe Sabot Ritroviamo qui l’idea che la follia si presenta come forza sregolata, delirio pericoloso, potere che minaccia il reale stesso quando gli attribuisce la forma delirante dell’irreale. Per affrontare questa minaccia e ridurla, il potere psichiatrico si sforza dunque, nel suo movimento generale così come nelle sue tattiche disciplinari particolari, di essere «un operatore di realtà, una sorta di intensificatore di realtà intorno alla follia»30. La microfisica disciplinare, con le sue registrazioni regolari, con la sua messa in sorveglianza degli individui, si impone allora come presa sul reale. E si presenta essa stessa come la realizzazione di un supplemento di realtà, di un sovrappiù di realtà, che cerca di rendere la realtà ancora più reale della realtà stessa, al fine di opporsi all’irrealtà che la volontà del folle intende far passare per la realtà nel suo insieme31. Questa analisi di Foucault conferma in un certo senso che l’atto di nascita della psichiatria moderna non deve essere cercato nello slancio umanitario e pacificatore della liberazione dei folli, ma piuttosto nel ricondurre, all’interno del campo manicomiale e dentro il dispositivo psichiatrico, una scena di affrontamento in cui si prende parte a una lotta per il reale, e in nome del reale. La posta in gioco terapeutica della manovra della psichiatria è quindi in questo senso subordinata a quello di una presa di potere sul reale, cioè sulla frontiera tra realtà e irrealtà, poiché è su questa frontiera che si tiene il delirio dell’alienato ed è questa stessa frontiera a minacciare l’edificio del potere psichiatrico. Resta allora da precisare quale può essere l’operatore di questo potere psichiatrico, esposto all’inquietante porosità tra realtà e irrealtà. Ma soprattutto, la matrice disciplinare del potere psichiatrico, come quella che Foucault analizza nel suo Corso del 1973-1974 e per come appare in correlazione con una follia intesa come volontà indocile e minacciosa (fino a puntare l’ordine del reale), è una disposizione autosufficiente per opporsi a questa minaccia? Questo interrogativo nasce dalla lettura delle lezioni successive dedicate a precisare la natura delle operazioni che permettono allo psichiatra di assicurare la sua padronanza della realtà. Uno dei due operatori privilegiati di questa padronanza è il corpo dello psichiatra. Ivi, p. 143; trad. it. cit., p. 136. Da questo punto di vista, il principio di visibilità permanente, la messa in sorveglianza generalizzata e anonima che ordina la macchina panoptica del manicomio, contribuisce, nella forma della massima esposizione del reale (sempre sottomesso a uno sguardo possibile), a questo effetto terapeutico della realtà stessa, dal momento che è imposta come un potere in grado di costringere. Su questo punto cfr. ivi, pp. 103-104; trad. it. cit., p. 103. 30 31


Disciplinare e guarire 243

Ci si può domandare se l’importanza che Foucault sembra attribuirgli non sia un po’ paradossale rispetto alla logica disciplinare del campo psichiatrico in via di costituzione. Infatti, non si può essere colpiti dai marchi del potere sovrano che si reintroducono nel cuore del campo proto-psichiatrico, e questo sin dalla “scena di guarigione” di Giorgio III. Se dunque questa scena testimonia in modo esemplare il passaggio da un regime di potere sovrano a questo regime di potere anonimo, disindividualizzato e “disincorporato” delle discipline, bisogna anche notare che, a favore di tale “passaggio”, si trovano messi in luce la figura dello psichiatra e, in particolare, la realtà del suo corpo, a partire dal quale certi aspetti del potere sovrano vengono rimessi in gioco in modo nuovo proprio all’interno del nuovo spazio disciplinare. Dopo aver analizzato la posta in gioco del reale nella proto-psichiatria, Foucault sottolinea infatti l’importanza conferita da questa psichiatria al corpo dello psichiatra, un corpo che è descritto minuziosamente, attraverso la sua postura, la sua muscolatura, le espressioni del suo viso e i tratti del carattere che esse dovevano rendere immediatamente visibili. La presa del dispositivo psichiatrico sulla follia, che cercava di collocare lo psichiatra all’interno di un rapporto di forze con il folle, è innanzitutto operata dalla presenza irriducibile della realtà del suo corpo: la prima realtà che il malato deve incontrare, e che è in un certo senso ciò attraverso cui gli altri elementi di realtà saranno costretti a passare, è costituita dal corpo stesso dello psichiatra. Ricordatevi le scene di cui vi ho parlato all’inizio: ogni terapeutica comincia con la comparsa dello psichiatra di persona, in carne e ossa, che si erge d’un tratto davanti al malato – ciò avviene sia il giorno dell’arrivo di questi in manicomio, sia in quello in cui comincia il trattamento – e che, in virtù del prestigio di un corpo che dovrà essere, si dice, senza difetti, dovrà imporsi grazie alla sua sola presenza plastica, alla sua sola imponenza. Questo corpo dovrà imporsi al malato come realtà, o come ciò attraverso cui passerà la realtà di tutte le altre realtà. È a un corpo del genere che il malato dovrà essere sottomesso32.

La padronanza della realtà passa quindi dalla realtà del corpo dello psichiatra che giunge a innescare e a rendere possibile il cerimoniale della cura, che assomiglia esso stesso a un rituale di sovranità che impone alla volontà folle questo sovrappiù di realtà, questo prestigio di una realtà so32

Ivi, p. 179; trad. it. cit., p. 171.


244 Philippe Sabot vrana, l’unica a poterla mettere in difetto e a riportarla allo stato di volontà sottomessa, destituita dalle sue proprie deliranti pretese di realtà. L’asimmetria concertata di questo rapporto di forze mira allo stesso tempo a escludere ogni reciprocità possibile e a alienare, per il folle stesso, ogni potere sulla realtà facendo passare integralmente questo potere dalla parte di questo “altro” che è lo psichiatra: La realtà con la quale il malato deve essere costretto a confrontarsi, la realtà a cui la sua attenzione, distratta – da una volontà in stato d’insurrezione – deve piegarsi, sino a esserne soggiogata, è costituita innanzitutto dall’altro in quanto centro di volontà, fonte di potere. La realtà consiste nell’altro proprio perché questi detiene, e sempre deterrà, un potere superiore a quello del folle. Il surplus di potere sta dall’altra parte: l’altro sarà sempre in possesso di una quota di potere superiore rispetto a quella del folle33.

Il corpo dello psichiatra pareva incarnare proprio quell’aumento di potere e di realtà; è il nucleo di potere e di realtà a partire dal quale si afferma una volontà sovrana, che regna come padrone assoluto sulla realtà. Sembra quindi che, rispetto a un tale protocollo della guarigione, Foucault si distanzi dalla disincarnazione ideale di un potere disciplinare che funziona in modo ottimale nell’anonimato dei suoi regolamenti e delle sue architetture silenziose di sorveglianza e di punizione. Qui, al contrario, il campo psichiatrico sembra riattivare, nel cuore stesso dei suoi dispositivi disciplinari, questo momento eminentemente sovrano di un corpo sovraesposto, nel quale si fondono simbolicamente il potere e la realtà, la realtà del potere e il sovrappiù di potere conferito a questa realtà. Occorre allora vedere in questo posto centrale accordato al corpo dello psichiatra e alla sua operazione sovrana, un’inconseguenza che sarebbe propria all’analisi di Foucault? Probabilmente no se ci si ricorda che, nella sua propria genealogia del potere disciplinare, non era stata tanto messa in questione la rottura con il potere sovrano quanto il progressivo emergere di dispositivi di tipo disciplinare all’interno delle forme storiche di potere di tipo sovrano: «Così come esistevano i poteri di tipo disciplinari nelle società medievali, ovvero in società in cui pure prevalevano gli schemi di sovranità, allo stesso modo è possibile trovare ancora, nella società contemporanea, forme di potere di sovranità»34. 33 34

Ivi, p. 173; trad. it. cit., p. 164. Ivi, p. 81; trad. it. cit., pp. 84-85.


Disciplinare e guarire 245

La famiglia, in particolare, con il ruolo affidato al padre, forma una tale isola di sovranità in mezzo a un regime di potere dominato dagli schemi disciplinari. Piuttosto che cercare di fare dello psichiatra stesso un sostituto della figura paterna, appariva più fecondo trarre da questa analisi un’analogia funzionale: alla stregua della famiglia, il corpo dello psichiatra rinvia a un dispositivo di sovranità il cui ruolo cruciale è di essere «il cardine, il punto d’incastro assolutamente indispensabile»35 al funzionamento stesso di questo sistema disciplinare particolare che è il sistema manicomiale. Il dispositivo psichiatrico sostiene dunque proprio la presenza, nel suo seno così come alla sua testa, di un corpo sovrano che funge da supporto simbolico e da operatore materiale di questo “sovrappiù di potere” che innesta nel cuore della macchina manicomiale tutte le operazioni disciplinari, tra loro articolate e ordinate dall’esigenza strategica della padronanza della realtà. È quindi per rispondere a questa esigenza strategica, propria alla macchina manicomiale che condiziona anche il suo funzionamento disciplinare, che il potere psichiatrico si supplementa nella realtà sovrana del corpo dello psichiatra, tendenzialmente identificato con il «corpo» stesso del manicomio che egli domina in tutte le sue dimensioni, e sul quale si estende il suo impero: «Il manicomio è il corpo dello psichiatra, ampliato, espanso, dilatato alle dimensioni di un’istituzione, esteso a tal punto che il suo potere si eserciterà come se ogni parte del manicomio fosse una parte del suo proprio corpo, governato dai suoi stessi nervi»36. Il posto centrale accordato al corpo dello psichiatra nel dispositivo proto-psichiatrico non rivela dunque un’infelice confusione tra regimi di poteri incompatibili e storicamente distinti, ma si comprende soprattutto in funzione della singolarità del dispositivo manicomiale e della natura delle operazioni terapeutiche che vi si giocano, sullo sfondo delle relazioni di potere e di lotta per il reale, e in nome del reale. Queste operazioni convergono verso l’obiettivo di fare della realtà un potere coattivo, di intensificare la realtà a tal punto da farne un potere capace di combattere e di vincere la follia. Il corpo dello psichiatra concentra, da un punto di vista insieme materiale e simbolico, le risorse di questa intensificazione e mette il suo supplemento di sovranità al servizio del dispositivo psichiatrico per opporsi al delirio minaccioso della follia. 35 36

Ivi, p. 82; trad. it. cit., p. 86. Ivi, p. 179; trad. it. cit., p. 171.


246 Philippe Sabot Tuttavia questa articolazione della proto-psichiatria sul corpo dello psichiatra non regola tutto. Nel seguito del Corso, Foucault mostra infatti come questa scena iniziale di affrontamento, la cui posta in gioco è la padronanza della realtà, si ripete e si rimette in gioco in particolare a partire dal grande problema che accompagna la nascita della clinica psichiatrica e che costituisce la sua «croce»37, ovvero il problema della simulazione. Questo problema, che si basa allora su un confronto tra realtà e verità, costituisce la principale posta in gioco della «crisi dell’isteria»38 che ha condotto a una crisi del potere psichiatrico negli anni 1860-1870 – una crisi da cui è derivata la psicanalisi. Le ultime lezioni del Corso del 1973-1974 saranno per l’appunto dedicate all’approfondimento di questa crisi, e ai nuovi «giochi di verità» ai quali essa ha potuto dare luogo, quando, confrontandosi col corpo dell’isterica, il tipo di razionalità pratica forgiata dalla proto-psichiatria si è trovato incapace di mantenere come elemento strategico dell’internamento e del trattamento degli alienanti questa sola dimensione della realtà in nome della quale essa aveva potuto esercitare il proprio potere fino ad allora. Traduzione dal francese di Orazio Irrera

Philippe Sabot Université Lille 3 philippe.sabot@univ-lille3.fr

. Discipline and Cure. “Reality” as the Stake of Psychiatric Power According to Foucault Following the analyses that Foucaut leads in the early 1970s about the protopsychiatric clinic, in particular in the course The Psychiatric Power, we strive to show the game of power and counter-power which this clinic is the ground et “Reality” is the main issue and the tactical impulse. It is thus to operate reality itself as power to give to reality the power of reality. The question is then whether and how a power of disciplinary type may respond to this issue. What is the effect of real of disciplinary power ? Keywords: Psychiatry, Tactics, Madness, Body, Will, Reality, Discipline. 37 38

Ivi, p. 134; trad. it. cit., p. 130. Ivi, p. 233; trad. it. cit., p. 207.


The government of the mob? Produzione del resto e suo eccesso Martina Tazzioli

L’existence des séries de banalités biographiques qui commencent à devenir l’objet d’un savoir […] toute cette grisaille a peine irrégulière1.

P

« rima non vi erano che dei soggetti, dei soggetti giuridici […] adesso ci sono corpi e popolazioni. Il potere è divenuto materialista»2: così, ne Le maglie del potere, Foucault sintetizzava il modo in cui nelle società contemporanee la vita è diventata il centro di tecniche politiche di regolazione, capitalizzazione e calcolo. Questa “presa” calcolata sulla vita, definita con il neologismo di biopolitica da Foucault, ha tuttavia, se seguiamo la genealogia tracciata da Foucault stesso, un oggetto primario su cui va a esercitarsi che non è la vita in quanto tale ma la popolazione. Ora, a che tipo di “presa” sulla vita ci troviamo di fronte nelle forme di biopolitica attuali, quando la realtà della popolazione non è il livello su cui si esercita la regolazione della molteplicità? Cosa è una popolazione? Da chi è formata? «Una molteplicità di individui», la definisce Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione, nella lezione dell’11 gennaio, «che sono ed esistono fondamentalmente ed essenzialmente in quanto biologicamente legati alla materialità all’interno della quale vivono»3. E questa molteplicità, per essere oggettivata come “popolazione”, viene assunta, riferita e governata rispetto a un certo spazio – quello della città ma soprattutto, storicamente, lo spazio della nazione, che seppur mai direttamente al centro dell’analisi di Foucault, fa da cornice e viene presupposto nelle riflessioni sul funzionamento dei dispositivi di M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Seuil/Gallimard, Paris 2013. 2 M. Foucault, Les mailles du pouvoir (1976), in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1013. 3 M. Foucault, Security, Territory, Population. Lectures at the Collège de France, 1977-1978, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 247-259.


248 Martina Tazzioli sicurezza nel Corso del 1978. Uno spazio, dunque e una serie di determinazioni, caratteristiche biologiche che definiscono le «curve di normalità» rispetto a cui ogni fenomeno deve essere governato o «delimitato all’interno dei limiti accettabili», senza comprendere la totalità dei soggetti in quanto tale ma, piuttosto, ciò che Foucault definisce «il livello pertinente della popolazione»4. Su questo punto è importante aprire una breve parentesi, che in realtà necessiterebbe di un intervento a parte, per dire che una serie di autori, tra cui Stephen Legg e Ian Hacking, hanno mostrato come “insiemipopolazioni” sono stati costruiti, soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, su una base differente da quella nazionale: statistiche sulle patologie o le devianze che si riferivano a una parte della popolazione nazionale, a sotto-popolazioni definite appunto a partire da determinati fenomeni fuori norma, da mappare, diagnosticare, calcolare5. Ma anche in questo caso di popolazioni prodotte su base non nazionale, e rispetto a cui non è così scontato rintracciare un referente spaziale definito, ciò che importa all’interno di questa problematizzazione su popolazioni migranti, è l’omogeneità, la serie di elementi in comune che caratterizzano anche queste sotto-popolazioni non nazionali – omogeneità data per l’appunto dalla stessa patologia o fenomeno che si intende mappato. È precisamente questo presupposto che, come vedremo, viene a cadere quando guardiamo a coloro che vengono governati in quanto migranti. La popolazione, dunque, si presenta come l’immancabile correlato che definisce l’azione stessa di governo, la sua superficie di presa. A tal proposito merita ricordare che nonostante spazio e soggetti siano indissociabili nel funzionamento di una tecnologia di governo si tratta certamente di un governo attraverso lo spazio, ma che nella prospettiva foucaultiana ha come suoi oggetti e punti di presa condotte e individui, presi singolarmente o come facenti parte di un gruppo: «non si governa mai uno stato né un territorio, né una struttura politica, si governano persone, individui o collettività»6. Le tecniche di governo che si esercitano sulla popolazione e costituiscono quella molteplicità di individui come un insieme governaIvi, p. 92. I. Hacking, Biopower and the Avalanche of Printed Numbers, in «Humanities in Society», n. 5 (1982), pp. 279-295; S. Legg, Foucault’s Population Geographies. Classifications, Biopolitics and Governmental Spaces, in «Population, Space, Place», n. 11 (2005), pp. 137-156. 6 M. Foucault, Security, Territory, Population, cit. 4 5


The government of the mob? 249

bile, hanno come scopo quello di incrementare la salute della popolazione stessa. È questo doppio livello – governo delle molteplicità e presa sulle singole condotte, omnes et singulatim – precisamente anche quello su cui merita insistere nelle analisi stesse sulla popolazione, sulla classificazione statistica: di fatti, l’insistenza da parte di Foucault sul doppio livello permette di anticipare una considerazione che caratterizza le analisi correnti sugli insiemi-popolazioni, o se non altro sulle popolazioni non nazionali, rispetto all’importanza degli elementi qualitativi accanto a quelli quantitativi. Ovvero, non solo quali curve statistiche di normalità sono in gioco ma anche che tipo di soggettività specifiche, di profili e condotte di mobilità sono presupposte e prodotte come elementi costitutivi di gruppipopolazione. Ora, a fianco di questa determinazione “positiva” della popolazione, che si presenta al tempo stesso anche come oggetto e soggetto costituente dello spazio dello stato nazione, in realtà Foucault fa apparire a margine un’immagine e una definizione di popolazione molto più fluttuante e instabile, che lascia di fatto indecidibile. Una presenza, forse più che una nozione ben distinta, che emerge ai confini stessi della governabilità. Una contro-popolazione, verrebbe da dire, o una sotto-popolazione che racchiude ciò che non è inscrivibile né governabile da quelle leggi di normalità. È la popolazione impossibile, la popolazione come “problema”, ossia l’insieme di soggetti e condotte che sfugge alle regolarità attraverso cui un oggetto popolazione può propriamente essere definito. Ancora la lezione dell’11 gennaio: è qui che Foucault ne parla riferendosi al governo della città: «il problema della città del XVIII secolo è quello di fronteggiare l’insicurezza proveniente dall’influsso di una popolazione fluttuante di mendicanti, vagabondi, delinquenti»7. Qualche pagina dopo Foucault definirà quella contro-popolazione in termini di «popolo» come insieme di soggetti che resistono e rifiutano di essere una popolazione8. Soggettività indocili che si sottraggono alla soglia di governabilità. E tuttavia, mi sembra che non sia appropriato parlare di una “contropopolazione” che si determina per difetto, come insieme di elementi e condotte che sfuggono alla presa governamentale. Difatti, oltre a indicare questo aspetto certamente rilevante, di attrito, sottrazione e rifiuto, quella 7 8

Ivi, p. 34. Ivi, pp. 64-65.


250 Martina Tazzioli soglia di ingovernabilità designa in realtà una funzione interna alla popolazione “positiva”, vale a dire ciò che della popolazione non può essere parte, per far funzionare i suoi stessi margini – che delimitano non soltanto il “dentro” ma i suoi meccanismi di oggettivazione per partizione. In fondo, la capacità di tracciare una divisione tra buona e cattiva circolazione costituisce il principio di funzionamento stesso dei dispositivi di sicurezza. Un limite/soglia di ingovernabilità, non fissato una volta per tutte ma al contrario oggetto di costante ridefinizione, un limite o per meglio dire un’eterogeneità di soggetti prodotti come “resto” e rispetto a cui possono instaurarsi specifiche pratiche di governo, di contenimento o di controllo. Quindi un’ingovernabilità che lungi dal comportare un’assenza di controllo nei confronti di quei soggetti “eccedenti” indica una loro cattura sotto una forma diversa, o se non altro inassimilabile, rispetto al governo della popolazione. E questo non solo in virtù di un’assenza di omogeneità interna ma anche, anticipo qui, di una produzione differente della norma. Il punto rispetto a cui vorrei provare a interrogare la griglia foucaultiana del governo riguarda ciò che definirei il carattere di indecidibilità della norma che è al lavoro in quel contesto e, insieme, i meccanismi di individuazione e di presa sui soggetti che sono in gioco nel governo delle migrazioni. Vorrei però tornare prima ai testi di Foucault e provare a riformulare quanto detto concentrandomi sulla produzione e sul governo del “resto”, sui suoi margini di non governabilità e sul suo eccesso rispetto alle condizioni stesse della sua produzione. Per farlo riparto però da un Corso antecedente a Sicurezza, territorio, popolazione, in cui dunque l’oggetto popolazione non è presente in quanto tale, ma in cui, a mio avviso, si possono rintracciare alcuni elementi utili per comprendere questa produzione di resto di cui parlavo prima; al contempo, questo Corso ci permette di qualificare meglio questa non-popolazione che è oggetto di governo e che al tempo stesso vi resiste, facendo di quel resto un eccesso: La société punitive, le lezioni al Collège de France del 1972-1973. La produzione e il governo del “resto”, di un resto però interno e costitutivo del funzionamento delle società moderne, è in effetti il modo in cui può essere letta l’apertura del Corso, dove Foucault si propone di provare a «classificare le società sulla base […] del modo in cui governano coloro che cercano di sfuggire al potere, come reagiscono di fronte a coloro che trasgrediscono, violano o contraddicono le leggi». E tuttavia, al contempo mostrare come


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questo governo del resto in eccesso non sia però fondato principalmente sull’esclusione. Questa riflessione sul governo di soggettività e collettività resistenti o irriducibili all’insieme popolazione coniugata con una messa in discussione del paradigma dell’esclusione mi sembra sia una lente analitica che ben ci aiuta ad analizzare la funzione stessa della produzione e del governo dei “resti”, e dunque anche del governo delle migrazioni. Ora, nell’assumere i meccanismi di penalità come “analizzatori dei meccanismi di potere” Foucault va a guardare i soggetti su cui questi agivano nella Francia del XVIII secolo e soprattutto il tipo di soggettività che, producendo, presupponevano: ciò che emerge è una “contro-società” fatta di voleurs, vagabondi, delinquenti e più in generale modalità di esistenza colpevoli di esercitare un “illegalismo per dissipazione”; vale a dire, un rifiuto del lavoro, della produttività e dunque dei meccanismi disciplinari di presa sul tempo degli individui, che mirano a “fissare” i corpi agli apparati di produzione. Un dressage disciplinare, attraverso cui si cerca di garantire da un lato la produttività all’interno dei meccanismi di produzione capitalista; e dall’altro una “presa” sul tempo della vita e una regolarità, e dunque governabilità, rispetto ai modi di vita di coloro che si sottraggono – fuggendo, migrando o rifiutando ogni operosità. Ne La société punitive, Foucault definisce quell’eccesso da governare descrivendo come l’irriducibile alla popolazione resista ai meccanismi di fissazione dei corpi e agli apparati di produzione. Per meccanismi di fissazione, Foucault intende l’insieme di tecniche di dressage, regolamenti, coercizioni corporali, istituzioni di incarceramento o pedagogiche che funzionano come dispositivi di cattura di una potenziale forza-lavoro recalcitrante; una vita che non accetta “di sintetizzarsi in forza lavoro”. Credo sia importante far apparire il modo in cui l’oggetto governabile “popolazione” non racchiude né include tutti i soggetti che sono comunque oggetto di tecniche di governo, di classificazione e di partage. Un eccesso per sottrazione: nel Corso del 1978 una molteplicità – le peuple – irrecuperabile all’interno dell’insieme omogeneo popolazione; ne La société punitive una “contro-società”, una “contro-collettività”9 che corrisponde ai vari comportamenti “irregolari”, di diserzione nei confronti del dressage produttivo. In tale prospettiva, le pratiche di mobilità non autorizzata fanno parte proprio di quelle forme di rifiuto della presa sulle vite esercitata dai meccanismi di produzione – nel duplice senso di produzione dei soggetti 9

M. Foucault, La société punitive, cit., p. 219.


252 Martina Tazzioli stessi, in quanto forza-lavoro, e produzione economica. E, più in generale, rifiuto di ogni istituzione di normalizzazione, che mira a ricondurre gli individui all’interno di una soglia accettabile di devianza o di illegalismo. Una delle ragioni dell’interrogarsi sulla produzione della norma e, insieme, sul tipo di governo delle molteplicità in gioco nel governo delle migrazioni dipende dalla necessità di decifrare il tipo di “presa” sulle vite che caratterizza il governo delle migrazioni e dal fatto che con la definizione di campo di governamentalità specifico – migration management – vengono delineate popolazioni sui generis, o meglio gruppi temporaneamente governabili. Quello che voglio provare a suggerire è che vi sono due livelli, oggetti “popolazione” che in parte si sovrappongono. Uno è quello della popolazione dei cittadini rispetto a cui i migranti risultano in eccesso, o (in parte) esclusi. In fondo la contro-collettività di cui parla Foucault come insieme dei comportamenti resistenti al sistema produttivo capitalista, nonostante sia definibile come l’irriducibile alla popolazione è comunque definita negativamente rispetto all’insieme positivo della popolazione: per quanto vengano messe in atto istituzioni di normalizzazione, apparati di sequestro specifici, per quelle vite che rifiutano di essere “messe al lavoro”, si tratta comunque di un “resto” interno allo stesso spazio di governamentalità da cui tentano di sottrarsi. Tuttavia, vi è anche un altro livello di “popolazione”, o meglio collettività, molteplicità come oggetto delle tecniche di governo, che emerge precisamente dalla definizione stessa di un campo/ spazio di governamentalità specifico, che si attiva per contenere, regolare e selezionare i movimenti e lo stare di coloro che vengono definiti e prodotti come migranti. Quando si parla di un regime delle migrazioni ci si riferisce a un insieme di pratiche discorsive, tecniche di governo, leggi e politiche che si esercitano sui corpi e sui singoli soggetti, certo, che in alcuni momenti si trovano a confrontarsi a tu per tu con varie forme di confine: l’identificazione tramite la presa delle impronte digitali, la prova di confine dei visti, l’espulsione dal paese in quanto “clandestini”, o infine il diniego ricevuto a fronte della domanda di asilo. E tuttavia queste forme di illegalizzazione, che sono al tempo stesso pratiche di individuazione – ovvero di produzione di soggettività “irregolari” – vanno inserite all’interno di una “presa” sulle vite e di meccanismi di partizione che avvengono prima di tutto a livello delle molteplicità. Un governo dei e attraverso i numeri, come i bol-


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lettini dei migranti arrivati nei porti siciliani quest’anno (oltre che i numeri dei morti); ma un governo che conta per selezionare, escludere, tracciare partages e dividere gruppi esistenti per formarne altri. Chiaramente bisogna distinguere, la “selezione” durante gli arrivi sulle coste italiane, ciò che viene definito il management delle rotte migratorie – e dunque il passaggio di un numero rilevante di persone lungo un certo percorso – o quella che è la gestione di un campo di rifugiati e dunque di un insieme per niente omogeneo di persone in un luogo circoscritto e governato da regole precise. Un governo che, per quanto sia estremamente produttivo – attraverso un’incessante creazione di nuovi profili giuridici, di spazi ad alto monitoraggio, di controlli a distanza e criteri di partizione – deve essere tuttavia in parte distinto dall’accezione di governo di cui Foucault traccia la genealogia in Sicurezza, territorio, popolazione associandola nel contesto moderno e contemporaneo a un oggetto su cui il governo ha presa – la popolazione – e alla sua messa a valore, alla sua massimizzazione. Difatti, nel governo di coloro che vengono classificati e gestiti come migranti, per quanto il migration management venga promosso in nome di una “migrazione ben regolata”, non vi è uno stato ottimale o ideale, una stabilità o un potenziamento desiderabile. Al contrario, vi è sempre un eccesso presentato come il limite del governabile. Ora vorrei soffermarmi ancora un momento su questa produzione di collettività divisibili che caratterizza il regime delle migrazioni. Innanzitutto, le politiche migratorie non possono essere analizzate indipendentemente da un governo dei numeri: si può dire, in effetti, il governo delle migrazioni è prima di tutto un governo dei e attraverso i numeri. Ma appunto, come ricordavo sopra, numeri solo inizialmente e apparentemente equivalenti che sono assemblati per essere divisi, differenziati. Gruppi temporaneamente governabili, in cui ciascuno dei soggetti che li compongono andrà poi a far parte di nuove molteplicità divisibili, o di profili migratori in costruzione. “The mob” è il termine usato da alcuni autori per designare l’eccesso ingovernabile che le politiche di cittadinanza e di mobilità intendono regolare. The mob rappresenta l’antinomia del popolo, l’eccesso e il tumulto che è percepito come minaccia per le forze democratiche. Tuttavia, nel caso delle migrazioni non è sufficiente arrestarsi al livello di quello che può essere una molteplicità ingovernabile, anche per il proprio essere numericamente eccedente – e dunque appunto the mob: infatti a essere in gioco è


254 Martina Tazzioli la produzione di temporanee molteplicità divisibili, formate e governate in base a criteri geopolitici, politici o amministrativi che di fatto vanno a definire quella stessa molteplicità. Uso il termine “non-popolazioni” proprio per sottolineare non tanto l’assenza di caratteristiche, elementi oggettivanti che definiscono il tratto comune di quei soggetti10 – anche se spesso l’evidenza di un criterio di “naturalizzazione” va a complicarsi con altri e risulta inafferrabile; invece, serve per indicare un procedimento inverso a quello di un insieme-popolazione definito come tale sulla base di un’omogeneità riproducibile e da riprodurre. E perciò, se certamente vi è una norma intesa come principio (mobile) di governabilità, non vi è una vera e propria norma a suo sostegno in senso statistico, né una curva di normalità da rispettare. Questo non solo per l’estrema variabilità, mobilità della norma, che in tale contesto funziona come criterio di governabilità, ma anche per la produzione di un resto che non corrisponde all’anormale. Un resto che è costitutivo del meccanismo di governo per divisione che caratterizza il confinamento delle pratiche di movimento dei e delle migranti. Un resto che produce e contribuisce a creare nuovi profili migratori, profili di scarto; e un resto su cui si regge il meccanismo stesso dell’umanitario. Ma un resto che va anche a definire una molteplicità dispersa dei pochi, una politica dei numeri invertita potremmo chiamarla rispetto all’irruzione non prevista dei senza parte sulla scena del politico11: il resto di chi resta, quell’esiguo eccesso che a differenza del mob è l’inassimilabile per difetto e che sfugge a ogni cattura rappresentativa, incalcolabile come “parte”; quel “pochi” che viene argomentato sulla base di una classificazione, partage spaziale, riuscito rispetto ai molti e che l’esiguo resto non va a inficiare. Un resto che resta, dunque e che tuttavia talvolta fa saltare proprio quei margini su cui si reggono la serie di partages e di produzioni di profili escludenti; di fatti, il governo delle migrazioni e dei migranti prevede che, per funzionare, non tutti siano governabili, assimilabili o definibili da quelle categorie. E A seconda dei momenti e dei contesti politici si ridefiniscono queste norme temporanee di governabilità. La nazionalità costituisce indubbiamente dei principali elementi caratterizzanti che definiscono una temporanea molteplicità divisibile: nel 2011 i tunisini, come migranti della rivoluzione, e poi a loro volta distinti dai “libici” in fuga considerati meritevoli di una protezione umanitaria. Cfr. F. Sossi (a cura di), Spazi in migrazione. Cartoline di una rivoluzione, ombre corte, Verona 2012. 11 J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007. 10


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tuttavia, come Hacking osserva, “l’effetto inatteso” del contare classificando, non può essere mai del tutto eliminato dall’operazione stessa della “conta”. Un inatteso che nel contesto delle migrazioni spesso consiste appunto nella produzione di un resto che resta. Un inatteso funzionale a moltiplicare ulteriormente il numero dei profili e delle categorie stesse, e dunque degli strumenti a disposizione per dividere ulteriormente l’esigua molteplicità. Ma un inatteso che in parte semplicemente resta, in eccesso, anche se numericamente irrilevante. “La paura dei piccoli numeri” cui mi riferisco differisce però in parte da quella descritta da Appadurai nel suo celebre capitolo con questo nome12. Difatti, il resto di cui parlo non indica la minoranza che fa traballare ogni coesione interna del demos, di ciò che, come Appadurai spiega, nel pensiero liberale corrisponde al numero zero come unione degli uno. Piuttosto, il “pochi” in questo caso è il resto che rende possibile i partages escludenti tracciati dai profili migratori; e al tempo stesso è ciò che rende manifesta l’intollerabilità di quelle partizioni e di cui, agendo come resto, fa implodere i confini. Il resto che resta può essere preso anche come punto di partenza per invertire lo sguardo e soffermarci su come quelle temporanee molteplicità divisibili producono un esiguo eccesso, che può dare luogo a un’interruzione di quella presa governamentale. Nel dire questo ho in mente una lotta in uno spazio di migrazione e di confinamento che si è andato configurando sempre più come spazio di resti, per lo meno a partire dal momento in cui è stato politicamente invisibilizzato. Si tratta dello spazio del campo rifugiati di Choucha, in Tunisia al confine con la Libia, ormai un non-campo per le autorità tunisine e gli attori dell’umanitario che lo gestivano. O meglio, un non-spazio, uno spazio inesistente da quando è stata decretata la sua chiusura come campo di rifugiati, come luogo dell’umanitario. Ma da quel deserto di tende alcuni hanno rifiutato di andarsene: coloro che erano stati diniegati dall’Alto Commissariato per i rifugiati e dunque illegalizzati come migranti economici senza permesso sul territorio tunisino. Alcuni, quelli che non hanno tentato la traversata del Mediterraneo, sono rimasti per uno spazio in cui stare. Sono “pochi” ormai rispetto ai numeri dei grandi campi cui ci abituano i gestori dell’umanitario; 150 circa, ma c’é chi dice 90, e poi dipende se di giorno o di notte. In fondo, come sottolinea Didier Fassin, «la statistica è molto più di una tecnologia che produce A. Appadurai, La paura dei piccoli numeri, in Sicuri da morire. La violenza all’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma 2005. 12


256 Martina Tazzioli informazioni sulle popolazioni […] è anche un potenziale indicatore delle politiche della vita»13, ragion per cui quando «le vite non si contano più, non contano più»14. Perché in fondo, i “pochi”, che di fatto l’umanitario smette di contare e lascia non-contati, sembrano essere ciò che viene lasciato sfuggente, quel resto che proprio per la sua irrilevanza deve restare indistinto, approssimato. «Choucha ha funzionato come campo perché per tutti è stata trovata una soluzione, quelli che resistono e non accettano di rientrare nel loro paese o di installarsi in Tunisia sono poche unità»15. Ma è quel “pochi” che ha cominciato a svuotare la stessa categoria di protezione (internazionale), ad appropriarsene secondo quella che potremmo definire una biopolitica dei governati: rivendicando il fatto di essere nonostante tutto governati, limitati, definiti dalla stessa presa “umanitaria” sulle vite che li ha definiti “not of concern”, e dunque dei non-soggetti dell’umanitario. Ai criteri storicamente escludenti dell’asilo, i migranti del campo di Choucha hanno fin dall’inizio contrapposto la loro provenienza comune dalla Libia, la loro fuga dal conflitto. E quando a rimanere a Choucha sono stati “pochi”, i confini dell’umanitario sono stati fatti esplodere ancora una volta assumendo le stesse categorie di governati dell’umanitario, dissociando la loro definizione dal piano del diritto già scritto: “siamo qui a vivere in questo deserto da tre anni e mezzo; al confine con una guerra in corso: chi altri dovrebbero essere i soggetti dell’umanitario?”. La produzione di gruppi “non-popolazioni” da parte delle politiche migratorie, il governo dei migranti attraverso la costituzione di queste temporanee molteplicità divisibili, non avviene tuttavia soltanto attraverso una delimitazione spaziale, un confinamento dei corpi che stabilisce anche le regole interne, le norme di partizione e classificazione. Difatti la presa governamentale spesso, nel campo delle migrazioni, si esercita a un livello che non corrisponde a quello dell’individuo inteso come corpo o come singola condotta, ma nemmeno a quello di un insieme-gruppo realmente esistente, per quanto provvisorio sia. Mi riferisco alla creazione di quello che può essere definito una singolarità generalizzabile, esito di un meccanismo di “messa a profilo” delle esistenze, e delle loro attività. D. Fassin, Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale, ombre corte, Verona 2014, p. 37. 14 Ivi, p. 140. 15 Intervista con UNHCR Tunisia, Zarzis, agosto 2014. 13


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Una profilizzazione che ha come sua origine non le singolarità in quanto tali: piuttosto, si “tratteggiano” elementi, caratteristiche e azioni simili tra questi individui, che permettono di qualificare una molteplicità indecidibile tramite un meccanismo di individuazione che non individualizza ma al contrario, generalizza in “profili”. Da un punto di vista foucaultiano però è importante osservare che queste singolarità generalizzabili, che consentono di attivare criteri e norme di governabilità e di partizione, non dipendono esclusivamente da un’analisi e selezione di caratteristiche relative all’identità della persona, e dunque a tratti facilmente naturalizzabili. In altre parole, a differenza dei tratti biologici attraverso cui si costruisce l’oggetto popolazione, nel governo delle migrazioni e dei migranti pur non essendo assenti questi vanno a combinarsi – e spesso in subordine – con comunanze relative all’attività dei soggetti, ai comportamenti e alle strategie di migrazione. Un esempio in proposito sono i modelli di schedatura di Mos Maiorum, l’operazione europea di caccia ai migranti coordinata dall’Italia che ha avuto luogo dal 13 al 26 ottobre. In quell’occasione, gli agenti di polizia sono stati chiamati a riportare criteri relativi al ’chi è’ (nazionalità, genere, età, statuto di rifugiato o meno) combinati a caselle sul “cosa e come fa” (mezzi di trasporto usati, rotte seguite, destinazione finale, somma sborsata per il viaggio e punto di ingresso nell’UE). Ciò che si genera a operazione conclusa, è un insieme di potenziali singolarità riproducibili per individuare nuovi spazi di intervento e tecniche di confinamento – «spazi di governamentalità»16. Ad ogni modo a essere in gioco non è un meccanismo individualizzante, ma al contrario un’estrazione di informazioni, caratteristiche e dati, relativi soprattutto alle strategie di migrazione, attraverso cui poi nuove soggettività generalizzabili vengono prodotte per governare i corpi e i movimenti dei migranti. In questa proiezione di profili governabili ed estendibili, vediamo che il problema di una popolazione governabile viene meno, o comunque passa in secondo piano. Dal livello del collettivo come gruppo da regolare nei suoi fenomeni, il meccanismo di produzione e cattura si sposta a quello di una molteplicità di soggetti tra loro spazialmente distanti, il cui principio di governabilità è dato dalla traduzione delle loro pratiche di migrazione in profili. Ma anche in questo caso il “resto” è parte di queste soggettività M. Tazzioli, Spaces of Governmentality. Autonomous Migration and the Arab Uprisings, Rowman & Littlefield, London 2014. 16


258 Martina Tazzioli generalizzabili: in fondo la creazione delle “mappe di rischio”, ovvero di proiezione di futuri scenari di migrazione da governare, è sempre una cartografia reattiva, che tenta di contenere, classificandole (con un potere estrattivo, che rende profili generalizzabili le attività e le strategie dei migranti) le pratiche di movimento sfuggenti o eccedenti rispetto agli stessi meccanismi di illegalizzazione. E quando viene dichiarata una crisi migratoria (“migration crisis”), come spesso fanno le agenzie delle migrazioni o dell’umanitario, l’impasse giuridico – chi classificare e come – e politico – come contenere la mobilità – segnalano di fatto un resto che si produce oltre lo scarto necessario dei meccanismi escludenti; un resto dovuto alla materialità stessa di movimenti e di lotte per lo spazio che fanno esplodere quei profili. Queste due modalità di agire al livello della molteplicità, di “trattare” e governare coloro che vengono definiti migranti, la produzione di temporanee molteplicità divisibili e la generazione di soggettività/profili generalizzabili, non si escludono a vicenda. Al contrario, queste differenti forme di individuazione e partage indicano una tecnologia di presa sulle vite dei e delle migranti che agisce tramite molteplicità diversamente costruite. È dove il resto funziona come suo elemento costitutivo e al tempo stesso, come suo eccesso che le politiche migratorie si trovano ogni volta a rincorrere. Martina Tazzioli Université Aix-Marseille martinatazzioli@yahoo.it

. The Government of the Mob? The Production of Remnant and Its Excess Focusing mainly on the Lectures at Collège de France The Punitive Society and Security, Territory, Population, this article considers the issue of subjects and multiplicities that remain outside population and that cannot be assimilated, and they are produced as remnants in excess. While in Security, Territory, Population the issue of who remains outside the population is relatively unexplored, in this article I show that by reading that Lecture series in the light of the analysis of popular illegalisms done by Foucault five years before in The Punitive Society


The government of the mob? 259 enables bringing to the fore that unruly subjectivities and remnants in excess are actually the constitutive outside of populations. In the final section, the article explores how they very notion of population is not appropriate for designating the production and the government of migrant groups in border-zones and suggest to look at them as temporary divisible multiplicities. Keywords: Migrant Multiplicities, Unruly Subjectivities, Illegalisms, Population, Biopolitics, Governmentality, Border-Zones.


Saggi


Il pensiero della scrittura: différance e/o evento Maurice Blanchot tra Derrida e Foucault Françoise Collin*

C’est l’heure vois-tu de supporter ensemble, pièces et morceaux, comme si c’était le tout1. (R.M. Rilke, Sonnets à Orphée) En écrivant cette page on se donne à soi-même, on donne à son existence une espèce d’absolution. (M. Foucault, Le beau danger)

Sono passati quarant’anni da quando nel 1971 scrissi Maurice Blanchot et la

question de l’écriture2, lo studio critico che avevo dedicato all’opera di Maurice Blanchot, trasgredendo senza saperlo il silenzio quasi sacro che fino ad allora lo circondava. Ogni analisi è necessariamente semplificatrice: taglia il corpo vivo dell’opera. E pretendendo di chiarirla ne nasconde la lingua originale. Essa traduce e tradisce. Tradisce necessariamente per tradurre. Cercando una prospettiva che potesse chiarire l’insieme dell’opera di Blanchot nella diversità dei suoi registri, ero ricorsa al concetto di scrittura. Tale nozione mi sembrava poter render conto, nello stesso tempo, dei testi critici, filosofici e dei testi narrativi di Blanchot come delle differenti modalità di un percorso per certi aspetti continuo nella sua stessa discontinuità. La scrittura dice, all’interno di ciascuno di questi registri e attraverso di essi, il perpetuo rinvio di senso che la fine del libro interrompe ma non compie: la “finalità senza fine” del testo, l’infinito che eccede la totalità. * Versione francese originale: F. Collin, La pensée de l’écriture: différance et/ou événement. Maurice Blanchot entre Derrida et Foucault, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 86 (2015), pp. 167-178. Per la gentile autorizzazione a pubblicare la traduzione italiana di questo articolo si ringraziano gli eredi di Françoise Collin, Laurence e Pierre Taminiaux; Mara Montanaro, responsabile scientifica dell’Archivio Collin, nonché curatrice della presente traduzione; Éric Hoppenot, che ha diretto il numero della Revue de métaphysique et de morale in cui è apparso postumo questo articolo. 1 R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, Garzanti, Milano 2000, I, XVI: «Vedi, si tratta d’ammucchiare, io e te, frammenti e pezzi quasi fosse il tutto». 2 F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1971. materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 261-273.


262 Françoise Collin Essa prova il carattere sempre riutilizzato e ricominciato di un’opera che, irriducibile alle forme tradizionalmente impermeabili, ne interroga i limiti. L’arbitrarietà stessa del Libro, il suo Uno, è messa in questione, il sistema ecceduto dalla sua frammentazione. E la temporalità dialettica è sovvertita dalla ripetizione e dalla dislocazione. In effetti, il libro forma un tutto, ma un falso tutto. La scrittura – come “frammento”, come “intrattenimento”, ma anche come narrazione – decostruisce la sua apparente unità – la sua totalità – nello stesso tempo in cui la stabilisce. Tale è il paradosso con il quale si confronta lo scrittore, e l’intera opera di Blanchot ne è la prova. Poiché «l’informe è un rifiuto delle forme classiche in direzione univoca, ma non un abbandono della forma come condizione fondamentale della comunicazione», scrive Umberto Eco che cita Mallarmé: «un libro non comincia e non finisce: tutt’al più finge». O, come sottolinea giustamente Marlène Zarader: «Il Neutro non è l’erosione della differenza e dei differenti ma la vigilanza – la veglia – l’insonnia che vi presiede». (È forse anche ciò che formula Emmanuel Levinas, in tutt’altro registro, articolando Totalità e infinito). Tuttavia, questo tema nasconde e dissimula ciò che nell’opera di Blanchot – che sia nei racconti o nel dispiegamento della sua riflessione filosofica – ha a che fare con lo iato: il grido o il silenzio che interrompe la frase, il fraseggio. Nasconde anche ciò che separa la teoria dalla finzione così come dal commentario critico – e l’irriducibilità dell’uno all’altro. Si tratta, nello stesso tempo, di un parametro chiarificante e di un’illusione didattica. Poiché, come scrive Blanchot stesso, «la parola poetica non si oppone solamente al linguaggio ordinario ma anche al linguaggio del pensiero». Cercando dei riferimenti filosofici che potessero, se non giustificare, almeno chiarire l’ipotesi di una continuità discontinua tra le diverse forme di espressione che caratterizzano l’opera polimorfa di Maurice Blanchot – racconti, critica, riflessione filosofica – e le loro modalità di sviluppo, ero ricorsa al concetto trasversale di “scrittura”. Ed era nel pensiero allora in fieri di Jacques Derrida, che aveva appena introdotto il tema della différance come perpetuo rinvio del senso – ma senza ancora riferirsi a Blanchot –, che avevo pensato di trovare un chiarimento dell’opera blanchotiana. Eppure, nel 1966, quando tale lavoro era ancora in gestazione, mi avevano chiesto di partecipare ad un numero della rivista Critique, uno dei primi numeri, o il primo, dedicati a Maurice Blanchot. Questo numero (in cui Derrida è ancora assente) include, oltre ad un articolo di Emmanuel Levinas – e ad un altro di Paul De Man, collaborato-


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re abituale della rivista –, un testo importante di Michel Foucault, Il pensiero del fuori, ripubblicato in volume nel 1986 per Fata Morgana ma che, all’epoca, non aveva stranamente influenzato o interrogato il corso della mia lettura su Blanchot. Tuttavia, accanto al mio articolo, che avevo intitolato L’uno e l’altro, Foucault aveva intitolato più giustamente una delle sezioni del suo: “Né l’uno né l’altro”. Blanchot è stato da subito un riferimento importante per Foucault. E lo stesso Blanchot ha manifestato il suo interesse per l’opera di Foucault nella misura in cui essa si apre all’eccedente della norma – della normalità. Già nel 1961, sottolineando l’importanza della Storia della follia (che aveva, come si sa, subìto le critiche di Derrida), Blanchot scriveva: «In questo libro ricco, incalzante attraverso le sue necessarie ripetizioni, quasi irragionevole, e poiché questo libro è una tesi di dottorato, assistiamo con piacere a questo scontro tra l’Università e la sragione»3. E nel 1986, nel libro che dedica a Foucault, dopo la morte di quest’ultimo, fa l’elogio dell’«esigenza della discontinuità» che caratterizza la sua opera, precisando altrove che «la parola poetica non si oppone solamente al linguaggio ordinario ma anche al linguaggio del pensiero» (Blanchot, Lo spazio letterario). Cieca alla questione introdotta da Foucault, mi sono riferita dunque all’opera nascente di Derrida – che stava articolando la différance con una a e che non aveva ancora rivendicato il suo rapporto privilegiato con Blanchot –, prediligendo nell’opera il perpetuo differire piuttosto che lo iato dell’evento: due dimensioni eterogenee ma congiunte nell’articolazione del testo di Blanchot e particolarmente incisive nei suoi racconti: la différance come concatenamento e l’evento come interruzione. Il concetto di scrittura – per certi versi illuminante – dissimula o nasconde d’altronde ciò che distingue la letteratura dalla filosofia, foss’anche quest’ultima declinata in frammenti e attraversata da riferimenti autobiografici. Ne è prova l’opera prolifica di Derrida, interamente animata dalle parole, ma strettamente legata all’oralità – al corpo presente – e che non accede mai – forse è qui la fonte della sua malinconia – a questa “finalità senza fine” che caratterizza la letteratura e che incarna, per certi versi almeno, l’opera di Blanchot: «Achille non raggiungerà mai la tartaruga». Da M. Blanchot, Notre épopée, in «La nouvelle revue française», n° 100 (aprile 1961) [nota non presente nella versione pubblicata, ma presente nella versione dell’archivio privato di Françoise Collin – NdT]. 3


264 Françoise Collin questo punto di vista, la nozione di scrittura, nascondendo la discontinuità tra pensare e raccontare – della filosofia e della letteratura –, è una sorta di inganno. C’è sicuramente uno stile del pensiero filosofico, un modo specifico del suo sviluppo che non è indifferente, ma questo stile resta bloccato nel suo messaggio articolato alla comunicazione. Il passo che separa letteratura e filosofia non è compiuto. Il pensiero si scrive ma non scrive. D’altra parte, il concetto di scrittura come différance o perpetuo differire fallisce nel rendere conto degli iati, degli spazi bianchi che fratturano il testo blanchotiano – che si tratti dei frammenti teorici o narrativi – e che attestano una discontinuità che è la sua forma di coerenza. Poiché i racconti di Blanchot sono irriducibili alla forma del romanzo, così come i suoi testi teorici sono irriducibili al sistema filosofico: rompono in ogni caso con la definizione tradizionale del romanzo come del trattato, non solamente con la messa in questione della temporalità lineare alla quale sostituiscono la ripetizione, la giustapposizione, la circolarità ripetitiva, ma anche attraverso l’incoerenza dei “personaggi” non identificabili, che non esistono che nell’effimero della loro deambulazione attraverso spazi non assemblati – il colore, la camera, i bordi del mare – e attraverso tagli successivi – un grido, un gesto – in istantanee folgoranti, in modo che appaiono come figure piuttosto che come persone. Disfacendo l’Uno – del racconto o del pensiero – nella sua stessa elaborazione. L’opera di Jacques Derrida, nella prodigalità infinita della parola e della scrittura, attesta un’immensa malinconia – un lutto impossibile –: poiché Achille non raggiungerà mai la tartaruga, e il filosofo non sarà mai uno scrittore, pur scrivendo e parlando, infinitamente. L’abbandono del “sistema” filosofico – la sua “decostruzione” – non è sufficiente. La différance nel suo infinito dispiegamento è ancora una forma indiretta (détournée) di totalizzazione – di occupazione del terreno – alla quale niente sfugge, ed è in tal senso una riformulazione indiretta (détournée) dell’ambizione dialettica: non lascia alcuno “spazio bianco”. Come ha sottolineato Blanchot, la letteratura è senza ingiunzione: non risponde a – anche se risponde di – e nemmeno si oppone. Dà luogo senza garanzia ad una comunicazione che è dell’ordine della proposizione insensata, sempre frammentaria, e che non è dell’ordine della dimostrazione. Così si chiama finzione. Essa fa spazio all’interruzione – allo iato. E i greci non avevano torto nel separare l’agora, dove officia il filosofo, dall’anfiteatro dove le passioni e la ragione non sono distinte e di cui la letteratura è l’erede.


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La scrittura letteraria: il nouveau roman La contraddizione interna tra la scrittura e il libro – tra il non-uno e l’uno – come tra l’infinito rinvio del differire e la violenza dell’interruzione – si era giocata e si giocava nello stesso momento nel campo propriamente letterario attraverso l’avventura di ciò che verrà definito come nouveau roman, da Samuel Beckett a Alain Robert-Grillet, da Robert Pinget a Claude Simone o a Nathalie Sarraute, tra altri. Il nouveau roman rompeva infatti con la logica narrativa di tipo discorsivo che presuppone un intrigo dispiegato in un tempo lineare in cui il punto di arrivo è la parola fine, così come con la coerenza del personaggio, e vi sostituiva la scansione, la ripetizione, la dislocazione. Anche qui era in gioco la questione dell’Uno che non è. Poiché all’indomani della seconda guerra mondiale, quando, nell’università, trionfava la dialettica hegeliana – («la nottola di Minerva non inizia il suo volo che sul far del crepuscolo», scandiva Jean Hyppolite, martellando il pugno sulla sua scrivania della Sorbona – e ognuno, pietrificato, credeva di assistere a questo alzarsi in volo) –, una nuova e tutt’altra concezione della temporalità si imponeva nella scrittura letteraria, temporalità se non cacofonica, nondimeno spezzata, nella quale la dislocazione che interrompe o la ripetizione si sostituiscono allo sviluppo o lo trasgrediscono, generando, secondo Umberto Eco, un’“opera aperta”. La fede nella Storia e nelle storie veniva meno. Ci si rifugiava nella struttura. Roland Barthes chiarisce a suo modo questa tensione: «scrivere (nel senso stranamente intransitivo del termine) è un atto che supera l’opera, scrivere è precisamente accettare di vedere il mondo trasformare in discorso dogmatico una parola che si è tuttavia voluta (se si è scrittori) depositaria di un senso offerto». Il Libro, che si presenta come Uno, è sovvertito tanto quanto costituito – al tempo stesso costituito e sovvertito – attraverso il dispiegamento della scrittura. Il libro è dell’ordine dell’Uno che non è: è il campo stesso di questa tensione poiché «Achille non raggiungerà mai la tartaruga». Così, rompendo con l’imperativo dell’intrigo lineare, gli scrittori del nouveau roman attestavano nella loro pratica l’artificio della narrazione quando questa è intesa come una progressione – una storia – che mira ad una conclusione, laddove si impone piuttosto la dislocazione, la ripetizione, l’interruzione: l’Essere come Tempo nella sua frammentazione e nella sua discontinuità, quando l’evento eccede la sua riduzione alla dialettica


266 Françoise Collin così come alla nebulosità del differire – della différance – poiché sia l’uno che l’altro nascondono o civilizzano i suoi iati. Ma è anche la consistenza e la coerenza unitaria del personaggio che vi era interrogata, l’“io” (je) o ancora l’“egli” (il) sostituendosi al “me” (moi) – e cercando anche a volte rifugio nel “questo, ciò” (ça) (Lacan oblige). Ogni movimento è in preda all’altro non identificabile. Lo scrittore conosce l’arbitrarietà della sua necessità. Si può ipotizzare che l’esperienza violenta della guerra avesse, per questa generazione, rimesso in causa violentemente la rappresentazione dell’Uno propria all’Illuminismo. Anche se questo fantasma conosceva sulla scena politica una seconda vita o una sopravvivenza nell’utopia comunista – mentre Mosca e poi Pechino continuavano ad essere alternativamente dei punti di riferimento per una parte dell’opinione pubblica (fino alla caduta del muro di Berlino). Se ne trovano d’altronde gli echi e i sussulti nell’opera stessa di Blanchot, che cede politicamente ai successivi canti delle sirene marxiste e del maggio 1968, dopo essere stato succube (come si sa ormai), prima della seconda guerra mondiale, di quelle dell’estrema destra. Come se ricercasse nella vita dei punti dove ancorarsi – delle forme di salvezza – di cui la sua opera tuttavia decostruisce costantemente l’immagine, il miraggio. La scrittura letteraria articola allora la sua posta in gioco in termini nuovi. La linearità tradizionale dell’intrigo – che assicura il passaggio progressivo di un cominciamento verso una fine attraverso la risoluzione del suo nodo è, negli anni cinquanta e sessanta, rimessa in discussione dalle manifestazioni di ciò che è chiamato nouveau roman. Nella casa editrice Seuil, la rivista Tel Quel diretta da Philippe Sollers – e che frequentarono alternativamente sia Derrida che Foucault –, ma anche la rivista Écrire e la collezione diretta da Jean Cayrol, aprono e assicurano la scena di questa mutazione mentre, nella casa editrice Minuit, Jerome Lindon ne sostiene un’altra linea pubblicando Samuel Beckett, Robert Pinget, Alain RobbeGrillet e Nathalie Sarraute, tra altri. È anzitutto nella letteratura che la “decostruzione” manifesta la disfatta dell’Uno come Totalità e l’irriducibilità del tempo alla storia. Il racconto attesta allora dell’irricevibilità di una linea narrativa di tipo dialettico che conduce l’intrigo dal cominciamento verso la sua fine come verso un compimento. Rompendo con ogni modello progressivo, non privilegia, o non solamente, la circolarità, ma la ripetizione e la dislocazione,


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nella dissoluzione dei personaggi e degli eventi: quando al “Tempo perduto” non segue alcun “Tempo ritrovato”. È ciò che scandiscono a loro modo i racconti di Blanchot, estranei al movimento tradizionale dell’intrigo, articolando in una forma sconvolgente la struttura e l’evento. In questo senso L’Arrêt de mort (La sentenza di morte) è, nella sua condensazione, come il cuore segreto, anzi insuperabile dell’opera blanchotiana, laddove si dice nello stesso tempo il morire e l’evento della morte, il narrabile e l’inenarrabile, il “c’era una volta” – il per sempre dell’irrimediabile – e “l’incessante”. Nello svelamento e nel nascondimento dell’immagine, secondo “le due versioni dell’immaginario”. È dunque in gioco una nuova concezione della scrittura e della struttura romanzesca, della sua temporalità, che sconvolge la linearità del racconto tradizionale a vantaggio del suo dispiegamento cacofonico, circolare o ripetitivo: la nozione di testo, di testualità o ancora di “opera aperta” (Umberto Eco) si sostituisce a quella del Libro inteso come totalizzazione. Lo iato del negativo eccede la negatività. In un’epoca in cui nella sfera pubblica e politica la teoria della storia post-hegeliana, persino marxista sembra rinascere nel segno di Mao che la riveste di esotismo, c’è come una lotta interna tra dialettica e struttura, persino una “disseminazione”, al centro delle forme culturali. La scrittura – letteraria – del nouveau roman rompe l’intrigo, resiste al discorso, interrompe il corso, sconfessa l’artificio dell’Uno. I racconti di Blanchot, irriducibili a qualsivoglia categoria, rompono con la definizione tradizionale del romanzo, non solamente mettendo in questione la temporalità lineare alla quale si sostituisce la ripetizione, la giustapposizione o la circolarità, ma anche l’incoerenza o la coerenza inedita dei personaggi che non esistono che nella puntuazione delle loro deambulazioni attraverso spazi non assemblati – il colore, la camera, il bordo del mare – o per tagli, pause successive – un grido, un gesto –, istanti folgoranti. Disfacendo l’Uno, ma verso quale non Uno? Differenza e evento Cercando un chiarimento filosofico dell’estraneità con la quale mi confrontavo nell’opera di Blanchot, nel suo pensiero e più particolarmente nei suoi racconti così poco conformi alla convenzione romanzesca, ne


268 Françoise Collin avevo all’epoca trovato degli elementi nell’opera di Jacques Derrida, allora ancora agli inizi e che non aveva ancora rivendicato una prossimità a Blanchot, come farà in seguito in maniera insistente. In effetti, la nozione di différance come perpetuo differire mi sembrava opporsi alla nozione di dialettica che struttura l’intrigo romanzesco tradizionale o supposto tale e che la conduce dal suo cominciamento verso la sua fine in una progressione ascensionale: il “tempo perduto” che non può essere recuperato da alcun “tempo ritrovato”. La différance derridiana chiariva qualcosa di ciò che la “scrittura” diceva nell’opera di Blanchot: il perpetuo rinvio del senso che la fine del libro interrompe ma non compie. Ma la différance derridiana nasconde o civilizza il selvaggio (il termine “selvaggio” è pronunciato a più riprese da Blanchot) vale a dire la violenza dell’evento che interrompe – il grido irriducibile alla parola –, che risuona nell’opera, determinando la rottura della narrazione e la frammentazione del pensiero. In effetti, la différance ricostituisce una forma di continuità addomesticata nella discontinuità di ciò che è “selvaggio”: tale nozione può chiarire in parte l’opera di Blanchot, ma ne disconosce l’estraneità dei suoi iati. La filosofia della scrittura come différance o perpetuo differire dissimula ciò che, nella scrittura nel senso blanchotiano del termine, è interruzione, ciò che ha a che fare con il tragico: l’evento della morte irriducibile alla struttura del morire, a “l’essere-per-la-morte”. Derrida non l’ignora ma la coniuga nella prodigalità del suo discorso e dei suoi discorsi, fino ai confini delle tombe4, velando così lo iato – il silenzio improvviso. D’altra parte, la nozione ecumenica di “scrittura” articolata nella sua opera filosofica con la categoria di différance – con una a, come perpetuo differire – dissimula la propria impossibilità di accedere alla libertà dell’immaginario che regge la finzione letteraria: Achille, qualsiasi cosa faccia, non raggiungerà mai la tartaruga. Dissimula altresì il privilegio paradossale dell’oralità, e ciò che essa chiede di adesione immediata, nell’elaborazione dell’opera – corsi, conferenze, interventi –: il flusso della parola, in un’ossessione della presenza – radicalmente estranea a Blanchot, che era invece quasi invisibile e che si voleva invisibile –, e che attesta una dimensione della melanconia nell’impossibilità del lutto. [Françoise Collin si riferisce qui, ironicamente, all’opera derridiana Ogni volta unica, la fine del mondo (2003), Jaca Book, Milano 2005 – NdT.] 4


Il pensiero della scrittura 269

Poiché la differenza come infinito differire è ancora una modalità sottile di occupazione del terreno, di rapporto indiretto al tutto, una denegazione del limite così come appare, ad esempio, nel nascondimento formale della “differenza sessuale” che può sembrare un gesto liberatore ma che costituisce, in effetti, una forma di appropriazione. (Così Derrida può scrivere: “Io sono una donna”, senza assumerne tuttavia gli eventi imprevedibili – senza rinunciare ai suoi privilegi –, ma stigmatizzando ogni donna che affermerebbe “io sono un uomo”.) Il confronto molto veemente, addirittura violento che ha opposto Derrida a Foucault può chiarire una doppia lettura di Blanchot o almeno la tensione della sua lettura tra differenza e evento, tra infinito rinvio di senso e rottura del senso, tra movimento ininterrotto e interruzione, come tra ciò che è ludico e ciò che è tragico. «Foucault, un potente gesto di protezione e chiusura. Un gesto cartesiano per il XX secolo», scrive Derrida. «Derrida non conosce per niente la categoria dell’evento singolare», scrive Foucault. E ancora, non senza irritazione – in un dibattito su Descartes –: «il postulato di Derrida è che la filosofia è al di là e al di qua di ogni evento. Non solamente niente può succedere ma tutto può succedere se si trova già anticipato o sviluppato attraverso essa […] è per lui dunque inutile – e senza dubbio impossibile – leggere ciò che occupa la parte essenziale se non la totalità del mio libro: l’analisi di un evento». Poiché la differenza (con una a) assume il negativo come rinvio del senso (contro la sua interpretazione in termini di costituzione dialettica), ma elude o ricopre le rotture che rompono la frase: i suoi bianchi che danno luogo all’inatteso. Essa riempie in maniera febbrile la pagina. Tenta di addomesticare – di civilizzare – il disordine articolandolo in un infinito differire che assume e nasconde ciò che Blanchot nomina, in rapporto al morire, l’“arrêt de mort” nella brutalità del suo evento. La disseminazione designa d’altronde inizialmente, come dice Derrida, la dissipazione ludica del seme – dello sperma – del figlio gettato al vento, opposto allo sperma fecondo ed economo del padre: la differenza con una a è un movimento di resistenza all’Uno del sistema patrocentrico ma anche – paradossalmente – una protezione contro l’imprevedibile – il nuovo. Civilizza e ricicla nella modalità ludica la ferocia del grido come la violenza dell’interruzione. Il differire della differenza, rinvio infinito del senso, riconduce così ad una forma di continuità totalizzante. Nel dispiegamento serrato del suo tessuto logorroico non fa spazio allo iato dell’in-


270 Françoise Collin sensato – della follia – che anima Foucault e che lacera anche la narrazione blanchotiana attraverso il grido, il gesto senza seguito, o il silenzio. È ciò che Blanchot identifica in Foucault come “l’esigenza della discontinuità” laddove la différance derridiana o la decostruzione tende infinitamente a ricostruire la continuità, a costo tuttavia di non arrivare mai all’“indecostruttibile”: uno iato, un arresto «che potrebbe ben guastare tutta la macchinazione», ma che tuttavia non la guasterà. Il dibattito con Foucault sarà protratto da Derrida, anche dopo la morte di quest’ultimo, segno evidente dell’importanza che gli accorda. In una conferenza pronunciata nel 1991 all’ospedale Sainte-Anne, pubblicata negli atti del convegno e poi in Resistenze della psicoanalisi, vi ci torna per giustificare, più precisamente, la sua posizione. Tuttavia, in questo contesto, la posta in gioco non è l’articolazione tra differenza ed evento, ma l’articolazione tra ragione e follia, nel loro rapporto alla psicoanalisi che considera essere stata trascurata, addirittura misconosciuta, da Foucault. Per quest’ultimo infatti, la psicoanalisi ricondurrebbe attraverso forme modificate la distinzione tra normale e patologico, ratificando indirettamente ancora la teoria cartesiana del “genio maligno”. Evento e alterità: Levinas dopo Foucault Dopo la morte di Foucault, sembra tuttavia che l’opera di Jacques Derrida si trasformi. Nel libro molto bello che Jacob Rogozinski gli dedica, forse il più lucido e il più sensibile, quest’ultimo sottolinea che «mentre il termine (di evento) non appariva quasi mai nei suoi primi scritti, si imporrà sempre di più, e diverrà possibile definire la decostruzione come ciò che lascia avvenire l’avventura o l’evento del tutt’altro», e ciò a partire dall’incontro di Derrida non con il pensiero di Foucault – incontro mancato – anche se qualcosa può essere stata ripresa e assimilata involontariamente poiché si è sempre segnati dall’“avversario”, ma con quello di Levinas che sembra così, anche per la pubblicazione di Totalità e infinito, costituire un punto se non di avvicinamento, ma almeno di riferimento – per ragioni diverse – per i suoi contemporanei. E al quale, per quanto paradossale possa sembrare, Blanchot è stato preparato dal suo incontro precedente con Bataille la cui opera proclama, in altri termini, nella modalità erotica, la frattura dell’alterità.


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Il superamento o l’abbandono del pensiero dialettico – legato a una concezione progressiva del tempo, che va verso una fine della storia che sarebbe il suo compimento – è stato un fenomeno proprio di tutta un’epoca del pensiero, ma fa spazio a due versioni della temporalità: una che, sotto il nome di différance – perpetuo differire, rinvio infinito del senso – supera così bene l’opposizione dialettica da ricondurne indirettamente la continuità, l’altra che integra gli iati, la rottura, in breve la dimensione dell’evento, e che significa, a suo modo, il “volto” in un’alterità irriducibile al suo superamento come al suo nascondimento. L’“evento” come iato, ma anche come “altro” – la sua trascendenza – interroga l’aspetto ludico della différance, vi fa resistenza: qualche cosa accade, che è qualcuno. Così, al di là delle motivazioni contingenti che riguardano le persone, è questa la posta in gioco sottintesa alla polemica tra Derrida e Foucault nel loro comune rifiuto della dialettica, e che abita – nella sua irresolutezza o nella sua ambiguità – il testo di Blanchot, il quale assume contemporaneamente la scansione del “morire” e “l’evento della morte” – dimensioni congiunte in modo particolarmente sconvolgente nel racconto insuperabile che costituisce L’Arrêt de mort. E che, nei suoi racconti, fa apparire dei “personaggi” che si manifestano soltanto per frammenti, o più esattamente per esplosioni, irriducibili a qualsiasi definizione identitaria. Nei racconti di Blanchot, in effetti, in ogni momento, qualcosa accade – un evento – che non si inscrive nella continuità, che sia quella della dialettica che per superarlo l’assumerebbe, o quella della differenza che lo placherebbe sostenendolo. Un grido interrompe la “ripetizione continua”. Qualcosa succede, o qualcuno. Così, al di là della negatività dialettica o della logica narrativa propria del romanzo tradizionale (ci sono romanzi tradizionali?), ma anche della différance risolutrice, l’opera di Blanchot dice alternativamente e, nello stesso tempo, il perpetuo morire e l’evento della morte o la morte come evento. E se si possono trovare pertinenti le distinzioni freudiane, si troverà forse principalmente in Derrida il registro della malinconia e in Foucault quello del lutto, ma è questo doppio registro che attesta l’opera di Blanchot, e, tra altri, il racconto insuperabile che costituisce L’Arrêt de mort. L’opera di Maurice Blanchot ci lascia di fronte ad un’ambiguità disorientante tra il movimento ininterrotto della scrittura – l’intrattenimento infinito, la différance – e la violenza dell’interruzione, tra la ripetizione eterna e il grido, come tra il movimento del morire e l’arrêt de mort. E può


272 Françoise Collin essere chiarita a questo punto dalla polemica – il dialogo tra sordi – tra Derrida e Foucault, tra il movimento della différance o del differire come perpetuo rinvio, che assicura una forma di continuità e lo iato dell’evento, fonte al massimo di contiguità, «pezzi e frammenti come se fosse il tutto», quando la scrittura si circoscrive nel compimento di un libro, nient’altro che un libro, parodia del Libro, sapendo che «Achille non raggiungerà mai la tartaruga» (M. Blanchot). Qualsiasi cosa ne sia delle analisi o dei commentati letterari e filosofici che si possono fare dell’opera di Blanchot – e che si sono moltiplicati all’infinito – la lettura o la rilettura dei suoi frammenti di pensiero e dei suoi racconti è, in effetti, ogni volta, nella nudità del faccia a faccia, l’opposizione dell’“eterna ripetizione” e al tempo stesso dell’“evento”: poiché qualcosa succede che non è dell’ordine della “disseminazione”. Questa ambiguità irrisolta è costitutiva dell’opera e ne costituisce il suo fascino. In effetti, l’opera dispiega “la finalità senza fine” della scrittura – racconto e/o pensiero – il suo infinito differire, ma attestandone gli iati che la fratturano o la frammentano: attestandone lo scontro con l’evento. Evento la cui violenza, articolata da Blanchot anzitutto nella vicinanza con Georges Bataille, tra eros e morte, è attestata nel suo interesse per Foucault, prima di trovare, in un confronto, piuttosto tardivo, con l’opera di Levinas, amico di sempre, la sua formulazione più serena, legata all’alterità, quando qualcosa accade, che è “qualcuno”, riconducendo e scongiurando allo stesso tempo l’innominabile: un volto, come colui che non è mai visto. Così la scrittura blanchotiana è, al contempo, infinito differire e messa a nudo dell’interruzione: “grido” e “mormorio”. Questa tensione insuperabile la rende affascinante. Traduzione dal francese di Mara Montanaro

. The Thought of Writing: Différance and/or Event. Maurice Blanchot between Derrida and Foucault In this study, Françoise Collin proposes to measure what could be taken into play between his first reading of Blanchot (Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Paris, Gallimard, 1971) and his current interpretation (2011). The book in 1966 tries to approach (in light of Derrida’s notion of writing) Blanchot’s work in its


Il pensiero della scrittura 273 totality, in other words, in order to establish a discontinued continuity between fields apparently incompatible, such as fiction, literary criticism and philosophy. The present study aims to discuss the choice of the Derridean theory of writing that now, seems no longer sufficient, especially when we take into account the void in-between the fragments of texts and unidentifiable characters of heroes or heroines in Blanchot’s work. The first part of the article settles the historical perspective, and contextualizes Blanchot’s system in regard to the new novel. The second part intents to situate Blanchot in regard to the reading of Derrida and Foucault, specifically around the notion of “différance” and “event”. At the end, the third and the forth parts demonstrate how, the event, under the belated inflexion of his reading of Levinas, comes to be rendered in terms of absolute disarrangement of alterity. Keywords: Writing, Difference, Event, Deconstruction, Literature, Derrida, Blanchot.



As we go along

Spazi, tempi e soggetti delle controcondotte Federico Rahola

Alle note che seguono serve forse un preambolo, un punto di partenza.

Lo affido a una frase: condursi insieme in modo diverso. Avevo la sensazione che tra le parole pronunciate da Foucault al Collège de France il 1° marzo del 1978 ci fossero anche queste, e in quest’ordine. Così non è, e allora ho tentato di intercettare un passaggio in cui, non solo in quella lezione e in quel corso, Foucault si è avvicinato di più al senso di questa frase. E forse ho trovato qualcosa, o forse no. Resta il fatto che quelle parole hanno continuato a lavorare. Cercavo un modo per sintetizzare le impressioni ricavate da quanto avevo letto, visto, sentito e immaginato su Kobane; un modo per venire a capo dell’importanza e della necessità straordinarie di quella lotta di resistenza: cosa era successo in città prima del precipitare degli eventi, nello spazio-tempo in between, tra i mille rivoli della diaspora curda e l’assedio dell’Is e la resistenza degli abitanti? E soprattutto come era successo? Questa domanda si rifletteva nella frase attribuita a Foucault: che cosa implica l’atto di decidere insieme come condursi in modo diverso? A tutto ciò si è associata un’altra frase, forse incongrua e forse di John Coltrane: «non c’è nulla di improvvisato nell’improvvisazione». Improvvisare, nel jazz e non solo, significa procedere collettivamente creando qualcosa di nuovo, ed è una pratica che richiede lunghe ore di preparazione, che pesca qua e là, rovistando altrove, rubando sequenze di note. Soprattutto, improvvisare chiama in causa un sapere condiviso e una conduzione reciproca, un trasformarsi insieme: abitare uno spazio e un tempo mentre li si producono, as we go along1. Quanto segue è un tentativo di intrecciare queste domande e queste frasi: di sondare quali idee di tempo, di spazio e di soggettività chiami in causa la pratica collettiva di condursi in modo As we go along: il riferimento è a Wittgenstein («And is there not also the case where we play and – make up the rules as we go along? And there is even one where we alter them – as we go along»; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983, § 83); l’invito (forse implicito) è di spostare l’accento dalla “puntualità” delle regole alla fluidità di una situazione, un gioco, una forma. 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 275-294.


276 Federico Rahola diverso; e di mostrare quanto tale pratica sia a un tempo autonoma, individualizzante e plurale, comune. È probabile che tutto questo si riveli lontano da ciò che Foucault ha inteso con il termine controcondotte. Ma ancora non ne sono così sicuro. Situazioni Esiste, nel dibattito filosofico contemporaneo, la tendenza a far coincidere la temporalità della politica con la dimensione puntuale e idiosincratica di un “evento”, a condensarne il senso in un atto di rottura2. Si tratta, nella sua complessità, di una concezione difficilmente aggirabile e non priva di fascino, che rischia però di trascurare qualcosa. Lo suggerisce per esempio Sandro Mezzadra, alludendo al tempo vissuto di tutta una serie di pratiche e di lotte che possono precedere o seguire un evento, costituendone l’innesco, le condizioni di possibilità, e articolandone la durata3. Di questa temporalità protratta è possibile rintracciare esempi dappertutto, anche in luoghi soffocati dagli “eventi”, dove il cielo si fa plumbeo, l’aria irrespirabile. Anche a Kobane, l’enclave curda sul confine turco-siriano per mesi sotto assedio da parte della macchina da guerra dell’Is. In una regione satura di confini, Kobane rappresenta uno spazio scandalosamente aperto. Ed è uno spazio che ha fatto scandalo in primo luogo per la quotidianità eterodossa che l’ha caratterizzato: per un’esperienza politica (se il termine Cfr. A. Badiou, L’essere e l’evento, Il Melangolo, Genova 1995. Si tratta di un approccio articolato e complesso, che schiacciare su un solo testo, peraltro importante, come L’essere e l’evento è senz’altro riduttivo. Inoltre, a partire da Logiques des mondes (Seuil, Paris 2006), il lavoro dello stesso Badiou registra una significativa correzione di rotta, ripensando l’evento non solo come rottura e cominciamento radicale ma come «un’alterazione locale di una molteplicità data» (dove il ricorso al termine “alterazione” suggerisce un’analogia con la transitività indicata da Wittgenstein). Resta però l’impressione complessiva di una reductio, un precipitare del molteplice in un momento dato che cancella la dimensione protratta e molteplice che la stessa alterazione può assumere. Il riferimento a Badiou vale comunque come stilizzazione, punto di massima visibilità di una tendenza rintracciabile anche in altri autori. Cfr. J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007; B. Honig, Antigone, Interrupted, Cambridge University Press, Cambridge 2013; E. Isin, Acts of Citizenship, Zed Books, London-New York 2008. 3 Cfr. S. Mezzadra, Moltiplicazione dei confini e pratiche di mobilità, in «Ragion pratica», n. 41 (2013). 2


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fosse un po’ meno parassitario, si direbbe un laboratorio) e una serie di pratiche (se il termine non fosse così assiomatico, si direbbe di cittadinanza) che l’hanno reso refrattario a ogni confine imposto. Per Kobane si potrebbe recuperare quanto Gilles Deleuze e Felix Guattari, verso la fine di Mille piani, riferivano a una dinamica interna ai territori urbani4, e leggerla come lo spazio paradossalmente “liscio” scaturito da una superficie iper-striata, in cui soggetti catalogati come diversi (per provenienza, lingua, confessione, genere, ecc.) hanno saputo costruire un terreno comune di articolazione democratica contro e al di là delle lacerazioni perentorie cui l’intera regione mediorientale è condannata5. Il fatto è che la creazione di questo “terreno” ha sicuramente preceduto e in qualche modo determinato la successiva deflagrazione di una serie di “eventi”, innescando l’attacco fascista delle milizie dell’Is e la straordinaria resistenza della città. Cosa opporre alla pretesa assoluta di chi avrebbe voluto imporre la propria striatura politico-religiosa su Kobane, o di chi ha lasciato che ciò potesse succedere (la Turchia, gli stati limitrofi, gli Emirati, la stessa coalizione internazionale), se non la difesa di questo “spazio di rappresentazione” orizzontale? Resistenza, si dice. E certo quello di Kobane è un caso eclatante di resistenza: difendere giorno per giorno, metro su metro, quanto si è realizzato giorno dopo giorno, qualcosa che si oppone alle leggi imposte sul luogo, le leggi dei confini, e che si crea parlando, partecipando, cooperando, producendo spazi. Ammettiamolo, se comparata alla potenza di un evento, questa situazione dilatata rivela un fascino minore e forse anche maggiore fragilità, l’esposizione a reazioni che possono scatenarle contro una pressione istantanea. Ma non è sempre una questione di ultima parola, valgono anche quelle pronunciate prima… e dopo. Ricondurre il momento assoluto della resistenza e della lotta di liberazione a una serie di pratiche quotidiane permette di comprenderne meglio il significato: di non farsi abbagliare dalla totalità dell’evento e di capire che la posta in palio è esattamente la costruzione o la difesa di un modo di (con)vivere realizzato nel tempo, nello spazio, tra soggetti. Proprio questa dimensione discreta, meno appariscente, lontana dal clamore di un atto di rottura, innesca il gesto di imbracciare un fucile, rappresentando il fine di Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 706-707. 5 Cfr. S. Mezzadra, Kobane è sola?, 2014, in < http://www.euronomade.info/?p=3332> (consultato il 15-01-2016). 4


278 Federico Rahola cui quest’atto necessario diventa mezzo. Kobane, però, è un caso limite. E per mettere a fuoco lo spazio-tempo vissuto di una serie di pratiche che precedono, assecondano e perdurano rispetto all’eruzione di un evento si può anche guardare a situazioni in cui il conflitto e la violenza assumono tratti politici meno estremi. Si pensi allora a Rio de Janeiro. Se, nel giugno del 2013, le manifestazioni che hanno portato in strada più di un milione di persone sono state l’atto di rottura contro l’ordine esclusivo imposto dalla città dei “grandi eventi”, prima e dopo quell’irruzione (considerata improvvisa, inaspettata, clamorosa) ci sono state tutta una serie di esperienze e pratiche quotidiane che l’hanno favorita e assecondata: l’occupazione di case nei centri urbani, l’organizzazione di istituzioni alternative alle logiche selettive di cittadinanza via consumo e carta di credito che si sono imposte in Brasile negli ultimi anni6. Questo per dire che tra la temporalità dell’evento e quella delle pratiche interviene una differenza essenziale. Per coglierla occorre però rinunciare a qualcosa o perlomeno attenuarne la portata. Si tratta dell’integralità o dell’esclusività “costituente” che connota il modo di pensare (filosoficamente e spesso feticisticamente) un evento. Un atto, nella sua singolarità, quando concepito nei termini di epifania o di irruzione (e declinato come resistenza o rivoluzione), può determinare effetti immediati in virtù della sua capacità di spezzare o interrompere una situazione che si protrae. Una pratica, invece, non necessariamente possiede questa forza in grado di deporre (gewalt, la chiamerebbe Walter Benjamin7) e, pur esprimendosi attraverso forme di resistenza o di lotta, è orientata soprattutto a costruire nel tempo qualcosa di inedito – come la carta del Rojava, nel caso di Kobane e di altre città curde della regione. Senza estremizzare la polarizzazione, passare da un evento di rottura a una pratica di lotta significa transitare da un gesto puntuale/singolare (e dalla sua portata immediatamente destituente) a una situazione protratta e a una tensione costituente: a un insieme di azioni e interazioni che esprimono altre temporalità, spazialità eterodosse e pure una diversa figura di soggettività. Chiamiamole appunto, e provvisoriaCfr. R. Rolnik, Prefazione, in Cidade rebeldes. Passe livre e as manifestações que tomaram as ruas do Brasil, Boitempo, S. Paulo 2013. 7 L’immagine benjaminiana di una violenza che depone (gewalt), sviluppata in Critica della violenza, si arricchisce di una portata per certi versi costituente nelle pagine che Benjamin dedica al «carattere distruttivo», come momento di irruzione del nuovo, del cambiamento, «del bisogno di emanciparsi dalla memoria e dai legami del passato». Cfr. W. Benjamin, Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995. 6


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mente, “situazioni”, lasciando che l’eco, forse incongrua, del significato attribuito alla parola da Debord e soci le avvolga del dovuto carattere sovversivo. Situazioni, dicevo, scaturite da un particolare lavoro “insieme”, da saperi e gesti che dialogano e procedono nel tempo, per quanto l’obiettivo, il fine, non ricada nell’alea e rappresenti sempre un orizzonte tanto concreto e immediato quanto in divenire. Si tratta più precisamente di dar vita, nel tempo e nello spazio, a qualcosa di diverso. Sembrerà strano, ma l’esempio più efficace che mi viene in mente lo fornisce l’improvvisazione jazzistica, a patto di non concepirla nei termini di un gesto spontaneo8 o di un’occasione singolare, ma nella cornice più estesa di un lavoro d’insieme che nel qui e ora della sua esecuzione/evoluzione riattualizza una pratica culturale, riflettendo la vicenda generale degli afroamericani9: una presa di parola in cui esperienza individuale e collettiva si confondono e si saldano10, espressione di quella «parte di chi è senza parte»11 la cui irruzione, se anche evenemenziale, non si consuma nell’attimo ma perdura proprio in virtù della capacità di precederlo, assecondarlo e dargli spessore. Così, da una situazione localizzata e unica come una jam session è possibile recuperare i sintomi di una trama più generale, di una pratica che riflette di continuo un tempo (quello della diaspora), uno spazio (l’atlantico nero) e un soggetto (afroamericano) che sono “altri” perché tutti in qualche modo dislocati (nel senso di difficilmente inquadrabili in termini unitari), in tensione e quindi “contro” quelli impliciti e sedentari (oltre che codificati per razza, classe, genere) dello stato, della nazione, del cittadino. Nel tempo sincopato dell’improvvisazione, in questa situazione aperta e dilatata, filogenesi e ontogenesi si saldano e l’imperativo, se vogliamo, è sempre creativo: «play it different!» (Coltrane); «diventare diversi perché il proprio futuro possa essere diverso»12. Per quanto poco immediato, parto dal presupposto che proprio in questa dimensione protratta e collettiva, riflesso di storie più generali, espressione di pratiche spaziali, temporalità e figure della soggettività inedite o altre, sia possibile rintracciare un punto di convergenza tra due Cfr. D. Sparti, Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Il Saggiatore, Milano 2007. Cfr. P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003. 10 Cfr. A. Baraka, Il popolo del blues. Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz, Shake, Milano 2011. 11 J. Rancière, Il disaccordo, cit. 12 E. Said, Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008. 8 9


280 Federico Rahola concetti tanto immediati quanto pericolosamente indefiniti del lessico foucaultiano: l’idea di “spazi altri” (o eterotopie), che qui vorrei declinare in termini più affilati come contro-spazi, e soprattutto la nozione introdotta fugacemente nel corso del 1978 e mai ripresa fino in fondo di controcondotte. L’intenzione è di ricondurre entrambi i (contro)concetti a una matrice comune, eminentemente spaziale, leggendoli attraverso la lente di una serie di pratiche situate, orientate verso ciò che Henri Lefebvre definiva la «produzione dello spazio»13. Controconcetti Occorre quindi tornare su questi due controconcetti. Concetti fumosi, si diceva, perché avvolti in una vaghezza di fondo, probabilmente non casuale. Se, sulla rinomata conferenza di Tunisi del 1967 sulle eterotopie, si è detto molto, forse troppo, diversa è stata la ricezione dell’idea di controcondotte, abbozzata e poi lasciata sospesa dopo il Corso al Collège del 1978. Si tratta di un termine verosimilmente poco fortunato, faute de mieux, tanto è vero che introducendolo Foucault cerca quasi di giustificarsi: [S]enz’altro una parola costruita male, ma che ha il vantaggio di permettere il riferimento al senso attivo del termine “condotta”. Controcondotta nel senso di lotta contro i procedimenti impiegati per condurre gli uomini. […] La parola controcondotta dà la possibilità di analizzare – senza dover necessariamente sacralizzare qualcuno come dissidente – le componenti del modo di agire effettivo nel campo generale della politica o dei rapporti di potere: consente di individuare la componente di controcondotta facilmente rinvenibile nei delinquenti, nei folli e nei malati14.

L’accenno apparentemente downplaying a delinquenti, folli e malati, oltre a riflettere un lessico per certi versi simile a quello di Erving Goffman15, H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano 1976. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 151. 15 Mi riferisco in particolare a quella che è stata definita perspective by incongruity, l’accostamento incongruo che getta luce sulla convenzionalità arbitraria delle norme sociali (cfr. P.P. Giglioli, Introduzione all’edizione italiana, in E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969). 13 14


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permette di liberare il discorso da ogni enfasi eroica: nessuna “dissidenza sacralizzata”, nessun gesto esemplare di rottura, solo il lavoro carsico di una serie di comportamenti e modi di agire di cui si sottolinea la componente attiva. In altre parole, quello delle controcondotte sembra essere un universo di pratiche ordinarie ma produttive, nella misura in cui indicano modalità di “gestione” (di sé, del tempo e dello spazio) altre rispetto alle forme di condotta maggioritarie e imposte. In realtà, nel corso del 1978, anziché a delinquenti e folli (figure, come si sa, al centro di altri corsi e testi foucaultiani e la cui condotta appare comunque lontana da un atto esplicito di dissidenza), Foucault fa riferimento soprattutto ai protestanti, nel tentativo di definire la portata sovversiva della riforma nei territori sottoposti al potere pastorale della chiesa di Roma. Per questo introduce il concetto riferendolo immediatamente a una serie di pratiche quotidiane e piuttosto razionali, che rintraccia nei movimenti diffusi e popolari, dal basso, che si oppongono alle strategie di “governo delle anime” e al discorso egemone della chiesa. Il successo della riforma, infatti, dipende essenzialmente dalla capacità di affermare attivamente un “contro-discorso”, attraverso una serie di comportamenti che minano ed eccedono il potere pastorale lavorando però sullo stesso terreno e riarticolando in termini immanenti e mondani un analogo discorso di “redenzione”. Al di là di una matrice comune rintracciabile nell’idea astratta di un’“ascesi intramondana”, sappiamo poi quanto quel campo fosse differenziato al proprio interno (la distanza che separa Lutero e Thomas Muntzer, per esempio). Il fatto è che tali striature, per quanto profonde, hanno finito a volte per coagulare in superfici “scandalosamente lisce” e in forme di condotta in grado di sovvertire regole e strategie di governo fondate su un più generale movente “estrattivo”, sia materiale che immateriale – dall’estorsione delle decime a quella di una “verità”, omnes et singulatim, sui soggetti. Siamo per certi versi vicini al presente, anche allo spazio “scandalosamente liscio” di Kobane e alle dinamiche estrattive che sconvolgono il Medioriente e non solo, ma soprattutto lontani da una logica destituente o di mera dissidenza. Se questo è vero, ne consegue che dal rapporto che le controcondotte instaurano con l’ambito canonizzato delle condotte sia possibile desumere un’articolazione più complessa rispetto alla reattività diretta e quasi meccanica che caratterizza il rapporto tra poteri e resistenze. Si tratta di una distinzione a mio parere decisiva (avendo a che fare soprattutto con la


282 Federico Rahola qualità temporale e la matrice spaziale particolari che questo “controconcetto” chiama in causa), ma sottile. Del resto, lo stesso Foucault suggerisce esplicitamente di leggere la relazione tra controcondotte e potere pastorale su un piano di immanenza sostanzialmente identico a quello delle resistenze rispetto al potere disciplinare e microfisico. All’assoluta e reciproca internalità di potere e resistenza (dove, come noto, la seconda è coestensiva al primo nella misura in cui «ha luogo nel campo strategico delle relazioni di potere come queste esistono in relazione a una molteplicità di punti di resistenza») corrisponde un’analoga relazione tra condotte e controcondotte, come polarità immanenti che oltre a collocarsi su uno stesso ordine attingono agli stessi “ingredienti”. Ma c’è di più, perché l’analogia si estende a una specifica “produttività”, che solleva tanto le resistenze quanto le controcondotte dal piano meramente reattivo/negativo della disobbedienza. Lo sottolinea per esempio Arnold Davidson, in un saggio piuttosto recente: [T]he tactical immanence of both resistance and counter-conduct to their respective fields of action should not lead one to conclude that they are simply a passive underside, a merely negative or reactive phenomenon, a kind of disappointing after-effect […], the productivity of counter-conduct […] goes beyond the purely negative act of disobedience16.

Posta così, nei termini di una “positività” condivisa, la relazione sembrerebbe quasi di assoluta coincidenza. Cosa che non è. Sempre secondo Davidson, infatti, è possibile recuperare una differenza tra resistenze e controcondotte nel sovrappiù etico che caratterizza le seconde: «On the one hand, the notion of counter-conduct adds an explicitly ethical component to the notion of resistance»; da cui consegue un’ulteriore peculiarità: «on the other hand, this notion allows one to move easily between the ethical and the political, letting us see their many points of contact and intersection»17. Confesso di aver provato un certo disagio, perlomeno iniziale, di fronte alla “svolta etica” e individuale (ammesso che di svolta si possa parlare) degli ultimi corsi al Collège di Foucault, ma è un dettaglio. Davidson, invece, muovendosi con maggiore familiarità in questi territori, coglie proprio nella transitività tra i due piani, etico e politico, l’elemento distintivo delle controcondotte. La dimensioA.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, in «History of the Human Sciences», vol. 24 (2011), n. 4, p. 27. 17 Ivi, p. 28. 16


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ne politica, infatti, non è meno immediata di quella etica, e il suo tratto decisivo consiste nel saldare sfera collettiva e individuale, nei termini di un’“insurrezione delle condotte”. Qui Davidson riprende alla lettera Foucault: «movements characterized by wanting to be conducted differently, whose objective is a different type of conduction, and that also attempt to indicate an area in which each individual can conduct himself, the domain of one’s own conduct or behavior»18. A costo di sovrapporre caoticamente sfere (etica, politica, individuale, collettiva), è necessario sottolineare la differenza propria del gesto di “condursi in modo diverso”. Tra voler essere condotti in modo diverso e condursi in modo diverso, infatti, in gioco non è solo la distanza che separa una dichiarazione di intenti da un atto: anziché decidere come farsi condurre (da chi e in che modo), stabilire “un’area in cui potersi condurre” è un atto etico e politico che, sebbene Foucault si affretti categoricamente a negarlo19, sembra affermare una certa autonomia, collocandosi immediatamente in un ambito individuale, costituendo un territorio del sé. Certo, questo gesto lo si potrebbe sempre leggere come “evento”, ma la modalità in cui avviene nel tempo e nello spazio suggerisce un’articolazione più intricata, molteplice, lontana dalla singolarità di un atto. Si tratta, verosimilmente, di un processo di soggettivazione, che in quanto tale si oppone a ogni forma di assoggettamento rispondendo in primo luogo alla domanda etica su quale soggetto diventare. È questo un nodo su cui, come noto, i corsi successivi, dall’Ermeneutica del soggetto in avanti, torneranno ossessivamente: la costituzione di sé come soggetto morale articolata su una serie di tecniche, pratiche di sé, modes de subjectivation, tutte essenzialmente individuali ma essenzialmente interlocutorie, fondate cioè su un dialogo, una “convocazione”, un «dar conto di sé agli altri»20. Resta il fatto che, perlomeno nel marzo del 1978, il concetto di controcondotte è declinato eminentemente al plurale, riferendosi per Ivi, p. 27 (tondo mio). La versione italiana del passaggio cui fa riferimento Davidson è leggermente diversa: «Movimenti che si danno come obiettivo un’altra condotta, nel senso che vogliono essere condotti in un altro modo, da altri conduttori […]. Ma sono anche movimenti che cercano di sfuggire alla condotta altrui, che cercano di definire per ciascuno la maniera di condursi» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 144-145). 19 «Queste rivolte di condotta possono pertanto essere specifiche nella loro forma e nel loro obiettivo, ma non sono e non restano mai autonome, qualunque sia il carattere decifrabile della loro specificità» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 147). 20 J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. 18


284 Federico Rahola lo più a gruppi e comunità che, oltre a voler essere condotti in modo diverso, a volte mostrano di volersi condurre da soli. Lavorando su ciò che Foucault non dice (e anzi nega), credo che la portata sovversiva di questo concetto, il suo straordinario potenziale politico, si giochi tutto in una tale affermazione plurale di autonomia e di autogestione. Solo se definito collettivamente, as we go along, l’atto di (decidere come) condursi diventa una pratica, chiamando in causa, oltre a un’idea posizionale di sé e degli altri, una specifica produzione di spazio (un’area in cui stabilire insieme come condursi) e una particolare temporalità: quali esattamente? Rispondendo a questa domanda è possibile intravedere quanto Foucault non lascia vedere, e cioè la portata costituente delle controcondotte, di quelle situazioni protratte nel tempo, quelle insurrezioni carsiche e progressive, in cui la cooperazione dà vita a qualcosa di nuovo e di diverso. Avremmo quindi un soggetto collettivo, una rivendicazione di autonomia che si traduce in pratiche condivise, attraverso una serie di situazioni di dialogo e interazione calate nel tempo e nello spazio. E l’eco è sempre quella di un intreccio tra “filogenesi e ontogenesi”, biografia individuale e storia comune, che definisce, per esempio, lo statuto dell’improvvisazione nei termini più generali di una specifica pratica culturale afroamericana. Come in una jam session, diventare un soggetto collettivo implica questa forma di cooperazione: la conduzione «di sé attraverso sé nell’articolazione dei suoi rapporti con l’altro» – così si esprimerà Foucault nel Résumé del corso del 1981 su soggettività e verità, parlando però di “governo” e riferendosi alla soggettivazione imposta dall’invenzione del matrimonio21. Ma affermare che l’obiettivo degli ultimi corsi di Foucault sia stato quello di gettare luce sui processi attraverso cui diventare soggetti collettivi (o diventarlo collettivamente) è sicuramente una forzatura. E occorre anzi riconoscere che la posta in palio del viaggio intorno al soggetto che dall’ermeneutica arriva fino al governo di sé (e degli altri) è essenzialmente individuale, nel tentativo di riscoprire nel mondo classico modelli di una soggettività – questa sì, autonoma – da opporre alle forme e alle tecnologie di assoggettamento. L’ultimo corso, sin dal titolo, lascia però la questione aperta, sia nei termini sospesi di un’ultima parola non detta sia in quelli letterali di una particolare apertura al mondo, alla polis, propria della parrhesia cinica. Forse è solo uno spiraglio, ma l’idea è che “il governo di sé M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France, 1981, Seuil/Gallimard, Paris 2014. 21


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e degli altri” possa ritradursi in un tutt’uno, un condursi insieme, sincronico, progressivo, condiviso, protratto. Ed è poco più di una congettura, costruita sull’ipotesi che le pratiche dei cinici (ciò che dalla conoscenza di sé conduce al coraggio di una verità «che non può esserci che nella forma di un mondo altro e una vita altra»22) lascino intravedere il riflesso di una parola, controcondotte, cui in realtà Foucault non ricorrerà mai per definirle. Ma se le traiettorie delle controcondotte si rivelano un sentiero interrotto, un tracciante destinato ad assumere una rotta essenzialmente etica ed essenzialmente individuale, forse è proprio perché la loro portata politica (e cioè materiale, nello spazio e nel tempo) risiede precisamente in questa dimensione plurale di pratiche autonome e collettive – le stesse che Foucault aveva rintracciato in alcuni movimenti popolari e diffusi al tempo della Riforma e soprattutto nell’esperienza dei militanti socialisti e anarchici del diciannovesimo e ventesimo secolo. Portata politica quindi. Perché nelle prime due settimane di marzo 1978 (e ancora nell’ultima lezione, ad aprile), di questo termine “costruito male” Foucault si limita a cogliere gli effetti “positivi” e sovversivi, sia teorici e politici che individuali e collettivi. E non è poco: «Controcondotte nel senso di lotte contro le procedure adottate per condurre gli altri»23, che possono essere rintracciate sia «a livello dottrinale», sia «in forme di comportamento individuale» o «di gruppi fortemente organizzati» (come i valdesi, gli hussiti, gli anabattisti24). E ancora: [Q]ueste comunità si caratterizzavano per una tendenza contraria alla società e favorevole al rovesciamento dei rapporti e della gerarchia sociale, con una componente carnevalesca. Bisognerebbe allora studiare – è un problema aperto – la pratica carnevalesca del rovesciamento della società e la costituzione di gruppi secondo modalità esattamente inverse a [quelle della] gerarchia pastorale esistente25.

È possibile cogliere qui un’eco del lavoro di Mikhail Bachtin sul mondo alla rovescia, l’abbassamento materiale e corporeo che definisce lo spazio-tempo del carnevale come specifico momento rituale di sovversione/ Sono queste, forse, le ultime parole “pubbliche” di Foucault, espresse come note finali al corso del 1984, due mesi prima di morire. Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 331. 23 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 151. 24 Ivi, p. 153. 25 Ivi, p. 160. 22


286 Federico Rahola profanazione26. Si tratta però di un rituale che, tradotto nella prospettiva delle controcondotte, non rientra nello spazio-tempo imposto di un calendario, e anzi lo eccede, ne produce di altri, e nuovi. Davidson, a questo proposito, ricorda come l’eccentricità del comportamento fosse il carattere che John Stuart Mill associava a quanto Foucault avrebbe ricondotto nell’ambito ascetico e/o carnevalesco delle controcondotte27. E rintraccia correttamente il riflesso prolungato di questo tipo di eccentricità in alcune pratiche dei femminismi o dei movimenti gay e queer, prima di dichiarare, quasi rassegnato: The armature of economic neo-liberalism, studied in The Birth of Biopolitics, cannot concede any space to the idea of counter-conduct; counter-conduct becomes inconceivable, since conduct as such is a concept fully integrated into a scientific-epistemological field. Regime of veridiction, homo oeconomicus, rational behavior, ethical and political neutralization – such is the scheme, for instance, of American neo-liberalism28.

Parole che suonano come un verdetto: nessuno spazio per le controcondotte nel tempo della governamentalità neoliberale. Si tratta evidentemente di una impasse difficilmente aggirabile, che grava sul presente, sulla possibilità di individuare una serie di pratiche e situazioni “costituenti” da opporre alla razionalità della global governance, alla “libera condotta” imposta dalle retoriche sul capitale umano e dall’economia sociale di mercato29. Si tratta, inoltre, della stessa impasse che determina la svolta Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979. 27 A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, cit., p. 31. 28 Ivi, p. 37. 29 Ciò ovviamente non significa che l’orizzonte delineato dall’“armatura del neoliberalismo” sia privo di conflitti. Al contrario, il conflitto si dissemina, partendo spesso dai “margini”, e la sua portata evenemenziale e potenzialmente destituente sembra accentuarsi: molte piazze si sono incendiate; regimi che parevano inespugnabili hanno vacillato o sono stati abbattuti. E tuttavia, anche quando la potenza destituente delle insurrezioni si è dispiegata, un secondo dopo aver deposto “tiranni locali” di vario genere, queste rivolte si sono trovate a fronteggiare i regimi a geografia variabile imposti dalla global governance neoliberale. All’interno di questa “razionalità”, difficile da localizzare (perlomeno in termini convenzionali di sovranità), è però possibile rintracciare una matrice “pastorale”: l’enfasi sui comportamenti (all’insegna di benchmark, best practices); l’imposizione di forme canonizzate di condotta attraverso il sacrificio e l’austerità; la dimensione espiatoria e il ricatto “morale” somministrati attraverso l’indebitamento; 26


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etica (e individuale) dei successivi corsi al Collège, intervenendo non a caso in quello che segue immediatamente Sicurezza, territorio, popolazione e sopprimendo sul nascere la breve stagione delle controcondotte: la lotta, se di lotta si tratta, non sembra passare (più) attraverso le condotte. La questione però persiste e lavora nel tempo, come sottolinea Frederic Gros nella nota critica all’ultimo corso, del 1984: «quali modi di soggettivazione vengono ad articolarsi sulle forme di governo degli uomini per resistervi o per abitarle?»30. Come aderire o negarsi, quali tecniche di sé e quali forme collettive opporre alla razionalità governamentale neoliberale? Ammesso che la domanda valga ancora, che cioè questa razionalità si definisca attraverso particolari condotte, imponendo un modello di “libertà individuale” che neutralizza ogni percorso di liberazione collettiva, perché non provare ancora a cercare una risposta nelle controcondotte? Exit through the giftshop Si dice “guardi l’albero e perdi di vista il bosco”, ma non sempre è così. Concentrasi sull’orizzonte quotidiano delle pratiche anziché esclusivamente sul close-up dell’evento significa in un certo senso muoversi “tra gli alberi”, as you go along: osservare i dettagli (e per lo più i margini, i confini), anziché un ipotetico momento centrale o un inafferrabile quadro d’insieme; focalizzarsi sul percorso più che sul traguardo (come fa chi improvvisa). A partire dall’alternativa radicale contenuta nelle parole di Gros («resistervi o abitarle»), e a costo di dar l’impressione di ammiccare a una serie di approcci tra i meno attraenti della teoria sociale contemporanea (la rational choice, la teoria dei giochi – al fascino della quale Foucault non era l’indirect rule e il governo “attraverso le differenze” di sistemi misti o parziali che, dietro un universalismo oggettivo, omnes et singulatim, impongono striature e gerarchie all’interno di territori in precedenza formalmente omogenei. Cfr. Graeber 2011; Lazzarato 2012; Teubner 2008. Se quindi tracce del potere pastorale sono recuperabili nella macchina mista «sovrano-governamentale» (S. Mezzadra e B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2014) della governance globale, il campo delle lotte antipastorali sembra arrestarsi su una soglia in cui alla portata destituente subentra un’impasse costituente. In una congiuntura rappresentata come stasi, nel “vuoto” della crisi riempito dal momento costituente dei dispositivi con cui la si governa, a svanire sembra essere la tensione costituente che definisce quanto qui, a partire da Foucault, si intende per controcondotte. 30 F. Gros in M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 331.


288 Federico Rahola immune…), vale la pena di insistere sulla modalità specifica che definisce lo spazio di azione e la temporalità protratta delle controcondotte. Perché il modo in questo caso fa letteralmente la differenza, la produce. Ma di quale modo si tratta? Come già accennato, invece di concentrare la propria portata su un gesto reattivo o un atto di rottura, l’idea di controcondotte chiama in causa una particolare durata e, soprattutto, un modo di condursi che interviene sullo stesso campo e agisce in direzione analoga e contraria rispetto alle condotte canonizzate, producendo qualcosa di radicalmente inedito. Riprendendo l’approccio sistemico e formale della sociologia di Luhmann, si potrebbe dire che le controcondotte implicano la capacità/necessità di «agire sullo stesso medium», articolando a partire da questo un piano di differenze31. Non a caso, Foucault ribadisce con insistenza l’“adesione tattica” delle controcondotte rispetto all’orizzonte delle condotte pastorali: [Gli] elementi fondamentali delle controcondotte non sono evidentemente esterni al cristianesimo, ma si situano al suo confine e non hanno mai smesso di essere reimpiegati, reimpiantati e ripresi in un senso o nell’altro. […] La lotta non avviene nella forma dell’esteriorità assoluta, ma nel quadro dell’impiego permanente di elementi tattici che sono pertinenti nella lotta antipastorale e fanno perciò parte, anche se in misura marginale, dell’orizzonte generale del cristianesimo32.

In questi termini, la dimensione spazio-temporale delle controcondotte sembra giocarsi in una sorta di concatenamento, un piano trasformativo di analogie e permutazioni. Non si tratta però di un rapporto semplicemente mimetico, né tantomeno speculare: piuttosto di qualcosa che scaturisce dai margini e agisce attraverso la differenza, in termini che si potrebbero definire contrappuntistici33. In un certo senso, si può sostenere che le controcondotte spezzano ogni simmetria rispetto alle condotte nella misura in cui, partendo dai margini, restituiscono sempre uno squilibrio, uno scarto, un eccesso (l’idea di un “carnevale tutto l’anno”), e che il loro rapporto con le condotte è contrappuntistico nella misura in cui si orienta dall’interno verso qualcosa di radicalmente diverso, auspicabilmente roveN. Luhmann, Generalized Media and the Problem of Contingency, in Loubser et al. (a cura di), Exploration in General Theory in Social Science, New York, The Free Press 1976. 32 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 163. 33 E. Said, Nel segno dell’esilio, cit. 31


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sciato. C’è qui, forse, un’eco della (oggi fin troppo abusata) opposizione tra tattiche e strategie tratteggiata da De Certeau, e pure di manifesti “antropofagici” di stampo modernista34, ma soprattutto un’idea specifica di concatenamento che Foucault, nel 1978, poteva solo preconizzare. Il riferimento in questo caso è a una relazione che in termini astratti (e rovesciati) può essere utile leggere nella prospettiva suggerita da Deleuze e Guattari di una matrice o piano (l’assiomatica del capitale) che articola e rimodella di continuo le relazioni tra economia e spazi – politici, giuridici, culturali – imponendo una serie di processi modulari, più precisamente “isomorfici”: un asse sincronico e parallelo di analogie, similitudini e trasformazioni. Isomorfismo, però, non significa affatto riproduzione speculare o eterno ritorno dell’uguale: «Non c’è niente di più errato che confondere isomorfismo e omogeneità: al contrario, isomorfismo vuol dire favorire e quasi incitare la continua produzione di eterogeneità»35. Deriva da qui l’idea del capitale come macchina della differenza, piano assiomatico attraversato da processi paralleli che riproducono regimi di disuguaglianza. Il fatto è che un tale rapporto isomorfico, orientato verso la differenza, sembra emergere anche dalle controcondotte, dalla loro “internalità marginale” rispetto al piano canonizzato e imposto delle condotte. Si tratterebbe quindi di un rapporto che “fa la differenza” agendo isomorficamente rispetto all’assiomatica del capitale. Ed è su questo piano che le controcondotte si allontanano dal momento dell’evento e dalla sua portata destituente. Se, come si è visto, ragionare in termini di evento significa appellarsi a un atto singolare che disarticola il quadro, che spezza unilateralmente ogni simmetria, l’insieme di pratiche che definiscono le controcondotte sembrano invece lavorare su un orizzonte diverso e molteplice, in termini di tempi protratti, di spazi condivisi, di processi di soggettivazione. Non si tratta certo di ritracciare qui le traiettorie del débat sui “modi di costituzione della soggettività” (o sulla “produzione della soggettività”, dove il genitivo ha un valore duplice, oggettivo e soggettivo36). Solo di E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, PUF, Paris 2009. Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, cit., p. 676. 36 Cfr. A. Negri, Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno 1987; S. Zizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano 2003; É. Balibar, Citoyen sujet et autres essais d’anthropologie philosophique, PUF, Paris 2011; J. Rancière, Il disaccordo, cit.; J. Read, The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, State University of New York Press, Albany 2003; S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Manifestolibri, Roma 2014. 34 35


290 Federico Rahola suggerire come al suo interno, e su una rotta per certi versi inaugurata dal lavoro dello stesso Foucault37, emerga l’idea di un soggetto “dislocato”, che confuta ogni impossibile ipotesi unitaria ricollocandola in un campo in tensione, nel punto di incrocio tra dispositivi di assoggettamento e pratiche di soggettivazione. Concepire questo rapporto in termini isomorfici, pensare cioè che assoggettamento e soggettivazione agiscano in un concatenamento (essenzialmente su uno stesso piano di analogie e trasformazioni) significa allora allontanarsi dall’evento e situarsi in una dimensione processuale, in divenire: considerare i processi di soggettivazione come immanenti all’assoggettamento, ma in grado di imprimervi una logica di differenza. Isomorfismo, da questo punto di vista, implica la possibilità di pensare le pratiche di soggettivazione come “dentro e contro”; di “giocare” le logiche dei dispositivi di assoggettamento contro il loro stesso principio di funzionamento. In questi termini, anziché instaurare una simmetria o un loop, le controcondotte (in quanto interne e marginali rispetto all’universo delle condotte) indicano il modo (più che il momento) in cui, nel tempo e nello spazio, il gioco si rovescia e lo specchio si infrange, restituendo lo scarto o l’eccesso determinato dalle pratiche di soggettivazione rispetto ai dispositivi di assoggettamento. Si tratterà poi di uno scarto, un salto in avanti che, nella prospettiva dell’assiomatica del capitale, dovrà essere sempre recuperato, riproducendo il concatenamento. Ma questa è un’altra storia, o la stessa storia da un’altra parte del bosco… Qui, sulla scia di ciò che Foucault lascia forse intuire parlando di controcondotte, in gioco è la possibilità di pensare tali pratiche non solo in quanto evento ma anche come situazione (protratta, contraddittoria, dislocata nel tempo e nello spazio), e non solo come processo individuale ma anche in una dimensione articolata, “orchestrata” e quindi plurale, collettiva. Proiettare questo scarto, questa produzione di soggettività che è produzione di differenza (qualcosa di non molto lontano dall’idea di différance in Derrida) nell’atto di condursi insieme in modo diverso (ovvero in ciò che definisce la dimensione politica delle controcondotte) chiama in causa un terreno e un processo molteplici e comuni, e conferisce una particolare tensione costituente, temporale e spaziale, a tali situazioni. Credo sia questo il potenziale politico delle controcondotte (declinate rigorosamente al plurale), per come viene delineato en passant e subito accantonato o negato Cfr. M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow (a cura di), La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989. 37


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da Foucault nel 1978: un insieme di pratiche che riproducono, eccedono e sovvertono le forme ufficiali di condotta; un «supplemento di individuazione su vasta scala, che riunisce una pluralità di individui»38 e si realizza attraverso spazialità e su temporalità “altre” e contro. Come le note e gli strumenti “rubati” (anche letteralmente e nottetempo) dagli schiavi che, agendo sullo stesso spartito, oltre a un’altra musica hanno creato un altro “popolo”, un “contro-popolo”, quello eterogeneo e in tensione del blues e del jazz. Il rapporto mimetico condotta/controcondotte si spezza infatti nella materialità dei tempi e degli spazi “altri” che queste producono, trovando nei territori in cui “decidere insieme come condursi” la propria portata costituente, all’insegna dell’autonomia, dell’autogestione. Occorre allora cercare di definire meglio questi “territori di soggettivazione” e passare quindi al secondo controconcetto, non meno opaco del primo, di eterotopie. Lo dico subito: data la mole di interpretazioni che ha attirato, all’idea di “spazi altri” dedicherò molta meno attenzione rispetto alle controcondotte. Immediatamente, la conferenza tenuta al Cercle d’études architecturales di Tunisi offre una ricognizione tanto estesa quanto ospitale e vaga degli spazi “altri”39: una rassegna che guarda più ai luoghi che alle pratiche, che legge le pratiche in funzione dei luoghi. Nessuno, però, a partire da Foucault, vieta di procedere in direzione opposta – quella suggerita dalle controcondotte. In tal senso, del breve saggio mi interessano soprattutto (se non unicamente) l’idea introduttiva e l’ultima immagine. Iniziamo dalla prima: «spazi in cui tutti gli altri vengono rappresentati, contestati e invertiti». È possibile rintracciare qui qualcosa di molto vicino al particolare rapporto isomorfico che avrebbe dovuto designare, dieci anni dopo, i territori e le aree di soggettivazione delle controcondotte, condensandoli in luoghi carichi di un particolare valore proiettivo, sintomatico e sovversivo: spazi “contro” che evocano, ricapitolano e invertono ogni altro luogo. Tutti questi caratteri convergono nelle ultime righe del saggio, nell’immagine delle navi come principale “serbatoio di immaginazione”: «La nave è l’eG. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2006. Genericità che, nell’intervento sulle eterotopie del 1966 su France Culture, era attenuata dal tentativo di mostrane le determinazioni concrete di luoghi precisi e reali, localizzabili su una carta, con un tempo determinato, «che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni». 38 39


292 Federico Rahola terotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi, i sogni inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari»40. Si potrebbe associare questa immagine a quella duplice suggerita da Deleuze e Guattari in Mille piani, per cui il mare è «lo spazio essenzialmente liscio che si lascia striare», e le città sono invece «superfici striate che restituiscono spazi scandalosamente lisci». La nave, in altre parole, sembra funzionare come spazio rovesciato, “dentro e contro” il mare: ne sfrutta il moto e lo dirige altrove; così come Kobane sembra essere il contro-spazio, scandalosamente liscio, che emerge da una superficie iperstriata: “sfrutta” i confini e le definizioni che producono per creare uno spazio ad essi contrario. E cosa se non le pratiche dei corsari e delle/dei militanti dello YPG hanno contribuito a rendere entrambi dei contro-spazi? Al pari di Kobane, le navi corsare restituiscono piuttosto efficacemente un esempio di “aree in cui decidere come condursi”, territori di soggettivazione collettiva definiti/costituiti attraverso una serie di pratiche che potrebbero chiamarsi anche controcondotte. Foucault, già lo si è accennato, offriva una particolare definizione della nave come contro-spazio o “eterotopia per eccellenza”, e lo faceva a partire dalle pratiche ricorrendo all’idea di un “serbatoio di immaginazione”. Credo che quest’immagine permetta di cogliere, quasi di afferrare, il punto di contatto tra gli spazi altri, i contro-spazi elencati a Tunisi nel 1967 e le pratiche altre o controcondotte passate in rassegna al Collège de France nel 1978, alludendo a territori che si immaginano/definiscono mentre li si abitano/costruiscono, mentre li si praticano41: as we go along. Del resto, l’immaginazione è presumibilmente la principale facoltà richiesta a chi improvvisa, a chi cioè produce collettivamente, procedendo insieme, qualcosa di diverso, tempi e paesaggi sonori inesplorati. Eterotopie, quindi, come contro-spazi di soggettivazione. E non si tratta di un marchio di fabbrica esclusivo di Foucault. Lo stesso termine, infatti, è stato utilizzato qualche anno dopo e con un’accezione sostanzialmente diversa anche da Henri Lefebvre, per indicare uno «spazio liminale», ai margini, “dentro e contro”, in cui produrre «qualcosa di diverso»42. Ce lo ricorda David Harvey: M. Foucault, Spazi altri, Mimesis, Milano 2001, p. 34. Cfr. T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma 2004; F. Rahola, Texture as a Practice, in I. Buonacossa e J. Grima (a cura di), Cosmic Jive: Tomàs Saraceno, the Spider Session, Genova 2014. 42 H. Lefebvre, La rivoluzione urbana, Armando, Roma 1973. 40 41


As we go along 293 Il concetto di eterotopia di Lefebvre delinea degli spazi di possibilità liminali dove “qualcosa di diverso” non è solo possibile ma necessario per definire delle traiettorie rivoluzionarie. Quel “qualcosa di diverso” non nasce necessariamente da un piano consapevole: più semplicemente da ciò che le persone fanno, sentono, percepiscono e riescono ad articolare quando sono alla ricerca di un senso nella loro vita quotidiana. Queste pratiche creano dappertutto spazi eterotopici. Non occorre aspettare nessuna grande rivoluzione per creare simili spazi43.

La parola non avrà vita lunghissima (neppure) nel pensiero di Lefebvre, ma si ridefinirà e finirà per confluire (verosimilmente e carsicamente) nell’idea di «spazi di rappresentazione», in territori a un tempo fisici e immaginati da opporre alla rappresentazione ufficiale e normata degli spazi. Come per le eterotopie, si tratta di spazi quotidiani, segnati ma aperti alla possibilità, al conflitto: «lo spazio dominato, dunque subìto, che l’immaginazione tenta di modificare e di occupare»44. Esiste infatti uno spazio vissuto, prodotto da situazioni, che si innesta, dialoga o confligge (che “abita o resiste”) con quello concepito/rappresentato ufficialmente, andando a confluire nell’insieme delle pratiche spaziali, dello spazio per come lo percepiamo45. In altre parole, le pratiche spaziali sono la somma di automatismi, di rappresentazioni oggettivate (e assoggettanti) che costituiscono lo spazio concepito, e di spazi di rappresentazione (o di soggettivazione) che riflettono ed eccedono questa geografia definita e tracciata: che la ri-rappresentano, contestano e invertono. Produrre collettivamente e materialmente questi contro-spazi definisce l’orizzonte quotidiano e la tensione costituente propria di una serie di situazioni collocate ai margini o negli interstizi46, e che dai margini sovvertono l’idea di centro. Cercavo un riferimento spazio-temporale per definire la portata di tali situazioni. E ho trovato qualcosa in quanto Georges Perec rubricava come “infra-ordinario”: «non ciò che i discorsi ufficiali definiscono come l’evento, il momento topico, ma ciò che gli sta dietro, l’impercettibile ruD. Harvey, Città ribelli, Il Saggiatore, Milano 2013, p. 17. H. Lefebvre, La produzione dello spazio, cit., vol. I , p. 59. 45 Cfr. E. Soja, Thirdspace. Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, Basil Blackwell, Oxford 1996. 46 Cfr. A.M. Brighenti (a cura di), Urban Interstices. The Aesthetics and the Politics of the In-between, Ashgate, London 2013. 43 44


294 Federico Rahola more di fondo che diventa premessa e possibilità dell’evento stesso»47. All’idea di controcondotte associo questo universo di pratiche situate e “infraordinarie”, autonome e collettive: situazioni in cui si decide insieme come condursi e si producono nuovi spazi da costruire, tempi da abitare, soggetti da divenire, as we go along. E ancora non so se Foucault sarebbe d’accordo. Federico Rahola Universita degli Studi di Genova federico.rahola@unige.it

. As we go along. Spaces, Times, and Subjects of the Counter-Conducts This paper explores the ideas of time, space and subjectivity that are inscribed in a series of contemporary collective practices of conducting oneself differently, and in particular in the struggle of resistance that took place in Kobane. It shows that these “infra-ordinary” practices are both autonomous (individualizing) and plural (common) and suggests that we should consider them as “counter-conducts”, i.e. as specific situations in which we collectively choose how to conduct ourselves and we produce as we go along new spaces to be constructed, new times to be inhabited and new subjects to become. Keywords: Counter-Conduct, Time, Space, Subject, Resistance, Infra-Ordinary, Collective Practices.

47

G. Perec, L’infra-ordinaire, Seuil, Paris 1989, p. 7.


Michel Foucault e l’eredità della critica Paolo B. Vernaglione

Essere critici

Per rintracciare la funzione della critica nel pensiero di Michel Foucault

bisogna tentarne la ricerca interrogando il presente. Ponendo al nostro tempo la questione della sua ontologia, tentiamo di invertire il soggetto che pone la domanda con l’oggetto che dovrebbe rispondere. Perché noi, confitti come siamo in questo presente, non possiamo rispondere alle sollecitazioni intorno all’esistenza, o ai punti di resistenza, o alle linee di diserzione della critica, se non esercitando anzitutto la critica di noi stessi. Ma per far ciò, dovremmo abitare un altro tempo, produrre una impossibile distanza da ciò in cui siamo implicati. D’altra parte non riusciamo nell’intento neanche mettendo il mondo tra parentesi, perché l’epoché fenomenologica suppone un’intenzione soggettiva, cioè un atto e un sapere che, nell’inversione di oggetto e soggetto, tipica del movimento della critica, sfugge ad ogni determinazione di ciò che oggetto e soggetto potrebbero essere. Del resto, Foucault insiste più volte, riguardo alla mobilità in cui l’insieme delle pratiche di soggettivazione è presa ­– soprattutto quando in gioco è la dismissione di dispositivi di disciplinamento – sulla mobilità delle definizioni ontologiche, e sull’effetto di desoggettivazione che questa dinamica produce, nel gioco tra i corpi, nei rapporti di potere, nelle relazioni tra saperi e conoscenze1. Chiedendo dunque alla quotidianità concreta piuttosto che a noi stessi se esiste un posto della critica in questo presente evitiamo il doppio rischio del soggettivismo e della tautologia, ma accettiamo un rischio maggiore: di non poter intendere la risposta che nel caso ci perviene. Giorgio Agamben ha di recente evidenziato questa dinamica, in riferimento al sadomasochismo, che, per Foucault, «pur essendo un rapporto strategico […], è sempre fluido. Vi sono certo dei ruoli, ma ciascuno sa benissimo che essi possono essere rovesciati. A volte, all’inizio del gioco, uno è il padrone e l’altro lo schiavo, ma, alla fine colui che era schiavo diventa padrone» (G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 147). 1

materiali foucaultiani, a. IV, n. 7-8, gennaio-dicembre 2015, pp. 295-313.


296 Paolo B. Vernaglione Quando infatti abbandoniamo la posizione del soggetto ci esponiamo ai segni del mondo, che non giungono tradotti nel linguaggio verbale; d’altra parte dal momento in cui il pensiero, in quest’ultima modernità, ha rifiutato di pensare il mondo come oggetto, è stato investito da un’esteriorità irriducibile alla percezione quotidiana. La risposta, se ci sarà, dovrà dunque essere avvertita nella percezione che questi giorni offrono delle continuità con, e delle contraddizioni rispetto ai discorsi che si fanno, ai rapporti di potere che si danno e alle forme di soggettività in cui abitano questi discorsi e questi rapporti. Dunque, la domanda sulla realtà della critica non può attendere una risposta che sia espressa solo nel linguaggio verbale, nella scrittura o nell’enunciazione teorica, ma forse più in quella dimensione non discorsiva della sensibilità, nella percezione della “tonalità emotiva” inerente a quest’epoca, o, se vogliamo, al livello delle sintesi passive, laddove l’aria che si respira, gli odori che si annusano, le sensazioni provate segnalano distintamente lo “spirito del tempo” ma trovano a fatica traduzione in parole. Con la domanda sulla critica infatti siamo al di là della semplice espressione di come il mondo è; supponiamo l’uso della ragione e di un linguaggio articolato, in cui l’analisi del mondo diviene riflessione, una volta operato un distacco, recepita una rottura, avvertita una crisi. Ma se pretendiamo di ottenere dalla realtà ciò che sappiamo sulle epoche di crisi, tutto ciò che l’epoca moderna ha prodotto come critica, tutto ciò che la storia ha trascinato fin qui del senso della critica – proprio perché attendiamo risposta dalla prassi –, la realtà non ci fornisce un annuncio attendibile. L’inversione dei termini nella questione della critica, per cui oggi la risposta spetta più al mondo e meno all’essere umano, almeno da quando Nietzsche ha operato quest’inversione dei valori nella ricerca genealogica, ci conduce nel campo di indagine battuto da Foucault, cioè in quella zona franca del sapere in cui uomo e mondo si indifferenziano, l’uno trovandosi al limite delle possibilità del pensiero verbale, l’altro distogliendosi dall’opacità cosale che lo manifesta nell’espressione di ciò che l’essere umano può percepire solo nei toni e nel ritornello del presente. Alla luce di tale premessa la domanda rivolta al presente assume la forma non retorica sulla critica. Cioè: esiste ancora la critica nel nostro tempo, sia nel senso di una critica del presente che di una critica nel presente? E a quali condizioni si può oggi formulare un campo della critica che non riduca l’oggetto su cui essa si esercita alle categorie con cui, almeno dal di-


Michel Foucault e l’eredità della critica 297

ciottesimo secolo, è stata praticata? E, d’altra parte, a quali condizioni oggi può prodursi un sapere critico che non metta a rischio la pratica critica considerandola superata, anacronistica o inadeguata? Insomma quale posizione il fare critico può ricavarsi tra la tradizione e la virtualità, in modo da non essere schiacciato tra le opposte polarità dell’abitudine impressa dalla tradizione e di un esercizio che non contesta il tempo attuale? Così posta la questione si presenta come questione dell’eredità della critica, tanto più se riconosciamo che l’epoca moderna, come Foucault dichiara nella conferenza del 1978 Qu’est-ce que la critique?, è contrassegnata dal fare critico, cioè da un certo profilo individuale e collettivo in cui si fanno consistere i rapporti del soggetto con il mondo2. Ora, come Foucault dimostra, esiste una continuità storica della critica, dalle contestazioni della pastorale cristiana in Wycliff e nel basso medioevo, alla Riforma protestante, all’Illuminismo e, nel diciannovesimo secolo, alla “sinistra” hegeliana. I grandi episodi storici, religiosi e filosofici di sovvertimento, di deviazione, di eresia, vivono in una consistenza che attraversa il tempo e ci porta a pensare il loro senso come materia di un’eredità possibile, cioè di un patrimonio che si trova in un certo rapporto con eventuali eredi; un patrimonio che è più o meno formalizzato in regole e vincoli di enunciazione e che è in qualche modo legittimato dai conflitti sociali, dalle rivolte, dalle rivoluzioni – ma anche dalle guerre, dalle stragi, dai genocidi. Dobbiamo però dire subito che per “eredità” Foucault non intese un lascito costituto dall’accumulo di conoscenze e credenze e inserito in una tradizione, ma, al contrario, l’insieme degli elementi di dispersione, gli strati di saperi eterogenei che risultano come emergenze in un tempo determinato e possono essere restituiti alla conoscenza solo a determinate condizioni. Questo significato della prassi critica, configura il pensiero in ciò che ha di storico. Come Foucault scrive di se stesso (in terza persona) nell’“autoritratto” per il Dictionnaire des philosophes del 1984: la sua opera potrebbe essere definita come Storia critica del pensiero. Con que-

sta definizione non si deve intendere una storia delle idee che sarebbe, nello stesso tempo, un’analisi degli errori che possono essere rilevati a posteriori; o neanche un deciframento dei misconoscimenti a cui sono legati e da cui potreb2

Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997.


298 Paolo B. Vernaglione be dipendere quello che pensiamo oggi. Se, con pensiero, intendiamo l’atto che pone un soggetto e un oggetto nelle loro diverse possibili relazioni, allora una storia critica del pensiero sarebbe un’analisi delle condizioni in cui si formano o vengono modificate certe relazioni tra il soggetto e l’oggetto, nella misura in cui queste ultime sono costitutive di un sapere possibile3.

Ora, il fatto che, tramite l’opera di Foucault possiamo in qualche modo ricostruire una storia della critica, con tutte le cautele riguardo alla genericità di un concetto che trova applicazione in tutti i campi del sapere, indica che é esistito e forse esiste ancora, un patrimonio da ereditare, un lascito da rivendicare, una posta da pretendere, alla fine della partita, una volta che i giocatori hanno abbandonato il tavolo. Inoltre, il fatto che in questa modernità ci riconosciamo come esponenti di una razionalità che ha una storia, ma siamo anche eredi a nostra volta di un fare critico in una storia di dominio e di resistenza al dominio, a certe forme di governo di sé e degli altri; e ci riconosciamo in una vicenda di conflitto, per la costituzione di alternative al dominio della ragione capitalista; in ragione di questo riconoscimento, cioè che esiste una misura della razionalità con cui sono stati conosciuti i rapporti tra poteri, saperi e soggetti – possiamo dire che la questione della critica come eredità è una questione insieme generazionale, archeologica e strategica. Cioè una questione di scelta dei regimi discorsivi inerenti al modo in cui la critica potrebbe operare come teoria, come arma di conflitto e come prassi di soggettivazione. Dunque genealogia, archeologia, strategia. E se siamo d’accordo che al presente la critica non può che configurarsi come quel profilo d’opera e di pensiero già da sempre vigente nel passato e recuperabile a determinate condizioni, se ammettiamo questo, potremmo cogliere il senso forse più radicale della critica: l’essere “per natura” critici. Come Foucault ribadisce in più occasioni, al di qua e al di là del pensiero critico, la critica è una pratica inerente a, o che esprime un atteggiamento, in cui il soggetto nasce e vive critico. Diciamo allora che non c’è pensiero o opera se, al fondo della produzione di pensiero e di opere non esiste un istinto critico. Ma questo senso, attribuito “per natura” al profilo critico, l’essere “naturalmente” critici, l’esercitare per istinto, o per nascita, o per M. Foucault, Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 248 e ss. 3


Michel Foucault e l’eredità della critica 299

destino o carattere la critica, è molto generico e molto contraddittorio rispetto alla storicità della prassi umana. Rischia dunque di essere equivocato, perché potrebbe essere interpretato come la definizione di una qualità o di un carattere innato (l’esser nati critici e quindi avere un destino da critico), mentre già Walter Benjamin, critico d’eccezione e in più campi del sapere, aveva dimostrato che, a differenza dell’antichità, in cui erano considerati in senso mitico e religioso, bisogna intendere i termini di destino e di carattere individuale come profili e funzioni normative della soggettività. D’altra parte, l’attribuzione all’essere critici di una specie di generatività spontanea non è completamente errata perché ci permette di apprezzare, per dirla con Foucault, la distanza tra l’antichità e l’epoca classica, e tra questa e la modernità; distanza per il diverso modo di considerare il destino personale, la vocazione e l’insieme delle preferenze personali, nonché il campo di ricerca che si pratica o il settore lavorativo che si vorrebbe intraprendere. Questo per dire che in effetti in un certo modo di dirigerci, in un certo comportamento, che non è del tutto assimilabile all’educazione, all’ambiente, ai rapporti sociali o di produzione, o alle tecnologie; in un particolare modo di affrontare il mondo opponendosi al senso comune, contestando il pensiero corrente, pensando e operando controcorrente per sfaldare i rapporti di potere, le costrizioni e i vincoli di uno Stato, di una cultura, di una verità assoluta; in questa pratica più o meno ingenua, più o meno pura, riscontriamo l’indelebile segnatura dell’essere critici. Tuttavia, non diremmo che esiste una zona nascosta, sottratta al senso e alla ragione e determinata in via esclusiva dalla genetica o dalla fisiologia, cioè che esiste un’eredità biologica inconoscibile che, messa direttamente all’opera, a prescindere dall’esercizio critico, dall’azione critica, dai rapporti di sapere e di potere in cui il soggetto si trova implicato, nonché dalla biografia individuale, produce il critico come tipo umano specifico e particolare; il tipo dotato del genio della critica, come invece si pensava intorno alla metà del diciannovesimo secolo in Francia e in Germania. Siamo oggi propensi a dire, misurando la distanza tra certe pratiche inerenti il “sé”, l’insieme di “tecnologie del sé” che Foucault ha indagato nell’antichità greca e latina e nel cristianesimo, e le possibilità aperte nella modernità da un’ermeneutica del soggetto, che non esiste comportamento critico al di fuori di una costellazione storica, di un tirocinio sociale, di un campo di esperienza che comprende anzitutto le sconfitte, e in primo luogo le sconfitte storiche di soggetti collettivi.


300 Paolo B. Vernaglione Ma possiamo affermare questo, cioè che il rischio della critica è l’essere sconfitti, perché questa esperienza è anzitutto un fatto individuale ed è costituita dagli eventi di cui è intessuta la storia personale. La critica insomma è anzitutto ciò che racconta una biografia, quando decifra il rapporto del soggetto al mondo, alla realtà, al tempo in cui vive, agli spazi che abita e ha abitato; ma è anche l’espressione franca dei compromessi che ha accettato, delle incoerenze in cui è caduto, delle contraddizioni tra atti di resistenza e desideri. Possiamo allora dire che la critica, la pratica della critica è il rapporto del soggetto con la storia, è il luogo in cui il soggetto, legandosi alla verità si vincola alla storia. In questo senso la pratica critica ci distoglie da “noi stessi”, disloca la storia personale nel campo aperto della storia e ci fa riconoscere soggetti nella storia solo a patto di esaurire la storia del soggetto. Non esiste quindi rivoluzione senza critica; ma la critica esiste nel fallimento delle rivoluzioni, nella débacle dei progetti di rivolta, nella sovversione di un ordine post-rivoluzionario, che viene registrato ed elaborato individualmente. In prima istanza la critica non è l’autocritica di un collettivo, un partito, un’organizzazione politica. L’autocritica infatti è un’altra cosa, ha a che vedere con un altro tempo, un’altra prassi di soggettivazione in cui vige la condivisione delle sconfitte, l’obbligo a render conto di qualcosa anche quando manca l’accordo, o laddove si percepisce la lontananza da una verità del fallimento; quando è promossa una narrazione che dissolve d’imperio il tempo e l’interpretazione soggettiva della sconfitta, non lasciando a quel tempo di commisurare le ragioni enunciate con quelle percepite e non sapute, o non comunicabili, e per questo più cogenti. Si potrebbe allora dire che l’essere critico, la modalità esistenziale della critica, emerge e può essere praticata a causa di una rottura tra la soggettività e un potere istituito, o che ha guadagnato posizioni, o che si è consolidato. Il momento della critica non è mai l’atto assoluto nell’istante in cui esplode, bensì l’effetto di misura della distanza tra se stessi e ciò che si è contribuito a rovesciare; tra ciò che si era prima della rivoluzione e ciò che si è adesso. Le domande della critica sono: Con quali nuovi poteri ho a che fare? Quali relazioni discorsive posso intrattenere? A quale tipo di attività sono costretto? Quali interessi posso coltivare? Detto con Foucault: A quali giochi di verità posso partecipare, o quali posso intraprendere e da quali sono preso?


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Certo è solo attraverso l’esercizio che la critica si costituisce come tale, e non esiste una natura critica dell’umano che ontologicamente o alla stregua di un trascendentale precede la prassi critica. E però, sempre con Foucault, le condizioni in cui può darsi esercizio critico, consistono nell’essere costituiti come critici, nell’avere un profilo ad esclusione di altri profili, prima di ogni atto e di ogni impresa. È quanto Foucault constata, quando nell’età classica viene messa in discussione la lettura dogmatica delle Scritture; oppure agli inizi della modernità quando evaporano le superstizioni che non consentivano secondo Kant la fuoriuscita dell’uomo dallo “stato di minorità”. Assumere dunque un certo atteggiamento, essere in una certa posizione nei confronti delle continuità storiche, dei rapporti di potere esistenti, delle forme in cui si produce la soggettività, in questo consiste l’essere critici, ed è ciò che permette e disloca la critica come esercizio. Si tratta, come si vede, di un atteggiamento etico, di una prassi etica, di qualcosa che ha a che fare con l’intrinseca costituzione dell’organico, nella cui differenza di modi riconosciamo la distanza tra l’epoca classica e la modernità, la distanza tra se stessi e la realtà esistente: in una parola, nell’essere critici troviamo l’inattuale che Nietzsche attribuiva a se stesso e ai “filosofi dell’avvenire”. Bisogna in secondo luogo operare un’altra distinzione, utile per far emergere un campo della critica: quello tra invarianza biologica e variazione storica, che Paolo Virno ha messo in luce e ha chiarito in tutto il valore epistemico che tale distinzione acquisisce4. L’effetto di distacco dal mondo del soggetto che sarà critico di se stesso e del mondo, non è l’emergenza di un individuo biologico “tornato allo stato di natura”. La critica come prassi naturale, come carattere specie-specifico dell’animale umano, che determina, alle spalle dell’impresa critica, l’opera critica, consiste piuttosto in una posizione singolare in rapporto alla conoscenza, alla verità e alla prassi come fatti naturali. In questo senso l’essere critici come fatto etico è una consapevole naturalizzazione, a partire da cui, nelle continuità storiche in cui si annunciano le rotture della modernità, si è costituita una tradizione e in cui possono costituirsi certe forme storiche come effetti della critica. La Riforma protestante e le lotte contadine, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, il socialismo e le Cfr. P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Id., E così via, all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010; Id., Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 4


302 Paolo B. Vernaglione rivoluzioni del 1848, il comunismo e la Comune di Parigi, la Repubblica dei Consigli in Germania, la rivoluzione del 1917 in Russia, la rivoluzione operaia e studentesca del ’68-’69 in Europa; l’operaismo e il movimento del ’77, il femminismo e le pratiche rivoluzionarie di soggettivazione di “genere”, rompendo la cultura, annullando le distinzioni tra natura e artificio, realtà e finzione e sovvertendo la prassi hanno costituito forme di vita, prima che ordinamenti e organizzazioni di potere. Ciò in ragione del fatto che l’abito critico si confeziona nel campo di tensione di libertà e necessità, passività del pensiero e azione razionale, contingenza dell’evento e permanenza del discontinuo. Per questo motivo il luogo della critica, potremmo dire il reale della critica, è il luogo archeologico di un sapere generale, di una filosofia, da cui possono provenire così la teoria critica e l’interpretazione delle scienze, come la contestazione dei dispositivi di potere. Inoltre osserviamo che se l’essere critici è una certa posizione del soggetto in rapporto alla verità, il concetto di critica nell’età moderna è inscritto in un sapere antropologico la cui parabola inizia con l’Antropologia pragmatica di Kant e si conclude alla fine del diciannovesimo secolo con lo sviluppo delle scienze umane. Proprio perché la critica inerisce all’eredità di un sapere sull’uomo prima che all’impresa di cui testimonia; e proprio perché è dislocata, storicamente, nel campo di tensione tra sapere e non sapere, possibilità e divenire, sintesi passive e uso della ragione; per questo motivo l’uso della critica segna il limite della possibilità di conoscere. Inoltre questa soglia è generata, nella mobile contingenza dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti, da una fonte che è replica dell’esercizio critico nel campo del sapere sulla natura umana; infine, l’essere critico per esistere ha bisogno di un ambito, che non è la conoscenza astratta più o meno formalizzata delle scienze e delle discipline, bensì il luogo di una volontà di sapere in cui troviamo pulsioni e volontà di verità, istinti e comprensione, tracce di infinito in possibilità finite e numerabili. Fonte, ambito, limite sono le condizioni di possibilità della critica come sapere sull’uomo che Foucault rinviene nell’Introduzione al testo kantiano,5 rievocate sinteticamente nella conferenza del 1978. In questa soglia di epistemologizzazione riconosciamo a nostra volta l’effetto di una pratica archeologica. Come infatti abbiamo appreso da Le parole e le cose, il nesso che stringe critica e antropologia deve essere a sua volta criticato. Il diciannovesimo secolo che lo ha instaurato si incarica di Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, pp. 9-94. 5


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spezzarlo. Infatti, nel momento in cui la riflessione del sapere sull’uomo inizia ad avere come oggetto la natura umana, le griglie di interpretazione in vigore nella modernità si sfaldano a favore delle scienze umane e sociali, culminando negli anni venti del Novecento nell’antropologia filosofica, oggi in via di rivisitazione per motivi connessi alla storia del dominio che essa ha bordeggiato, e in alcuni episodi prodotto e fomentato. Nella contestazione dei valori a partire dalla volontà di potenza nella seconda Considerazione inattuale6, Nietzsche critica l’umanesimo che, nella ricerca di un senso dell’essere, ha la pretesa di ricentrare l’uomo nel tempo del suo massimo decentramento, nell’epoca del tramonto dell’umano. Nietzsche delinea dunque quel progetto critico, ancor oggi minoritario, di cui Foucault riprende la tematica. Questo progetto, espresso in Nietzsche, la genealogia, la storia7, costituisce il rovescio di qualsiasi eredità che venga considerata come il lascito di un sapere accumulato, omogeneo e organizzato, da conseguire per le future generazioni. Critica, storia, teoria A differenza della storia monumentale e antiquaria, nella storia critica troviamo il campo in cui Benjamin riconoscerà il profilo del materialista storico8. Si tratta infatti di contestare alla storia lineare dei grandi eventi (monumentale) e delle identità (antiquaria), la verità del suo corso da cui è espunta la storia quotidiana e miserabile delle plebi, di cui a fatica, oggi come ieri, ricostruiamo l’archivio. E si tratta di indirizzare la ricerca passando la storia a contropelo e risalendone il corso non per verificarne le continuità ma per promuovere l’evento, per riconoscere lo svolgersi effettivo dei conflitti. Questo gesto in cui lo storico si lega alla storia non come ad un’oggettività data alla riflessione, ma nella molteplicità di rapporti in cui gli eventi si offrono come differenze, questo gesto instaura un’altra serie di relazioni, tra lo storico e la storia e tra la storia critica e la prassi. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1999. Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977. 8 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, pp. 72-83. 6 7


304 Paolo B. Vernaglione Anzitutto la posizione dello storico muta rispetto alla storia: il suo posto non sarà più quello assegnatogli da una distanza, in cui si realizza l’obbiettività a posteriori che ha nome di “falsa coscienza” ma, come Foucault scrive ne L’archeologia del sapere, e come ricorderà Deleuze nel saggio su Nietzsche9, lo storico vive dal basso di un’altezza, posizione vera e paradossale dalla quale apprezza i conflitti reali, i movimenti di popolazioni, le rotture e le dispersioni. In secondo luogo il soggetto della storia non preesiste all’evento ma si realizza nella disorganizzazione del suo apparire. Infine, il gesto critico investe la storia critica che ha promosso, ove si tratta di sottrarre l’interpretazione degli eventi agli “uomini del risentimento”, alla classe conflittuale, per restituirle il soggetto di una genealogia. Nei tre ambiti d’esercizio degli storici registriamo il limite e la disdetta di tre concezioni della storia che hanno fatto scuola tra la fine del diciannovesimo e la fine del ventesimo secolo e che il metodo storico degli Annales ha rimesso radicalmente in discussione: il positivismo della scuola storica di Sombart, lo storicismo della Seconda Internazionale, il materialismo dialettico. Mentre infatti la storia di Sombart pronuncia l’universale nella cronologia dei grandi eventi, isolando i fatti dalla trama delle circostanze, le attualizzazioni compiute, come scrisse Benjamin, nel “bordello dello storicismo” dispiegano la storia nello sviluppo lineare in cui gli oppressori non smettono mai di vincere; mentre il materialismo dialettico in nome della necessità causale, rinuncia all’evento, censurandolo nella trama della struttura economica da cui è determinato in maniera unilaterale. La difficoltà dei conflitti nel divenire eredità e l’inoperosità di quel modello di storia critica, sembrano dunque risultare da una certa concezione del soggetto storico che anima al fondo la teoria critica che, mentre coglie al livello dell’archivio le rotture e le discontinuità storiche e ne rileva l’importanza nella costruzione di controcondotte, genera una sistematica, una specie di ortodossia, da cui le generazioni attuali si allontanano e che impedisce che si prenda possesso di una possibile eredità critica. Infatti l’eredità è un fatto di vicinanza, che potrebbe divenire acquisizione e consiste nel fatto, simbolico e reale, che rimette in discussione le genealogie, che disloca le filiazioni, e che tramuta l’arché nella replica dell’origine; trattandosi insomma di un evento di dispersione in rapporto a forme di vita nate nella differenza, è all’interno di questa differenza che bisogna cercare 9

G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002.


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le ragioni della non-corrispondenza tra la teoria critica “storica”, cioè la storia della teoria critica e il suo possibile uso al presente. Il tempo presente, che tralascia la critica per l’immediatezza di un atto che si pretende puro, apre un campo di problematizzazione, che nasce dalla differenza tra la tradizione della teoria critica, istituita da Weber e che arriva ad Adorno e a Marcuse, ed un antagonismo che possiamo chiamare non critico, ma che sembra essere l’effetto della stessa teoria critica che interpreta il rifiuto come sintomo di omologazione alla “società dei consumi”, invece che come salutare testimonianza dell’esodo dallo Stato, dal lavoro subordinato e dalle identità collettive. Sicché possiamo dire che a divenire problematici non sono gli atti di contestazione ma la prassi politica, la “formazione” delle anime e la produzione di soggettività nelle forme in cui tali dispositivi si costituiscono. Certo, genericamente siamo pronti ad asserire che, a differenza degli anni sessanta, l’insieme dei rapporti sociali è profondamente cambiato, e attribuiamo ad un mutamento antropologico la causa più diretta delle differenze tra generazioni. Ma rimane comunque il fatto della distanza tra il pensiero critico e le forme attuali di soggettivazione, distanza che non è riducibile né alle sole ragioni dello sviluppo tecnico della razionalità occidentale, né solo allo sviluppo delle forze produttive, né soltanto al mutamento delle forme di governo alla fine dello scorso secolo. Diremmo che in capo a questi rapporti è ancora la questione della soggettività che può metterci sulle tracce sia della scomparsa della teoria critica, sia della differenza tra le pratiche dei movimenti degli anni settanta del Novecento e le odierne forme di protesta, come delle possibilità di costituire la critica come un’eredità liberamente adoperata. Ciò che insomma cerchiamo di chiarire è che al presente non in una sola delle componenti degli attuali rapporti sociali (componente delle tecnologie, componente dell’economia capitalista, componente della governamentalità), ma nell’insieme di esse si misura la differenza tra le attuali pratiche di resistenza e la sperimentazione critica degli anni sessanta. E che d’altra parte le forme di vita attuali ci restituiscono aspetti parziali della crisi della critica come esercizio del pensiero. L’inchiesta sulle pratiche di soggettivazione non potrà darci un quadro attendibile delle dinamiche effettive che osserviamo. E sappiamo, per la storia trascorsa dagli anni sessanta, che quanto più cerchiamo uno schema che ci consenta di inscrivere al suo interno le forme di conflitto o le pratiche di rifiuto e di contestazione, tanto più queste pratiche sfuggono e si sottraggono deliberatamente alla storicizzazione.


306 Paolo B. Vernaglione Ciò accade forse perché ciò che si progettava negli scorsi anni settanta, e che alla luce di un progetto si pensava, si discuteva e si realizzava, si traduce nell’immediatezza di un gesto assoluto, senza che un’identità metta capo ad una forma di vita o ad un soggetto. Gli effetti di questa mutazione, che è insieme antropologica, psichica e governamentale, cioè che riguarda il mutamento dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti, sono al cuore della differenza tra le forme di resistenza e di soggettivazione del ventesimo secolo e quelle con cui è iniziato il ventunesimo secolo. Questa differenza però non nasce solo in ragione della distanza dagli scorsi anni settanta, né dall’aver immaginato in questi anni una classe che non c’è, come nella vulgata reazionaria che riesuma la “centralità” del lavoro, bensì dal non poter rinunciare al soggetto, laddove, oggi più di ieri, è urgente, con Nietzsche e con Foucault, «rischiare la distruzione del soggetto della coscienza nella volontà, indefinitamente dispiegata, di sapere»10. Laddove infatti la realtà si struttura e si destruttura in molteplici pratiche di desoggettivazione, mantenere al centro dell’analisi del capitalismo la tendenza alla costituzione di un soggetto, o di una soggettivazione di classe che non consente più una dinamica di organizzazione, risulta contraddittorio in ordine alle reali composizioni sociali, come alla loro evanescenza. La proposta di un soggetto dei conflitti, benché disposta nell’autonomia e nell’indipendenza da apparati di Stato, di mercato e della società civile, che è oggi il vero soggetto di governo, non fa che riprodurre un profilo identitario in luogo dei molti profili già organizzati altrove: nelle fabbriche del sapere, nelle attività di comunicazione, nel dominio sul lavoro e sulla cura, se è vero, come ha scritto l’economista Christian Marazzi, che il dispositivo biopolitico è una macchina antropogenetica di regolazione dei corpi11. Perché quel rapporto è un indice rilevante della distanza tra un’analitica del presente, invocata come compito da Foucault, e la realtà dei conflitti, a partire da un passaggio di generazione che non riconosce una genealogia tradizionale; che non sente di appartenere alla storia del movimento operaio, né alla vicenda dei gruppi anarchici; né proviene dalla storia delle lotte per i diritti civili, o da quella del sindacalismo statunitense più di quanto percepisca la filiazione con il mutualismo del primo Novecento. M. Foucault, Archivio Foucault 1, 1961-1970. Follia e discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 2014. 11 Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Ombre corte, Verona 2010. 10


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Si tratta infatti di un’altra storia e di tutt’altro sapere; o meglio, all’interno di quest’altra storia, di un altro modello di storia: la decolonizzazione, le black panters, le rivolte antisindacali, studentesche, femministe e i circoli del proletariato giovanile – solo per fare alcuni esempi di una genealogia incompleta. Dentro questa storia si sono sviluppati la critica postcoloniale, un pensiero dell’esodo dalla società del lavoro, le gender theories e le teorie queer, in cui sono rievocati e riarticolati i concetti di biopolitica e di soggettività. Nel quinto capitolo de La volontà di sapere, Foucault adotta il concetto, o meglio la segnatura del “potere sulla vita” per indicare quella specifica relazione tra poteri, saperi e soggetti in cui «il diritto di vita e di morte è nei fatti il diritto di far morire e di lasciar vivere»12. A partire dal diciannovesimo secolo, ma in realtà in una lenta evoluzione dall’età classica, questo potere di morte «si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme». Questa trasformazione ha disegnato nuovi confini tra norma ed eccezione, legge e regola, inclusione ed esclusione, basata sul sangue, sulla razza, sul comportamento, determinando una soglia di normalizzazione incentrata sull’essere per gli altri un pericolo biologico. Così, «al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»13. Il potere sulla vita, dal diciassettesimo secolo, si esercita in due forme: sul corpo in quanto macchina con una tecnologia disciplinare, costituendo un’anatomo-politica del corpo umano; e, verso la metà del diciottesimo secolo, sul corpo-specie, inscrivendo in un nuovo regime di governo la nascita e la mortalità, la salute e la durata della vita, in una biopolitica della popolazione. L’era del bio-potere inaugura un’ideologia dell’ordine sociale che mette capo ad un dispositivo di sessualità come tecnica di potere: «L’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze sono stati in quel momento indispensabili»14. Con l’ingresso della vita nella storia «la realtà biologica si riflette in quella politica». Bio-storia e biopolitica sono «quel che fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 20018, p. 120. Ivi, p. 121. 14 Ivi, p. 125. 12

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308 Paolo B. Vernaglione di trasformazione della vita umana; questo non significa che la vita sia stata integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestiscono; essa sfugge loro senza posa»15. Dunque il regime biopolitico che le società neoliberali hanno prodotto e raffinato, a differenza del potere sovrano, non si esercita in un controllo totalizzante sulla soggettività, bensì nelle discontinuità operate nel e dal soggetto, all’interno di questo regime, nel tentativo di prelievo sulla vita che “sfugge senza posa” a quelle tecnologie di cattura. E sfugge proprio perché la vita è assunta come oggetto e posta in gioco del governo. Da una parte infatti norme, regole, discipline e tecnologie di controllo hanno la funzione di governare la vita integralmente, di non lasciare alcuna piega, alcuna percezione, alcun affetto, alcuno strato di soggettività alla nuda vita in cui il bios incontra la zoé. Ma, d’altra parte, la vita fugge via in quanto luogo di affezioni e percezioni, sostrato dell’organico e luogo delle mutazioni. E questo insieme di istinti e qualità, impressioni ed espressioni che si cerca di catturare e governare, costituiscono una volontà di sapere e una possibilità del soggetto che, nell’esteriorità dell’esistenza, può sottrarsi all’insieme dei dispositivi in cui si produce la sua libertà. Questa volontà “affettiva” in senso lato, può essere assimilata a qualcosa come una libertà anteriore a qualsiasi esercizio di potere. Come più volte Foucault ha affermato, laddove si esercita, un potere di assoggettamento incontra una forza contraria, una volontà di diaspora, di dispersione, di rifiuto. Ora, ciò che è importante, e che non fa ricadere tale costituzione delle forze nella dialettica di assoggettamento e soggettivazione, è che al presente assoggettamento e soggettivazione, non si muovono su piani simmetrici e non si configurano secondo un modello proiettivo per cui ogni assoggettamento produce un soggetto come sua rappresentazione. E i rapporti di forza non si organizzano in un simbolismo che ne compone le figure e le direzioni, ma producono conflitti nella dispersione, nella disparità, nella differenza di potenziale che si genera nella contingenza, nell’occasione di scontro, nell’alea del gioco. Dunque la realtà non coincide con la possibilità, che si crea piuttosto nelle soglie di irrealizzazione, nelle zone di dispersione, nelle vie di fuga da quel reale che produce sia i dispositivi che i soggetti, che organizza i dispositivi come soggetti e dispone le prassi di soggettivazione. C’è sempre squilibrio tra la realtà del potere sulla vita e le possibilità autonome di 15

Ivi, p. 126.


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costituzione. Non c’è automatismo nell’autonomia. Non c’è produzione di soggettività che sia commisurata all’esercizio effettivo di un potere; ci sono invece chances di liberazione negli strati dissestati di quei poteri, nelle forme periferiche, negli interstizi cavi in cui di continuo e per necessità il potere deve trasformare sovranità in governo dei viventi, leggi in norme, discipline in controllo. Nel regime biopolitico non c’è da una parte un potere totalizzante che esercita controllo e costrizione e dall’altra parte il rifiuto integrale del soggetto che vi si oppone, che sia un individuo, un gruppo sociale, una classe o una popolazione. Ogni raggruppamento, ogni singolarità, ogni forma di vita diviene soggetto disperdendo identità, creando sparizioni, fessurando controllo e normazione. Cogliere queste dinamiche che per lo più sono inconsapevoli, non sapute o non tematizzate, può essere utile per cercare di farsi governare il meno possibile. Ma dissolversi come soggetto non vuol dire annullarsi, bensì divenire altro, a prescindere dalla volontà di accelerare o meno questo divenire. Ciò significa che ogni tentativo di organizzare, di pensare, di regolare un’appartenenza, di riconoscersi come gruppo falliscono perché si ripiegano nell’identità e sono riconosciuti dalle forze cui intendono resistere. È la logica della guerra, che Foucault esamina nel corso “Bisogna difendere la società”; è la dialettica del conflitto, la contraddizione tra capitale e lavoro, che nel presente le forze produttive abbandonano all’esodo e alla diserzione. Voler recuperare quella dialettica, anche se ciò è avvenuto nella logica del conflitto diffuso, mette fuori gioco le resistenze e le contestazioni, emargina la reazione al disagio, laddove sarebbe necessario rendere inoperoso il lavoro, disattivare la legge, disarticolare la norma. Cioè considerare la soggettività (ad esempio il precariato), non come un tutto, ma come un resto, nel senso che Agamben attribuisce al primato d’elezione che deriva da una klésis, una vocazione16. Perché solo come resto, come singolarità particolare, non come parte di un tutto sociale, nella deriva del riconoscimento, la legge risulta disapplicata, il diritto è sospeso, la norma inoperosa. Poiché infatti la presa sulla vita si attua sui corpi e sulle popolazioni, è anzitutto valutando questo regime di iscrizione che vale la pena ripensare una strategia critica. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 55 e ss. 16


310 Paolo B. Vernaglione Se, a partire dalla metà degli scorsi anni settanta, le conseguenze della “presa sulla vita” con cui siamo entrati nella realtà neoliberale derivano, come Foucault annota alla fine di La volontà di sapere, dalla rottura dell’episteme classica e dalla trasformazione del discorso scientifico; dalla proliferazione delle tecnologie politiche che investono i corpi (la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita e l’intero spazio dell’esistenza) e dall’applicazione della norma piuttosto che della legge; se sono questi gli elementi di consistenza del governo dei viventi, il contrasto alla governamentalità diviene possibile nella diffrazione delle forze, nella frammentazione delle identità sociali, nel non riconoscimento degli spazi lavorativi (servizi, entertainment, informazione) organizzati dal capitalismo, più che nel recupero di una soggettività collettiva; nel “tra” della relazione, cioè nel comune, nello spazio che stacca i soggetti più che in quello che li accomuna. Ed è problematica proprio la produzione di questo spazio. Ma è a partire da esso, dall’irrealtà della sua esistenza, cioè dalla possibilità che si realizzi, che si ritessono rapporti e si creano un’altra forma di vita e un mondo altro. Nelle spinte centrifughe al divenire altro, all’anonimato; nel portare alle estreme conseguenze ciò che il capitalismo opera con la finalità di profilare la vita singola incontriamo, nella lettura di Nietzsche, l’interpretazione dell’intelletto generale. Accentuare la crisi, radicalizzare le tendenze, toccare il limite di presa e resistenza del capitale sottraendovisi, disertando la partita, evitando di giocarla sul terreno truccato – non per trovare l’antagonismo degli atti puri che costringe al silenzio e che, in nome dell’integrità astratta della lotta, opprime chi dovrebbe liberare; ma per valorizzare il rapporto tra preindividuale e individuo, tra metastoria e storia, comune e singolare che il capitalismo preleva a proprio vantaggio. Ripensare allora alla “presa sulla vita” nella stratificazione archeologica in cui il concetto si è cristallizzato in questi anni. Districarlo dalle generalizzazioni da cui è stato investito. Riallocarlo distribuendone l’intensità nella dissoluzione del soggetto collettivo. Provare ad organizzare le resistenze possibili sulla base dei bisogni reali di corpi e popolazioni. Verificare a quali condizioni e su quale livello, in quest’analitica del potere, l’intelletto interviene, qual è la sua funzione, in quali punti di smottamento dei regimi di enunciazione si trova incastonato. Rielaborare insomma un pensiero come critica affinché una pratica sia anche insieme un’esperienza da trasmettere.


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In sintesi, sono occorse almeno tre interpretazioni della biopolitica: come presa sulla e della nuda vita; come immagine ambivalente di individuazione immunizzante; come fulcro di governamentalità in cui si esprime l’intelletto sociale, nel mutamento dei rapporti di produzione, nel divenire rendita del capitale e nel divenire reddito (indisponibile) del salario. Queste tre interpretazioni hanno avuto diverso valore: la prima reintegra la lettera foucaultiana nella problematica del governo dei viventi e dell’homo sacer; la seconda interpreta la dinamica biopolitica come un paradigma; la terza, in presa diretta con l’analisi dei rapporti di produzione, cerca gli strumenti per restituire Marx ai conflitti sociali. Ma più che come dispositivo immunizzante o come dominio sotto il segno dell’intelletto generale, la realtà neoliberale ci mette di fronte al valore della nuda vita, che è la vera posta in gioco delle tecnologie di saperepotere. Se così è, se la costituzione del vivente in cui si sostanzia la soggettivazione e che riscrive una certa idea di natura umana, valorizzata dalle bio-tecniche e dalle tecnologie digitali, comporta l’intreccio inestricabile di metastoria e storia, invariante biologica e variazione storica, stratificazione preindividuale e individuazione, come sostiene Paolo Virno; e se in questo nesso consiste la bio-economia, secondo la qualificazione che ne ha dato Christian Marazzi, come produzione di «forme di vita, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana»17 allora è là, nei punti di giuntura e di separazione tra nuda vita ed economia come amministrazione dell’oikos18, che cerchiamo possibilità di resistenza, pratiche di desoggettivazione, orizzonti di sganciamento in cui opera un intelletto sociale. Oikos e nuda vita sono matrici generative, l’uno della vita preindividuale dell’organico, l’altra della variazione singolare della vita generica. Il campo di applicazione del governo della vita consiste dunque nel tentativo di ritrovare, alle spalle del rapporto tra capitale e lavoro, l’oikos e la nuda vita per valorizzare entrambe non più secondo la legge del valore e la misura del salario, bensì secondo l’accumulazione della rendita e la trasformazione in reddito dell’attività umana. Abbiamo dunque da un lato il modello dell’impresa, dall’altro il capitale umano come basi di produzione della ricchezza. Se l’incidenza profonda delle tecnologie di governo si attua nella trasforC. Marazzi, Il comunismo del capitale, cit. Cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 17

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312 Paolo B. Vernaglione mazione dell’economia in oikonomia nella logica d’impresa, e nella trasformazione dell’esistenza singolare in capitale umano, alle spalle di entrambe le formazioni, nel luogo di indistinzione di materiale e non materiale, preindividuale e individuale, si trova quel dispositivo antropogenetico responsabile ad un tempo sia della monetizzazione della vita singola nell’oikos finanziario, sia della trasformazione del salario in reddito possibile, nella forma del capitale umano. In entrambi i casi è la misura del reddito a funzionare come equivalente generale, come mezzo di pagamento e come forma del valore. Ma allora, sciogliersi dai vincoli del valore, dal ricatto del lavoro, dalla valorizzazione della vita significa pretendere reddito nella dismissione del lavoro, sganciando la nuda vita dal valore, facendo deflagrare il modello d’impresa che imprigiona l’oikos. Divenire anonimo, divenire impercettibile, non contare come gruppo, come soggetto organizzato, istituzionale, normato. Produrre un sapere sociale che è gaia scienza, che è politica della vita, che se la ride del mondo impolitico istruito da filosofi e sociologi. “Una risata li seppellirà” è il motto della genealogia, il rischio che «la storia, genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma di accanirsi al contrario a dissiparle»19. Ed è la condizione della critica, che può divenire eredità se «la critica delle ingiustizie del passato in nome della verità che l’uomo detiene oggi diventa distruzione del soggetto della conoscenza attraverso l’ingiustizia propria alla volontà di sapere»20. Se infatti il limite della storia critica come storia degli uomini del risentimento è il soggetto (come soggetto della storia, della conoscenza, della classe sociale), solo nell’annullamento dell’unità dell’“io”, della sua verità, della volontà di ricostituzione, scorgiamo la possibilità di una controcondotta. D’altra parte, disgregarsi non è cedere alla violenza reattiva di chi ritiene di aver compiuto l’esodo dai rapporti sociali, e vive il rituale di un’amicizia comunitaria, inconsapevole dell’inconsistenza di questa rendita di posizione. Debole anzitutto perché la comunità non “avviene” mai. In secondo luogo perché l’istinto dell’utile immediato sopravanza il miglior comunismo possibile. Infine perché, adoperando un’immagine di Benjamin, la felicità mondana è tramonto e quand’anche si realizzi in un mo19 20

M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, cit., p. 51. Ivi, p. 54.


Michel Foucault e l’eredità della critica 313

mento dato nella storia degli spazi alternativi, non fonda una politica, non inaugura una permanenza, non libera affatto da ciò che ha sovvertito. Desoggettivarsi si può divenendo inattuale, tramontando, cercando la scomparsa, cancellando le tracce della propria venuta al mondo nell’animale, che non pretende alcuna posterità, che disdice la filiazione, che disloca le forze. Cioè trovando un’essenza che dissolve le sostanze, altera le forme, disdice il discorso. Tanto più quanto «il sapere chiama oggi a fare esperienza su noi stessi»21. La critica del capitalismo nell’epoca della mobilitazione delle capacità e degli affetti potrebbe prodursi a partire da questa costellazione, cui non si tende ma che è reale; che non si organizza ma si deterritorializza; che è presa in un divenire altro. Da qui una politica della vita, spazi che sono eterotopie, luoghi del fuori in cui avviene la libertà; un divenire animale nella temperie oltreumana del gioco e dell’arte di cui possiamo essere liberi produttori. Paolo B. Vernaglione Università degli Studi di Roma “La Sapienza” paolo.vernaglione@uniroma1.it

. Michel Foucault and the Inheritance of the Critique What has happened to the critical nature of people? This script tries to investigate this question. If Foucault has described his work as a “critical history of thinking”, today we need to ask ourselves in which conditions critiquing is possible. Furthermore we need to ask “what does it mean to be critical”? This bunch of questions seems to be derived from Kant’s prior answer to “What is Enlightenment”? But today this issue is a matter of legacy, referred to the multiple ways in which the “power over life” is exercised. Keywords: Critique, History of Thought, Untimeliness, Enlightenment, Benjamin, Inheritance, Generations.

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Ivi, p. 53.


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