anno II, numero 4 luglio-dicembre 2013 ISSN 2239-5962
Butler / Foucault:
Undoing Norms, Reworking Subjects J. Butler Vulnerabilità e resistenza. Intervista a Judith Butler / Vulnerability and Resistance. Interview with Judith Butler by Federica Sossi and Martina Tazzioli
S. Fuggle Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler L. De Grazia Gli atti insurrezionali discorsivi dei prigionieri di Guantánamo: la rivendicazione di una politica della vulnerabilità C. Van Caillie Alterità della vita e alterazione del mondo. Ritorno sulla figura del cinico in Foucault e la performance drag in Butler A. Bragantini Confessioni precarie. Veridizione di sé e vulnerabilità alle norme in Michel Foucault e Judith Butler Ph. Sabot Soggetto, potere, discorso. Da Foucault a Butler, passando da Bourdieu C. Parisi Corpi Soggetti Norme M. Tazzioli The Departure from Categories and the Temporality of Norms. Working through Political Epistemology with Foucault and Butler
Saggi A. Sforzini Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto A. Brossat L’archivio e gli archivi. Archeologia dei discorsi e governo dei viventi S. Wahnich Michel Foucault e la Rivoluzione francese
materiali foucaultiani peer reviewed
DIREZIONE & REDAZIONE
Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli
COMITATO SCIENTIFICO
Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young
Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.
© 2013 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org
ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Daniele Lorenzini Copertina | Orazio Irrera & Daniele Lorenzini
materiali foucaultiani ANNO II, NUMERO 4
LUGLIO-DICEMBRE 2013
SOMMARIO 3 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli A che prezzo si diviene soggetti?
Butler / Foucault: Undoing Norms, Reworking Subjects 9 L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli Introduzione 17 Judith Butler Vulnerabilità e resistenza. Intervista a Judith Butler / Vulnerability and Resistance. Interview with Judith Butler by Federica Sossi and Martina Tazzioli 37 Sophie Fuggle Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 69 Laura De Grazia Gli atti insurrezionali discorsivi dei prigionieri di Guantánamo: la rivendicazione di una politica della vulnerabilità 95 Céline Van Caillie Alterità della vita e alterazione del mondo. Ritorno sulla figura del cinico in Foucault e la performance drag in Butler 115
Attilio Bragantini Confessioni precarie. Veridizione di sé e vulnerabilità alle norme in Michel Foucault e Judith Butler
141
Philippe Sabot Soggetto, potere, discorso. Da Foucault a Butler, passando da Bourdieu
165
Carlo Parisi Corpi Soggetti Norme
191
Martina Tazzioli The Departure from Categories and the Temporality of Norms. Working through Political Epistemology with Foucault and Butler
Saggi 217 Arianna Sforzini Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 237
Alain Brossat L’archivio e gli archivi. Archeologia dei discorsi e governo dei viventi
255
Sophie Wahnich Michel Foucault e la Rivoluzione francese
A che prezzo si diviene soggetti? di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli
A quale prezzo e all’interno di quali regimi di potere e verità diveniamo
soggetti e, in quanto tali, oggetti di un sapere? È a partire da tale interrogativo che abbiamo deciso di dedicare questo numero di materiali foucaultiani a un confronto a distanza tra le analisi di Michel Foucault e il lavoro di Judith Butler sul tema “Undoing Norms, Reworking Subjects”. Ed è sulla base di tale domanda che, insieme a Federica Sossi, abbiamo intervistato Butler per soffermarci sugli “usi” di determinati concetti, analisi e piste foucaultiane nei suoi lavori su genere e norme, ma anche su critica, etica e dire-vrai. Nonostante Butler non possa essere definita, come lei stessa sottolinea nell’intervista, una foucaultiana, la sua produzione originale, che fin dai primi anni novanta ha aperto nuovi cantieri e prospettive nel campo degli studi femministi e di genere, così come in quello della filosofia politica, ha attinto a molte analisi di Foucault, rilavorandone in parte i possibili usi e incrociandole con altri contributi filosofici – Levinas, Arendt, Lacan –, spesso percorrendo poi strade differenti rispetto a quelle foucaultiane. Questa modalità di “uso” selettivo e creativo della boîte à outils foucaultiana, che mette al lavoro alcuni di quei concetti e delle loro possibili variazioni e implicazioni in cantieri filosofici e in contesti politici diversi rispetto a quelli indagati da Foucault, è precisamente ciò che rende costruttivo il confronto a distanza tra i due filosofi. Interrogarsi su come Butler rilegga alcune analisi e categorie foucaultiane, dislocandole dal loro luogo di formazione e articolandole insieme ad altre influenze filosofico-politiche, permette in fondo di rivisitare e attualizzare il lavoro di Foucault. Nella prospettiva di Butler, dunque, non si tratta tanto di “fare uso” di Foucault, ma di individuare, nelle riflessioni del filosofo francese, traiettorie filosofiche e politiche da riprendere, intercettare, prolungare o traslare in parte entro cantieri di ricerca che, in Foucault, sono rimasti inesplorati, o comunque affrontati solo marginalmente. Torniamo all’interrogativo iniziale: a quale prezzo diveniamo soggetti e, al tempo stesso, oggetti di sapere? Tale domanda racchiude una serie di temi e nodi teorici che, in ultima analisi, definiscono il campo di problematizzazioni su cui è avvenuto l’incontro di Butler con il lavoro di Foucault: produzione e sovversione delle norme, processi di soggettivazione, dispositivo di sessualità, dimensione discorsiva e non discorsiva dei corpi, materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 3-7.
4 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli parrhesia/performativo e costituzione etica dei soggetti. Infatti, è sulla base di una sostanziale non accettabilità delle relazioni di potere e delle tecniche di assoggettamento che Foucault e Butler strutturano le loro riflessioni critiche, ricercando e indicando non solo le linee di fragilità del potere, ma anche gli spazi di soggettivazione e resistenza possibili. Del resto, entrambi i filosofi partono dalla constatazione che non può esserci qualcosa come uno spazio del “fuori”, vale a dire privo di relazioni di potere; e al tempo stesso, per entrambi, il soggetto non è semplicemente catturato da tecnologie di disciplinamento, ma è prodotto come tale a partire da una serie di processi duplici di soggettivazione e assoggettamento. Proprio per questo, qualunque relazione di potere e tecnologia di normalizzazione può essere modificata, sovvertita, trasformata dall’interno, non esclusivamente come “reazione a”, ma attraverso un gioco strategico e in eccesso rispetto alle condizioni di partenza che ci determinano come soggetti. “Soggetti a quale prezzo”, espressione che indica la sostanziale ambivalenza sulla quale si fonda la funzione “soggetto”, come sia Butler che Foucault mettono in luce attraverso la duplice e mobile definizione di soggetto quale effetto di pratiche di soggettivazione e di assoggettamento. Se le influenze foucaultiane sulla produzione di Butler relativa a genere e norme, nonché i punti di divergenza sul tema tra i due autori, sono stati ampiamente trattati in quest’ultimo decennio, soprattutto nel campo degli studi femministi, il lavoro più recente di Butler è rimasto in gran parte inesplorato dagli studiosi di Foucault; e, al contempo, il rapporto della filosofa americana con gli ultimi corsi di Foucault al Collège de France non è diventato oggetto di analisi. L’intervista condotta con Judith Butler per il presente numero di materiali foucaultiani si propone di analizzare questo terreno di incontro con le riflessioni di Foucault su etica, soggettivazione, critica e parrhesia. Le analisi di Butler cui ci riferiamo in tale contesto sono, da un lato, le riflessioni sulla precarietà e vulnerabilità costitutiva delle vite, sul differente grado di “compiangibilità” (grievability) delle stesse, oltre alle considerazioni sulla critica come virtù e atteggiamento; dall’altro, la recente elaborazione della nozione di “coabitazione non scelta”, di impianto essenzialmente arendtiano e levinasiano. È sul terreno dell’etica e della soggettivazione che il confronto a distanza tra i due filosofi risulta maggiormente avvicente e, al tempo stesso, rivelatore
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di prospettive etico-politiche differenti. Inoltre, è su questo campo che la dimensione performativa e di agency che Butler attribuisce al soggetto si trova associata a una concezione etica della soggettività come sempre determinata e imbricata agli altri – il soggetto come parte di una scena sempre abitata da altri. A partire da questa tensione, abbiamo cercato di sollecitare il dialogo a distanza di Butler con Foucault e, in particolare, con i suoi ultimi scritti sulla costituzione etica del soggetto e sull’interdipendenza tra dimensione etica e politica. Le piste di riflessione aperte dai corsi di Foucault al Collège de France degli anni ottanta e riprese da Butler per meglio precisare le proprie analisi su critica ed etica riguardano almeno tre aspetti essenziali, come Butler stessa spiega – ma poi la prospettiva e il modo in cui vengono rilanciate vanno in altre direzioni rispetto a quelle di Foucault. In primo luogo, il lavoro etico di sé su sé, sul quale si concentrano gli ultimi corsi di Foucault, costituisce per Butler una prospettiva importante per ripensare le forme di agency e di costituzione etico-politica del soggetto. Tuttavia, per Butler, è a partire dall’essenziale vulnerabilità ed esposizione dei corpi che deve prendere avvio qualunque riflessione etica sulle pratiche di trasformazione. In Butler, la centralità dell’apparire sulla scena del soggetto e della sua relativa precarietà, oltre alla questione del riconoscimento – tema praticamente assente in Foucault –, definiscono i contorni entro i quali pensare la costituzione e l’auto-costituzione dei soggetti. La seconda risonanza foucaultiana si trova al livello delle pratiche parresiastiche e del modo in cui i soggetti si legano a tali discorsi di verità, nonostante l’accezione differente che il termine “parrhesia” assume nei due filosofi – dato che, in Butler, è direttamente associato al regime del performativo. Infine, pratiche di libertà e limiti: la definizione foucaultiana di etica come pratica riflessa di libertà va a intercettare molte delle reflessioni etiche di Butler effettuate a partire dalla concezione di coabitazione non scelta, ma non riesce a cogliere, dal punto di vista di Butler, i limiti costitutivi di quell’esercizio di libertà. In altre parole, l’invenzione e la trasformazione di sé, che definiscono l’asse di riflessione etico-politica dell’ultimo Foucault, in Butler si inseriscono in una prospettiva che mira innanzitutto
6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli a distanziarsi da ogni modello di soggetto in grado di esercitare una maîtrise su di sé, in quanto sempre, e fin dall’inizio, situato in un contesto abitato da – e insieme ad – altri. Ma se ci spingiamo oltre un’analisi basata sulle affinità e sulle differenze tra i due filosofi, è possibile rintracciare una postura analitica di Butler che, di fatto, mette all’opera e attualizza la prospettiva foucaultiana di una diagnosi del presente. Infatti, il modo in cui Butler situa il concetto di vulnerabilità e quello di “compiangibilità” entro un campo ambivalente di usi ed effetti ricorda da vicino la “polivalenza tattica” che Foucault attribuisce ai discorsi e alle categorie, e che permette di analizzarli non come universali, ma come elementi storici di cui fare la genealogia. La nozione di “compiangibilità” non illustra semplicemente una logica di partage binario tra vite che contano e vite che non contano, tra vite prodotte come scarto e soggetti-cittadini: tratteggia invece un regime di gradi differenti secondo cui gli individui vengono detti degni di lutto. Similmente, in quest’ottica, il punto non è capire da quale parte dell’asse governanti-governati si collochi politicamente la nozione di “vulnerabilità”, ma coglierne il margine di azione entro cui rigiocarla strategicamente contro la precarizzazione delle esistenze: «La preoccupazione umanitaria di governare “popolazioni vulnerabili” dovrebbe essere interpretata come un complemento necessario di questo tipo di politica militare che ha come obiettivo popolazioni vulnerabili […]. Il mio punto di vista è che tale vulnerabilità debba essere ripensata come interdipendenza, e che gli interventi antimilitaristi a livello globale debbano affermare la necessaria interconnessione delle popolazioni» (infra, p. 24). In fondo, si potrebbe dire che, per Butler come per Foucault, la posta in gioco politica che ruota intorno alle categorie – epistemologiche, giuridiche, mediche o di genere – consiste precisamente nel provare a destabilizzare o sovvertire ciò che vi è oltre e sotto le categorie stesse, ovvero il lavoro della norma a lato, sotto e oltre la legge. Le categorie, infatti, come sottolinea Foucault ne Il potere psichiatrico, non servono a classificare o a curare, ma a governare e a mettere al lavoro gli individui1. Un’epistemologia Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), a cura di J. Lagrange, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 123. 1
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politica2, dunque, che nel mettere in luce il disciplinamento dei corpi e delle condotte operato dai partages categoriali, presenta l’intollerabilità di quel potere di normalizzazione e di governo sulle vite.
. Da questo numero, materiali foucaultiani diventa rivista bilingue e pubblicherà contributi sia in italiano, sia in inglese. Ci auspichiamo che questa scelta permetta una maggiore fruibilità dei suoi contenuti e contribuisca ad ampliare il pubblico dei suoi lettori, in modo da dar vita a un dibattito più esteso ed articolato sulle questioni affrontate.
Sul concetto di “epistemologia politica”, cfr. A.I. Davidson, Dai giochi linguistici all’epistemologia politica, in A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Mimesis, Milano 2009, pp. 7-17. 2
Butler / Foucault Undoing Norms, Reworking Subjects
Introduzione
Il confronto tra il pensiero di Michel Foucault e quello di Judith Butler, che abbiamo scelto di porre al centro della sezione monografica di questo numero, è stato sviluppato, negli interventi che pubblichiamo, secondo diversi assi tematici. Un tema molto presente in tutti gli articoli è quello delle possibilità di soggettivazione e di resistenza a un potere che, a un primo sguardo, potrebbe essere letto sia in Foucault che in Butler come eccessivamente pervasivo e totalizzante. Gli interventi che proponiamo mirano a smontare tale lettura semplicistica secondo una simmetria completa tra poteri e resistenze, per mostrare come, nella concezione di entrambi questi autori, sia la rete stessa di relazioni di potere a contenere al suo interno, come sua condizione di possibilità, lo spazio di libertà o la agency da cui dare avvio alle pratiche di resistenza. Un altro nodo affrontato dagli interventi è quello del modo in cui è possibile, oggi, servirsi del pensiero di Foucault e di Butler e, soprattutto, dell’interazione produttiva tra gli strumenti che essi offrono, per realizzare quella diagnosi critica del presente che entrambi i pensatori indicano come compito principale dell’interrogazione filosofica. Negli articoli di questa sezione, l’analisi dei concetti foucaultiani e butleriani è quindi sempre connessa a tematiche attuali e alla ricerca di chiavi utili per leggere il nostro presente ed agire criticamente in esso. Infine, gli articoli di questa sezione mostrano in modo chiaro l’utilità di mettere in relazione il pensiero foucaultiano con la produzione teorica di Butler e la capacità di tale confronto di produrre interessanti reinterpretazioni delle analisi foucaultiane, nonché notevoli rielaborazioni concettuali, indispensabili per mantenere viva e attuale la capacità critica degli strumenti offerti da Foucault. Messo a confronto con le critiche e le proposte di Butler, il pensiero foucaultiano mostra senz’altro alcuni limiti rispetto alla realtà contemporanea, ma emerge anche in tutta la sua forza e nella sua estrema capacità di presa sul presente, riaffermandosi come strumento indispensabile per cogliere i movimenti di trasformazione oggi in atto. materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 9-16.
10 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli È Sophie Fuggle ad affermare con decisione la necessità di riattivare le analisi foucaultiane per cogliere quel che sta accadendo oggi all’interno delle prigioni, a livello della gestione quotidiana dei corpi che in esse si realizza. Fuggle prende avvio da due casi che si sono trovati recentemente al centro del dibattito pubblico (quelli di Terri Schiavo e di Chelsea Manning), per riflettere sulla distinzione foucaultiana tra anatomo-politica e bio-politica. Secondo questa distinzione, ormai ben nota, l’anatomo-politica consiste in quell’insieme di pratiche legate al potere disciplinare e alla sua capacità di esercitare una presa sui corpi, e che trovano il loro luogo elettivo di esercizio nelle prigioni, nelle fabbriche, negli ospedali o nelle scuole. La bio-politica riguarda invece tutti quei meccanismi di potere che esercitano la loro presa a livello delle popolazioni, per regolarne i fenomeni biologici. Come nota Fuggle, la biopolitica è oggi al centro di una speciale attenzione filosofica e politica, che l’ha resa oggetto di importanti rielaborazioni teoriche, come quelle, ad esempio, di Giorgio Agamben e della stessa Butler, rielaborazioni che hanno sottolineato la sua capacità di farsi carico dell’eccezione. Fuggle si chiede se non sia ora necessario ritornare sul carattere ordinario dell’anatomo-politica e di tutte quelle forme di potere che si esercitano quotidianamente sui corpi individuali, ad esempio all’interno delle prigioni, e che sono state trascurate a vantaggio dello studio della biopolitica e dello stato di eccezione. Partendo da questa considerazione, Fuggle propone un’analisi stringente del lavoro di Butler, per individuare in cosa esso possa contribuire, oggi, alla necessaria considerazione della gestione ordinaria dei corpi. Il riferimento all’attualità è fortemente presente anche nell’intervento di Laura De Grazia, che apre il confronto tra Butler e Foucault sovrapponendo alla lettura butleriana delle lettere dei prigionieri di Guantánamo Bay un’originale interpretazione foucaultiana. Come è noto, per Butler la condizione dei prigionieri di Guantánamo mette in luce l’azione di meccanismi di potere che operano il partage tra vite degne di essere vissute e vite non degne, e che si centrano sulla “vulnerabilità”. Le creazioni poetiche dei prigionieri possono essere viste come “insurrezioni discorsive” che si fanno carico della domanda, posta da Butler al cuore della propria riflessione: “come è possibile condurre una vita buona in una vita cattiva?”. Secondo De Grazia, queste lettere possono però anche essere lette in una
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prospettiva foucaultiana, come veri e propri atti di contro-condotta, capaci di mettere in gioco le relazioni di potere e la costruzione etica di nuove forme di soggettività. Da questo punto di vista, simili contro-discorsi costituiscono forme efficaci di resistenza alle pratiche di potere in atto a Guantánamo. Le diverse prospettive aperte dalla riflessione di Foucault e da quella di Butler possono quindi trovare una convergenza nell’offrire strumenti capaci di realizzare una “diagnosi” del presente, consentendoci di reperire, all’interno di Guantánamo, la messa in atto di specifiche forme di potere e di pratiche di resistenza ad esse correlative. La concezione del potere e delle resistenze che è possibile mettere in atto si trova al centro degli articoli di Philippe Sabot, Attilio Bragantini e Céline Van Caillie. Sabot e Bragantini partono entrambi dal rinnovamento della definizione del potere operato da Foucault tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, e ben esemplificato nel suo testo Il soggetto e il potere dove, grazie ai concetti di “governo” e di “condotta”, Foucault riesce a mettere in luce quella che Sabot definisce una “fragilità costitutiva” del potere, data dal fatto che la libertà dei soggetti sui quali le relazioni di potere si applicano non deve essere letta tanto come un ostacolo all’esercizio del potere, quanto come una sua concreta e inevitabile condizione di possibilità. Sabot si concentra sul modo in cui Butler prende spunto proprio da questa concezione foucaultiana del carattere relazionale del potere, per rinnovarla e includervi anche la questione, a suo avviso centrale, delle risorse del linguaggio. Nella sua riflessione sulla costituzione discorsiva del soggetto, sull’hate speech e sul potere produttivo della censura, Butler sembra infatti delineare la stessa configurazione di relazioni di potere, formazione dei soggetti e libertà messa in luce da Foucault. L’agency vi appare, al tempo stesso, come spazio di azione del soggetto e condizione indispensabile per la sua costituzione. Butler riesce quindi dove, secondo Sabot, Bourdieu non era giunto, a pensare cioè la contingenza dei rapporti di forza come condizione della loro trasformazione. Butler ci permette dunque di pensare la dimensione discorsiva delle relazioni di potere e quelle possibilità di critica e di resistenza che assumono come posta in gioco proprio il discorso.
12 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli Bragantini sceglie invece di approfondire le convergenze tra Foucault e Butler a proposito della concezione del potere e della resistenza, concentrandosi sul tema specifico della confessione. A suo parere, infatti, la lettura butleriana dell’Antigone appare debitrice delle riflessioni foucaultiane sulla confessione, e in particolar modo di quelle sviluppate da Foucault all’inizio degli anni ottanta, nello stesso periodo in cui stava elaborando i concetti di “governo” e di “condotta”. Se il tema della confessione è sempre stato presente, pur in forme diverse, all’interno della riflessione foucaultiana, è infatti solo all’inizio degli anni ottanta che Foucault si concentra sulla relazione complessa tra assoggettamento e soggettivazione insita nella confessione, intesa come atto di veridizione che pone il soggetto all’interno di relazioni di potere e che, al tempo stesso, dà luogo a pratiche di soggettivazione. Proprio questa lettura si troverà al cuore dell’interpretazione butleriana di Antigone e della sua confessione: Butler legge la parola di Antigone come atto situato all’interno di relazioni di potere, ma anche carico di un valore performativo che lo rende vettore di una trasformazione del soggetto che lo enuncia e ne fa una pratica effettiva di resistenza. Anche Van Caillie pone al centro del proprio testo la questione delle resistenze possibili e della capacità di agire (agency) dei soggetti, sviluppando questo tema a partire dalla possibilità, suggerita da Foucault stesso, di riattivare, oggi, lo specifico modo di soggettivazione inaugurato dal cinismo antico. Nella lettura che ne propone Foucault, i Cinici mettono in atto una sorta di “parodia” della vera vita filosofica, con il duplice intento di mostrare come essa non possieda una reale capacità di attualizzare i princìpi della vita filosofica, e di mettere in scena una vita filosofica effettiva, che assume l’aspetto scandaloso di una vita “altra”. Secondo Van Caillie, si tratta di una messa in discussione “interna” della vita filosofica, centrata sull’idea di “alterazione” e su quella, ad essa contigua, di “alterizzazione”: il cinismo manifesterebbe un’alterità immanente alla vita filosofica e, grazie a questo suo gesto, contribuirebbe a una modificazione critica della realtà sociale. Secondo Van Caillie, nella performance drag, quale è descritta da Butler, è possibile leggere una riattivazione del gesto cinico. Servendosi della parodia, dell’alterazione e dell’alterizzazione nei confronti delle norme di genere, il drag mostra infatti un’intrinseca fragilità del genere e mette in luce
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la possibilità di una agency interna a quella stessa ripetizione su cui la costruzione normativa del genere si basa. Cinismo e drag rivestirebbero quindi un ruolo analogo nel pensiero di Foucault e in quello di Butler, mettendo in atto una resistenza efficace all’interno del campo stesso di formazione della soggettività occidentale e dell’ambito normativo nel quale essa si realizza. La questione della norma, già affrontata da Van Caillie, è assunta a tema centrale della trattazione sia da Carlo Parisi, sia da Martina Tazzioli. Parisi organizza infatti il confronto tra Butler e Foucault intorno a tre importanti concetti – “corpo”, “norma” e “soggetto” –, che si trovano al cuore della riflessione di entrambi gli autori. Per Parisi, questo confronto ha un duplice scopo: da un lato, consente di mettere in luce in che modo, sia in Foucault, sia in Butler, la relazione tra questi termini sia molto più complessa di quella riassumibile nel semplice assunto secondo il quale la norma, applicandosi sui corpi, produce soggetti. Entrambi gli autori, infatti, problematizzano il rapporto tra la materialità del corpo, l’azione produttiva della norma e il processo di assoggettamento/soggettivazione. Se, in Foucault, questa problematizzazione si fa sempre più acuta nel corso del tempo, in particolar modo con l’introduzione della riflessione sulla confessione e sulle pratiche di sé, in Butler è da subito evidente che la relazione tra corpo e norme di genere non può essere letta come una semplice applicazione della norma su una materialità corporea preesistente, ma come una relazione più complessa, in cui entra in gioco la nostra stessa possibilità di mettere in atto pratiche di resistenza. Il secondo scopo del confronto tra Foucault e Butler è, in Parisi, quello di evidenziare le loro divergenze, ad esempio sul ruolo della psicoanalisi, e di mostrare come il lavoro di Foucault si centri su una “filogenesi” della soggettività moderna, mentre quello Butler propone una “ontogenesi” che potrebbe permettere di svincolare le analisi foucaultiane dal contesto cronologico nel quale egli le aveva rigorosamente situate, per tentare una loro applicazione a contesti diversi. Tazzioli si interroga invece sulle divergenze di concezione della norma in Foucault e Butler. Secondo Tazzioli, se vogliamo comprendere pienamente la dimensione performativa che le categorie epistemologiche, giuridiche e di genere possiedono, dobbiamo partire dalle analisi di Butler e Foucault, che concordano nel mettere in evidenza la loro natura
14 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli storica e contingente, la loro connessione con l’ambito politico e con determinati regimi di verità, tutti aspetti che devono necessariamente essere presi in conto per un’analisi attuale della normatività. I due autori divergono però, secondo Tazzioli, nel pensare la temporalità della norma – ontogenica in Butler, storico-genealogica in Foucault. Questa divergenza assume un certo rilievo non solo teorico, ma anche strategico, dal momento in cui, a partire da queste due diverse concezioni della temporalità, si aprono anche due diversi scenari per le pratiche di resistenza possibili.
. Gli articoli della sezione libera affrontano invece tre diverse serie di questioni relative al pensiero foucaultiano, e anche tre diversi periodi cronologici della sua produzione. L’interpretazione foucaultiana del cristianesimo antico è al centro dell’intervento di Arianna Sforzini, mentre Alain Brossat prende in esame l’intero arco cronologico della produzione foucaultiana, per mostrare come la nozione di “archivio”, da subito centrale nel pensiero e nel metodo di Foucault, si sia via via modificata e affinata. Al centro dell’attenzione di Sophie Wahnich troviamo invece il metodo archeologico di Foucault e la sua esperienza giornalistica in Iran. Più in particolare, Sforzini prende in esame il concetto di “carne”, impiegato da Foucault nell’ultimo decennio della propria ricerca a proposito del cristianesimo antico, per metterlo in relazione con il concetto di “corpo”, che ha invece da sempre svolto un ruolo importante nella riflessione foucaultiana. Grazie a un percorso accurato e denso attraverso le analisi foucaultiane della “carne”, Sforzini mette in luce interessanti potenzialità di resistenza insite nel corpo: reso, dal cristianesimo antico, teatro di una lotta contro il peccato e per la purificazione, nonché punto di emergenza della verità del soggetto, il corpo sembra anche capace di mettere in moto potenzialità di critica a questo dispositivo di potere, verità e soggettivazione che è, per Foucault, la “carne”. Alcune di queste potenzialità si realizzano, secondo Sforzini, all’interno del cristianesimo stesso, nell’ambito di quei movimenti spirituali, come il francescanesimo, che reincarnano il modello cinico. In conclusione, Sforzini si interroga sulla possibilità di riattualizzare questo genere di resistenze, centrate sul
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corpo, senza cadere in quello che può essere una sorta di “spinozismo”, che doterebbe il corpo di una potenza ontologica propria. Secondo Sforzini, per uscire da questa impasse, in parte presente nel pensiero foucaultiano, occorre ristoricizzare la capacità di resistenza dei corpi, situandone l’efficacia solo in relazione a uno specifico dispositivo storico, come quello della carne e quello, per molti aspetti suo erede, della moderna sessualità. Come già accennato, Brossat ripercorre invece il modo in cui l’idea di archivio è stata nel tempo tematizzata da Foucault in maniere diverse (dai suoi primi scritti sulla letteratura al lavoro collettivo operato sui materiali di Pierre Rivière o su quelli delle lettres de cachet degli archivi della Bastiglia). Brossat mostra così la piena valenza politica del lavoro sull’archivio, che permette di mettere in luce quella “criticabilità delle cose” alla base di ogni lavoro politico di modificazione del presente e del nostro modo di essere. Brossat conclude con un riferimento all’attualità, e in particolare al caso Snowden, per mostrare il nuovo ruolo dell’archivio nelle democrazie contemporanee nelle quali, lungi dal costituire l’assicurazione di una corretta conservazione della nostra storia – contro le falsificazioni dei regimi totalitari –, esso costituisce lo strumento privilegiato delle nuove forme di sorveglianza. Infine, Wahnich affronta l’opera di Foucault dalla propria prospettiva di storica della Rivoluzione francese, secondo un doppio filo conduttore. In un primo momento, si interroga sull’assenza, in Foucault, della Rivoluzione, sia come strumento concettuale, sia come oggetto storico, per situarla proficuamente all’interno del dibattito sulla storia intercorso tra Lévi-Strauss e Sartre e tra quest’ultimo e lo stesso Foucault. La Rivoluzione francese sarebbe stata un oggetto storico eccessivamente “sartriano” per attrarre l’attenzione di Foucault, il quale, rifiutando di occuparsene, marca in modo netto il proprio distacco dalla prospettiva di Sartre. Wahnich esamina poi il modo in cui la rivoluzione fa ritorno nel pensiero foucaultiano secondo un doppio movimento: innanzitutto, nei suoi reportage sull’Iran, dove alcuni parallelismi con la Rivoluzione francese sono implicitamente presenti, o comunque facilmente rintracciabili; in secondo luogo, nella sua riflessione sull’entusiasmo a proposito della lettura dei testi kantiani sull’Aufklärung. Infine, Wahnich ripercorre il proprio lavoro di storica, per mostrare come l’archeologia foucaultiana
16 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli abbia costituito, con alcune modifiche necessarie, uno strumento utile per la sua analisi del concetto di “straniero� all’interno della produzione discorsiva rivoluzionaria. Bologna, Parigi, Pisa aprile 2014 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli
Vulnerabilità e resistenza Intervista a Judith Butler
di Federica Sossi e Martina Tazzioli
Domanda: Nel corso della tua riflessione hai fatto spesso riferimento a Foucault. Hai voglia di esplicitare in che modo le sue riflessioni sono state per te fondamentali, quali sono i punti su cui trovi maggiore affinità con lui e quelli, invece, rispetto ai quali senti una maggiore distanza, o che vedi come momenti di impasse per la tua riflessione? Judith Butler: Negli anni ottanta è stato sicuramente il primo volume della Storia della sessualità ad essere il più importante per me, dal momento che mi ha fornito un modo per comprendere, all’interno della categoria di “sesso”, una serie di funzioni sessuali e altre prodotte come genere (gendered), ma anche per mostrare come il discorso repressivo produca e proliferi sessualità. Siamo rimasti tutti abbastanza stupefatti da quell’analisi, anche se alcuni accenni si possono trovare già in Freud. Ma forse l’aspetto più importante per me è stato la breve discussione di Foucault sull’omosessualità come un “discorso inverso”. Era importante capire che, indipendentemente da quanto fosse stato patologizzante il discorso originario sull’omosessualità, il fatto di invertire quella patologizzazione poteva essere il punto per un discorso omosessuale o gay/lesbico innovativo. Il punto non era convertire un valore negativo in uno positivo, ma produrre un campo di nuovi valori. Sicuramente, stiamo vivendo in un’epoca in cui questo sta accadendo attivamente. Certo, ero anche interessata al modo in cui il corpo e l’anima venivano descritti in Sorvegliare e punire, ma ero dispiaciuta di riscontrare la mancanza di una dimensione sessuale nell’analisi sull’incarcerazione. Probabilmente ho preso una pausa da Foucault per un po’ di tempo, ma mi sono interessata di nuovo al suo lavoro quando finalmente ho avuto accesso all’Ermeneutica del soggetto, e poi alla serie di lezioni sulla parrhesia e sulla relazione tra discorso e verità. Ho trovato le ultime lezioni molto interessanti: mi hanno molto aiutato a pensare sia le condizioni interlocutorie dell’autobiografia, sia il modo in cui funziona il parlare politico. materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 17-26.
18 Judith Butler Domanda: Nel tuo libro Critica della violenza etica insisti molto sull’impossibilità, da parte del soggetto, di dare “pienamente” conto di se stesso, e trovi proprio in questa impossibilità la suggestione per un’etica che parta dalla consapevolezza dell’insoddisfazione, che presupponga cioè che nemmeno l’altro potrà mai dare pienamente conto di sé. «In un certo senso […] il “vero” atteggiamento etico consiste nel porsi la domanda “Chi sei tu?” e nel continuare a domandarselo senza mai aspettarsi una risposta piena e definitiva»1. D’altra parte, in altri testi, analizzi una serie di affermazioni di alcuni/e autori/autrici, e ci riferiamo soprattutto a Foucault e Arendt, in cui l’affermazione filosofica viene soltanto suggerita, senza essere assunta sino in fondo o addirittura negandola. Trovi che tra queste due indicazioni ci sia un legame? E che il discorso filosofico debba a sua volta passare, in un certo senso, attraverso l’idea di “non dare pienamente conto di sé”? Judith Butler: Mi sembra evidente che il soggetto parlante, in Arendt, sia colui che appare e agisce in pubblico, e questo viene fatto con e per gli altri. Dunque non è la scena di un individuo solo, ma piuttosto una scena interlocutoria. Questo è certamente vicino alle forme di auto-esposizione o dimostrazione di cui parla Foucault nel suo saggio sui modi medievali di auto-costituzione. Non si tratta di soggetti che offrono innanzitutto una storia o un resoconto narrativo di cosa hanno fatto o del perché. Piuttosto, essi appaiono come esseri parlanti che producono effetti, costituiscono il sé e modificano la scena interlocutoria in cui appaiono. Foucault, come sappiamo, si allontana dalla confessione, e anche dal presupposto che sia un giudice o un rappresentante psichiatrico della forza di polizia colui al quale dobbiamo far conoscere la nostra storia. C’è un potere nel discorso, e tale potere consiste nella capacità di costituzione di sé e di cura di sé che eccede i confini della scena di interrogazione e di giudizio. Per Arendt la situazione è differente soltanto perché Eichmann è così centrale nelle sue riflessioni su questo tema. In tal caso, tuttavia, Arendt non è interessata tanto a rendere conto in modo psicologico o biografico del perché egli abbia fatto ciò che ha fatto, ma solo al fatto che l’abbia fatto, e che gli sia stato detto, abbastanza chiaramente, che i suoi atti costituiscono un crimine contro l’umanità. A differenza di Foucault, Arendt apprezza il giudizio. Ma per lei il giudizio ha una dimensione kantiana le1
J. Butler, Critica della violenza etica, trad. it. di F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2006, p. 61.
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gata all’estetica e, per questo, è un esercizio attivo di autonomia. Eichmann era privo di giudizio e ha agito a partire da tale mancanza di giudizio, ed è in base a ciò che è stato giudicato. Il tribunale è importante per Arendt, per quanto avrebbe preferito che fosse un tribunale internazionale e non nazionale. E, alla fine, Arendt vuole che i giudici agiscano come soggetti kantiani, in modo che la filosofia dimostri di essere la vera autorità che sta alla base di un buon giudizio legale. Domanda: Negli ultimi anni, attraverso il riferimento ad autori come Levinas e Arendt, stai elaborando una concezione del soggetto etico in cui la costituzione stessa della soggettività, così come la possibilità etica del soggetto, ma anche la sua capacità di pensare e quindi la possibilità di un gesto critico da parte del soggetto, sono possibili sempre e solo attraverso una scena di per sé abitata dagli altri e dall’esposizione del soggetto a diverse forme di alterità. Contemporaneamente, metti però l’accento anche sulla capacità di agency del soggetto nel suo costituirsi come soggetto etico. Ritieni che la riflessione dell’ultimo Foucault sul lavoro di trasformazione del sé sia utile per pensare il soggetto etico cui fai riferimento, e fino a che punto te ne servi? In altre parole, se da un lato metti radicalmente in discussione il rimando a una padronanza del sé (self-mastery) che le ultime riflessioni foucaultiane in parte sembrano presupporre e indicare, vi sono alcuni aspetti dell’etica del sé foucaultiana che, a tuo avviso, sono centrali per articolare la pratica etica e la sua funzione critica? Judith Butler: Sono sicura che l’ultimo Foucault sia molto importante per pensare questo processo, sebbene mi chieda, per esempio, come ci si possa approcciare a una teoria foucaultiana della vulnerabilità. Credo che molte delle più recenti ed efficaci mobilitazioni pubbliche comportino il mettere in atto di concerto un determinato corpo politico. I corpi nelle strade non sono solo corpi in azione e in relazione, ma anche corpi precari. Sono precari nel momento in cui appaiono sulla strada, ma sono lì anche per richiamare l’attenzione su una precarietà prodotta in modo più sistematico – la perdita del lavoro, della casa, dell’assicurazione sanitaria, l’accumulo di un debito impagabile, tutti fattori che producono un senso di assenza di futuro o un senso caratterizzato da ciò che Hegel chiamerebbe un “cattivo infinito”. Foucault, certamente, mi aiuta a riflettere sul discorso, sul parlare al potere e sulle possibilità di andare al di là dei protocolli di autodifesa e
20 Judith Butler autogiustificazione. In alcune delle sue ultime opere c’è sicuramente una dimensione performativa del parlare e l’idea per cui la costituzione del sé avviene in relazione agli altri. Tutto ciò è molto utile, ma mi chiedo se la dimensione incorporata del parlare, compresa la difficile situazione di parlare come un corpo o da un corpo in condizione di precarietà, possa essere pensata in modo sufficientemente appropriato attraverso quella parte del suo lavoro. Chiaramente Foucault stava parlando e scrivendo mentre era malato, ed era sicuramente in grado di cogliere le condizioni della propria precarietà. Cercare di capire in modo non riduttivo in quale maniera il senso di un’evanescenza storicamente prodotta sia entrato nelle sue ultime riflessioni sulla legge e sulla parrhesia sarebbe a mio avviso molto interessante. Domanda: Se permetti vorremmo riferirci al tuo testo What is Critique? An Essay on Foucault’s Virtue, poiché ci sembra che qui il tuo modo di declinare la nozione foucaultiana di regime di verità vada oltre la produzione di un partage tra vero e falso, indicando piuttosto la produzione di uno scarto tra vite che contano e vite che non contano. Una direzione che poi hai seguito in altri lavori. Ma, indicando il discrimine tra vite che contano e vite che non contano, stai indicando una modalità di esercizio del potere e del riconoscimento che avviene a partire da una suddivisione binaria? E, in questo caso, a tuo avviso, nella nostra contemporaneità esiste uno scarto che è condizione degli altri? Judith Butler: Negli ultimi tempi ho iniziato a parlare di una distribuzione ineguale di “compiangibilità” (grievability) per suggerire che ci sono diverse gradazioni. Dovremmo infatti distinguere tra vite che sono iper-compiangibili, le quali rappresentano simbolicamente una nazione, vite che sono più o meno compiangibili, vite che sono costantemente meno compiangibili e, infine, vite che non sono mai state compiangibili, forcluse da tale possibilità. Cercando di indicare che ci sono diversi gradi di compiangibilità che dipendono dal contesto storico, per cui alcune popolazioni sono iper-compiangibili in un contesto e quasi non compiangibili in un altro, non sto suggerendo nuove categorie. In modo simile, potremmo dire che anche in uno stesso contesto, limitato, le vite possono essere o non essere compiangibili e il discorso pubblico può essere messo in crisi dal problema di sapere se e come compiangere determinate perdite. Dire che la compiangibilità cambia in questo modo significa anche affermare che, nello stesso modo, cambiano le modalità di rinnegare e di scartare la vita.
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Domanda: Secondo Foucault la parrhesia è un modo di dire la verità che produce uno scandalo e che implica un’esposizione del soggetto a un rischio. Definendo la parrhesia come un atteggiamento, Foucault sembra richiamare la propria definizione di critica che anche tu hai ampiamente analizzato nel saggio summenzionato. Tuttavia, la produzione di scandalo è interna al “gioco parresiastico” – come Foucault sottolinea –, gioco che sostanzialmente definisce lo spazio e il perimetro in cui il discorso parresiastico viene pronunciato. Pensi che questo spazio possa effettivamente essere disturbato dallo scandalo parresiastico? E ti figuri la pratica della parrhesia come pertinente al regime del performativo? Judith Butler: Certamente comprendo la parrhesia come parte del dominio di performatività, ma non sono sicura che lo chiamerei un “regime”. Né mi è del tutto chiaro se la metafora del “gioco” (e la “teoria dei giochi”) sia così utile. Stiamo parlando di un gioco, di un regime o di qualche situazione discorsiva più provvisoria e mutevole? Si presume che la parrhesia sia performata o esercitata da un individuo? Che cosa bisogna pensare riguardo ai gruppi che cantano o si impegnano in azioni silenziose? Contano come parte della pratica parresiastica? Se la parrhesia definisce la situazione del discorso in cui essa avviene, allora è evidentemente performativa, ma in un modo che va oltre la definizione di Bourdieu. Piuttosto, la mia domanda rimane: importa che sia un corpo parlante ad impegnarsi nella parrhesia, e che sia collocato in qualche luogo e che abbia come parte del proprio obiettivo la variazione dei termini della sua collocazione? Può esserci una parrhesia concertata, ovvero un’alleanza di parlanti? E anche se non agiscono o parlano all’unisono, può quella convergenza di voci, gesti e azioni essere considerata parresiastica? Domanda: Una delle frasi su cui ti soffermi spesso, nella tua lettura di Foucault, è la seguente: «Come accade che il soggetto umano faccia di se stesso un oggetto per un sapere possibile, attraverso quali forme di razionalità, attraverso quali condizioni storiche e, infine, a che prezzo?»2. In un’intervista rilasciata a Vikki Bell (New Scenes of Vulnerability, Agency and Plurality) ritorni su questa domanda, ma spingendoti oltre, mettendola M. Foucault, Strutturalismo e post-strutturalismo, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 314 (cit. da J. Butler in Critica della violenza etica, cit., p. 159). 2
22 Judith Butler cioè in relazione con i criteri di esclusione che determinano, per così dire, scale di produttività dei soggetti e della loro riconoscibilità, e richiamando l’attenzione sul fatto che la non riconoscibilità di alcuni fa necessariamente parte della soggettività degli altri. È qui che ripeti la domanda: “A quale prezzo ciascuno di noi viene prodotto come soggetto?”. Potresti specificare meglio la questione? E il “prezzo da pagare”, in questo caso, è anche quello che il soggetto che viene prodotto lascia che venga pagato dagli altri in termini di esclusione o di non riconoscibilità? Judith Butler: Penso che ogni regime di razionalità abbia il proprio “fuori” costitutivo, il che significa che deve produrre e mantenere il non razionale o l’irrazionale al di fuori dei propri confini. Il soggetto che emerge attraverso quel regime di razionalità stabilisce la propria (di lui o di lei) intelligibilità all’interno di esso (potremmo pensare al “di lui o di lei” come a un operatore logico chiave di un regime di genere binario). La formazione del soggetto, tuttavia, non è commisurata alla produzione della sua intelligibilità. In fondo, non è solo che il non razionale è posto al di fuori del regime, ma anche che per ogni soggetto il non razionale è prodotto come parte della sua costituzione meno intelligibile. Così, è importante notare che la formazione del soggetto all’interno di una matrice di intelligibilità in parte fallisce sempre, dal momento che non può realizzarsi senza porre il proprio “fuori” come interno al soggetto stesso, lo spettro durevole del suo disfacimento. Al tempo stesso dobbiamo pensare questo rischio e questa perdita in termini di management delle popolazioni, di biopolitica e governamentalità insieme. Per quanto io conosca meno bene il lavoro di Foucault sul neoliberalismo, è evidente che alcune forme di messa in ordine del soggetto implicano modalità irregolari e ineguali di assimilazione a quella razionalità. Credo che la precarietà venga prodotta dai regimi neoliberali di razionalità come loro condizione necessaria e loro “fuori”. Perché il soggetto che potenzia se stesso è una norma che implica una realizzazione differenziale dei suoi scopi. Foucault generalmente è meno interessato di me al riconoscimento, un problema che mi interessa sin dai tempi in cui mi occupavo di Hegel. Ma Foucault è anche colui che sottolinea come il rifuggire le norme prevalenti di riconoscimento possa essere condizione della libertà stessa. Per quanto mi riguarda, continuo a lavorare intorno alla necessità di nuove forme di riconoscimento come condizione di una vita vivibile, mentre sono diffidente rispetto ad alcune forme di riconosci-
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mento, a volte proprio le stesse che, in determinate circostanze, possono rendere la vita meno che vivibile. Domanda: Nel tuo ultimo libro, Strade che divergono, rifletti su una possibilità del vivere etico attraverso la nozione di “coabitazione non scelta”, riferendoti soprattutto alla riflessione di Arendt. In alcune parti di questo lavoro poni l’accento sull’elemento di non libertà intrinseco a tale condizione. Foucault, invece, definisce l’etica come la pratica riflessa della libertà – tratto, questo, che ci sembrava di ritrovare, in parte, nelle tue riflessioni sull’etica che accentuavano piuttosto l’elemento della rivendicazione. Potresti soffermarti su questo aspetto? Judith Butler: Ho apprezzato la definizione di Foucault, ma sono arrivata a chiedermi come le dimensioni non scelte della vita possano a loro volta diventare occasione per una pratica riflessa di libertà. Dopo tutto, ciò che è “riflesso” non è semplicemente questo sé che io sono, e nemmeno semplicemente la libertà che esercito, ma anche i limiti di quell’esercizio, e i modi piuttosto recalcitranti attraverso i quali la storia lavora su ciascuno di noi. Lo stesso Foucault, senza dubbio, sarebbe d’accordo sul fatto che la libertà diventa possibile solo a certe condizioni, alcune delle quali non sono scelte liberamente. Per questo è importante pensare, ad esempio, a dimensioni non scelte di socialità e prossimità, di incorporamento e discendenza. Il fatto di riflettere su di esse non le trasforma in espressioni di libertà, ma circoscrive le condizioni storiche e incorporate attraverso le quali una determinata versione di libertà diventa possibile. Arendt e Foucault concepiscono la libertà come un esercizio o una pratica, allontanandosi così dalla libertà come dono naturale o come condizione a priori. Ma mentre sembra che Arendt specifichi certe forme di libertà politica, come la rivoluzione, in quanto azione concertata, ho più difficoltà a trovare un equivalente di tale nozione in Foucault. Forse la categoria di “soggetto”, o anche di “sé”, opera in Foucault attraverso la distinzione individuale/sociale, ma non sembra sufficiente a stabilire le dimensioni non scelte, storiche e incorporate di socialità, o le forme di libertà che possiamo comprendere come intraprese attraverso alleanze. Domanda: Ultimamente insisti molto sull’idea secondo la quale la vulnerabilità è la condizione che ci costituisce come soggetti e, contemporaneamente, quella che ci permetterebbe di ripensare il nostro essere e agire
24 Judith Butler etico. Secondo alcuni autori, però, la vulnerabilità costituisce una delle principali modalità di produzione dei soggetti all’interno del governo dell’umanitario. Come ti posizioni rispetto a questa prospettiva? Non pensi che, nel momento in cui una categoria diventa oggetto del discorso del potere, il rischio sia quello di un suo effettivo depotenziamento o addirittura di una sua sussunzione? Judith Butler: È chiaro che l’identificazione di “popolazioni vulnerabili” da parte di ONG e agenzie umanitarie lavora negando questi gruppi, la loro storia e la loro agency, compreso il loro potere di resistenza. Ma il mio obiettivo è di pensare insieme la vulnerabilità e la resistenza. Infatti, questo è il nome di un gruppo di femministe con cui mi riunirò a Istanbul nel settembre del 2013. Negli Stati Uniti, la politica militare nazionale è spesso governata da un ideale di invulnerabilità radicale, e ciò significa che la vulnerabilità dovrebbe essere distribuita su altre nazioni e popoli. Questo modo di esportare la vulnerabilità è legittimato e messo in atto nella politica militare, di modo che gli Stati Uniti assicurano l’impermeabilità dei propri confini solo invadendo i confini di coloro di cui cercano di rendere sicuri il paese o le infrastrutture per i propri interessi militari ed economici. La preoccupazione umanitaria di governare “popolazioni vulnerabili” dovrebbe essere interpretata come un complemento necessario di questo tipo di politica militare che ha come obiettivo popolazioni vulnerabili e che, contemporaneamente, le produce in modo sproporzionato. Il mio punto di vista è che tale vulnerabilità debba essere ripensata come interdipendenza, e che gli interventi antimilitaristi a livello globale debbano affermare la necessaria interconnessione delle popolazioni. Per questo, penso che il mio punto di vista sulla vulnerabilità sia parte di una visione più ampia di mobilitazione globale e cerchi di criticare sia il militarismo, sia le forme di potere umanitario che fungono da suo complemento. Domanda: Ci sembra che, nella tua riflessione sulla coabitazione non scelta, il riferimento al diritto di appartenenza – che declini nella frase, di ispirazione arendtiana: “ognuno ha diritto di appartenere a un luogo al di là del luogo cui appartiene” – vada nella direzione di una possibilità etica, certo articolabile di volta in volta secondo le condizioni date, ma in un certo senso trans-storica. Ci pare che, a tal proposito, emerga una differenza rispetto ai tuoi lavori sull’etica del riconoscimento, nei quali poni l’accento sulla storicità delle cornici normative della scena della riconoscibilità, ricol-
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legandoti in questo soprattutto alla riflessione foucaultiana volta a sottolineare la dimensione storica della costituzione del soggetto. Judith Butler: Forse è importante precisare, innanzitutto, che leggo Foucault e Arendt, ma che non sono né foucaultiana né arendtiana. Penso che la formulazione di Arendt sia al contempo storica e generalizzabile, e che possa essere compresa solo attraverso una sorta di doppia lente. Arendt fa un’affermazione normativa, ossia che ciascuno ha diritto a un luogo, ma sa che, da un punto di vista descrittivo, non tutti hanno un luogo cui appartengono. Ricordiamoci che scrive a proposito dei rifugiati, di coloro che sono stati espulsi dallo Stato-nazione o che non vi hanno mai appartenuto pienamente (come i Rom, ad esempio). Così, dire che tutti hanno diritto a un luogo (nel senso di “si dovrebbe avere un diritto”) anche quando non hanno un luogo, significa che nessuna giurisdizione particolare o locale fornisce quel diritto. Quando non c’è una giurisdizione nazionale o locale che ci dà quel diritto, il diritto esiste ancora, ma non è fondato nella ragione o nella natura o in un qualsiasi regime di legge positiva. Al contrario, in questo momento, Arendt dichiara il diritto attraverso il discorso, il che significa che la sua dichiarazione, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, è un esercizio performativo. In un mondo sempre più pieno di rifugiati ed esiliati, di persone senza diritti di cittadinanza o spossessate dei precedenti diritti alla terra, la dichiarazione del diritto di appartenenza è una sorta di discorso parresiastico. Quando Arendt fa questa dichiarazione, mostra che il diritto è una funzione del suo esercizio. Domanda: Infine, anche se non vorremmo ricadere nell’errore di chiederti di dar conto di te stabilendo una linearità narrativa, avresti voglia di indicarci in che modo vedi un legame tra le tue riflessioni nell’ambito dell’orizzonte più classicamente femminista e i tuoi lavori più recenti? Judith Butler: Certamente lavoro ancora all’interno di un orizzonte femminista, e forse oggi è possibile pensare forme di pensiero femminista che non debbano in ogni momento essere centrate sulla questione delle donne o del genere. Il lavoro sulla vulnerabilità emerge chiaramente da una lunga linea di pensiero femminista, così come il lavoro sulla sfera pubblica e privata. Il mio primo lavoro sul genere era focalizzato sulla performatività, che continua ad essere importante per la mia comprensione dell’azione
26 Judith Butler politica in una forma incorporata, ma si focalizzava anche su forme ignorate di amore e di perdita, specialmente in condizioni di eterosessualità compulsiva e di omofobia pervasiva. Alcuni di quei temi relativi al riconoscere le perdite e allo stabilire nuovi termini che renderebbero la vita incorporata più vivibile continuano nelle mie riflessioni recenti sulla guerra e sul conflitto. Quindi, forse, milito ancora contro forme imposte di melanconia e precarietà, e questo è importante sia per pensare persone non conformi a livello di genere, trans, lavoratori/lavoratrici del sesso, sia popolazioni che vivono sotto occupazione e/o soggette al bombardamento, allo spossessamento, alla distruzione. Mi sembra che la mia inclinazione alla non-violenza percorra il mio lavoro così come la ricerca di modi di riconoscimento che, anziché meno, rendano la vita più vivibile. Intervista realizzata nel marzo del 2013
. Vulnerabilità e resistenza. Intervista a Judith Butler A partire dalle analisi di Foucault sul dispositivo di sessualità che fin dagli anni ottanta hanno inspirato il lavoro di Judith Butler nel campo degli studi femministi, la filosofa americana si interroga sulle piste teoriche aperte dall’ultimo Foucault intorno a etica e produzione di soggettività. Nonostante Butler consideri del tutto rilevanti per una diagnosi del presente alcune categorie che invece non sono riscontrabili nella produzione foucaultiana – prime tra tutte, le categorie di vulnerabilità e precarietà – queste sono tuttavia inserite in un’analisi più ampia (e di matrice foucaultiana) relativa alle pratiche di libertà, che nei due autori vengono differentemente declinate. In particolare, la riflessione sul prezzo da pagare per essere soggetti mette in luce un punto di contatto fondamentale tra Foucault e Butler, che si risolve da un lato nel pensare insieme poteri e resistenze, e dall’altro nella sostanziale ambivalenza dei processi di soggettivazione – i quali rimandano alla doppia accezione foucaultiana della nozione stessa di soggetto. Parole chiave: Vulnerabilità, Critica, Resistenza, Scena interlocutoria, Grievability, Soggettivazione, Parrhesia.
Vulnerability and Resistance Interview with Judith Butler
by Federica Sossi and Martina Tazzioli
Question: In your reflection you have often referred to Foucault. Do you want to explain how his work has been of paramount importance for you? What are the aspects of his thought that you feel closer and more useful to your reflections and what instead the areas where you most feel a distance from Foucault’s positions? Are there specific junctures of Foucault’s work that you find produce an impasse for your reflections? Judith Butler: In the 1980s it was clearly the first volume of The History of Sexuality that was most important for me, since it gave me a way to understand the clustering of various sexual and gendered functions under the category of “sex” but also to show how repressive discourse produces and proliferates sexuality. We were all quite amazed by that analysis, even though some intimations of that could be found in Freud already. But perhaps most important for me was Foucault’s brief discussion of homosexuality as a “reverse-discourse”. It was important to understand that no matter how pathologizing original discourse on homosexuality had been, reversing that pathologiziation could be the point of a newer homosexual or gay/lesbian discourse. The point was not to convert a negative value into a positive one, but to produce a field of new values. Surely, we are living in such a time when that is actively happening. I was certainly interested in the way the body and soul were described in Discipline and Punish, but I was sorry to see the lack of a sexual dimension in the analysis of incarceration. I probably took a break from Foucault for a while, but became interested again when I finally had access to The Hermeneutics of the Subject and then a series of lectures on parrhesia and on the relationship between speech and truth. I found the last lectures quite engaging, and they have helped me both to think about the interlocutory conditions of autobiography, but also the way in which political speaking works. materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 27-36.
28 Judith Butler Question: In the essay Giving an Account of Oneself, you insist on the impossibility to give a full account of oneself; from this impossibility you gesture towards an ethics that builds on a constitutive insatisfaction, that is an ethics postulating that the other cannot either give an account of himself/herself: “In a sense, the ethical stance consists […] in asking the question ‘Who are you?’ and continuing to ask it without any expectation of a full or final answer”1. In other essays you analyse some claims by Foucault and Arendt where the philosophical claim is staged in a way that allows for it to be suggested but denied or not fully embraced at the same time. Do you think there is a connection between these two perspectives, i.e. the one from Giving an Account of Oneself and the one in the essays about Foucault and Arendt? Does the philosophical discourse need in some sense to be conveyed by “not fully giving an account of oneself ”? Judith Butler: It seems clear to me that the speaking subject in Arendt is one who both appears and acts in public, and this is done with and for others. So it is not a scene of an individual alone, but rather a scene of address. This is certainly close to the forms of self-exposition or demonstration that Foucault talks about in his essays on medieval modes of self-constitution. Neither of these subjects is primarily offering a story or narrative account of what they have done, or why. They are rather appearing as a speaking being who is producing effects, constituting the self, and transfiguring the scene of address in which they appear. Foucault moves away from confession, as we know, and also the presumption that it is a judge or psychiatric representative of the police force to whom we have to make our story known. There is a power in speech, and it the capacity for self-constitution and self-care that exceeds the bounds of the scene of interrogation and judgment. For Arendt, the situation is different only because Eichmann is so central to her reflections on this issue. In that case, however, she is less interested in a psychological or biographical account of why he has done what he has done, but only that he has done it, and that he be told, quite clearly, that his acts constitute crimes against humanity. She savors judgment, whereas Foucault does not. But for her, judgment has a Kantian Judith Butler, Giving an Account of Oneself (New York: Fordham University Press, 2005), p. 43. 1
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dimension that is bound up with aesthetics, and so judgment is an active exercise of autonomy. Eichmann lacked judgment, and acted from a lack of judgment, and it is on that basis that he is judged. The court of law is important for her, although she wants it to be international rather than national. And in the end, she wants judges to act as Kantian subjects, so philosophy proves to be the true authority behind good legal judgment. Question: In the last years, referring to authors like Levinas and Arendt, you are elaborating a conception of the ethical subject in which the constitution of subjectivity itself as well as the ethical possibility of the subject, but also its capacity to think and the very possibility of a critical gesture are possible only through a scene “populated” by the others and through the exposure of the subject to different forms of alterity. At the same time you stress also the capacity of agency of the subject in constituting itself as an ethical subject. Do you think that the reflection of the late Foucault concerning the work of transformation of the self could be useful to think the ethical subject that you address and to what extent do you make reference to it? In other words, if on the one hand you radically challenge the reference to a self-mastery that the last reflections of Foucault seem to in part to postulate and to indicate, are there any aspects of the Foucaultian ethics of the self that according to you are relevant in order to articulate the ethical practice and its critical function? Judith Butler: I am sure that the late Foucault is quite important for thinking through this process, though I am wondering how, for instance, one would approach a Foucaultian theory of vulnerability? It is my sense that many of the most recent and effective public mobilizations involve enacting a certain body politic in concert. The bodies on the street are not only agentic and relational, but also precarious. They are precarious at the moment that they appear on the street, but they are also there to bring attention to a more systematically induced precarity – the loss of jobs, homes, health insurance, the accumulation of unpayable debt, leading either to a sense of no futurity or a one marked by what Hegel would call “a bad infinity”. It seems clear that the late Foucault helps me to think about speech, of speaking back to power, and to ways of moving beyond the protocols of self-defense and self-justification. There is clearly a performative dimension to speaking in some of the late work, and a presumption that self-constitution happens in relation to others. So all this is most helpful,
30 Judith Butler but I wonder if the embodied dimension of speaking, including the predicament of speaking as or from the body in a condition of precarity, can be thought well enough through that work. It is clear that Foucault was himself speaking and writing as he was ill, and surely grasping the conditions of his own precarity. Understanding in a non-reductive way how that sense of an historically induced evanescence entered into his final reflections on law and parrhesia would be of great interest to me. Question: We would like to refer to your text What is Critique? An Essay on Foucault’s Virtue, since it seems to us that your way of articulating the Foucaultian notion of “regime of truth� goes beyond the production of a partition between true and false, by showing rather the production of a partage between lives that matter and lives that do not matter. You have developed this last point in many of your following works. But pointing at the very partition between lives that matter and lives that do not matter, are you are also addressing a modality of recognition basically grounded on a binary division? And, if so, do you think that there is a fundamental partition at stake in our present that is also condition for the production of all the others? Judith Butler: I think that most recently I have started to talk about an unequal distribution of grievability, which suggests that there are a variety of gradations. Indeed, we would probably have to distinguish among lives that are hyper-grievable, who come to stand symbolically for a nation, those who are more or less grievable, those who are consistently less grievable, and then those who are never grievable, foreclosed from the possibility. I am not producing new categories as much as I am trying to indicate that degrees of grievability shift depending on the historical context, and that some populations are hyper-grievable in one context, and quite ungrievable in another. Similarly, we might say that even within a single, broadly delimited context, lives can be simultaneously grievable and not, and public discourse can be confounded by the question of whether and how to grieve certain losses. To say that grievability shifts in this way is to say as well that modes of disavowing and discarding life shift in this way as well. Question: According to Foucault parrhesia is a way of truth-telling that produce a scandal and that entails the exposure of the subject to a risk.
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Defining parrhesia as an attitude, Foucault seems to recall his definition of critique that you have also largely analysed in your essay. However, the production of the scandal is internal to a “parrhesiastic game” – as Foucault underlines – that ultimately defines the space and the perimeter in which the parrhesiastic speech is uttered. Do you think that this space could be effectively disrupted through the parrhesiastic scandal? And do you envisage the practice of parrhesia as pertaining to the regime of the performative? Judith Butler: I certainly understand parrhesia as part of the domain of performativity, but I am not sure I would call it “a regime”. Nor am I altogether clear whether the metaphor of the “game” (and “game theory”) is altogether helpful. Are we speaking about a game, a regime, or some more shifting and provisional speech situation? Is parrhesia presumed to be performed or exercised by an individual? What about groups that sing or chant or engage in silent actions? Do they count as part of parrhesiastic practice? If parrhesia defines the speech situation in which it occurs, then it is clearly performative, but in a way that moves beyond Bourdieu’s definition. My questions remain, though: does it matter that it is a speaking body that engages in parrhesia, and that it is located somewhere and has the shifting of the terms of location as part of its aim? Can there be concerted parrhesia, that is an alliance of speakers, and even if they do not act or speak in unison, can that convergence of voices, gestures, and actions be considered parrhesiastic? Question: In your reading of Foucault, one of the sentences where you often linger on is the following: “How does it come to be that the human subject makes himself into an object of possible knowledge, through which forms of rationality, through which historical conditions, and, finally, at what price?”2. In an interview with Vikki Bell (New Scenes of Vulnerability, Agency and Plurality) you come back to this sentence going beyond that, since you relate it with the criteria of exclusion that determine what can be called the “scales of productivity” of the subjects and their being recognisable as subjects and bringing the attention to the fact that the non recognizability of some is necessarily constitutive of the subjectivity of Michel Foucault, Structuralisme et poststructuralisme, quoted in J. Butler, Giving an Account of Oneself, p. 120. 2
32 Judith Butler the others. Here you recall the sentence: “At what price do any of us get produced as subjects?”. Could you clarify this question? And the “price to be paid” is also in this case the price that the subject that is produced let to be paid by others in terms of exclusion or as not-being recognizable? Judith Butler: I do think that every regime of rationality has its own constitutive outside, which means that it must produce and maintain the nonrational or irrational outside of its boundary. The subject who emerges through that regime of rationality establishes his or her intelligibility within that regime (we might think of the “his or her” as a key logical operator of one binary regime of gender). The formation of the subject is, however, not commensurate with the establishment of its intelligibility. After all, it is not just that the non-rational is posited outside the regime, but for every subject, the non-rational is produced as part of its less intelligible constitution. In this way it is important to see that subject formation within a matrix of intelligibility always partially fails, since it cannot happen without positing its “outside” as interior to the subject itself, the abiding specter of its undoing. At the same time, we have to think about this risk and this loss in terms of the managing of populations, of biopolitics and governmentality both. Although I know Foucault’s work on neo-liberalism less well, it is clear that certain forms of ordering the subject clearly imply unequal and uneven forms of assimilation to that rationality. My sense is that precarity is induced by neo-liberal regimes of rationality as its necessary condition and outside. For the self-maximizing subject is a norm that implies a differential realization of its aims. Foucault is generally less concerned with recognition than I am. I bring that concern forward from my engagement with Hegel. But he is the one who often underscores that escaping from prevailing norms of recognition can be the condition of freedom itself. I am always working, it seems, with the need for new forms of recognition to condition livable life at the same time that I am wary of forms of recognition, sometimes the very same forms, that under certain circumstances can make life less than livable. Question: In your last book, Parting Ways, you reflect on the possibility of an ethical life through the notion of unchosen cohabitation, mainly addressing Arendt’s work. In some passages of your essay you stress the element of non-freedom that is constitutive of that condition. Foucault
Vulnerability and Resistance 33
defines instead the ethics as “the reflected practice of freedom”. This last aspect seemed to be at stake in some of your reflections on the ethics which stressed rather the element of the claim. Could you dwell upon this aspect? Judith Butler: I appreciated Foucault’s definition, but I am led to wonder about how the unchosen dimensions of life can themselves become the occasion for a reflected practice of freedom. After all, what is “reflected” is not simply this self that I am, and not simply the freedom that I exercise, but also the limits on that exercise, and the rather recalcitrant ways that history works on any of us. As Foucault would doubtless agree, freedom becomes possible only under certain conditions, and some of those conditions are not freely chosen. So it seems important to think, for instance, about unchosen dimensions of sociality and proximity, of embodiment and lineage. Reflecting on them does not transform them into expressions of freedom, but rather circumscribes the embodied and historical conditions under which a certain version of freedom becomes possible. Arendt and Foucault both clearly have a way of understanding freedom as an exercise or a practice, thus moving us away from freedom as a natural endowment or a prori condition. But where it seems that Arendt specifies certain forms of political freedom, such as revolution, as concerted action, I have a more difficult time finding an equivalent to that notion in Foucault. Perhaps the category of the “subject” or even “the self ” works across the individual/social distinction in Foucault, but it does not seem to do enough to establish the unchosen, historical, and embodied dimensions of sociality or the forms of freedom that we might understand as undertaken by alliances. Question: Recently you have insisted a lot on the idea of vulnerability as the condition which constitutes ourselves as subjects and at once as the condition which allow us to rethink our ethical being and our ethical acting as well. However, according to many scholars, vulnerability works today as one of the main modalities through which subjects are produced within the government of the humanitarian. How do you situate yourself in comparison to this perspective? Don’t you think that insofar as a category becomes an object of the discourse of power, the risk of its effective weakening or subsumption arise?
34 Judith Butler Judith Butler: It is clear that the identification of “vulnerable populations” by NGOs and humanitarian agencies works to deny such groups their history and their agency, including their powers of resistance. But my aim is to think vulnerability and resistance together. In fact, that is the name of a group of feminists I am convening in Istanbul in September 2013. In the United States, national military policy is often governed by an ideal of radical invulnerability, and this means that vulnerability ought to be distributed among other nations and peoples. This way of exporting vulnerability is both justified and enacted in military policy, such that the US secures the impermeability of its own borders only by invading the borders of those whose land or infrastructure its seeks to secure for its own military and economic purposes. One might understand the humanitarian preoccupation with managing “vulnerable populations” as the necessary complement of that military policy that targets and produces disproportionately vulnerable populations. My own view is that vulnerability has to be rethought as interdependency, and that anti-militarist interventions at a global level have to affirm the necessary interconnection of populations. So I do think my view of vulnerability is part of a broader view of global mobilization, and seeks to criticize both militarism and forms of humanitarian power that serve as its complement. Question: In your reflection on unchosen cohabitation it seems that the reference to the right to belong that you formulate in the sentence, by referring to Arendt, “everyone has a right to belong to a place, that right belongs to everyone regardless of the place to which they belong”, plays as an ethical possibility that despite it has to be rearticulated from time according to the circumstances, is in some sense trans-historical. It seems to us that on this point there is a difference in comparison to your works on recognition, where you stress the historicity of the normative frameworks of the scene of recognisability, relating in this way to the Foucaultian reflection addressed to underline the historical dimension of the constitution of the subject. Judith Butler: Probably it is important to note first that I read Foucault and I read Arendt, but I am neither a Foucaultian nor an Arendtian. I think Arendt’s formulation is at once historical and generalizable, and that it can only be understood through a kind of double-lens. She is making a nor-
Vulnerability and Resistance 35
mative claim, namely, that everyone has a right to a place. But she understands that descriptively speaking not everyone has a place to which they belong. She is writing, let us remember, about refugees, those who have been expelled from the nation-state or who have never fully belonged (the Roma, for instance). So to say that everyone has a right to a place (in the sense of “ought to have a right�) even when they do not have a place means that no particular jurisdiction or locale ultimately furnishes that right. When there is no local or national jurisdiction that gives that right, the right still exists. But it is neither founded in reason or nature or any particular regime of positive law. On the contrary, Arendt is at this moment declaring the right through speech, which means that her declaration, like the Declaration of the Rights of Man, is a performative exercise. In a world increasingly full of refugees and exiles, those without citizenship rights or dispossessed of prior rights to land, the declaration of the right to belong is a kind of parrhesiastic speech. When Arendt makes the declaration, she is showing that the right is a function of its exercise. Question: Finally, even though we do not want to make the mistake to ask you to give an account of yourself, establishing a narrative linearity, would you like to tell us what kind of connection do you see between your analysis situated within the feminist horizon and your more recent reflections? Judith Butler: Well, I certainly still work within a feminist horizon, to be sure, and perhaps it is possible now to think about forms of feminist thinking that do not at every moment have to be centered on the question of women or on gender. The work on vulnerability clearly comes from a long line of feminist thought, but also the work on the public and private spheres. My early work on gender was focused on performativity, and that continues to be important to my understanding of political action in an embodied form. That early work was also focused on unmarked forms of loving and losing, especially under conditions of compulsory heterosexuality and pervasive homophobia. Some of that same concern with marking losses, and establishing new terms that would make embodied life more livable continue in my recent reflections on war and conflict. So I am perhaps still militating against
36 Judith Butler imposed forms of melancholia and precarity, and this is as important to think about for non-gender conforming people, trans people, sex workers as it is for populations living under occupation and/or subject to bombing, dispossession, and destruction. I think perhaps that my bias in favor of non-violence recurs throughout my work, as does the search for modes of recognition that make life more livable rather than less. Interview conducted in March 2013
. Vulnerability and Resistance. Interview with Judith Butler Starting from Foucault’s analyses on the dispositive of sexuality that since the 80s have inspired Judith Butler’s work in the field of feminist studies, the US philosopher interrogates on the theoretical patterns paved by the late Foucault on ethics and subjectivity. Despite Butler deals with categories that she considers very relevant for a diagnosis of the present and that instead are not at stake in Foucault’s work – first and foremost vulnerability and precariousness – they are placed nevertheless into a broader analysis and according to a Foucaultian matrix, especially in relation to the issue of practices of freedom, that in the two authors are differently articulated. In particular, the reflection on the price to pay to be a subject highlights an important juncture between Foucault and Butler: on the one hand, it consists in thinking together powers and resistances, on the other it refers to the substantial ambivalence of processes of subjectivation – recalling Foucault’s twofold meaning of “subject”. Keywords: Vulnerability, Critique, Resistance, Scene of address, Grievability, Subjectivation, Parrhesia.
Barred Subjects
Framing the Criminal Body with Foucault and Butler Sophie Fuggle
Introduction: From Terri Schiavo to Chelsea Manning
As Foucault demonstrates in The Archaeology of Knowledge, the carving up
of history is an arbitrary process. With this in mind, I want to bookend a recent and ongoing history with reference to two figures, Terri Schiavo and Chelsea Manning. These are individuals that, it might be argued, play significant symbolic roles in defining the shifting stakes of Western biopolitics in the opening decades of the twenty-first century. The intention here is to set the scene for rethinking the anatomo-political in relation to the biopolitical. Terri Schiavo spent 15 years in a coma following cardiac arrest as a result of a long term eating disorder. Her family fought to have her feeding tube removed but faced high level opposition from senior U.S. politicians including the then president George W. Bush. They finally won their case to terminate life support in 2005. As Slavoj Žižek suggested at the time, the affirmation of an ethico-legal duty to maintain a life at all costs, even when this life had arguably been reduced to the living death of irreversible coma, came at a time when other ‘living deaths’ secured the detention of those the bombs missed in Guantanamo.1 What the case of Terri Schiavo demonstrated was the persistence of a rhetoric which identified life as sacred, a rhetoric which should have rung hollow in light of the military interventions in Afghanistan and Iraq. Moreover, the juxtaposition of such events – the domestic versus the international - highlighted not only the complexities of contemporary biopolitics understood as the positioning of life, human life, as the ultimate value to protect and enhance but also highlighted the multiple ways in which such a positioning might flip over into what Giorgio Agamben refers to as a thanatopolitics Slavoj Žižek, ‘Biopolitics: Between Terri Schiavo and Guantanamo’, ArtForum (December 2005). 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 37-68.
38 Sophie Fuggle which exposes the sovereign core of the biopolitical. This is clearly more complex than simply pitting one life or set of lives against another, which constitutes the justification for the reemergence of a sovereign ‘right to kill’ within biopolitics in the form of racism, which Foucault identifies at the end of Society Must Be Defended. Following Butler’s notion of grievable life, what is at stake is the ‘values’ associated with a certain set of lives as well as the reduction of the lives of ‘others’ to perceived values at odds with our own. In July 2013, Chelsea Manning, born Bradley Edward Manning was convicted of violations of the Espionage Act for leaking documents whilst in the U.S. army. Having been tried as Bradley, Manning issued a statement on sentencing that she wished to live as a woman. Although, the issue of Manning’s gender had been introduced in court as testimony, what does the very specific wish to serve out a military prison sentence as a woman, or pre-op transsexual, rather than a man tell us about the conditions within this carceral space and, moreover, the way such a space is structured and organized according to certain gender norms? At the same time, why did Private Bradley Manning only fully identify his/herself as ‘Chelsea’ at sentencing? What does this tell us about the performance of gender within the military and, moreover, during a high profile court case? The transgressive act of whistleblowing and perceived betrayal of the security of his country bound up with this act can be mapped far too easily onto the ‘transgressive’ body of Chelsea Manning. To some degree, Manning has become symbolic in various senses of the complexities and hypocrisies of Western democracy along with notions of truth and freedom such democracy claims to promote and protect. The focus of this paper, however, has less to do with Manning as symbol of such paradoxes but, rather, the specific material conditions of her incarceration and, I want to suggest, any and all incarceration. Manning is facing a maximum of 35 years in military prison and a minimum of 8 years. This paper is an attempt to think beyond notions of the exceptional, the supra-legal, beyond the bare life, the precarious life, the indefinitely suspended life which have dominated discussions on incarceration and detention since 911. In particular, I want to consider how Butler has developed a critical stance which, in focusing on the exceptional, risks disregarding the everyday. At stake, therefore, is Manning in her cell not Schiavo on her drip.
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 39
In the aftermath of 911, much of the intellectual left in the U.S. and Europe was forced to re-evaluate its position together with its role in both speaking out against and usefully conceptualizing the parameters and implications of the so-called ‘war on terror’ as well as the discourses and representations which underpinned and framed it. Looking here at Butler’s particular, and arguably highly personal, response in Precarious Life and subsequently, in Frames of War, a series of tensions emerge which are as important for thinking through the role of the public intellectual as they are for articulating the current socio-political terms defining society in the U.S. and elsewhere in the West. Where Butler draws extensively on Foucault’s work on governmentality in her explorations of the extra-legal activities of the U.S. government and military, how might we shift the focus from abstracted discussions of the law and detention, to the real, everyday, material conditions of life in incarceration? Moreover, without denying the importance of ongoing critical debates about the treatment of terror suspects, the outsourcing of torture and the perpetual state of exception endorsing a permanent war industry, how might we return our attention to the status quo maintained by such exceptions – the institutional spaces which continue to affirm a disciplinary mode of power? Reflecting on both the various responses and various possible responses to 911 open to those working in U.S. academia in the immediate aftermath, in Precarious Life, Butler considers the statement made by a friend/ colleague that the collapse of the Twin Towers marked the ‘end of first world complacency.’2 Where do we go from this observation? Butler suggested that instead of attempting to ‘heal’ such a wound and restore such complacency which can only ever really entail what we have indeed seen happen over the past decade or so, the ‘more or less permanent war’ and ‘the dry grief of political rage,’3 there is the possibility of something different here. What is needed is to put an end to the ‘endless cycle of revenge.’ Thus, instead of lamenting the loss of such complacency, Butler suggests allowing it to stand in order to ‘begin to build a different politics on its basis?’4 Judith Butler, Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence (London and New York, NY: Verso, 2004), p. 8. 3 Ibid., p. xix. 4 Ibid., p. 8. 2
40 Sophie Fuggle If retrospectively, the hope for a radical reconfiguration of U.S. international relations seems naïve at best, this is not where I take issue with Butler. Rather, it is in the distinction she establishes between the inner space of the U.S. and the rest of the world. Such a distinction risks reaffirming a sense of first world superiority, if not complacency in the very act of acknowledging its loss or disappearance. It repeats the gesture of Michael Moore’s Farenheit 911 in assuming a predominantly U.S. audience rather than a wider reception. Moreover, in claiming that previously ‘the only violence we knew was the kind we inflicted on ourselves’,5 Butler is not only presenting a universalized image of the U.S. via the notion of shared suffering but seems to dismiss the systemic violence, suffering and social inequality which operates within the U.S. If 911 demonstrated anything, it was the need to bring the age of the world picture to a close. Consequently, Butler’s call for a rethinking of politics must also be applied to the domestic as well as the international. It is not simply a question of how one relates to the ‘other’ perceived as foreign threat from without but how relations within a nation state are configured through its internal, social institutions and spaces. My aim here is to think specifically about one such regular, disciplinary space. The prison or penitentiary. In addition, to demanding that we examine Foucault’s work on discipline, anatomo-politics and the prison afresh, I want to give further attention to the notion of representation as it applies to the carceral space. There are a series of critical conjunctions which bring Foucault and Butler together again in potentially useful ways. Running throughout the essay will be a reflection on how one negotiates one’s position as an academic responding to such events as well as the potential for a more active rather than purely reactive stance here. In this respect, it might be helpful to juxtapose the tensions experienced by Foucault and other intellectuals during their work as part of the Groupe d’Information sur les prisons [Prisons Information Group] during the early 1970s. Not only does this have specific relevance to the discussion of the prison and life in incarceration but very important questions are raised both by the group themselves and others during and after the enquiries they carried out as to the nature and degree of involvement academics might have in the analysis and critique of such spaces. 5
Ibid., p. 39.
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Real Bodies in Real Spaces? In Bodies that Matter, Butler appears to have two main objectives – the first is to take stock of which bodies matter and which bodies don’t with the aim of redressing the hierarchies which privilege the rights and needs of certain bodies above others. The second is to provide a certain revision or, if you prefer, renegotiation of some of the positions assumed in Gender Trouble particularly those which led to confusion. Both objectives are predicated upon a rethinking of the ‘material’ body, the body as matter as something that matters. A similar set of objectives structure what follows. The bodies in question are both different and the same as Butler’s ‘bodies’ in that no body can ever coincide with its physical, political or conceptual renderings yet instead might be defined by its potential, a potential all bodies possess to exceed and subvert existing presentations and representations. At the same time, such potential is at risk of exhausting itself in its own posturing and rhetoric or, indeed, succeeds so convincingly that all that remains is imitation and recuperation as it is co-opted by the prevailing hegemony. Nevertheless, of interest here is not so much the body’s, any body’s, potential for subversion of gender norms and categories, but rather, the way in which the body which has already been cast as dangerously subversive, the criminal body, continues to attest to a certain modality of disciplinary power which affirms subjectivisation as the production of the subject qua subject. Moreover, in emphasizing the persistence of ‘disciplinary’ power here, the aim is also to indicate how such power continues to crystallize within certain institutional spaces, their architecture and infrastructures in a very material way. This requires returning to the body that Butler explores in Bodies that Matter. Like Butler, my intention is not to offer biological determinations of the body but, rather, to consider how such determinations are produced within different frameworks of power. To do so, I will argue, involves acknowledging rather than disregarding the effects of such institutional spaces precisely at a moment where they seem to have been discounted or written off. Such spaces, the prison, the hospital but also the school and workplace continue to require certain normalizing techniques that appear out of sync with neoliberal-inflected modes of self-promotion, surveillance and management.
42 Sophie Fuggle Foucault’s claim made in an interview in 1978 that ‘in the future we need to distance ourselves from today’s disciplinary society’,6 should not be read as a simple indictment of institutional forms of power but, rather, a call to pay attention to different, emerging forms of power. One of Agamben’s most well-known criticisms of Foucault, made in Homo Sacer, is that he fails to analyse the relationship between sovereign and biopower or attempt to identify a point of intersection between the two discourses.7 Both Discipline and Punish and The Will to Knowledge present power in terms of a fundamental shift from one form to another. However, following Dan Beer’s account of Foucault’s very specific rhetoric and the deliberate structural techniques he sets up in his written texts, we should acknowledge the intentional, over-emphasis put on the contrast between the two models of power in these texts.8 This becomes clear in the light of a more nuanced account of the changing modalities of power, which Foucault provides in his Collège de France lectures. Thus, in his 1973 lecture series, Psychiatric Power, he identifies elements of disciplinary (anatomopolitical) power which came into existence within the mechanisms of sovereign power: Disciplinary apparatuses come from far back; for a long time they were anchored and functioned in the midst of sovereignty; they formed like islands where a type of power was exercised which was very different from what could be called the period’s general morphology of sovereignty.9
Here, he also provides a detailed account of how the family unit, associated with the exercise of sovereign power via the forbidding figure of the father, came to provide the model for the asylum, which Foucault declares an essentially disciplinary institution. However, Foucault also insists that the notion of the family is evoked in psychiatric power not as a residue from old discourses of sovereign power but is actually gains an increasingly fundamental role within psychiatric techniques for regulating and managing the ‘sick’ or ‘deviant’ body: Michel Foucault, ‘La société disciplinaire en crise’, in Dits et écrits II: 1976-88 (Paris: Gallimard, 2001), pp. 532-534 (my translation). 7 Giorgio Agamben, Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life (Stanford, CA: Stanford University Press, 1998). 8 Dan Beer, Michel Foucault: Form and Power (Oxford: Legenda, 2002). 9 Michel Foucault, Psychiatric Power: Lectures at the Collège de France, 1973-73 (New York, NY: Palgrave, 2008), p. 63. 6
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 43 Inasmuch as the family conforms to the non-disciplinary schema of an apparatus (dispositif) of sovereignty, I think we could say that it is the hinge, the interlocking point, which is absolutely indispensable to the very functioning of all the disciplinary systems. I mean that the family is the instance of constraint that will permanently fix individuals to their disciplinary apparatuses (appareils), which will inject them, so to speak, into the disciplinary apparatuses (appareils).10
The same reading needs to be applied today in thinking about the relationship between the sovereign, the disciplinary and security. Disciplinary techniques which defined the nineteenth century factory, school, hospital and prison, continue to supplement and underpin more contemporary manifestations of power aimed at the organization, management and control of populations. In Security, Territory, Population, Foucault introduces the notion of ‘security’, a term he doesn’t explore elsewhere, in order to further articulate the two-fold (bi-polar) operation of bio-power as it targets both individuals and populations defined via a ‘political technology of life’.11 In taking as its aim the population at large, security is defined by Foucault in terms of the supplement it offers to disciplinary power which focuses on the individual body. Together they make up modern biopower. Where sovereign power involves coercion and violence and disciplinary power is comprised of techniques of regulation and normalization, security operates according to a principle of circulation. Unlike disciplinary power which seeks to contain and limit, security is, instead, concerned with growth and production, and the increase of its mechanisms. Where disciplinary power is centripetal, security is a centrifugal force operating within and beyond society.12 This is why, unlike sovereign power, security does not target fixed territories. Rather, it is aimed at populations whose sizes, configurations and locations are in constant flux. According to Foucault, security can be linked to the emergence of capitalism. Security provides the possibility for economic growth by simultaneously encouraging and restricting the circulation of goods, opening up borders and delineating new boundaries. Recent critical theory on the body tends to assume one of two positions. On the one hand, much theoretical discourse is taken up with Ibid., p. 81. Michel Foucault, The History of Sexuality I (New York, NY: Vintage, 1990), p. 145. 12 Michel Foucault, Security, Territory, Population: Lectures at the Collège de France, 1977-78 (New York, NY: Palgrave, 2009), pp. 44-45. 10 11
44 Sophie Fuggle considerations of the ‘post-human’ body found in the work of Donna Haraway and numerous disciples of Deleuze and Guattari. The posthuman body is the utopian/dystopian body. On the one hand, we have the depoliticised body – representing a utopian, affirmation of a BwO (BodyWithoutOrgans) – the body as a series of flows or an assemblage which exceeds limitations of the physical, fleshly body, calling into question ideas about gender, sexuality, desire and so on. The flipside of this takes on a dystopian dimension which is epitomised by the shift from disciplinary society to Deleuze’s ‘control society’. Bodies are no longer organised in institutional spaces but subjectivity has been reduced to different types of data. We have become a series of passwords, pin numbers, usernames and barcodes. The second position, and this is where we might to some extent locate Butler’s recent work, takes as its focus the bare life of the non-western victim who has become the poster boy or girl of Western human rights discourses. In other words, the suffering, tortured body which has been stripped of all identity, citizenship and culture. However, underpinning both these positions are a set of biopolitical assumptions which continue to posit life as societies’ ultimate goal or value above all other values. Moreover, any attempt to think our bodies without our bodies – invariably fails and, as Lyotard has suggested in The Inhuman, is a futile exercise.13 So we could call to mind here films like The Matrix and Surrogates - in which the human body has been rendered obsolete or fully subservient to machines yet nevertheless must be introduced either as mental projection (in the case of The Matrix) or as surrogate – a robot designed to replicate one’s own physical body or to provide a preferable alternative. The tension between subjectivity which extends beyond the physical limitations of the body and the continued primacy of such a body in conceptions of the self highlights what cultural theorist Jeffrey Nealon has referred to as an ‘intensification’ in power or power relations.14 Since identity and subjectivity cannot be reduced to purely embodied experience nor can they take place entirely in hyperreality – both modes of existence and identification call upon one another to supplement, provide substantiation Jean-François Lyotard, The Inhuman: Reflections on Time (Stanford, CA: Stanford University Press, 1991). 14 Jeffrey Nealon, Foucault Beyond Foucault: Power and its Intensifications Since 1984 (Stanford, CA: Stanford University Press, 2008). 13
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 45
of or offer commentary upon the other. The GPS on our phone tells us where we are and Facebook or other social media provides a narrative or commentary on this. Yet, as obvious as this might seem, in order to do so we also need to exist in concrete space. We need a physical location and not simply an IP address. Nevertheless, it is possible to note here a conceptual shift occurring in emphasis from disciplinary modes of power to Foucault’s notion of security in terms of circulation drawing upon the idea of a world population as fluid or in flux. Whether as a result of forced or chosen migration, whether we decide to take a vacation or are obliged to flee civil war and natural disaster, it seems that we are no longer defined in terms of the fixed space or territory we inhabit but in terms of a displacement which is either validated or denigrated. Each individual might thus be conceived in terms of a trajectory, what Paul Virilio calls a ‘trajectivity,’ a line drawn between points as opposed to a point intersected by a series of lines. What this skewed perspective fails to take into account is what happens at the borders? In the detention camps? What is at stake in our reference to certain spaces as ‘non-places’ following the work of Marc Augé? Such a designation puts us at an ironic remove from these spaces, constituting an unconvincing refusal of the role they play in controlling and regulating our experience but also this allows us to ignore other non-places, the margins or edges, the excesses of biopolitical society. These are the spaces where death, disease, violence and crime occur not as a result of failures or gaps in a society’s disciplinary apparatus but in order to affirm the necessity of such apparatus. In this respect, security and disciplinary power are even more intertwined than Foucault implies. One of the clearest examples of this is the nation state building that goes hand in hand with free market circulation.15 So in other words, what I am proposing here is a return to Foucault’s notion of anatomo-politics defined as follows: centered on the body as a machine: its disciplining, the optimization of its capabilities, the extortion of its forces, the parallel increase in its usefulness and its docility, its integration into systems of efficient and economic controls, all On this see Gianni Vattimo and Santiago Zabala, Hermeneutic Communism: From Heidegger to Marx (New York, NY: Columbia University Press, 2011). 15
46 Sophie Fuggle this was ensured by the procedures of power that characterized the disciplines: an anatomo-politics of the human body.
Such an anatomo-politics, it seems to me, continues to function as a fundamental dimension of the biopolitical, even as contemporary readings and problematisations of the biopolitical found in the work of Agamben and others, have resulted in a richer, more complex understanding of Foucault’s original definition here. Therefore, to return to disciplinary power is not to deny the systemic deterritorialisation which has occurred since WWII through the reorganisation of individuals into migrant workers whereby labour-forces are no longer bound by nations or territories. At the same time, archetypal forms of institutional power the factory, hospital, school or prison and their austere architecture seem to have disappeared from certain skylines or converted into expensive residential and office property, its original signage providing a misplaced palimpsest of nostalgia. Yet, if disciplinary power ceases, in some places, to crystallise within a fixed space, henceforth of a different density, fragmented and dispersed through a city’s infrastructure via a complex multi-layered empire of signs and surveillance, elsewhere, such institutions not only still dominate the horizon but do so not as relics of a bygone era but, rather, as the new constructions bringing together the latest techniques and technologies for the control and management of individual bodies. In addition to maximum security prisons and border restrictions, within the same context, we might also think about the distribution centres run by Amazon in the UK and Europe which employ various tracking devices to ensure maximum productivity by workers in completing orders and other tasks. By returning our focus to the disciplinary, I also want to suggest here that there are certain bodies that matter in theory and, more importantly, to theory, that end up producing frustrating binaries which fail to change the terms in which we think about such bodies or groups of bodies. Moreover, there are some bodies that are necessarily excluded from such discussions precisely because they do not ‘fit’ certain critical agendas. Here, I want to focus on the ‘criminal’ body but precisely in terms of the body of the one who has committed a crime rather than with recourse, at least initially, to the more ubiquitous processes of criminalization and securitization which might be argued to apply to all of us in some way or other.
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 47
Dangerous Acts In reasserting how more attention needs to be paid to the real bodies in real spaces of Foucault’s anatomo-political, it is necessary to look at the criminal qua law-breaker rather than simply as the transgressive, subversive, troubling other. This is not to suggest that all those who find themselves incarcerated are guilty of breaking the law but, rather, to explore and expose the workings of the system which defines criminality as such. The criminal ‘identity’, the criminal ‘subject’ can only be produced as such as long as there is a founding set of laws to adhere to and consequently break. In her critique of the ‘indefinite detention’ applied to suspects as part of the U.S. ‘war on terror’, Butler structures her analysis around the absence of any trial or, indeed, any empirical evidence that those being detained had committed the ‘dangerous acts’ that U.S. government intelligence claimed they had the potential to commit.16 But what of the notion of a ‘dangerous act’ in itself ? Where Butler accurately identifies a link between the suspension of the justice system and its functioning via the relationship between trial and sentence, she gives less attention to the definition of a dangerous act except to problematize the very deliberate inability of Rumsfeld and Cheney to adequately articulate exactly what the Guantanamo detainees were supposed to have done. Thus, in evoking the absence of dangerous acts or, at the very least, absence of any concrete proof of such acts, Butler fails to address what should or should not happen in the case such acts did occur and can be proved. This seems to be something of a blind spot which risks endorsing a legal and penal system which requires further critique both in itself and in its relationship to extra-legal, military procedures carried out both on U.S. soil and abroad. To further explore the question of the ‘dangerous act’, the following quotation is taken from French prison director, Olivier Maurel’s 2010 autobiography: We keep [nous gardons] in our prisons those who burgle your houses and steal your cars, those who sell drugs to your children and friends, those who sexually assault or rape your daughters, your mothers, your sisters and your cousins, those 16
Butler, Precarious Life, pp. 77ff.
48 Sophie Fuggle who steal your money and those who murder and kill people you know and care about. We keep those who abduct, rape then murder young children. We keep those who plant bombs and want to destroy, for political and religious reasons, the very essence itself of our civilization, our long shared, democratic, republican history.17
Who exactly is Maurel addressing here? Coming at the end of his account of life as self-professed ‘taulier’ [jailer], this exhortation reads as an act of special pleading, a last ditch attempt to gain public sympathy and approval through a warning issued to any reader tempted to side with the inmates over and above those charged with keeping them locked up. The ‘nous’ [us] and ‘vous’ [you] are bound together through a ‘shared history’ which is under threat from an homogenous ‘ceux qui’ [those who], whereby those in incarceration are reduced to a list of violent and vindictive crimes. This is a hyperbolic reminder that those serving prison sentences are a direct menace to the well being of both the reader and his or her family and friends. In play here is a straightforward politics of fear intended to legitimate the penal system and those running it.18 There is also an assumption in his evocation of certain acts, most notably paedophilia and terrorism, that the reader will acquiesce with the incarceration of those having committed them without any further questioning of the social structures producing and defining such acts in the first place. Moreover, Maurel defines such a system as beyond recrimination, positing it in terms of a civilization, a republic and a democracy. Maurel’s outburst runs counter to most of his narrative which is predominantly taken up with showing what a reasonable, decent guy he is, sympathetic to the needs and problems of his inmates even when they are holding him hostage. Thus, if we are to take anything from the text, it must be that Maurel does not and cannot see things in black and white but, rather, recognizes the inherent failure of the penal system and his role in it here. This is why he is right, perhaps unwittingly, to present this to us as a ‘confession’ despite largely reading as a series of self-aggrandizing ‘war stories.’ To present the inmates in terms of a select list of crimes Olivier Maurel, Le Taulier: Confessions d’un directeur de prison (Paris: Fayard, 2010), my translation. 18 Angela Davis has identified a ‘politics of fear’ as a deep-rooted ideology working to legitimize the existence and development of prisons in the U.S. in Are Prisons Obsolete? (Open Media, 2003), p. 16. 17
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is the only means of perpetuating the logic of incarceration, presenting those locked up as a direct threat to individual safety and freedom. Again, this is the reemergence of a sovereign notion of life within the biopolitical presented as a direct attack by one population upon another. Foucault touches on the notion of the ‘biocriminal’ and the link between racism and criminality at the end of ‘Society Must Be Defended.’19 Although he refers only to the ‘execution’ or banishment of the criminal body here, there is scope for a rereading here which, drawing on the work of Angela Davis, considers the systemic racism of the prison. What Maurel’s text demonstrates is the difficulty of thinking life without prison. Where it has come to constitute his entire raison d’être since he passed the ‘fonctionnaires’ [public service] exam, the idea of conceiving of society without prisons, detention centers and other ‘secure units’, is something we all find deeply complex and unsettling. In Are Prisons Obsolete? Angela Davis provides a good explanation of the way in which discussions of ‘decarceration’ and ‘abolition’ are precluded via a primary focus on prison reforms.20 To focus one’s attention on ‘reforming’ the carceral space ultimately endorses that space and its structural logic, contributing to a call for bigger and more ‘efficient’ prisons. Davis is not suggesting those fighting for improved prison conditions should cease to do so. Rather, such a fight should work alongside an ongoing debate about the role of prison within society based around abolition as a genuine rather than utopian possibility. Such a debate requires an analysis which looks at how today’s prisons constitute an integral part of the social fabric and economic system of a country. As Davis points out, a critique of today’s industrial prison complex cannot be predicated on a reformist rhetoric.21 In an interview given in the 1970s, Foucault posed a similar problem: You want me to describe a utopian society where there would be no prison. The problem is to know if we can imagine a society in which groups themselves controlled the application of rules. It is the whole question of political power, the problem of hierarchy, of authority, of the state and state apparatuses. It is only when we have cleared away the brushwood from this immense problem that Michel Foucault, ‘Society Must Be Defended’: Lectures at the Collège de France. 1975-76 (London: Penguin, 2003), p. 258. 20 Ibid., p. 20. 21 Davis, Are Prisons Obsolete?, p. 100. 19
50 Sophie Fuggle we will finally be able to say: yes, we should be able to punish this way, or, it is completely useless to punish, or again, society ought to give such a response to this irregular conduct.22
In particular, specific attention needs to be paid to this idea of ‘dangerous’ acts which functions to legitimate keeping people locked up as a means of ‘protecting’ those outside. To focus on ‘acts’ in this way is a faulty premise. If followed to its logical conclusion it ends up mattering little whether someone has actually committed an act or simply is deemed to be capable of doing so. Moreover, in linking the abolition of slavery to the development of prison labour, Davis has highlighted the way certain acts and activities such as vagrancy became penal offences precisely to assure the continuation of slavery albeit in the guise of ‘hard labour’ and the chain gang. In the immediate aftermath of slavery, the southern states hastened to develop a criminal justice system that could legally restrict the possibilities of freedom for newly released slaves. Black people became prime targets of a developing convict lease system, referred to by many as a reincarnation of slavery.23
Indeed, the racialization of certain crimes like shooting, drug use as ‘black crimes’ continues today with widely divergent sentences handed out to black and white adolescents and young men (and women) for the same drug misdemeanors. Again, the ‘potential’ or even the appearance of having the potential to commit ‘dangerous’ acts by dint of the colour of one’s skin played out in the case of Trayvon Martin in 2012 which resulted in the acquittal of George Zimmerman, his killer, deemed by the jury to have the right to such ‘profiling’ in the name of personal protection according to Florida State’s Stand Your Ground statute. Yet, despite her focus on the absence of the act rather than its existence, elsewhere in Precarious Life, Butler is also sensitive to the ‘conditions’ which make certain acts possible. She writes: [W]e need to situate individual responsibility in light of its collective conditions. Those who commit acts of violence are surely responsible for them; they 22 23
Michel Foucault, ‘Prisons et révoltes dans les prisons’, in Dits et écrits II, pp. 425-432. Davis, Are Prisons Obsolete?, p. 29.
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 51 are not dupes or mechanisms of an impersonal social force by agents with responsibility. On the other hand, these individuals are formed, and we would be making a mistake if we reduced their actions to purely self-generated acts of will or symptoms of individual pathology or “evil.” But the discourse of individualism and of moralism (understood as the moment in which morality exhausts itself in public acts of denunciation) assume that the individual is the first link in a causal chain that forms the meaning of accountability.24
In pinpointing the need to radically rethink the relationship between conditions and acts, Butler is warning against a simplified reading of such conditions which drastically limits the agency of certain individuals as a result of their specific, personal circumstances in favour of an analysis which considers the conditions of existence which are systemic in the oppression and exclusion of certain groups. This also works to provide a link between actively committing certain ‘dangerous’ acts and passively allowing other dangerous acts to take place. Furthermore, in her discussion of the ‘frame’ in Frames of War, which we will return to later, she provides a more nuanced recognition of how no act possesses an inherent moral or ethical value but, rather, is defined as such within a given context, in turn providing the ‘context’ for identifying individuals and groups in relation to such acts. ‘Some way of organizing and presenting a deed leads to an interpretive conclusion about the deed itself.’25 At the same time, the analysis needs to be pushed further still. Butler does little to circumvent the idea that certain acts should always be punished or that punishment should assume some form of imprisonment. Thus, perhaps what is needed is not simply an insistence on the ‘presence’ of dangerous acts in order to detain or imprison someone, but a radical critique of how acts are presented as more or less ‘dangerous’ depending on who is committing them. Therefore, although I want to eschew a lengthy discussion of the relationship between the legal, the political and the cultural which define the terms and conditions of existence within a given society for different sets of individuals, I do want to draw attention to the way in which the criminal act continues to function as a kind of degree zero in public consciousness and as such continues to legitimize prison in terms of both Butler, Precarious Life, pp. 15ff. Judith Butler, Frames of War: When if Life Grievable? (London and New York, NY: Verso, 2010), p. 8. 24 25
52 Sophie Fuggle retributive punishment, rehabilitative treatment and public security rather than in terms of the warehousing of unwanted, unneeded labour. Without rejecting Butler’s concepts of ‘grievable’ and ‘precarious’ lives outright since these might also be applied to how we perceive those in incarceration as well as those suspended in ‘indefinite detention’ or the unnamed, unseen casualties of a never ending war – I want to propose the notion of the ‘intolerable’ which structured the GIP’s enquiry into the state of prisons in France in the 1970s as a means of more effectively bringing together those in a position to tolerate or refuse to tolerate something, academics and activists primarily, and those for whom existence is ‘intolerable.’ The notion of the ‘intolerable’ raises the question as to what is considered to be ‘intolerable’ and by whom. On the one hand, that prisons were and, indeed still are, intolerable is taken as a starting point by the GIP. Yet, the aim of the project was to discover what exactly it was about them that was ‘intolerable.’ In an interview given in 1971, Foucault defined the problem as follows: Simply put, I perceive the intolerable. The blandness of the soup or the coldness of winter is relatively bearable. But to imprison an individual just because he has a run-in with justice, that is unacceptable!26
Such a statement makes it clear that Foucault thought that prison reforms were not enough. Butler’s references in Precarious Life to the metal sheet standing in for a roof in Guantanamo (p.73) perhaps miss the point here. The specific material conditions are deplorable. Foucault is not contesting that the food served in prisons is disgusting. As Butler makes clear in Bodies that Matter, to fixate on the material body without considering the structures of power which define such materiality or put it to use in this or that way is a meaningless exercise which simply endorses existing hierarchies based on archaic biological assumptions about gender and race. The same applies to the material conditions in a prison. As indicated above following Davis’ position, too much focus on specific material aspects of prison life risk affirming the prison system per se. Instead, what is required is to take these conditions as a start not end point in order to recognize the various technologies of power underpinning these conditions. Michel Foucault, ‘Je perçois l’intolérable’, interview with G. Armledet (July 1971), reproduced in Dits et écrits I: 1954-75 (Paris: Gallimard, 2001), pp. 1071-1073. 26
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This is also why further attention needs to be focused on the criminal as the body we are all complicit in defining as such rather than the merely ‘troubling’ body. I want to suggest a reading which engages with Butler and specifically the notion of performativity but which at the same time provides a critique of the parameters which, for one reason or another, have resulted in a privileging of certain ‘other’ bodies. Women – Homosexual – Muslim. Victim – Deviant – Terrorist. Perhaps all three. Such bodies, I would suggest, are ‘docile’ even when at their most dangerous or volatile. Even, moreover, when they enact a necropolitics such as are embodied by the extreme eating disorders of Schiavo and others, HIV ‘bugchasers’ or suicide bombers. Bodies which function largely as illusory threats, constructed as spectral doubles (as much by the intellectual left as the moral majority right) to the equally fictional image of the U.S. citizen as white, Christian, male and heterosexual. Yet, at the same time, such transgressive bodies are ‘docile’ even when the threat is real precisely because they have come to embody an ‘exceptionalism’ which serves to maintain and reaffirm the status quo. Butler’s Repressive Hypothesis One of the main difficulties faced by academics working in the humanities and social sciences, is how to respond both accurately and adequately to current and recent events particularly when those events call into question established and comfortable categories of thought and frameworks. Knee jerk polemics to the order of intellectual journalism should be avoided as should the over-abstraction of unfolding events. In his work on prisons, Foucault was attentive to these problems as well as to the complex relationship between his role as academic and his involvement in what he called ‘political action.’ If I occupy myself with the GIP, it is only because I prefer effective work to university yacking and the scribbles of books. To write a sequel today to my Histoire de la folie, one that would cover material up to the present era, is devoid of interest to me. On the other hand, a concrete political action in favour of prisoners appears to me charged with meaning. An aid in the struggle of detainees and, ultimately, against the system that puts them in prison.27 27
Michel Foucault, ‘Le grand enfermement’, in Dits et écrits I, pp. 1164-1174.
54 Sophie Fuggle Despite his indictment of such ‘scribbles’, Foucault’s subsequent written account in Discipline and Punish of how incarceration became the dominant form of punishment in Europe during the eighteenth century is far more nuanced as a negotiation between current events and the sociohistorical conditions and discourses underpinning these. In pointing out that what he is effectively writing is a ‘history of the present’,28 Foucault is also making a statement about the role of the academic in contradistinction to that of the activist. Discipline and Punish not only intentionally avoids direct references to the work of the GIP and the accounts of those who responded to the enquiry but at the same time issues a warning about the traps of conflating sustained intellectual reflection and direct political action. As a result, the ‘respectful’ distance established between the work of the GIP and the publication of Discipline and Punish also results in a text which benefits from the more sophisticated analysis of disciplinary power that came to distinguish Foucault from Althusser and other Marxist philosophers working on institutional forms of power at the time. If the Gulf War of the early 1990s was the first fully ‘mediatised’ war then the Iraq War of the early 2000s saw another layer of reflexivity added here via an almost instant commentary on the images and reports circulating and saturating public consciousness which as a result of the internet occurred on a rolling basis rather than punctuated by programming schedules. A 24-hour meta-commentary. As W.J.T. Mitchell points out in Cloning Terror, ‘Every history os really two histories. There is the history of what actually happened, and there is the history of the perception of what happened.’29 If philosophers and scholars have always provided commentary on world events, after 911 the need and pressure for academics to do so has intensified in unprecedented ways. At the same time the role and responsibility of the academic as representative of the increasingly privatized industrial university complex has come under further scrutiny. If engagement with a more public audience is encouraged (in the UK this is known as ‘impact’), there is increased policing as to what one might say in public. This is Butler’s contention, reporting in Precarious Life on the way in which discussion and debate was shut down after 911 within the university Michel Foucault, Discipline and Punish: Birth of the Prison (New York, NY: Random House, 1977), p. 31. 29 W.J.T. Mitchell, Cloning Terror: The War of Images, 9/11 to the Present (Chicago, IL: The University of Chicago Press, 2011), p. xi. 28
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as much as outside its confines. Yet, if the shock and horror in the immediate aftermath of the attacks on the World Trade Center, made academics wary of jumping to quick conclusions and critical of those amongst them who did, surely intellectual engagement with these issues was not repressed but actually proliferated here? Moreover, academics (especially in the U.S.) were forced to acknowledge the relationship between their research, their politics as well as their personal affiliations which previously could have to a large extent co-existed unproblematically and unquestioned. Looking at Precarious Life with the benefit of a decade of further reflection and critical distance, it is possible to read Butler’s response to what she views as a critical impasse in two ways. The first is to read it as a straightforward attempt to redress the refusal of colleagues to think beyond the images of the World Trade Center collapsing, in which any vague invitation to consider the wider conditions and implications of this attack was countered with accusations of anti-Semitism. Alternatively, we might read Butler’s own extensive commentary on this as evidence that debate and discussion were effectively being pursued in academic circles but that with the ‘first world complacency’ previously enjoyed by academics severely shaken, the possibility for polite disagreements was no longer an option. In this respect, Butler seems to be evoking her very own ‘repressive hypothesis’ in relation to the intellectual discourse surrounding 911. Foucault sets up the ‘repressive hypothesis’ in the opening chapter of The Will to Knowledge. Playing on a longstanding ‘myth’ of Victorian prudery and repression, Foucault taps into our assumptions that discussions of sex and sexuality were precluded in Victorian society and that in the late twentieth century, we were just beginning to ‘liberate’ ourselves from the constraints imposed on sexual discourse and activity during the nineteenth century. Here, Foucault performs a sleight of hand in which he confirms what we think we know precisely in order to pull the rug out from under us. Drawing our attention to the multiple discourses, theories, prescriptions and instructions about sex emerging in the eighteenth and nineteenth centuries, Foucault forces us to think again about this notion of repression. Essentially, he is calling us to look at what is there rather than what we are told is there. In this sense, he is continuing his critique of discourses and the conditions which make certain statements possible and acceptable where others are inadmissible that we find in The Order of Discourse.
56 Sophie Fuggle I would like to propose we carry out a similar reading of the discourses, images, theories and commentaries produced since 911 in relation and response to the ‘war on terror.’ To some extent, such a reading follows the trajectory established by Mitchell in Cloning Terror but would focus instead on the discourses rather than the images which have saturated public and academic consciousness. Moreover, if, as Mitchell suggests, the reign of a certain type of ‘image’ of terror ended with Obama’s inaugural election campaign,30 the same does not hold true of the discursive frameworks which continue to operate according to certain logics, most notably, that of the exception. If Butler’s response in Precarious Life often seems to consist of a straightforward exercise in self-validation, I don’t think there is much mileage in simply denouncing this as an act of ‘bad faith’ on her part. Instead, we might ask where the merits of such an exercise in justifying one’s own position lie? Is there another way to read Precarious Life, particularly the most personal passages which would focus on it as an archive, documenting a specific moment in an intellectual history as much as a political one? Moreover, would Butler’s analysis of precarious and grievable life have the same potency or function if they were untethered from her accompanying narrative on the state of affairs in U.S. academia? To try to respond to such tensions, it might be useful to look in more detail at what might be termed an academic discourse of exceptionalism emerging in the wake of 911. Suspended State A particularly vociferous example of academic discourse on 911 might be easily identified in the writing of Slavoj Žižek. In his comments on the shifting paradigms of Western biopolitics, Žižek is a useful interlocuteur here and his statement from Welcome to the Desert of the Real is particularly telling in this respect: Who is really alive today? What if we are ‘really alive’ only if we commit ourselves with an excessive intensity which puts us beyond ‘mere life’? What if, when we focus on mere survival, even if it is qualified as ‘having a good time’, what we ultimately lose is life itself ? What if the Palestinian suicide bomber on 30
Ibid., p. 2.
Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler 57 the point of blowing him – or herself (and others) up is, in an emphatic sense, ‘more alive’ than the American soldier engaged in a war in front of a computer screen against an enemy hundreds of miles away, or a New York yuppie jogging along the Hudson river in order to keep his body in shape?31
If Žižek is calling into question a Western biopolitics which has emptied all political commitment out of life and living, he is also constructing a (deliberately) problematic binary composed of easy clichés. While his readings of 911 might, along with much of his writing, seem reactionary not least in the speed with which they followed events themselves – the book of essays also marks a watershed and seems to define the stakes, if not for Western politics and culture, then certainly for left-wing intellectual readings of identity and culture over the past decade and a half. Thus, when he suggests that the claims circulating post 911 that nothing would ever be the same again, were disingenuous, intended to maintain life as usual for the average American – he both missed the mark and succeeded in defining it. As it turns out nothing will ever be the same again politically, culturally or intellectually. What has followed has been an obsession with the ‘exceptional’ body. The academic gaze reproducing the repulsed fascination with which the world, and more specifically, the U.S. and Europe consumed images and narratives of torture and abuse in Abu Ghraib, Guantanamo and elsewhere by armed forces representing a free and democratic West. Yet, in focusing on the ‘exception’, to what extent has this succeeded in endorsing the systematic oppression of other bodies? More specifically, if Butler and others have focused their efforts on certain instances of precarious life, certain images of torture – what of those who fall outside the exceptional spaces and moments which emerged into public consciousness after 911? What of those existing in spaces which are also marginal, exclusionary spaces but at the same time fully integrated into a society, or section of society, not subject to martial law or enacting a ‘state of exception’? While Agamben asserts that the law functions precisely via its suspension, its inoperativity constituting both its suspension and fulfillment, this is not what is going on in today’s penal system. The law with all its niceties, predilections and pathologies is to all intents and purposes functioning as ‘normal’ here. Slavoj Žižek, Welcome to the Desert of the Real (London and New York, NY: Verso, 2002), p. 88. 31
58 Sophie Fuggle In other words, those serving time in San Quentin, Attica or Colorado are not the ones the bombs missed. There are now over 2.2 million incarcerated in the U.S., a total of 0.7% of the population.32 Incarceration has become a form of warehousing, which, with the introduction of the ‘super max’ has led to more not less incarceration for increasingly long periods of time. As Davis and others have indicated, this form of incarceration is not unique to the U.S. but is being adopted by other Western countries faced with an increasing prison population. To Have Done with the Docile Body All this leads me to propose that we have done with the ‘docile’ bodies which shape much contemporary theorizing of otherness focusing instead on the criminal other who has committed acts of violence towards others. This is not a question of endorsing or trivializing such acts but, rather, suggesting that the association of certain crimes and ultimately all crime with imprisonment is something we continue to take for granted and which often underpins (and undermines) the challenges we pose to other forms of detention and exclusion. Consequently, what is implicit in Butler’s work, especially Precarious Life but, as I will also demonstrate, Frames of War, is the call for a complete rethinking about both conditions of existence and the terms of representation which determine, legitimize and perpetuate such conditions. If the parameters of her own discussion are predicated on the supra-legal, the exceptionalism of Guantanamo as opposed to the regularity of San Quentin or Attica, I would argue that she sets the scene for a deeper analysis of the conditions which produce the criminal body and then demand his or her incarceration. Firstly, how might Butler’s in-depth analysis of ‘indefinite detention’ be applied to a penal system, such as we find in the U.S., which largely refuses any discourse of ‘rehabilitation’, preferring instead to view inmates as bodies to be managed? To what extent does Clinton’s Three Strikes rule meting out life sentences for repeat offenders embody this notion of detention in the absence of concrete acts? If the Guantanamo detainees 32
As of 2011. Data available: http://prisonstudies.org.
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had not committed any ‘dangerous’ acts but simply were deemed capable of contributing to their planning and execution in no matter how small a way, the three strikes rule, also uncouples a specific, concrete crime from an ‘appropriate’ punishment by focusing on a notion of criminality based on repeat offences, no matter how minor. Drawing again on the complex relationship between individual responsibility and the conditions structuring such responsibility, as highlighted by Butler, we can see the extent to which the three strikes rule is both a tacit acknowledgment of this relationship and a direct attempt to deny its existence. Secondly, what is the scope for mapping Butler’s work on gender onto the space of the prison? One of the main dangers in ongoing discussions of gender within the carceral space concerns the way in which sociological research carried out on the different experiences in male and female units along with statistics about crime and gender end up reaffirming traditional gender hierarchies and binaries via the statements such studies make about how men and women interact with members of their own gender within certain spaces. It is possible to see how such findings are predicated on an underlying assumption that prison is the de facto mode of punishment if not for everyone then, at the very least, for the heterosexual male ‘offender.’ The stakes are twofold here, on the one hand, what is required is a questioning of exactly how the architecture, infrastructure and organization of the prison works to produce rather than simply affirm certain normative gender divisions and constructions. Secondly, such arguments must be used to develop the abolition debate rather than limited reforms which themselves are often implicated in the reinforcement of gender norms rather than their critique. If the prison is a space which produces as much as it affirms existing hierarchies, how are such productions or performances of gender and criminality as well as race and class mapped back on to the space outside the prison? In the next section, I want to explore the tension between what might be referred to as a saturation of images of incarceration via the mainstream media and, most notably, the U.S. prison documentary over the past decade and, at the same time, the ongoing absence of other images of incarceration.
60 Sophie Fuggle How to Take a Photograph of the Frame The notion of the frame, the parergon, as expounded upon by Jacques Derrida in The Truth in Painting, seems to lend itself particularly well to exposing the tensions and paradoxes of the carceral space. A space which is both ‘inside’ and ‘outside’. A space subject to multiple acts of framing in the carving up of space and time. Cells, blocks, wings. Mealtimes, visiting hours, recreation, lights out. There is also the double meaning of framing which is not lost on either Derrida or Butler. To frame someone not only means to place them in a certain context but also to set them up. Regardless of whether one is ‘guilty’ of a certain act or not, an inmate is both contextualized and set up within the frame, or frames of the prison. So, to what extent are we, as viewing public, complicit in such setting up? In Frames of War, Butler poses the question as to the possibility of ‘photographing’ the frame and what this might mean. I want to propose two possible examples with which to explore this framing of the frame: Foucault’s opening account of torture in Discipline and Punish and television entertainer Louis Theroux’s Behind Bars documentary. Then I will suggest how we might identify challenges to such acts of framing emerging from within the space of the prison itself. The spectacle of surveillance If the GIP succeeded in getting ‘ordinary’ (rather than intellectual or political) prisoners to produce their own narratives, there was still a lack of visual representation of incarceration in France excluding the stock footage, which up until today mostly consists of empty prison corridors or aerial views authorized by the prison authorities. Before going on to explore the saturation of images of incarceration that defines public consciousness of the U.S. penal system, I want to explore the absence of the prison image in other contexts as counterpoint to such saturation. The absence of an image is no longer a straightforward form of exclusion or repression. Today we can also note a deliberate framing of the absent or deferred image. Perhaps the most obvious example of such framing is the photo of ‘The Situation Room’, the image of senior White House staff gathered around to watch video footage of the capture and killing of Osama Bin Laden by Seal Team Six. But is that what we are actually looking at? As it transpired, the photo that was so widely circulated
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could have been taken at any point during the screening of what was no doubt hours of special ops footage. So why was the picture taken and circulated at all? If the image is deferred once then it is deferred again in the uncertainty that the moment captured corresponded to the precise moment of Osama bin Laden’s death. This is a double absence which includes or contains precisely via the gesture of excluding. A radical inversion has occurred in which it is the technique of surveillance itself, and not that which is being surveilled or monitored, that now constitutes the spectacle. This is something I think we might explore further via Foucault’s account of the spectacle of torture in Discipline and Punish. Foucault’s much cited account of Damiens versus the prison timetable continues to be one of the most powerful, if hyperbolic, accounts of the penal system in Europe. Attempts to paraphrase often fail to do justice [sorry] to the poetry of his graphic description. Moreover, I would argue that where frequently references to this opening passage within larger discussions of power, penal systems and the criminal body do not necessarily tell us anything new or different, there might be a more interesting way of reading these acts of citation and paraphrasing. What is it about the opening passage which is so appealing and which works so well? What is the function of the image of punishment rendered as narrative. Is this a case of transforming the reader into another spectator alongside those in the crowd watching Damiens being torn into pieces? Or, is there an injunction here to distinguish reader from spectator? Furthermore, how do we then relate this opening to the plates in the middle of the text, a question raised by François Boullant in Michel Foucault et les prisons. Foucault never includes actual images in his texts except in Ceci n’est pas une pipe. This is not to say he does not provide accounts of images such as Las Meninas in The Order of Things but key here as with the account of Damiens is the image rendered as narrative. Unlike Deleuze, Foucault does not even seem to be a fan of the diagram. Again these only appear in Ceci n’est pas une pipe. The image plates in Discipline and Punish are therefore important. Why are they there? And, how do they affect our reading of Discipline and Punish? In the GIP’s call for prisoners, former prisoners and their families along with all those involved in the penal system – lawyers, social workers and education officers to speak up and out about prison life – a supplementary call went out for those involved in facilitating the project to col-
62 Sophie Fuggle lect as much other information including photos. At the time there was a paucity of images documenting prison life in France. The idea of filming within and around the prison was, at that point, also posited but as a possible but ambitious and distant prospect for the group. Written in the aftermath of this concrete work on the current prison system in France, Discipline and Punish should be read as both emanating from Foucault’s active engagement and as a sustained reflection on the way in which techniques of discipline and normalization are engrained within contemporary society, how such techniques harness space and time in specific ways and capture both the criminal, deviant and the docile, law-abiding bodies. Foucault himself insisted that the book should not be read as shameless intellectual profiteering, the recuperation of the current or recent suffering of those incarcerated and their families in order to produce philosophical reflections. Acknowledging these as a starting point for his enquiry, Foucault demonstrates how one might be sensitive to both events and the individuals they affect whilst at the same time recognizing the necessity for sustained analysis concerning how one arrives at this point. How have we arrived at the specific forms and levels of the intolerable experienced throughout the world today? Foucault’s account of Damiens should be read as deliberately affective. Not only to emphasize our assumptions about changes in methods of punishment but at the same time in order to draw attention to the role narrative plays and should continue to play as well as perhaps to alert us to the way in which we, scholars, students, are so easily seduced by such instances of the ‘intolerable.’ Thus, where Foucault’s opening passage is a rhetorical device, the stakes operate on two levels. Yes, unsettle our presumptions about the apparent ‘humaneness’ of modern forms of punishment namely incarceration. But, at the same time, call us to account for the way we revel in being unsettled in a way that is often counterproductive, narcissistic, metadiscursive and thus which rarely results in concrete action. Similarly, the relish with which those of us working with and on Foucault seize these descriptions and leaf through the pages in the middle of the book attests, I think, to the return and persistence of the spectacle even whilst Foucault is making the case for its disappearance. What is different, however, is how such a space, the space of the spectacle, is framed and contained. The public spectacle of torture and execution became the
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very site where sovereign power was subverted and contested rather than affirmed making it a volatile space privy to mob rule. A more complex, refracted process is at work today in which surveillance has itself become a spectacle exemplified in television shows like Gogglebox in the UK in which viewers watch the same families watching prime time television each week. But also the U.S. prison documentary. Mob rule is co-opted here as a self-disciplining, self-regulating force. The watchtower is no longer a concrete architectural structure within a specific disciplinary institution but, instead, has moved inside the home, diffuse yet neatly contained within the space of the TV or computer screen. Shock Photography If the visual imagery of Foucault’s accounts of punishment are, in fact, deflections or deferrals, shifting our focus away from the modern day, contemporary prison precisely in order to expose its foundations and workings, such imagery is also an attempt to ‘capture’ the processes of ‘framing’ at work in our perception of incarceration. Writing on ‘shock photography’ in Mythologies, Roland Barthes points out that the photographer has been ‘shocked’ precisely so we don’t have to be. Judgments have been made on our behalf and the terrible image of atrocity neutralized, our potential for action exhausted in the moment of looking without really seeing. As obvious as such a statement might now seem, this does not make it any less relevant with regards to the framing processes at work in contemporary prison documentaries. Such techniques of representing life in incarceration continue to perpetuate a politics of fear even as we openly acknowledge the sensationalism at work. Moreover, the regularity with which U.S. penitentiaries like San Quentin feature in such documentaries means that the presence of film crews within the carceral space is something which is accepted as commonplace by inmates as well as correctional officers. Thus, in a similar way to Charcot’s use and development of photography in the diagnosis of various forms of madness and hysteria in La Salpetriere, the role of the film crew within the U.S. penal system has become both complicit and essential in diagnosing and ‘framing’ different forms of criminality. In particular this pertains to the way in which those incarcerated are actively encouraged to perform a certain criminality. This plays out, for example, in the carnivalesque performance of normative gender roles (for
64 Sophie Fuggle example, husband and wife couplings) in San Quentin prison as filmed for Locked Up together with the seemingly more ‘intelligent’ and ‘sensitive’ framing of Louis Theroux’s Behind Bars (BBC, 2008). One approach here might be to apply Butler’s reading of the film Paris is Burning in Bodies that Matter, to the performance of gender in prison. Where it is possible to locate the desire of characters like Venus in Paris is Burning to conform to both the ideal of woman and the domesticity such an ideal facilitates within a complex series of exclusions pertaining to both class and gender, the performance of femininity in prison by those who would define themselves as homosexual males in the outside world attests to a different form of ‘passing.’ The complex, paradoxical notion of the ‘natural’ as something which takes considerable time and effort to achieve undergoes a certain inflection in prison. If Venus risked her life (and indeed Butler suggests that this was probably what lead to her death shortly after the film was made) in trying to ‘pass,’ individuals like those interviewed by Louis Theroux in San Quentin, acknowledge that the performance of femininity in jail is regarded as a form of ‘honesty’ rather than deceit about one’s identity. If this leaves one open to certain abuses, it also makes things ‘smoother’ as one inmate puts it since it neutralizes the subversive threat of the dominant homosexual male, rendering him as woman. It is also interesting to note how such performances engender couplings between openly homosexual and otherwise heterosexual men (often married on the outside). This appears to be more than a simple rationalization of homosexuality by otherwise ‘straight’ males or indeed a replication of traditional hierarchies and power relations between a ‘male’ and ‘female’ couple. Theroux’s documentary is largely taken up with observing the different social configurations and relationships produced within San Quentin, navigating between discussions with gang members and former members and those in romantic relationships in prison. A former member of a Nazi, white supremacist gang, now in a relationship with a gay Jewish inmate, offers some insight into the way both gangs and couples provide a certain type of exclusive friendship and loyalty deemed necessary to survive in prison not simply physically through protection form harm in the case of gangs or the fulfillment of desire in the case of a romantic relationship but also in order to feel special and included in a space in which one is both excluded from society and subject to the homogeneous routine of the prison.
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By setting up this link between gang affiliation and coupling, Theroux provides a way of thinking differently about gang membership and gender within the space of the prison, attesting to the persistence of values such as friendship, trust and loyalty as opposed to the usual discourses of racism, homophobia and violent power structures applied to both sets of relationships. Nevertheless, in his conversations with Deborah, a pre-op transvestite, a different link is set up between criminality and homosexuality, that of recidivism. Deborah’s enthusiasm for her new younger partner is tempered by a certain resignation which comes from having been ‘doing this a long time.’ She is both referring to her life in and out of prison and the type of relationships both inside and out that accompany her recidivism. When asked why she has been in and out of jail for the past twenty years, Deborah suggests it is as a direct consequence of the men she hangs out with. If Deborah is the one who ‘sets up’ the link between criminality and sexuality, it is Theroux’s line of questioning which makes this possible and which allows such a connection to stand unchallenged. Theroux’s more nuanced form of ‘framing’ might be supplemented with other more conventional (here read ‘sensationalist’) examples of prison documentary and the various techniques employed ranging from the pixelated faces and distorted voices of ‘at risk’ inmates to the positive depictions of the correctional officers via certain scenes and narrative conventions. Yet, if both inmate and CO, at least in certain well-documented U.S. penitentiaries, have become accustomed to performing their roles of criminal and guard for the benefit of public consumption, what about other forms of representation and, more specifically, self-representation of those incarcerated elsewhere? Conclusion: Towards a Tactics of Counterveillance It is possible to carry out a reading in which all forms of representation necessarily involve a certain performativity which ends up affirming those incarcerated as criminal or deviant. Even when possibilities of ‘positive’ self-representation arise such as the Koestler Foundation’s initiatives to fund and disseminate art produced in prisons and by those in secure units in the UK, these often lack sustained critical reflection as to the underlying role of such projects. While the myth of rehabilitation
66 Sophie Fuggle such projects ascribe to is surely preferable to the notion of managing or ‘warehousing’ bodies that is openly acknowledged by those both working in and incarcerated in the U.S. penal system, a more direct link might be made between documentary images and those produced by inmates themselves. To what extent do both serve to perpetuate a certain exoticism of the ‘dangerous’ other, contained within the frame of the television screen or housed in a respectable art gallery or museum for the purposes of our safe, comfortable consumption? The dirty politics of fear of most prison documentaries is underpinned by the same logic as the heartwarming, emancipatory tale of the inmate turned artist. Both suggest that prison works, that prison is necessary and that it is the best place for those being kept there. However, in evoking the hidden similarities between the different myths of criminality and the way these are framed outside of the prison, I am calling for a more critical discussion of these myths and their perpetuation rather than shutting down further the possibilities for such criticism. Thus, by way of conclusion, I want to focus on the potential for selfrepresentation within the space of the prison as series of tactics which resist as much as conform to established notions of criminality. Borrowing Michael Welch’s notion of ‘counterveillance’ which he uses to describe the work of the GIP in getting prisoners to find their own ‘voices,’ how might we begin to identify a tactics of counterveillance operating within and beyond the space of the prison?33 Here, we might also look at the alternative systems of communication set up within the space of the prison by inmates in the form of kites and yoyos. The complex codes used in kites, tiny pieces of paper containing detailed information on gang politics, wrapped up and swallowed for safe keeping, demonstrate a form of literacy and communication which defies the oft-quoted statistics about an illiterate prison population. Another example is the use of smuggled mobile phones by inmates to produce their own ‘filmed’ testimony about life in prison. One such film was made in Europe’s largest prison, Fleury-Mérogis in France, in 2008 before being shown on French news show Envoyé Spécial. Filming inside French prisons continues to be heavily regulated in contradistinction to the saturation of images emerging from U.S. prisons. The poor technolMichael Welch, ‘Counterveillance: How Foucault and the Groupe d’information sur les prisons reversed the optics’, Theoretical Criminology 15:3 (August 2011), pp. 301-313. 33
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ogy and editing of the self-made ‘reportages’ risks rendering these into pure novelty. Nevertheless, I would argue that they constitute important documents not so much as a result of their content but in their contestation of who gets to decide on the limits of the frame. Thus, we have moved from the complex relationship between the ‘dangerous’ act and the conditions which led to such an act being committed to the issue of a different agency. The agency of those incarcerated in defining and producing their own mode of self-representation. If Manning’s decision to enter the space of the U.S. military prison as a woman embodies one such instance of this, the awareness of how gender must be performed differently within the carceral space acknowledged by the inmates of San Quentin seems to affirm this. The anatomopolitics of prison life, does not simply define the criminal as criminal through various processes of framing or subjectivisation. Today, the inmate is not simply complicit in his or her own ‘framing’ but is deeply, painfully aware of such complicity and the impossibility of refusing to comply. Moreover, I would argue that if Butler has identified the importance of the frame as an object of analysis in thinking through the circulation and censorship of images of torture, more attention is needed to the way in which Butler sets up her own frame of reference here. The frame is at once inside and outside, part of the image and part of the background. In the instance of a window frame – what is inside and what is outside? It is easy to reverse the binary here. The same applies to the prison, the ‘inside’ which is both ‘outside’ of society, located at its edges yet a central, integral part to its everyday functioning. What is needed here is to consider further the way in which the frame keeps inside and outside apart, the global and the local, the international and the domestic enabling the mutually endorsed, uncontested legitimation of the intolerable as both exceptional and everyday occurrence. Sophie Fuggle Goldsmiths, University of London S.Fuggle@gold.ac.uk
68 Sophie Fuggle
. Barred Subjects. Framing the Criminal Body with Foucault and Butler This essay enacts a return to the notion of the anatomopolitical which constitutes one of the main focuses of Foucault’s work on discipline, power and knowledge. If much academic discourse on power and control has, in recent years, tended to focus on the biopolitical defined as the management of populations and groups rather than the specific physical conditions of individual bodies, the role of disciplinary institutions, the school, the factory or workplace, the hospital and the prison continue to embody a disciplinary form of power identified by Foucault as emerging in the eighteenth and nineteenth centuries. If the biopolitical has been reconceived by Butler, Agamben and others as predicated upon the exception, what of these spaces which continue to maintain the status quo underpinning such an exception? Here, I will consider the space of the prison as, first and foremost, an interior rather than exterior space, in order to unpack, critique and develop Butler’s work on indefinite detention, dangerous acts and processes of framing. The central tenet here is that more attention on the domestic, the anatomopolitical and the everyday is required in relation to the international, the biopolitical and the exceptional. At the same time, I will consider the complex role of the public intellectual in speaking on and about current political events. Keywords: Foucault, Butler, Indefinite detention, Anatomopolitical, Biopolitics, Prison, Criminality.
Gli atti insurrezionali discorsivi dei prigionieri di Guantánamo: la rivendicazione di una politica della vulnerabilità Laura De Grazia
Sono stato umiliato in catene come posso comporre versi? Come posso scrivere? Dopo le catene e le notti e la sofferenza e le lacrime come posso scrivere poesie1?
Introduzione
C
« ’è un interrogativo sul quale ritorno costantemente e che continua a manifestarmisi con insistenza […]»2: si tratta di una domanda cui Judith Butler non cessa di ritornare, una domanda impellente, imperante, alla quale la pensatrice sembra non aver mai smesso di rispondere. In occasione del Premio Adorno 2012, Judith Butler riformula l’istanza adorniana «Non si dà vera vita nella falsa»3 [Es gibt kein richtiges Leben im falschen] M. Falkoff (a cura di), Poems from Guantánamo: the detainess speak, University of Iowa Press, Iowa City 2007 (trad. it. di R. Noury e L. Renzi, Poesie da Guantánamo: la parola ai detenuti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2008, p. 56). È interessante, a mio avviso, osservare come questo componimento scritto da Sami Al Haj, giornalista sudanese arrestato nel 2001 con l’accusa di fornire aiuto ad Al Qaeda (accusa di cui l’esercito statunitense non ha mai reso nota alcuna prova a sostegno) ricordi un passo del testo Intellettuale ad Auschwitz, scritto dal letterato e intellettuale J. Améry, deportato ad Auschwitz e liberato nel 1945. Nell’opera Améry si interroga non soltanto sulla possibilità di scrivere dopo la tortura subita (fu torturato dalla Gestapo nel 1943) ma sulla stessa possibilità di vivere a seguito della violenza a cui era stato sottoposto: «Chi è stato torturato, rimane torturato […]. Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai». Cfr. J. Améry, Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, Szczesny Verlag, München 1966 (trad. it. di E. Ganni, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987). 2 J. Butler, Can one lead a good life in a bad life?Adorno Prize Lecture, in «Radical Philosophy», n. 176 (2012), pp. 9-19, p. 9 (trad. it. di N. Perugini, A chi spetta una buona vita?, Edizioni Nottetempo, Roma 2013, p. 13). 3 T.W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1951 (trad. it. di R. Solmi, Minima moralia. Riflessioni sulla vita offesa, Einaudi, 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 69-93.
70 Laura De Grazia nell’interrogativo «come condurre una vita buona in una vita cattiva»4? La domanda porta in luce l’impossibilità di vivere una buona vita in un mondo in cui la buona vita è «strutturalmente e sistematicamente inaccessibile a molte persone»5. La questione del come condurre una buona vita appare legata non soltanto alla sfera della condotta etica ma anche alla sfera della politica, alle forme di potere contemporanee che organizzano la vita. Così l’interrogativo morale del “come vivere una buona vita” è immediatamente connesso alla domanda “a chi spetta una buona vita?”. La questione che Judith Butler si pone e che pone a noi tutti rivela una distribuzione differenziale di valore attribuito alla vita, una distribuzione che determina la scissione tra vite degne di essere vissute e vite indegne di lutto [ungrievable]. Le vite indegne di lutto sono vite dispensabili, la cui perdita non verrà accompagna dal lutto: si tratta di vite non meritevoli di essere compiante perché indegne di essere chiamate vite, indegne di vivere prima che di morire. Queste vite opacizzate, perché poste in una sorta di «penombra della vita pubblica»6, come possono comparire in un regime insieme normativo e discorsivo che non ne consente l’apparizione7? Torino 1994, p. 34). L’istanza adorniana cui Judith Butler fa riferimento è estratta dall’aforisma Asilo per senzatetto, in cui Adorno si sofferma sull’impossibilità dell’uomo moderno di “abitare” la propria casa, ovvero di “possedere” abitazioni che sono “astucci preparati da esperti” e “impianti di fabbrica” verso cui gli abitanti non hanno il minimo rapporto. Ed è proprio questo rapporto di non-possedimento verso tutti i beni di consumo, di cui la casa non è che un esempio, a generare paradossalmente uno stato di dipendenza e bisogno verso l’oggetto da possedere, assoggettamento che conduce, a sua volta, all’insensibilità non soltanto verso le cose ma verso gli uomini. 4 J. Butler, A chi spetta una buona vita?, cit., p. 13. 5 Ivi, p. 14. 6 Ivi, p. 21. Judith Butler riprende la suddivisione arendtiana fra sfera privata e sfera pubblica, ovvero fra sfera che include il campo dei bisogni materiali e della sessualità e sfera dell’azione e del pensiero. Le vite poste in una “penombra della vita pubblica” sono, dunque, vite che non possono comparire nel campo dell’azione politica. La scissione arendtiana è oggetto di discussione e ripensata come punto di partenza per una politica che prenda le mosse dalla corporeità, ovvero proprio da quella sfera che per Arendt rimane relegata nel campo del privato e del non-politico. 7 Cfr. J. Butler, Undoing gender, Routledge, New York 2004 (trad. it. di P. Maffezzoli, La disfatta del genere, Meltemi editore, Roma 2006, p. 68). Nel testo Judith Butler sottolinea come i regimi normativi governino l’intelligibilità del campo sociale, consentendo che «un certo tipo di pratiche e di azioni diventino riconoscibili come tali, imponendo delle griglie di leggibilità del sociale e definendo i parametri di ciò che farà o meno la sua comparsa nella sfera sociale».
Gli atti insurrezionali discorsivi dei prigionieri di Guantánamo 71
È questo il quesito che il presente lavoro vorrebbe affrontare attraverso il tentativo di aprire uno spazio di possibile confronto e dialogo fra due pensatori – Michel Foucault e Judith Butler – che non hanno mai smesso di rivolgersi a vite dimenticate, vite non degne di essere ricordate, vite di hommes infâmes8. In particolare, le vite non riconosciute come vite e sulle quali focalizzeremo il nostro sguardo, saranno i prigionieri del campo detentivo di Guantánamo Bay – campo ideato il 13 novembre del 2001 –, prigionieri la cui detenzione appare senza termine ultimo. Questi prigionieri di Camp Delta e prima di Camp X-Ray – che non hanno nome ma solo un numero corrispondente alla loro cella – sono detainess, «detenuti in attesa, per i quali l’attesa non può avere fine»9, in quanto “colpevoli” di essere enemy combatants, combattenti nemici da sottrarre alle previsioni del diritto internazionale che regolano la detenzione dei prigionieri di guerra e sottoposti al giudizio di tribunali speciali, la cui disciplina si sottrae «non solo al diritto processuale penale delle corti di giustizia civili, ma anche a quello delle corti marziali in tempo di guerra»10. Eppure, da uno stato di prigionia in semi-totale isolamento, in una condizione umana estrema11, sorgono tentativi di resistenza discorsiva: la scrittura poetica, che nella cultura araba è considerata un «contenitore […] di sentimenti umani grezzi, shu’uur»12 più che di pensieri ponderati, diventa un atto attraverso cui «preservare la propria umanità»13, un atto per ricordarsi di essere uomini. I versi di Sami Al Haj «sono stato umiliato in catene come posso comporre versi? Come posso scrivere?» portano in luce il drammatico contrasto che attraversa tutte le poesie scritte dai prigionieri: la consapevolezza dell’essere stati privati di quell’insieme di “qualità” che rendono una vita degna di essere vissuta e al contempo il tentativo Cfr. M. Foucault, La vie des hommes infâmes, in Dits et écrits II . 1976-1988, Éditions Gallimard, Paris 2001, p. 237. 9 J. Butler, Precarious life. The powers of mourning and violence, Verso, London 2004 (trad. it. di O. Guaraldo, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi editore, Roma 2004, p. 87). 10 C. Bonini, Guantanamo. Usa, viaggio nella prigione del terrore, Einaudi, Torino 2004, p. 69. 11 Per un’accurata descrizione delle condizioni inumane dei detenuti cfr. The road to Guantánamo, film documentario diretto da Michael Wirbebottom e Matt Whitecross nel 2006. 12 M. Falkoff (a cura di), Poems from Guantánamo, cit., p. 21. 13 Ivi, p. 17. 8
72 Laura De Grazia di apparire, attraverso la scrittura, in quello stesso “spazio pubblico” che aveva giudicato la loro vita meno che umana. A proposito di questo punto, scrive Moazzam Beg, cittadino britannico arrestato in Pakistan e rilasciato senza essere mai stato accusato di alcun reato, che, nonostante la «cattura senza scopo»14 e «l’ironia […] della detenzione», riesce ancora a comporre versi, «sapendo cosa, ma mai quando» perché «la poesia è in movimento», un movimento che riesce a oltrepassare la casa che «è una gabbia», una gabbia di acciaio15. Queste vite non degne di essere vissute e i loro atti insurrezionali discorsivi, saranno considerati come punto di partenza di una politica che prenda le mosse dalla vulnerabilità, seguendo la tracce di quell’attività critica il cui compito è scuotere il suolo per evidenziare le linee di fragilità della nostra attualità, i possibili punti di attacco su cui intervenire per tentare di destabilizzare i sistemi che ci costituiscono. Si tratta di tracciare una «cartografia del presente»16 per dimostrare che «nel nostro presente non è iscritto un solo futuro»17 e in questo modo «rafforzare le nostre capacità di intervenire sul presente»18. Le molteplici storie e sentieri contingentati che coesistono nella nostra attualità possono essere intersecati in un modo o in un altro: spetta ancora a noi decidere19 se e come intervenire20. Ivi, p. 44. Ivi, p. 44. 16 N. Rose, The politics of life itself, Princeton University Press, Princeton 2007 (trad. it. di M. Marchetti e G. Pipitone, La politica della vita, Einaudi, Torino 2008, p. 8). 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Per il processo della decisione, attraverso il quale si possono connettere i segmenti dell’esperienza vissuta in un modo o in un altro, cfr. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Mimesis, Milano 2009, p. 109. 20 A questo proposito, è utile menzionare le iniziative politiche relative alla chiusura di Guantánamo Bay. Dal 2008, il Presidente Barack Obama si pronuncia favorevole alla chiusura del campo di prigionia. L’ultimo recente intervento di Obama in merito risale al 23 maggio del 2013, in un discorso tenutosi alla National Defense University a Washington, in cui, tra le varie proposte di azione, insiste anche sull’importante necessità di fornire garanzia giuridica a ogni detenuto. Nonostante questo, la chiusura del campo rimane ancora un punto insoluto. Un interessante ed efficace tentativo di denuncia del trattamento dei prigionieri, è possibile ritrovarlo nell’indagine promossa nel 2008 dalla Columbia University: obiettivo del progetto The Rule of Law Oral History Project, era indagare lo stato dei diritti umani e civili a seguito dell’11 settembre attraverso una raccolta di testimonianze orali, tra cui interviste a ex-prigionieri, membri della Criminal Investigation Task 14 15
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Vite degne di lutto e vite indegne di essere vissute: lo stato di detenzione infinita dell’enemy combatant Lutto, paura, ansietà, rabbia: sono queste le percezioni emozionali [affects]21 che Judith Butler identifica a seguito dell’11 settembre. Percezioni, risposte affettive, al cui centro si colloca la nostra corporeità, superficie che non si limita a subire passivamente i significati del campo sociale in cui è immersa, ma che «soffre, gioisce e reagisce all’esteriorità del mondo»22. Il corpo è, infatti, un fenomeno sociale, la cui stessa sopravvivenza dipende dalle condizioni politiche in cui è collocato, da un mondo che non soltanto lo sostiene ma che lo investe attraverso varie e molteplici forme, fra cui ritroviamo l’oltraggio e la violenza: Il corpo implica mortalità, vulnerabilità, azione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo degli altri, ma anche al contatto e alla violenza, e i corpi ci espongono al rischio di diventare agency e strumento di tutto ciò23. Force e componenti del Center for Constitutional Rights. Cfr. http://library.columbia. edu/locations/ccoh/new_projects/rule_of_law.html. Tra le più importanti iniziative di dissenso, ritroviamo inoltre la campagna promossa nel 2008 da Amnesty International, in cui centinaia di persone, da Sidney al Regno Unito, dal Paraguay alle Filippine, dall’Italia agli Stati Uniti, manifestarono indossando una tuta arancione, simile a quella dei detenuti. 21 Per la nozione di “affects” cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona 2007. Deleuze, commentando l’Etica spinoziana, diversifica l’affetto [affectus] dall’affezione [affectio]. A differenza dell’idea – modo di pensiero definito dal suo carattere rappresentativo – l’affetto delinea un modo di pensare non rappresentativo. L’affezione consiste, invece, in uno stato causato dall’azione di un corpo su un altro corpo: l’affectio è una «composizione [melange] di corpi. Ogni composizione di corpi è un’affezione: l’affectio è la combinazione di due corpi, uno che agisce e l’altro che viene segnato [recueillir] dalla traccia del primo». La concezione di affectio è ripresa da Judith Butler per evidenziare come attraverso la nostra corporeità siamo immersi in un tessuto intersoggettivo. 22 J. Butler, Frames of war. When is life grievable?, Verso, London 2010 (trad. it. di L. Pagliara, “Capacità di sopravvivenza, vulnerabilità, percezione”, in «Aut-aut», n. 341 (2008), pp. 158-186, pp. 158-159). 23 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 46. Olivia Guaraldo, curatrice del testo, sottolinea che il termine agency è di difficile traduzione in italiano perché rimanda a molteplici significati: esso implica, al contempo, il concetto di azione, di auto-posizionamento del soggetto agente e di assunzione di responsabilità rispetto all’azione stessa. In questo specifico contesto, la nozione di agency delinea una modalità di agire che mette in crisi la nozione di soggettività, slegando l’azione da un soggetto sovrano in grado di controllarne ogni effetto. Essa è usata da Butler per sottolineare il carattere “pubblico” della corporeità: il
74 Laura De Grazia L’essere esposti allo sguardo, ma anche alla violenza altrui, rivela una comune vulnerabilità, una vulnerabilità primaria che si manifesta con particolare veemenza nelle affezioni del lutto e nella perdita. La percezione emozionale del dolore appare una delle risposte affettive corporee più dirompenti, sintomo di una perdita che svela uno stato di non possedimento del nostro sé, di un essere messi a nudo da un altro che ci cattura e si impadronisce di noi stessi. Il dolore della perdita prorompe nella vita ordinaria, scardinandola, mettendo in discussione noi stessi, come se fossimo «improvvisamente convocati da un altrove di cui non possiamo appropriarci»24. Judith Butler sottolinea come il dolore lungi dall’appartenere a una sfera privata, a una dimensione che ci riporta in una condizione di solitudine, è rivelatore di una costitutiva socialità del sé, di uno spossessamento che scompagina noi stessi attraverso «segni destabilizzanti [undoing]»25. Il dolore potrebbe, dunque, diventare una preziosa risorsa cui attingere per comprendere e rivendicare la nostra vulnerabilità, il nostro essere socialmente costituiti, al fine di immaginare e conferire un altro senso di appartenenza a una comunità politica. Ma cosa succede se anziché trasformare il senso di perdita in risorsa politica, si tenta di rifiutare il dolore26 e di negare così la vulnerabilità primaria che ci costituisce? Per Judith Butler è il fenomeno che si scatena all’indomani dell’11 settembre – il 21 settembre 2001 –, quando il Presidente Bush dichiara corpo è sia “agente” che “agito” ed è impossibile rivendicarne il pieno “possedimento”. Per il concetto di corpo come fenomeno sociale cfr. J. Butler, Frames of war, cit., p. 3: «[…] to be a body is to be exposed to social crafting and form, and that is what makes the ontology of the body a social ontology. In other words, the body is exposed to socially and politically articulated forces as well as to claims of sociality – including language, work, and desire – that makes possible the body’s persisting and flourishing». 24 Ivi, p. 48. 25 J. Butler, La disfatta del genere, cit., p. 45. 26 Cfr. J. Butler, The psychic life of power, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it. di C. Weber, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Meltemi editore, Roma 2005, p. 157). Nel testo Judith Butler si confronta con la nozione di melanconia elaborata da Freud nel saggio Lutto e melanconia, in cui la melanconia si presenta come «un’aberrante forma di lutto» perché l’oggetto perso continua a persistere nella vita del soggetto nel presente impedendo la rielaborazione del dolore. Per Butler la spiegazione della malinconia «rimanda al modo in cui le dimensioni psichiche e sociali si formano in relazione l’una con l’altra» e quindi al modo in cui si istituiscono e si mantengono i legami sociali.
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che era necessario smettere di «piangere i nostri morti e che ora era giunto il momento di sostituire al dolore azioni precise»27. Soltanto a due mesi di distanza da queste dichiarazioni – il 13 novembre 2001 – il Presidente Bush emana l’ordinanza Detenzione, trattamento e procedimento nei confronti di alcuni non-cittadini nella Guerra al Terrorismo28, ordinanza che diverrà il presupposto dell’ideazione del campo detentivo dei “non-cittadini” rinchiusi a Guantánamo, affinché si tracciasse «un solco profondo che separi il destino dei nemici dell’America da quello della sua gente»29. Tracciare una linea di separazione fra “la propria gente” e i non-cittadini, equivale a costruire una linea di spartizione fra chi era degno di essere pianto – e dunque di vivere, di essere considerato vita – e chi era indegno di essere compianto e indegno di essere considerato vita. Bisognava, attraverso determinati scenari narrativi, smettere di piangere i propri morti per “sostituire al dolore azioni precise” ma, al contempo, mantenere il dolore e il lutto nei confronti di chi appartiene alla nostra nazione per giustificare l’ideazione di una lobby di acciaio in cui dall’11 gennaio 2002 «i liberi arrivano con la luce del mattino, i dannati in catene nell’inchiostro della notte»30, di un campo in cui persino i prigionieri stessi faticano a ricordare la data iniziale di prigionia31 e in cui la detenzione appare sine die. Conservare il dolore della perdita nei confronti di chi riconosciamo come appartenente alla nostra comunità nazionale e negarlo nei confronti di vite che non ci appartengono, appare come la manifestazione di una distribuzione differenziale del lutto pubblico, distribuzione regolata da specifici regimi di potere e che a sua volta condiziona le nostre reazioni morali, reazioni che «inizialmente appaiono in forma di percezione emotivo-affettiva»32 ma che in realtà sono «tacitamente regolate da determinate griglie interpretative»33. È proprio la regolamentazione delle nostre percezioni emozionali, attraverso un regime normativo che stabilisce chi è da compiangere, a far sì che si provi indignazione nei confronti di alcune J. Butler, Vite precarie, cit., p. 51. Per il testo completo dell’ordinanza cfr. C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 145. 29 Ivi, p. 68. 30 Ivi, p. 4. 31 È il caso di Muhammed Naim Faruq, arrivato a Guantánamo nel 2002 e che a distanza di un anno non ricorda neppure che giorno fosse quando mise piede nella baia. 32 J. Butler, Capacità di sopravvivenza, cit., p. 165. 33 Ibidem. 27 28
76 Laura De Grazia perdite e indifferenza nei confronti di altre. Questa differenziazione appare predisposta da specifiche strategie narrative attraverso, ad esempio, una serie di racconti che riportano gli ultimi momenti delle vite del World Trade Center, racconti il cui effetto è predisporre lo «scenario e i mezzi narrativi attraverso i quali “l’umano” diviene degno di lutto»34. Diviene degno di lutto soltanto chi reputiamo “umano”, la perdita di altre vite non trova spazio all’interno di un regime discorsivo che non consente l’apparizione di vite non appartenenti al “noi” cui reputiamo di far parte, di vite non degne di essere ricordate: Non si tratta solo di una morte riportata in tono minore, ma di una morte che non è degna di essere ricordata. Una morte che non trova spazio nel discorso esplicito, e svanisce nelle ellissi che permettono al discorso pubblico di essere ricordato35.
Una morte “che non trova spazio nel discorso esplicito” è la morte di una vita non degna di lutto, vita che non è propriamente una vita e dunque non degna di considerazione ed è per questo che la pubblicazione di foto che ritraggono i corpi incatenati dei detenuti di Guantánamo – foto pubblicate non per denunciare un trattamento disumano ma per rappresentare una vittoria nazionale – da parte del Dipartimento della Difesa, non suscita lo stesso orrore che proviamo nei confronti della perdita di vite della nostra comunità. La scissione fra vite da compiangere e vite “inumane” si produce all’interno di meccanismi regolamentati dalla bio-politica, ovvero da quelle forme di potere che, attraverso «strumenti governativi e non governativi, stabilendo un insieme di misure per la valutazione differenziale della vita stessa»36, conferiscono maggior valore a determinate vite rispetto ad altre. Nell’ultima lezione di Il faut défendre la société, Foucault, chiedendosi come sia possibile all’interno di una tecnologia di potere il cui fine è poJ. Butler, Vite precarie, cit., p. 59. Cfr. J. Butler, Capacità di sopravvivenza, cit., p. 163: «Dopo gli attacchi dell’11 settembre sui media ci siamo imbattuti nelle immagini di coloro che sono morti: i loro nomi, le loro storie, le loro famiglie. Il lutto pubblico era destinato a fare di queste immagini icone per la nazione, il che significava, naturalmente, che per le vittime non americane il lutto pubblico era considerevolmente minore, e addirittura inesistente per i lavoratori clandestini». 35 Ivi, p. 56. 36 J. Butler, A chi spetta una buona vita?, cit., p. 19. 34
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tenziare la vita37, esercitare «il diritto di uccidere e la funzione omicidiale»38, elabora una possibile risposta, ritrovandola nell’attivazione del razzismo. Il razzismo ha infatti la funzione di frammentare il campo del biologico che il potere investe, di introdurre delle cesure «all’interno di quel continuum biologico»39, rendendo così possibile l’introduzione di una separazione fra ciò che deve vivere e ciò che morire. È una griglia di spartizione che per Judith Butler è particolarmente evidente nei conflitti di guerra, nei quali si attua la distinzione fra «la popolazione da cui dipende la mia vita e la mia esistenza e popolazioni che rappresentano per esse una minaccia diretta»40. La scissione fra vite da proteggere e vite giudicate non-vite, è determinata dalla creazione di nemici comuni, nemici che costituiscono i «pericoli, esterni o interni in rapporto alla popolazione e per la popolazione»41 e che possono annidarsi ovunque. Possiamo osservare come questo processo di differenziazione sia stato portato in atto attraverso la fabbricazione del concetto di enemy combatant. Ma chi è il “combattente nemico” – ibrido giuridico creato nel 1942 dalla Corte Suprema in una sentenza nota come Ex parte Quirin42 –, chi è che merita di essere catturato e imprigionato per finire a Camp Delta, il campo detentivo su cui è affisso il cartello “Onore in difesa della libertà” [Honor bound to defend freedom]43? Per una lettura e problematizzazione delle forme di bio-politica contemporanee cfr. N. Rose, La politica della vita, cit., p. 84. Rose sottolinea che la bio-politica è più una «prospettiva che un concetto: fa emergere da parte di autorità differenti una molteplicità di tentativi […] di intervento sugli esseri umani […], come creature viventi che sono nate, maturano, abitano un corpo addestrabile e potenziabile, e poi si ammalano e muoiono». 38 M. Foucault, Il faut défendre la société, Éditions Gallimard, Paris 1997 (trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, p. 219). 39 Ivi, p. 220. 40 J. Butler, Capacità di sopravvivenza, cit., p. 166. 41 M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 221. 42 È l’unico precedente giurisprudenziale di cui si è avvalsa l’Ordinanza militare Detenzione, trattamento e procedimento nei confronti di alcuni non-cittadini nella Guerra al Terrorismo. La qualifica di “enemy combatant” si origina nel 1942, dopo la cattura di otto sabotatori nazisti, catturati a Long Island e processati da una Commissione militare istituita dal Presidente Roosevelt. La Commissione li mandò a morte, a seguito del rifiuto, da parte della Corte suprema, di occuparsi del caso, dichiarandosi non competente a pronunciarsi su prigionieri di guerra, che in fondo non potevano essere riconosciuti come tali e che erano piuttosto definibili come “enemy combatants”. 43 Cfr. C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 21. L’entrata al campo detentivo è infatti composta da una serie di porte d’acciaio, porte che non si aprono prima che si chiuda la 37
78 Laura De Grazia Era essenziale individuare un «luogo sottratto alla giurisdizione e controllo delle Corti»44, per imprigionare «soggetti che agiscono da soli o in concorso con organizzazioni terroristiche internazionali, che possiedono sia le capacità, sia l’intenzione di portare a termine ulteriori atti di terrorismo contro gli Stati Uniti […] mettendo in tal modo a repentaglio la continuità dell’opera del Governo»45. Necessario a ragion di ciò, per proteggere e difendere i propri cittadini da un nemico che rappresenta un pericolo costante per la popolazione intera, ideare un campo in cui esso sarà trattato con umanità, disporrà di cibo e acqua, riparo, indumenti e trattamento sanitario e potrà professare il proprio credo religioso compatibilmente con i requisiti imposti dalla detenzione46. Addentrandoci in Camp Delta, prigione di acciaio, si può meglio capire cosa si intende per “trattamento umanitario”47 di soggetti reputati non-cittadini dalla divisa arancione, che li diversifica dagli altri prigionieri rinchiusi in Camp 4 – prigionieri che avrebbero deciso di collaborare con la Joint Task Force Guantanamo 160 – dalla tuta in bianco, il cui colore ne rivela il positive behaviour. Gli altri – i detenuti che non collaborano o non collaborano a sufficienza – sono rinchiusi in una struttura detentiva circondata da un reticolato di filo spinato che i carcerieri chiamano “the Wire”. La struttura architettonica del sistema carcerario rispecchia il doppio isolamento48, interno e esterno, cui dev’essere soggetto il detenuto, il quale, rinchiuso in una cella ricoperta di cemento armato, aperta da tutti e quattro i lati affinché si possa osservare ogni movimento percettibile del precedente e sulla cui porta iniziale ritroviamo il cartello “Camp Delta – Honor bound to defend freedom” che fa da confine alla «cattività con l’omaggio della sua negazione». 44 Ivi, p. 70. 45 Ivi, p. 145. 46 Si tratta di una serie di disposizioni estratte dall’ordinanza Detenzione […] a cui dev’essere soggetto il non-cittadino rinchiuso a Camp Delta. 47 Cfr. J. Butler, Vite precarie, cit., p. 106: «Quando gli Stati Uniti dichiarano di trattare i prigionieri con umanità usano l’espressione a modo loro e per i propri scopi, ma non accettano che l’accordo di Ginevra stabilisca come si dovrebbe legittimamente usare». 48 Cfr. M. Foucault, L’emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo, La casa Usher, Firenze 2011, pp. 145-146. Foucault, descrivendo la prigione d’Attica, osserva come la struttura architettonica del sistema carcerario ne rispecchia gli obiettivi politici. La prigione era, infatti, munita di un doppio sistema di sbarre, «quelle che separano la prigione dall’esterno e quelle che, all’interno della prigione, isolano ogni singola cella dalla sua vicina».
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corpo, deve essere separato dagli altri, perché da un braccio all’altro non si possa né sentire né vedere49. Necessario, in quella “babele di linguaggi”50, abolire ogni forma di comunicazione, non solo fra un detenuto e un altro, ma anche fra i reclusi e i carcerieri. Difatti, non sono soltanto i prigionieri a non avere nome ma solo un numero corrispondente a quello della loro cella, ma gli stessi secondini, perché le misure del campo impongono loro di nascondere la stringa di stoffa «che, come in tutti gli eserciti del mondo, dà un cognome a una faccia»51. L’isolamento – materiale e linguistico generato dalla mancanza di comunicazione – costituisce uno dei primi fattori di mortalità, perché in Camp Delta non sono di certo rari i tentati suicidi. Ritroviamo, fra questi, il caso di Shama Moahamed, il quale, rimanendo segregato per oltre un anno, prova a suicidarsi quattro volte proprio per l’impossibilità di comunicare con gli altri membri del proprio braccio. Il malessere diffuso dei prigionieri, che deriva dal “trattamento umanitario” cui sono sottoposti, colpisce anche i sorveglianti, affetti da ciò che loro stessi definiscono “sintomi di Gytmo”, la sindrome di Guantánamo, che si manifesta con incubi notturni, senso di sonnolenza, accrescimento o diminuzione dell’appetito e un’improvvisa aggressività. A Guantánamo, luogo in cui la «linea di discrimine tra carcerieri e segregati è sempre un confine incerto, sottile […] la deportazione è condizione di tutti»52. La deportazione diventa condizione di tutti perché tutti possono essere sottoposti a procedimenti detentivi sulla base di singoli sospetti, tutti, compresi gli stessi carcerieri. È il caso del capitano musulmano James J. Yee – ufficiale dell’esercito e guida spirituale dei prigionieri –, unico anello di congiunzione fra liberi e condannati a Guantánamo Bay. Yee verrà arCfr. C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 25. Si differenziano da queste celle le sale degli interrogatori, in cui è costantemente accesa la luce elettrica perché il prigioniero «non distingua il giorno dalla notte. Non sappia se è rimasto di fronte ai suoi interlocutori per una, due, tre o nove ore, come pure accade». Ci racconta Feroz Ali Abbasi, uno dei primissimi detenuti di Guantánamo, a proposito degli interrogatori: «The interrogators’ job was not to work out whether you were a terrorist or not. It was to prove that you were a terrorist, whether you were a terrorist or not […] They did not want to lie but at the same time they wanted you to implicate yourself from your words». Cfr. http://library. columbia.edu/locations/ccoh/new _projects/rule_of_law/abbasi-oral-history.html. 50 In Camp Delta sono, infatti, parlate quarantadue lingue e diciassette dialetti. 51 C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 33. 52 Ivi, p. 43. 49
80 Laura De Grazia restato il 10 settembre 2003, colpevole di aver tradito il suo Paese e i suoi superiori, perché reputato spia di Al Quaeda e collegato a una rete di complotti di cui sono protagonisti l’aviere Al-Halabi e il traduttore Mehalba, catturati attraverso un’operazione in cui «il sospetto comincia a divorare chi ne è il custode»53. E una volta arrestato, l’enemy combatant sarà oggetto di una detenzione di cui non potrà mai conoscere il termine ultimo, una detenzione a tempo indeterminato, sine die. Appare un compito urgente interrogarsi su questa innovazione giuridica, non soltanto per comprendere il funzionamento di Camp Delta, ma per capire la «struttura e l’ampiezza del potere dello stato ai nostri giorni»54. Questo concetto manifesta – mediante la sospensione del diritto nelle sue forme nazionali e internazionali55–, l’emergere di un nuovo modo di esercitare il potere statale, attraverso l’estensione illimitata della sovranità, dove sovranità sta a indicare «il dovere di ogni stato di preservare e proteggere la propria territorialità»56, all’interno della governamentalità, intesa come «la maniera in cui il potere politico gestisce e regolamenta popolazioni e beni»57. È nel corso Sécurité, territoire, population che Foucault comincia a teorizzare un nuovo modo di esercitare il potere «eterogeneo sia alla sovranità che alle tecnologie disciplinari: il governo»58. Nella sovranità era basilare il rapporto con il territorio: esso doveva essere organizzato, come leggiamo nel testo La métropolitée del XVII scritto dall’ingegner generale Alexandre La Maître, in modo tale che «nessun angolo del regno»59 potesse Ivi, p. 132. Cfr. J. Butler, Vite precarie, cit., p. 101: «La licenza del marchiare, classificare e trattenere sulla base del semplice sospetto, che si esprime in questa operazione del “supporre” è potenzialmente enorme». 54 Ivi, p. 74. 55 I prigionieri di Guantánamo non godono infatti dello status di prigionieri di guerra e non hanno diritto all’assistenza legale, all’appello e al rimpatrio sancito dalla Convenzione di Ginevra. 56 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 78. 57 Ivi, p. 74. 58 L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico. Spunti per una critica dell’attualità, Edizioni ETS, Pisa 2008, p. 30. 59 M. Foucault, Sécurité, territoire et population, Éditions Gallimard, Paris 2004 (trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio e popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, p. 24). È difficile non pensare a come le funzioni attribuite al sovrano di controllo “capillare” del territorio e alla capitale del regno, centro da cui si devono irradiare e prescrivere agli uomini determinate condotte e modi di agire, siano molto simili alle funzioni dei sistemi disciplinari. A proposito di questo punto, Foucault afferma: «L’idea del panopticon per un verso è moderna ma per un altro è assolutamente arcaica, perché suppone la presenza centrale di 53
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sottrarsi a una «rete generale di leggi e ordinanze del sovrano»60, emanate a loro volta dalla capitale, centro nevralgico della sovranità nel progetto utopico di La Maître. Nel governo, il territorio non sarà più considerato il fondamento della sovranità: cambierà l’oggetto del potere, che diverrà il rapporto fra “uomini e cose”, e la legge, che nella sovranità era uno strumento volto a rafforzare il potere del sovrano, diverrà una “tattica” di miglioramento e intensificazione dei processi che il governo dirige. Judith Butler rintraccia, a partire dall’analisi foucaultiana, una convergenza fra la governamentalità e la sovranità, sottolineando che queste due modalità di potere non debbano essere pensate cronologicamente slegate, come se la governamentalità debba essere necessariamente successiva alla sovranità. Nonostante Foucault avesse lasciato «aperta la possibilità che le due forme di potere possano coesistere»61, non era ovviamente per lui possibile prevedere «quale forma questa coesistenza avrebbe assunto nelle attuali circostanze»62, ovvero in che modo la sovranità sarebbe potuta risorgere all’interno del potere statale. La riattivazione del potere sovrano appare nell’estensione illimitata del potere esecutivo che si realizza sia attraverso «un’evoluzione delle burocrazie amministrative, per cui i funzionari […] si arrogano il potere […] di giudicare la possibilità di tenere in carcere qualcuno a tempo indeterminato»63 e sia attraverso l’investimento della persona del Presidente di esercitare il «potere unilaterale e inappellabile di decidere quando, dove e se ci sarà un processo militare»64. Attraverso la creazione di una sfera extra-giuridica – sono i funzionari di governo e non i membri dell’ordinamento giudiziario a giudicare e imprigionare un soggetto “pericoloso”–, si assiste a una «rinascita spettrale e vigorosa della sovranità nel bel mezzo della governamentalità»65. un occhio […] che potrà dispiegare la propria sovranità su tutti gli individui situati all’interno di questa macchina di potere. […] Sotto questi aspetti si può dire che il panopticon è il sogno più antico del sovrano più antico». Per un’analisi dell’associazione fra sovranità e disciplina cfr. L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico, cit., p. 30. 60 Ibidem. 61 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 76. 62 Ivi, p. 77. 63 Ivi, p. 74. 64 Ivi, p. 77. Chi rientra nella competenza di queste Commissioni militari non può avvalersi del diritto di appello presso le Corti civili degli Stati Uniti, le quali hanno dichiarato di non avere alcuna giurisdizione su Guantánamo, in quanto luogo posto al di fuori del territorio degli Stati Uniti. 65 Ivi, p. 82.
82 Laura De Grazia I detenuti in attesa [detainees], privati dei diritti fondamentali previsti dalla legge – legge che diventa solo lo strumento per isolare e controllare una determinata parte della popolazione –, sono giudicati come “vite meno che umane” di cui non deve rimanere alcuna traccia all’interno di un regime normativo e discorsivo che regola le nostre percezioni emozionali. Ma è proprio nei discorsi di vite non degne di essere vissute che possiamo rintracciare una diversa concezione dell’umano, attraverso i componimenti poetici dei prigionieri di Guantánamo, attraverso i loro “contro-discorsi” e “atti insurrezionali discorsivi”. Le loro poesie-appello, poesie-testimonianza potrebbero essere il punto di partenza per tentare di contrastare le griglie normative che stabiliscono quale vita debba essere pianta per diventare degna di lutto e attraverso il richiamo a una comune vulnerabilità, che deriva dalla struttura “estatica” della nostra corporeità66 – il corpo per “essere” nel senso di “persistere” deve contare su ciò che è al di fuori di sé –, riformulare la vita stessa, ripensandola come una «rete di relazioni con gli altri, una rete complessa, antagonistica e necessaria»67. I contro-discorsi di vite indegne di essere vissute Nella conferenza La vérité et les formes juridiques, testo in cui si indaga la trasformazione del rapporto fra soggetto e verità attraverso il cambiamento delle pratiche giudiziarie, Foucault individua due livelli di analisi del discorso: il primo – il livello della linguistica – in cui il discorso è valutato come un insieme regolare di fatti linguistici [ensemble régulier de faits linguistiques] e il secondo – il livello strategico – in cui il discorso è considerato Cfr. L. Bernini, L’estasi dell’alterità. La teoria del riconoscimento di Judith Butler, in «Fogli Campostrini», vol. 3 (2012), n. 3, pp. 37-48, p. 42: «Ogni soggetto esiste […] fuori di sé, perché la realtà della sua identità dipende dal riconoscimento degli altri soggetti». Pensare alla soggettività in termini di struttura estatica, è il risultato della rielaborazione butleriana della teoria hegeliana del riconoscimento tra signore e servo, teoria contenuta ne La fenomenologia dello spirito e commentata nelle lezioni di Alexandre Kojève. Se è vero che «in una data società il riconoscimento è reso possibile da norme sociali che preesistono al soggetto», il soggetto non è mai pienamente determinato dalle norme sociali che lo costituiscono: egli può agire attivamente all’interno del tessuto sociale di cui fa parte, sulle «stesse norme che hanno permesso il suo sorgere all’interno di una rete di relazioni». 67 J. Butler, Capacità di sopravvivenza, cit., p. 168. 66
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come un insieme di fatti polemici e strategici [faits polémiques et stratégiques]. Ma cosa vuol dire valutare il discorso come un “gioco strategico”68? È una prospettiva che Foucault adotta nel caso Pierre Rivière, contadino accusato di parricidio nel XIX secolo. Si trattava, con Pierre Rivière, di studiare la storia dei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, storia emersa dall’intersecarsi di perizie medico-legali e dal racconto dell’imputato stesso, contadino di una ventina d’anni. La Memoria di Rivière – il racconto del crimine di «colui che nel suo villaggio era considerato come una specie di idiota»69, che i giornali avevano presentato come un «furioso, un forsennato»70 e che aveva invece redatto quaranta pagine di spiegazione del suo crimine – occupa una posizione centrale in un insieme di discorsi scientifici e giudiziari, discorsi da esaminare per ritrovare «il gioco […] dei discorsi, come armi, come strumenti di attacco e di difesa in rapporti di potere e sapere»71, atti medici e legali che permettono di «decifrare le relazioni di potere, di dominio e di lotta, all’interno delle quali i discorsi vengono a stabilirsi e funzionano»72. Osservare il discorso come un “gioco strategico” significa, allora, tentare di trovare il nodo da sciogliere per far emergere gli scontri, le battaglie dalle quali i discorsi sono attraversati, le strategie di potere e le possibili strategie di lotta che si incrociano al loro interno. Cfr. M. Foucault, Le sujet et le pouvoir, in Dits et écrits II, cit., p. 1060: «Le mot de stratégie est employé couramment en trois sens […] il s’agit de la rationalité mise en ouvre pour atteindre un objectif […], la manière dont on essaie d’avoir prise sur l’autre […], il s’agit […] des moyens destinés à obtenir la victoire. Ces trois significations se rejoignent dans les situations d’affrontement – guerre ou jeu – où l’objectif est d’agir sur un adversaire de telle manière que la lutte soit pour lui impossible». Ho caratterizzato il discorso come “gioco strategico” per sottolineare come esso possa funzionare sia come “strategia di potere”, ovvero come l’insieme dei mezzi messi in atto per far funzionare o mantenere un dispositivo di potere, sia come “strategia di lotta”, insieme dei mezzi messi in atto per rovesciare una relazione di potere. 69 M. Foucault, Moi Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma soeur et mon frère, Éditions Gallimard, Paris 1973 (trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Io Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, Einaudi, Torino 2000, p. XIII). 70 Ivi, p. 219. L’interesse rivolto al racconto di Rivière da parte delle istituzioni penali e mediche, porta in luce il sorgere di un’estrema attenzione verso avvenimenti minuti e oggetti che di solito non trovano posto nei quotidiani «per mancanza di dignità o di importanza sociale». Essi ci raccontano di «una storia senza padroni, popolata di eventi frenetici e autonomi, una storia al di sotto del potere e che va a urtare contro la legge». 71 Ivi, p. XVIII. 72 Ivi, p. XIX. 68
84 Laura De Grazia È un’operazione che Foucault mette in atto sia attraverso la trascrizione del racconto [récit] di Rivière, con la decisione di non imporgli alcun commento psichiatrico e psicoanalitico, sia attraverso l’enquête-intolerance promossa da Le Groupe d’information sur les prisons: si trattava, con il GIP, non di formulare una teoria sul delinquente, ma piuttosto di portare in luce i contro-discorsi73 del soggetto classificato come delinquente, affinché la sua parola74 potesse servire come punto di attacco non soltanto contro il sistema penitenziale, ma contro i sistemi che formano e plasmano il soggetto, rendendolo soggetto assoggettato. Il prendere la parola, «il dirlo in prima persona, vuol dire sottrarsi all’obbligo della totale oggettivazione, e compiere un gesto di reinvenzione del sé»75. Come possono allora insorgere i discorsi di vite non considerate degne di essere vissute? Come si può prendere la parola all’interno di un regime discorsivo che derealizza l’umano per disumanizzare le vite? Derealizzare l’altro significa considerarlo interminabilmente “spettrale”, «né vivo né morto»76, come se ci trovassimo di fonte a una vita “irreale”. Allora, se la violenza è perpetrata contro soggetti non reali «secondo la prospettiva della violenza, non c’è ferita o annientamento di quelle vite, dal momento che sono negate in partenza»77. La derealizzazione sul piano discorsivo si attua attraverso la disumanizzazione – la degradazione dell’uomo ad animale –, quel processo che Primo Cfr. M. Foucault, Gli intellettuali e il potere, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p. 270. 74 Cfr. J. Revel, Le vocabulaire de Foucault, Ellipses, Paris 2009, p. 38: «la parole, en tant que subjective, incarne […] une pratique de résistance à l’ “objectivation discursive”». 75 J. Revel, Michel Foucault, un’ontologia dell’attualità, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2003, p. 90. Per il “prendere la parola” e la rivendicazione della propria voce cfr. A. Ogien–S. Laugier, Pourquoi désobéir en démocratie?, Éditions La Découverte, Paris 2010, p. 167: «La désobéissance est l’attitude qui s’impose dès lors qu’il y a dissonance: je ne m’entends plus, dans un discours qui sonne faux, dont chacun de nous peut faire l’expérience quotidienne. Cette question est bien celle de l’expression, de la possession par chacun de sa voix propre». Cfr. J. Butler, Parting ways. Jewishness and the critique of Zionism, Columbia University Press, Columbia 2012 (trad. it. di F. De Leonardis, Strade che divergono. Ebraicità e critica del Sionismo, Raffaello Cortina editore, Milano 2013, p. 247). Il processo della “reinvenzione del sé” attraverso il discorso, in forma orale o scritta, per Butler si attua nel processo narrativo del proprio sé: è nel racconto che si può riconoscere l’impossibilità di dare pienamente conto di se stessi e così capire che la propria vita non può essere pensata senza essere messa in connessione con una rete più ampia di vite. 76 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 54. 77 Ibidem. 73
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Levi aveva definito “demolizione dell’uomo”, il privare l’uomo della sua dignità rendendolo incapace persino di conservare il ricordo di essere un uomo78. Se è vero che «distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo»79, è altrettanto vero che, nel campo detentivo di Guantánamo, quest’obiettivo è stato ed è tuttora perseguito. Possiamo ritrovare nei testi di Primo Levi un insieme di tecniche di disumanizzazione che ben poco si allontanano dal “trattamento umanitario” riservato ai detenuti di Camp Delta. La prima fra tutte si attua prima dell’arrivo effettivo al campo: coincide con il momento della cattura e del viaggio verso Guantánamo Bay, un viaggio che potremmo definire con Primo Levi «verso il nulla, […] all’ingiù, verso il fondo»80, ovvero verso una condizione umana estrema81. Leggiamo nella testimonianza di Muhammad Naim Faruq, catturato in Afghanistan nel 2002: «ci dissero che ci avrebbero trasferito in un luogo che non eravamo tenuti a conoscere. […] Fummo caricati su un aereo. Ero incappucciato e ammanettato dietro la schiena. I ferri erano così serrati che dopo qualche ora i polsi cominciarono a sanguinare. Ricordo che, durante il volo, molti dei miei compagni cominciarono a piangere, come impazziti»82. Il viaggio culmina, come nella testimonianza di Levi, nella consapevolezza di trovarsi in un sistema chiuso ermeticamente al mondo esterno83: i detenuti «rimangono completamente isolati dal mondo, non sanno niente di cosa sta succedendo all’esterno»84. Per il processo di cancellazione del ricordo cfr. C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 57: «Perché se nelle gabbie muore il ricordo delle famiglie, nelle case in cui se ne attende un cenno muore anche il detenuto di cui non si hanno o non si riesce ad avere più notizie». A questo proposito, afferma Feroz Ali Abbasi: «In Guantánamo […] I felt that we were forgotten. No one cares about us. That was the impression they wanted you to have». Cfr. http://library.columbia.edu/locations/ccoh/new_projects/rule_of_law.html. 79 P. Levi, Opere, vol. I, cit., p. 155. 80 Ivi, p. 11. 81 Cfr. ivi, p. 20: «siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile». 82 C. Bonini, Guantanamo, cit., p. 4. 83 Il Lager appare a Levi come un sistema sociale chiuso totalmente al mondo esterno, un mondo «incomprensibile e folle», dotato di un ordine, di leggi proprie che sfuggono alla comprensione umana e di domande che non trovano mai risposta. Ad esempio, si chiede Levi, perché percuotere un uomo senza collera? Perché, spinto dalla sete, egli non può staccare un ghiacciolo per dissetarsi? Nel Lager “Hier ist kein Warum”, ovvero è un luogo in cui non c’è perché: tutto è proibito, ed è questo lo scopo della sua creazione. Cfr. P. Levi, Opere, vol. I, cit., p. 23. 84 M. Falkoff, (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 16. 78
86 Laura De Grazia Nel campo detentivo, la tecnica predominante di degradazione dell’uomo appare ciò che Primo Levi definì come “violenza inutile”, una violenza «volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa a uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo»85. Non è difficile ritrovare una violenza fine a se stessa nei numerosi e reiterati abusi compiuti nei confronti dei detenuti di Guantánamo: costretti a rimanere «in posizioni dolorose, a restare svegli, ad ascoltare musica assordante»86, sottoposti a interrogatori interminabili in condizioni ambientali estreme, «con un fucile puntato contro o avvertiti che, se non avessero parlato, le loro famiglie avrebbero passato dai guai»87. Non da ultimo, è da annoverare fra queste tecniche di demolizione dell’uomo, la mancata possibilità per i detenuti di comunicare con gli altri membri del campo. Racconta Shama Moahamed, ragazzo pakistano di soli vent’anni: «La mia vita lì dentro mi provocava solo disgusto […]. E come per me lo era per tanti miei compagni, accusati pur sapendo di essere innocenti»88. Era finito nel “braccio degli arabi”, con cui non riusciva a scambiare neppure una parola: «Non ci capivamo. Io non parlavo la loro lingua, loro non parlavano la mia. Fu così che cominciai a sprofondare»89. A proposito di questo punto, Primo Levi individuò nell’isolamento linguistico uno dei primi fattori di mortalità del campo di Buna-Monowitz. Nel Lager la mancanza di comunicazione aveva effetti rapidi e devastanti: l’accettazione del non capire era uno dei segni infausti, prima dell’approssimarsi di una indifferenza definitiva, perché «se non trovi nessuno con cui parlare, la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero»90. Ma è proprio nelle condizioni di minaccia estrema che, attraverso la comprensione della vita e della sofferenza dell’altro, sorgono tentativi di “riumanizzare l’umano” e così di riconoscere la nostra comune vulnerabilità, il nostro essere ex-statici, l’«essere noi stessi al di fuori di noi stessi»91. P. Levi, Opere, vol. II, cit., p. 1086. M. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 15. Ricordiamo, a proposito di “violenza inutile” cui sono sottoposti i prigionieri, che un’analisi condotta nel 2008 sui casi dei detenuti ha dimostrato che solo l’8% dei detenuti è stato accusato di essere combattente di al Qaeda. 87 Ibidem. 88 Ivi, p. 56. 89 Ibidem. 90 P. Levi, Opere, vol. II, cit., p. 1062. 91 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 45. Cfr. J. Butler, A chi spetta una buona vita?, cit., pp. 3032. Judith Butler ci ricorda come anche nei campi di concentramento, ovvero in condizio85 86
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Nelle parole dei prigionieri di Guantánamo possiamo ritrovare un arsenale di strumenti per contrastare una politica che stabilisce quale vita dovrà essere protetta, quale sarà meritevole di vivere e quali vite dovranno essere disumanizzate. I contro-discorsi di queste parole incendiarie [fighting words] possono diventare attività critica – un’attività «discontinua, particolare, locale»92 – attraverso il tentativo di apparire in un regime che invalida e rende silenti i saperi assoggettati – i saperi sepolti, «locali della gente […], squalificati»93 – e i discorsi di vite non degne di essere vissute. La loro insurrezione può diventare un punto di inizio per tentare di cambiare i sistemi che occultano voci frammentarie e un «atto critico di resistenza»94 in cui si intrecciano le dimensioni della politica e dell’etica La prima dimensione compare nell’atto stesso di scrittura della poesia: La semplice apparizione di questi componimenti poetici lascia un segno, una traccia indelebile all’interno di un regime normativo e discorsivo che non dà né una cornice né una storia né un nome a questo tipo di vita95. La volontà di testimoniare, quel «bisogno di raccontare»96 che Primo Levi avvertiva in Lager come «un impulso immediato e violento»97, si attuò nel campo detentivo nelle condizioni più avverse. Come ci racconta l’avvocato M. Falkoff, che oltre ad assistere 17 prigionieri del campo detentivo ne ha raccolto i testi poetici, rendendone possibile la diffusione, ai prigionieri durante il primo anno di detenzione non era concesso l’uso di carta e penna. A causa di questa proibizione, scrivevano brevi poesie su tazze di polistirolo recuperate al passaggio del carrello che serviva loro pranzo e cena, attraverso l’ausilio di piccole pietre o di pasta dentifricia, ni di pericolo estremo, sorgono tentativi di reciproco supporto e così di riconoscimento del nostro essere dipendenti l’uno dall’altro. Li ritroviamo, ad esempio, nella testimonianza di Primo Levi e di Charlotte Delbo: in questi racconti, anche soltanto pronunciare il nome dell’altro – altro che non ha più un nome ma soltanto un numero – può costituire la «forma più straordinaria di riconoscimento». 92 M. Foucault, Bisogna difendere, cit., p. 15. 93 Ivi, p. 17. 94 J. Butler, Capacità di sopravvivenza, cit., p. 186. 95 Cfr. J. Revel, Michel Foucault, cit., p. 89: «[…] prendere la parola in un contesto in cui essa è sistematicamente tolta e bloccata rappresenta di per sé un gesto di riappropriazione di una soggettività negata». 96 P. Levi, Opere, vol. I, cit., p. 4 97 Ibidem.
88 Laura De Grazia «poi la poesia scritta su una tazza passava di cella in cella fino a finire nella spazzatura della giornata»98. Solo a distanza di un anno furono autorizzati ad avere carta e penna e, per la prima volta, le poesie non solo superarono la fine di un pasto, ma riuscirono anche a essere pubblicate. Pur non possedendo un quadro esauriente dei componimenti scritti nel campo detentivo – centinaia di essi furono distrutti o confiscati perché ritenuti dal Pentagono un rischio per la sicurezza nazionale –, ci troviamo di fronte a una riattualizzazione degli strumenti del GIP, attraverso il tentativo di ritrovare una «parola soggettiva […] cancellata sia dal discorso penale che dalle pratiche penitenziarie»99. Tuttavia, secondo Judith Revel, il GIP non riuscì a sottrarre le prese di parola dei detenuti dall’oggettivazione carceraria, in quanto l’istituzione penale arrivò ad anticipare le richieste dei prigionieri, togliendo loro «quell’io parlo così difficilmente guadagnato»100. Il GIP riuscì a portare in luce le condizioni delle carceri e dei detenuti ma non raggiunse l’intento, al contempo etico e politico, di creare uno spazio di discorso attraverso cui sperimentare nuove forme di lotta. La nuova enquête-intolerance, promossa da chi come Falkoff, ha raccolto i testi poetici dei detenuti di Guantánamo, ha raggiunto quest’obiettivo? Se pensiamo che il 17 gennaio del 2008 a Roma, nell’ambito della manifestazione Chiudere Guantánamo, ora!, il corteo, i cui partecipanti indossavano una tuta arancione, sfilò fino all’Ambasciata Usa e all’arrivo vennero lette poesie dei detenuti, allora il tentativo di far ascoltare le loro voci e di farle «entrare a far parte del dibattito»101 ha prodotto quella che Butler definirebbe una forma di azione concertata, una resistenza plurale che si attua sia nel tessuto carcerario, attraverso la rivendicazione di una parola soggettiva, non afferrabile dal sistema penale, sia all’esterno del campo detentivo, con il tentativo di evidenziare l’esistenza – a ogni manifestante era assegnato il nome di un detenuto da rappresentare – di «coloro che non sono degni di lutto nello spazio pubblico»102. Attraverso lo Hate speech, atto linguistico ingiurioso, si costituisce il soggetto in termini di subordinazione, ma è proprio da questa posizione M. Falkoff, (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 17. J. Revel, Michel Foucault, cit., p. 90. 100 Ibidem. 101 Ibidem. 102 J. Butler, A chi spetta, cit., p. 60. 98 99
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di subalternità che si può attuare una «catena […] di risignificazione il cui inizio e la cui fine rimangono indeterminati e indeterminabili»103 e così acquisire esistenza sociale. Le parole di chi occupa il termine ingiurioso di ememy combatant reinterpretano in modo radicale il significato attribuito ai termini “libertà” e “pace”, come ritroviamo nella poesia scritta da Shaker Abdurraheem Aamer, cittadino saudita e detenuto a Guantánamo Bay dall’inizio del 2002: Pace, dicono […] che genere di pace? […] Loro parlano, loro discutono, loro uccidono – Loro combattono per la pace104.
Un altro duro commento politico e di denuncia del “trattamento umanitario” cui sono sottoposti i detenuti, è possibile rintracciarlo nel componimento poetico di Adnan Farhan Abdul Latif, cittadino yemenita di 27 anni, che ha dedicato una poesia allo sciopero della fame intrapreso insieme a un gruppo di prigionieri: […] Sono criminali e dicono di amare la pace. Sono criminali e torturano chi fa lo sciopero della fame. […] Sono artisti della tortura, […] dell’insulto e dell’umiliazione105.
J. Butler, Excitable speech. A politics of performative, Routledge, Oxford, 1997 (trad. it. di S. Adamo, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 20). Cfr. I. Hacking, Historical ontology, Harvard University Press, Cambridge 2002 (trad. it. di P. Savoia, Ontologia storica, Edizioni ETS, Pisa 2010, p. 115). Nel saggio Hacking descrive due vettori attraverso i quali “formare le persone” [making up people]: uno è il vettore dell’atto di “etichettare” dall’alto: si tratta di una comunità di esperti che crea una categoria attraverso la quale formare le persone, l’altro è il vettore dal basso, il vettore del «comportamento autonomo della persona etichettata, che crea una propria realtà». Il vettore dal basso problematizza le categorie attribuite dall’alto, creando nuove linee di congiunzione e interferendo con l’alto attraverso la “risignificazione” della categoria attribuita. Per il processo di “risignificazione” cfr. J. Butler, Bodies that matter: On the Discursive Limits of “Sex”, Routledge, Oxford 1993 (trad. it. di S. Capelli, Corpi che contano: i limiti discorsivi del “Sesso”, Feltrinelli, Milano 1996). 104 M. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 56. 105 Ivi, p. 66. 103
90 Laura De Grazia La dimensione etica traspare nell’appello a un “noi”: i componimenti poetici dei prigionieri di Guantánamo Bay si inquadrano nel preciso tentativo di sfidare l’isolamento carcerario, dando vita a un vocabolario comune attraverso la «descrizione della detenzione (habs), le gabbie, le catene e le lacrime»106. Le loro poesie sono attraversate dalle parole di altri corpi torturati e tessute da una rete intersoggettiva di cui fa parte chi scrive, come ritroviamo nella poesia Prigioniero della dignità di Abdulla Majid al Noaimi, in cui l’autore afferma che l’atto di incisione del suo componimento è accompagnato dalle «lacrime del desiderio di qualcun altro»107. Vale la pena di ricordare come anche Primo Levi abbia utilizzato la poesia con questa precisa funzione “strategica” attraverso il tentativo di ricordare, nel Lager di Buna-Monowitz, il Canto di Ulisse: «è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera»108, commenta Levi quando riesce faticosamente a ricordare i versi danteschi. Le poesie-appello non si rivolgono soltanto agli altri prigionieri: invocano l’intervento di un “noi” cui tutti apparteniamo, richiedono il nostro coinvolgimento in vite che non ci appartengono, che non conosciamo, ma alle quali siamo indissolubilmente legati. Le loro parole richiamano un’interdipendenza che distrugge il confine fra vite considerate degne di essere compiante e vite che non lo sono, dimostrando come la separazione fra me e l’altro non è mai una barriera, ma piuttosto una funzione della relazione stessa. Vivere una “buona vita” significa allora non soltanto rivendicare «una vita più vivibile»109 attraverso il rifiuto di una distribuzione differenziale di precarietà, ma consiste anche nella creazione di una «nuova forma di vita»110, processo che può avere inizio attraverso la nostra risposta all’appello dell’altro, alla sua richiesta di un nostro intervento etico111. Questa pratica di interpellazione ci esorta a essere strappati dal nostro sé, spossesM. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 26. Ivi, p. 74. 108 P. Levi, Opere, vol. I, cit., p. 116. 109 J. Butler, A chi spetta, cit., p. 60. 110 Ibidem. 111 Cfr. A.I. Davidson (a cura di), La vacanza morale del fascismo. Intorno a Primo Levi, Edizioni ETS, Pisa 2009. Davidson sottolinea come Primo Levi richieda un intervento etico al lettore attraverso la sua richiesta di giudicare se questo è un uomo, ovvero di giudicare se può essere ancora uomo chi ha vissuto ciò che Primo Levi racconta. 106 107
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sati, disidentificati, dando avvio a un processo di soggettivazione112 che si può attuare attraverso il distaccarsi [se déprendre] da noi stessi113: […] io divento questo sé solo attraverso un movimento e-statico, che mi sposta fuori da me, in una sfera in cui sono espropriata di me stessa e contemporaneamente costituita come soggetto114.
Possiamo diventare soggetti115 forgiando delle linee diagonali nel nostro tessuto sociale, attraverso un’attività creatrice che provocherebbe, moltiplicandoli, «dei segni di esistenza [signes d’existence]»116. Osservazioni conclusive Le riflessioni butleriane su una soggettività “opaca”, fondata su un’incapacità di dare pienamente conto di se stessi senza il riconoscimento dell’altro, conducono alla posizione di un’etica della non violenza117. Ma come può la decisione di abbracciare un’etica che sfocia in un pacifismo radicale conciliarsi con il tentativo di creare nuove forme di lotta, Cfr. J. Revel, Le vocabulaire de Foucault, cit., p. 98. Cfr. J. Revel, Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche, in M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 134-135, p. 145: «laddove la vita è in preda alle procedure di gestione e di controllo […], essa può nonostante tutto affermare ciò che mai un potere riuscirà a possedere: una propria potenza di creazione». 114 J. Butler, Giving an account of oneself, Fordham University Press, New York 2005 (trad. it. di F. Rahola, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 153). 115 Cfr. M. Foucault, Michel Foucault, une interview: sexe, pouvoir et la politique de l’identité, in Dits et écrits II, cit., p. 1555 : «Nous devons non seulement nous défendre, mais aussi nous affirmer, et nous affirmer non seulement en tant qu’identité, mais en tant que force créatrice». 116 M. Foucault, Le philosophe masqué, in Dits et écrits II, cit., p. 925 (trad. it. di S. Loriga, Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault III, 1978-1985, Interventi, colloqui, interviste, Feltrinelli, Milano 1998, p. 140). 117 Cfr. L. Bernini, L’estasi dell’alterità. La teoria del riconoscimento di Judith Butler, cit., pp. 45-46. Il testo porta in luce i punti problematici della possibilità di “diventare” umani attraverso il riconoscimento della vulnerabilità dell’altro: quale prescrizione morale vieta di scegliere la violenza sfruttando la “fragilità” dell’altro? L’autore suggerisce che una possibile soluzione a questa “aporia” potrebbe essere ritrovata nel porre il «dovere morale della giustizia» come condizione normativa del «dovere del riconoscimento». Tuttavia, Bernini sottolinea che Butler, il cui pensiero «resta fedele al metodo della genealogia foucaultiana», rimane estranea alle riflessioni ontologiche sulla soggettività. 112 113
92 Laura De Grazia attraverso cui «la subjectivité s’introduit dans l’histoire et lui donne son souffle»118? In altri termini, come può un’etica della non violenza armonizzarsi con la rivendicazione di una politica che si oppone alla distribuzione di precarietà? Rispondere all’appello dell’altro – «dov’è il mondo per salvarci dalla tortura?»119–, implica una critica radicale del potere che crea la suddivisione binaria fra vite degne di essere vissute e vite indegne di lutto: solo questa strategia di lotta può dare avvio alla messa in discussione delle tecnologie storiche che hanno costruito il sé120 e alla sperimentazione di altre forme di soggettività. Le dimensioni della politica – pratiche sociali il cui obiettivo è contestare la violenza dello stato-nazione – e dell’etica, fondata sul riconoscimento di una comune vulnerabilità, non sembrano coincidere. La questione è stata affrontata anche in L’immaginario nazionale imposto a viva forza. Sovranità, confini, vulnerabilità, intervista di Ida Dominijanni a Judith Butler, in cui la filosofa, alla domanda posta da Dominijanni – come può un’etica dell’interdipendenza attuarsi in pratiche sociali capaci di disturbare il campo del politico –, risponde che la decisione di mettere in atto la violenza continua a rimanere etica: Mi sembra che qualunque decisione di mettere in atto la violenza, o di rifiutarla, abbia una dimensione etica, in quanto attiene alla condotta e al modo in cui giustifichiamo la relazione – qualunque relazione – che stabiliamo con la violenza121.
La questione continua a rimanere aperta e problematica perché decidere di scegliere la violenza implica la negazione della vulnerabilità dell’altro – altro che può essere anche il nostro oppressore – e così condurci al rifiuto dell’interdipendenza, presupposto fondamentale dell’etica. Se «il modo in cui rispondiamo a un’offesa può offrirci la possibilità di divenM. Foucault, Inutile de se soulever?, in Dits et écrits II, cit., p. 793. M. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 66. 120 Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Edizioni Cronopio, Napoli 2012, p. 92: «Forse il nostro problema, oggi, è scoprire che il sé non è nient’altro che il correlato storico [delle tecnologie] che abbiamo costruito nella nostra storia. Forse il problema, oggi, è cambiare queste tecnologie, [o sbarazzarcene, sbarazzandoci così del sacrificio ad esse connesso]». 121 Per il testo completo dell’intervista cfr. L’immaginario nazionale imposto a viva forza. Sovranità, confini, vulnerabilità , comparsa su Il manifesto il 25 marzo del 2008. 118 119
Gli atti insurrezionali discorsivi dei prigionieri di Guantánamo 93
tare umani»122, compiere un’offesa nei confronti nel nostro aggressore non implica il divenire “inumani”? Forse bisognerebbe aggiungere che costituire noi stessi come soggetti morali attraverso la scelta di abbracciare un’etica della non violenza, implica una conflittualità con la decisione di attuare le pratiche di lotta di un dato orizzonte sociale e che è proprio quest’ambivalenza fra «la spinta alla rivendicazione»123 – scegliere di rispondere a un’ “offesa” – «e la capacità di resisterle»124, a determinare il nostro “divenire umani”. Laura De Grazia Università di Pisa degrazia.laura@yahoo.it
. The Insurrectionary Discourses of Guantánamo’s Prisoners: the Claim of Vulnerability’s Politic The paper focuses on the question raised by Judith Butler when she was awarded the Adorno Prize 2012: can one lead a good life in a bad life? Through this interrogative, the article examines the contemporary mechanisms of powers that produce the scission between grievable or ungrievable lives and the possibility to realize a vulnerability’s politics. Specifically, the paper focuses on the ungrievable lives of Guantánamo Bay’s prisoners, analyzing the dehumanization techniques inflicted on enemy combatant – status that escapes the field of national and international laws – and the insurrectionary discourses of the prisoners. Theirs poems are examined through the Foucauldian framework of contre-discours, a discursive act whereby interweave the dimension of politics – the radical critique to the violence of the nation-state – and ethics, through the appeal of a common precariousness. In the last point, the paper analyzes the Butler’s ethics of non-violence in order to examine how ethics of radical pacifism can be combined with social practices that are able to disturb the politic field. Keywords: Butler, Vulnerability, Guantánamo Bay, Enemy combatant, Foucault, Contre-discours, Ethics of non-violence. J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 137. Ivi, p. 139. 124 Ibidem. 122 123
Alterità della vita e alterazione del mondo
Ritorno sulla figura del cinico in Foucault e la performance drag in Butler Céline Van Caillie
C’è un cinismo che fa corpo con la storia del pensiero, dell’esistenza e della soggettività occidentali1.
Con questa frase, Michel Foucault conclude la prima ora del suo corso
del 29 Febbraio 1984 al Collège de France, in cui introduce il cinismo nella problematica più ampia della cura di sé. Dato che Foucault, durante la seconda ora del corso, identifica tre elementi che permettono di stabilire una trans-storicità del cinismo come stile di esistenza – l’ascetismo cristiano, la militanza rivoluzionaria e l’arte moderna – questa affermazione non potrebbe essere intesa come un invito a riflettere sulle pratiche che, nella nostra attualità storica, costituiscono una sorta di riattivazione singolare del cinismo? Qual è il modo di soggettivazione che il cinismo inaugura nella storia della soggettività occidentale? È possibile identificare, oggi, in altre pratiche, una modalità del rapporto a sé di questo tipo? Nell’ultimo capitolo di Questione di genere2, Judith Butler si interroga sulla possibilità di cogliere l’atto corporeo del genere come una «stilistica dell’esistenza» e sulla pertinenza di una concezione del genere come «uno stile corporeo, un “atto”, per così dire, che è intenzionale e performativo, laddove il termine “performativo” indica una costruzione spettacolare e contingente del significato»3. Un’interrogazione, questa, che giunge dopo la sua riflessione sulla performance drag come ripetizione parodica delle norme di genere, capace di rivelare il loro carattere performativo – il genere come effetto di una ripetizione stilizzata e obbligata. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, Seuil/Gallimard, Paris 2009, p. 161; trad. it. di M. Galzigna, Il coraggio della verità. Corso al Collège de France 1984, a cura di F. Ewald, A. Fontana e F. Gros, Feltrinelli, Milano 2011, p. 172. 2 J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York and London 1990; trad. it. di S. Adamo, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013. 3 Ivi, p. 139; trad. it. cit., p. 197. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 95-114.
96 Céline Van Caillie Questo articolo si propone di riflettere sull’accostamento di queste due affermazioni e di mettere così in prospettiva le pagine foucaultiane sul cinismo e le analisi butleriane del travestimento. A partire da questo accostamento, ci auspichiamo di poter far emergere una linea di convergenza critica tra il lavoro etico del cinico e la performance drag. Tuttavia, anche se Foucault identifica tre indizi della trans-storicità cinica come modo di esistenza, ha senso parlare del travestimento come di una riattualizzazione della pratica cinica? Possiamo pensare la performance drag come una forma di esistenza o di soggettivazione che costituirebbe una sorta di continuazione dello schema cinico? Quando Foucault evoca l’ascetismo cristiano, la militanza rivoluzionaria e l’arte moderna come tre diversi fattori di trasmissione del modo di esistenza cinico nella storia europea, il cinismo appare come un rapporto polemico a ciò che è istituito. L’ascetismo cristiano è, infatti, definito da Foucault come pratica di «spoliazione della vita, come maniera di costituire, nel corpo stesso, il teatro visibile della verità»4 che resiste, all’interno stesso del cristianesimo e della chiesa, al suo arricchimento, alla rilassatezza dei costumi, a certe forme di istituzioni. La militanza rivoluzionaria, invece, è descritta come una forma di esistenza che «si manifesta nella testimonianza di vita, è in rottura, deve essere in rottura con le convenzioni, le abitudini, i valori della società»5; è una forma di vita dissonante, che si espone pubblicamente per introdurre una crepa nelle forme di vite istituite, per affermare la possibilità e la necessità di una trasformazione di ciò che è istituito, così rimesso in gioco. Infine, l’arte moderna afferma due cose: la necessità di una vita artistica, «diversa da tutte le altre»6, da una parte e, dall’altra parte, quella di un’arte che non è più in un rapporto di rappresentazione, di «ornamento» o di «imitazione» nei confronti del reale, ma consiste in una «ripulitura [décapage]», in una «riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza»7. L’arte moderna introduce un’alterità sociale grazie «all’irruzione di ciò che è inferiore, basso, di ciò che, in una cultura, non ha diritto o almeno la possibilità di esprimersi»8 – gesto che produce, secondo M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 168-169; trad. it. cit., p. 179. Ivi, p. 170; trad. it. cit., p. 181. 6 Ivi, p. 173; trad. it. cit., p. 184. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 4 5
Alterità della vita e alterazione del mondo 97
i termini impiegati da Foucault, un «rapporto polemico»9 con l’arte, con le norme artistiche e, più in generale, con la società. L’atteggiamento cinico che attraversa la storia appare quindi innanzitutto come ciò che è capace di infrangere il consenso sociale, ciò che introduce una differenza che non può lasciare intatto l’ordine delle cose. Il cinismo produce una rottura all’interno di un campo istituito. Ma di che tipo di rottura si tratta e che forma di soggettivazione o di rapporto a sé suppone? Il travestimento può significare il tipo di crepa provocato dal cinismo? La performance drag può essere accostata al modo di soggettivazione cinico, visto che quest’ultimo si caratterizza per un rapporto a sé ascetico, per l’austerità e la spoliazione, mentre la prima si produce nella prodigalità, se non l’eccesso, dei segni del genere? Infine, l’accostamento tra i due è in grado di farci percepire la possibilità e il tipo di resistenza immanente a un ordine dato? Il cinico come materializzazione visibile e risibile della verità Lo studio foucaultiano dei cinici si radica in una riflessione più ampia sulla cura di sé, già iniziata ne L’ermeneutica del soggetto10, in cui Foucault definisce la cura di sé come: un modo d’essere, un atteggiamento, delle forme di riflessione, delle pratiche che ne fanno una sorta di fenomeno estremamente importante non solo nella storia delle rappresentazioni, non semplicemente nella storia delle nozioni o delle teorie, ma anche nella stessa storia della soggettività11.
I corsi sui cinici si situano quindi al cuore della riflessione foucaultiana sulle «arti dell’esistenza», sul modo in cui gli individui si rapportano a se stessi, si decifrano, si riconoscono e si costituiscono come soggetti. Riflessioni sulle tecniche di sé che permetteranno a Foucault di operare il passaggio dal governo degli altri al governo di sé, da una parte e, dall’altra, Ivi, p. 174; trad. it. cit., p. 185. M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Seuil/ Gallimard, Paris 2001; trad. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982, a cura di F. Ewald, A. Fontana, F. Gros, Feltrinelli, Milano 2003. 11 Ivi, p. 13; trad. it. cit., p. 13. 9
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98 Céline Van Caillie di prendere la misura di quella che potrebbe essere l’elaborazione di un nuovo rapporto a sé che non sia solo dell’ordine dell’assoggettamento, ma prenda la forma di una padronanza di sé. Nel suo corso del 1984, Foucault definisce il cinismo come una forma di cura di sé che stabilisce un nodo stretto tra arte dell’esistenza e esigenza del dire il vero12 e che si gioca nella costituzione di un modo di vita estremamente stereotipato13, che si dà il compito di manifestare la verità nella forma stessa data alla vita. La verità cinica si dice proprio nella forma stessa data alla propria vita. La verità cinica si dice nella forma stessa data all’esistenza, si espone nel corpo concreto del cinico: il cinico fa dunque della materialità della vita il luogo della verità. Grazie alla forma visibile data alla vita, al corpo, all’aspetto, alla condotta, il cinico è l’uomo della parrhesia. Per Foucault, il cinico è il «testimone vivente della verità»14, fa della vita «un’aleturgia, una manifestazione della verità»15 e produce così la verità nella concretezza della sua esistenza. Ora, questa manifestazione della verità nella materialità del corpo vivente ha di particolare il fatto di produrre una verità che prende la forma di un’« intollerabile insolenza»16 e di uno scandalo. Se il corpo del cinico produce una verità resa visibile nella materia stessa della vita, questa verità è anche resa «risibile»17, insopportabile e rivoltante. L’ascesi cinica come presenza immediata della verità nella visibilità del corpo assume un valore ambiguo, sottolineato dall’atteggiamento della filosofia antica nei suoi confronti. Il cinismo è infatti per quest’ultima al tempo stesso l’essenziale della vita filosofica come vera vita e un insieme di pratiche sconfessate. Il cinismo è affermato simultaneamente come pratica elementare al cuore della filosofia e come rottura con essa. Il cinico è relegato alla periferia della filosofia tradizionale e della società – è situato alla frontiera delle istituzioni, delle leggi, delle norme e della filosofia – ed è al tempo stesso designato come il suo universale. Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 153; trad. it. cit., p. 164. «Il cinico è l’uomo con il bastone, con la bisaccia, con il mantello, l’uomo con la barba lunga, l’uomo sporco. E anche l’uomo errante, privo di ogni legame, che non ha né casa, né famiglia, né focolare, né patria […]. ed è anche l’uomo che vive di accattonaggio». Ivi, p. 157; trad. it. cit., p. 168. 14 Ivi, p. 160; trad. it. cit., p. 171. 15 Ivi, p. 159; trad. it. cit., p. 170. 16 Ivi, p. 153; trad. it. cit., p. 163. 17 «Il corpo stesso della verità è reso visibile, e risibile, attraverso un certo stile di vita». Ivi, p. 160; trad. it. cit., p. 171 [sottolineatura nostra]. 12
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Alterità della vita e alterazione del mondo 99 Come vedete, vi è qui un paradosso molto curioso. Da una parte, infatti, abbiamo visto che il cinismo è descritto come una forma molto particolare di esistenza, al margine delle istituzioni, delle leggi, dei gruppi sociali riconosciuti: il cinico vive davvero ai margini della società e gravita attorno a essa, senza che si possa accettare di accoglierlo. Il cinico viene scacciato, il cinico è errante. Dall’altra parte, il cinico appare al tempo stesso come il fulcro universale della filosofia. Il cinismo è nel cuore della filosofia mentre il cinico ruota attorno alla società senza esservi ammesso. Paradosso interessante18.
Paradosso della filosofia antica che riconosce il cinismo come vera essenza della filosofia, da una parte, e che l’esclude come pratica impropria e inaccettabile, dall’altra. Il cinico appare quindi nel punto più vicino della filosofia antica e ai suoi limiti. C’è quindi un’ambivalenza della condizione cinica, che incarna così una posizione di identità e di alterità nei confronti della filosofia. Ambivalenza, simultaneità delle posizioni, concomitanza dell’inaccettabile e dell’identificazione, giustapposizione della centralità e della marginalità, che ci appaiono come essenziali nella riflessione sul modo di soggettivazione cinica e sulla sua definizione. Il cinico è colui che assume questa posizione prodotta dalla “e” che lega la banalità e lo scandalo; costituisce quel punto di congiunzione tra due opposte polarità: l’inclusione e l’esclusione. La soggettività cinica è quella che si elabora nella e contro la soggettivazione filosofica tradizionale: essa è al tempo stesso familiare ed estranea. Parakharattein: l’alter(izz)azione del cinico Questa simultaneità di posizioni è prodotta nel gesto con cui il cinico (re)investe i luoghi comuni della filosofia antica, in modo da renderli spregevoli per quest’ultima. L’ambivalenza nasce dal fatto che il tema tradizionale della vita filosofica come vera vita sia ricondotto quanto più possibile al suo significato tradizionale e che, così facendo, sia però anche allontanato al massimo dal senso comune. Come incarnazione dell’ambivalenza tra vicino e lontano, il cinico appare come una distanza scavata all’interno della filosofia antica; egli produce la rottura proprio nella messa in opera dei princìpi che definiscono la vera vita – vita non dissimulata, senza mesco18
Ivi, p. 187; trad. it. cit., p. 197.
100 Céline Van Caillie lanze, diritta e incorruttibile. Questa crepa introdotta dal cinico nel campo della filosofia emerge perché egli fa giocare, rispetto alla banalità del tema della vera vita, un altro principio, quello del parakharattein to nomisma: falsificare o alterare il valore della moneta19. È proprio perché il cinico mette in opera il tema della vera vita annettendolo a questo secondo principio, che la vera vita, nella sua banalità, diventa scandalo e che la soggettività cinica appare al tempo stesso dentro e fuori il campo filosofico. Foucault ci indica allora due cose rispetto a questo principio: innanzitutto, l’accostamento tra nomisma, la moneta, e nomos, il costume, la regola, la legge. Poi, il fatto che il senso dato a questa alterazione possa assumere due valori: uno peggiorativo, che è quello della svalutazione della moneta, l’altro positivo, che consiste nel restituire alla moneta il suo vero valore, e in cui il cinismo troverebbe la propria ragione: Parakharattein (cambiare, alterare) non significa svalutare la moneta. In certi casi si può affermare che “alterare la moneta” voglia dire – e sarebbe questo il significato pregnante dell’espressione – farle perdere il suo valore, ma qui il verbo significa essenzialmente e soprattutto: a partire da una moneta che porta una certa effige, cancellare questa effigie e sostituirla con un’altra più rappresentativa, che permetterà a questo conio di circolare con il suo vero valore20.
Volendo prendere sul serio l’accostamento tra nomisma e nomos, da una parte appare che quel che il cinico deve alterare sono i costumi, le convenzioni e le regole secondo cui gli uomini agiscono, e che vertono sulle istituzioni sociali; dall’altra, che questa alterazione non può avere la forma di un semplice discredito gettato sulle norme ma, al contrario, deve associarsi ad un lavoro più fine e complesso – indicato dal secondo senso di parakharattein – e che consiste nell’imprimere alle norme una forma che permetterà alla vera vita di circolare col suo vero valore. Questa azione sulle norme consiste quindi in una loro ripresa – ripresa che, tuttavia, ha la particolarità di non ricondurre le norme alle loro forme istituite, ma di imprimer loro un profilo nuovo, di modificarne l’aspetto nel corso della loro messa in opera, fino a far vedere la vera vita come vita altra. 19 20
Cfr. ivi, p. 209; trad. it. cit., p. 220. Ibidem.
Alterità della vita e alterazione del mondo 101
Lo scandalo nasce quindi dal fatto che questa alterazione della vera vita si produce nella continuità della sua concretizzazione. Continuità paradossale, dis-continuità, dato che il cinismo riconduce la vera vita sfigurandola: la riprende per ri-figurarla con tratti nuovi. Continuità che indica tuttavia che l’alterazione delle norme non si fa in un rapporto eterogeneo ad esse, ma con un antagonismo introdotto nella riconduzione delle norme stesse: Invece di vedere nel cinismo una filosofia di rottura – in quanto filosofia popolare, in quanto filosofia priva del consenso e del diritto di cittadinanza nella comunità filosofica colta –, bisognerebbe vederlo come una sorta di passaggio al limite, una sorta di estrapolazione piuttosto che come un’esteriorità. Un’estrapolazione dei temi della vera vita e un loro rovesciamento in una figura che sembra conforme al modello, ma che al tempo stesso si presenta come smorfia della vera vita. Si tratta di molto di più di una sorta di prolungamento carnevalesco del tema della vera vita che di una rottura dei valori che a essa vengono attribuiti dalla filosofia classica21.
«Estrapolazione», «rovesciamento», «smorfia carnevalesca» più che «rottura». Il gioco cinico verso le norme non è, in definitiva, un rapporto di esteriorità, ma è una relazione interna alle norme. «Estrapolazione»: il cinismo è uno sforzo per prolungare le norme della vera vita fino a condurle aldilà dei limiti del campo in cui esse si radicano e a partire dal quale la pratica cinica può tuttavia attualizzarsi. Il cinico si porta aldilà, ma non al di fuori. Il «rovesciamento» che egli produce è uno smantellamento della norma nel suo stesso esercizio. La rottura cinica evocata nell’abbozzo della sua trans-storicità può quindi avere solo il senso di un rapporto interno di destabilizzazione che produce al tempo stesso una figura conforme e un’immagine deformata della vera vita. Il cinismo introduce «un’estraneità nella pratica filosofica»22, manifesta un’alterità immanente alla filosofia. Il cinico appare allora come una soggettività che si gioca nell’alter(izz) azione: se è designato come altro, è perché egli rende altra la vera vita. Egli produce la vera vita come vita altra e per questa ragione è designato come l’altro della filosofia e messo ai limiti della società antica. Alter(izz) azione che rende conto dello scandalo cinico e che traduce sia l’ambiguità 21 22
Ivi, pp. 209-210; trad. it. cit., pp. 220-221. Ivi, p. 214; trad. it. cit., p. 224 [sottolineatura nostra].
102 Céline Van Caillie che caratterizza il posto dato al cinico – il paradosso della sua ricezione e dei significati che gli sono associati – e l’ambivalenza che caratterizza la sua soggettività: Il coraggio cinico della verità consiste in questo: riuscire a far sì che gli uomini condannino, respingano, disprezzino, insultino la manifestazione stessa di ciò che essi ammettono, o pretendono di ammettere, sul terreno dei princìpi. Si tratta di affrontare la loro collera dando loro l’immagine di ciò che ammettono e al tempo stesso valorizzano sul terreno del pensiero, ma rigettano e disprezzano nell’ambito della loro stessa vita. È questo lo scandalo cinico23.
Lo scandalo nasce da un’alterità immanente e però inammissibile, alterità che nasce da una pratica di falsificazione-rivalutazione che rende estraneo quel che ci è più familiare e conduce ad alterizzare quel che ci è più vicino. L’atteggiamento cinico è quello che unisce in uno stesso gesto quel che è più riconosciuto e quel che è più sconfessato. L’alterazione cinica delle norme consiste nell’incarnare insieme il vicino e il lontano, portando il più vicino nel punto più lontano. Il cinismo come drammatizzazione della vera vita Secondo Foucault, questa distanza introdotta al cuore della filosofia, in seno alla sua pratica, è prodotta grazie a una «drammatizzazione»24 dei princìpi della vera vita. Drammatizzazione che va intesa sia come teatralizzazione, sia come amplificazione o esagerazione dei princìpi della vera vita, messa in scena concreta e radicale. Drammatizzazione che produce quindi, nel corpo del cinico, la già sottolineata materializzazione della verità. Il cinico si sforza di applicare strettamente i princìpi della vera vita alla sua stessa vita. La pratica cinica è iperbole della vita non dissimulata: si tratta di porsi effettivamente ed integralmente sotto lo sguardo degli altri – la vita non dissimulata diventa vita assolutamente visibile. È attualizzazione concreta della vita senza mescolanza: pratica effettiva e attiva della povertà – la vita indipendente diventa vita mendicante. Radicalizza il principio di una vita assolutamente conforme al logos ricondotto alla natura – la vita diritta 23 24
Ivi, pp. 215-216; trad. it. cit., pp. 225-226. Ivi, p. 233; trad. it. cit., p. 243.
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assume la forma dell’animalità. Appare come il punto di rovesciamento in cui la vita da cane si afferma come vita assolutamente sovrana e padrona di sé, vera regalità che denuncia l’illusione della monarchia istituita – la vita sovrana diventa «posizione del cinico come re anti-re»25. Si vede quindi che è questa drammatizzazione – mostrare in modo radicale e mettere in pratica assolutamente e concretamente – a produrre il rovesciamento degli effetti attesi dall’uso dei princìpi della vera vita. Mentre la vita non dissimulata riaffermava la norma sociale del pudore, ora essa diviene vita priva di vergogna che rifiuta ogni pudore. La vita indipendente, praticata come esercizio spirituale di distacco virtuale nei confronti dei beni e delle persone, è ora praticata materialmente in forma di povertà, come esercizio permanente di sé su sé e assume quindi la forma della mendicità e di una vita assolutamente debitrice. Per quanto riguarda, invece, la vita diritta, se essa ammetteva certe norme sociali come cornice per la vera vita, la vita che si conforma solo alla natura produce l’animalità come modello e come imperativo che rifiuta ogni convenzione sociale. Infine, la monarchia: se essa è direttamente dipendente da un insieme di elementi che le sono estranei (esercito, diritto di nascita, educazione, fortune) e si esercita con la vittoria sui nemici esterni, essa si mostra vana di fronte alla sovranità cinica, che ha la forma di una vita di lotta perpetua contro i propri vizi e i nemici interni, per la padronanza di sé; essa è vita assolutamente miserabile e infame che però, proprio per questo, è assolutamente indipendente e legata solo a se stessa. Infine, questa drammatizzazione implica anche un certo rapporto di provocazione verso la filosofia e la società antica. Questa provocazione può infatti essere intesa sia come rapporto aggressivo che colpisce le istituzioni nella loro forma stabilita, sia come rapporto di sollecitazione, come sfida lanciata alla società, come incitazione al cambiamento. Drammatizzando la vera vita, producendola come vita visibilmente altra e ponendo l’alterazione di sé sotto lo sguardo di tutti, il cinico suscita anche l’alterazione delle altre vite. Messa in presenza della vera vita come vita pubblicamente altra, la vita ordinaria appare «precisamente come vita altra rispetto a quella vera»26. La vera vita, nella sua forma più comunemente ammessa, diviene estranea alla vera vita quale si manifesta nel cinismo: il filosofo antico non può riconoscere la forma della vera vita nel cinismo ma, a causa 25 26
Ivi, p. 252; trad. it. cit., pp. 262-263. Ivi, p. 288; trad. it. cit., p. 298.
104 Céline Van Caillie dell’alterità introdotta dal cinismo al cuore stesso di questo tema, non può nemmeno riconoscersi nella sua banalità tradizionale: Vedete così che il cinico, riprendendo i temi tradizionali della vera vita nella filosofia antica, traspone questi temi, li rovescia, rivendicando e affermando la necessità di una vita altra. E poi, attraverso l’immagine e la figura del re di miseria, egli traspone di nuovo questa idea della vita altra nel tema di una vita la cui alterità deve produrre il cambiamento del mondo. Una vita altra per un mondo altro27.
È quindi chiaro che drammatizzazione e alter(izz)azione sono strettamente legate: la «pubblicità» della vera vita come vita altra produce un’alterazione all’interno del campo filosofico. È la manifestazione dell’estraneità cinica sulla piazza pubblica a rendere la filosofia estranea a se stessa. La materializzazione della verità come alterità, per il tramite di questa drammatizzazione, assume quindi il senso di un’«esposizione», esposizione per cui occorre affermare un terzo significato, dopo Foucault. Per Foucault, infatti l’esposizione è la manifestazione visibile e il rischio corso in questa aleturgia della verità: «si “espone” la propria vita», scrive, «la si mostra e la si rischia»28. Esposizione visibile della verità come alterità nella forma di vita ed esposizione all’alterazione e alla disapprovazione sociale di colui che si rende altro. Possiamo però anche rovesciare il senso dell’esposizione e aggiungere che essa è anche esposizione della società al lavoro dell’alterità. Se il cinico si espone, manifesta e rischia la propria vita nell’alterità, egli espone anche la filosofia al rischio dell’alterazione. Alterazione di sé, alterazione delle norme, grazie a una pratica di estrapolazione che assume il rischio dell’alterizzazione, messa in scena pubblica e coraggiosa della propria esistenza che rovescia le norme nella loro ripresa deformante – questa è la modalità con cui la soggettività cinica si istituisce. La soggettivazione cinica si gioca quindi in una drammatizzazione delle norme che la istituiscono in quanto soggettività filosofica che mette in opera i princìpi della vera vita. Drammatizzazione che significa sia elaborazione radicale ed effettiva di questi princìpi – una pratica materiale e concreta nell’esistenza e nel corpo del cinico –, sia una messa in scena 27 28
Ivi, p. 264; trad. it. cit., p. 274. Ivi, p. 216; trad. it. cit., p. 226.
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pubblica – una provocazione offerta allo sguardo di tutti –, che producono un rovesciamento. La soggettività cinica è quindi questa istanza che turba lo spazio pubblico con la manifestazione visibile della sua differenza, che si gioca nella prossimità lontana di una strana familiarità. Cosa ne è, quindi, di chi compie una performance drag? È possibile caratterizzare la performance drag come una forma di soggettivazione che drammatizza le norme di genere? La soggettività drag può essere pensata come manifestazione pubblica di una familiare estraneità? Un accostamento di questo genere non corre forse il rischio di ridurre la drammatizzazione alla teatralizzazione e di limitare l’atteggiamento cinico a una performance, a una pratica estetica effimera che intrattiene un rapporto a sé indipendente dal campo sociale in cui si iscrive? O è invece possibile affermare che la performance drag ha delle poste in gioco che, aldilà delle teatralizzazione e del rapporto estetico a sé, darebbero senso all’accostamento qui proposto? Il rovesciamento parodico delle norme di genere In Corpi che contano29, Butler caratterizza la performance drag come un’«appropriazione parodica della conformità»30. La performance drag è analizzata come un’imitazione dissonante che mette in questione l’autorità e la legittimità della legge del genere, ripetendola in modo «iperbolico». La performance drag appare d’un tratto, a partire da Questione di genere, come una messa in scena che ha, con le norme di genere, un rapporto di ripetizione o di mimo e che produce una rielaborazione e una risignificazione dei termini che definiscono le identità di genere. Nella sua analisi di Mother Camp31, di E. Newton, Butler nota che questa destabilizzazione dei significati di genere prodotta dal drag è duplice. Da un lato, la performance drag «fa il verso al modello espressivo del genere»32. La messa in scena delle norme di genere rompe lo schema J. Butler, Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of “Sex”, Routledge, LondonNew York 1993; trad. it. di S. Capelli, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, Feltrinelli, Milano 1996. 30 Ivi, p. 122; trad. it. cit., p. 112. 31 E. Newton, Mother Camp. Female Impersonators in America, University of Chicago Press, Chicago 1972. 32 J. Butler, Gender Trouble, cit., p. 137; trad. it. cit., p. 194. 29
106 Céline Van Caillie secondo il quale il genere sarebbe l’esteriorizzazione, o la presentazione sociale di una verità interiore, psichica o biologica. Nella performance drag descritta da E. Newton si esprimerebbero due enunciati contraddittori33: l’uno affermerebbe che sotto l’apparenza femminile della performance il soggetto che si esprime è un uomo – un corpo maschile; l’altro direbbe, nello stesso tempo, che il soggetto maschile che si mette in scena come donna sarebbe tuttavia interiormente femminile – psichicamente femminile. La ripetizione delle norme del genere femminile da parte della drag queen produce uno scarto tra il segno del genere citato e la materialità del corpo che lo cita. Nonostante l’uno sia indissociabile dall’altro, dato che il corpo non può essere “letto” socialmente senza il genere ed il genere può conseguire la sua materialità solo attraverso il corpo, la performance drag mostra come essi non siano né naturalmente né essenzialmente legati l’uno all’altro. Nel travestimento, la verità del genere pensata come conformità tra interiore ed esteriore è turbata dapprima da una discordanza tra interiore ed esteriore, poi da un’equivocità introdotta nel senso stesso dell’interiorità34, ed infine da un’ambiguità deliberata a proposito del luogo in cui si nasconde la verità del genere. Applicando le norme della femminilità alla materialità del suo corpo, chi opera la performance drag rende la femminilità che produce estranea a quelle stesse norme che mette in opera. Spostando le norme della femminilità verso la sua corporeità cosiddetta maschile, o occupando il luogo della femminilità nella concretezza della sua esistenza, egli produce un fallimento del genere a esprimersi nella sua “verità”. La drag queen appare quindi al tempo stesso come quel che vi è di più vicino e di più lontano rispetto alla femminilità. Sulla scena, la femminilità incarnata da chi opera la performance è al tempo stesso riconosciuta e sconfessata. D’altra parte, il drag produce una seconda destabilizzazione dei significati di genere, nella misura in cui turba «la nozione di un’identità di gene«Nelle sue forme più complesse, [il drag] è una doppia inversione che dice: “l’apparenza è un’illusione”. Il drag dice […] “il mio aspetto ‘esteriore’ è al femminile, ma la mia essenza ‘interiore’ [il corpo] è al maschile”. Allo stesso tempo è simbolo dell’inversione opposta: “il mio aspetto ‘esteriore’ [il mio corpo, il mio genere] è al maschile, ma la mia essenza ‘interiore’ [il mio sé] è al femminile”». E. Newton, op. cit., citato da J. Butler, Gender Trouble, cit., p. 137; trad. it. cit., p. 194. 34 L’interiorità è infatti affermata sia come materialità corporea, sia come realtà psichica, senza che queste due esperienze coincidano. 33
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re originaria o primaria»35. L’imitazione dissonante delle norme di genere prodotta nella performance fa apparire l’originale stesso come un’imitazione, come effetto di un processo di ripetizione obbligata. La performance drag rende complesso il rapporto originale-copia, nella misura in cui fa vedere il “genere originale” stesso come una parodia. Come il cinico, la cui esposizione della vera vita come vita altra manifestava il carattere altro della vita ordinaria, la performance drag, che produce teatralmente il genere come imitazione, porta ad affermare che l’identità di genere “originale” è essa stessa un’imitazione. La parodia, scrive Butler, «è davvero quella della nozione di un originale»36. Il genere, in generale, è un processo di ripetizione o di imitazione privo di originale: Nell’imitare il genere, il drag rivela implicitamente la struttura imitativa del genere stesso, nonché la sua contingenza. Per giunta, parte del piacere, la vertigine della performance sta nel riconoscimento di una radicale contingenza nella relazione tra sesso e genere a fronte di configurazioni culturali di unità causali, che vengono regolarmente considerate come naturali e necessarie37.
La performance drag appare quindi come messa in scena che assume, proprio come il cinico, il rischio dell’alterizzazione di colui che fa vedere il genere come altro rispetto alle norme che abilitano socialmente i soggetti in quanto soggetti di genere, e che produce a sua volta un rovesciamento: quello della causa e dell’effetto. Mentre il genere era inteso come causa dell’aspetto impresso a un insieme di azioni, la produzione nella performance drag di un effetto di genere (la femminilità) tramite la ripetizione eccessiva e iperbolica – la drag queen «surclasserà le donne sul loro terreno»38 – di un insieme di quelle che potrebbero essere definite “disposizioni femminili” – un aspetto o dei gesti codificati come femminili – fa apparire il genere non come origine di una manifestazione materiale e corporea di genere, ma come effetto della ripetizione corporea e materiale di un insieme di atti stereotipati e socialmente normati. Con la performance drag, il genere non appare più come un’identità stabile, ma come un’unità temporaneamente prodotta attraverso l’imitazione di gesti culturalmente Ivi, p. 137; trad. it. cit., p. 194. Ivi, p. 138; trad. it. cit., p. 195. 37 Ivi, p. 137; trad. it. cit., p. 195. 38 J. Butler, Bodies that Matter, cit., p. 132; trad. it. cit., pp. 121-122. 35 36
108 Céline Van Caillie codificati, una «ripetizione stilizzata di atti» che produce una «stilizzazione del corpo»39, creando l’illusione di un’identità di genere stabile. La drag queen rivela la struttura performativa del genere – dove la performatività è intesa come citazione obbligata delle norme che produce e istituisce socialmente il soggetto. L’interesse della performance, lungi dall’essere l’affermazione di un volontarismo di un soggetto che decide del proprio genere, risiede nella messa in luce del genere come citazione obbligata, effetto socialmente sedimentato, prodotto dalla ripetizione disciplinata che, sotto minaccia dell’esclusione dalla sfera dell’intelligibilità sociale, produce la legittimità e la naturalità delle finzioni culturali di genere. Al posto di un’identificazione originaria, che funziona come una causa determinante, l’identità di genere potrebbe essere riconcettualizzata come storia personale/culturale di significati acquisiti, soggetti a una serie di pratiche imitative, che rimandano lateralmente ad altre imitazioni e che, congiuntamente, costruiscono l’illusione di un sé connotato dal punto di vista del genere primario o interiore o parodiano il meccanismo di tale costruzione40.
Tuttavia, in un gesto vicino a quello del cinico che manifestava il carattere altro della vera vita, la drag queen, grazie alla messa in scena del femminile come altro, arriva a pensare l’identità concreta come l’altro del genere, visto come entità ideale e sostanziale che fonda la prima. La ripetizione delle norme di genere che essa mette in opera produce infatti un fallimento che appare come il segno della mancanza che abita la ripetizione normativa del genere in generale. La proliferazione dei segni del genere nella performance produce un sentimento di estraneità, derivato dal fallimento prodotto al cuore dello sforzo concreto di incarnare le norme di genere – fallimento immanente e sempre presente nella ripetizione. La performance drag è l’indizio che l’ideale femminile si avvera sempre già impossibile da realizzare e che l’alterità è inerente al processo di ripetizione. Se il cinico affermava la vera vita come una vita altra, producendo un rovesciamento degli effetti attesi dalla messa in opera dei princìpi che definiscono la vera vita, la performance drag, fallendo nel produrre una verità del genere, manifesta il fallimento costitutivo delle identità di genere e 39 40
J. Butler, Gender Trouble, cit., p. 140; trad. it. cit., p. 199. Ivi, p. 138; trad. it. cit., pp. 195-196.
Alterità della vita e alterazione del mondo 109
conduce a rovesciare l’«effetto di realtà»41 atteso dalla messa in opera delle norme di genere: l’identità di genere è sempre mancata. La “femminilità” incarnata è sempre altra nei confronti del femminile. Abitare la ripetizione La performance drag, per come è pensata da Butler, permette quindi sia di sottolineare il carattere vincolante delle norme, sia di riflettere sul modo in cui questa formazione regolata del soggetto non è mai assimilata alla pura e semplice determinazione. Se la riflessione sulla performance drag si basa sul carattere performativo delle norme, essa è anche e soprattutto un momento necessario per pensare la capacità di agire nella messa in opera delle norme nella ripetizione. La performance drag è infatti l’occasione per pensare sia la ripetizione necessaria delle norme di genere che governano l’istituzione dei soggetti, sia il loro carattere assolutamente non efficace, dato che fallisce nel produrre gli effetti attesi delle norme di genere e arriva addirittura ad invertirli. La drag queen manca l’incarnazione del femminile e questo fallimento introduce, in modo immanente, un’alterità nella ripetizione delle norme. La drag queen produce una sorta di “scacco” che rovescia la norma contro se stessa, mostrando il fallimento che caratterizza la ripetizione obbligata delle norme in generale. Manifestando la debolezza inerente alla ripetizione delle norme di genere, la drag queen espone quindi la norma ad altre aberrazioni, aprendola, con questo gesto, a un lavoro di alterazione nella produzione di alterità. Dato che il genere è prodotto dalla ripetizione, e che essa non deriva la propria potenza da un originale o da un atto fondatore, ma dall’obbligo della ripetizione stessa, l’iterazione delle norme di genere corre sempre il rischio di non riuscire, di produrre fallimenti o discontinuità nel corso continuo della ripetizione. Il sé costante connotato dal punto di vista del genere si mostrerà allora essere strutturato da atti ripetuti che cercano di approssimarsi all’ideale di un fondamento sostanziale dell’identità, ma che, nella loro occasionale discontinuità, rivelano l’infondatezza temporale e contingente di questo “fondamento”. Le possibilità di una trasformazione del genere vanno rinvenute proprio nella relazione arbitraria 41
J. Butler, Bodies that Matter, cit., p. 129; trad. it. cit., p. 119.
110 Céline Van Caillie tra questi atti, nella possibilità di un fallimento della ripetizione, una de-formità o una ripetizione parodica che metta in evidenza l’effetto fantasmatico dell’identità costante quale costruzione politicamente labile42.
La performance drag assume allora il senso di una ripetizione che manifesta lo scarto inerente alla messa in opera delle norme. In questo senso, la messa in scena drag può essere pensata come un’incitazione alla sovversione, nella misura in cui manifesta una capacità di agire al cuore della ripetizione stessa delle norme di genere e che consiste in un modo di occupare o di risiedere in questa ripetizione. Se il travestimento è portatore di promesse emancipatrici, è proprio perché rivela la debolezza inerente alla messa in opera iterativa delle norme, la risignificazione potenziale della norma proprio nello scacco della sua ripetizione fedele, e la possibilità di un’occupazione positiva di questo scarto tra la norma e la sua appropriazione soggettiva nella sua iterazione. La drag queen funziona come il segno del fatto che la ripetizione obbligata delle norme, se da un lato significa l’assoggettamento dei soggetti che produce, presuppone anche la possibilità di investire uno spazio in cui le norme, pur essendo mimate o ripetute, possono essere rielaborate e risignificate. La riflessione di Butler sulla potenza normativa del genere come ripetizione permette di comprendere in che modo l’iterazione sia al tempo stesso imposta e rilavorata, dentro e contro la normatività: in che modo, quindi, l’iterazione diventa alterazione. La soggettività della drag queen appare, alla luce di questa analisi, come sempre già implicata nella messa in opera delle norme che turba. La sua capacità di agire è, in questo senso, sempre già “compromessa” nella ripetizione delle norme che essa risignifica. Il drag è formato dentro e tramite la ripetizione delle norme della femminilità e della mascolinità che tuttavia distorce, proprio mentre le rielabora. Questa formazione del soggetto nelle norme, l’eteronormatività che caratterizza ogni soggettivazione, non significa però una determinazione del soggetto nella subordinazione. Lo scarto manifestato dal drag testimonia la possibilità di un’alterazione di sé e delle norme, o meglio di un’alterazione delle norme nella loro messa in opera stessa, nella formazione del sé che porta la ripetizione oltre gli effetti attesi. Un oltre che apre la norma al lavoro dell’alterazione, proprio in quelle pratiche di ripetizione che, aldilà della performance, si mostrano 42
J. Butler, Gender Trouble, cit., p. 141; trad. it. cit., p. 199.
Alterità della vita e alterazione del mondo 111
come i possibili della ripetizione, fanno emergere il “sostrato” o portano a essere pubblicamente quel che, secondo i termini di Foucault già citati, «in una cultura, non ha diritto o almeno la possibilità di esprimersi»43. La performance drag, aldilà di una pratica estetica ripiegata su se stessa, aprirebbe quindi, con l’alterità che mette in scena, alla possibilità di un lavoro collettivo di rielaborazione e di alterazione delle norme di genere. La teatralità della performance drag ci sembra dunque congiungersi al senso della drammatizzazione cinica: se essa significa un’elaborazione materiale, radicale e pubblica dei princìpi della vera vita, che produce un rovesciamento della vera vita come vita altra e sfocia nella costituzione di una soggettività paradossale – familiare ed estranea – che si assume il rischio dell’alterizzazione, è chiaro che la drag queen, facendo proliferare in modo eccessivo i segni della femminilità nella materialità del suo corpo, produce una distanza dalla verità del genere che porta a un soggetto al tempo stesso più vicino e più lontano dalle norme messe in opera, e a un rovesciamento a livello dell’«effetto di realtà» del genere che l’espone alla perturbazione. Una pratica dell’alterità come alterazione del mondo Se il cinico appariva come colui che colpisce e inquieta il sociale in un gesto d’alterazione immanente, la performance drag, in quanto risignificazione la cui capacità di agire è implicata in un insieme di relazioni di potere, senza tuttavia esservi riducibile, potrebbe essere accostata al rinnovamento di un atteggiamento di questo genere, nella misura in cui essa si assume il rischio di rovesciare pubblicamente ciò che è istituito contro se stesso, nella sua ripetizione. Se la soggettivazione cinica consisteva in un’alterazione delle norme tramite un’alterazione di sé che si esercitava nella concretezza dell’esistenza, il lavoro di chi opera la performance drag, che mette in gioco le norme della femminilità nella materialità del corpo, in un uno sforzo di elaborazione di sé, e produce così una distorsione delle norme che mette in opera, può essere compreso come la riattualizzazione contemporanea di questo sforzo di iterazione-alterazione messo in luce nello studio foucaultiano del cinismo: un lavoro di trasformazione di sé che produce una trasformazione delle norme sociali e storiche in cui questa pratica si radica. 43
Cfr. nota 8.
112 Céline Van Caillie Inoltre, se nel cinismo, come nella performance drag, questa iterazione-alterazione delle norme è prodotta da una drammatizzazione – messa in scena iperbolica o estrapolazione pubblica della norma – che produce un rovesciamento, questo rovesciamento tramite drammatizzazione modella una soggettività ambivalente, che si situa alla frontiera: il cinico è nel punto più vicino ed in quello più lontano dalla filosofia antica, proprio come la drag queen sembra essere quel che vi è di più vicino e di più lontano dalla femminilità che mette in scena. Il lavoro di elaborazione di sé su sé della drag queen e del cinico produce una forma di soggettività al tempo stesso familiare ed estranea. Posizione paradossale di identità e di alterità che si assume il rischio dell’alterizzazione per provocare, dall’interno, l’alterazione del sociale. In questo senso, se il cinismo introduce uno sfasamento nella storia della costituzione del soggetto assoggettato, grazie a un’autocostituzione del soggetto che mira a una trasformazione di sé e degli altri con la messa in opera di una certa stilistica d’esistenza, la performance drag può essere intesa come un prolungamento trans-storico dell’atteggiamento cinico. Tuttavia, se ci permettiamo di pensare il travestimento come la riattivazione dello stile d’esistenza cinico, in quanto iterazione-alterazione dell’istituito in un lavoro di sé su sé, l’analisi di Butler sulla performatività del genere ci invita a sottolineare che questi stili di esistenza – il cinismo e il drag come elaborazione di sé su sé – non possono essere assimilati alla forma di un’autorità sovrana di sé su sé, ma devono essere pensati come istituiti in un campo sociale e storico che li rende possibili. Il cinismo, come la performance drag, rimette in gioco un insieme di significati socialmente stabiliti. Questa ripetizione è sia il processo con cui questi significati sociali acquisiscono la loro legittimità, sia quello per cui possono essere delegittimati. Dato che la soggettività drag, proprio come quella del cinico, è implicata in quello cui si oppone, la sua capacità di agire non si distingue mai strettamente dal potere al quale resiste. Nella misura in cui la contestazione è sempre immanente alle norme che turba, essa è sempre sia quel che riafferma, sia quel che respinge gli effetti di potere portati da queste ultime. Secondo Butler, siamo sempre nel potere «anche quando a esso ci si oppone, si è dal potere forgiati anche quando lo si riformula»44. Il lavoro di Butler permette così di tracciare un arco tra il lavoro dell’“ultimo Foucault” e l’analitica del potere che egli propone. Se Foucault, 44
J. Butler, Bodies that Matter, cit., p. 241; trad. it. cit., p. 183.
Alterità della vita e alterazione del mondo 113
con lo studio del cinismo, vuole delineare la possibilità di pensare la formazione di un soggetto con l’istituzione di una relazione di sé a sé che prende la forma della padronanza di sé e di una rottura interna con le norme, la lettura di Butler permette di legare questa soggettività che resiste dall’interno alla messa in opera delle norme al soggetto che è costituito all’interno e attraverso le relazioni di potere che lo assoggettano. Il suo lavoro insiste proprio sul fatto che il soggetto che resiste è sempre già lo stesso che è assoggettato. Il soggetto emerge solo nelle tecniche di sé relative a una normatività sociale e storica. La produzione della soggettività attraverso l’iterazione delle norme sociali è una produzione regolatrice e disciplinare del soggetto. Tuttavia, se la soggettivazione si fa solo nell’assoggettamento, la riflessione sul drag, messa in rapporto con l’atteggiamento cinico, ci mostra l’eccesso che si produce all’interno di questo assoggettamento stesso: l’istituzione del soggetto attraverso le norme, se limita e condiziona il soggetto, produce sempre, all’interno del processo stesso della ripetizione normativa, uno scarto suscettibile di produrre un vuoto, una distanza critica, e capace di aprire il campo istituito a un insieme di possibili. L’accostamento tra gli studi foucaultiani sul cinismo e le riflessioni butleriane sulla performance drag permette dunque di mettere in luce un tipo di agire al tempo stesso condizionato e condizionante, che si iscrive in un campo normativo e in un ordine che gli preesiste, e la cui potenza risiede in una forma di drammatizzazione che significa al tempo stesso un eccesso, un’estrapolazione pubblica e un rovesciamento che non possono lasciare indenne quest’ordine indiscutibilmente già installato. L’incontro tra queste pratiche permette di pensare un lavoro etico di sé su sé che consiste in uno sforzo per rendersi estranei a sé e agli altri, e che mette l’istituito in crisi – una pratica di alterità che si vuole alterazione di sé e del mondo. La posta in gioco risiede dunque nell’analizzare le condizioni di possibilità che fanno sì che lo scarto che si produce nella ripetizione possa divenire il luogo di una sovversione e di un agire critico. Traduzione dal francese di Laura Cremonesi
Céline Van Caillie Université Bordeaux Montaigne celinevancaillie@hotmail.fr
114 Céline Van Caillie
. Alterity of Life and Alteration of the World. Return on the Figure of the Cynic in Foucault and Drag Performance in Butler The point of this paper is to think together Michel Foucault’s study of cynicism and Judith Butler’s analysis of drag performance. Investigating the Cynic subjectivation as a specific mode of self-constitution in the Western history of subjectivity, this paper questions the possibility of its renewal in the drag parody. The purpose of such a connection between Cynic and drag is to reflect on the potential resistance or agency in a normative order from an ethical practice which aim is self-fashioning as well as collective change. Or, to put it differently, to consider the attempt to become other for an other world. Keywords: Michel Foucault, Cynicism, Subjectivation, Judith Butler, Performance, Performativity, Subversive repetition.
Confessioni precarie
Veridizione di sé e vulnerabilità alle norme in Michel Foucault e Judith Butler Attilio Bragantini
Introduzione
Questo articolo si propone di vagliare uno snodo teorico fondamen-
tale della ripresa del pensiero di Michel Foucault da parte di Judith Butler, vale a dire la pratica della confessione come atto di veridizione e soggettivazione. Per far questo, in primo luogo situeremo le analisi foucaultiane delle emergenze della confessione all’interno delle ricerche sul potere e la costituzione del soggetto, tenendo conto del mutare del quadro interpretativo dell’autore tra gli anni settanta e ottanta. Ci concentreremo in particolare sui lavori tardi di Foucault, in cui la confessione è indagata come forma di condotta tramite atti di dire-il-vero (dire-vrai) su di sé richiesti ad un soggetto. Proprio l’ambivalenza della condotta, allo stesso tempo processo di assoggettamento e di soggettivazione, ci apparirà come uno dei punti di partenza di Butler per discutere la teoria foucaultiana del potere. Tale lavoro ci permetterà, in un secondo momento, di analizzare le indagini butleriane sulla confessione. A tal fine prenderemo come punto di riferimento due esercizi di lettura dell’Antigone di Sofocle, nei quali troveremo dapprima la tematizzazione di una forma di resistenza al potere tramite l’atto linguistico di rivendicazione di un proprio comportamento contrario alla norma data, e in seguito il ruolo performativo di tale atto in quanto forma di veridizione. Su questa base, indicheremo infine, nell’analisi butleriana di alcuni atti verbali di verità compiuti da soggetti linguisticamente vulnerabili, una possibilità ulteriore, rispetto alle indagini foucaultiane, di leggere la portata della confessione.
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 115-140.
116 Attilio Bragantini Foucault: la confessione come tecnologia di sé1 L’interesse foucaultiano per gli atti di confessione (aveu) è antico. Il primo testo di rilievo che tocchi questo tema è l’introduzione del 1962 all’edizione Colin di Rousseau giudice di Jean-Jacques e dei Dialoghi di JeanJacques Rousseau2. Questa pratica discorsiva trova spazio sin dal primo corso di Foucault al Collège de France, La volontà di sapere3, così come, significativamente, l’attenzione per i Greci, nel cui contesto il filosofo riscontra le prime emergenze di questa pratica. Uno dei testi che accompagna molte delle indagini foucaultiane sulla confessione, come mostra la notevole serie di riletture4, è infatti Edipo re di Sofocle, interpretato dal filosofo, in senso antipsicanalitico, non sulla base dei desideri di Edipo, repressi e poi funestamente attuati, ma come una drammaturgia della verità, cui si giunge tramite un progressivo affastellarsi di atti di dire-ilvero (profezie, testimonianze, ammissioni), fino alla confessione del re di Tebe. Non è evidentemente questo il luogo per ricostruire nella sua interezza le ricerche di Foucault sulla confessione, né le emergenze storiche della stessa che egli rintraccia, dall’esame di coscienza reso al direttore Foucault utilizza le espressioni «tecniche di sé» e «tecnologie di sé» (o «del sé»), per nominare «delle pratiche riflesse e volontarie mediante le quali gli uomini non solo si fissano delle regole di condotta, ma cercano di trasformare se stessi, di modificarsi nel loro essere singolare» (M. Foucault, Usage des plaisir et techniques de soi, in «Le Débat», n. 27, novembre 1983, ora in Id., Dits et Écrits IV. 1980-1988, Gallimard, Paris 1994, p. 545). In questo articolo ci serviremo della dizione «tecnologie di sé», perché, occupandoci della confessione, essa ci pare accentuare il riferimento alle pratiche di parola. 2 Cfr. M. Foucault, Introduction, in J.-J. Rousseau, Rousseau juge de Jean-Jacques. Dialogues, Colin, Paris 1962, pp. VII-XXIV (ora in M. Foucault, Dits et Écrits I. 1954-1975, Quarto Gallimard, Paris 2001, pp. 200-216). 3 Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France 1970-1971 suivi de Le savoir d’Œdipe, Gallimard/Seuil, Paris 2011. 4 Cfr. ibidem; M. Foucault, Le savoir d’Œdipe, in Id., Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 223-253; Id., La vérité et les formes juridiques (Conférences à l’Université pontificale catholique de Rio de Janeiro, du 21 au 25 mai 1973), in Id., Dits et Écrits I. 1954-1975, Quarto Gallimard, Paris 2001, pp. 1406-1514; Id., Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France 1979-1980, EHESS/Gallimard/Seuil, Paris 2012, pp. 23-90; Id., Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice, Presses Universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve 2012, pp. 47-89. Sulle letture foucaultiane di Edipo re, cfr. L. Cremonesi, L’Edipo re e lo Ione. Foucault lettore della tragedia greca, in L. Bernini (a cura di), Michel Foucault. Gli antichi e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità, ETS, Pisa 2011, pp. 13-45. 1
Confessioni precarie 117
spirituale nella tarda Antichità al procedimento monastico della discretio, dalla confessione auricolare codificata dalla Chiesa Cattolica post-tridentina alla giuridicizzazione della confessione in ambito penale, fino alla sua integrazione e sostituzione tramite il ricorso a saperi extra-giuridici, come l’expertise medico-legale5. Per la finalità precipua di questo lavoro ci orienteremo verso le indagini sulla confessione nella produzione foucaultiana degli anni ottanta. Tale produzione non può tuttavia essere compresa senza tenere conto delle ricerche sul tema compiute dall’autore nella decade precedente, sulle quali ci soffermiamo quindi in via introduttiva. Prendiamo come punto di riferimento il corso del 1973-1974 al Collège de France, Le pouvoir psychiatrique6. Esso ritorna sulla «storia della follia», spostando però l’attenzione sulla definizione di una analitica o «microfisica del potere»7, in cui gioca un ruolo fondamentale l’analisi delle scene terapeutiche come tattiche produttive di enunciati, sia da parte del sapere medico in quanto tale, sia da parte dei malati. Più nello specifico, Foucault mira ad una genealogia del sapere-potere8 psichiatrico mediante uno studio degli atti linguistici che sono pronunciati all’interno di questo rapporto di forza e di dipendenza. In tal senso, non sono più centrali le «rappresentazioni» della malattia, ma il gioco delle verità che sono dette sulla malattia stessa, in particolare la verità che il malato è tenuto a pronunciare tramite un atto di confessione. La confessione emerge dunque come la pratica fondamentale della psichiatria (e poi della psicanalisi), al contempo punto di partenza del processo di guarigione ed atto terminale di un processo di assoggettamento nel quale la terapeutica si rivela come una forza che investe per intero il paziente. Oltre ai testi già citati, cfr. M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France 1974-1975, Seuil/Gallimard, Paris 1999 (trad. it. Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000); Id., L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Seuil/Gallimard, Paris 2001; (trad. it. L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003). 6 M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, Seuil/ Gallimard, Paris 2003 (trad. it. Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004). 7 Ivi, p. 18. 8 Sul significato di questa nozione foucaultiana, cfr. H. Dreyfus–P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1982, pp. 115-117 (trad. it. La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989). 5
118 Attilio Bragantini Per pensare questa pratica di sapere-potere Foucault elabora il concetto di potere disciplinare9, che costituisce (specularmente al modello della sovranità) una «presa totale […] del corpo, dei gesti, del tempo, del comportamento dell’individuo»10. Il potere psichiatrico, così come si forma verso la prima metà dell’Ottocento, è, nel contesto dell’ospedale, un esempio di questa presa in carico del soggetto. La complessa istituzione cui esso dà luogo viene caratterizzata dall’ottenimento, tramite una serie di atti di controllo e di forza (Foucault, qui, come altrove, si riferisce al metodo delle docce fredde di Leuret11) di un atto di verità da parte del paziente, che così «riconosce» la sua malattia e ne «guarisce». Il potere psichiatrico è dunque un «operatore di realtà»12 perché è un operatore di verità: esso è il dispositivo che permette la produzione di una confessione ed è questo atto che diviene, in ultima analisi, il vero cuore della terapia. Scrive Foucault a proposito di un paziente di Leuret, Dupré: Ciò che gli si domanda – ed è in questo che l’enunciato di verità diviene operativo – è che egli confessi. Non occorre che si percepisca, ma che ciò sia detto, anche se tramite la coercizione della doccia. Il solo fatto di dire qualcosa che sia la verità ha in se stesso una funzione; una confessione, anche sotto costrizione, è più operativa nella terapeutica di un’idea giusta o con un’esatta percezione, quando resta silenziosa. Dunque, carattere performativo di questo enunciato di verità nel gioco della guarigione13.
Questo passo racchiude alcuni elementi importanti, che permettono, a nostro avviso, di cogliere sia la continuità tra le ricerche sulla confessione degli anni settanta e ottanta, sia la loro discontinuità. Foucault, nella confessione, pone l’accento sul fatto stesso di dire una verità: ciò che conta, ciò che è «operativo», non è il contenuto di questa verità né, di per sé (e questo è un punto dirimente, su cui torneremo) che essa avvenga in uno stato di costrizione. Ciò che rileva è che vi sia ciò che, più tardi, egli definirà un atto di veridizione. In altri termini, è il fatto stesso di dire, e di dire la verità su di sé, ad essere produttore di effetti, effetti che sono poi inquadrati nella griglia di Sulle discipline in Foucault, cfr. S. Legrand, Les normes chez Foucault, Presses Universitaires de France, Paris 2007, pp. 47-81. 10 M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., p. 48. 11 Cfr. ivi, pp. 156-158. 12 Ivi, p. 143. 13 Ivi. p. 158 (il corsivo è mio). 9
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comprensione della confessione del sapere-potere psichiatrico, che si riferisce in primo luogo ad un partage tra guarigione e malattia. La confessione da parte di Dupré di non essere Napoleone, ottenuta tramite l’applicazione di docce fredde, pur se ritrattata più volte prima di essere di nuovo costretto alla «terapia», opera la guarigione, assegna il paziente ad uno status differente da quello in cui si trovava prima del suo atto di verità. Tale operatività definisce l’atto linguistico della confessione come un atto performativo. Il riferimento implicito alla teoria degli atti linguistici di Austin14 è, a quest’altezza, positivo. La confessione produce un effetto, fa ciò che dice: quando Dupré, all’interno del campo di forze cui è soggetto, riconosce di non essere Napoleone, questa diventa la sua verità. Foucault interpreta questa performatività nel senso di un’adesione del paziente all’identità tra la sua biografia e il suo male. Il potere psichiatrico impone di riconoscere, tramite un interrogatorio che si compie nella confessione, la concatenazione di fasi della propria vita che, formando un corpus coerente al suo interno, «spiega» la malattia e, nel momento in cui è confessato come la propria verità, permette di giungere alla guarigione. L’atto di verità, prodotto da un atto di forza, è dunque, come si diceva, operatore di realtà: assegna al malato la sua identità, e lo identifica con essa nel momento in cui egli la dice. Le analisi del potere psichiatrico degli anni settanta giungono così a far emergere la posta in gioco nella pratica della confessione. Foucault sottolinea in questo momento con vigore il carattere di assoggettamento che è proprio a tale confessione: quella del malato «non è tanto la verità che potrebbe dire su di sé a livello del proprio vissuto, ma una certa verità che gli viene imposta in una forma canonica»15. Al tempo stesso, questo focus sull’assoggettamento psichico ci pare rappresentare meno una pista di lavoro in cui convergerebbero quelle relative ad altre pratiche di direzione e di tecnologie di sé, in una sorta di comprensiva genealogia della psichiatria e poi della psicanalisi, quanto piuttosto uno dei campi in cui si misurano e l’esercizio del «sapere-potere» e, al suo interno, la centralità degli atti linguistici di verità come produzione discorsiva propria ad un certo ambito di assoggettamento dell’individuo. Questa impostazione di metodo richiede pertanto non solo di chiarire, Cfr. J.L. Austin, How to Do Things with Words, Oxford University Press, OxfordNew York 1962, 19752; trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova-Milano 1987. 15 M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, cit., pp. 158-159 (il corsivo è mio). 14
120 Attilio Bragantini come si è visto, il senso delle indagini sul potere come un’analitica o una «microfisica» dello stesso, ma di esplicitare anche il carattere che il termine «verità» vi assume. Sempre nel corso del 1973-1974 Foucault lo fa distinguendo fra vérité démonstrative e vérité-événement16. Se la prima è propria alla logica della scoperta scientifica, una verità-metodo che si incarica di dimostrare i propri assunti, di concatenarli in una serie, la seconda è piuttosto pensata come uno squarcio, uno choc, una verità-folgore che illumina la verità-cielo delle scienze e ne destabilizza l’ordine. La verità-evento costituisce un’altra serie, quella del potere: è una verità che si impone come una forza, che non attiene al rapporto conoscitivo soggetto-oggetto, ma è una strategia dei soggetti, una tecnologia di sé. È in questa serie della storia della verità in Occidente che il filosofo pone le pratiche della confessione, tra cui la confessione in ambito psichiatrico. È alla genealogia di questa verità-evento che egli intende dedicarsi, sia dal lato del smascheramento della sua copertura da parte della verità dimostrativa, sia da quello della ricostruzione della portata delle varie pratiche di verità, in particolare di confessione, così emerse storicamente. È allora in questo quadro che ci pare di poter collocare due ambiti di ricerca che emergono negli anni settanta, in cui, ancora una volta, lo studio delle formazioni discorsive gioca un ruolo fondamentale e in cui, per questa via, la confessione diviene oggetto di indagine. Il primo ambito è quello delle ricerche sul potere disciplinare nel suo complesso. È in particolare in Sorvegliare e punire17 che Foucault mostra come il dispositivo di potere formato dalla sorveglianza gerarchica e dalla sanzione normalizzatrice si combini nell’esame: esso dunque stabilisce una visibilità obbligatoria sul soggetto che vi è sottoposto, secondo una verifica più o meno codificata cui corrisponde una punizione. Il controllo nell’esame – dello scolaro, del prigioniero, dell’operaio, ecc. – avviene tramite osservazione, comparazione, adozione di una casistica (che inquadrino l’individuo nella succitata «forma canonica»), ma anche tramite atti linguistici richiesti all’esaminato, cui viene imposto di dire ciò che sa, ciò che ha fatto, o ciò che è. La confessione appare, in questo senso, un’istanza del «sapere-potere» della disciplina per stabilire il grado di discrepanza del Cfr. in particolare il corso del 23 gennaio 1974 (ivi, pp. 234-265). M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975 (trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976). 16 17
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soggetto dalla norma prevista, e dunque una forma di dressage: la normalizzazione dei corpi e delle condotte ha dunque il suo centro nell’esame, che è contrassegnato da discorsi di verità su di sé. Il secondo ambito che ci limitiamo a rilevare è quello dell’impresa foucaultiana di una Storia della sessualità18, che, iniziata e bruscamente interrotta negli anni settanta, troverà una sua ripresa e riformulazione nell’ultimo Foucault. La genealogia della sessualità ha al centro l’affermazione di come le diverse pratiche di esigere un atto di verità su di sé e di confessione di tale verità abbiano plasmato il modo con cui nella civiltà occidentale il soggetto vive il rapporto al proprio corpo e al proprio piacere. Ribaltando l’ipotesi repressiva, che vede il ruolo del potere nell’esercizio della proibizione di determinati comportamenti sessuali e del discorso su di essi, Foucault muove dalla constatazione della crescente incitazione alla «trasposizione in discorso del sesso»19 a partire dall’età classica. La «società singolarmente confessante»20 che questa trasposizione realizza produce il controllo sessuale degli individui e della popolazione tramite una proliferazione di «confessioni della carne» (aveux de la chair) e della loro interpretazione all’interno di pratiche differenti (il potere pastorale della Chiesa, il sapere medico e psichiatrico, le scienze sociali). Foucault: l’aleturgia ambivalente della confessione A partire dagli anni ottanta le pratiche della confessione ritagliano un campo di esperienza significativo all’interno delle ricerche sulle forme di veridizione. Il tema della costituzione del soggetto, che rappresenta il punto focale dell’analitica del potere, aveva condotto Foucault a riflettere sugli atti di parola attraverso cui un soggetto è chiamato, in una relazione di potere, a dire la verità su di sé. Ora però l’attenzione del filosofo è meno portata ai dispositivi di assoggettamento che impongono la produzione di discorsi su di sé e più diretta alla maniera in cui attraverso di essi emerM. Foucault, Histoire de la sexualité I. La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 (trad. it. Storia della sessualità I. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978); Id., Histoire de la sexualité II. L’usage des plaisir, Gallimard, Paris 1984 (trad. it. Storia della sessualità II. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984); Id., Histoire de la sexualité III. Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984 (trad. it. Storia della sessualità III, Feltrinelli, Milano 1985). 19 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 17 (ed. orig., p. 21). 20 Ivi, p. 54 (ed. orig., p. 79). 18
122 Attilio Bragantini gono pratiche di soggettivazione diverse che contraddistinguono modi di vita. Foucault ricostruisce così in modo rinnovato le tecnologie di sé che si manifestano storicamente mediante atti di verità21. Questo cambio di passo è segnalato da Foucault all’inizio del suo corso del 1979-1980 al Collège de France, Du gouvernement des vivants22. Nella lezione inaugurale, infatti, il filosofo rende ragione del passaggio dal concetto di «sapere-potere» che aveva caratterizzato le sue ricerche degli anni settanta a quello di «governo mediante la verità» (gouvernement par la vérité). Lo slittamento è duplice. Il primo è dato dal passaggio dal termine potere al termine «più operativo»23 di governo. Il termine gouvernement non si riduce al suo significato moderno di potere esecutivo statale, ma si riallaccia, etimologicamente, a κυβερνάω (condurre), ovvero alla nozione di «meccanismi e di procedure destinati a condurre gli uomini, a dirigere la condotta degli uomini, a condurre la condotta degli uomini»24. Governo è dunque la condotta del soggetto, sulla cui ambivalenza semantica (tanto il potere esercitato su un soggetto che il comportamento, l’attitudine di questo soggetto stesso) viene messa una particolare enfasi. Esso allude dunque al tentativo di Foucault di estendere la propria analisi ad emergenze storiche di soggettività differenti che si costituiscono in base ad atti verbali su di sé o sugli altri. Il secondo slittamento è dato dalla riformulazione del sapere nei termini della verità. Anche questo appare un passaggio operativo: come abbiamo in parte visto già negli anni settanta, l’obiettivo di Foucault non è tanto il contenuto di questa verità, ma gli atti con cui essa viene prodotta – i giochi di verità che la dicono, che la fanno. La confessione è, come vedremo fra breve, il rituale di verità, o, in termini foucaultiani, l’aleturgia attraverso cui un soggetto dice-il-vero su di sé all’interno di un determinato regime di verità25. Per un tentativo di pensare tale discontinuità teorica in Foucault senza invalidare l’unità del suo pensiero, cfr. J. Revel, Foucault, une pensée du discontinu, Mille et une nuits, Paris 2010, pp. 221-304. 22 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit. 23 Ivi, p. 13. 24 Ivi, p. 14. 25 Cfr. ivi, pp. 8 e 92-99. Sui caratteri della «storia della confessione» foucaultiana, cfr. Ph. Chevallier, Michel Foucault et le christianisme, ENS Éditions, Lyon 2011, pp. 127133. Sulla nozione di «regime di verità», anche in riferimento critico al libro di Chevallier, cfr. D. Lorenzini, Foucault, il cristianesimo e la genealogia dei regimi di verità, in «Iride», a. XXV, n. 66, maggio-agosto 2012, pp. 391-401 (in part. pp. 394-397). 21
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Tali giochi di verità sono anche giochi di potere: «Ci può essere – si chiede Foucault – esercizio del potere senza un anello di verità, senza un cerchio aleturgico che ruoti attorno ad esso e che lo accompagni?»26. La questione della condotta dei soggetti mediante la verità è dunque il quadro in cui vengono posti una serie di problemi: in che modo gli atti di verità vengono richiesti, comandati, o anche estorti a un soggetto? Quali differenti pratiche di verità sono prodotte tramite questa relazione fra soggetti? Come avviene la costituzione soggettiva tramite atti di verità? Gli interrogativi enunciati dominano le ricerche dell’ultimo Foucault, specie nei corsi tenuti a partire dal 1980, in Francia o all’estero, che toccano in particolare due pratiche di veridizione: la confessione e la parrhesia27. Per quanto concerne la prima, l’ultimo grande intervento foucaultiano è quello compiuto nel ciclo di sei lezioni Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice pronunciato su invito della Scuola di Criminologia dell’Università Cattolica di Lovanio, in aprile e maggio del 1981. Nella conferenza inaugurale del corso, Foucault caratterizza l’atto di confessione nel modo che segue: «La confessione è un atto verbale mediante il quale il soggetto fa un’affermazione su ciò che è, si lega a questa verità, si pone in un rapporto di dipendenza nei confronti di un altro, e modifica al contempo il rapporto che ha con se stesso»28. Possiamo distinguere tre elementi costitutivi della confessione. In primo luogo, la confessione è un atto di parola. È un’affermazione positiva, che è un dire-il-vero. È necessario che la confessione sia verace perché confessione vi sia. Essa non afferma una cosa qualunque, ma qualcosa che riguarda colui che parla, che dunque parla di se stesso. Colui che confessa, confessa qualcosa su di sé, confessa chi è, che cosa ha fatto. La confessione M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 18 (il corsivo è mio). Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France 19821983, Seuil/Gallimard, Paris 2008 (trad. it. Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2009); Id., Le courage de la vérité. Cours au Collège de France 1983-1984, Seuil/Gallimard, Paris 2009 (trad. it. Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano 2011). Per una prima ricostruzione delle indagini sulla parrhesia dell’ultimo Foucault, cfr. F. Gros, La parrhêsia chez Foucault (1982-1984), in Id. (a cura di), Foucault, le courage de la vérité, Presses Universitaires de France, Paris 2002, pp. 155-166. Per un lavoro critico d’insieme sui corsi foucaultiani degli anni ottanta (a partire da Soggettività e verità), cfr. P. Cesaroni–S. Chignola (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1981-1984), Ombre corte, Verona 2013. 28 M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 7. 26 27
124 Attilio Bragantini è dunque un sapere su di sé che viene detto. Ma in secondo luogo, se esso è detto, è detto a qualcuno. La confessione è dunque un atto di parola indirizzato ad un altro. Benché non sia essenziale che questo altro imponga la confessione, che vi costringa colui che confessa, che dunque la confessione sia un atto ordinato da altri, è tuttavia vero che la confessione produce un rapporto tra colui che confessa e colui che ascolta. La confessione è la manifestazione di una verità che si produce fra due individui. La verità della confessione, che è una verità su ciò che colui che confessa è e una verità rivolta ad un altro, produce per ciò stesso una dipendenza cui colui che confessa si sottopone tramite il proprio atto verbale nei confronti del destinatario. La confessione è perciò un rapporto di potere, un potere di verità, una verità che lega. Così, la confessione trasforma infine il suo soggetto, modificando il rapporto che egli ha con se stesso. L’atto di confessare chi si è, che cosa si è fatto appare dunque un atto linguistico produttivo di un rapporto di governo di un soggetto su un altro, che dà luogo a una costituzione soggettiva. In altri termini, è il fatto di dire-il-vero su di sé, è questa pratica linguistica che avviene nell’assoggettamento di un individuo ad un’istanza di potere, è la relazione di dipendenza che si crea attraverso la manifestazione della verità di sé ad un altro, a produrre una soggettività. Il governo mediante la verità, che nel caso della confessione è una verità su colui che la pronuncia, possiede dunque una fondamentale ambivalenza. In primo luogo colui che confessa è assoggettato a colui che riceve la confessione, ma, nella linea interpretativa di Foucault, non è mai costretto in senso compiuto a parlare. Le differenti emergenze storiche e tecnologie della confessione che il filosofo analizza mostrano come si vada da una volontaria sottomissione al rapporto di dipendenza con il confessore (come nel caso della discretio monastica) a un’imposizione dell’atto di verità che però richiede l’ammissione convinta dell’accusato (come nella confessione penale). Persino la tortura (prima di arrivare alla violenza poliziesca contemporanea) non invalida di per sé la confessione, ma è piuttosto interpretata come una sfida alla resistenza del torturato29. La soggezione all’altro è dunque vissuta dallo stesso soggetto confessante come il dispositivo che solo permette la manifestazione, anche Cfr. ivi, p. 204. Per una recente discussione critica di questa posizione foucaultiana, cfr. J. Rogozinski, L’aveu de la vérité. Torture et confession dans la chasse aux sorcières, in «Les Temps Modernes», n. 68, 2013, pp. 1-23. 29
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a se stesso, della propria verità. Ciò è particolarmente evidente in tutte le pratiche della tarda Antichità legate alla cura di sé, dall’expositio animae all’esame di coscienza, in cui il ricorso alla confessione vaglia la bontà del proprio cammino spirituale, indica cosa correggere e come progredire. È dunque possibile vedere, nel suo legarsi alla propria verità del soggetto che confessa, non solo una forma di dipendenza al potere dell’altro, ma anche una forma di vita, insomma una condotta nel senso pieno e ambivalente del termine. Ma, in secondo luogo, ad essere ambivalente è lo stesso atto linguistico nel quale si compie la confessione. Esso infatti non si riduce, per Foucault, a mera comunicazione di un fatto, di una condizione soggettiva preesistente di cui le parole non sarebbero che il tramite. Le parole mettono in atto, producono quella soggettività. Ciononostante, in Mal faire, dire vrai il filosofo, contrariamente a quanto, lo abbiamo visto, aveva sostenuto in Le pouvoir psychiatrique, rifiuta di considerare l’atto della confessione un performativo (come farà in seguito anche per la parrhesia30). Il riferimento alla teoria degli atti linguistici di Austin31 rimane ancora una volta implicito, ma presente; tuttavia, benché all’inizio di Mal faire, dire vrai Foucault definisca il suo lavoro sulla confessione una «analisi dello speech act»32, alla fine del corso distingue quest’ultima tanto da un «atto simbolico» che da un «atto performativo». Da un lato, dunque, la confessione non allude metaforicamente a chi il soggetto sia e a cosa abbia fatto, ma lo dice e in tal modo lo rende efficace. Più sottile appare la ragione per cui l’atto linguistico in questione non è (più) per Foucault un performativo, ma piuttosto un atto drammatico. Riferendosi in particolare alla confessione in ambito penale egli scrive: C’è del performativo quando la corte dichiara che qualcuno è condannato, perché effettivamente, a partire da quel momento, è condannato. Al contrario, quando l’accusato si dichiara colpevole, questo è più che del simbolico, se volete, e non è del performativo: l’accusato che si dichiara colpevole non si trasforma per ciò stesso in colpevole. […] Né performativo né simbolico, sarei tentato di dire che in fondo, la confessione – sviando un po’ il senso abituale del termine, è dell’ordine del drammatico o della drammaturgia. Se possiamo definire «drammatica» non un’aggiunta ornamentale qualsiasi, ma ogni elemento che, in una Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit., p. 59 e ss. Cfr. J.L. Austin, Come fare cose con le parole, cit. 32 Cfr. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 4. 30 31
126 Attilio Bragantini scena, fa apparire il fondamento di legittimità e il senso di ciò che vi si svolge, direi allora che la confessione fa parte della drammatica giudiziaria e penale. […] a differenza del simbolico e del performativo, che non conoscono gradazioni, la drammaturgia – la drammatica – è suscettibile di intensità diverse33.
La non-performatività della confessione non è data dalla mancanza di effetti produttivi della veridizione, tutt’altro. Foucault pare fondarsi su una nozione puntuale di performativo che, come nel classico esempio della sentenza giudiziale, è una parola che si traduce immediatamente in un fatto. Forse è proprio questa immediatezza a non sembrare, al filosofo, sufficiente per spiegare ciò che, per restare fedeli al lessico teatrale utilizzato, si potrebbe chiamare la peripezia della verità, che culmina in un atto linguistico, la confessione, ma che è anche inserita in un processo di costituzione soggettiva più ampio. L’attenzione di Foucault pare allargarsi al quadro più complessivo della condotta, la quale corrisponde ad un’intera scena, ad una pratica aleturgica complessa che può essere qualificata ricorrendo alla nozione di drammaturgia. Con ciò Foucault si rifà chiaramente al concetto della Poetica aristotelica dell’azione (anche in quanto azione linguistica) come δράμα34, del resto coerente con l’analisi esemplare della vicenda tragica di Edipo che apre il corso a Lovanio, e così anche con l’idea di una messa in scena della verità. Per ciò stesso egli anche indica, come mostra la chiusa del passo, che l’intento è quello di lavorare su uno spettro ad intensità multiple, che permetta di situare l’atto della confessione in differenti scene, in differenti processi di assoggettamento/soggettivazione. Butler: ambivalenza del potere e atti linguistici L’assoggettamento e la produzione discorsiva del soggetto sono due nuclei teorici che segnano la ripresa del pensiero di Foucault all’interno della teoria del potere e degli atti linguistici di Judith Butler. Particolare importanza ci pare rivestire, a questo proposito, la sottolineatura da parte della filosofa dello statuto ambivalente del potere. Nel saggio La vita psichica del potere35 del 1997, Butler tiene già conto dell’ultima fase del pensiero Ivi, pp. 209-210. Cfr. Aristotele, Poetica, 1448a 29-30 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 2006, p. 7). 35 J. Butler, The Psychic Life of Power. Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it. La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005). 33 34
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di Foucault, attraverso due interventi apparsi negli Stati Uniti, i due brevi saggi raccolti sotto il titolo Il soggetto e il potere36 da H. Dreyfus e P. Rabinow nella loro celebre monografia su Foucault. Nell’opera, Butler fa propria la nozione foucaultiana di relazione di potere come «modo di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri, ma che agisce sulle loro stesse azioni»37. Ciò significa, per lei, che «un soggetto non solo viene a formarsi nella subordinazione, ma anche che tale subordinazione ne rappresenta la condizione continuativa di possibilità»38. La subordinazione appare dunque un’operazione di potere ambivalente. L’assoggettamento, che per Butler è innanzitutto psichico39, non avviene tuttavia tramite la repressione, ma attraverso una produzione di soggettività. In linea col ribaltamento teorico operato da Foucault, Butler sostiene infatti che «l’assoggettamento è, sì, un potere esercitato su un soggetto, ma ciononostante è anche un potere assunto dal soggetto, un’assunzione, questa, che costituisce lo strumento stesso del divenire del soggetto»40. L’assunzione su di sé di questo potere, al quale si è al contempo sottoposti, si esercita tramite l’azione: «il potere non solo agisce su (acts on) un soggetto, ma, transitivamente, ne mette in atto (enacts) l’esistenM. Foucault, The Subject and Power, in H. Dreyfus–P. Rabinow, Michel Foucault, cit., pp. 208-226. 37 Ivi, p. 220. 38 J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 13 (trad. it. modificata; ed. orig., p. 8). 39 Il lavoro compiuto sin qui su Foucault ci pare mostrare che, in un confronto con Butler, non sia questo il livello interpretativo su cui attardarsi a ricercare una continuità fra i due. Si tratta piuttosto, a nostro avviso, di uno snodo della discontinuità fra i due pensieri. Se infatti la seconda sembra attribuire al potere e alla sua pratica di assoggettamento/soggettivazione in quanto tali un valore psichico, il primo mira piuttosto ad inquadrare la «fonction-Psy» all’interno del campo della sua effettiva emergenza, all’interno di un preciso dispositivo di sapere, potere e condotte, che produce specifiche tecnologie di sé, genealogicamente riallacciantesi a pratiche precedenti ma per ciò stesso con esse discontinue. Uno degli aspetti che qualificano questa divergenza fra i due autori è dunque ovviamente il rapporto con la psicanalisi. Cfr. a tal proposito, per quanto attiene il tema della confessione in Foucault, l’orientamento dato alle sue letture di Edipo re, in evidente contrasto con quella di Freud (cfr. nota 4 al presente articolo) e in relazione al rapporto soggetto-verità l’allusiva, ma decisa presa di distanza da Lacan nel corso al Collège de France del 3 febbraio 1982 (M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., pp. 181182). Autori ai quali, tra gli altri, Butler, pur in modo critico, fa invece riferimento nelle opere considerate nel nostro articolo. 40 Ivi, p. 17 (ed. orig., p. 11). 36
128 Attilio Bragantini za»41. L’azione dunque non è propriamente del soggetto, in quanto essa è possibile solo a partire dal potere cui si è soggetti. Per questo la filosofa preferisce utilizzare il termine agency42, mettendo così l’accento non sull’imputabilità dell’agire a questo o a quel soggetto, ma sull’atto in quanto prodotto nel campo di assoggettamento/soggettivazione in cui il soggetto si costituisce. A questo punto si pone tuttavia un problema, che è un problema non solo teorico, ma anche politico: come pensare la resistenza al potere? In altre parole, se l’assoggettamento è condizione della soggettivazione, come pensare una discontinuità fra i due? Laddove le condizioni della subordinazione rendono possibile quell’assunzione di potere, il potere assunto rimane legato a tali condizioni, ma in maniera ambivalente; il potere assunto, infatti, può al tempo stesso trattenere la subordinazione e resistere a essa. Tale conclusione non va considerata né come una resistenza che rappresenta veramente un ristabilimento del potere né come un ristabilimento che rappresenta veramente una resistenza. Le due cose sono vere contemporaneamente e tale ambivalenza forma il legame dell’agency (the bind of agency)43.
Il soggetto, in quanto condizionato dal potere (in quanto, in termini butleriani, vulnerabile alla soggezione), non può agire che nel momento in cui è allo stesso tempo agito. La resistenza non può dunque di fatto essere pensata come la semplice opposizione, il passo di lato di un soggetto rispetto al bind of agency che lo costituisce – ciò significherebbe riproporre un’insostenibile nozione “sostanzialistica” del soggetto. Il problema esposto deve dunque essere riformulato nel senso di una resistenza che è rappresentata da una reiterazione del potere che non lo rinnovi meccanicamente, ma, assumendone strategicamente l’ambivalenza, lo contesti dall’interno: «L’agency eccede il potere che la rende possibile. […] L’agency è l’assunzione di uno scopo non preordinato dal potere […] al quale, nonostante tutto, esso appartiene»44. In tal senso il soggetto è visto da Butler come il “luogo” in cui questa reiterazione oppositiva è messa in atto. Più Ivi, p. 19 (trad. it. modificata; ed. orig., p. 13). Cfr. M. Andreani–L. Bernini (a cura di), Glossario, in L. Bernini–O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, Ombre corte, Verona 2009, p. 135. 43 J. Butler, La vita psichica del potere, cit., pp. 18-19 (ed. orig., p. 13). 44 Ivi, pp. 20-21 (ed. orig., p. 15). 41 42
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precisamente, «il soggetto rappresenta l’occasione linguistica che l’individuo ha di raggiungere e riprodurre intelligibilità, la condizione linguistica per la sua esistenza e agency»45. Il luogo in cui giocare l’ambivalenza del potere è quindi rappresentato dagli atti linguistici soggettivi, che sono al contempo assoggettati alle norme del potere che assumono per poter essere messi in atto, ma che in tal modo possono anche contestare. All’inizio di La vita psichica del potere, Butler pone la propria attenzione sulla produzione discorsiva della narrazione, l’atto di raccontare la propria storia. Questo percorso di ricerca la porterà successivamente, in Giving an Account of Oneself46, all’avvicinamento, sulla scorta della filosofia della narrazione di Adriana Cavarero, al tema arendtiano della costituzione politica del chi47. Un percorso più prossimo invece alle analisi di Foucault è quello che la conduce a riflettere sul potere performativo della confessione, la veridizione che ciascuno fa di sé. Butler: la confessione di Antigone Per affrontare lo studio dell’atto della confessione in Butler, ci rivolgeremo al suo lavoro sull’Antigone48. Il dramma sofocleo è oggetto di diversi interventi della filosofa, che distinguiamo in due momenti. Il primo momento è dato dai tre saggi contenuti in La rivendicazione di Antigone49, che rappresentano la rielaborazione di tre conferenze tenute da Butler nel 1998, in primo luogo nel contesto delle Welleck Library Lectures presso l’University of California di Irvine. Il secondo momento è dato da una conferenza all’American Psychology Division di San Francisco del 1999, che Ivi, p. 16 (trad. it. modificata; ed. orig., p. 11). J. Butler, Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005; trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. 47 Cfr. A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997; H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago 1958, §§ 24-27 (trad. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964). Sul confronto Butler/Cavarero, cfr. L. Bernini–O. Guaraldo, Differenza e relazione, cit. 48 Sofocle, Antigone, in Id. Edipo re - Edipo a Colono - Antigone, Mondadori, Milano 1982, pp. 256-345. 49 J. Butler, Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000; trad. it. La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 45 46
130 Attilio Bragantini Butler raccoglie come capitolo dal titolo «Confessioni del corpo» nel suo saggio del 2004 La disfatta del genere50. Queste due serie di interventi sulla tragedia hanno al centro gli atti linguistici di Antigone e in particolare l’atto linguistico della confessione, fatta a Creonte, della sepoltura di Polinice. Ciò che ci pare accomunarli è l’interpretazione di Antigone come del dramma in cui il corpo e la parola, ovvero l’identità di genere e l’atto linguistico di un soggetto, producono un rivolgimento della situazione. Anche se Antigone muore, anche se la tragedia della casa dei Labdacidi si compie, la sua vicenda ha operato un mutamento, una torsione del quadro in cui tale tragedia si svolge. Ciò appare in particolare evidente se si considera il rapporto che Antigone instaura con Creonte. Il re di Tebe, fratello di Giocasta, regna, come è noto, dopo lo scontro fratricida che ha diviso i fratelli di Antigone in seguito alla partenza per l’esilio di quest’ultima e di Ismene col padre Edipo. Sia Eteocle, che si era impadronito del trono, sia Polinice, che aveva assaltato Tebe per rivendicarlo, sono morti. Tuttavia Creonte ritiene che, poiché le leggi della polis puniscono gli attentatori della patria, soltanto il primo meriti degna sepoltura, e ordina che il cadavere del secondo sia lasciato preda delle fiere, esposto sulla nuda terra. Antigone contrappone a questo editto le ragioni del legame familiare, e, sfidando Creonte, seppellisce non una, ma ben due volte il fratello. La posizione di Antigone appare più complessa di una semplice contrapposizione speculare a Creonte, per la quale vi sono da un lato il re, maschio e con un figlio, che difende la legge degli uomini e la figura di Eteocle, dall’altro la donna, figlia di re e senza figli, che sostiene la legge degli dèi e la figura di Polinice. Il rapporto tra i due è inoltre acuito dall’infrazione da parte di Edipo del tabù dell’incesto, che rende ambigua la parentela che li lega. Anche per questa ragione, Butler non condivide la celebre lettura hegeliana della tragedia, che vede in Antigone e Polinice la figura di sintesi del primo momento dell’eticità dello spirito, sintesi giocata sull’assenza di desiderio e l’equilibrio della parentela tra fratello e sorella51, ma è piuttosto J. Butler, Bodily Confessions, in Undoing Gender, Routledge, New York-London 2004, pp. 161-173; trad. it. Confessioni del corpo, in La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2007, pp. 193-205. 51 Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel allude chiaramente al dramma sofocleo indicando nel rapporto tra fratello e sorella la «relazione senza mescolanza» né desiderio tra individui «dello stesso sangue, che tuttavia in essi è giunto al riposo e all’equilibrio» (cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Meiner, Hamburg 1987, VI, A.a). 50
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dell’idea che l’atto di Antigone e la sua fine, lungi dal riconciliare leggi umane e leggi divine, ne metta in luce la problematicità. Il conflitto sulle leggi di Tebe allude dunque, per Butler, ad una rivendicazione sovversiva di un νόμος più profondo, quello della parentela, regolato dal divieto del parricidio e dell’incesto – proprio i due principi che Edipo contravviene, seminando conseguenze di ampio raggio sui suoi discendenti. Lo sviluppo del dramma mostra che «le due figure, Creonte e Antigone, sono collegate chiasmaticamente»52. L’atto di seppellimento del corpo e la sua confessione linguistica operano un dislocamento della posizione di Antigone, che non corrisponde più a quella che il dispositivo sovrano in cui si trova (la città di Tebe retta da Creonte) le assegna. Antigone si contrappone non solo alle norme della polis, ma anche a quelle del genere: «Davvero io non sono un uomo (ἀνήρ), ma un uomo è costei»53, afferma di lei Creonte, che aggiunge poco dopo, parlando di Antigone con Ismene: «Non dire “lei” (ἣδε): lei non esiste più». Per converso, è Creonte ad assumere una caratterizzazione femminile: davanti all’accusa che egli muove al figlio Emone di parteggiare per una donna, quest’ultimo afferma che è vero, ma «Se tu sei la donna (γυνή)»54. Il collegamento chiasmatico che caratterizza la relazione tra Antigone e Creonte, segnato dall’ambiguità della parentela, è acuito dall’ambivalenza delle loro identità di genere, che mettono in crisi un’assegnazione di ruoli basata sui corpi55. Eppure non si tratta di un mero rovesciamento, ma di una doppia lettura. Antigone è sia donna che uomo. Ciò che attiva questa ambivalenza è l’atto, a sua volta ambivalente, che ella compie: il seppellimento di Polinice e la sua confessione. L’atto di Antigone, che lega il corpo e la parola, appare innanzitutto una trasgressione delle norme. Ma tale trasgressione, che ha comportato una dose di coraggio (ἀνδρεία), che provoca l’attribuzione di virilità (ἀνήρ) da parte di Creonte, non opererebbe il rimescolamento delle carte che produce il dramma senza l’atto linguistico che lo compie. Scrive Butler:
J. Butler, La rivendicazione di Antigone, cit., p. 18. Sofocle, Antigone, cit., v. 484. 54 Ivi, v. 541. 55 Tale identificazione, saldamente ancorata ad una prescrizione normativa e ad un preciso dispositivo di potere maschile, è espressa chiaramente da Creonte (cf. ivi, vv. 639-680). 52 53
132 Attilio Bragantini L’atto di Antigone è, in realtà, ambiguo sin dall’inizio: non si tratta soltanto del gesto ardito di seppellire il fratello, ma dell’atto verbale nel momento in cui risponde alla domanda di Creonte. Perciò il suo è un atto nella sfera del linguaggio. Rendere pubblico un atto nel linguaggio è in un certo senso il compimento dell’atto stesso, ma è anche il momento in cui Antigone è coinvolta nell’eccesso maschile detto hybris. […] In verità, ciò che conferisce forza a questi atti verbali è l’operazione normativa di potere che essi incarnano senza compiersi pienamente. Antigone giunge, quindi, ad agire in modi che sono definiti da uomo non solo perché agisce in aperta sfida della legge, ma anche perché assume la voce della legge quando agisce contro la legge56.
Vediamo innanzitutto come si dà, nel dramma di Sofocle, l’atto della confessione. Portata al cospetto di Creonte dalla guardia che l’ha colta in flagranza e rispondendo ad una domanda diretta del re («[…] ammetti o neghi di averlo fatto?»), Antigone dice: «affermo di averlo fatto e non lo nego»57. Butler nota come tale affermazione sia solo apparentemente perentoria. In realtà la figlia di Edipo non dice «Io confesso», ma «Io dico che l’ho fatto», servendosi dei verbi φημί (dico, affermo) e δρᾶν (fare) e di una doppia negazione, che è dunque un’ammissione solo indiretta (non lo nego). Potremmo dunque parlare, utilizzando un’espressione di Foucault, di quasi-confessione58. Per Butler non è secondario che l’atto linguistico di Antigone abbia questo carattere di parzialità: esso allude all’ambivalenza di Antigone. Il significato di questa ambivalenza è duplice. Da un lato, Antigone viola la legge e si comporta “come un uomo”, ma senza identificarsi con una posizione di genere, mantenendo invece la propria duplicità. Antigone non giunge dunque a compiere fino in fondo un atto di ὕβρις maschile e ciò a sua volta per due ragioni. La prima è che Antigone non contrappone altre leggi all’editto di Creonte: i principi in nome dei quali agisce sono infatti non scritti, mai dicibili, e in ogni caso Antigone non se ne fa carico in toto. Così, anche sostenere, come fa Hegel, che la Labdacide rappresenterebbe l’eticità del rapporto familiare contrapposta al rispetto di una legge universale è per Butler erroneo, giacché non è una pietas familiaJ. Butler, La rivendicazione di Antigone, cit., p. 24. Sofocle, Antigone, cit., vv. 442-43 (trad. it. modificata). 58 Foucault utilizza l’espressione quasi-confessione (quasi-aveu) per designare l’ammissione indiretta della sua colpa tramite il rifiuto del giuramento da parte dell’eroe omerico Archiloco. Cfr. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., p. 32. 56 57
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re indifferenziata che anima Antigone, ma la vista del cadavere di questo fratello, Polinice, e solo in questo caso ella è intenzionata a trasgredire il νόμος, e in nessun altro59. Nei termini di Butler, Antigone opera in base ad una catacresi60 della legge, ovvero sulla base di un riferimento, che struttura l’azione, a un contenuto normativo che non può essere espresso. Per questo, dunque, il gesto di Antigone è e non è una violazione della legge. Da questa modalità catacretica di contrapposizione all’editto di Creonte deriva la seconda ragione per la quale l’atto di Antigone non si può configurare pienamente come una trasgressione: Antigone, per poterla contestare, rimane all’interno della norma, accettando, sino alla pena capitale, che al suo comportamento siano poste le stigmate del crimine. In tal senso ella assume, per Butler, la figura di una «voce che entra nel linguaggio della legge per spezzarne i meccanismi univoci»61. In effetti Antigone dopo aver seppellito e successivamente riseppellito Polinice, accetta di essere condotta al cospetto di Creonte e si sottopone al suo interrogatorio e, pur non condividendola, alla punizione prescritta. Questa attitudine ci conduce all’altro lato dell’ambivalenza di Antigone. In effetti, perché vi sia messa in crisi della norma, è necessaria appunto una “voce”, cioè un atto di linguaggio. Come ha scritto Lorenzo Bernini, «secondo Butler, Antigone non rappresenta la purezza del femminile fuori o contro le leggi dello stato, ma è figura “scandalosamente impura”, la cui rivendicazione particolare, inassimilabile alla sovranità statale, non può che essere avanzata pubblicamente al cospetto della sovranità statale»62. Giungiamo così a comprendere appieno la portata della quasi-confessione di Antigone. Le scarne parole di assenso, indirette e parziali, non si limitano infatti a commentare l’esecuzione del seppellimento o a rispondere all’interrogatorio: esse performano l’atto compiuto. Riferendosi alla teoria degli atti linguistici di Austin, Butler sostiene che la “confessione nel linguaggio” di Antigone è dunque non un atto perlocutorio, ma un atto illocutorio63. Cfr. Sofocle, Antigone, cit., vv. 450-470. La catacresi è una figura retorica nata da una metafora (non più percepita come tale) adottata in una lingua per designare qualcosa per cui essa non possiede un termine proprio, come per esempio nell’espressione «la gamba del tavolo». 61 J. Butler, La rivendicazione di Antigone, cit., p. 94. 62 L. Bernini, Riconoscersi umani nel vuoto di Dio. Judith Butler, tra Antigone e Hegel, in Id.–O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione, cit., p. 19. 63 Cfr. J. Butler, La rivendicazione di Antigone, cit., pp. 85 e 88, e J.L. Austin, Come fare cose con le parole, cit. 59 60
134 Attilio Bragantini La confessione dice ciò che fa, lo fa dicendolo: perché l’atto con cui la figlia di Edipo onora il fratello perito si compia appieno, esso deve entrare in un’operazione linguistica. Tale operazione è prodotta nella situazione di collegamento chiasmatico di Antigone con Creonte. Per questa ragione l’atto verbale della prima ha un risultato altrettanto chiasmatico: […] Antigone afferma se stessa appropriandosi della voce dell’altro, colui al quale si contrappone. Essa conquista, così, la propria autonomia appropriandosi della voce autorevole di colui cui resiste, un’appropriazione che reca in sé le tracce di un rifiuto e, al contempo, di un’assimilazione di quella stessa autorità. […] Antigone non può avanzare la sua rivendicazione al di fuori del linguaggio dello Stato, né la sua rivendicazione può essere completamente assimilata dallo Stato stesso64.
Butler ci invita a leggere nell’affermazione di Antigone il compimento di una complessa performance, di un “dramma” nel senso etimologico. L’azione linguistica di Antigone non indica il seppellimento, ma ne completa la portata. Esso sfida le leggi maschili della polis. Eppure il senso di questa sfida è chiarito proprio nell’atto linguistico: Antigone adotta, assume il linguaggio delle norme, autodenunciandosi all’interno di esse e così denunciando esse stesse. In altri termini, prendendo la parola (φημί) durante l’interrogatorio, Antigone, da un lato, si lascia condurre dal procedimento normativo dell’inchiesta e giunge così alla confessione che esso richiede: dall’altro, proprio confessando, non oblitera il proprio atto, ma lo performa. Fa parte del suo atto il giungere a denunciarlo. Senza questa affermazione, il suo atto rimarrebbe espunto dall’ordine normativo che vuole contestare, come in fondo esso è all’inizio della tragedia, quando non se ne conosce l’autore. È la confessione, più che il seppellimento in quanto tale, ad innescare il rivolgimento tragico. La confessione porta in sé l’ambivalenza di Antigone: essa, in quanto atto illocutorio, opera la sua sottomissione al linguaggio e al potere della norma, ed è dunque un sacrificio di autonomia. Al contempo questa «eteronomizzazione» di Antigone produce un rimescolamento delle carte. Non solo la netta separazione e assegnazione del genere sulla base dei corpi è erosa dal suo interno (Antigone agisce «come un uomo», Creonte si comporta «come una donna»), ma la catacresi delle leggi divine mai 64
J. Butler, La rivendicazione di Antigone, cit., pp. 25 e 44.
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enunciabili, manifestandosi a contrappelo della norma dello Stato, la mette in discussione. Non solo Emone, erede al trono e vano promesso sposo di Antigone, ma lo stesso popolo si pone dalla parte di quest’ultima, minando in tal modo l’ordine normativo della sovranità65. Butler dopo Foucault: veridizione e vulnerabilità La lettura di Antigone nelle Wellbeck Library Lectures sembra dunque indicare, anche a partire da questi parziali accenni, come per Butler il dramma metta in pratica una complessa operazione performativa, che ha al centro l’atto linguistico della confessione. Il senso di questa operazione sta in un’ambivalenza (in rapporto al genere, alle norme, allo stesso atto di parola) che non è mai sciolta: è anzi in essa che gli atti di Antigone si installano, rappresentando così una peculiare forma di resistenza al potere, che entra in esso, e quindi almeno in parte lo accetta, lo ammette (e tale ammissione strategica è parte della confessione) per contestarlo. Questa resistenza ambivalente al potere ci rinvia così ad una questione che in questo ciclo di letture rimane sullo sfondo: l’esperienza di assoggettamento/soggettivazione che La vita psichica del potere aveva indicato come l’ambito di esercizio dell’agency per ciò stesso non è soltanto il terreno per una resistenza interna al potere normativo, ma anche quello di una produzione di soggettività. Più chiaramente ancora: l’atto linguistico di Antigone non performa soltanto una relazione di potere, ma mette in atto una manifestazione di verità. Antigone dice che cosa ha fatto e chi è. Il valore di veridizione di sé della confessione emerge con maggiore rilevanza nella lettura di Antigone proposta in Undoing Gender. Il contesto dell’intervento è quello di una rilettura della confessione in un quadro psicanalitico. Butler mobilita il pensiero di Foucault come contributo fondamentale alla genealogia della psicanalisi, che discenderebbe dalla pratica confessionale dell’Antichità tardiva e soprattutto del cristianesimo66. È in questo contesto che la filosofa riprende le ricerche foucaultiane sulla confessione, con particolare riferimento alla «svolta» degli anni ottanta. Il testo di riferimento di Butler sono le due lezioni al Dartmouth College Cfr. il dialogo tra Emone e Creonte nel terzo episodio, vv. 631-780 (in part. vv. 692-695 e 733). 66 Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, cit., p. 193 (ed. orig., p. 161). 65
136 Attilio Bragantini dal titolo About the Beginning of the Hermeneutics of the Self67, pronunciate da Foucault nell’autunno 1980, quindi tra i corsi Du gouvernement des vivants e Mal faire, dire vrai. Butler rileva come Foucault abbia operato un’autocritica che lo porta a vedere nella confessione non la rivelazione di desideri profondi (come nel primo volume della Storia della sessualità), ma una trasformazione del sé e del suo modo di vita. La confessione si presenta dunque come forza di verità. È così che la pensatrice brevemente ripercorre le emergenze della confessione analizzate da Foucault, riferendosi in particolare al processo di verbalizzazione proprio alla disciplina del monachesimo medievale68, che così commenta: Questa versione [della confessione] rivelerebbe dunque che la precedente affermazione di Foucault sulle caratteristiche di dominio e di controllo del potere pastorale sia stata screditata. […] Non si tratta di stanare i desideri ed esporre al pubblico la loro realtà, ma piuttosto di creare una propria verità attraverso l’atto stesso della verbalizzazione. Il primo esempio poggia su un’ipotesi repressiva; il secondo sottolinea invece la forza performativa dell’enunciato espresso69.
Benché Butler ci paia rintracciare una discontinuità troppo profonda tra le ricerche foucaultiane sulla confessione degli anni settanta e ottanta (le prime delle quali non posso essere configurate come «ipotesi repressiva», che è proprio ciò che Foucault si incarica di superare) e benché il filosofo, come abbiamo visto, preferisca definire la confessione un atto «drammatico» che un performativo, siamo davanti ad un punto di svolta nella lettura butleriana. La confessione e la sua forza performativa sono ora pensate come forza di verità. In tal senso, la relazione di potere nella quale la confessione è possibile è compresa anche come atto di trasformazione del sé: «la confessione […] “cambia il soggetto”»70 tramite una messa in discorso della propria verità. M. Foucault, About the Beginning of the Hermeneutics of the Self: Two Lectures at Dartmouth (1980), in «Political Theory», vol. 21, n. 2 (maggio 1993), pp. 198-227; trad. it. Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, Napoli 2012. 68 Il tema della pratica che Foucault chiama exagoreusis monastica è diffusamente trattata nei corsi che precedono e seguono le lezioni al Darmtmouth College: cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., pp. 247-313; Id., Mal faire, dire vrai, cit., p. 123-198. 69 J. Butler, La disfatta del genere, cit., pp. 195-196 (ed. orig., p. 163). 70 Ivi, p. 202 (ed. orig., p. 170). 67
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Questo arricchimento nella lettura della portata della confessione si rivela anche nella breve ripresa di Antigone. Benché in La disfatta del genere Butler si riallacci sostanzialmente alle Welleck Library Lectures, sembra anche far slittare la sua analisi verso un altro punto di vista. La domanda che si pone è legata al rapporto tra confessione e colpevolezza. Antigone diviene più colpevole nel momento in cui confessa? Ciò porta la filosofa a considerare di nuovo il rapporto che ella instaura con Creonte. Non si tratta soltanto dell’ambivalenza di fronte alla norma della polis di cui Butler si era occupata in precedenza, ma del rapporto che si instaura tra Antigone e Creonte: «lei si confessa con e davanti a lui, in modo che egli diventi il pubblico per il quale la sua confessione è intesa, colui per il quale è concepita, colui che deve accoglierla. Quindi Antigone ha bisogno della sua presenza, pur contestandolo aspramente»71. La «struttura» dell’atto confessionale, che ci richiama quella delineata da Foucault in Mal faire, dire vrai, segnala l’instaurarsi di un rapporto tra colei che confessa e colui al quale la confessione è dovuta. L’ambivalenza del processo di assoggettamento/ soggettivazione è così riformulata, tramite l’atto linguistico compiuto, in una resistenza al potere normativo tramite la veridizione di sé. Il bind of agency è anche un legame di verità. Questo spunto che ci pare di rintracciare in Undoing Gender ci conduce verso un quadro più complesso entro cui è possibile pensare il rapporto del soggetto al potere in Butler, sulla scorta del suo confronto con Foucault. La rivendicazione di Antigone è prodotta dal potere maschile dell’editto di Creonte, cui ella risponde tramite un atto linguistico che, assumendo la norma, la contesta tramite la forza della propria verità. Antigone al contempo è vulnerabile al potere (che le impedisce di seppellire il fratello) e si costituisce come soggetto vulnerabile tramite un atto performativo che non oblitera, ma rivendica la propria vulnerabilità, il suo essere al contempo ferita, dunque interna al potere, ma resistente, dunque non assimilabile alla norma. Butler pare toccare tale questione laddove giunge ad occuparsi non solo dell’assoggettamento, ma della produzione di soggettività vulnerabili alle norme e alla violenza, come nel caso del lutto e dell’ingiuria. Concludendo il presente lavoro, ci limitiamo a rinviare a una delle risposte elaborate da Butler nei confronti della vulnerabilità del soggetto, ovvero gli atti linguistici con cui questi stessi soggetti dicono chi sono e che cosa 71
Ivi, p. 199 (ed. orig., p. 167).
138 Attilio Bragantini hanno vissuto, nei termini di atti di confessione che trasformano i soggetti stessi e li “umanizzano”. Questo sembra particolarmente vero laddove il discorso pubblico è il luogo dell’assoggettamento e della violenza. La violenza pubblica linguistica si produce tramite l’insulto e la discriminazione. Questi atti sono affrontati da Butler già in Excitable speech del 199772, in cui l’autrice si serve delle espressioni «vulnerabilità» o «dolore linguistico» in analogia alla condizione dell’essere fisicamente feriti: Sembra non esserci un linguaggio specifico rispetto al problema dell’offesa linguistica, che è costretto, per così dire, a derivare il proprio vocabolario da quello che fa riferimento al danno fisico. In questo senso, sembra che il nesso metaforico tra la vulnerabilità linguistica e quella fisica sia essenziale alla descrizione della vulnerabilità linguistica stessa. […] Non solo certe parole e certi titoli funzionano come minacce al benessere fisico di una persona, ma c’è anche un senso forte in cui il corpo è alternativamente rafforzato e minacciato attraverso modalità diverse di attribuzione di un nome73.
L’atto di parola ingiurioso (in Parole che provocano Butler analizza il linguaggio razzista e omofobo) mostra la capacità di agire del linguaggio, che può accumulare un potere che ferisce attraverso degli appellativi. Ma il risultato dello hate speech non è solamente la vulnerabilità di un individuo, ma la costituzione di una soggettività attraverso l’assoggettamento al nome offensivo. L’ingiuria inaugura una «condotta verbale (verbal conduct)»74 (significativa l’assonanza terminologica con Foucault) che si rivolge al modo di vita del soggetto insultato. Ma così, dato che essa vuole escludere tale soggetto o comunque farlo soffrire, gli dona una forma inaspettata di esistenza, perché lo situa in una condizione pubblica, per quanto ingiuriosa. Nell’insulto si tratta per Butler di un’interpellazione dell’altro: anche se è un’interpellazione offensiva, essa abilita il suo oggetto ad essere soggetto e in tal modo essa «corre il rischio di inaugurare nel parlare un soggetto che finisce per usare il linguaggio al fine di opporsi a quel nome»75. Butler propone di rovesciare la performatività dell’ingiuria giocandola contro l’intenzione del soggetto che l’ha indirizzata e dunque contro la J. Butler, Excitable Speech. A Politics of the Performative, Routledge, London 1997; trad. it. Parole che provocano. Per una politica del performativo, Cortina, Milano 2010. 73 Ivi, p. 6 (il corsivo è mio). 74 Ivi, p. 101. 75 Ivi, p. 3. 72
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norma sulla base della quale l’insulto è stato prodotto. Si tratta, ancora una volta, di una resistenza fondata sulla reiterazione del potere normativo, ciò che in Excitable Speech Butler definisce ambivalenza promettente della norma: […la] contraddizione performativa […] prende forma quando […] una persona che è esclusa dall’universale, eppure appartiene comunque ad esso, parla a partire dalla condizione divisa dell’essere allo stesso tempo autorizzata e non autorizzata. […] Quel parlare non è solo una semplice assimilazione a una norma esistente, perché quella norma è fondata sull’esclusione di colui o colei che parla e le cui parole mettono in questione la fondazione dell’universale stesso. Parlare e far vedere l’alterità all’interno della norma […] mostrano il fallimento della norma nel produrre l’ambito universale che essa permette76.
Il soggetto vulnerabile alla norma può prendere la parola contro la norma dal suo interno. Ma ci pare che quello che Butler sta indicando già in questo saggio (pur non intendendolo esplicitamente in questo modo), sia una pratica che non può che essere intesa come un atto di veridizione di sé, come una confessione pubblica che, come la rivendicazione di Antigone, reitera la propria verità all’interno della norma che la agisce per metterla in discussione. Un esempio di questa pratica affrontato nel libro è quello del comingout omosessuale. Esso può essere inteso come un atto performativo di dire-il-vero su di sé che, specie dinnanzi ad appellativi ingiuriosi e a norme discriminanti, vi risponde a partire della convocazione alla quale l’omosessuale è chiamato/a. Nel coming-out si dice la verità su di sé, chi si è, mettendo in rilievo il fatto che essere omosessuale «non può essere sostenuto senza tale dire e senza tale esibizione e la pratica discorsiva dell’omosessualità è indissociabile dall’omosessualità stessa»77. A partire da questi accenni, che delineano in Butler un pensiero etico-politico della vulnerabilità, la centralità dell’atto della confessione può dunque essere pensata come uno sviluppo delle intuizioni di Foucault nelle sue indagini sulle condotte e gli atti di verità. L’ambivalenza in cui si giocano questi atti linguistici è allora per entrambi, come ha sottolineato Guillaume Le Blanc in relazione a Butler, quella del rapporto tra formazione del sé e costituzione a partire da un “fuori di sé”: 76 77
Ivi, pp. 129-130. Ivi, p. 135.
140 Attilio Bragantini Riconoscere l’assoggettamento come un processo integrale di formazione di “sé” generato dalla subordinazione a un potere, significa sottolineare come il “sé” sia attaccato ad un “fuori di sé” di regole, procedure, relazioni di potere che gli conferiscono leggibilità e visibilità. In questo possiamo vedere un paradosso, ma è un paradosso che è all’opera nell’eventualità della ferita e nella vita precaria: il “sé” è prodotto a partire da ciò che lo eccede e che può negarlo78. Attilio Bragantini Università degli Studi di Padova attilio.bragantini@gmail.com
. Precarious Confessions. Veridiction of the Self and Vulnerability to Norms in Michel Foucault and Judith Butler This paper aims to stress the influence of Michel Foucault’s thought on Judith Butler’s researches on confession. It starts by putting Foucault’s analysis of confession in the framework of his inquiries about power and subjective constitution, considering the methodological changes they went through between the 70s and the 80s. It especially focuses on Foucault’s works of the 80s, where confession is understood as a form of conduct through acts of dire-vrai. The ambivalence of the notion of conduct, producing both subjection and subjectivation, is the starting point of Butler’s retake of Foucault. Then, the paper works on Butler’s readings of Antigone’s confession, of which she gives a twofold interpretation: on the one hand, she reads it as a form of resistance to power through a verbal claim of a behavior in opposition to norms and, on the other hand, as a performative act having the force of truth. Given these premises, the paper finally shows how the analysis conducted by Butler of some verbal acts of truth performed by linguistically vulnerable subjects supplies a chance to read the impact of confession beyond Foucault’s thought. Keywords: Foucault, Butler, Confession, Truth, Subject, Power, Performative.
G. Le Blanc, La vie hors de soi, in Id.–F. Brugère (a cura di), Judith Butler. Trouble dans le sujet, trouble dans les normes, Presses Universitaires de France, Paris 2009, p. 113. 78
Soggetto, potere, discorso
Da Foucault a Butler, passando da Bourdieu Philippe Sabot
Per rendere più esplicita la posta in gioco complessiva delle analisi che
seguiranno, partiremo dal modo in cui Étienne Balibar, in La paura delle masse1, propone di definire ciò che egli chiama differenti «concetti della politica», ovvero delle categorie che permettono di pensare la pratiche politiche. Prenderemo in considerazione soprattutto i primi due concetti, ereditati direttamente dal pensiero di Marx (il terzo concetto, quello della «civiltà» (civilité), riguarda qui un uso specifico che ne fa Balibar stesso)2. Il primo concetto è quello di emancipazione, da intendere nel senso di una rivendicazione di autonomia (da parte di gruppi di individui, di popoli). Il secondo concetto è quello di trasformazione. Quest’ultimo appare chiaramente presente nell’undicesima Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo»3. Questo secondo concetto implica immediatamente, come suo correlato funzionale, un’analisi delle condizioni in cui può prodursi tale trasformazione. Tutto avviene come se il nostro modo di pensare la politica dopo Marx (ma anche secondo Marx) si trovasse polarizzato tra i due concetti di emancipazione e di trasformazione. Balibar propone infatti di distinguere questi due concetti dal punto di vista delle operazioni politiche É. Balibar, La Crainte des masses. Politique et philosophie avant et après Marx, Galilée, Paris 1997; trad. it., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, a cura di A. Catone, Mimesis, Milano 2001. Dobbiamo ad Hervé Oulc’hen il fatto di aver attirato la nostra attenzione su questo testo di Étienne Balibar grazie alle pagine iniziali della sua tesi di dottorato dedicata a L’Intelligibilité de la pratique : entre Sartre et Foucault (tesi sostenuta a Bordeaux 3 nel novembre 2013), cfr. in particolare le pp. 35-36 che verranno riprese in questa sede. 2 Cfr. in particolare, É. Balibar, Violence et civilité. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Galilée, Paris 2010, Première partie, 3ème conférence : «Stratégies de civilité », pp. 143 e ss. 3 K. Marx, Thèses sur Feuerbach, (Thèse 11), in Marx 1845. Les « Thèses » sur Feuerbach, a cura di P. Macherey, Editions Amsterdam, Paris 2008, p. 219; trad. it. Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969, pp. 187-190. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 141-163.
142 Philippe Sabot che oggi essi descrivono. Così, il concetto di emancipazione sostiene il pensiero di una pratica politica a venire, nell’orizzonte escatologico di un aldilà4. Il concetto di trasformazione rinvia invece a quel che Balibar chiama una «politica dell’al di qua»5, ovvero all’idea di un’innata «eteronomia della politica»: così, «per Marx, esemplarmente, non vi è politica (“fare la storia”) che in (o sotto) condizioni determinate (Umständen, Bedingungen, Verhältnissen), nelle quali gli individui e i gruppi “entrano” perché sono sempre già posti. Queste condizioni, ben lungi dall’abolire la politica, la definiscono invece intrinsecamente e le conferiscono la sua realtà»6. Se oggi questa diade concettuale (emancipazione-trasformazione) si appoggia all’undicesima tesi di Marx su Feuerbach (non interpretare il mondo come fanno i filosofi, ma trasformarlo – con altri mezzi che non siano la filosofia?), ci si accorgerà che il concetto di emancipazione ha qualcosa in comune con un certo idealismo – specialmente quando esso stabilisce, come norma dell’azione politica, un valore superiore come la libertà o l’eguaglianza – mentre l’operatività del concetto di trasformazione ha una base chiaramente materialista: questo significa che, come minimo, la sua operatività si situa nel mondo, nel bel mezzo del mondo e dei suoi dispositivi materiali, sociali, economici, istituzionali. È questa prospettiva, quella di una politica eteronoma, “sotto condizione”, che Balibar suggerisce, mentre l’itinerario di Foucault, in particolare la sua comprensione del potere, s’inscrive piuttosto nello sviluppo del paradigma materialista della trasformazione. La questione che si pone è quindi di sapere in che misura Foucault si discosta dal concetto propriamente marxiano di trasformazione (come viene analizzato da Balibar)7. La prospettiva foucaultiana ritorna infatti a prendere in considerazione il fatto che «il conflitto storico Secondo Hervé Oulc’hen, i lavori di Jacques Rancière si collocano nell’orbita di questa politica dell’emancipazione, allorché cercano di pensare «un incondizionato nella fattispecie di una “parte dei senza parte”, al di là delle divisioni materiali e identitarie istituite nell’ordine sociale», cfr. H. Oulc’hen, L’Intelligibilité de la pratique, cit., p. 36. 5 É. Balibar, La paura delle masse, cit., p. 15. 6 Ibidem. 7 A proposito di Marx, Balibar precisa che la posizione di una politica trasformatrice delle sue proprie condizioni «non ha niente a che vedere con una liquidazione dell’autonomia dei soggetti della politica (nominatamente: del “popolo”). È anche l’inverso: la politica di Marx ha, al pari della politica di emancipazione, il fine di istituire l’autonomia dei suoi soggetti, ma se lo rappresenta come un risultato del proprio movimento e non come un presupposto»; ivi, p. 16. 4
Soggetto, potere, discorso 143
è sempre già inerente ai rapporti di potere»8, ovvero rinvia non tanto alla contraddizione tra i gruppi sociali o tra le classi sociali e alla dialettizzazione di questa contraddizione (nell’orizzonte di una totalizzazione della Storia), quanto piuttosto alla dimensione di trasformazione immanente che anima queste relazioni di potere e che parimenti le costituisce. Questo non significa che non vi siano più lotte, al contrario! Ma è la natura di queste lotte, “immediate” se si vuole, che merita di essere precisata se vogliamo comprendere la natura della trasformazione delle relazioni di potere, all’interno delle relazioni di potere, che caratterizza la prospettiva politica di Foucault. Per farlo nel prolungamento delle nitide osservazioni di Balibar, ci baseremo in un primo tempo sulle sintetiche proposizioni che si trovano raccolte nei due saggi di Il soggetto e il potere, pubblicati nel 1983 in appendice all’opera di Hubert Dreyfus e di Paul Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics9. Quello che allora appare è che «la distanza tra le condizioni e la trasformazione è ridotta al minimo: esse divengono contemporaneamente le une dell’altra […] le condizioni di esistenza che si tratta di trasformare sono fatte della stessa materia della pratica della trasformazione stessa [e fanno] parte di una rete infinita di “relazioni dissimmetriche” tra la potenza degli uni e quella degli altri, i domini e le resistenze»10. Tuttavia, in un secondo tempo, vorremmo ugualmente mettere alla prova questo paradigma politico della trasformazione re-inscrivendo le analisi foucaultiane sul soggetto e il potere – cioè sulle relazioni di potere in quanto definiscono delle modalità reversibili di assoggettamento e di soggettivazione – all’interno di una riflessione che prenda in considerazione la dimensione discorsiva di tali relazioni di potere. A sua volta, questo significa che la presa del potere sul soggetto è una presa discorsiva, dunque Ivi, p. 20. M. Foucault, The Subject and the Power, in H. Dreyfus & P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982, ora in M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris (1994), 2001, vol. II, pp. 1041-1062 (edizione da cui citiamo); trad. it. Il soggetto e il potere, in H. Dreyfus & P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, a cura di D. Benati, M. Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 235-254. [La versione inglese di questo testo di Foucault differisce (talvolta sensibilmente) da quella francese contenuta nei Dits et écrits (versione citata dall’autore). Dal momento che la traduzione italiana segue la versione inglese, nella presente traduzione ci siamo distaccati dalla versione italiana ogniqualvolta essa non corrisponde ai brani della versione francese citati dall’autore, NdT.] 10 É. Balibar, La paura delle masse, cit., p. 19. 8 9
144 Philippe Sabot che il potere, nella sua maniera di legarsi ai soggetti, di esercitarsi attraverso i soggetti, nelle relazioni tra soggetti, si manifesta nell’ordine del discorso, che è un ordine pratico – e significa pure che il discorso è in larga parte la posta in gioco delle lotte di potere. Ovvero, esso merita di essere inteso come una modalità dell’assoggettamento del soggetto, ma forma allo stesso tempo il luogo di pratiche di soggettivazione che sono, o possono essere, pratiche di resistenza all’assegnazione discorsiva del soggetto. Dunque, non si tratta solamente di considerare, con Foucault, certe poste in gioco che attualmente riguardano la questione del potere, ma di indicare, partendo dalla ripresa e da qualcuno degli sviluppi che Judith Butler ne ha fornito – in particolare in Parole che provocano (Excitable Speech)11 – tanto lo spostamento quanto il rinnovamento di tale questione, dal momento che Butler si è cimentata con la dimensione discorsiva e linguistica dell’esercizio del potere (soprattutto relativamente alla censura). Questa dimensione è d’altronde presa in considerazione dallo stesso Foucault, nella sua conferenza inaugurale al Collège de France, L’ordine del discorso12. Per interrogare le relazione tra soggetto, potere e discorso, si tratterà di riprendere su un altro livello – principalmente tramite un confronto con il tema bourdieusiano del «linguaggio autorizzato» e dell’autorità del linguaggio – la questione che dà il titolo al secondo saggio di Foucault che poco sopra si citava: Come si esercita il potere?13. Ci proponiamo di riformulare tale questione, esaminando direttamente le condizioni discorsive dell’esercizio del potere: il potere può esercitarsi senza rivolgersi ai soggetti? In che modo tale atto di rivolgersi lega il soggetto al potere? Come il soggetto può situarsi rispetto a questo atto di rivolgersi (adresse) che in una certa maniera lo costituisce? Quali sono quindi le condizioni di una trasformazione di questo atto di rivolgersi e, con essa, delle relazioni discorsive di potere in cui il soggetto sembra essere sempre già “preso”? J. Butler, Excitable Speech. A Politics of the Performative, Routledge, New York 1997; trad. it. Parole che provocano. Per una politica del performativo, a cura di S. Adamo, Raffaello Cortina, Milano 2010. [Nei successivi riferimenti a questo testo di Judith Butler talvolta ci siamo leggermente discostati dalla traduzione italiana affinché alcuni passaggi di questo articolo potessero aderire meglio alle argomentazioni proposte dal suo autore in base alla traduzione francese che egli utilizza, NdT.] 12 M. Foucault, L’Ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, a cura di A. Fontana, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 11-41. 13 M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., pp. 245-254. 11
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Un agonismo delle relazioni di potere Per fissare un punto di ancoraggio del pensiero politico di Foucault all’interno della matrice concettuale della trasformazione, prenderemo dunque come punto di partenza l’analisi dei due saggi di Foucault su Il soggetto e il potere. Questi testi si inscrivono dentro l’orizzonte di una duplice preoccupazione: si tratta innanzitutto di ridefinire il potere a partire dal soggetto, ovvero a partire dalle forme congiunte, strettamente correlate, di assoggettamento e di soggettivazione che esso produce; in seguito si tratta di mostrare che questo nuovo rapporto del soggetto al potere porta con sé possibilità di resistenza, di lotte strategiche che costituiscono la realtà e la positività delle relazione di potere, e praticamente porta quindi a termine la revisione di una concezione giuridica, soltanto negativa, del potere. In La volontà di sapere, Foucault ha chiaramente girato le spalle a questo modello giuridico del potere che ha il difetto di mettere uno di fronte all’altro il potere e il soggetto, e di considerare pertanto il rapporto tra il soggetto e il potere solo in maniera univoca, essenzialmente dal punto di vista dell’obbedienza e della sottomissione del primo al secondo sotto la costrizione della legge: «Potere legislatore da una parte e soggetto obbediente dall’altra»14. In questo senso, affermare, come fa Foucault all’inizio del suo primo testo, che «non è il potere a costituire il tema generale delle mie ricerche, ma il soggetto»15, significa che non si può comprendere il soggetto, le sue forme di oggettivazione e di soggettivazione, partendo dal potere, e facendo come se “il potere” esistesse nel senso di una realtà che si può reperire e identificare attraverso un certo numero di dispositivi giuridici e istituzionali, incarnati ad esempio nella sovrastruttura dello Stato. Per studiare il potere, si deve piuttosto analizzarne gli effetti per come si radicano «nel profondo del legame sociale»16, al livello infra-istituzionale della vita in società e delle relazioni sociali: «Le relazioni di potere sono radicate nella rete sociale»17. Secondo questa prospettiva relazionalista e dal momento che si è rinunciato allo schema astratto di una sottomissione passiva del soggetto M. Foucault, La Volonté de savoir. Histoire de la sexualité 1, Gallimard, Paris 1976, p. 112 ; trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, a cura di P. Pasquino & G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, p. 76. 15 M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 237. 16 Ivi, p. 250. 17 Ivi, p. 251. 14
146 Philippe Sabot all’ordine sovrano del potere e all’esercizio della sua violenza legittima, si vede profilarsi un’attività propria del “soggetto” che diventa parte in causa del processo all’interno del quale è elaborato e definito come soggetto: Ciò che definisce una relazione di potere è un modo di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri. Al contrario agisce sulle loro azioni: un’azione su un’azione, su azioni attuali, oppure su azioni eventuali, future o presenti. Un rapporto di violenza agisce su un corpo o sulle cose; esso forza, sottomette, tortura, distrugge, o impedisce ogni possibilità. Il suo polo opposto può essere soltanto la passività; e se urta contro una qualsiasi resistenza, non ha altra possibilità che tentare di ridurla. Per contro, una relazione di potere può soltanto essere articolata sulla base di due elementi che le sono indispensabili per essere propriamente una relazione di potere: che l’«altro» (colui sul quale viene esercitato il potere) sia interamente riconosciuto e conservato fino all’estremo come soggetto che agisce; e che, di fronte ad una relazione di potere, tutto un campo di risposte, di azioni, di reazioni, di effetti e possibili invenzioni, possa essere aperto18.
Questo brano tratto dal secondo saggio di Foucault permette di cogliere meglio la natura delle relazioni di potere e il ruolo che vi giocano i soggetti. Innanzitutto, si nota come la forma generale di queste relazioni può esplicitarsi a partire da ciò che, nel corso Sicurezza, territorio, popolazione19, è stato definito come “governamentalità”. Infatti, dire che il potere non costringe ma conduce, controlla, regola una molteplicità aperta di azioni, reali e virtuali, presenti o future, significa che il suo esercizio è dell’ordine del “governo”, inteso qui in senso ampio: governare, vuol dire proprio agire sulle azioni (possibili) degli altri, e più precisamente «strutturare il campo di azione possibile degli altri»20. Ma questa “strutturazione” non si impone dall’esterno a soggetti passivi che ne sarebbero soltanto il punto di applicazione. Al contrario, la governamentalità presuppone l’agency (agentivité) dei soggetti; implica che all’interno delle relazioni di potere vi sia direttamente la loro potenza di agire – intesa come potenza di mettere in relazione – e anche, come si vedrà, di mettere Ivi, p. 248. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2004; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005. 20 M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 249. 18 19
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in questione e di trasformare le stesse condizioni di operatività delle relazioni di potere. Da questa prospettiva, le pratiche soggettive non sono quindi riprese e ridotte da una serie di determinazioni oggettive, ad esempio, di ordine istituzionale. Al contrario, non solo esse sono mantenute e sostenute nelle loro dimensioni attive, ma è anche a partire da queste pratiche soggettive che i processi di assoggettamento diventano pienamente effettivi e intellegibili. La condotta dei soggetti, la loro maniera di condursi, e di problematizzare le proprie azioni, sono parte in causa del processo dell’assoggettamento – quest’ultimo deve allora essere inteso non nel senso della sottomissione unilaterale a una legge, ma in quello di un certo posizionamento attivo degli individui attraverso cui si costituiscono essi stessi come soggetti normati. Per essere pienamente operativo, l’assoggettamento implica dunque la libertà dei soggetti assoggettati, e deve riguardare soggetti liberi: Quando si definisce l’esercizio del potere come un modo di azione sulle azioni degli altri, quando si caratterizzano queste azioni attraverso il “governo” degli uomini da parte di altri uomini – nel senso ampio del termine – vi si include un elemento importante: la libertà. Il potere viene esercitato soltanto su “soggetti liberi”, e solo nella misura in cui sono “liberi”. Con ciò intendiamo individui e soggetti collettivi che hanno davanti un campo di possibilità in cui parecchi modi di condotta, numerose azioni, diversi tipi di comportamento, possano essere realizzati. Dove le determinazioni sono saturate, non c’è rapporto di potere: la schiavitù non è un rapporto di potere quando l’uomo è in catene (in questo caso si tratta di un rapporto fisico di costrizione) ma solo quando può muoversi e al limite scappare. Conseguentemente non c’è alcun affrontamento faccia a faccia di potere e di libertà che sia reciprocamente esclusivo (la libertà scompare ovunque il potere venga esercitato), ma un’azione reciproca molto più complessa. In questo gioco la libertà potrà certo apparire come la condizione di esercizio (d’existence) del potere (al contempo la sua condizione preliminare, dal momento che è necessario vi sia liberà affinché il potere venga esercitato, ed insieme il suo sostegno permanente, poiché se la libertà si sottraesse interamente al potere che si esercita su di essa, quest’ultimo cesserebbe per questo fatto stesso e si dovrebbe trovare un sostituto nella coercizione pura e semplice della violenza); ma essa apparirà anche come la sola a potersi opporre all’esercizio del potere che tende in fin dei conti a determinarla interamente21.
21
Ivi, p. 249 [trad. modificata].
148 Philippe Sabot In questo sorprendente passaggio, che potrebbe costituire una re-inscrizione cambiata di segno della dialettica servo-padrone (fissando probabilmente in parte lo schema generale di una politica dell’emancipazione), la libertà, l’esistenza di soggetti liberi, è quindi posta come condizione di possibilità e nello stesso tempo anche come limitazione sempre possibile dell’esercizio relazionale del potere, che essa condiziona e al contempo costituisce. Attraverso le loro azioni, questi soggetti definiscono un campo aperto di possibilità – rispetto al quale il potere si pone come obiettivo di “strutturare” in modo immanente, man mano che queste possibilità si producono nelle pratiche. Questa strutturazione non riguarda quindi un quadro giuridico fissato in anticipo, e non procede nemmeno con l’esercizio reattivo di una violenza repressiva; ma è precisamente contemporanea allo sviluppo della soggettività e delle libertà: essa si inventa volta per volta in seno allo sviluppo delle forze e dei loro rapporti, entro cui trova quindi le proprie condizioni di esercizio – che sono anche le sue condizioni di trasformazione possibile. Una tale analisi delle relazioni di potere che fa intervenire, come principio stesso della loro dinamica relazionale, la dimensione della libertà, di soggetti liberi, si inscrive in modo manifesto nello sviluppo delle ricerche intraprese da Foucault a partire dalla metà degli anni settanta, in particolare nei suoi studi dedicati al tema della governamentalità pastorale e al suo contrario: le “contro-condotte” (o ancora le “rivolte di condotta”), che hanno attraversato la storia del pastorato cristiano alla fine del Medioevo, acquisendo una particolare intensità nel sedicesimo secolo, con i movimenti riformatori e, infine, con la Riforma protestante. In una conferenza intitolata Qu’est-ce que la critique? (conferenza tenuta presso la Société française de philosophie nel maggio del 1978) in cui, in particolare, Foucault fa una rapida sintesi delle sue prime ricerche sulla questione della governamentalità (che è parimenti ripresa nel primo dei due saggi del 1982) e definisce esattamente quel che egli chiama l’«atteggiamento critico» come «l’arte di non essere eccessivamente governati»22, o ancora come l’«arte della disobM. Foucault, Qu’est-ce que la critique ? (Critique et Aufklärung), in «Bulletin de la Société française de Philosophie», 1990, 84e année/2, séance du 27 mai 1978, p. 38; trad. it. Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 38. Per un’analisi più dettagliata delle poste in gioco di questa conferenza del 1978, si rinvia alle precisazioni di F. Gros, Foucault et la leçon kantienne des Lumières, in «Lumières», n° 8 (2006), pp. 159-167; e al nostro articolo, Ph. Sabot, Critique, attitude critique, résistance, in Michel Foucault. À l’épreuve du pouvoir, a cura di E. Jolly & Ph. Sabot, PUS, Villeneuve d’Ascq 2013, pp. 9-23. 22
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bedienza volontaria, dell’indocilità ragionata»23. L’“atteggiamento critico”, per come Foucault cerca di pensarlo in questa conferenza (in margine alla critica kantiana), non disegna dunque un al di là delle relazioni di potere e del tipo di assoggettamento cui esse danno luogo. Tale atteggiamento definisce piuttosto una potenza di problematizzazione e di sovversione che trova la propria collocazione solo all’interno di queste relazioni di potere, delle quali si alimenta principalmente. Infatti, che sussistano potenzialità sovversive, persino insurrezionali, nel cuore del potere non deriva da un’incapacità del potere di assicurarne il controllo, dunque da un difetto del potere in quanto tale che, pertanto, potrebbe puramente e semplicemente essere rovesciato. Queste potenzialità sovversive, scaturite dal libero esercizio della pratica dei soggetti, si “compongono” in realtà con il dispositivo di potere che ne struttura la dinamica immanente. In questo senso, un tale dispositivo di potere costituisce non tanto una struttura fissa, con un polo attivo (la legge) e un polo passivo (il soggetto) quanto piuttosto un equilibrio instabile tra strutturazione e destrutturazione, tra condizionamento e decondizionamento, tra condizioni e trasformazione. Significa che la stabilizzazione del dispositivo di potere è sempre relativa, precaria, nell’esatta misura in cui le relazioni di potere non sono mai totalizzabili – o per dirla con un lessico sartriano, che la loro totalizzazione è anche sempre de-totalizzata, aperta su un divenire e su una contingenza storici. In sintesi, a proposito di un “fuori” che attualizza e destabilizza il suo contenuto spostando incessantemente il limite tra sottomissione e insubordinazione: Se è vero che al centro delle relazioni di potere, e come condizione permanente della loro esistenza, c’è una “insubordinazione” ed una libertà essenzialmente irriducibile, allora non c’è alcuna relazione di potere senza resistenza, allora non c’è alcuna relazione di potere senza resistenza, senza mezzi di evasione o di possibile fuga, senza capovolgimenti eventuali; ogni relazione di potere implica dunque, almeno virtualmente, una strategia di lotta, in cui tuttavia le due forze non giungono a sovrapporsi, non perdono la loro natura specifica, e infine non arrivano a confondersi. Ciascuna costituisce per l’altra una sorta di limite permanente, un punto di possibile rovesciamento […]. Infatti, fra una relazione di potere ed una strategia di lotta, c’è un’attrazione reciproca, un concatenamento infinito ed un rovesciamento perpetuo24. 23 24
M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 40. M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 253 [trad. modificata].
150 Philippe Sabot La stretta correlazione tra potere e insubordinazione, tra relazioni di potere e lotte strategiche, nella dimensione di un “agonismo” piuttosto che di un “antagonismo”25, non implica dunque la loro confusione, ma la loro trasformazione reciproca. Potere e libertà sono presi all’interno di una dinamica di rilancio e di limitazione reciproci che costituisce il crogiolo delle “relazioni di potere”, in quanto esse sviluppano, in modo immanente, possibilità di resistenza, focolai di instabilità del dispositivo, che sono d’altronde tanto più destabilizzanti e travolgenti allorché entrano in risonanza gli uni con gli altri, prendendo la forma “strategica” di una rete, di reti di resistenza e di contestazione. Questa rapida traversata all’interno della riflessione foucaultiana su Il soggetto e il potere permette dunque di far spazio all’idea, che spesso è stata attribuita a Foucault, di un potere che intrappola, ovvero non certo l’idea di un potere trascendente, ma comunque di un potere che è tanto più temibile ed efficace (dunque totalizzante) quanto più è mobile e diffuso, un potere che possiede la vocazione a insinuarsi fin nei dettagli più infimi e intimi della condotta individuale. Per Foucault, al contrario, sembra invece che l’efficacia del potere si trovi limitata esattamente dallo stesso fatto di regolare e di ordinare, ovvero dalla potenza di agire dei soggetti. Adesso mostreremo come questo quadro di analisi delle relazioni di potere, dell’esercizio relazionale del potere e della sua fragilità costitutiva, venga ripreso in modo originale da Judith Butler che ne sfrutta gli intenti trasformativi, basandosi su una riflessione politica sulle risorse del linguaggio. È nel corso di questa riflessione, centrata sulla duplice questione della costituzione discorsiva del soggetto e del potere della censura, che Butler incontra e discute certe posizioni di Bourdieu (e di Derrida) sulla performatività di certi atti linguistici, ovvero la loro capacità di realizzare quel che enunciano per il solo fatto di enunciarlo, o dal punto di vista degli effetti prodotti dalla loro enunciazione.
Ivi, p. 249 [trad. modificata]: «Nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza della volontà e l’intransigenza della libertà. Piuttosto che parlare di un “antagonismo” essenziale, sarebbe più opportuno parlare di un “agonismo” – di un rapporto che è al contempo di incitamento reciproco e di lotta; più che di un affrontamento faccia a faccia che paralizza entrambe le parti, si dovrebbe parlare di una provocazione permanente». 25
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L’esplicito, l’implicito e l’ordine del visibile L’analisi foucaultiana è ripresa da Judith Butler sui due versanti della produttività del potere e dell’instabilità costitutiva delle relazioni di potere, che viene interrogata a partire dalla costituzione discorsiva del soggetto all’interno delle relazioni di potere, per come in particolare si trova rivelata, in maniera problematica, nel caso dello hate speech e delle possibili reazioni contro tale discorso. Si noterà che questa ripresa viene effettuata a partire da un certo spostamento rispetto alle argomentazioni di Foucault. Infatti, se Butler concentra la propria attenzione sulle modalità discorsive del divenire-soggetto, la sua analisi si rivolge piuttosto su alcuni fenomeni tipici dell’esperienza sociale del linguaggio ordinario: quella che ci espone e quindi ci rende raggiungibili dall’ingiuria, dalla minaccia, e contro cui possono essere rivolte delle risposte politiche (soprattutto tramite l’esercizio giuridico di una censura di Stato – applicata a certe espressioni razziste, sessiste, omofobe). Per chiarire i termini della discussione, bisogna ricordare che il punto di partenza – e la posta in gioco – di questa analisi è duplice. Essa si rivolge da una parte a quel che Butler chiama la «vulnerabilità linguistica» dei soggetti, che è uno degli aspetti della loro vulnerabilità ontologica e costituisce il rovescio del «potere formativo del linguaggio»: il linguaggio ci ferisce solo perché siamo «esseri linguistici, esseri che hanno bisogno del linguaggio per poter essere»26. Ma, d’altro canto, tale analisi interessa ugualmente la natura e la strutturazione linguistica dell’atto di rivolgersi (adresse) – in quanto esso determina l’uso (politico) che può (o non può) esserne fatto: è qui che appare il tema e il problema della censura, nel contesto dei dibattiti statunitensi circa l’applicabilità del primo emendamento della Costituzione americana, che garantisce la libertà di espressione, nei casi di ingiuria a sfondo razzista, omofobo o sessista. Infatti, tutta la questione consiste nel sapere se queste ingiurie sono delle parole libere (protette nella loro espressione dalla Costituzione) o se si tratta di atti (che ricadono sotto l’azione della legge che può giustificarne la censura). Quindi, è lo statuto degli «atti discorsivi» che merita di essere spiegato, e, in particolare, il loro carattere performativo – che implica la “realizzazione” di ciò che viene enunciato, o nello stesso gesto dell’enunciazione (illocutorio), o come effetto di questa enunciazione (perlocutorio). Alcuni 26
J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 1.
152 Philippe Sabot atti discorsivi sono effettivamente atti che fanno quello che dicono (in particolare, quelli che operano la subordinazione delle donne nel “testo visuale” della pornografia), oppure sono soltanto “parole” (come recita il titolo di un libro di MacKinnon, Only words27), libere di diritto, se così si può dire, sottratte quindi ad ogni condanna (e ad ogni censura) per via di questa natura intra-linguistica?28 Non ci avventureremo in questa sede in questo (appassionante) aspetto delle analisi di Butler e del suo dibattito con MacKinnon, ci limiteremo soltanto a sottolineare l’articolazione prodotta tra i due versanti dell’analisi di Butler. Infatti, il problema di fondo che viene a porsi è di sapere quel che facciamo e quel che possiamo fare di queste parole, di questa trama discorsiva cui esse danno forma, cui possono dare forma anche ferendoci, si tratta di parole che talvolta possono sembrare fissarci in un’identità negativa, respingendoci al di fuori del circuito del riconoscimento, nello spazio dell’abiezione. Con ogni evidenza, Butler fa giocare il modello perlocutorio del performativo contro il modello illocutorio (e, in una certa maniera, anche quest’ultimo contro se stesso, poiché le occasioni fallite dall’enunciato performativo sono ancora più importanti di quelle che hanno successo) per introdurre tra l’atto enunciativo e i suoi effetti (per esempio su una persona che riceve un’offesa ingiuriante) non solo uno spazio di negoziazione, ma anche uno spazio di indeterminazione («i nostri discorsi sono sempre, in qualche modo, fuori dal nostro controllo»29), che apre peraltro uno spazio – o la possibilità di un intento strategico – di replica contro l’atto di rivolgersi e verso i nomi di chi offende. Esiste un modo di adottare, come principio di analisi politica del “potere delle parole”, quel che Foucault, ne La volontà di sapere, designava come «la regola della polivalenza tattica dei discorsi»: I discorsi, come i silenzi d’altronde, non sono sottomessi al potere o rivolti contro di lui una volta per tutte. Bisogna ammettere che un gioco complesso ed C.A. MacKinnon, Only Words, Harvard Univesrity Press, Cambridge (Mass.) 1993; trad. it. Soltanto parole, a cura di C. Honorati, Giuffré, Milano 1999. 28 Una delle poste in gioco di questi dibattiti riguarda la pornografia di cui la giurista e femminista americana Catharine MacKinnon sottolinea il potere ingiurioso e offensivo per le donne. Per una presentazione e una delucidazione molto chiara delle posizioni di MacKinnon, rispetto a cui il libro di Butler si presenta come una critica, cfr. B. Ambroise, Quand pornographier, c’est insulter: théorie des actes de parole, pornographie et féminisme, in «Cités», 3/2003 (n° 15), pp. 79-85. 29 J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 22 [trad. modificata]. 27
Soggetto, potere, discorso 153 instabile in cui il discorso può essere contemporaneamente strumento ed effetto di potere, ma anche ostacolo, intoppo, punto di resistenza ed inizio di una strategia opposta. Il discorso trasmette e produce potere; lo rafforza ma lo mina anche, l’espone, lo rende fragile e permette di opporgli ostacoli. Nello stesso modo il silenzio ed il segreto proteggono il potere, danno radici ai suoi divieti; ma allentano anche le sue prese ed organizzano tolleranze più o meno oscure30.
Nei casi menzionati da Butler, la questione è quindi in primo luogo quella di comprendere da dove viene il pericolo di estendere il campo del performativo, una questione che, più in particolare, ci conduce a formulare l’ipotesi che lo hate speech sia sempre efficace e, sempre tramite questa stessa ipotesi, che si possa addirittura eliminare la stessa possibilità di una risposta critica, persino quella di una analisi critica delle condizioni istituzionali, sociali e politiche che sono all’origine della violenza – e tutto ciò, talvolta, anche in nome della protezione che lo Stato deve assicurare all’integrità dei suoi cittadini… L’insieme di tali questioni si cristallizza in una certa maniera nel primo capitolo di Parole che provocano, in cui Butler si interessa particolarmente ai problemi linguistici, giuridici e politici, posti dalla censura. Si potrebbe pensare che la censura corrisponda all’esercizio istituzionale di un potere sovrano che viene a sanzionare attraverso la legge un certo tipo di discorsi e di persone che li tengono. Ma la funzione della censura va ben al di là di questa semplice regolazione a posteriori delle cose dette. Al di là oppure al di qua, poiché Foucault evoca in L’ordine del discorso questo tipo di censura inerente a una procedura “esterna” di controllo del discorso che è quella dell’interdetto. Il principio di questo primo modo di controllo delle cose dette è che «chiunque, insomma, non può parlare di qualsiasi cosa»31 – e Foucault aggiunge che se i due luoghi privilegiati in cui l’interdetto viene messo completamente in gioco sono la sessualità e la politica, è perché il discorso, nell’interdetto, rivela di essere tutt’uno con il desiderio e il potere32. Ma la censura va comunque più in là della semplice regolazione di ordine legale, esterna e posteriore, dei discorsi, nella misura in cui essa si riferisce in realtà non solo alle cose dette, ma anche, più profondamente o più fondamentalmente, all’ordine del dicibile nella misura in cui essa opera M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 90. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 12. 32 Ivi, p. 13. 30 31
154 Philippe Sabot e sanziona una partizione (partage) a priori tra il dicibile e l’indicibile, persino tra coloro che hanno voce in capitolo e quelli che sono senza voce. In questo senso, ogni censura esplicita si duplica in censura implicita, la quale non può essere compresa attraverso il solo modello giuridico del potere. Di che cosa si tratta? [La censura implicita] si riferisce a operazioni implicite di potere che escludono in modo non detto ciò che rimarrà indicibile. In tali casi, non è necessaria alcuna regolamentazione in cui articolare tale limitazione. L’operare di forme implicite e potenti di censura ci dice che il potere del censore non si esaurisce con politiche o regolamentazioni statali esplicite. Tali forme implicite di censura potrebbero essere, in realtà, più efficaci delle forme esplicite nell’imporre un limite alla dicibilità33.
A supporto di questa ipotesi, Butler evoca a titolo di esempio la censura esplicita che riguarda il “coming out” nell’esercito americano che ha preso forma ed è entrata in vigore come legge nel 1994 (durante l’amministrazione Clinton). Si tratta del decreto del “Don’t ask, don’t tell” (che si potrebbe chiamare la legge del “manifesto”) di cui Bulter sottolinea insieme le poste in gioco esplicite e le conseguenze imprevedibili e implicite. Le poste in gioco esplicite di questo decreto sono legate a una certa comprensione presupposta dall’enunciazione performativa e, di conseguenza, dal potere delle parole. Infatti, se dire equivale a fare, allora dichiararsi omosessuale significa o realizzare un atto omosessuale dichiarando la propria “pratica” dell’omosessualità, oppure, nella prospettiva del performativo perlocutorio, significa almeno produrla come effetto (anche solamente virtuale) di questa dichiarazione delle pratiche omosessuali. D’altronde, a questo riguardo, Judith Butler sottolinea il trattamento discriminante, nel quadro legale della censura esplicita, delle dichiarazioni legate alla sessualità (in particolare all’omosessualità, ma anche alla pornografia) e delle dichiarazioni legate alla sfera razziale: se il discorso sessuale è considerato in modo equivoco come un discorso performativo, dunque come atto sessuale (e in quanto tale condannabile), invece «la relazione tra discorso e condotta è considerata equivoca, se non indecidibile, dai tribunali nei casi relativi ai discorsi razzisti»34. Sono soltanto dei discorsi (e allora possono “ricadere” sotto il primo emendamento: essi non sono ritenuti sistematicamente in33 34
J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 187 (corsivo dell’autore). Ivi, p. 57 [trad. modificata].
Soggetto, potere, discorso 155
giurie condannabili). Peraltro, a sostegno dell’ipotesi che i nostri discorsi sono e restano sempre – almeno in parte – fuori del nostro controllo, bisogna ugualmente notare che il discorso di censura si rivela controproducente e mostra i suoi limiti, ovvero i limiti di un’influenza di natura legale su un ordine che è quello dei discorsi: il decreto del “Don’t ask, don’t tell” ha sortito l’effetto paradossale di far proliferare i dibattiti e i discorsi sull’omosessualità dei militari, mentre si trattava esattamente di contenerli. Tuttavia, il fallimento di questa censura esplicita consente di rivelare l’atto di censura implicita che essa contiene e che non si riferisce, almeno non si riferisce solamente, alla delimitazione dei discorsi, ma cerca comunque di «stabilire una norma in base alla quale proceda la soggettivazione dell’esercito»35 – sullo sfondo dunque di un rifiuto dell’omosessualità. Da questo esempio, si vede dunque bene che l’esercizio del potere che si manifesta nelle forme della censura, che tuttavia sembrano attestare una concezione giuridica di questo potere, può essere appresa solo prendendo in considerazione la funzione produttiva della censura, che ha a che vedere con la costituzione discorsiva dei soggetti (che nascono come esseri sociali nello spazio di interlocuzione del linguaggio, di un linguaggio diviso (partagé), nel senso che divide, essendo esso stesso operatore di pratiche discorsive divisorie). Questa produttività (discorsiva e ontologica, ovvero performativa) del potere di censura appare soltanto se si considerano tanto le forme implicite quanto le forme esplicite del suo esercizio: La censura è una forma produttiva di potere: non è semplicemente privativa, ma anche formativa. La mia tesi è che la censura cerchi di produrre i soggetti secondo norme esplicite e implicite e che la produzione del soggetto abbia molto a che vedere con la regolamentazione del discorso. La produzione del soggetto ha luogo non solo attraverso la regolamentazione del discorso del soggetto, ma anche attraverso la regolamentazione dell’ambito sociale del discorso che è dicibile. La domanda non è “che cosa sarò in grado di dire”, ma “che cosa costituirà l’ambito del dicibile all’interno del quale io comincio a parlare”. Diventare un soggetto significa essere soggetti a una serie di norme implicite ed esplicite che governano il tipo di discorso che sarà leggibile come discorso di un soggetto36.
Il soggetto non preesiste dunque a questa forma di interpellazione che lo vede intronizzato nell’ordine del discorso, ovvero gli dischiude il 35 36
Ivi, p. 189. Ivi, pp. 191-192 (corsivi miei, NdA) [trad. modificata, NdT].
156 Philippe Sabot dominio del dicibile: può cominciare a parlare e, prendendo la parola, dire chi è37. Attraverso l’esempio del “coming out” nell’esercito americano, si sarà compreso come questa intronizzazione sia selettiva: il fallimento della censura esplicita, in questo caso preciso, è relativo o paradossale poiché nel discorso si trovano identificate una categoria di esseri (e di pratiche) indicibili e, quindi, di vite (come unità di essere e di pratica) invisibili e invivibili. Sussiste qui qualcosa come una ripresa dell’esplicito da parte dell’implicito, dell’esercizio giuridico del potere da parte del suo esercizio normativo, che ritaglia il dominio del dicibile e del vivibile. Si opera così, sotto il segno della produttività del potere, una pre-delimitazione del dominio del visibile e del dicibile, che ha una portata direttamente ontologica e pratica. Questo significa allora che siamo “in trappola”? Oppure che il potere che opera implicitamente formando i soggetti e circoscrivendo il dominio del dicibile (escludendone l’indicibile) sia intoccabile nell’esatta misura in cui esso stesso «sfugge ai termini di intelligibilità cui dà origine»38? In caso affermativo, potremmo sostenere che Butler non tocca effettivamente la distinzione foucaultiana tra modello giuridico e modello produttivo del potere, dal momento che quest’ultimo compare come una sorta di trascendentale storico che definisce le condizioni a priori dell’esperienza possibile. «I nostri discorsi sono fuori dal nostro controllo»39 In realtà, l’analisi di Butler non si limita a questo primo approccio dell’articolazione tra potere, soggetto e discorso. Prendendo in prestito dalla psicanalisi la nozione di “forclusione”, Butler sottolinea infatti che questa nozione non descrive tanto una struttura stabile e compiuta, quanIn Il soggetto e il potere, Foucault stesso sviluppa, riprendendo la tematica dell’interpellazione di Althusser, l’idea di una costituzione discorsiva e ontologica dei soggetti, che sarebbe la caratteristica più specifica dell’esercizio del potere, o delle relazioni di potere, in cui qualcosa come dei soggetti possono emergere: come Foucault scrive, esiste una forma di potere che «viene esercitata sulla vita quotidiana immediata, che classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la loro propria individualità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti»; M. Foucault, Il soggetto e il potere, cit., p. 241. 38 J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 193. 39 Ivi, p. 22 [trad. modificata]. 37
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to un processo di strutturazione, la cui validità si manifesta attraverso la ripetizione continua delle sue norme implicite o tacite che inaugurano la vita del soggetto40: se dunque il soggetto risulta dalla possibilità del discorso, sullo sfondo di un taglio che lo separa dai discorsi impossibili e dai soggetti invivibili, questo soggetto deve ancora assicurare la propria capacità di vivere (viabilité) nel tempo e nel discorso; deve quindi ripetere le norme di intelligibilità del suo essere, fare in modo che tali norme animino la sua vita corporea e realizzino performativamente la capacità di vivere del soggetto. Si profila così, sul piano dell’intronizzazione discorsiva del soggetto, la prospettiva di una ristrutturazione dinamica delle relazioni di potere a partire dalla dimensione temporale di un assoggettamento che si basa su un processo di soggettivazione discorsiva: Anche se chi parla è un effetto di tale forclusione, il soggetto non è mai pienamente o esaustivamente ridotto a tale effetto. Un soggetto che parla sul limite del dicibile si assume il rischio di ridisegnare la distinzione tra ciò che è e ciò che non è dicibile, il rischio di essere proiettato fuori verso l’indicibile. La capacità di agire del soggetto, visto che non è una proprietà del soggetto stesso, una volontà o una libertà inerente a esso, ma un effetto del potere, è limitata, ma non determinata in anticipo. Se il soggetto è prodotto nel linguaggio attraverso una serie di forclusioni, allora questa limitazione fondante e formativa costituisce lo scenario della capacità di agire del soggetto. Questa capacità di agire diventa possibile a condizione di tale forclusione. Questa non è la capacità di agire del soggetto sovrano, che esercita il potere sempre e solo strumentalmente su un’altra persona. In quanto capacità di agire di un soggetto post-sovrano, il suo operare discorsivo è delimitato in anticipo, ma è anche aperto a una delimitazione ulteriore e inattesa41.
Non si può quindi affermare che il soggetto possieda il potere. Anche se esercita rispetto ai discorsi degli altri una censura esplicita, questo esercizio giuridico del potere (replicato sulla base di quello che si attribuisce allo Stato) è come ripreso dal condizionamento implicito di questo stesso Questa analisi prolunga e amplia quella che Butler aveva dedicato alla costituzione performativa dell’identità così come delle realtà sessuali nel suo Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013 (ed. orig. Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-New York 1990). A questo proposito si veda B. Ambroise, Judith Butler et la fabrique discursive du sexe, in «Raisons politiques», 4/2003 (n° 12), pp. 99-121. 41 J. Butler, Parole che provocano, cit., pp. 200-201. 40
158 Philippe Sabot potere. Ma il soggetto in qualche modo rimette in gioco la forclusione all’interno del suo stesso discorso, ovvero il fatto di essere implicato, in virtù della sua capacità discorsiva, nella ripetizione, sempre a rischio, sempre incerta, di ciò che delimita e rende possibile (o impossibile) il suo proprio discorso e, di conseguenza, il suo proprio statuto di soggetto parlante. In queste condizioni, la forclusione diventa una modalità produttiva di potere, in balia delle forme di soggettivazione che essa ha prodotto e che pretende di regolare. È su questo punto che Butler incontra le analisi di Pierre Bourdieu, criticando la sua interpretazione della performatività di alcuni atti discorsivi. La critica principale che Butler rivolge a Bourdieu è che la sua analisi dell’atto discorsivo come rito di istituzione si rivela in fondo conservatrice nella misura in cui, se essa spiega le condizioni della dominazione, si rivela incapace di render conto delle condizioni della trasformazione di queste condizioni – incapace di andare fino alla prospettiva di una rottura della dominazione42. Butler si forza quindi di pensare, insieme con e contro Bourdieu, come una parola socialmente situata, incarnata e investita da rapporti di potere, può nondimeno rimettere in questione tali rapporti, in qualche modo rimetterli in gioco e fuori gioco, appoggiandosi sulla loro contingenza. Per iniziare a trattare questo dibattito, si può affermare che Butler trovi uno sviluppo delle proprie riflessioni sulla censura implicita e sulla forclusione nell’idea (sviluppata da Bourdieu in relazione a quel che lui presenta come la posizione di Austin) che un atto linguistico può “avere successo” solo se certe condizioni sociali sono soddisfatte: [Austin] crede di scoprire nel discorso stesso, cioè nella sostanza propriamente linguistica […] della parola, l’origine dell’effettualità della parola. Cercare di capire linguisticamente il potere delle manifestazioni linguistiche, cercare nel linguaggio l’origine della logica e dell’effettualità del linguaggio di istituzione, significa dimenticare che il linguaggio riceve autorità dall’esterno, come mostra concretamente lo skeptron, che, in Omero, viene offerto all’oratore che sta per prendere Secondo Charlotte Nordmann, questa critica fa eco a quella che Rancière muove a Bourdieu, e probabilmente in larga parte alla sociologia: denunciare la dominazione dimostrando l’impossibilità di sfuggire ad essa. In un certo senso a questo si riferirebbe l’ambiguità della nozione di “riproduzione”. Cfr. Ch. Nordmann, Bourdieu/Rancière. La politique entre sociologie et philosophie, Éditions Amsterdam, Paris 2006, pp. 104 e ss. 42
Soggetto, potere, discorso 159 la parola. Il linguaggio tutt’al più rappresenta tale autorità, la esprime, la simbolizza […]. E infatti, l’uso del linguaggio, cioè sia il modo che la materia del discorso, dipende dalla posizione sociale del locutore, che dispone dell’accesso che esso può avere alla lingua di istituzione, alla parola ufficiale, ortodossa, legittima43.
Il “potere delle parole” non deriva dunque dalla natura strettamente linguistica degli enunciati: il potere di enunciazione, e la sua efficacia performativa, derivano dallo statuto sociale del locutore o dalla sua posizione istituzionale riconosciuta (da una comunità). Tuttavia, se la forza degli enunciati proviene loro dall’esterno, poiché risulta unicamente dall’autorità sociale di cui è investito il locutore, Bourdieu non è capace di render conto della potenza di agire del discorso, e perciò, di intendere la ridefinizione della separazione (partage) tra il dicibile e l’indicibile44. Le strutture della dominazione sociale pesano in qualche maniera sulla strutturazione del discorso che ne è solo l’espressione o il riflesso implicito, vincolante e sovradeterminato. In fondo, tanto il sociale quanto il linguaggio appaiono come dei sistemi chiusi e statici. Considerando questa posizione da un punto di vista critico, Butler rileva che Bourdieu stabilisce una stretta equivalenza tra «l’autorizzazione a parlare» e il «parlare con autorità»45. Ma è precisamente questa assimilazione totale della forza degli enunciati con la loro legittimità sociale che bisogna rimettere in questione se si vuole avere la possibilità di pensare l’efficacia del discorso che proviene da coloro che nulla autorizza a priori a parlare, ad avere una parola pubP. Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique, Fayard, Paris 2001, pp. 161-163; trad. it. La parola e il potere: l’economia degli scambi linguistici, a cura di S. Massari, Guida, Napoli 1988, pp. 84-85. Citazione ripresa in parte da J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 210. 44 In un certo senso, Foucault, ne L’ordine del discorso, difende una tesi molto vicina a quella di Bourdieu quando evoca la «rarefazione […] dei soggetti parlanti» (p. 24) come una delle procedure di controllo dei discorsi che valgono anche come «procedure d’assoggettamento del discorso» (p. 27): «Nessuno entrerà nell’ordine del discorso se non soddisfa certe esigenze o se non è, d’acchito, qualificato per farlo» (p. 24). Il rituale appare allora come uno di questi «sistemi di restrizione» (ibidem) che si trova come principio di quel che a tutti gli effetti bisogna chiamare il linguaggio autorizzato: «Il rituale definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano […]; esso definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze, e tutto l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso […]. I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici, e in parte anche quelli politici, non sono quasi dissociabili da questa utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti» (pp. 24-25). 45 J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 226. 43
160 Philippe Sabot blica46, e che, attraverso questa stessa parola, si scontrano con le gerarchie stabilite e le scompaginano. Senza tutto ciò diventa effettivamente impossibile pensare come l’ordine potrebbe non riprodursi – e come accade che esso effettivamente cambi. In questa prospettiva, Butler cerca da parte sua di considerare la logica sociale a partire da una logica dell’iterabilità, ovvero di una trasformabilità dei dispositivi di dominazione, seguendo in questo senso l’ipotesi foucaultiana di una limitazione reciproca delle relazioni di potere e delle contro-condotte. Butler arriva così in un primo momento a “far giocare” Derrida contro Bourdieu, per liberare in qualche modo il performativo dalla morsa delle istituzioni sociali che ne bloccano le prospettive innovatrici. Per Derrida, «la forza del performativo deriva proprio dalla sua decontestualizzazione, dalla sua rottura con un contesto precedente e dalla sua capacità di assumere nuovi contesti»47. Tuttavia, se questa posizione ha il merito di permettere di considerare la performatività in relazione alla trasformazione di una scena di enunciazione, questa trasformazione si fonda interamente sul fallimento della performatività, che è un fallimento liberatorio e evenemenzializzante, ma incapace di rendere conto della potenza socialmente e ontologicamente strutturante della forclusione. La tesi di Butler cerca così di situarsi tra quella di un insuperabile condizionamento sociale degli atti linguistici performativi – che li sottrae a ogni dinamica trasformatrice (Bourdieu) – e quella del loro decondizionamento sociale – che finisce per ridurli alla loro semplice forma enunciativa (Derrida). Per Bourdieu, il decondizionamento sociale del performativo caratterizza il suo fallimento; per Derrida esso costituisce la sua condizione di possibilità. A queste condizioni, pensare «l’iterabilità degli atti discorsivi» equivale a spiegare come un enunciato, dislocato in un contesto diverso da quello di origine, o pronunciato da persone diverse da quelle che erano “destinate” a pronunciarlo, può produrre effetti inediti, che riguardano non solo il Com’è stato sottolineato da Charlotte Nordmann, questa incapacità dei “dominati” di riappropriarsi della parola pubblica e potenzialmente emancipatrice o almeno contestataria rispetto alla logica della dominazione è associata alla concezione bourdieusiana dell’intellettuale come “porta-parola”. Cfr. Ch. Nordmann, Bourdieu/ Rancière. La politique entre sociologie et philosophie, cit., pp. 66 e ss.; F. Fischbach, Manifeste pour une philosophie sociale, La Découverte, Paris 2009, pp. 81 e ss. 47 J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 212. 46
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linguaggio, ma le condizioni del suo uso48 e persino le condizioni tacite di formazione del soggetto che parla e del suo corporale posizionamento sociale – condizioni che sono esse stesse costruite attraverso un’operazione performativa implicita (la forclusione): I performativi non riflettono semplicemente le condizioni sociali precedenti, ma producono una serie di effetti sociali i quali, anche se non sono sempre effetti del discorso “ufficiale”, elaborano comunque il loro potere sociale non solo per regolamentare i corpi, ma anche per dare loro forma. Di fatto, gli sforzi del discorso performativo eccedono e confondono i contesti di autorizzazione da cui emergono49.
Per Butler, le condizioni della dominazione (politica e sociale) sono quindi portatrici delle condizioni della loro trasformazione. Ciò che costituisce la potenza di assoggettamento dei dispositivi di potere e anche ciò che può disfarla, nella misura in cui le condizioni della dominazione non sono date una volta per tutte, ma riguardano una riproduzione-ripetizione che introduce la possibilità di far gioco all’interno delle norme imposte dalla, e per la, dominazione. La prospettiva politica di una trasformazione si radica allora in quel che Foucault analizzava come la mobilità strutturale delle relazioni di potere in quanto esse implicano come loro propria Butler menziona così, a titolo di esempio, per indicare questo cambiamento di scena dell’enunciazione a effetto politico, il canto in spagnolo dell’inno nazionale americano durante le manifestazioni di residenti illegali nel 2006: «Se, come Bush aveva affermato a suo tempo, l’inno nazionale può essere cantato solo in inglese, allora la nazione è chiaramente circoscritta a una maggioranza linguistica, e la lingua diventa una maniera di asserire un controllo basato su criteri di appartenenza […]. Nel mezzo di questo inno nazionale sentiamo le parole “somos equales”, siamo eguali. Bisogna fare una pausa e chiedersi: questo atto di parola – che non solo dichiara coraggiosamente l’eguaglianza del noi ma domanda anche una traduzione che deve essere capita – non colloca il compito di tradurre nel cuore della nazione? Una certa distanza o una fenditura diventa la condizione di possibilità dell’eguaglianza, il che vuol dire che l’eguaglianza non ha a che fare con l’estensione o la crescita dell’omogeneità della nazione»; J. Butler & G.Ch. Spivak, Who Sings the Nation-State? Language, Politics, Belonging, Seagull Books, Calcutta 2007; trad. it. Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, a cura di A. Pirri, Meltemi, Roma 2009, pp. 60-61. La ripresa dell’inno nazionale americano in spagnolo costituisce così uno di quei momenti in cui l’enunciazione «mette in questione le basi radicate della legittimità, […] produce performativamente uno spostamento nei termini della legittimità come effetto dell’enunciazione stessa»; J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 211. 49 J. Butler, Parole che provocano, cit., p. 228 (corsivo dell’autore). 48
162 Philippe Sabot condizione di possibilità la libertà e la potenza di agire dei soggetti sociali. Anziché rivendicare la Libertà degli agenti contro la logica vincolante del Potere, seguendo con ciò una prospettiva che è quella dell’emancipazione, conviene mobilitarsi nel movimento stesso di trasformazione del reale che è sociale, riappropriandosi in maniera differita (décalée) delle condizioni di effettualizzazione di questo reale50. La ripetizione diventa così la condizione di una produzione di novità, contro la riproduzione delle gerarchie sociali. Si può allora comprendere come, nelle critiche che muove a Bourdieu, Butler non cessi di ritornare su Foucault. Poiché, se Bourdieu sottolinea che gli agenti sociali obbediscono quasi sempre alle ingiunzioni mute dell’ordine esistente che trova in questa tacita obbedienza le condizioni della propria riproduzione, Butler dal suo canto osserva che non gli obbediscono mai del tutto esattamente e che, al posto di assicurare attraverso ciascuno dei loro atti e dei loro discorsi la permanenza della dominazione che si esercita su di essi, questi conservano la possibilità di esercitare individualmente o collettivamente «l’arte di non essere governati eccessivamente», quest’«arte della disobbedienza volontaria» che mette i soggetti alle prese con la loro propria storia, e anche con la loro propria vulnerabilità, piuttosto che rassicurarli circa un’illusoria restaurazione di una qualsiasi sovranità perduta – al di là del discorso, al di là del reale. Traduzione dal francese di Orazio Irrera
Philippe Sabot Université Lille 3 philippe.sabot@univ-lille3.fr
È qui che si gioca l’essenziale dell’opposizione di Butler a Bourdieu: «Mentre Bourdieu sottolinea che tutti obbediscono quasi sempre alle ingiunzioni mute dell’ordine esistente, Butler dal suo canto osserva che non tutti gli obbediscono mai del tutto esattamente»; Ch. Nordmann, Bourdieu/Rancière. La politique entre sociologie et philosophie, cit., p. 143. 50
Soggetto, potere, discorso 163
. Subject, Power, Discourse. From Foucault to Butler, Passing Through Bourdieu This paper aims to develop Foucault’s reflection on power relationships in the direction of a more specific questioning about their discursive dimension. Considering the influence of power on the subject as a discursive influence and, reciprocally, the discourse as an issue of power struggles, Judith Butler helps to renew significantly some issues of Foucault’s analysis, since she studies in Excitable Speech the exercise of power in terms of censorship. This questioning about the discursive conditions of power relationships enables a discussion of bourdieusian thematics of “authorized language” and of language’s authority. Keywords: Subject, Power, Discourse, Subjection, Michel Foucault, Judith Butler, Pierre Bourdieu.
Corpi Soggetti Norme Carlo Parisi
Introduzione
Il triangolo di concetti costituto da corpo, soggetto e norma sembra te-
nere insieme molte delle problematiche e dei contesti culturali attorno ai quali si è sviluppata l’opera di Michel Foucault soprattutto negli anni che vanno dalla pubblicazione di Sorvegliare e punire al corso del 1978-1979 Nascita della biopolitica. La relazione logica che sostiene questi tre concetti, però, non è affatto ovvia: si è tentati di dire, in prima battuta, che le norme si applicano sui corpi e in questo modo producono dei soggetti, tenendo insieme molti degli assunti di metodo che lo stesso Foucault ha più volte ribadito di seguire, come la produttività e positività della norma, contrapposta alla struttura logica puramente negativa della legge, la necessità di cogliere il funzionamento delle tecnologie di potere nella loro applicazione più basica, più elementare, più “bassa”, cioè sui corpi degli uomini, e conseguentemente, l’assunto che il soggetto non sia un dato fondativo, un punto di partenza, un oggetto “naturale” e astorico. Il piccolo slogan non è sbagliato, ma semplicemente vuoto e astratto: il nominalismo di Foucault, infatti, implica che i concetti universali abbiano soltanto un valore euristico e debbano essere considerati, in partenza, vuoti, saturati poi soltanto da un contenuto storicamente determinato e, da questo punto di vista, nell’opera di Foucault la normazione dei corpi e la produzione di soggettività non vengono mai trattate insieme, ma si configurano come due linee di ricerca sviluppate l’una di seguito all’altra. Come lo stesso Foucault sottolinea nella conferenza Soggettività e verità, il problema delle tecniche del sé, e dunque della produzione di soggettività, è emerso successivamente alla sua analisi delle tecniche di dominio e nel contesto di una problematica nuova: in questo caso la sessualità1. Quello che Foucault propone come un ampliamento dello schema elaborato nella trattazione delle tecniche di dominio diverrà però, negli anni successivi, uno spostamento Cfr. M. Foucault, Soggettività e verità, in Id. Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, Napoli 2012, pp. 38-40. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 165-189.
166 Carlo Parisi di prospettiva via via più marcato: l’attenzione alle pratiche di soggettivazione etica nel mondo greco e latino delimiterà un campo di analisi che, pur non in contraddizione con quello delle tecniche di dominio, avrà pochi punti di contatto con esso, per cui il compito che Foucault consegna alla ricerca, cioè «l’interazione tra […] tecniche di dominio e tecniche di sé»2 nella prospettiva di una genealogia del soggetto nella civiltà occidentale, rimane in larga misura da sviluppare. Ugualmente, Dreyfus e Rabinow considerano il lavoro genealogico di Foucault secondo due prospettive parallele: da un lato quella dell’individuo in quanto oggetto, incentrata sull’analisi del potere disciplinare e sulla produzione di saperi e di conoscenze che delimiteranno il campo delle “scienze sociali oggettivanti”, dall’altro quella dell’individuo in quanto soggetto, il cui perno è rappresentato dal dispositivo di sessualità e dalla psichiatrizzazione della condotta individuale. All’interno di questo dispositivo, emerge la centralità della tecnica di confessione, mediante la quale l’individuo è chiamato a svelare e a rendere trasparente una verità che, apparentemente, giace nella profonda intimità del suo io, ma che si rivela, in realtà, un prodotto storico di quello stesso dispositivo. Non si tratta, certo, di sostenere un’incompatibilità di fondo dei due approcci, quanto, piuttosto, di cercare di cogliere in che modi e attraverso quali strumenti, messi a disposizione dallo stesso Foucault, sia possibile pensare insieme l’azione delle norme sui corpi e la loro attività di produzione di soggetti. Si pongono immediatamente due problemi teorici che guideranno la mia analisi: da un lato, che cosa significa propriamente produzione di un corpo e, dall’altro, quali sono le caratteristiche rilevanti per definire lo statuto di un soggetto. Ian Hacking è forse l’autore che con maggiore chiarezza ha affrontato questi temi da una prospettiva foucaultiana: all’interno di dispositivi di potere-sapere, le categorie forgiate per descrivere determinati tipi di individui producono quegli stessi individui. Sulla scorta dell’analisi dell’intenzionalità fornita da Elizabeth Anscombe, le azioni intenzionali umane devono essere intese come «azioni considerate sotto una descrizione»3. Pertanto, come nei casi di personalità multipla, determinate categorie di individui, di azioni, di comportamenti, emergono nel momento in cui esiste un discorso che li descrive e li definisce. Si può supporre Ivi, p. 40. I. Hacking, Making up people, in Id., Ontologia storica, ETS, Pisa 2010, p. 147; cfr. anche E. Anscombe, Intentions, Blackwell, Oxford 1957. 2 3
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che, se il nominalismo dinamico permette di comprendere come sono arrivate a esistere determinate persone, si possa anche arrivare a comprendere come le persone giungano ad autodescriversi in un determinato modo: se l’omosessualità o il disturbo di personalità multipla emergono in un determinato momento della storia quando un discorso li definisce e quando determinate relazioni di potere vengono instaurate, è legittimo pensare anche che nasca contestualmente l’esperienza dell’omosessualità o della personalità multipla. In altri termini, ciò che è rilevante nella produzione di un soggetto è l’elemento della riflessività e, da un punto di vista politico, una relazione di potere è tanto più insidiosa quanto più integrata nell’esperienza autoriflessiva di un soggetto. A partire da questa griglia concettuale si può anche cominciare a comprendere che cosa intenda Foucault quando parla di produzione dei corpi: nelle discipline, i corpii vengono plasmati e forgiati ma, ovviamente non creati: ciò che si può pensare come puramente prodotto è un determinato rapporto riflessivo che il soggetto intrattiene con sé – e dunque anche con il proprio corpo – un corpo esperito secondo certe modalità di funzionamento, controllato, valorizzato o occultato secondo parametri inscritti dentro le relazioni di potere. Proprio per tematizzare questi due concetti, la metodologia foucaultiana può essere proficuamente integrata con le analisi di Judith Butler. La tecnica della confessione, infatti – pur rappresentando un efficace paradigma di una relazione di potere in cui ai dominati è richiesto di fare propria una descrizione della propria condotta instaurata da un sapere e resa concreta dall’esercizio di un potere entrambi definiti dai dominanti –, non può essere, a mio modo di vedere, esportata in quanto tale in contesti storici e sociali diversi: non a tutti, infatti, è richiesto di confessare. Se ci chiediamo come alcune categorie di individui che si incontrano leggendo Sorvegliare e punire – per esempio, l’operaio, il soldato e lo studente – con tutte le differenti forme di descrizione che a essi vengono imposte – l’operaio lavativo, lo studente pigro o diligente e molti altri – vengano plasmate dentro le relazioni di potere e in che modo gli individui stessi si esperiscano mediante quel discorso, non troveremo la confessione come dispositivo centrale. È a questo livello che le analisi di Judith Butler possono fornire una generalizzazione metodologica delle acquisizioni foucaultiane: da un lato, in relazione alle questioni legate all’apparente paradosso del corpo «materializzato»4 all’interno di relazioni di potere (spiegare meglio) dall’altro la trattazione 4
Cfr. J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996.
168 Carlo Parisi del giving an account of ourselves fornisce alcuni strumenti teorici per pensare insieme l’eteronomia originaria del soggetto instaurato per azione della norma e le possibilità di ridefinizione di se stessi possibili all’interno di queste medesime relazioni: corpi e soggetti sono, allo stesso tempo, luoghi di assoggettamento – e prodotti in quanto luoghi di assoggettamento – e, secondo modalità che occorre esplorare, posta in palio e punti di conflitto per le lotte politiche e per le forme di soggettivazione etica5. In questo articolo cercherò di ricostruire il passaggio interno all’opera di Foucault dai corpi assoggettati delle discipline alle forme più sottili di autoassoggettamento confessionale; analizzerò le critiche di Butler, e in particolare il suo differente rapporto con la psicoanalisi, cercando di mostrare come la filogenesi foucaultiana possa essere proficuamente integrata con l’ontogenesi di Butler. Vorrei, nelle conclusioni, recuperare la sfida che entrambi lanciano, ricorrendo al concetto di esperienza per descrivere, compito ancora da assolvere, le forme di soggettività assoggettata in cui viviamo immersi e a partire dalle quali si possono immaginare nuovi punti di conflitto. Il concetto moralmente ricco cui Foucault ricorre negli ultimi anni della sua vita è forse ciò che manca nella sua trattazione delle discipline: interrogarsi, a partire dalla mole di documenti disponibili, su quali fossero le credenze, le autorappresentazioni dei dominati arricchirebbe la comprensione del potere disciplinare, scrutandone, per così dire, il vettore che si muove dal basso verso l’alto6. Pierre Macherey ha messo in luce un aspetto decisivo del funzionamento della norma in Foucault: anche Althusser ha riconosciuto il carattere produttivo della norma, ma pensandola in termini di trascendenza piuttosto che di immanenza, laddove Foucault la pensa nei termini di un’immanenza della norma rispetto ai suoi effetti. Questa differenza ha enormi ripercussioni teoriche e politiche: se, come pensa Althusser, la norma precede, almeno logicamente, i suoi effetti e li trascende, l’esito può essere una forma di quietismo politico, se invece la norma non è antecedente ai suoi effetti di normazione/normalizzazione, la sua esposizione a possibilità di cambiamento rimane certamente aperta (cfr. P. Macherey, Per una storia naturale delle norme, in Id., Da Canguilhem a Foucault, ETS, Pisa 2011, pp. 71-93). La produttività della norma è riconosciuta anche da Judith Butler, seppur con alcune differenze che cercheremo di mostrare, ma la sua definizione nei confronti della legge è più problematica; talvolta, pare che la norma derivi da una legge o da un interdetto precedente (mi riferisco in particolare all’articolazione della relazione tra legge in senso lacaniano e norma in J. Butler, Questione di genere, Laterza, Roma-Bari 2013), altrove paiono usati come sostanziali sinonimi. 6 Faccio qui mia, provocatoriamente, la critica mossa a Foucault da C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 2009 e mi riferisco, per esempio, alle ricerche di Jacques Rancière sulla vita operaia francese dell’800. 5
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Individualizzazione, oggettivazione e (forse) soggettivazione disciplinare Leggendo Sorvegliare e punire, si nota come il concetto di soggettivazione non faccia ancora parte del lessico foucaultiano: si parla insistentemente di assoggettamento al potere disciplinare, ma sempre come causa di un’oggettivazione o individualizzazione; i corpi vengono addestrati, formati, prodotti, ma tale produzione non sfocia in una soggettivazione per come Foucault la intenderà già pochi anni dopo. Le discipline, infatti producono un’anima: Non bisognerebbe dire che l’anima è un’illusione o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti […] su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo tutta la loro esistenza7 .
L’anima, dunque, non è necessariamente una psiche o un sé, ma, come afferma ancora Foucault, «su questa realtà-riferimento, sono stati costruiti concetti diversi e ritagliati campi di analisi: psiche, soggettività, personalità, coscienza»8. L’interiorità umana, l’anima e i suoi eredi maggiormente secolarizzati, è l’esito della storia di una microfisica del potere, esercitata direttamente sul corpo in quanto immerso in un campo politico. Foucault ribadisce con insistenza il carattere in primo luogo fisico del potere disciplinare, al punto da farne il correlativo storico-materiale delle coeve filosofie e biologie del corpo-macchina: «il grande libro dell’Uomomacchina venne scritto simultaneamente su due registri: quello anatomometafisico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine […]; quello tecnico politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo»9. La produzione di uomini-macchina è regolata in accordo a tre princìpi: rendere il potere meno costoso possibile, rendere il più diffusi e estesi possibile gli effetti di questo potere, far M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993, p. 33. Ibidem. 9 Ivi, p. 148, per una ricostruzione della storia del disincantamento del corpo e della sua reinvenzione all’interno del discorso scientifico dell’età classica, cfr. J.-J. Courtine, Lire les corps à l’âge classique, in Id., Déchiffrer le corps, Éditions J. Million, Grenoble 2011, pp. 43-75. 7 8
170 Carlo Parisi crescere insieme la docilità e l’utilità di tutti gli elementi del sistema, cioè di tutti gli individui disciplinati o in via di disciplinamento. La disciplina è il procedimento tecnico unitario per mezzo del quale la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza «politica» e massimalizzata come forza utile10.
Le discipline lavorano sui corpi per trasformarli e normalizzarli secondo una struttura formale composta da tipi di azione ricorrenti : per renderli atti al compimento di determinati scopi e, al contempo, per smontare, sezionare, parcellizzare le masse umane disordinate degli ospedali, degli eserciti e delle manifatture. La prigione diventa il luogo privilegiato dell’esercizio del potere disciplinare: la sua forma pura è il Panopticon di Bentham dove tutto è sempre disponibile allo sguardo per far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio; che questo apparato architettonico sia una macchina per creare e sostenere un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita11.
Forma più pura del potere, in un duplice senso: da un lato estremizza e amplifica le istanze di sorveglianza e di controllo proprie delle tecniche disciplinari, dall’altro ha una natura plastica e può adattarsi a scuole, ospedali, manifatture. La ratio del Panopticon è di interdire che determinate azioni vengano compiute ma, contemporaneamente, produce una sollecitazione permanente a garantire la condotta richiesta. È a questo livello, per massimizzare l’efficacia di una tecnica produttiva, che il Panopticon rivela una duplice funzione: fa opera di naturalista […], permette di stabilire delle differenze: negli ammalati, osservare i sintomi di ciascuno, senza che la vicinanza dei letti, la circolazione dei miasmi, gli effetti del contagio alterino i quadri clinici; nei bambini, notare le prestazioni […], reperire le attitudini e, in rapporto ad una evoluzione normale, distinguere ciò che è «pigrizia e testardaggine» da ciò che è «imbecillità incurabile»; negli operai, notare le attitudini di ciascuno, comparare i tempi 10 11
Ivi, p. 241. Ivi, p. 219.
Corpi Soggetti Norme 171 che impiegano per un lavoro e, se sono pagati a giornata, calcolare il salario in conseguenza12.
Ma, allo stesso tempo, «il Panopticon può essere utilizzato come macchina per fare esperienze, per modificare il comportamento, per addestrare o ricuperare gli individui»13. Scienze osservative e scienze sperimentali si incontrano nel meccanismo disciplinare: l’azione sui corpi, nella distopia di un mondo integralmente disciplinato, definisce la produzione permanente di oggetti disponibili all’indagine scientifica e una serie interventi correttivi. È nell’intersezione tra un sapere sugli individui e un potere che cerca di controllarli politicamente e valorizzarli produttivamente che emerge la norma, da un lato, come punto asintotico cui tutti i gesti devono conformarsi e tutti i comportamenti assomigliarsi, dall’altro come funzione differenziale che consente di gerarchizzare gli individui in rapporto a se stessa. La prigione non è solo il luogo di applicazione di una pena, ma diventa anche «un’impresa di modificazione degli individui»14. La reclusione cessa di essere un fine (punitivo) e diventa un mezzo (tecnico e cognitivo). Le discipline intervengono sullo spazio, disegnano quello che Foucault definisce un quadrillage. Ogni singolo deve occupare un luogo ben preciso: le discipline, anche quando non isolano, come nelle prigioni, tendono all’isolamento, devono evitare che qualcuno possa sfuggire allo sguardo. Più fondamentale ancora della gestione dello spazio è l’organizzazione integrata del tempo e del corpo: il tempo comincia a essere contato in minuti e in secondi, e deve essere reso «integralmente utile»15, il gesto diventa il punto minimo di intervento sui corpi, sia nel senso che la disciplina vigila e regola i tempi e li connette ai movimenti del corpo, sia nel senso della durata, della ripetizione, dell’esercizio che deve portare a compiere in modo ottimale ogni singolo passaggio abbiamo qui un esempio di ciò che potremmo chiamare la codificazione strumentale del corpo. Esso consiste in una scomposizione del gesto globale in due serie parallele: quelle degli elementi del corpo da mettere in gioco […] quella Ivi, pp. 221-222. Ivi, p. 222. 14 Ivi, p. 253. 15 Ivi, p. 164. 12 13
172 Carlo Parisi dell’oggetto che viene manipolato […]. Poi questi vengono messi in correlazione gli uni con gli altri secondo un certo numero di gesti semplici […]; infine si stabilisce la sequenza canonica in cui ciascuna di queste correlazioni occupa un determinato posto16.
Quello che sembra avere in mente Foucault è l’esercito prussiano riformato da Federico II o il taylorismo di fabbrica17: due forme di potere disciplinare i cui esiti sembrano essere più l’annullamento delle differenze tra i singoli e la loro trasformazione in macchine anonime o ingranaggi di macchine, che la costruzione di individui18. Tutti i corpi vengono fatti somigliare gli uni agli altri attraverso una minuziosa scomposizione e ricomposizione funzionale dei gesti. Lo schema qui descritto è incentrato su un modello quasi pavloviano: individui-macchina addestrati a rispondere al suono di un campanello, possibilmente tutti all’unisono, in maniera uniforme. Anche la costruzione di gerarchie all’interno dei gruppi in via di disciplinamento secondo uno schema di punizione e ricompensa ricorda molto da vicino forme radicali di behaviorismo; se di costruzione di soggettività si tratta, questa avviene sostanzialmente per sottrazione delle imperfezioni che separano un gesto, un corpo, un movimento dal limite della sua ottimalità. Il ritaglio che definisce la forma di individualizzazione propria delle discipline è quello di un corpo plasmato, e non di una soggettività dotata dell’attributo della riflessività: L’ordine non deve essere spiegato, neppure formulato; è necessario e sufficiente che faccia scattare il comportamento voluto: […] si tratta non di comprendere l’ingiunzione, ma di percepire il segnale, di reagirvi subito19.
Se lo spessore diacronico dell’individuo viene annullato da una riduzione a pura coordinazione fisica e organica, esso viene ridefinito attraverso la costruzione di una biografia dell’assoggettamento, mediante l’accumulo di documenti prodotti dalle istanze di controllo e verifica diffuse Ivi, p. 167. Cfr. H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 218. 18 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 155: Foucault parla di «tattica antidiserzione, antivagabondaggio, antiagglomerazione». 19 Ivi, p. 181. 16 17
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nelle varie istituzioni disciplinari volte a ricostituire diacronicamente le individualità disciplinate. L’esame si caratterizza come la permanente valutazione dell’adeguamento alle norme, e garantisce, allo stesso tempo, una fonte continua di nuove informazioni e di nuove conoscenze: dapprima l’ospedale, poi la scuola, più tardi ancora la fabbrica, non sono stati semplicemente “messi in ordine” dalle discipline, sono divenuti, grazie ad esse, degli apparati tali che ogni meccanismo di oggettivazione può valere come strumento di assoggettamento, e ogni crescita di potere dà luogo a possibili conoscenze20.
Si rovescia l’asse politico dell’individualizzazione, il vertice del potere si fa più anonimo e burocratico e, contestualmente, i punti su cui si applica diventano tanto più visibili e individualizzati, quanto più è forte il potere che si esercita su di loro: in questo modo, l’esame e il cumulo di documenti che lo accompagnano fanno di ogni individuo, un «caso»21; le discipline «abbassano la soglia dell’individualità descrivibile e fanno di questa descrizione un mezzo di controllo e un metodo di dominazione»22. La conoscenza del singolo non trova la sua matrice nel disinteresse di una conoscenza pura, né nella necessità di comprendere che cosa sia e come operi il soggetto di diritto che va costituendosi con la dissoluzione delle monarchie assolute, essa sorge piuttosto dal suo correlato disciplinato: la borghesia in ascesa, mentre narra il suo trionfo con il vocabolario dell’emancipazione degli uomini, culla anche il sogno di una società in cui questi soggetti finalmente “liberati” siano completamente assoggettati23. Si può certamente parlare di soggetti disciplinati a partire dai corpi docili e ammaestrati, il Panopticon vuole essere una struttura moralizzatrice: induce gli individui a tenere i comportamenti desiderati e auspicati all’interno di un sistema costrittivo. La moralizzazione è la conformazione di gesti a uno scopo; non a caso, alcune pagine dopo, Foucault, citando Julius, lo definisce una “seconda natura”: l’acquisizione di un habitus che consente, attraverso la disciplina dell’isolamento e del lavoro, “l’emendaIvi, p. 244. Ivi, p. 209. 22 Ibidem. 23 Cfr. ivi, pp. 241-242. 20 21
174 Carlo Parisi mento del colpevole” trasformando l’ozio in amore per il lavoro e mettendo a freno i pericoli derivanti da un’immaginazione sregolata24. Ugualmente, un regime rigoroso di isolamento «assicura il colloquio, da solo a solo, del detenuto col potere che si esercita su di lui»25. La forma che assume l’assoggettamento disciplinare sembra implicare qui qualcosa di più del semplice intervento sui corpi: il risveglio morale, il pentimento, il dialogo con la propria coscienza, può concretizzarsi, però, solo se i soggetti plasmati mediante tecniche di disciplinamento sono chiamati a riconoscersi come tali. Come ha scritto Judith Butler, la norma comportamentale, con i vincoli di obbedienza che impone, produce un’individualità «coerente, totalizzata»26, ma il passaggio che rimane oscuro in Sorvegliare e punire è proprio quello che conduce dall’assoggettamento e dall’oggettivazione a un potere tanto più efficace e lieve quanto più l’individuo disciplinato «inscrive in se stesso il rapporto di potere [e] diviene il principio del proprio assoggettamento»27. Foucault coglie il nodo teorico, ma, all’interno dello schema del potere disciplinare, mancano ancora i concetti per pensarlo. Solo sovrainterpretando Sorvegliare e punire possiamo trovarci quello che ancora non c’è e che lo stesso Foucault stava cercando. Trovandolo, dovrà abbandonare lo schema monolitico della società disciplinare e analizzare un altro tipo di rapporto di costituzione tra potere della norma e soggettività: la confessione. In conclusione, Sorvegliare e punire ha molto da dirci su come nascono gli oggetti delle scienze sociali, ma relativamente poco sui modi e sulle forme con cui questi soggetti si pensavano e si descrivevano. Si possono porre almeno due obiezioni a Sorvegliare e punire28, una interna e una esterna: in primo luogo, occorre interrogarsi sull’assunto secondo il quale le discipline costituiscono un blocco omogeneo; in seCfr. ivi, pp. 264-65. Ivi, p. 249. 26 J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma p. 80. 27 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 221. 28 Se ne potrebbe introdurre una terza che esula dall’argomento di questo articolo e pertiene al ruolo della prigione nelle società contemporanee dove, in seguito alle ristrutturazioni neo-liberali del welfare, anche il sistema penale sembra abbandonare ogni velleità rieducativa per concentrarsi su compiti esclusivamente retributivi e contenitivi, cfr. a titolo di esempio L. Wacquant, Punire i poveri, DeriveApprodi, Roma 2006 e J. Simon, Il governo della paura, Cortina, Milano 2008. lo stesso Foucault in Nascita della biopolitica accenna di passaggio a questa mutazione, cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 53. 24 25
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condo luogo, analizzare se, davvero, lo schema disciplinare – e le relazioni di potere che gli pertengono – è in grado di informare la società nel suo complesso. Per quanto riguarda la prima questione, salta agli occhi immediatamente la differenza tra le diverse istituzioni in cui le tecniche disciplinari si applicano: sicuramente la scuola incorpora tecniche disciplinari, ma funziona in modo radicalmente diverso da un carcere. Recuperando la nozione di “istituzione totale” elaborata da Erving Goffman29, notiamo come la prigione o l’ospedale tendano a isolare completamente gli individui dal mondo esterno, ma non accade la stessa cosa in una scuola o in una fabbrica; si può dunque legittimamente pensare che le tecniche di potere, la loro efficacia, la loro intensità varino col variare del contesto istituzionale in cui sono collocate; per quanto Foucault affermi di volersi sganciare da una storia legata alle istituzioni per concentrarsi sulle tecnologie di potere, la neutralizzazione del contesto istituzionale pare non del tutto convincente. Riguardo alla seconda obiezione, lo stesso Foucault in più luoghi ha ridimensionato le generalizzazioni cui sembra tendere Sorvegliare e punire: in Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault distingue tra normazione disciplinare – in cui è prioritaria la norma e a partire da essa si definisce il normale – e normalizzazione propria dei dispositivi di sicurezza – che identifica in primo luogo il normale e cerca di ricondurre l’anormalità alla normalità30. Si tratta evidentemente dell’individuazione di ambiti nei quali le discipline non possono più fungere da modello esplicativo e per i quali – la maggior parte degli ambiti che caratterizzano la vita quotidiana degli individui – occorre ricercare diverse tecniche di potere. Ancor più radicalmente, in Nascita della biopolitica, sarà proprio la libertà dei singoli a dover essere messa in gioco all’interno di un dispositivo di potere, ridefinendo integralmente il ruolo e le forme di soggettività qui plasmate e chiamate in causa. Le scienze psy, il trattamento morale e l’incontro con la confessione Nella prima lezione de Il potere psichiatrico, Foucault presenta il manicomio non più come un potere a sé stante – come accadeva in Storia della follia – ma come il luogo in cui i dispositivi di potere-sapere propri delle 29 30
Cfr. E. Goffman, Asylum, Einaudi, Torino 2003, p. 34. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 50-56.
176 Carlo Parisi discipline assumono una forma specifica, ma omogenea alla società disciplinare nel suo complesso. Foucault accorda un ruolo di primo piano alla scrittura e alla produzione di documentazione, aspetto non certo assente nell’opera precedente, ma che qui assume il ruolo di «condizione necessaria»31. vediamo emergere il processo in forza del quale i corpi, i comportamenti, i discorsi delle persone vengono a poco a poco investiti da una trama di scritture, da una sorta di plasma grafico che li registra, li codifica, li trasmette lungo la scala gerarchica e finisce col subordinarli a un rapporto centralizzato. In questo modo si viene a creare un rapporto del tutto nuovo, diretto e continuo, a me pare, della scrittura con il corpo. La visibilità del corpo e la permanenza della scrittura procedono di pari passo, e hanno evidentemente come effetto ciò che potremmo chiamare l’individualizzazione schematica e centralizzata32.
La costruzione delle identità poliziesche rappresenta una delle forme decisive delle discipline che si applicano su tutta una serie di virtualità tenute insieme dai concetti come quello di personalità e di comportamento e prese in carico da dispositivi che sono, come li definisce Foucault, “isotopici”, consentono, cioè, una circolazione continua tra di loro, per cui ogni individuo irriducibile a un dispositivo disciplinare potrà essere sempre preso in carica da un altro. Il concetto di isotopia riesce a descrivere il funzionamento integrato dei dispostivi disciplinari senza dover postulare l’esistenza di una società integralmente disciplinata, e fa emergere il problema dell’irriducibile, dell’indisciplinabile, dello scolaro riottoso e del disertore e, di conseguenza, il «perpetuo lavoro della norma all’interno dell’anomia»33, che recupera a ogni passaggio ciò che ha perso nel precedente e rimodula la funzione-soggetto in modo tale che essa coincida con una singolarità somatica identificata attraverso un processo che non passa più dall’imprigionamento di un corpo grazie all’edificazione di un’anima, ma da un inquadramento del corpo attraverso l’estrazione di una psiche: è evidente che non si potrà sostenere che l’individuo preesiste alla funzionesoggetto, alla proiezione di una psiche, all’istanza normalizzatrice. Al contrario, e in quanto la singolarità somatica è diventata, attraverso meccanismi disciplinari, M. Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, p. 57. Ibidem. 33 Ivi, p. 65. 31 32
Corpi Soggetti Norme 177 il supporto della funzione-soggetto, che l’individuo è potuto apparire all’interno del sistema politico, l’individuo si è potuto costituire solo grazie al fatto che la sorveglianza ininterrotta, la scrittura continua, la punizione virtuale hanno inquadrato un corpo in tal modo assoggettato, e ne hanno estratto una psiche34.
Emerge qui la funzione psy che consente di portare a unità, all’interno di un discorso che si vuole epistemologicamente omogeneo e scientificamente fondato, la mole di dati che la scrittura permanente e la biografizzazione poliziesca delle esistenze ha reso disponibili al punto che «all’inizio del XIX secolo la funzione-psy è diventata al contempo il discorso e il controllo di tutti i sistemi disciplinari»35. È proprio all’interno delle scienze psy, però, che Foucault incontrerà una serie di fenomeni destinati a complicare molto lo scenario omogeneo delle discipline e a condurlo verso direzioni di analisi nuove e più ricche, proprio in riferimento alle forme di soggettivazione. Si tratta del problema della simulazione e della resistenza delle isteriche. Per Foucault, gli isterici e le isteriche, costituendosi «come blasone di malattie vere e proprie»36 e quindi trasformando il loro corpo in una serie di sintomi sganciati da qualsiasi sostrato organico, diventavano incontrollabili e inclassificabili per la psichiatria: assumono su di sé tutte le malattie per rendere impossibile attribuirgliene una specifica, definendo così un problema fondamentale per la psichiatria del XIX secolo. Per Foucault, la simulazione è stata la strada per la quale «i folli hanno […] risposto con la questione della menzogna a un potere psichiatrico che si rifiutava di porre la questione della verità»37, è stata una forma di lotta politica interna al potere psichiatrico il quale, pur appoggiandosi nel suo discorso alla classificazione nosografica o alla anatomia patologica della medicina, per ottenere surrettiziamente una forma di garanzia epistemologica, non ha mai, nella sua pratica, messo in atto questo sapere. La garanzia di scientificità importata dalla medicina esentava dunque la psichiatria dal porre, al suo interno, la questione della verità in rapporto al suo oggetto, la follia. La simulazione rappresenta dunque una sfida politica ed epistemologica alla psichiatria ma, ancora di più, all’intero sistema disciplinare: l’utopica Ibidem. Ivi, p. 91. 36 Ivi, p. 228. 37 Ivi, p. 132. 34 35
178 Carlo Parisi sorveglianza e visibilità permanente del Panopticon serve proprio a raccogliere la sfida della simulazione, ma la supposta economicità del potere disciplinare si scontra con una molteplicità di resistenze possibili che finiscono per renderlo dispendioso e ingombrante. La crisi determinata dall’isteria produrrà anche un effetto di desomatizzazione della psichiatria: l’impossibilità di correlare i sintomi isterici a lesioni fisiche o organiche comporta, da un lato, che la psichiatria abbandoni il vocabolario dell’anatomia patologica costituendo altre forme di diagnosi, e, dall’altro, determina un’inversione del discorso stesso di Foucault: siamo partiti da corpi assoggettati che producevano anime come esclusivo ritaglio di quei corpi e ci troviamo adesso dentro un sapere da cui il corpo è scomparso e in cui emergerà tutto il lessico “interno” degli istinti, delle perversioni, degli squilibri del desiderio. Se il corpo è un segno mendace, perché offre uno spazio di simulazione, occorre costruire un’altra via d’accesso alla psiche. Le varie strategie dispiegate in ambito psichiatrico hanno in comune la volontà di superare l’impasse scaturita dai fenomeni di simulazione. Tra di esse, quella cui Foucault dedicherà più attenzione è senza dubbio l’interrogatorio-confessione, nel quale si organizza il «chiasmo tra la responsabilità e la soggettività»38 secondo cui lo psichiatra, chiedendo al paziente di assumere su di sé la malattia, di farla propria, di cominciare a pensarsi e a descriversi come un malato, fornisce anche una sorta di sollievo, liberando il paziente dal senso di colpa. Il luogo in cui Foucault fornisce la descrizione più accurata della confessione è probabilmente la prima lezione del seminario di Lovanio: prendendo le mosse dalla scena ricorrente della doccia e del dialogo medico-paziente in Leuret, vengono identificati i tratti formali che definiscono la confessione. In primo luogo, la confessione non ha valore cognitivo, non serve alla diagnosi, non fa avanzare la conoscenza, ma richiede un costo di enunciazione, un passaggio dal non dire al dire; inoltre, la confessione deve essere, per quanto paradossale possa sembrare, libera e, contemporaneamente, fornire uno spazio, che il paziente concede, per l’intervento del potere del medico; infine, la confessione lega il soggetto alla verità da lui enunciata e lo qualifica in modo diverso rispetto a ciò che dice: non si confessa solo una colpa o una malattia, ma si manifesta ciò che si è e ci si impegna a diventarlo. In questo contesto, la 38
Ivi, p. 237.
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falsità della confessione diventa irrilevante, in ragione del fatto che quel tipo di discorso cessa di essere constativo per divenire, immediatamente, performativo: l’enunciazione di una verità su noi stessi ci vincola a dar corso a una serie di azioni, a una condotta che ci si aspetta congrua con quanto abbiamo confessato. A partire dal corso Gli anormali, Foucault comincia a tracciare la storia della confessione e della direzione di coscienza ricostruendo la loro integrazione con i dispositivi disciplinari; in realtà ci troviamo di fronte a un momento di passaggio importante nello sviluppo dell’opera foucaultiana. Nella lezione del 19 febbraio, in cui si comincia l’analisi della confessione, troviamo per la prima volta un tema che sarà poi centrale ne La volontà di sapere: «in Occidente la sessualità non è ciò di cui non si parla; non è ciò che si è obbligati a tacere; è ciò che si è obbligati a confessare»39. Il potere è ancora produttivo, ma qui cessa di produrre corpi e inizia a produrre discorsi; incita, seppure in contesti regolati e saturati da relazioni di potere, a parlare, sollecita il penitente – e poi il paziente – a narrare in prima persona la sua storia, i suoi peccati, i suoi sintomi; è produttivo anche nella misura in cui, a partire da questa produzione regolata, si stabiliscono anche forme di repressione: cosa può essere detto e cosa deve rimanere oscuro e silenzioso. Il punto fondamentale della pratica confessionale è la sua capacità di mobilitare il soggetto in forme completamente diverse dalle discipline: oltre a essere diventati disciplinati, siamo diventati anche molto “confessanti”. La confessione ha propagato lontano i suoi effetti: nella giustizia, nella medicina, nella pedagogia, nei rapporti familiari, nelle relazioni amorose, nella realtà quotidiana e nei riti più solenni […]; ci si sforza di dire con la massima precisione quel che è più difficile dire; ci si confessa in pubblico e in privato, ai genitori, agli educatori, al medico, a coloro che amiamo40.
E in questa confessione ne va di noi stessi, di come siamo diventati ciò che confessiamo, di tutto l’apparato psicologico che circonda i nostri atti: i desideri, i sogni, il filo dei pensieri, e il tutto in una complessa dialettica di pena e soddisfazione di cui Foucault ci regala una ricca fenomenologia e che, attraverso le sue sedimentazioni storiche, suscita quella sensazione, 39 40
M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2002, p. 152. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 55.
180 Carlo Parisi quell’esperienza di necessità che circonda il nostro stesso bisogno di confessarci. Come ha messo in evidenza Nikolas Rose, «si diventa, almeno in potenza, il soggetto della propria narrazione nell’atto stesso in cui ci si applica a questa costruzione»41. L’atto, apparentemente liberatorio della confessione, in cui pensiamo di esprimere ciò che più profondamente siamo, è una forma di assoggettamento che non avviene più per limitazione della libertà, ma facendo giocare in modi regolati «le tecnologie etiche a cui la psicologia partecipa e in cui l’expertise psicologica è irretita così profondamente, fornisce i mezzi per plasmare, sostenere e gestire gli uomini non opponendosi alla loro identità personale, ma proprio per produrre quell’identità»42. La norma che si attiva all’interno del dispositivo di confessione funziona ovviamente in quanto la presenza del confessore determina la relazione di potere, ma può funzionare, in linea di principio, senza la necessità di una sanzione o, per meglio dire, riducendo al minimo la presenza dell’istanza in grado di sanzionare. Bisognerà che il penitente accetti la pena, ne riconosca l’utilità e persino la necessità. È in questo spirito che, per esempio, Habert raccomanda al confessore di fare sì che il penitente fissi lui stesso la penitenza e, se succede che il penitente ne scelga una troppo debole, si dovrà convincerlo che non è sufficiente43.
La confessione è quindi anche una forma di autoassoggettamento, non significa solo essere consegnati a una biografia di noi stessi scritta da altri, non si tratta nemmeno di comparire dal nulla sulla scena della storia per il breve volgere della presa che il potere esercita su di noi, come ne Le vite degli uomini infami, quel che è richiesto dalla pratica confessionale non è nemmeno una trasformazione delle attitudini psico-fisiche in modo da creare una seconda natura: nella confessione l’elemento costruttivo del potere si perde e si occulta; cosa c’è, in fondo, di più nostro dei desideri e dei sogni intimi e inconfessabili e pure da confessare? Si coglie, inoltre, un’inversione del rapporto corpo-psiche: se nelle discipline è a partire dal corpo che si istituisce una psiche, o un’anima N. Rose, Inventing our selves, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1998, p. 96 (trad. nostra). 42 Ivi, p. 98. 43 M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 164. 41
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come norma di quel corpo o meglio come punto di appoggio delle norme sui corpi, nella confessione dei peccati si passa dall’analisi delle relazioni a una semiotica del corpo, per giungere, nella versione post-tridentina, a una nuova «tecnologia dell’anima e del corpo, dell’anima nel corpo, del corpo portatore di piacere e di desiderio»44. Ciò che si dovrà controllare sarà dunque il desiderio, di cui il corpo è un semplice portatore, ma che ha la sua radice nel movimento complesso della psiche. Più la confessione diventa una tecnologia di potere diffusa e politicamente decisiva, più concentra la propria attenzione su uno spazio interno. Se il luogo in cui, con più forza, troviamo tuttora attivo il dispositivo confessionale è la versione contemporanea delle scienze psy, le quali – in particolare la psicoanalisi – hanno focalizzato l’attenzione sulle condotte sessuali e se, come ha mostrato A.I. Davidson, questi saperi hanno costruito la loro indipendenza epistemologica e tecnica rescindendo i legami con l’anatomia patologica e definendosi a partire dalle nozioni intrapsichiche di istinto e perversione, non possiamo stupirci di assistere a una desomatizzazione di ciò che si confessa45. La confessione, dunque, è un rapporto di potere che non si gioca attraverso il corpo, che non lo mobilita, e che non si applica a esso. I legami tra desiderio – o istinto – e corpo si allentano nel momento in cui si comincia a pensare che, per esempio, si possa essere omosessuali “latenti”, senza che, in altri termini, si sia commesso alcun atto. Sembra che, dove abbiamo corpi, non si dia soggetto e dove si dia soggetto non si dia corpo. Si può pensare l’azione della norma, allo stesso tempo e sullo stesso livello, come produttrice di corpi e di soggetti in quanto incorporati? In secondo luogo, individuare il dispositivo di confessione ci dice molte cose su alcuni specifici rapporti di potere, ma rimane un modello non applicabile in contesti storici e sociali diversi: è possibile generalizzare le intuizioni foucaultiane riguardo a forme di potere che richiedano la partecipazione attiva dei soggetti “dominanti” al loro stesso istituirsi in quanto dominati? In quale modo le relazioni di potere, in generale, ridefiniscono il rapporto con il nostro corpo e ci forniscono le categorie per esperire noi stessi?
Ivi, p. 172. Cfr. A.I. Davidson, Closing Up Some Corpses, in Id., The Emergence of Sexuality, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2001, pp. 1-29. 44 45
182 Carlo Parisi Psiche, soggetto, norma La prospettiva di Butler sulla genesi del soggetto a partire dall’azione delle norme è complementare a quella foucaultiana, di cui fa proprio l’assunto centrale della norma come istanza produttiva e, allo stesso tempo, capace di riflettere, mediante un minuzioso lavoro di decostruzione del discorso psicoanalitico sulla formazione individuale del sé incorporato a partire dall’azione delle norme. Con decostruzione intendo un procedimento, di forte impronta derridiana, avente come obiettivo non tanto e non in primo luogo una critica epistemologica del discorso psicoanalitico, quanto un’analisi in grado di mostrarne la struttura concettuale nascosta, i presupposti non indagati e il sistema binario di esclusione e inclusione, di definizione di un dentro e di un fuori. Diventa così possibile mettere fuori gioco le pretese naturalizzanti e universalizzanti del discorso psicoanalitico, reperendo contemporaneamente all’interno di esso le risorse capaci di metterlo in discussione e di sovvertirlo. L’impossibilità di accedere a uno spazio discorsivo e di azione che sia anteriore alla legge e alla norma non vorrebbe indurre, infatti, a forme di quietismo politico e intellettuale, ma piuttosto al reperimento delle reali condizioni di un agire sovversivo che assume consapevolmente le condizioni linguistiche e materiali della sua stessa emersione. Nessun discorso veramente critico, infatti, può basarsi su ipostatizzazioni che reiterano la stessa legge che vorrebbero mettere fuori gioco: concetti come genere, natura, donna, sesso, sono inestricabilmente definiti e presi all’interno di pratiche discorsive e relazioni di potere che ne definiscono lo statuto, che sanciscono le norme di inclusione e di esclusione e, pertanto, non vi è alcuna garanzia che, cercando di parlare di natura, e quindi di recuperare uno spazio originario e incontaminato di discorso, non si stia, in realtà, semplicemente usando un vocabolario naturalizzato. Un metodo di questo genere rischia, però, di rimanere affetto da forme di idealismo linguistico, se astrae dalle forme storicamente e culturalmente determinate di potere e di dominio. Butler è consapevole del rischio di idealismo linguistico latente in questa impostazione e, rifiutando una contrapposizione metafisica tra sesso, in quanto dato naturale e biologico, e genere, in quanto costrutto politico-culturale preferisce parlare di “materializzazione” piuttosto che di “costruzione”: «il sesso è un costrutto ideale che viene materializzato
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a forza nel tempo»46 per cui i corpi sessuati secondo la polarità esclusiva maschio-femmina esistono, si materializzano nella misura in cui la reiterazione di una norma non si sovrappone semplicemente a una materia inerte, come nella classica contrapposizione tra natura e cultura, ma agisce dinamicamente su di essa al punto che non si può parlare di materia se non come «un processo di materializzazione che si stabilizza nel tempo per produrre quell’effetto di delimitazione, fissità e superficie che noi chiamiamo materia»47; il che, ovviamente non implica una creazione di corpi, ma soltanto che i corpi di cui parliamo sono da sempre inscritti in quelle norme che contemporaneamente li plasmano e forniscono i concetti per parlarne. Si potrebbe ipotizzare, come soluzione a questa impasse che, pur non essendo accessibile una posizione prediscorsiva e quindi anteriore a una norma, sia possibile ricorre a vocabolari differenti, per quanto in maniera mediata o indiretta: è a questo che si riferisce Foucault quando consegna alla critica genealogica il compito di cogliere «nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo»48 o quando reperisce nell’ars erotica un discorso alternativo al dispositivo di sessualità che potrebbe, in linea di principio essere eticamente o politicamente riattivato. Butler, invece, concentrando la sua attività decostruttiva sulle grandi invarianti, quali la Legge del padre lacaniana o le strutture della parentela di Levi-Strauss, sembra, in via preliminare, prendere sul serio la loro pretesa di universalità per mostrarne i punti di tensione interni, piuttosto che confrontare quelle forme discorsive con alternative storicamente documentabili, e anzi manifesta un aperto scetticismo per questo genere di operazioni. La descrizione foucaultiana dei piccoli piaceri di Herculine Barbin rappresenta, agli occhi di Butler, un tentativo di reperire un piacere precedente la norma: Foucault invoca la figura di una molteplicità libidica pre-discorsiva che effettivamente presuppone una sessualità “davanti alla legge”, di più, una sessualità che attende di essere emancipata dai vincoli del sesso49. J. Butler, Corpi che contano, cit., p. 1. Ivi, p. 9, corsivo nel testo. 48 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Id. Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, p. 228. 49 J. Butler, Questione di genere, cit., p. 138. 46 47
184 Carlo Parisi Senza entrare nel merito della fondatezza della critica che Butler muove a Foucault, in questo brano si manifesta con chiarezza la differenza dei punti di vista tra i due: mentre Foucault è interessato all’analisi di discorsi storicamente determinati, per i quali la ricerca di un esterno è in linea di principio possibile, per Butler, come per Derrida, sembra che non si possa uscire dalla storia della metafisica. Se per Foucault un “atteggiamento limite” è praticabile e auspicabile, e consente di affacciarsi all’esterno del discorso che teniamo, per Butler ci si può al massimo spingere, per così dire, fino al suo limite interno, secondo un procedimento critico che deve probabilmente più a Derrida che non a Foucault; dietro la molteplicità dei dispostivi di sapere-potere permangono delle strutture che, per quanto culturalmente determinate, agiscono a un livello di profondità tale da risultare inaggirabili: la nostra stessa costituzione di soggetti che vengono alla luce, limita la nostra possibilità di diventare altro da noi stessi. Specularmente a Foucault, dunque, Butler cerca di reperire le risorse per un discorso critico proprio confrontandosi con discorsi, come quello psicoanalitico, che si assumono il compito di formulare le leggi invarianti che definiscono la natura umana. Ne La vita psichica del potere, infatti, Butler scrive: Mi sto muovendo nella direzione di una critica psicoanalitica a Foucault, perché penso che non si possa spiegare l’assoggettamento e, in particolare, il processo tramite cui si diviene principio del proprio assoggettamento senza ricorrere a una spiegazione psicoanalitica degli effetti formativi o generativi della restrizione e della proibizione50.
Butler, infatti, tende a non distinguere tra norma e legge perché se da un lato la sua analisi «prende le mosse dall’idea foucaultiana che il potere regolativo produce i soggetti che controlla»51, contemporaneamente occorre cogliere «il modo in cui la «repressione» agisce in quanto modalità del potere produttivo»52. Butler recupera così il concetto di psiche, distinguendolo sia dall’anima, che dal soggetto, per individuare il luogo in cui la repressione attuata dalla legge è allo stesso tempo produttiva di ciò che eccede il soggetto: l’inconscio. Sovrapporre psiche e anima, come J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 82. J. Butler, Corpi che contano, cit., p. 21. 52 Ibidem. 50 51
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fa Foucault in Sorvegliare e punire, significa cadere integralmente nella trappola imprigionante del potere disciplinare o, detto in termini lacaniani, l’inconscio è ciò che viene escluso dal posizionamento del soggetto nel Simbolico, viene ricollocato al suo interno, annullandone così le possibilità di resistenza: La psiche, dunque, includendo l’inconscio, è molto diversa dal soggetto. È esattamente ciò che eccede gli effetti imprigionanti della pretesa discorsiva di abitare un’identità coerente. La psiche è ciò che resiste alla regolarizzazione che Foucault ascrive ai dispositivi normalizzanti53.
La psiche, dunque, pur essendo determinata nella sua struttura dall’azione della norma, non può mai essere saturata dal potere, ma anzi porta fin dall’inizio il segno di una resistenza e di una opposizione possibile, tutte le costruzioni di una identità psico-fisica, volte a normalizzare condotte e comportamenti, producono il loro punto di attrito che può essere reso eticamente e politicamente rilevante proprio nella misura in cui l’identificazione psichica con l’ideale dell’io produce e al contempo interdice ciò che a quell’ideale non può conformarsi. Secondo un’impostazione classica della psicoanalisi freudiana, dunque, nell’inconscio trovano accoglienza i desideri che non superano il vaglio della censura psichica e che, quindi, non risultano compatibili con le norme di quella stessa rimozione. Occorre però puntualizzare che Butler non si muove in una prospettiva in qualche modo neomarcusiana, secondo cui ciò che si trova sepolto nell’inconscio dovrebbe diventare un’istanza di liberazione: si tratta di uno spazio possibile di resistenza e non di una verità più profonda che il potere avrebbe occultato e che occorrerebbe liberare. Che il valore politico che Butler attribuisce al concetto psicoanalitico di psiche non ricada in un modello “repressivo” di cui Foucault ci ha insegnato a diffidare emerge con chiarezza in riferimento proprio alla questione della resistenza etica e politica che si può opporre ai tentativi normalizzatori della norma: non la verità di un io più profondo che il potere avrebbe ingabbiato, ma una serie di risorse che testimoniano di una resistenza già da sempre presente. La critica che Butler muove a Foucault si orienta, infatti, proprio su Sorvegliare e punire e su una serie di conseguenze che derivano dalla famosa 53
J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 82.
186 Carlo Parisi immagine dell’anima prigione del corpo, che può implicare, seppure contro le intenzioni dello stesso Foucault, una concezione del potere come dominio dal quale non si possa mai fuggire: da questo punto di vista la psiche – e quindi l’inconscio – definisce i limiti della normalizzazione54. Queste istanze inconsce esistono a un livello presoggettivo, per cui possiamo dire che, se il soggetto risulta fondato e creato, non si tratta certo di una creazione ex nihilo. È straordinariamente significativa, da questo punto di vista, l’analisi che Butler sviluppa a partire da Nietzsche, autore nei confronti del quale Foucault si è sempre sentito debitore: la fondazione della coscienza, secondo la lettura butleriana di Genealogia della morale, trova il suo punto di applicazione non tanto sul “corpo”, che è a sua volta significato definito e reso comprensibile all’interno di dispositivi di potere, quanto piuttosto in una forza, o in una serie di forze: la volontà. Non si tratta, afferma Butler «[della] volontà di un soggetto, né il risultato dell’applicazione delle norme sociali»55, quanto piuttosto di una volontà che, non trovando più spazio per la sua azione produttiva verso l’esterno si trova a dover piegare verso se stessa producendo, in questo modo, lo spazio della coscienza. La metafora del movimento inibito della volontà consente a Butler di recuperare uno spazio di anteriorità al soggetto, senza riferirsi a proprietà eminentemente personali e soggettive. Recuperando concetti come quello di repressione e di interdizione, Butler è in grado di reperire le possibilità di una resistenza al potere, senza però rivestirla di caratteri fondazionali o naturali, e anzi il suo intento è proprio quello di reperire spazi per un agire politico che metta in discussione le pretese identitarie e normative, sfruttando e radicalizzando quei punti di attrito intrapsichici che abbiamo analizzato. Questi attriti però non si collocano soltanto a livello psicodinamico, determinano anche il rapporto con il proprio corpo: la categoria sesso, ad esempio, funziona in modo simile: da un lato, raccoglie e unifica arbitrariamente determinate caratteristiche fisiche rivestite di significati imposti dal campo socio culturale, dall’altro ne esclude altre, ma questa unificazione è definita sostanzialmente dalla norma eterosessuale: «il sesso è l’effetto di realtà prodotto da un processo violento che viene occultato da quello stesso effetto»56. La grammatica cui facciamo ricorso per parlare del sesso Ivi, p. 83. Ivi, p. 64. 56 J. Butler, Questione di genere, cit., p. 162. 54 55
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è l’eredità di questa violenza, ma è proprio a partire da una violenza di questo genere che siamo costituiti come “soggetti”; per descriverla, Butler fa riferimento a un vocabolario etico che segnala come il soggetto chiamato all’esistenza mediante l’azione delle norme e il corpo che è plasmato secondo le strutture di potere producano una forma di esperienza caratterizzata dalla colpa e dalla melanconia, associate a un determinato rapporto di perdita che ci lega al nostro corpo. Butler nota un aspetto sottovalutato, ma significativo, nell’opera di Foucault: facendo riferimento al testo Nietzsche, la genealogia, la storia, si può evidenziare come, in Foucault, sembra che il soggetto emerga a discapito del corpo: «il soggetto non solo prende effettivamente il posto del corpo, ma agisce come l’anima che dà forma al corpo in schiavitù»57. L’esperienza del nostro corpo si dà, dunque, nella forma del «già […] distrutto»58, rendendo da un lato impraticabile il sogno di una sua emancipazione, di una restitutio della sua integrità precedente all’incontro col potere, ma dall’altro individua uno spazio di ricostituzione che può assumere sia forme etiche – come quelle che Foucault ha individuato nello studio del mondo antico – sia forme più propriamente politiche di rifiuto e di insubordinazione59. Sia il corpo, sia il soggetto, dunque, non possono essere integralmente saturati dalle relazioni di potere che li formano, pur risultando sovradeterminati da esso; anzi se, come afferma Foucault, l’etica è «la pratica riflessa della libertà»60e se, come sostiene Butler, il nostro stesso tentativo di narrarci, pur emergendo su un terreno che non abbiamo scelto, può aprire lo spazio a un dialogo con un altro, proprio in virtù della nostra costitutiva non autosufficienza, e, secondo una prospettiva di forte impronta levinasiana, aprirsi all’appello e alla responsabilità nei confronti dell’altro, le prospettive etica e politica possono essere pensate proprio a J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 87. Ibidem. 59 Si può fare riferimento, per esempio, agli studi dedicati da E.P. Thompson alle resistenze al disciplinamento di fabbrica imposto alla forza lavoro inglese nei decenni della rivoluzione industriale; cfr. E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, Harmondsworth, Middlesex 1962, o ai molti testi di Foucault legati all’esperienza più diretta nel GIP, in gran parte ora raccolti in L’emergenza delle prigioni, La casa Usher, Firenze 2011. 60 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica di libertà, in Id., Archivio Foucault 3, cit., p. 276. 57 58
188 Carlo Parisi partire dalla possibilità di applicare una critica riflessiva a noi stessi e alle norme che ci hanno prodotti61. Butler cerca di rinvenire, proprio a partire da una fenomenologia del dolore psichico prodotto dall’impossibilità di adattarsi integralmente alle norme, la possibilità di pratiche etiche e politiche alternative. Lo stesso Foucault ha rielaborato, negli ultimi anni della sua vita, un concetto assai ricco di esperienza etica, intesa come rapporto a sé capace di riguadagnare spazi di autonomia mediante pratiche di libertà disponibili per soggetti formati, ma mai meccanicisticamente determinati dalle relazioni di potere in cui sono immersi: credo sia a partire dal concetto proteiforme di esperienza che si può, da un lato, comprendere in che modo le norme ci formano in quanto soggetti con una psiche e un corpo ma che, allo stesso tempo, sia proprio dalle tensioni, dalle incongruenze di queste forme di esperienza che derivano spazi di agibilità politica. Come ha giustamente notato Butler, «quando l’“io” tenta di dar conto di sé, quando cioè tenta di restituire un racconto che includa le condizioni del suo stesso emergere, dovrà necessariamente diventare un teorico sociale»62. Da questo punto di vista, le prospettive di Foucault e Butler, pur con le differenze che ho cercato di mostrare, forniscono i mezzi per pensare, insieme, le forme del nostro assoggettamento e gli spazi possibili per la nostra libertà. Carlo Parisi Università di Pisa carlo.parisi81@gmail.com
. Bodies Subjects Norms This paper tries to shed a light, in Foucault’s works, on the developments of – and the relations between – the disciplinary power, as it is described in Discipline and Punish, and the production of subjectivities as it has been outlined in Psychiatric In Critica della violenza etica Butler sottolinea come, pur facendo propri molti aspetti foucaultiani dell’etica – in particolare il suo aspetto creativo e rigorosamente anti-prescrittivo –, in Foucault manchi uno spazio adeguato per la relazione con altri; cfr. J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 26-39. 62 J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 16. 61
Corpi Soggetti Norme 189 Power and Abnormal. If, according with Dreyfus and Rabinow, in Discipline and Punish we can find a genealogy of the modern individual considered as an object, because power is primarily applied on bodies, in the two series of lectures of 1973-1974 and 1974-1975 Foucault begins to outline a genealogy of the modern individual considered as a subject. This development brings Foucault to take into account the confessional apparatus, that can be considered as a speech act by which the subject is called to tell the truth about him/herself and to tie him/ herself to that truth. This way, the subject is not just a product of relations of power but he/she is also incited to recognize descriptions and categories the power made available as the “reality” of him/herself and to use them to describe his/her conduct. Within the framework of the “making up people” defined by Hacking, we can talk about “making up selves”. From this point of view, the last section of this paper tries to integrate this definition of power whit the survey of the formation of the self given by Judith Butler in The Psychic Life of Power and Giving an Account of Ourselves; in particular, it is remarkable the different approach to psychoanalysis that allows Butler to rework the concept of unconscious and to describe a ontogenesis of subjects shaped by power, largely compatible with the historical filogenesis elaborated by Foucault. Keywords: Foucault, Subject, Confession, Disciplines, Self, Psyche, Power.
The Departure from Categories and the Temporality of Norms Working through Political Epistemology with Foucault and Butler Martina Tazzioli
Referring to the emergence of the category of perversity in the medical
and juridical expertise, in Abnormal Foucault argues that «the constellation of notions which relate to perversity enables medical notions to function in the field of juridical power and, conversely, juridical notions functioning in the field of medical power […] It functions as a switch point, and the weaker it is epistemologically, the better it functions»1. These sentences provide a clue of Foucault’s reflections on normalization and, together, the regimes of truth at stake in the economies of power and knowledge. Indeed, in that passage Foucault stresses that the question of medical, juridical and epistemic categories cannot be addressed than by investigating the “field” of powers-knowledges in which they are at play. Secondly, in those words he reminds us that the normative force of categories does not rely on the epistemic referent itself; rather, it functions precisely because of its political nature which enables different domains of knowledge being translated or integrated into a new regime of truth, and reorganized according their polyvalent tactic2. Moreover, as Foucault notices in The Will to Knowledge, the economy of power implicates also a certain politics of the visible, that functions distributing bodies in space and tracing an economy of (accepted and non-accepted) irregularities. By “economy of power” Foucault seems to indicate a regime of multiple distributions and repartitions articulating with the production of specific subjectivities. Indeed, this analytical attitude is well encapsulated in Foucault’s definition of the norm as a “political concept” – drawing on and revising Canguilhem’s formula that sees the norm as a “polemical concept”. Starting from this background, scholars have coined the notion of “political epistemology” to retrace and stress M. Foucault, Abnormal. Lectures at the Collège de France, 1974-1975 (London: Verso, 2003), p. 33. 2 M. Foucault, The History of Sexuality, Vol.1: The Will to Knowledge (London: Penguin Books, 1998). 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 191-215.
192 Martina Tazzioli the historical emergence and the normative force of not so much epistemological categories as the regime of truth which underpin fundamental experiences, fields of knowledge and governmental technologies like sexuality, medical expertise3. It could be rephrased as the battlefield of a politics of truth, whose evidences and epistemic pillars need to be unfolded as the temporary outcome of power relations. But political epistemology does not stop at this task: it aims at bringing into focus the lines of fragility and the instabilities which percolate the supposed solidity of a given regime of truth. In other words, how destabilizing a field of intelligibility by reversing, reinvesting or appropriating it, is in a nutshell the goal and the response mobilized by political epistemology up against normative fixed subject-positions. This is the theoretical space in which this intervention situates for interrogating together Judith Butler and Michel Foucault on the power of normalization and the production of “bordered” subjectivities. In fact, this contribution does not (only) aim at tracing affinities and discontinuities between the two philosophers but at working with Butler and Foucault for unpacking the normative and contested terrain of the power of partitioning conducts, producing “profiles”. For this purpose, I suggest, it is necessary to sift the ways in which, regimes of truth, powers of normalization and production of subjectivity relate each other. In this context, the works of Butler and Foucault represent the main theoretical coordinates along which building the analysis. However, the use of the two authors that I propose here has not purpose of corroborating empirical analyses with a pre-existing conceptual grid, nor of “applying” their theories and tool-boxes. Rather, the choice to mobilize some of their reflections on the power and the functioning of norms and categories depends on the analytical gazes that those works enable to assume for shedding light on fundamental issue. The “Field” and the “Scene” According to Foucault’s analyses on the power of norms, each norm has not only a regulative function but also a productive one, tracing the effective conditions through which mechanisms of normalization are put A.I. Davidson, Des jeux linguistiques à l’épistémologie politique, in A.G. Gargani, Le savoir sans fondements (Paris: Vrin, 2013). 3
The Departure from Categories and the Temporality of Norms 193
into place: the norm disciplines and regulates, the norm qualifies and corrects the conducts. And it is precisely in this sense that the operation of the norm can be regarded as eminently “positive”: the norm starts with and puts into place mechanisms of partition and discrimination4, but the norm also shapes and distributes irregularities. The norm produces: this assumption has been in part questioned, or at least complicated, by Foucault in Security, Territory, Population, where the French philosopher explains that the rationale which sustains dispositives of security and technologies of government does not posit the norm as first: indeed, the norm is the result of processes of normalization, namely of an average around which social phenomena should be maintained and managed. Nevertheless, it remains that when a norm is at play it gives rise, in connection with other norms, to a certain “epistemological organization” of the subjects’ experiences. However, from the standpoint of political epistemology it is important to notice that for Foucault that very epistemological organization actually refers to a strugglefield: «crime became an important issue for psychiatrists because what was involved was less a field of knowledge to be conquered than a modality of power to be secured»5. This is not to say that knowledge is an expression or a concealement of power relations: to the contrary, in Foucault’s view knowledge is part of that strugglefield and it contributes to trace a field of power relations. Butler concurs on this point, stressing the twofold force of the norms in acting both as regulatory law and as a normative operator producing the very bodies it governs: the norm simultaneously individualizes and makes individualization possible, working as a principle of comparison. That said, from the standpoint of political epistemology the productive force of norms has to be addressed in relation to the “field” of power-knowledges in which it operates and that it contributes to create. In fact, the norm works in function of a certain economy of power and, simultaneously, as the constitutive element which makes that economy concretely operative in tracing different partitions. The spatial notion of “field”, I suggest, is a stable explicit or implicit occurrence in the work of Foucault, often articulated in terms of “disposiSee Abnormal, where Foucault argues that the normative function of psychiatry to work as a discriminant. 5 M. Foucault, About the Concept of the “Dangerous Individual” in 19th Century Legal Psychiatry, in P. Rabinow & N. Rose (eds.), The Essential Foucault: Selections from the Essential Works of Foucault, 1954-1984 (New York: New Press, 2003), pp. 209-227. 4
194 Martina Tazzioli tive” or of “regime”: what the working of norms produces is ultimately a certain field of intelligibility and of political intervention – sexuality, abnormality, illegality. Thus, Foucault pushes us to investigate the ways in which norms craft and multiply medical-juridical categories within the economy of power in which they play. If Butler deals with the emergence and the exclusionary functioning of (sexual) identities, Foucault actually brings attention to conducts, as the correlate of strategies that invest and cross that make them as object of power and knowledge. The “figures” and the “characters” described and taken into account by Foucault in Abnormal and in The Will to Knowledge emerge as the outcomes of specific political technologies, knowledges and transformations6. From this perspective, the destabilization of the political “stable signifiers” mentioned by Butler requires first of all to unsettle both political technologies and the discursive regime that sustain them: the “troubling of categories” does not necessarily shake the “field”, namely the economy of power/knowledges in which those categories are at play, unless the “chain of equivalences” and the epistemic “evidences” of that field are not in turn troubled. For this reason it is less the subversion of categories in itself that is at stake in Foucault than the epistemic and political constellation upon which they are predicated. In fact, in Foucault’s analyses of the medical-juridical continuum and of technologies of normalization we see that the emergence of epistemic categories or their abandon depend on two related processes: on the one hand, on the settling of new conceptions and logics through which a given object of government is framed; and on the other hand, on the technologies of power responding to certain social conducts/actions. For instance, the fact that in the XIX century «t there appear in the field of legal psychiatry new categories, such as necrophilia, kleptomania and exhibitionism» was the correlate effect of a new conception of mental illness as a set of complex and polymorphous processes making possible that «t the whole field of infractions could be held together, in terms of danger»7. Against this background, one could interrogate the ways in which Butler and Foucault conceive of the relation between norm and subjectivity, namely the leeway for resistance that subjects could play with. One of the main criticisms against Foucault concerns the supposed impossibility 6 7
Foucault, The Will to Knowledge, pp. 147-149. Foucault, Dangerous Individual.
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of a space of the outside in relation to the norms: the peculiar character of normative power consists in percolating and investing all conducts and spaces. For instance, as Foucault explains in Abnormal, the field of “abnormality” is produced precisely through the working of the norm, and for this reason, as he shows in The Will to Knowledge, normative power operates rather by distributing conducts around the norm8. Any space of the outside seems to be precluded. If we switch the attention to the way in which Butler comes to grip with this impasse – that she also notices in Gender Trouble – we see that she focuses on the way in which “the force of regulatory law can be turned against itself ” in the process of reiteration that each norm requires in order to be enforced9. But how does the mechanism of subversion and risignification work to the extent that subjects are, following Butler, constituted from the outset by a social world they never choose? And from the standpoint of political epistemology, how could one destabilize or reverse identity categories10? If on the one hand Butler insists that terms are never fully tethered to a single use on the other hand it remains unclear how the political resignification of identities and categories could effectively work, since the norm does not apply to bodies but shape them from the very beginning – for instance as gendered bodies. In this regard, the theoretical move undertaken by Butler consists in displacing the very terms of agency and autonomy which usually underlie reflections on political subjectivity. Indeed, rephrasing Butler, the subject postulated in acting a subversion of identity categories is not a subject who stands back from identifications choosing how to play simultaneously with some of them disengaging from some others.: rather, it is an ambivalent site resulting from the imbrications of different and conflicting normative categories, acquiring a coherence through the iterability of those very norms. What Butler seems to suggest is the possibility for the subject to remake the functioning of identity categories, starting precisely from the different determinants that simultaneously, and combining each other, form a temporary subjectivity. Referring to the power of norms, Foucault argues that «it does not have to trace the lines that separates the enemies of the sovereign from its obedient subjects; it effects distributions around the norm» (Foucault, The Will to Knowledge, p. 144). 9 J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity (New York: Routledge, 2008). 10 J. Butler, Parting Ways. Jewishness and the Critique of Zionism (New York: Columbia University Press, 2012). 8
196 Martina Tazzioli Going into detail, it is precisely due to the ambivalent correspondence between language and the materiality of the body that the effective positions of subject exceed from the designations and the referents through which is mattered by regulatory norms. This is strictly related to the way in which Butler thinks of the emergence of the subject, and also of the body as always constituted and sustained in language: «the body is alternately sustained and threatened through modes of address […] To be addressed is to have the very term conferred by which the recognition of existence becomes possible»11. From this perspective what is posited as primary is the scene of address in which subjects are not simply recognized or in which could lay claim, but rather as the condition of possibility which materially structures the production of the subject. “Scene” (of address), more than a “field” of knowledges, techniques and powers, since it presupposes on the background the frame of recognition and interpellation as constitutive processes through which subjects become what they are. In this sense, although Butler criticizes and dismisses analyses built on personification of power – as an instance which acts – it remains that subjects are supposed to subvert from within the functioning and the effects of norms always through processes of resignification, up against normative frames with precede them. Which Subjects, Which Norms? An Analysis of the Two Temporalities of the Norm Therefore, it is not a question of a subject that resists or refuses certain identities, since there is not something like an outstanding subjectivity upon which norms and categories are “attached”. To the contrary, the act of shaping and “mattering” exercised by norms is coextensive to the very emergence of subjectivity and also of bodies12. On this point Foucault would concur with Butler that the norm is not exterior to the field of application. Nevertheless, while Foucault gives prominence to J. Butler, What is Critique? An Essay on Foucault’s Virtue, in D. Ingram (ed.), The Political (London: Basil Blackwell, 2001). 12 «The irreducible materiality is constructed through a problematic gendered matrix […] and if the constituted effect of that matrix is taken to be the indisputable ground of bodily life, then it seems that a genealogy of that matrix is foreclosed from critical inquiry»; J. Butler, Bodies that Matter (New York: Routledge, 1993), p. 29. 11
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the techniques and knowledges that materially distribute or partition or allocate bodies in space, Butler associates the work of the norm with symbolic significations through which bodies come into being13. The crafting of the subject as traced by Butler seems situating between two poles. On the one hand, and differently from Foucault, the “force of the law” is ultimately posited as what stage the constitutive lack in the subject – that Butler takes into account drawing on and in part differentiating from Zizek – through an exclusionary symbolization. On the other hand, the materiality of bodies always «takes place through a signifying process», and consequently there is no a subject behind or beyond the norms to discover or to address»14. Instead, this is only partially true in Foucault, where the productive function of the norms does not coincide with the very existence of the bodies. Indeed, a recalcitrant materialism underlies Foucault’s descriptions of disciplined bodies, both in Discipline and Punish and in The Will to Knowledge15: «deployments of power are directly connected to the body – bodies, functions, physiological processes, sensations and pleasures, far from the body having to being effaced»16. The body is at the very core of power technologies, invested by them, or better «they can get through to the very depth of the bodies, without being relayed by the representation of the subject»17. However, this is not to indicate a nature altered by power or a body that needs to be liberated: indeed, Foucault shifts the attention from the existence of the bodies to the way in which they are produced as subjects through the working of political technologies that constitute them as objects of government. Highlighting the materialism which sustains Foucault’s description of bodies invested by power’s technologies does not mean postulating a nature in the end: to the contrary, as Pierre Macherey points out, normalization does not apply to a given The signifying act delimits and contours the body that it then claims to find prior to any and all signification. This is not to say that the materiality of bodies is simply and only a linguistic effect which is reducible to a set of signifiers. Such a distinction overlooks the materiality of the signifier itself. 14 Butler, Bodies that Matter, p. 68. 15 In The Will to Knowledge Foucault talks about a proliferation of political technologies that invest the bodies, the way of eating, of living and the whole knowledge of existence. 16 Foucault, The Will to Knwoledge, pp. 150-152. 17 M. Foucault, Power affects the Bodies, in S. Lotringer (ed.), Foucault’s Live. Michel Foucault. Collected Interviews. 1961-1984 (Los Angeles: Semiotext(e), 1996), pp. 207-213. 13
198 Martina Tazzioli nature but it makes the materiality of bodies open to transformation, thus producing a sort of second nature, a paradoxical unnatural nature. Close on this point to Butler’s argument on the instabilities produced through the reiteration of the norm, the “nature” which stems out from the mechanisms of normalization is «an unstable condition which gleans its own substance from its own instability»18. The norm is responsible for the becoming normal and natural of its own exercise/functioning. In some way it could be argued that from a Foucaultian perspective the stake of political epistemology concerns the economy of subjectivity through which bodies are produced as irregular conducts, productive subjects, hysterical women, pathologic sexualities… It is not the body as such that is the object of Foucault’s political investigation, but the economy of powers through which, historically, bodies become other than bodies; that is to say, they become objects of government as (irregular) conducts or as disciplined bodies. This aspect leads me to suggest that two different temporality of the norm are taken into account by Foucault and Butler: while in Butler’s works is unfolded what I would call an ontogenetic temporality of the norm – which is at stake in the very production of the body, first of all as feminine or masculine – Foucault traces a historical and genealogical account of the ways in which bodies have been governed over the centuries and in different spaces. For instance, the heterosexual norm is critically scrutinized by Foucault in The Will to Knowledge from a historical point of view, marking the moment when the dispositive of sexuality, in which the very heterosexual normative desire should be placed, comes out. To the contrary, in Butler the performative character of heterosexuality is posited as one of the first normative partitions which organize and shape bodies from their very inception: even though Butler admits the historicity of the norm, the heterosexual paradigm is denaturalized not through a historical-genealogical perspective but as a product of discursive regimes and regulatory practices instantiating the binary relation between genders19. The operation of the norm which interests Foucault always entails to take a certain margin and distance from the production of the body – as life invested by power – bringing instead attention to the forms of subjectivity which define certain singular conducts (the perverse adult, the criminal, 18 19
P. Macherey, Il Soggetto Produttivo. Da Foucault a Marx (Verona: Ombre Corte, 2013). J. Butler, Undoing Gender (New York: Routledge, 2013), pp. 31-32.
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the onanist child, the hysterique woman). Although Foucault stresses that since the late XVIII onward life itself has become the object of power and of political technologies, then he actually deals with the mechanisms and the effects of normative power working at the level of conducts, or better in analysing how they produce subjects as conducts and as objects of knowledge and government. The Desirability of Categories and the Bridling of Norms Butler’s concern with “citational practices” required to the norm its enforcement seems leaving more room for subverting identity categories than Foucault’s account. Actually, differently from Butler, the effects of subjectivation produced by normative power are never framed by Foucault in terms of identity20: as it is well-known Foucault always deliberately escapes the paradigm of (political) recognition, and what he tries to bring out are the forms of subjectivities that normative power put into being – how subjects are materially performed as deviant conducts or perverse sexualities – beyond any effects of representation. In fact, on the one hand Butler challenges politics of representation postulated in feminist discourses, whichrepresent women as the subject of feminism while this latter «is actually discursively constituted by the very political system that is supposed to facilitate its emancipation»; concluding that «juridical power inevitably produces what it claims merely to represent»21. On the other hand, Butler does not fully get rid of the juridical frame, positing recognition as a central stake that relies on the fundamental vulnerability On this point see also M. Foucault, Sex, Power and the Politics of Identity, in Foucault’s Live, pp. 291-296, where Foucault clearly opposes creation and inventiveness of different ways of life with the question of identity – how to adhere to certain categories or to belong to a given culture. In fact, one of the distinctive elements characterizing the production of different ways of life is the impossibility to plan in advance the effects and the consequences of these new modes/practices one engages in. Eventually, Foucault argues, identity emerges as a correlate outcome of new relationships – which are not exclusively “social”, since they do not involve people only as social beings. 21 Butler, Undoing Gender, p. 3. Indeed, as Butler clarifies «gender is not a noun, but neither it is a set of free-floating attributes, for we have seen that the substantive effect of gender is performatively produced and compelled by the regulatory practices of gender coherence» (p. 34). 20
200 Martina Tazzioli of the structure of the self22. If for Butler the question is how subjects are performed and seen by power, Foucault concentrates rather on the first aspect – how subjects are effectively produced as conducts – ousting at the same time the juridical referent that, as he remarks in The Will to Knowledge, still persists in Western political thought. Indeed, the frame of recognition reinstantiates the centrality of the law in partitioning and producing subjects. Foucault conceives of juridical matters as compensatory mechanisms which sustain and enforce technologies of government and discipline, operating a sort of translation, since they come to present power as an instance which acts upon subjects. The “inadequacy” of the couple law-representation depends first of all on historical reasons: this is not to say that the norm is an invention of the XVIII century, but the fact that society has been redefined by the norm, Foucault contends, entails different mechanisms of surveillance, technologies of control and, most of all, an incessant visibility. By arguing that the norm follows from the law, Foucault engages in a historical and genealogical account, not for positing a succession lawnorm but to investigate ways in which the law has been deeply invested and reorganized in the light of the social extension of the norm. Instead, it seems that in Butler the norm is defined and is at play within an invariable frame of law: although the historical dimension of the norm is stressed, the juridical matrix is assumed as the still operative principle that informs any other mechanism. Moreover, it is not in terms of identity categories that Foucault copes with the mechanisms of normative power23: he gazes at the effects of subjectivation that do not concern how subjects stay before law but, rather, how they are constituted in the materiality of their conducts. However, conducts and not bodies: or better, the effects of normative power that Foucault brings into focus refer to the shaping of subjects according to the twofold sense of the meaning, Drawing on Hegel’s Phenomenology of the Spirit, Butler reframes the issue of recognition distinguishing between the self, as always entangled with the others and exposed to vulnerability from the very beginning, and the subject, that in Western philosophical tradition is conceived as a self-autonomous instance. 23 To be more precise on this point, it should be stresses that for Butler identity itself and its internal coherent is the result of regulatory practices of gender formation, that assure a certain stability and intelligibility to it (see Butler, Bodies that Matter, pp. 22-23). However, despite it is the correlate referent of normative practices, in Butler’s account the issue and the struggle over identity are at the core of gender politics. 22
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namely subjectivation and subjection as two coextensive and inextricable processes. Foucault’s analyses on normalization and normative categories are never detached from an inquiry on the transformations of the political technologies and the “field” (the economy of power and knowledge) in which those processes situate. And it should not pass unnoticed that the first occurrence of the notion of “government” appears in the second Lecture of Abnormal – so, well before the reflection of the pastoral power and the reason of state – for describing the positive technology of power “invented” in the XVII century, through which new conducts or social classes came into being and certain subjects started to be object of medical knowledge. «The Classical Age developed therefore what could be called an “art of governing” in the sense in which ‘government’ was then understood as precisely the “government” of children, the ‘government’ of the mad, the ‘government’ of the poor, the ‘government’ of workers […] The Classical Age refined a general technique of the exercise of power»24. The shaping of conducts or the emergence of new epistemicmedical categories is taken into exam by Foucault as the mark of reinvestments, transformations and reorganizations at the level of technologies of power, and as a response to conducts, movements and practices which, at some point, have become unbearable25. The Power’s Function of Doubling and the Uneven Forms of Subjectivities What are precisely the effects of subjectivation and knowledge produced by power of normalization? In a nutshell, normalization gives rise to process of “doubling”, meaning by that two overlapping but distinct things that I introduce leaving space to Foucault’s descriptions. First Foucault, Abnormal, pp. 48-49. In Discipline and Punish Foucault remarkably analyses the new criminal conducts which started to be sanctioned at the end of the XVIII century, arguing that with the ascent of the bourgeoisie the crimes against private property became the main target of the penal system. Foucault underlines that this was not merely the outcome of power’s new policies and rationale: rather, the criminalization of those forms of irregularity was a at the same time the response to the shift of criminal actions towards thefts and to the increase of labour vagrancy, in turn effect of the more and more strict property law. See M. Foucault, Discipline and Punish: The Birth of the Prison (New York: Vintage Books, New York 1977), pp. 81-85 and pp. 302-303. 24 25
202 Martina Tazzioli scene, Twenties of the XIX century, France, court juries deciding on a crime committed by a person declared “mad”. A fundamental changed occurred in the penal law, mad and crime were not considered anymore as two incompatible phenomena, and the person in question is sentenced to stay in a psychiatric hospital. The medico-juridical continuum, Foucault contends, was created: «it became possible to pass sentences that were not modulated according to the circumstances of the crime but according to the description, assessment and diagnosis of the criminal himself […] This technique of dual qualification organizes the realm of that very strange notion of ‘perversity’ […] that will dominate the entire field of this double determination»26. Second scene, second half of the XIX century, still in France, psychiatric expertise judges upon conducts to medicalize: the family, the school, the neighbourhood and the house of correction. This is now the object of medical intervention. Psychiatry thus doubles these elements, goes back over them, transpose them and pathologize them, Foucault explains referring to the extension of the psychiatric knowledge. The exercise of the power-knowledge analysed in these scenes by Foucault has as its major outcome the production of a “double” of subjectivity and a “coupling” of knowledge: the power of discipline and the power of normalization “double” subjectivities producing new figures, irregular conducts or behaviours to medicalize, and multiplying sexual categories27. And simultaneously, those technologies of power “couple” the existing objects of knowledge and intervention, integrating them in new political fields of expertise. It is precisely this doubling that should be challenged and, from time to time, unsettled at its point of application. Rephrasing it in the terms of political epistemology, the stake is to destabilize the emergence of a new domain of power-knowledge associated both with the consolidation of a regime of truth and with the production of new (irregular and pathologic) conducts. How to disconnect subjectivities from the regime of truth in which they emerge as an object of knowledge and government? This is, after all, one of interrogations which percolates The Birth of Biopolitics, in the face of the rise of a technology of power – neoliberalism- characterized by a regime of veridiction which governs subjectivities as human capitals. Instead, in Butler’s work to be at issue is 26 27
Foucault, Abnormal, p. 75. M. Foucault, The Social Extension of the Norm, in Foucault’s Live, pp. 196-199.
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less the process of doubling than the emergence of subjects as gendered or vulnerable identities; and the instability of coherent identities produced by regulatory practices is ultimately constitutive of normative mechanisms. The effect of “doubling” painstakingly described by Foucault is what for Butler constantly fails to happen; or at least the possibility for the doubling to take place remains open to the effect of reiterative practices. Indeed, it is not the simple acting of the norm which grants the continuity and the unity of the experience of gender – but the same discourse can be extended also to other categories): it is only through iteration that binary epistemic oppositions and chains of signifiers (gender, sex, desire) could effectively work. After all, also in the case of performative acts, the binding effect of the speech acts depends on the citation of existing laws: «it is through the invocation of convention that the speech act of the judge derives its binding power»28. Instability and Desirability of the Normative Categories? To sum up, in Butler’s account the discrepancy political or identity signifiers and the effective position occupied by bodies is always at stake. Thus, incompleteness of the norm, or better incorrigibility of the discordant citational – and reiterative- practices that are necessary for the norm to be enforced but that go beyond the position and the identity relation they are expected to fill in. But why do subjects in part trouble, displace and resignify the function of norms insofar as there is no subject out of the norm? In part the answer should be found in the displacement of the notion of agency suggested by Butler and that I touched above. However, if we interrogate the reasons why the “failure” of the norm is possible, it is the complex weave of identities and relations that needs to be considered: indeed, Butler looks at subjectivity as a mobile site produced, sustained and crossed by multiple social and productive relations which go beyond the position described by the referent of the norm. By stressing the instability and the multiplicity of relations and of sites of negotiated identities forming a subject, Butler also fundamentally questions feminist claims and theories that posit woman as a self-standing category in search for recognition: «there is the political problem that feminism encounters in the 28
Butler, Bodies that Matter, p. 171.
204 Martina Tazzioli assumption that the term “women” denotes a common identity. Rather than a stable signifier […] gender is not always constituted coherently […] and gender intersects with racial, class, ethnic, sexual and regional modalities of discursively constituted identities»29. And in the same wake, also the category of “queer” risks, according to Butler, to reify and freeze the troubling effect it had in the beginning, once it is assumed and mobilized as a stable referent that recodifies practices and behaviours30. Thus, it is precisely because no norm could exhaustively describe the complex site of overlapping (and sometimes conflicting) social and productive relations in which subjects are imbricated, formed by and exposed to, that norm inevitably fail in part to “accommodate” and fix subjectivities within the expected boundaries. However, just because of the constitutive instability of the working of the norm and since open-ended processes of resignification are always also part of it, in Butler’s terms political epistemology could not simply consist in destabilizing political or identity signifiers. On this point two related issues need to be considered. Firstly, the desirability of the norms that indirectly emerges from Butler’s considerations on the unavoidable working of normative categories in shaping bodies – more than “inscribing” and marking them. In Butler’s view the political stake seems not to be the undoing of the normative field as such through which (gendered) bodies are constituted but the resignification and appropriation of those norms, their subversion with the purpose to open to other (multiple) signifiers, always aware of the exclusionary move that any category operates. This last implication is remarked by Butler, who cautions against the temptation to self-name as an act of reappropriation of norms, arguing that «if the term “queer” is to be a site of collective contestation, the point of departure for a set of historical reflections, it will have to remain never fully owned, but always redeployed, twisted, queered from a prior usage»31. In some ways, norms and identity signifiers should not never fully reappropriated since the subversive dimension subsists only to the extent that the openness and the undecidability of categories is not foreclosed, and the discrepancy between signifiers and the effective bodily positions is at play. Thus, Butler’s theory of the “failure” of the norm in reiterating its effects makes appear the ambivalent Butler, Undoing Gender, p. 3. See Butler, Bodies that Matter, p. 173. 31 Ibid. 29 30
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issues and outcomes at stake in a queer politics, broadly conceived here as a transformative politics which aims at troubling the functioning and the meaning of existing regulatory practices. The impossibility to fully get rid of political and identity referents leads Butler to suggest/indicate a certain desirability of the norm as producer of subjects. Indeed, in the face of the ambivalent implications of a queer politics – the risk to produced new reified categories, the necessity to subvert existing binary identities – Butler seems pushing for a normative politics which envisages a certain directionality to take starting from the instabilities and the displacements generated through the reiteration of norms. And it is in this context that the quest for universality is introduced by Butler: the possibility to avoid the exclusionary mechanisms of any identity politics and of normative categories is related to a political project of radical democracy which through the mobilization of a universal that does not exclude any forms of life from the category of “human”. On this point, Foucault’s analyses diverge and follow another path from Butler, insofar as the critical account of the power of normalization is not coupled with a political project which aims at rewriting/resignifying the field of norms and categories. The quite different political and theoretical perspectives at stake in the two authors – normative politics/genealogical critique – stems from two conceptions of the relation norm-subjectivity, as well as from the possibilities to interrupt or alter the effects of norms. Do Norms Capture Troubling Conducts ? Coming back to the criticism moved to Foucault, if it is true that there seems not to be a space out the norms and that, as Butler points out, Foucault does not account for what has to be excluded by economies of power to make them function, at the same time he stresses how technologies of normalization intervene for governing “intolerable” conducts. In other words, Foucault retraces how some conducts or subjectivities have been criminalized or medicalized within a certain economy of power, and how political technologies and regimes of knowledges had to reorganize their strategies. If we think about Pierre Rivière’s case or the hysterics in Psychiatric Power, or finally the criminalization of the small delinquency in the XVIII century, we see that disciplinary mechanisms were put into
206 Martina Tazzioli place for responding to the “disorder” provoked by those conducts which troubled existing medical and juridical categories – making impossible any kind of judgment or of diagnosis. For instance, the construction of the criminal as a dangerous individual in the XIX century was, according to Foucault, the result of two related phenomena: on the one hand the huge development of the police network which improved the surveillance system in a capillary way, and on the other hand the multiplication of social conflicts and armed revolts in the urban context, due to the new law on property. Medical and juridical categories are created and mobilized for capturing, reshaping and governing subjectivities32. And, ultimately, norms become the yardstick for evaluating individuals. To the contrary, Butler tends to present the norm as something which comes first: as she stresses in Undoing Gender, inasmuch as the coherence of the experience of subjectivity depends upon our being fully constituted, since the very beginning, from social, gendered and identity norms, there cannot be other political project than to maintain a critical and transformative relation to norms. The transformative politics that such a perspective envisages substantially refer to the possibility for subjects to occupy different places and positions than those assigned by norms: insofar as «terms are never fully tethered to a single use […] the body is that which can occupy the norm in myriad ways»33. Instead, a political epistemology which draws on Foucault would posit as its main task the destabilization of categories, with no “directionality” that could be envisaged in advanced. Thus, the issue of normative categories is not framed in terms of the performative power of linguistic determinations but, rather, as the emergence of new objects of government. But what does this act of destabilization concretely mean from a Foucaultian standpoint? I would suggest that it is in terms of a politics of truth that Foucault opens a space in that direction, starting from the consideration that any knowledge production is related to certain effects of truth. But at the same time it is precisely from those effects of truth that it becomes possible to interference with struggles, bending or integrating them in different strategies: thus, one should interrogate «these effects of truth could become implemented within possible struggles […] deciphering a layer of reality Or better, for Foucault the norm simultaneously produces subjects and reorganizes conducts. 33 Butler, Undoing Gender, p. 179. 32
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in such a way that the lines of force and the lines of fragility come forth»34. Such an attitude has the purpose of engendering what Foucault calls “the polemics of reality”, namely an effect of truth that instead of enforcing existing power relations and chains of equivalences introduces disconnections and possibilities of dissociation of those evidences and nexus35. This is a polemical dimension coming out from a certain use of history that, grounding on a genealogical approach, retraces the emergence of a certain regime of truth and makes that history works in the present unsettling the supposed legitimacy of the field of truth-powers. A Critical Account of Productive Power However, from the force of the norms and categories and their tangible effects, it does not follow that there is a full correspondence between our way of acting and living as entangled in normative mechanisms, and the manner in which we are told, narrated and labelled by them. And this does not mean to retrieve a fundamental kernel that escapes or exceeds the mechanisms of power. Rather, mobilizing Foucault and Butler the disconnection between how people effectively live and situate on the one hand, and the normative diagnostic definitions through which they are told on the other hand, relates to power and discourse. First of all, power. Up to now I referred to subjects produced by power or by categories to highlight how that subjects are neither out of power relations nor do they stands behind processes of subjection/subjectivation. However, is it “being produced by power” the right expression for describing how power relations work? Don’t we surreptitiously introduce again the opposition subject/ power, conceiving subject as an instance shaped and struggling against power? In fact, if this is the case there would be no other leeway for individuals than trying to escape or subvert from within the identity referents “attached” to their bodies. But the specificity of a political epistemology which works with Foucault and Butler relies on the model of power relations envisaged by the two authors. Indeed, although both undermine the illusion of an autonomous subjectivity captured by powers, they attentively avoid the trap of “production” as a paradigm for describing the work34 35
M. Foucault, Clarifications on the Question of Power, in Foucault’s Live, pp. 255-263. Foucault, The Social Extension of the Norm, pp. 196-199.
208 Martina Tazzioli ing of norms and of mechanism of subjection/subjectivation. To posit that conducts are shaped by those very norms that label them as subjects to govern, or to stress that norms and categories have a productive functions instead of simply investing bodies, it does not involve conceiving of subjects as the other pole of power relations. On the contrary, Foucault’s analytics of power as well as Butler’s considerations on productivity and construction in Bodies that Matter aim precisely at challenging such an image of power, reframing them as the temporary outcome of strategies and relations of force. Referring to constructivism, Butler cautions against the idea that structure produces the subject, insofar as «the grammatical and the metaphysical place of the subject is retained», since, she concludes, «construction is still understood as a unilateral process initiated by a prior subject […] This view informs misreading by which Foucault is criticized for personifying power: if power is misconstructed as a grammatical and metaphysical subject[…] then power appears to have displaced the human as the origin of its activity»36. To the contrary, Butler argues following Foucault closely, «there is no power that acts but only a reiterated acting that is power in its persistence and instability»37. In this regard it is worth to remind Foucault spatial definition of power as «the name that one attributes to a complex strategic relation in a given society»38. Neither for Butler nor for Foucault the productive force of norms and political technologies should be conceived as an action from which subjectivities flourish: productivity refers rather to the fact that techniques and categories of discipline and normalization do not merely subject existing conducts but have transformative effects and redistribute/reorganize the economy of knowledge and power. However, they do not “create” or “craft” subjects: the work of norms and categories is rather a more subtle and contested strugglefield that subjects do not simply resist or escape but constantly negotiate through practices that force political technologies to invent strategies of capture or reorganize the economy of exclusion. Therefore, the productive dimension constantly at stake in techniques of normalization is coextensive to the whole field of forces: the production that Butler and Foucault refer to does not spring from power as an instance which acts upon: «instead of this ontological opposition between power and Butler, Bodies that Matter, p. 9. Ibid. 38 Foucault, The Will to Knowledge, p. 93. 36 37
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resistance, I would say that power is nothing other than a certain modification, or the form, differing from time to time, of a series of clashes which constitute the social body»39. Instead, concerning the discrepancy between discursive categorization and the overlapping of multiple economic and social determinants, subjects can play with such a disconnection, departing in part from categories, due to the impossibility for medical or juridical categories as well as for political referents to exhaustively tell what subjects effectively are. This is not because there is a hidden nature that epistemic and discursive operations can never fully grasp: rather, it depends on the manifold and sometimes conflicting ways in which subjects are simultaneously defined, addressed and invested; and, simultaneously on how they negotiate their own conducts. Butler concurs on this analysis by highlighting the racial, class and social components which combine with the gender matrix – thus, challenging the idea that within a project of radical transformative politics one of these referents could be posited as preeminent or bearing the others. By tracing the emergence of certain conducts of government, Foucault makes us see that juridical and medical labels are the discursive crystallizations (historically determined) of strugglefields made of political technologies, knowledges and people’s movements or practice. At the same time, he brings attention to the ways in which sometimes subjects misfire mechanisms of categorization through the enactment of conducts that cannot be explained or codified within the existing frames of truth. Thus, categories and discourses cannot retain both the multiple intertwined subjectivities that we are simultaneously. Categories Are Not (Only) About Names Nevertheless, in addition to this there is a fundamental point to take into account that concerns the limits of the performative power of names and categories. And this aspect suggests, as I will explain, that a departure from categories should be taken also by those who engage in a political epistemology. In fact, in Psychiatric Power Foucault underlines that, ultimately, nosological classification is neither a question of categories nor of curing people but rather of discipline and controlling conducts and bodies, putting them to work: psychiatric categories «got no absolutely 39
Foucault, Clarifications on the Questions of Power, p. 260.
210 Martina Tazzioli hold on therapy itself – are not in fact employed here at all as a classification of the curability of the different people» concluding that they serve «solely to define the possible utilization of individuals for the work they are offered»40. After all, this emerges quite glaringly in the case of migration “profiles”, namely the categories through which people’s movements are partitioned according to a complex continuum going from “irregular” migration to “selected” mobility: illegal migrants, economic migrants, rejected refugees, asylum seekers, labour migration, skilled migrants… In the face of the multiplication of juridical status and “exceptional” cases, we should interrogate ourselves on the opportunity to address and to postulate, although critically, the epistemic field and the discursive regime of migration governmentality. In fact, it implicates not only a fostering of that regime of knowledge and truth but also a misleading understanding of the effective migrants’ conditions and of the very functioning of the mechanisms of government over migrants’ lives. That is to say, on the one hand juridical status – like refugees/illegal migrants/ migrant workers – and medical categories – like “vulnerable persons” – have concrete and dramatic effects on migrants’ lives, determining the spatial distribution of bodies and tracing conditional spaces of mobility; but on the other hand migration policies often work differently than as fixed by categories; and, moreover, the juridical status could conflicts with the effective migrants’ condition deeply influenced by economic factors. For instance, despite the formal status of refugee recognized to some migrants, the economic precariousness experienced by migrants-refugees due to the economic crisis in Europe together with episodes of racism give rise to a ‘migrant condition’ completely disconnected from the juridical and social position officially occupied by migrants. Therefore, a political epistemology approach should undertake a twofold move. This disconnection, it must be clarified, is less the symptom of a failure in the mechanisms of categorization than a way of working through discrepancies and fragmentation that one finds recurrently at play in migration governmentality; a disconnection between the regime of discourse and categories and the effective working of the mechanisms of containment, selection and bordering of migrants’ movements. M. Foucault, Psychiatric Power. Lectures at the Collège de France, 1973-1974 (London: Palgrave Macmillan, 2006), p. 128. 40
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However, it is precisely starting from such a discrepancy that political epistemology finds a terrain for undercutting and tarnishing the grip and the legitimacy of the field of power/knowledge in question. In fact, the stake becomes to unsettle the chain of equivalences and the politics of truth upon which categories and referents are inscribed. It follows that it is not (only) a question of refusing or inventing single migration terminology – for instance, by replacing “clandestine migration” with “unauthorized mobility” – than of destabilizing the supposed solidity and coherence of the so called “migration regime” that sustains the effectiveness and the force of those categories. But instead of stopping at this stage, a political epistemology should explore the functioning of partitions and categorization without taking for granted the supposed effects of normalization. An interrogation which starts from a specific issue – migration – is useful also for broadly rethinking of the effects of categorization at work at present. In this regard, it is important to take a stock of Foucault’s and Butler’s analyses, questioning to what extent normalization and categorization go together, with the latter implicating the former. As far as migration governmentality is concerned, this couple of mechanisms, I suggest, is at least in part split. Or better, the working of juridical, medical and epistemic categories is neither connected up nor results in processes of normalization. Indeed, the partitioning mechanisms which are at the very core of migration governmentality tend not to produce “doubles”: migrant conducts and the plethora of mobility profiles that proliferate in the statements released by migration agencies seem not having a “doubling” effect. Actually, what is at stake are not subjects that need to binds themselves to their discourse of truth but, rather, that are requested to “accommodate” themselves within existing juridical or medical categories which set mobility profiles; and that more than individualizing they produce exceptions to those standard categories. Thus, if we investigate the kind of subjectivity that emerges from is neither postulated not demanded to produce and discovering a truth about itself. Rather, the figures which stand out (from these mechanisms of partitioning through categorization) are subjects and conducts incapable of truth; and the truth they need to endorse is already there, unfolded in the frame of discourse and categories that migrants needs to fill in. In this sense, the truth is external to the processes of production of subjectivity. Moreover, the effects envisaged are not ultimately of the order of normalization. In fact, the issue is not to redistribute irregular conducts around a certain average of tolerable/intolerable “il-
212 Martina Tazzioli legalities”: if it is true that the migration dodgy continuum going from illegal migration to skilled migration is based on differential degrees of access to the circuits of mobility, it is fundamental to notice that one of the main goals consists in producing residual mobility profiles. These uneven conducts of mobility do not enforce the figure of the citizen-subject, by opposition (according to Schmittian logic of the external/internal enemy construction). Nor do they simply fix standard profiles through which codifying all “irregular” migration conducts. Rather, beyond all that, they tend to multiply uneven singular profiles that, from time to time, give rise to new “exceptional” cases to manage differently. Polymorphous Relations and the Departure from Categories: Emptying and Disjoining Political Signifiers Nevertheless, despite the different mechanisms through which categorization works in migration governmentality, Foucault’s analyses on the discourse of truth we are “attached” to and we are supposed to produce about ourselves provide us with an insightful lens for locating the possible points and levels of resistance and border interruptions. In particular there are two aspects mentioned above that could be mobilized and developed: firstly, disjunction and disconnection; secondly, the displacement and the multiplication of the forms of subjectivation. For understanding the disjunction that Foucault thinks of, his reflections on the homosexual and feminist movements allow us to hit it on the nail. In the face of sexual identities and binary oppositions (like homosexuality/heterosexuality, or masculine/ feminine) the stakes consists neither in taking the side of “minority” terms – reconfirming in that way the regime of truth upon which those binary partitions are predicated – nor in stretching their exclusionary boundaries: rather, it is a question of disconnecting the categories through which subjects are assigned to a certain position, from the discourse of truth and from any identity issue41. This means that the problem is not the use of those categories as such but their functioning within a certain epistemic regime. Instead, the point is how, starting from the very ways in which we In this regard, the name “gay” succeeded according to Foucault in displacing and escaping the binary opposition between homosexuality and heterosexuality, “distrusting the tendency to relate the question of homosexuality to the problem of ‘who am I?’”. 41
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are told and labelled, multiple and polymorphous forms of subjectivation could emerge. To put it differently, the issue can be posed in the following terms: how to “empty” and disjoin categories from the discourse of truth and the regulatory effects they put into place, pushing them at their own limits; to push them at the limits for opening to modes of life that “inhabit” differently those categories, or that finally starting from such a field of identification disengage and depart from it. Retranslated in Foucault’s terms, as he points out in Friendship as a way of life, the point is to make (some) human relationships not immediately or fully intelligible through the existing regimes of truth. Moreover, the production of new relationships or modes of life in which categories are disjoined from the regimes of truth and identity in which they were originally situated, should not be restricted to social relations: indeed, as Foucault argues, social relations depends on institutionalized and quite fixed power relations, which ultimately assign a spatial and a social position to the subjects. Instead, as also Butler contends, the goal is precisely to break or go beyond the frame and the spatial horizon fixed in advance, putting into place forms of relationship that are not necessarily or not only “social”. Therefore, a certain category through which some subjects are defined could be played as the point of irradiation and multiplication of indiscernible subjectivities that cannot be reshuffled on that identity referent. In a similar vein, in an interview with the Ligue Communiste Révolutionnaire Foucault pointed that «feminist movements claimed for the specificity of women to tell precisely that women are largely another thing that their own sexuality» creating rather «individual relationships, forms of existence and choices of life which go very beyond sexuality»42. Against this background, Foucault’s ideas of producing disconnections – between the regime of truth and the plethora of categories – and of working through the gaps – between the subject-position assigned by norms and categories, and the effective one occupied and lived by subjects – give us two important cues. It could be added that, in fact, in the case of migrants, and especially of undocumented migrants, the discrepancy between the performative and normative functioning of legal categories on the one hand, and the effective life on the other, strongly influenced by economic conditions, results in a considerable gap always at stake in M. Foucault, Entretien avec la Ligue Communiste Révolutionnaire (1977), in Question Marx, accessed March 31: http://questionmarx.typepad.fr/files/entretien-avec-michelfoucault-1.pdf. 42
214 Martina Tazzioli migrants’ life. A discrepancy that in principle is adverse to migrants themselves, since for instance it makes that those rights refugees and migrants would be entitled to, actually are not enjoyed by them. But this disadvantage sometimes is reworked as a sort of favourable underside: just because people labelled as “migrants” or as “refugees” are at the same time socially bound according to other referents and positions. Finally, the theme of disconnection: how to disjoin the “mobility profiles” through which migrants are addressed and partitioned, from the regime of truth that sustains migration governmentality? In fact, some migrant struggles have “exploded” the terms and the boundaries of categories, laying claims that resulted “contradictory” or simply untenable according to the very law and order of migration governmentality discourse; or acting as if certain categories migrants strive for to be recognized as refugees were fully disconnected by the rationale that underpins them. Discursive claims, I said: rejected refugees at Choucha camp in Tunisia who were labor migrants of different nationalities working in Libya demanded refugee status for everybody since all of them escape the Libyan conflict. In this way, they laid a claim, an impossible claim in the face of the exclusionary logics of asylum; and at the same time they posited the untenability of the nationalbased principle of the Geneva Convention which relates the refugee status to the context of people’s country of origin. They did not stretch the boundaries of categories: they troubled and exploded their grounds and their rationale. But in addition to claims, there are also ways of acting in space through which migrants take or reverse a certain position, without demanding: the struggles undertaken by Tunisian migrants and by asylum seekers from Libya in the aftermath of the Arab uprisings, get into a (temporary) crisis the logics of the migration regime not trough acts of naming but through their spatial occupations across Europe. A spatial presence that can be difficulty translated in a discursive claim or in a game of nomination: rather, those practices indicate that the force of norms and categories is not just a question of name or a struggle over names. The “politics of presence” acted, more than claimed, by migrants, sidestepped and took in reverse the discursive space of categories. Martina Tazzioli University of Oulu martinatazzioli@yahoo.it
The Departure from Categories and the Temporality of Norms 215
. The Departure from Categories and the Temporality of Norms. Working through Political Epistemology with Foucault and Butler This essay consists in a reflection that starts from the temporality of the norms and that investigates the possibility of practices to subvert them: this article centres the confrontation between Butler and Foucault on these two aspects of epistemic, juridical and gender categories – through the perspective of political epistemology. That is to say, it mobilizes an approach to the production and to the performative dimension of categories that aims at highlighting the historicalpolitical conditions of emergence, retracing the field of power relations in which they are inscribed and, finally, to destabilizing them in their evidence and solidity. Starting from this, one of the central arguments of the article concerns the different temporality of the norm that is implicit in the analyses of the two authors and, in a related way, the different possibilities of subversion and resistance that these presuppose. The aim of this article is to demonstrate that both in Butler and in Foucault the normative and performative force of categories cannot be detached from the regime of truth in which these are situated, as well as from the processes of subjectivation related to it. Keywords: Political epistemology, Temporality of the norm, Production, Subversion, Doubling, Foucault, Butler.
Saggi
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 1 Arianna Sforzini
Michel Foucault, filosofo della carne
Gli spostamenti e le rielaborazioni successive del progetto foucaultiano
di una storia della sessualità sono ben noti2. Dalla prima occorrenza della nozione di “corpo sessuale” in chiusura del corso al Collège de France del 1973-1974 (Il potere psichiatrico)3 – corpo scandalosamente erotico ed erotizzante delle isteriche – , alle analisi degli aphrodisia greco-romani ne L’uso dei piaceri4 e La cura di sé5 (1984), è l’intero progetto intellettuale di Foucault che si ridefinisce, nei suoi ultimi anni, attorno alla questione delle pratiche etico-politiche riguardanti la sfera sessuale6. Attraverso l’analisi delle forQuesto articolo rappresenta un estratto tradotto e rielaborato di A. Sforzini, Michel Foucault : une pensée du corps, PUF, Paris 2014. 2 Il progetto iniziale di Foucault per la sua Storia della sessualità si componeva di sei volumi, i cui titoli sono riportati sulla quarta di copertina della prima edizione de La volonté de savoir (Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978): 1. La volonté de savoir; 2. La chair et le corps; 3. La croisade des enfants; 4. La femme, la mère et l’hystérique; 5. Les pervers; 6. Populations et races. Solo il primo volume fu effettivamente pubblicato. Un secondo e un terzo volume della Storia della sessualità (L’uso dei piaceri e La cura di sé) vedranno la luce solo nel 1984, ma costituiscono uno spostamento radicale di metodo e di contenuto rispetto al progetto iniziale. Di un quarto volume (Les aveux de la chair) gli archivi foucaultiani conservano il manoscritto, che però Foucault non fece in tempo a pubblicare in vita e che resta ancora inedito. 3 Cfr. M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Seuil/Gallimard, Paris 2003; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France. 1973-1974, Feltrinelli, Milano 2004 [«Universale Economica», 2010], p. 280. 4 M. Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; trad. it. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984 [«Universale Economica», 20089]. 5 M. Foucault, Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984; trad. it. La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985 [«Universale Economica», 200910]. 6 Cfr. la Situation du cours di Michel Senellart in Du gouvernement des vivants, Seuil/ Gallimard, Paris 2012, pp. 323-350. Cfr. anche il suo articolo Le cours Du gouvernement des vivants dans la perspective de l’Histoire de la sexualité, in D. Lorenzini, A. Revel et A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et politique de la vérité (1980-1984), Vrin, Paris 2013, pp. 31-52. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 217-235.
218 Arianna Sforzini me di problematizzazione della morale sessuale, emergono gradualmente nel pensiero foucaultiano un nuovo campo storico di studio (l’antichità) e una nuova posta in gioco filosofica (le tecniche di costruzione della propria soggettività). Tale complesso movimento di ricerca nasce tuttavia, come sempre in Foucault, da una domanda che egli aveva percepito come urgente nella trama del proprio presente. Si tratta, attraverso il progetto di una storia della sessualità, di comprendere in quale momento, sotto quali forme e attraverso quali modificazioni delle strutture politico-discorsive, la sessualità è diventata «il sismografo della nostra soggettività»7. Dal cristianesimo a Freud, afferma Foucault già a partire dalla seconda metà degli anni settanta8, il desiderio sessuale costituisce ciò in cui e per cui ogni individuo è invitato a cercarsi e scoprirsi in una «spirale infinita di verità e di realtà di sé»9. L’uomo della modernità si comprende come un soggetto di concupiscenza, attraversato da una molteplicità di affetti, di voluttà sorde, di desideri insidiosi, che sfuggono in larga parte al controllo della volontà e della coscienza e hanno quindi bisogno di essere continuamente sondati e interrogati. Solo l’elucidazione, allo stesso tempo intima ed esposta all’esame di un altro, di tali movimenti interiori potrà permettere a ciascuno di scoprire la propria verità, di costituirsi come un soggetto di verità. La concupiscenza, questo intreccio di desiderio e verità al centro dell’esperienza del soggetto, rappresenta per Foucault un’“invenzione” cristiana, indissolubilmente legata alla nozione di carne. Proprio sul concetto di carne vorrei soffermarmi in questo breve articolo, rintracciandone da un lato le differenti elaborazioni nel percorso foucaultiano (sulla base dei testi a oggi disponibili), dall’altro la trama dei rapporti che essa intrattiene con un’altra nozione fondamentale per Foucault, quella di corpo. Credo infatti che nel rapporto carne-corpo si giochino delle problematiche essenziali per l’intera démarche foucaultiana, nel suo confronto con l’attualità: come il sé sia divenuto un luogo da sospettare e interrogare piuttosto che la realizzazione concreta, fisica, di un progetto di esistenza; se e in che modo proprio il corpo possa rappresentare un’istanza di “resistenza” al modello cristiano (per M. Foucault, Sexualité et solitude, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald con la collaborazione di J. Lagrange, Gallimard, coll. « Quarto », Paris 2001, testo n° 295, p. 991; trad. it. Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 149. 8 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, cit. 9 M. Foucault, Sessualità e solitudine, cit., p. 149. 7
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 219
Foucault, ancora vivo nella sua contemporaneità) di un’ermeneutica del sé attraverso l’esame e la messa alla prova della propria sessualità. Costellazione concettuale estremamente complessa, la carne è esplorata da Foucault in due passaggi cronologicamente e concettualmente successivi, cui corrispondono due libri inediti (il primo, almeno in parte, distrutto): La chair et le corps e Les aveux de la chair. Nella « Cronologia » stabilita per l’edizione dei Dits et Écrits, Daniel Defert scrive che La chair et le corps avrebbe dovuto essere: «una genealogia della concupiscenza attraverso la pratica di confessione nel cristianesimo occidentale e della direzione di coscienza, per come si sviluppa a partire dal concilio di Trento»10. Una prima versione del testo viene redatta probabilmente all’inizio del 1978, ma Foucault comincia ad interessarsi alla questione della concupiscenza a partire almeno dalla preparazione del corso al Collège de France dell’anno 1974-1975 (Gli anormali11), in cui ritroviamo passaggi importanti sull’implicazione della carne e del corpo nelle pratiche di confessione post-tridentine. Sempre secondo la cronologia di Defert, nell’agosto 1977 Foucault comincia d’altra parte a lavorare sui testi dei Padri della Chiesa e ad allargare dunque il suo quadro di analisi storica della carne ai primi secoli del cristianesimo. Queste ricerche sfoceranno ne Les aveux de la chair, quarto tomo della Storia della sessualità, al quale Foucault lavora fino alla sua morte e che descrive come uno studio «dell’esperienza della carne nei primi secoli del cristianesimo, e del ruolo che vi giocano l’ermeneutica e la decifrazione purificatrice del desiderio»12. La tematica della carne è quindi analizzata da Foucault, anche se in maniera discontinua, lungo tutti i suoi ultimi dieci anni di ricerche. È un elemento chiave del passaggio dall’analitica del potere allo studio delle pratiche governamentali e di soggettivazione. Se il Foucault pensatore del potere e del corpo è, almeno in apparenza, ben conosciuto, è certamente più sorprendente scoprirlo un paradossale “filosofo della carne”, attraverD. Defert, Chronologie, in Dits et écrits I, 1954-1975, a cura di D. Defert e F. Ewald con la collaborazione di J. Lagrange, Gallimard, coll. « Quarto », Paris 2001, p. 73 (trad. mia). Per una ricostruzione dettagliata della storia e dello stato del manoscritto, cfr. Ph. Chevallier, Michel Foucault et le christianisme, ENS Éditions, Lyon 2011, in particolare pp. 149-150. 11 M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France. 1974-1975, a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Seuil/Gallimard, Paris 1999; trad. it. Gli anormali. Corso al Collège de France. 1974-1975, Feltrinelli, Milano 2000. 12 Testo della prière d’insérer unito alla prima edizione francese de L’uso dei piaceri e La cura di sé (trad. mia). 10
220 Arianna Sforzini so la quale cerca di costruire non un’ontologia dell’esperienza soggettiva e corporale (alla Merleau-Ponty), ma una storia critica e politica delle implicazioni tra le ontologie del sé e le obbligazioni di verità. Confessione, lussuria, voluttà. Il corpo-carne La prima grande analisi foucaultiana del concetto di carne si trova nel corso Gli anormali. Durante le lezioni del 19 e del 26 febbraio 1975, partendo dal problema del rapporto tra sessualità e anormalità nel discorso psichiatrico, Foucault traccia una breve genealogia dell’ingiunzione tipica della nostra modernità occidentale a “parlare di sesso”, a fare della sessualità l’oggetto di un campo discorsivo proliferante. La confessione cristiana, in particolare la forma che essa prende nel xvi secolo, all’epoca della Riforma e della Controriforma, è evidentemente un momento decisivo di questa storia. Vi emerge un nuovo modo di considerare il peccato di lussuria e il sesto comandamento (non commettere adulterio). Il peccatore è sempre chiamato a confessare i propri comportamenti sessuali, ma tale confessione non è più filtrata dalle categorie della legge e della relazione, bensì del corpo e del suo desiderio. Prima del Concilio di Trento, l’interrogazione penitenziale a proposito della sessualità verteva, secondo Foucault, sulle infrazioni alle regole che codificavano gli atti secondo la loro natura e lo statuto sociale degli attori coinvolti. Esisteva una forma permessa di unione sessuale, quella che aveva luogo fra un uomo e una donna uniti in matrimonio (con una serie di limitazioni aggiuntive: la donna non deve essere incinta, la contraccezione è vietata ecc.). Ogni rapporto al di fuori di questo quadro era vietato, secondo un catalogo degli atti analiticamente differenziati in funzione dei partner e delle loro modalità di relazione (adulterio, incesto, stupro, sodomia, bestialità ecc.). Le nuove tecniche di confessione post-tridentine si strutturano invece attorno al corpo stesso del penitente. Sono «i suoi gesti, i suoi sensi, i suoi piaceri, i suoi pensieri, i suoi desideri […], insieme all’intensità e alla natura di ciò ch’egli stesso prova»13 che egli deve rivelare al confessore, o che quest’ultimo deve far emergere attraverso un’esplorazione inquisitrice del corpo. La griglia di lettura non è più formata da una codificazione giuridica degli atti (cos’hai fatto, e con chi), ma dai movimenti segreti dei desideri e del corpo (cos’hai provato, e come). Come 13
M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 167.
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 221
si legge in un frammento del manoscritto de La chair et le corps, esistono quindi due concezioni storiche differenti della concupiscenza: la prima articolata sulla legge e il modo di relazione; la seconda sul corpo e il piacere che tale corpo può prendere per sé e con sé. L’identità formale del termine di concupiscenza maschera una trasformazione essenziale, che ha luogo durante la Controriforma e fa passare «da un sistema giuridico-penitenziale incentrato sull’emissione del seme e i suoi effetti su un insieme di relazioni, a un altro sistema […] che è incentrato sulla voluttà (délectation) con le sue determinazioni molteplici nel corpo e nell’anima»14. La confessione così riconfigurata produce una «“spillatura” della carne sul corpo»15, in cui il corpo del penitente è allo stesso tempo punto di partenza e risultato della confessione. Il corpo è infatti il supporto fisiologico del carnale. La sua sensualità, i suoi desideri, i piaceri che prova nel rapporto a se stesso ne fanno il luogo per eccellenza della lussuria. La sua massa s’“incarna” in una carne multiforme, lasciva, un insieme di intensità che dipendono da un gioco complesso di consenso volontario e movimenti involontari. Questo corpo, preso nel vortice della carne, «si polverizza in una pluralità di potenze che si affrontano le une con le altre, in una pluralità di forze e sensazioni che l’assalgono e l’attraversano»16. Ma il corpo rappresenta anche, d’altra parte, uno spazio liscio in cui gli impulsi carnali si distribuiscono. Il catalogo dei punti di sensibilità disegna una «cartografia peccaminosa»17 che il confessore dovrà accuratamente scoprire, dettagliare e rivelare al penitente, facendo attenzione tuttavia a non divenire lui stesso una vittima di questa analitica scrupolosa dei piaceri. Il risultato è la formazione di un corpo nuovo: un corpo-carne, un «corpo di desiderio e di piacere»18, animato da una riflessività sensuale che bisogna impegnarsi a scrutare e snidare. All’applicazione stretta del codice nella confessione medievale (atti e relazioni autorizzati/vietati) si sostituisce, nell’età classica, il risveglio di un «corpo solitario e desiderante»19: un corpo rinchiuso nel proprio desiderio, per il quale la masturbazione è la forma primordiale di peccato e il punto cieco del rapporto ermeneutico a se stessi. Nasce allora ciò che Foucault M. Foucault, La chair et le corps, frammento del manoscritto, citato da Ph. Chevallier in Michel Foucault et le christianisme, cit., p. 149 (trad. mia). 15 M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 169. 16 Ivi, p. 184. 17 Ivi, p. 168. 18 Ivi, p. 179. 19 Ivi, p. 173. 14
222 Arianna Sforzini chiama «una fisiologia morale della carne»20, che può essere considerata come il doppio storico dell’anatomia politica del corpo utile delle discipline. In entrambi i casi, il governo dei corpi implica un’individualizzazione assoggettante: la presa di controllo sulla volontà dei singoli si effettua da un lato attraverso un dressage del corpo, dall’altro attraverso un’incarnazione del corpo e una sollecitazione del desiderio. «La carne è la soggettività del corpo, la carne cristiana è la sessualità presa all’interno di questa soggettività, di questo assoggettamento dell’individuo a se stesso»21. Tuttavia, se queste nuove tecniche di direzione di coscienza emergono nel corso del xvi secolo, le pratiche di verbalizzazione della propria concupiscenza hanno una storia ben più antica. La distruzione parziale, da parte di Foucault, del manoscritto La chair et le corps è probabilmente un segno che il periodo storico che egli aveva inizialmente deciso di esplorare, «dal x al xviii secolo»22, non gli sembra più sufficiente per poter scrivere e comprendere «la storia dell’uomo di desiderio». È negli scritti dei Padri della Chiesa che Foucault scopre una riflessione estremamente ricca e importante a proposito della carne, che diventerà un asse essenziale della propria storia della sessualità – allargata a una genealogia dei rapporti tra soggettività e pratiche della verità. In un’intervista del 1977, incalzato dallo psicanalista Jacques-Alain Miller, Foucault afferma che le origini della nozione moderna di sessualità sono da ricercare nel momento in cui si è fatto del sesso uno strumento non di piacere ma di verità. E in questo processo, «l’uomo fondamentale», molto prima di Freud, «è Tertulliano23». La reazione del suo interlocutore gli fa immediatamente precisare che la sua frase è detta «per scherzare»24. Ma per essere seri, prosegue, bisognerebbe in effetti esplorare la nozione di castità del primo cristianesimo fino a ritrovarne i germi in un’altra cultura, «in Euripide, riallacciandolo con certi elementi della mistica ebraica e con altri della filosofia alessandrina e della sessualità per gli stoici»25. La genealogia della concupiscenza conduce Foucault fino alle soglie dell’antiIvi, p. 170. M. Foucault, Sexualité et pouvoir, in Dits et écrits II, cit., testo n° 233, p. 566; trad. it. Sessualità e potere, in Archivio Foucault 3, cit., p. 126. 22 M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et écrits II, cit., testo n° 206, p. 319; trad. it. Il giuoco, in Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, Mimesis, Milano 1994, p. 43. 23 Ivi, p. 37. 24 Ivi, p. 40. 25 Ibidem. 20 21
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 223
chità, e deve necessariamente transitare per quel passaggio-chiave rappresentato dalla nozione di carne nel cristianesimo primitivo. La «libidinizzazione» del sesso. Carne e castità La costruzione foucaultiana di un’esperienza della carne nella tarda antichità può essere seguita attraverso due testi degli inizi degli anni ottanta (uno dei quali è l’unico estratto finora disponibile di Les aveux de la chair), incentrati su due pilastri della Patristica: Agostino e Cassiano26. Questi autori permettono a Foucault di mettere in luce una trasformazione profonda prodottasi nel campo dell’etica sessuale tra mondo antico e cristianesimo. Al centro della problematizzazione cristiana del sesso non vi sono più gli aphrodisia (una nozione che nell’antichità classica teneva insieme «corpo, anima, piacere, desiderio, sensazione, meccanismo del corpo»27), bensì la concupiscenza, intesa come l’“implicazione” della volontà nella dinamica sessuale. Il soggetto dell’attività sessuale si costruisce sempre più attorno al solo desiderio, concepito non più come uno dei molteplici elementi di una pratica di khresis, di una stilizzazione libera della propria condotta etica, ma come il principio di una relazione permanente a se stessi nella forma di un’ermeneutica sospettosa della propria interiorità. Un desiderio in cui si mescolano pulsioni involontarie e debolezza colpevole della volontà. Questo rapporto problematico della volontà nella vita sessuale degli individui si ritrova in due nozioni essenziali del pensiero di Agostino e Cassiano: la libido e la fornicatio. Secondo Agostino28, il fulcro della problematica sessuale è la libido, intesa come «il principio del movimento autonomo degli organi Un estratto di Les aveux de la chair consacrato a Cassiano (M. Foucault, Le combat de la chasteté, in Dits et écrits II, cit., testo n° 312, pp. 1114-1127; trad. it. Il combattimento per la castità, in Archivio Foucault 3, cit., pp. 172-184) è stato pubblicato nel 1982 nella rivista Communications, n° 35, pp. 15-25. Quanto all’analisi della nozione di libido agostiniana, faremo riferimento alla traduzione parziale di un seminario tenuto da Foucault all’Institute for the Humanities dell’Università di New York nel 1980: M. Foucault, Sessualità e solitudine, cit., pp. 987-997. 27 M. Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, inedito, consultabile presso gli archivi IMEC di Caen, Fonds Michel Foucault, C 63, Lezione del primo aprile 1981. 28 Cfr. Sant’Agostino, La città di Dio, libro XIV, cap. XV-XVI, trad. it. D. Gentili, Città nuova, Roma 1978-1991; Polemica con Giuliano, trad. it. N. Cipriani, Città nuova, Roma 1985-1992. 26
224 Arianna Sforzini sessuali»29. Adamo, prima del peccato originale, disponeva di una capacità di governo assoluto sull’insieme delle parti del proprio corpo, al punto che Agostino ammette la possibilità di rapporti sessuali in paradiso. Il primo uomo poteva avere una sessualità senza colpa perché nulla nel proprio corpo o nel proprio sesso sfuggiva al controllo dell’anima. L’orgoglio e la presunzione che hanno causato la disobbedienza e la caduta di Adamo hanno tuttavia implicato la perdita di questo stato di purezza primordiale. L’uomo ha voluto farsi simile a Dio, e la sua arroganza si incarna in un sesso ribelle, che sfugge al controllo della volontà (problema dell’erezione involontaria). Ciò che è in questione non è più allora, come per gli antichi, la capacità di costituirsi liberamente sovrano dei propri atti, ma di purificarsi dalle tentazioni colpevoli che la libido (nel senso largo del termine, come desiderio e volontà incontrollati) rappresenta. Agostino inventa, secondo Foucault, ben prima di Freud, «una vera e propria libidinizzazione del sesso»30. È necessario non soltanto avere un comportamento sessuale conforme alle leggi morali, ma dubitare senza sosta del proprio desiderio e quindi di se stessi, mettere continuamente alla prova la propria interiorità e volontà. Bisogna sospettare in permanenza «l’essere libidico dentro di sé»31. In Cassiano32 si ritrova una strutturazione simile del concetto di carne, che gravita però attorno alla nozione di fornicazione. La fornicazione comprende, per Cassiano, tre elementi mescolati, ripresi da un’epistola di san Paolo33: la fornicatio in senso stretto, l’atto sessuale tra due individui (carnalis commixtio); l’immunditia, la presenza in sé di pensieri impuri che eccitano il corpo; la libido, infine, desiderio che inonda l’anima34. L’attenzione di Cassiano si concentra sulle ultime due categorie (immunditia e libido), quelle che non implicano cioè l’unione carnale vera e propria. La problematizzazione etica della sessualità si sposta con il cristianesimo dalla sfera della relazione agli altri verso un ripiegamento del soggetto su di sé: una concupiscenza nascosta da ritrovare sotto le proprie sensazioni, pensieri, volizioni. M. Foucault, Sessualità e solitudine, cit., p. 152. Ivi, p. 153. 31 Ivi, pp. 152-153. 32 Cfr. G. Cassiano, Istituzioni cenobitiche, libro VI, trad. it. L. d’Ayala Valva, Qiqajon, Magnano 2007, pp. 185-204; Conferenze ai monaci (soprattutto le conferenze IV, V, XII, XXII), trad. it. L. Dattrino, 2 vol., Città nuova, Roma 2000. 33 Eph., 5, 3. 34 Cfr. G. Cassiano, Conferenze ai monaci, cit., vol. 1, V, 11, pp. 217-218; vol. 2, XII, 2, pp. 35-37. 29 30
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 225
Come per Sant’Agostino, ciò che fa problema è la dialettica del volontario e dell’involontario. Se la fornicazione è evidentemente un peccato che coinvolge strutturalmente il corpo, la lotta contro di essa non passa per la distruzione dell’esistenza corporea, al contrario. L’obiettivo del «combattimento della castità» è di purificare la vita del corpo da tutto ciò che riguarda in lui la schiavitù dei meccanismi involontari e delle illusioni del desiderio. Bisogna «uscire dalla carne restando nel corpo (exire de carne in corpore commorantem)»35, liberare cioè il corpo dalla concupiscenza. E l’“analizzatore” della concupiscenza, che segnala la sua presenza e il grado di penetrazione nell’individuo, è la polluzione notturna. L’uomo santo, casto, non avrà più polluzioni perché si sarà distaccato da tutto ciò che può comportare, nel sonno e nella veglia, l’eccitazione sessuale36. Si sarà costruito come un soggetto di continenza, di castità, neutralizzando meticolosamente e perpetuamente in se stesso le implicazioni sensibili della propria volontà. All’interno di tale elaborazione della nozione di carne nella tarda antichità37, tre punti mi sembrano in particolar modo rilevanti: la carne non implica un rifiuto, ma una messa in esame del corpo; si lega a processi di trasformazione del sé radicalmente differenti rispetto alle tecniche di sé antiche; mette in gioco un rapporto molto complesso, al limite conflittuale, con le pratiche ascetiche. Innanzitutto, come le analisi foucaultiane di Cassiano e Agostino hanno suggerito, la morale sessuale del cristianesimo non comporta né una separazione definitiva del corpo e dell’anima, né un disprezzo radicale e sistematico del corpo. I dogmi dell’incarnazione e della resurrezione dei corpi renderebbero d’altronde un tale rifiuto aporetico. Ingaggiando una lotta serrata con le correnti gnostiche che predicano la rinuncia totale al mondo, il cristianesimo dei primi secoli non esige che la vita dell’anima passi per il sacrificio del corpo. Bisogna imparare a vivere nel proprio corpo santificandolo e purificandolo dall’interno. Questa scelta di moderazione ha, secondo Foucault, delle motivazioni politiche38: diventa necessario per la sopravvivenza stessa delle prime comunità cristiane conciliare una certa avversione di fronte ai piaceri sessuali con le esigenze della società civile romana, in particolare quelle del matrimonio e della riproduzione. Non solo il corpo allora, ma la carne stessa non può essere G. Cassiano, Istituzioni cenobitiche, cit., VI, 6, p. 190. Cfr. G. Cassiano, Conferenze ai monaci, cit., vol. 2, XII, 7-8, pp. 45-51. 37 Cfr. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, trad. it. I. Legati, Einaudi, Torino 1992. 38 Cfr. M. Foucault, Sessualità e potere, cit., pp. 120-127. 35 36
226 Arianna Sforzini completamente rifiutata – non da tutti, almeno: come insegna Paolo, la castità completa è per pochi, ed «è meglio sposarsi che ardere»39. La carne e il corpo rappresentano piuttosto un rischio continuamente aperto di cadere nel peccato. Questa tentazione giustifica l’instaurazione di procedure di controllo che riprendono e avallano gli imperativi etici della cultura ellenistico-romana (monogamia, pudore, attività sessuale finalizzata alla riproduzione, ecc.). La «concezione molto difficile e anche molto oscura»40 della carne assicura quindi al potere istituito una presa sugli individui – omnes et singulatim – attraverso la moralizzazione dei corpi. Per raggiungere tale virtù di continenza, è necessario imporsi degli esercizi spirituali, che hanno tuttavia una portata molto differente rispetto a quelli che componevano la “cura di sé” greco-romana. La conversione verso la purezza «ci fa vivere, in questo mondo, una vita che non è di questo mondo»41. Comporta una modificazione ontologica del sé: una trasformazione non più immanente ma trascendente, fondata su un duplice movimento di “depossessione”. La castità e la santità sono strutturalmente al di fuori della portata dell’uomo dopo la caduta. Il superamento del peccato, della perversione originaria, esige un intervento celeste: «soltanto la potenza che più forte della natura può affrancarci […]: la grazia»42. Gli ideali antichi di perfezione e saggezza sono allora riletti dai Padri della Chiesa come semplici idee regolatrici della vita etica: pericolose, al limite, perché lasciano credere arrogantemente che ci si possa salvare da soli. L’esclusione di una salvezza sulla base delle proprie forze è determinata d’altronde anche dalla presenza in noi, nel fondo della volontà di ciascuno, di potenze sotterranee: l’Altro per eccellenza, il Maligno. Ancora una volta, questa istanza demoniaca non si confonde con una natura del corpo strutturalmente negativa. Il corpo è piuttosto il teatro di una lotta fra il diavolo e l’anima per prenderne possesso43. Esiste una «co-possessione, copenetrazione, co-esistenza dello spirito del male e dell’anima nel corpo»44, ed è tramite esse che il demonio può ispirare all’anima dei desideri impuri che si propagano immediatamente nel corpo. Proprio per disinnescare Cor, I, 7. M. Foucault, Sessualità e potere, cit., pp. 125-126. 41 M. Foucault, Il combattimento della castità, cit., p. 175. 42 Ivi, p. 181. 43 Cfr. G. Cassiano, Conferenze ai monaci, cit., vol. 1, VII, 9-13, pp. 283-286. 44 M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 291 (trad. mia). 39 40
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queste minacce, il soggetto dovrà sviluppare e nutrire una diffidenza incessante nei confronti di se stesso. In virtù di questa messa in dubbio radicale delle capacità di influenza reale, profonda di sé su di sé, il rapporto del cristianesimo all’ascetismo (e all’ascetica del corpo in particolare) diventa fortemente problematico. La lotta contro la concupiscenza riattiva certo degli esercizi già esistenti. Le astinenze e le prove del corpo, che avevano attraversato le pratiche di soggettivazione dell’antichità, continuano a nutrire le tecniche di sé cristiane, in modo particolare nel monachesimo occidentale del iv e v secolo d.C.45. Ma la trama del rapporto a sé, l’esperienza che il soggetto fa di se stesso in tali esercizi, si trasforma profondamente. L’ascetica non è più una lotta atletica da cui bisogna uscire vincitori, ma deve manifestare una rinuncia all’orgoglio, all’egoismo, alla propria esistenza sensuale e carnale. L’ascesi cristiana è una soggettivazione paradossale che prende la forma della mortificazione e della separazione del soggetto da se stesso. Gli esercizi del corpo non hanno allora come scopo il rafforzamento, ma l’annullamento di sé, la distruzione della concupiscenza che ci fa preferire l’amore di noi stessi all’amore di Dio. Le pratiche di sé devono rappresentare soprattutto una prova di obbedienza, di umiltà, di pazienza. Devono condurre, dice Foucault parafrasando Nilo di Ancira46, a «essere come un cadavere, come un corpo senz’anima, essere come una materia grezza tra le mani dell’altro, e non resistere mai»47. Ora, nonostante questa forte spinta alla mortificazione, uno degli elementi decisivi della cultura cristiana risiede nel fatto di legare a doppio filo la rinuncia a sé e l’obbligo di produrre verbalmente la verità di se stessi48. Foucault descrive due pratiche penitenziali proprie al cristianesimo primiÈ interessante mettere a confronto le analisi che Foucault fa dell’ascetismo antico ne L’ermeneutica del soggetto (M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2001; trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France. 1981-1982, Feltrinelli, Milano 2007), con lo studio del cristianesimo primitivo nei corsi Du gouvernement des vivants, cit.; Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice, a cura di F. Brion et B. Harcourt, Presses universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve 2012; trad. it. Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), Einaudi, Torino 2013; e nelle lezioni finali de Le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1983-1984, a cura di F. Gros, Seuil/Gallimard, Paris 2009; trad. it. Il coraggio della verità. Corso al Collège de France. 1983-1984, Feltrinelli, Milano 2011. 46 Cfr. Nil, Liber de monastica exercitatione, cap. 41, 769D-772A, in Patrologia Graeca, t. 79, a cura di J.-P. Migne, Brepols, Turnhout 1860 [1998]. 47 M. Foucault, Mal fare, dir vero, cit., p. 133. 48 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 157 (trad. mia). 45
228 Arianna Sforzini tivo (l’exomologesis e l’exagoresis)49, che gli permettono di disegnare i contorni di un rapporto ben specifico e ancora attuale tra verità e soggettività. L’exomologesis è un rituale di penitenza che si sviluppa nel II secolo d.C. per permettere la reintegrazione nella Chiesa di quei battezzati che avevano commesso delle colpe molto gravi. Non si tratta semplicemente di un atto puntuale e indefinitamente ripetibile, come sarà il caso del sacramento della confessione. L’exomologesis è uno “statuto” che coinvolge e sconvolge tutti gli aspetti dell’esistenza per un periodo che può estendersi fino a diversi anni; comporta un lungo periodo di preparazione scandito da pratiche di mortificazione (digiuni, astinenze, rinuncia a ogni lusso e comodità, gesti spettacolari di contrizione ecc.). Al termine di questa fase di autopunizione drammatica, il penitente è chiamato a compiere sul sagrato della chiesa un processo «simbolico, rituale e teatrale50» di esibizione del proprio essere di peccatore: una publicatio sui, attraverso la quale mostra pubblicamente che ha peccato e si è pentito, e chiede di essere reintegrato nella comunità. Questo “piccolo martirio” di penitenza e conversione si compie dunque al contempo nella forma di un’umiliazione fisica e di un’esposizione spettacolare. È una manifestazione corporea, non verbale e non analitica (non è richiesta nessuna verbalizzazione esaustiva dei propri peccati) della propria verità di peccatore: «una sorta di grande teatralizzazione della vita, del corpo, dei gesti, con una componente verbale assolutamente irrilevante»51. L’exagoreusis è al contrario una pratica di messa in discorso di sé che si sviluppa all’interno delle comunità monastiche a partire dal iv secolo, sul modello dell’esame di coscienza pagano. Non è un rituale di penitenza esteriore e pubblico, ma una manifestazione verbale frequentemente ripetuta dell’intimità della propria anima a un altro, per snidare la presenza eventuale del Maligno nei propri pensieri o desideri. Come l’exomologesis, l’exagoreusis espone una verità di sé, e questa verità gioca come un operatore di rinuncia a sé e alla propria volontà al fine di non essere più che una «materia prima» nelle mani di Dio. Questo movimento non si manifesta tuttavia nella teatralità di un corpo mortificato, ma per mezzo di Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., pp. 165 ss.; Mal fare, dir vero, cit., pp. 86 ss.; Les techniques de soi, in Dits et écrits II, cit., testo n° 363, p. 1629; trad. it. Tecnologie del sé, in Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, a cura di L. H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 37-47. 50 M. Foucault, Tecnologie del sé, cit., p. 41. 51 M. Foucault, Mal fare, dir vero, cit., p. 108. 49
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un «esercizio continuo e permanente del linguaggio»52: un’ermeneutica dei logismoi, dei pensieri interiori, per la quale il corpo non è che il luogo del “combattimento della concupiscenza”. Ed è questo modello monastico di verbalizzazione di sé che, attraverso la lunga storia della confessione, si è imposto alla cultura occidentale. Sarebbe tuttavia un errore pensare che la tradizione dell’exomologesis sia stata, dopo i primi secoli della nostra era, completamente dimenticata. Conosce al contrario una lunga sopravvivenza, fino ai secoli xv e xvi, come forma di manifestazione non-verbale della verità: nei rituali fisici che circondano la confessione, per esempio (coprirsi il viso per le donne e i ragazzi, esprimere il proprio rimorso attraverso una gestualità fisica ecc.), ma anche in ciò che Foucault descrive come il «polo parresiastico»53 del cristianesimo. L’exomologesis condivide infatti con la parrêsia l’esigenza di un’esposizione non discorsiva del vero (benché, beninteso, attraverso forme di relazione a sé e alla verità profondamente diverse). Di fronte al prevalere delle tecniche ermeneutiche del sé nella cultura cristiana, le riattivazioni storiche di una verità da vivere più che da dire (Foucault fa l’esempio degli ordini mendicanti e della mistica) s’impongono come una modalità alternativa di vivere la propria fede. Fare del corpo, al di là della carne, «il teatro visibile della verità» è insieme una forma di critica e la ricerca di un rapporto differente alla verità stessa: «una pratica particolarmente viva, intensa, forte, in tutti gli sforzi di riforma che si sono opposti alla Chiesa, alle sue istituzioni, al suo arricchimento, al suo rilassamento dei costumi»54. Ermeneutica del sé, desiderio e piacere. Il corpo come luogo del «contrattacco»? Nella genealogia della concupiscenza, il corpo di verità, la manifestazione corporea della verità, sembra quindi contenere delle potenzialità di critica del dispositivo di potere e di verità costruito attorno alla carne. Un ascetismo “anti-ascetico”, la riattivazione del valore antico dell’ascetismo come testimonianza incarnata della verità e non come pratica di obbedienza ed esplorazione diffidente del sé, attraversa la storia del cristianesimo. Vi costituisce secondo Foucault una riattivazione della forza di rottura e Ibidem. M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 317. 54 Ivi, p. 179. 52 53
230 Arianna Sforzini di alterazione del cinismo, per come egli lo descrive ne Il coraggio della verità. «Categoria trans-storica»55, il cinismo «non tanto […] come una dottrina, ma piuttosto come un atteggiamento, come un modo d’essere»56, che fa del proprio corpo lo «scandalo della verità»57 e il vettore di un «militantismo aperto»58, rappresenta un polo essenziale di opposizione interno alla tradizione cristiana stessa. Povertà, erranza, mendicità, predicazione aggressiva e lotta per la trasformazione del mondo (e della Chiesa in primis) sono elementi chiave del francescanesimo, per esempio, come di molti altri movimenti spirituali più o meno ortodossi sviluppatisi durante tutto il Medioevo. «Seguire nudi la nudità di Cristo, seguire nudi la nudità della Croce»59 (nudi nudum Christum sequentes): il corpo esposto come affermazione piena e radicale della propria fede. Per «tutto un cinismo cristiano, un cinismo anti-istituzionale, un cinismo che chiamerei antiecclesiastico, le cui forme e tracce erano ancora vive […] all’interno […] addirittura della Controriforma cattolica»60, vivere la verità, la realizzazione fisica e concreta di un’esistenza di verità, è stato un tentativo di riforma o di contestazione della subordinazione della pratica della vita vera alla decifrazione della verità all’interno della vita intima del sé. Ma il “cinismo cristiano” non è certamente l’unica forma storica di resistenza alla carne. Un altro grande episodio di rivolta all’“incarnazione” del corpo era già stato descritto da Foucault nel 1975, durante la prima elaborazione della nozione di carne61. Si tratta della descrizione di un fenomeno tipico dell’età classica, del xvii secolo in particolare: la possessione. Al corpo-carne prodotto dai dispositivi penitenziali post-tridentini, all’obbligo esaustivo di confessare i movimenti e i desideri nascosti del proprio corpo, le possedute (donne, quasi sempre) oppongono il grido violento di un corpo che appartiene già a un Altro, un corpo demoniaco penetrato da una girandola di sensazioni, tormenti, piaceri, forze incontrollabili e segrete compiacenze. I corpi posseduti rispondono all’oggettivazione totale della propria corporeità con un abbandono doloroso e lascivo a quell’“altrove”, quella potenza del male, che il confessore avrebbe il compito di Ivi, p. 176. Ivi, p. 175. 57 Ivi, p. 171. 58 Ivi, p. 274. 59 Ivi, p. 179 (traduzione leggermente modificata). 60 Ivi, pp. 179-180. 61 Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 181 ss. 55 56
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neutralizzare e da cui invece rischia di trovarsi lui stesso irretito e distrutto. Sono sempre corpi che mettono in scena un gesto di rivolta (ben lontani tuttavia da quelli cinici perché impossibili da considerare come il risultato di una pratica libera e volontaria, la costruzione rivendicata di una forma propria di esistenza). Se il corpo di concupiscenza della confessione controriformistica è, come abbiamo detto, intrinsecamente frammentato da un’interrogazione costante di sé su di sé, il corpo posseduto reagisce con un movimento convulso di de-soggettivazione. La possessione dissolve l’obbedienza all’unica vera Dottrina in un corpo lacerato e molteplice. Ora, il nodo problematico su cui vorrei concludere è il seguente: è possibile sulla base di questi esempi, che vedono il “corpo” ribellarsi alla “carne”, affermare che proprio il corpo racchiude, nelle analisi di Foucault, una virtualità d’invenzione di una forma differente di rapporto a sé e alla verità, a fronte di tecniche di esame della propria interiorità? È fuor di dubbio che le lotte di potere e le resistenze agli “ordini di discorso” dominanti si giocano, per Foucault, attraverso le sue molteplici genealogie, nei corpi e grazie ai corpi, nell’esteriorità e nell’immanenza dell’esistenza fisica. Corpi utopici, corpi isterici, corpi posseduti, corpi cinici… I corpi sono il luogo per eccellenza dell’insubordinazione. Tuttavia, di fronte alle varie declinazioni storiche delle “battaglie dei corpi”, resta da chiedersi se e come una sovrapposizione del corpo e della resistenza sia possibile all’interno della stessa prospettiva foucaultiana. Non ci troviamo forse qui di fronte a un’aporia della genealogia foucaultiana, un presupposto ontologico sotterraneo e mai esplicitato? Prendiamo per esempio i paragrafi finali de La volontà di sapere. Com’è ben noto, Foucault vi afferma che il «sesso» non può essere considerato una semplice parte del corpo naturale, frammento di materia e localizzazione delle funzioni fisiologiche e biologiche della riproduzione. All’interno della nostra società moderna, caratterizzata da un dispositivo di sessualità che, come abbiamo visto, affonda le proprie radici nella lunga storia della carne cristiana, il sesso è una categoria di intellegibilità e di identificazione: principio fittizio di unità e di senso dei corpi, nonché sogno della loro liberazione. Da molti secoli, ciascuno di noi è chiamato a scoprire nel proprio desiderio, nella propria carne, nel proprio sesso, la verità di sé. L’identità è un segreto che appartiene alla sessualità. Il sesso è quindi l’elemento « più speculativo, più ideale ed anche più interno in un dispositivo di sessualità che il potere organizza nella sua presa sui corpi, la loro materialità, le loro
232 Arianna Sforzini forze, le loro energie, le loro sensazioni, i loro piaceri»62. La promessa di emancipazione sessuale non è che un’astuzia del potere per rafforzarsi e rendersi accettabile perché desiderabile. Ed è là che bisognerebbe far intervenire i corpi contro il sesso. «Contro il dispositivo di sessualità, il punto d’appoggio del contrattacco non deve essere il sesso-desiderio, ma i corpi e i piaceri»63. Non è il sesso a poterci emancipare dall’assoggettamento dei nostri corpi, ma il nostro corpo che può liberarci dalla schiavitù della sessualità. Mi sembra interessante accostare questo finale de La volontà di sapere alla conclusione di un’altra analisi foucaultiana, il corso pronunciato da Foucault al Collège de France nel 1981 (Subjectivité et vérité, di prossima pubblicazione). Foucault vi sostiene una tesi molto importante, mostrando che la cultura di sé ellenistico-romana aveva già cominciato a disarticolare il concetto dinamico e organico degli aphrodisia, e cioè l’unità, nell’atto sessuale, dei corpi, dei loro desideri e dei loro piaceri. Nei primi secoli della nostra era, questi elementi gradualmente si dissociano, in un movimento che tende a far valere, nella sua centralità, l’istanza unica del desiderio (epithumia). La relazione che il soggetto dell’attività sessuale stabilisce con se stesso si riorganizza attorno al desiderio, segnando il passaggio da «una soggettivazione che aveva la forma di atti a una soggettivazione nella forma di un rapporto permanente di sé a sé»64. La problematizzazione del sesso non interroga allora più soltanto la convenienza e le circostanze di un atto (quando e come fare l’amore?), ma una tensione interna («io, desidero?»65). Senza confondersi ancora con la concupiscenza cristiana, l’epithumia (desiderium) del mondo imperiale forma dunque una prima figura di oggettivazione di sé: «la prima puntura di spillo66» di un rapporto a sé che prende la forma di una decifrazione sospettosa. Foucault, ponendosi la questione del costo di una tale ristrutturazione dell’esperienza sessuale, afferma che l’«emergenza del desiderio» si è costruita «al prezzo della messa in disparte o della relativa neutralizzazione dell’atto e del piacere, del corpo e del piacere»67. Ancora una volta, il corpo M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 138. Cfr. ivi, p. 140. 64 M. Foucault, Subjectivité et vérité, cit., Lezione del primo aprile 1981. Le traduzioni di tutti i passaggi del corso sono mie. 65 Ibidem. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 62 63
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 233
insiste dal lato del piacere come ciò che è stato dimenticato o rimosso dalla costruzione cristiana e moderna del soggetto, mentre il desiderio sarebbe «il trascendentale storico a partire dal quale si può e si deve pensare la storia della sessualità»68. Contro il sesso-desiderio, i corpi, dunque. Ma tale maniera di far giocare i corpi e i loro piaceri contro la sessualità e i suoi desideri resta una questione aperta nella filosofia di Foucault. Se infatti, come la concezione foucaultiana di genealogia afferma in maniera chiara69, non esiste il corpo, una natura corporale che non sia storicamente determinata e investita dalle dinamiche di verità e potere, dove cercare, nella vita dei corpi, la forza di «contrattacco»? Sembra quasi che Foucault inclini verso uno spinozismo segreto, in cui il corpo rivelerebbe una potenza ontologica sotterranea e vivace. Judith Butler aprirà proprio su questi punti un dialogo col pensiero foucaultiano del corpo. La critica che rivolge a Foucault, in numerosi testi70, potrebbe essere così riassunta: la concezione di un corpo politicizzato, storico, culturalmente determinato, è in contraddizione con l’affermazione che i corpi costituiscono il vettore e la condizione della resistenza al potere. Se si può fare appello ai corpi contro un paradigma discorsivo, contro un dispositivo di potere, è perché essi contengono in se stessi una potenza antagonistica e non sono riducibili a un puro prodotto dei discorsi e dei rapporti di potere. Ne rappresenterebbero piuttosto il punto limite. Foucault ha in un certo senso, secondo Butler, sottratto il corpo nella sua materialità all’operazione di decostruzione che egli stesso aveva portato avanti a proposito di numerose nozioni, non ultime quelle di sesso e sessualità. Non ha saputo trarre le estreme conseguenze dal suo approccio genealogico ai poteri e alla verità, per pensare da un lato un Ibidem. M. Foucault, Nietzsche, la genealogie, l’histoire, in Dits et écrits I, cit., testo n° 84, pp. 1004-1024; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 1972, pp. 43-64. 70 Cfr. in particolare J. Butler, La vita psichica del potere, trad. it. E. Bonini, C. Scaramuzzi, Meltemi, Roma 2005; Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. S. Adamo, Laterza, Roma-Bari 2013; Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996. Cfr. anche gli articoli: Foucault and the Paradox of Bodily Inscription, in «The Journal of Philosophy», vol. 86, n° 11 (novembre 1989), pp. 601-607; Revisiting Bodies and Pleasures, in «Theory, Culture and Society», 16/2 (1999), pp. 11-20; Bodies and Power Revisited, in Feminism and the Final Foucault, a cura di D. Taylor e K. Vintges, University of Illinois Press, Urbana–Chicago 2004, pp. 183-194. 68 69
234 Arianna Sforzini corpo interamente suscitato e costruito dalle dinamiche storico-politiche, le norme e i discorsi che si esercitano su di lui, dall’altro una resistenza dei corpi che si scava all’interno di questa interiorità al linguaggio e al potere. Non è qui il luogo per ricostruire in tutta la sua ampiezza il valore e la portata delle critiche butleriane a Foucault. Anche solamente accennate, esse rivelano tuttavia allo stesso tempo le difficoltà e l’attualità critica della concezione foucaultiana del corpo. Non è del tutto falso affermare che Foucault oscilla tra un costruttivismo radicale dei corpi e la supposizione di un’immanenza forte, resistente. È tuttavia a mio avviso preferibile attenersi, a questo proposito, a un atteggiamento critico più sorvegliato. Non voler eludere la materialità dei corpi non implica necessariamente, pur parlando di resistenza, l’accettazione di un’ontologia completa. Si tratta sempre per Foucault di fare una storia dei corpi in termini non-essenzialisti e non-metafisici. Le sue genealogie non costituiscono una filosofia del corpo o della vita. Bisogna innanzitutto ricontestualizzare storicamente le sue affermazioni sui corpi di piacere. Se si segue, come ho cercato di fare, la genealogia foucaultiana del corpo sessuale a partire dalla nozione di carne, la “spillatura” della carne di concupiscenza sul corpo, si capisce perché i piaceri dei corpi possano rappresentare per noi oggi una forma di resistenza. Costituiscono risposte tattiche ai découpage epistemico-politici prodotti dalle tecniche di confessione e direzione di coscienza che sanciscono l’alleanza segreta della carne cristiana e della sessualità moderna. La scoperta da parte del corpo della propria potenza “anti-ermeneutica” di piacere fa da contrappeso all’assegnazione univoca, identificatoria e assoggettante, a un sesso-peccato o un sesso-natura. È quindi solo all’interno di una storia politica dei nostri corpi, della nostra sessualità, che il piacere si inventa come “contrattacco” al desiderio. Ma questa capacità di resistere non può essere estratta dai giochi storici e immanenti di verità e potere per dare luogo a un’ontologia della vita. Non esiste una resistenza (né un’immanenza) essenziale. Arianna Sforzini Université Paris-Est Créteil/Università degli Studi di Padova arianna.sforzini@univ-paris-est.fr
Michel Foucault: carne, concupiscenza e corpo casto 235
. Michel Foucault: Flesh, Concupiscence and Chastity This article explores Michel Foucault’s reflection on the notion of the flesh. Analysed first in the Counter-Reformation practices of confession and spiritual direction, then in the theological and moral thought of the Fathers of the Church, the flesh is actually at the hearth of Foucault’s history of sexuality, conceived as a genealogy of the man of desire: the history of the processes by means of which the occidental subject builds and recognizes himself through an hermeneutics of his own interiority and desire. The article focuses in particular on the relations between the flesh and the body. It puts into question the possibilities of “resistance” the notion of the body could convey against the Christian and modern model of concupiscence. Keywords: Flesh, Body, Concupiscence, Hermeneutics of the self, Confession, Asceticism, Resistance.
L’archivio e gli archivi Archeologia dei discorsi e governo dei viventi Alain Brossat
I.
Tutti quelli che si sono interessati al suo lavoro, da vicino o da lontano,
saranno d’accordo col dire che Foucault era un “appassionato di archivi”1. Ma questa formula giornalistica non ci dice nulla sullo statuto dell’archivio (al singolare) all’interno della costellazione dei concetti attorno ai quali si concatena la sua riflessione. Questa nozione appare molto presto nella sua ricerca, per esempio nella postfazione all’edizione tedesca del racconto di Flaubert La tentazione di Sant’Antonio2. Un testo dai toni abbastanza benjaminiani, in cui Foucault mostra come il diciannovesimo secolo si costituisca come un impero dei segni, dove l’immaginario si formava non «contro il reale per negarlo o compensarlo», ma estendendosi «tra i segni, da libro a libro, nell’interstizio delle ripetizioni e dei commentari». Poiché per Foucault La tentazione era proprio questo: un libro tra i libri che «nasce e si forma nel bel mezzo dei libri». Un «fenomeno da biblioteca». Quel che il diciannovesimo secolo ha scoperto, dunque, è un «immaginario che si inserisce tra il libro e la lampada», cioè «uno spazio di immaginazione di cui le età precedenti probabilmente avevano sospettato la potenza»3 e che nella sua interezza rinvia a tutto quello che Foucault chiama qui, in questa prima accezione, l’archivio. La tentazione è raggomitolata nella concavità dell’archivio formato da tutti questi segni, essi stessi concatenati in tutti questi testi, tutti questi libri, tutta questa immensa foresta stampata in cui lo scrittore si è immerso. Dice Foucault: «Flaubert Una prima versione di questo testo è stata pronunciata in occasione del convegno internazionale On the Archive. Philosophy, Politics, Aesthetics, Arts, Università di Porto, 4-5 dicembre 2013. 2 M. Foucault, Sans titre (Un fantastique de bibliothèque) (1964), in Dits et écrits, vol. I, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 2001, pp. 321-353 (d’ora in poi abbr. DE); trad. it. Un “fantastico” da biblioteca, in Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano (1971) 2004, pp. 135-153. 3 Ivi, pp. 325-326; trad. it. cit., p. 138. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 237-254.
238 Alain Brossat ha forse scritto la prima opera letteraria che abbia il suo posto specifico nel solo spazio dei libri: in seguito, Il libro di Mallarmé diventerà possibile, poi Joyce, Roussel, Kafka, Pound, Borges. La biblioteca è in fiamme». La tentazione è a questo titolo «il sogno degli altri libri»4, e allo stesso titolo per cui, come direi a costo di un collegamento che spero mi passiate, Emma Bovary è “il sogno” di tutte le mogli schiacciate dalla noia e dalla banalità della loro esistenza, e per questa stessa ragione, tentate dall’adulterio. L’archivio, secondo questo primo approccio, sarebbe in fin dei conti tutto quello che della nostra cultura si è depositato nello spazio della biblioteca, trovandosi ormai, nei termini di Jean-Louis Déotte, ridotta da essa ad apparecchio (appareillé)5. Che in questo testo Foucault si riveli un discreto precursore della teoria degli apparecchi, deriva dal fatto di mostrare l’accostamento che egli stabilisce tra l’arte di Flaubert e quella di Manet: La tentazione, dice, è il primo romanzo da biblioteca, dal momento che «è possibile che Le Déjeuner sur l’herbe e l’Olympia sono state le prime pitture “da museo”: per la prima volta delle tele sono state dipinte […] per manifestare l’esistenza dei musei, e il modo d’essere e di parentela che lì vi acquisivano i quadri»6. Insomma, «Flaubert è rispetto alla biblioteca ciò che Manet è rispetto al museo» e ciò che li avvicina è che «la loro arte si edifica dove si forma l’archivio»7. La nozione di archivio, usata in questa prima maniera, serve a indicare una rottura, o almeno una discontinuità nella cultura occidentale, essendo da Foucault collocata sulla soglia della modernità artistica: là dove ormai ogni opera si inscrive in una superficie popolata e “quadrillée” dalla totalità delle opere precedenti, là dove l’immaginazione dell’artista si situa in questo ambiente infinito, indefinito, che costituisce il brulichio di segni chiusi nello spazio del museo e della biblioteca. Con Le parole e le cose e L’archeologia del sapere questo tema viene approfondito. L’archivio è ciò che inscrive una traccia di tutto quello di cui è fatto il sapere implicito di una società, un sapere concatenato attorno a un certo numero di invarianti. Queste tracce si presentano nelle forme più diverse, molteplici tipologie di conoscenze, idee filosofiche, opinioni Ivi, p. 326; trad. it. cit., p. 138. J.-L. Déotte, L’époque des appareils, Lignes/Léo Scheer, Paris 2004. 6 M. Foucault, Sans titre (Un fantastique de bibliothèque), cit., p. 326; trad. it. cit., pp. 138-139. 7 Ivi, p. 327; trad. it. cit., p. 139. 4 5
L’archivio e gli archivi. Archeologia dei discorsi e governo dei viventi 239
del giorno, istituzioni, pratiche commerciali e poliziesche, costumi, ecc. Il lavoro sull’archivio di un’epoca consiste nell’identificare il modo in cui queste pratiche e questi discorsi dipendono da condizioni di possibilità e presentano tratti morfologici comuni. Lavorare sull’archivio significa reperire enunciati: la questione che si pone quindi Foucault – e che troverà più tardi uno sbocco nella problematizzazione dei regimi di verità – è la seguente: che cosa è enunciabile in un’epoca, o in un dato spazio culturale, e cosa non lo è? Correlativamente inoltre, cosa fa sì che discorsi e pratiche all’apparenza molto eterogenei, se non disparati, si riferiscano a condizioni di enunciazione omogenee (il famoso tema dell’episteme)? È nello spessore dell’archivio di un’epoca che si rivelano queste inattese congruenze, là dove si svela l’esistenza di un campo epistemico, là dove, precisamente, di primo acchito, si vede solo un puro e semplice spazio di dispersione: «Abbiamo a che fare – dice Foucault – con un campo che ignorerà le differenze, l’importanza che ad esse viene comunemente assegnata. Ciò che farà sì che vengano trattati, uno accanto all’altro, il Don Chisciotte, Cartesio e un decreto sulla creazione delle maisons d’internement da parte di Pomponne de Bellièvre»8. Il lavoro sull’archivio, viene ancora affermato, designa l’«analisi del nostro proprio sottosuolo», un’archeologia che Foucault distingue molto accuratamente tanto dall’ermeneutica, sempre alla ricerca di un senso nascosto, quanto da ciò che viene chiamato “formalizzazione”, sempre alla ricerca di strutture recondite. L’oggetto dell’archeologia è lo studio della stratificazione dei discorsi, del loro funzionamento e delle loro condizioni di trasformazione: ciò che rende possibile la simultaneità della grammatica generale, della storia naturale e dell’analisi delle ricchezze, studiando come tutti questi discorsi verranno disfatti quando oscillerà l’episteme che ne costituisce lo zoccolo. In tal senso, l’archivio è la base materiale e la condizione di questa storia dei discorsi che Foucault promuove in questa topica del suo lavoro. La cura dell’archivio prende congedo dalla genealogia intesa nel senso abituale del termine: la ricerca dell’origine (arché), «degli inizi e degli sviluppi» ne è totalmente assente. Il gesto dell’archeologo è la descrizione dell’archivio, non la spiegazione che procede a ritroso verso una fonte primaria, ma la descrizione delle forme e dei limiti della dicibilità (della formazione degli enunciati) in un dato spazio-tempo; la presentazioM. Foucault, Michel Foucault, Les Mots et les Choses, entretien avec Raymond Bellour (1966), in DE, vol. I, pp. 526-532, in part. p. 527. 8
240 Alain Brossat ne delle condizioni di durata degli enunciati – quali sono destinati a lasciare una traccia e quali spariranno senza lasciarne alcuna? L’archivio, insomma, è ciò che rende manifesto il modo in cui i discorsi in un dato campo coesistono, vi permangono e infine scompaiono. È qui che si verifica una leggera esitazione nel pensiero di Foucault, che per noi è interessante non tanto dal punto di vista dell’erudizione foucaultiana o della “foucauldologia”, ma per gli stimoli che produce questo approccio all’archivio per un pensiero di ciò che è attuale. Infatti, da una parte, enunciando il suo programma e l’ambizione della sua ricerca, all’epoca di questi due libri, Foucault nota: «Bisogna avere a propria disposizione l’archivio generale di un’epoca in un dato momento. E l’archeologia è, in senso stretto, la scienza di questo archivio»9. «Archivio generale» – questa espressione sembra escludere del tutto ogni principio di selezione a priori e indicare la totalità del «deposito» (dépôt) di un’epoca, di ciò che si è stratificato come traccia documentaria… Ma in un’altra occasione Foucault precisa: «Chiamerò archivio, non la totalità dei testi che sono stati conservati da una civiltà, né l’insieme delle tracce che si sarebbero salvate dalla sua rovina, ma il gioco delle regole che determinano in una cultura la comparsa e la scomparsa degli enunciati, la loro persistenza e la loro estinzione, la loro esistenza paradossale di eventi e di cose»10. Dunque, secondo questa prospettiva, sembra proprio che tutto quello che di un’epoca si è stratificato sotto forma di testi e di tracce non abbia, per l’archeologo foucaultiano, né la stessa qualità né lo stesso valore; il criterio, non è il “disastro” del tempo che passa e cancella (quel che può essersi salvato), ma proprio ciò che ha un valore indicativo, uno statuto di esemplarità che riguarda le condizioni di formazione e di sparizione degli enunciati… Ma chi stabilisce queste qualità o la loro assenza, se non l’archeologo stesso? Si vede chiaramente che Foucault qui gioca col fuoco mettendo a repentaglio la dottrina da lui stesso formulata, facendo ritornare nella propria argomentazione la questione del senso – certi testi, certe tracce depositate nell’archivio farebbero più senso di altre solo alle condizioni stesse Ibidem, corsivi miei. M. Foucault, Sur l’archéologie des sciences. Réponse au Cercle d’épistémologie (1968), in DE, vol. I, pp. 724-759, in part. p. 736; trad. it. Sull’archeologia delle scienze. Risposta al Circolo di epistemologia, in Il sapere e la storia e altri scritti, a cura di A. Cutro, Ombre Corte, Verona 2007, pp. 29-80, in part. p. 47. 9
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L’archivio e gli archivi. Archeologia dei discorsi e governo dei viventi 241
dell’archeologia di cui egli ha definito le regole… Questo scivolamento è confermato dalla distinzione che egli traccia qui tra documenti e monumenti: quello che cerca di trovare l’archeologo non sono dei documenti ma dei monumenti11. Ma quel che distingue i secondi dai primi (che in principio valgono tutti nel senso di avere lo stesso statuto) è che essi emergono nella massa delle tracce per essere gli operatori di un senso che sarà l’archeologo a dover enunciare – quel che fa Foucault in Le parole e le cose quando, per l’esattezza, trasfigura un tale insieme documentario in monumento destinato a marcare la propria ricerca – come quel tal testo di Buffon, quel tal passaggio della grammatica di Port-Royal, quel tal brano di Ricardo, ecc. Ma così facendo, Foucault non finisce per flirtare pericolosamente (dal punto di vista delle condizioni da lui enunciate) con il gioco della ricerca di un senso, se non nascosto, almeno seppellito, in una certa parte dell’archivio piuttosto che in un’altra, un gioco di cui egli stesso rifiuta la logica quando lo descrive come proprio dell’ermeneutica: «Non interrogo i discorsi su ciò che silenziosamente vogliono esprimere, ma sul fatto e sulle condizioni della loro apparizione manifesta»12? II. La questione sollevata da questa esitazione di Foucault nella definizione stessa della propria prospettiva sull’archivio è di incontestabile attualità. Quando, alla fine del secolo scorso, l’URSS e il blocco sovietico sono crollati, gli archivi e gli innumerevoli scheletri nell’armadio che essi nascondevano sono diventati una preoccupazione che ha ossessionato non solo gli storici e i nuovi leader politici, ma più in generale anche le opinioni pubbliche dei paesi coinvolti e non da questi documenti. Sono allora apparsi tutta una serie di libri, i cui autori si cimentavano nel riesumare crimini e turpitudini di regimi decaduti, ornati di titoli e di bandiere il cui motivo costante e spesso pubblicitario era: gli archivi parlano. Ma presto si è scoperto che le cose non erano così semplici: gli archivi “non parlano”, non hanno nulla da dire o da confessare, non sono un tribunale, quindi sono soltanto dei Ibidem. M. Foucault, Réponse à une question (1968), in DE, vol. I, pp. 701-723, in part. p. 710; trad. it. Risposta a una domanda, in Il sapere e la storia e altri scritti, cit., pp. 81-108, in part. p. 92. 11
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242 Alain Brossat ritagli selettivi e orientati dalla finalità stessa che vi assegna l’“archeologo” a far sì che tale documento acquisisca lo statuto di monumento – per riprendere l’opposizione suggerita da Foucault. Se ne è avuta una dimostrazione probante quando è stato pubblicato in Francia, sulla scia del best-seller assai ideologico intitolato Il libro nero del comunismo, un libro con questo titolo: Le confessioni degli archivi13. Un volume in cui quel che sopra ogni cosa veniva a essere confessato era soltanto il partito preso dell’autore, un vecchio comunista diventato un propagandista anti-totalitarista. Si vede quindi come ogni immersione negli archivi, ogni esplorazione di questo “sottosuolo” (culturale, storico, ecc.) di cui essi conservano le tracce, presuppone un’intenzione da parte dello studioso, come pure un programma di ricerca. Quando gli archivi “parlano”, o anche solo l’archivio nel senso che Foucault attribuisce a questo termine, è sempre secondo una modalità più o meno ventriloqua: quel che vi si svela o che si rivela del passato è sempre tributario di un’intenzione le cui condizioni si enunciano al presente. Nel caso di L’archeologia del sapere di Foucault, un libro che molti trovano oscuro, questa intenzione è chiara: si tratta proprio di intraprendere, dentro lo spessore dell’archivio, un’indagine sul modo di esistenza dei discorsi, degli eventi discorsivi, delle condizioni di apparizione, di trasformazione e di sparizione dei discorsi. Di intraprendere un’indagine sul «campo pratico nel quale [il discorso] si dispiega»14, là dove sono all’opera gli enunciati sulla cui superficie si concatenano pratiche discorsive, giochi di potere, dispiegamento di saperi, ecc. Un’altra esitazione nel pensiero di Foucault, che mostra quanto sia complessa la sua concezione dell’archivio, riguarda lo statuto di quel che egli chiama archeologia o, se si vuole, di ciò che è caratteristico del gesto archeologico: dopo aver affermato che essa ha come oggetto l’«analisi del nostro proprio sottosuolo» (dunque un’attività che consiste nell’esplorare gli strati di discorso e delle pratiche che si sono sedimentati in tale sottosuolo, e pertanto ciò vuol dire che l’archeologo fruga, rimuove la terra dal materiale documentario accumulatosi, effettua scavi, perforazioni e prelievi di terreno), in un testo successivo Foucault sembra cambiare idea, sosteAA.VV., Le livre noir du communisme, Robert Laffont, Paris 1997; K. Bartosek, Les aveux des archives, Seuil, Paris 1996. 14 M. Foucault, Risposta a una domanda, cit. p. 711; trad. it. cit., p. 92. 13
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nendo che quel che fa non è una perlustrazione15. Perché? Per una ragione che mi sembra fondamentale se si vuole comprendere ciò che lo distingue dal marxismo, non tanto nell’orizzonte della politica, ma in quello del metodo e, se si vuole, dei gesti fondanti della pratica filosofica. Ecco cosa sostiene: contrariamente a quelli che pensano che la ricerca della verità consista nell’andare a caccia di ciò che si sottrae e si nasconde dietro il teatro delle apparenze o anche in ciò che è esplicito nei discorsi, nella lingua del potere o ancora sotto il velo dell’ideologia, «io provo invece a definire delle relazioni che si trovano sulla superficie stessa dei discorsi, tento di rendere visibile ciò che è invisibile per il fatto di essere troppo in superficie»16. Ci troviamo davanti a una questione di metodo (ma si può ben immaginare che sia pure qualcosa in più di questo) che per Foucault risulta decisiva, visto che in una conferenza a dieci anni di distanza, questa volta in Giappone, sviluppando un tema completamente diverso, si ritrova ancora più o meno la stessa formula: «Da molto tempo sappiamo che il compito della filosofia non è di scoprire ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile proprio ciò che è visibile, di far apparire ciò che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi, da non poter essere percepito»17. Il paradosso del giocare con l’archivio, se ci si passa questo modo di mettere le cose, consisterebbe, per Foucault, non tanto nell’andare a scovare un documento raro o perduto a prezzo di enormi sforzi e sollevando quintali di polvere, ma molto più semplicemente nell’apprendere a leggere secondo il metodo archeologico – per il resto, l’essenziale è là, tutto là, catalogato, consultabile, disponibile nelle biblioteche e persino nelle librerie, che si tratti della Grammatica di Port-Royal, degli scritti di Cuvier, delle tavole di Buffon, dei primi manuali amministrativi, ecc. Nulla si nasconde, poiché non vi è né un davanti né un dietro, né apparizione né nascondimento, nessuna immagine fallace che celi le cose vere (l’ideologia), nessuna causalità profonda (l’economia), nessun effetto di superficie (la vita parlamentare, la moda, i giornali…): non vi è altro che questa superficie infinita, questo mondo di immanenza che noi potremmo agevolmente chiamare il pianeta M. Foucault, Michel Foucault explique son dernier livre, entretien avec J.- J. Brochier (1969), in DE, vol. I, pp. 799-807. 16 Ivi, p. 800, corsivi miei. 17 M. Foucault, La philosophie analytique de la politique (1978), in DE, vol. II, pp. 534551, in part. pp. 540-541; trad. it. La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 98-113, in part. pp. 103-104, corsivi miei. 15
244 Alain Brossat dei segni. Su questa superficie, ogni cosa è visibile al pari delle altre, ma questa identica visibilità, a un primo approccio, risulta disarmante per l’analitica (dei discorsi) e per la critica (di cosa è fatto il nostro presente?). Non si tratta quindi di capire come squarciare il velo dell’illusione e della menzogna, ma di vedere il visibile – trovando la maniera con la quale si ordina il mondo degli uomini – le relazioni di potere, le concatenazioni di sapere, il modo in cui operiamo la divisione tra il vero e il falso, ecc. Fare filosofia, considerandola come un’attività allo stesso tempo analitica e critica, equivale ad imparare a vedere la lettera rubata. Un gesto che si oppone a quello che mette costantemente in rilievo la doxa marxista (se non addirittura lo stesso Marx) e che consiste nel denunciare le menzogne dell’ordine stabilito e nel rinviare al giorno del giudizio le verità rimosse e le cause nascoste. Su questo punto, l’immanentismo integrale predicato da Foucault raggiunge quello di Deleuze: non c’è nulla “dietro”, è tutto lì, bisogna solo apprendere a vedere e a leggere – le conseguenze politiche di questa posizione sono ben decisive (si coglie per esempio quel che è in gioco quando si osservano le affinità esistenti tra il complottismo e il marxismo volgare, entrambi fondati su enunciati come “non è un caso se…”, che si assegnano la missione di esporre in pubblico le istanze ultime e le astuzie dei dispositivi di dominio e di manipolazione). Guardando le cose da questo punto di vista, la pratica dell’archivio consiste nello studio di ciò che «nella massa delle cose dette in una cultura sono conservate, valorizzate, riutilizzate, ripetute e trasformate»18, quello che in questa massa fa evento. L’archeologia consiste nell’estrarre gli eventi discorsivi che l’archivio registra. L’evento discorsivo è semplicemente ciò che stabilisce le condizioni secondo cui noi pensiamo, nel nostro presente, ogni tipo di cosa che ci definisce come contemporanei: le nostre relazioni ai poteri, al lavoro, al piacere, alla famiglia, la nostra inserzione nella conoscenza e nei saperi, i nostri rapporti con noi stessi, ma anche quali sono le condizioni per cui operiamo, a proposito di tale o talaltra questione, la divisione tra il vero e il falso. Secondo Foucault, gli eventi discorsivi di per se stesi stabiliscono per gli esseri viventi (per i soggetti di un certo presente) dei sistemi di familiarità e di evidenze. Le nostre vite sono in questo senso, com’egli afferma, «inestricabilmente legat[e] a degli eventi discorsivi»19. 18
p. 814.
M. Foucault, La naissance d’un monde (1969), in DE, vol. I, pp. 814-817, in part.
M. Foucault, Dialogue sur le pouvoir, entretien avec les étudiants de Los Angeles (1978), in DE, vol. II, pp. 464-477, in part. p. 469; trad. it. Dialogo sul potere, in Biopolitica e 19
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La pratica dell’archivio consisterà dunque nel vedere come, tanto nel passato quanto nel presente, si stabiliscano sistemi di evidenze e nel mostrare come ciò la cui evidenza viene stabilita nell’elemento discorsivo e si fissa negli enunciati potrebbe di certo non essere così evidente come appare. Lungo il percorso che conduce dalla Storia della follia o da Le parole e le cose a un testo come L’ordine del discorso, lezione inaugurale di Foucault all’epoca del suo ingresso al Collège de France, si produce una sorta di rivoluzione silenziosa: in fondo vi si rivela che non è necessariamente il passato che costituisce il milieu elettivo dell’archivio. La stratificazione che si opera nel discorso e nelle pratiche che vi si riferiscono è un fenomeno che ci avvolge così come avvolgeva i contemporanei di Buffon e di Cervantes, ogni discorso è archivio e “archivista”, e perciò debitore di un’archeologia: quello che avviene nel, e attraverso il, discorso ha esattamente lo stesso statuto di quello che avveniva, in altre condizioni e secondo altre regole discorsive, agli uomini del diciassettesimo secolo. Su questo punto, l’itinerario di Foucault incrocia quello del Barthes delle Mitologie. Il punto decisivo di inflessione nel modo di trattare tali questioni da parte di Foucault, un punto troppo spesso trascurato dalla foucaldologia autorizzata, è quello per cui il tema dell’analitica dei discorsi incontra quello della critica. Che cos’è la critica infatti? È il lavoro che consiste nello studiare gli eventi discorsivi nel loro statuto di archivio, non per condurre una critica negativa del presente (“le cose non sono affatto come sono”), ma piuttosto per «vedere su quali tipi di evidenze, di familiarità, di modi di pensare acquisiti e non sottoposti alla riflessione riposano le pratiche che comunemente vengono accettate»20. La critica dunque verrà qui a ridisegnarsi come una specie di caccia attraverso l’archivio: essa consiste, dice Foucault, nello «stanare il pensiero», le forme e le pieghe di pensiero che si sono cristallizzate nei sistemi, negli «edifici di discorso», e in ogni sorta di pratica, «stanare il pensiero» per cercare di cambiarlo: la critica consiste, sostiene Foucault, nel «mostrare che le cose non sono così evidenti come si crede, nel fare in modo che quel che si accetta come scontato non vada più da sé. Effettuare una critica significa rendere difficili i gesti troppo facili»21. liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1978-1985, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 41-60, in part. p. 49. 20 M. Foucault, Est-il donc important de penser ? Entretien avec D. Eribon (1981), in DE, vol. II, pp. 997-1001, in part. p. 999, corsivi miei. 21 Ibidem, corsivi miei.
246 Alain Brossat III. Dall’inizio degli anni settanta fino a quello degli anni ottanta, Foucault apre un certo numero di cantieri di ricerca sulla questione della plebe, a proposito dei quali viene a manifestarsi in modo esemplare la relazione che si stabilisce tra il gioco degli archivi e quello della critica: “la vita degli uomini infami”, gli archivi di internamento dell’Hôpital général, il dossier Pierre Rivière, ritrovato negli Archivi dipartimentali del Calvados, Le désordre des familles e gli Archivi della Bastiglia, ecc. In ciascuno di questi casi si tratta di scoperte fatte in tale o talaltro fondo d’archivio, di incontri inattesi con questa o quest’altra esistenza umile, marginale, scapestrata, destinata a sparire senza lasciare traccia, ma salvata dall’oblio attraverso l’incontro con il potere, incontri che permetteranno l’attivazione di uno specifico dispositivo critico. Tali incontri, che hanno luogo nello spessore degli archivi, tra lo studioso e «queste vite infime divenute cenere» (La vita degli uomini infami), suscitano un shock, una «stupefazione» (come dice Foucault in Io, Pierre Rivière…) che costituirà il primo impulso a mettere in moto il dispositivo critico. Così, in La vita degli uomini infami, si tratterà di mostrare come la vita di questi oscuri uomini, «destinata a passare al di sotto di ogni discorso e a sparire senza essere mai stata raccontata», lasci tracce – «brevi, incisive, enigmatiche» – soltanto alla condizione che in occasione di qualche misfatto o disordine vi sia stato un contatto, per quanto effimero possa essere, tra queste vite qualunque e il potere22. Quel che Foucault, facendosi genealogista della condizione plebea, tiene a inserire qui come esergo è il lato oscuro della fama: a coloro che in questo mondo sono considerati uomini grandi e importanti spettano le azioni straordinarie che destinano i loro nomi alla posterità e ai racconti edificanti, invece alle «vite senza importanza», generalmente destinate all’oblio, è riservata la dubbia fortuna di un’uscita dall’ombra – alla precisa condizione di essere cadute sotto il pennello luminoso del potere, di essere state oggetto di un placet, di una lettre de cachet, di una ordinanza del Re, di una qualunque reclusione, di un rapporto o di una decisione giudiziaria. Gli archivi sono qui il materiale nello spessore del quale lo studioso stabilisce la paradossale “antologia” di queste esistenze destinare a sparire senza lasciare alcuna traccia. Lo zelo dei poteri, che sotto l’Ancien Régime Le désordre des familles, lettres de cachet des Archives de la Bastille, a cura di A. Farge e M. Foucault, Gallimard-Julliard, coll. «Archives», Paris 1982. 22
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era volto a conservare una traccia anche del più minuscolo dei suoi atti, è qui ciò che permette allo studioso di far ritornare nel presente quel che abitualmente non trova alcuna condizione di iscrizione nel registro della Storia. Scrive Foucault: «Il loro [degli uomini infami] ritorno attuale nel reale avviene nella forma stessa in cui erano stati cacciati dal mondo»23. Testimoniando una molteplicità di piccole e grandi rivolte di condotta (inconduites), tra il 1660 e il 1760, questi documenti amministrativi, secondo Foucault, fanno intravedere che «comincia a salire un mormorio che non si fermerà […] Il “qualunque” cessa di appartenere al silenzio, alla voce passeggera o alla confessione fugace…»24. Nel contesto in cui sono formulate queste osservazioni risuona immediatamente un’eco, soprattutto politica, che va ben al di là degli spazi accademici. Del resto, La vita degli uomini infami non è apparsa per la prima volta in una pubblicazione universitaria, ma in una piccola rivista di orientamento anarchico. Non voglio soffermarmi troppo a lungo sul dispositivo che Foucault e i suoi collaboratori hanno approntato per la “riscoperta” della memoria di Pierre Rivière all’inizio degli anni settanta, poiché queste cose si conoscono bene. Gli archivi diventano qui distintamente un materiale infiammabile, destinato ad appiccare il fuoco nella pianura della triste vita universitaria. La memoria di Rivière riappare, tramite Foucault e i suoi amici, come una formidabile macchina da guerra contro le discipline e le loro pretese analitiche o ermeneutiche. Verso tutti quei signori e quelle signore, ovvero gli psichiatri e gli psicanalisti che osano accendersi, formulando per questo “criminale dagli occhi rossi” una delle loro modeste diagnosi, Foucault assume un tono di sfida25. Leggiamo le perizie che diversi medici dell’epoca fecero sul «caso» Rivière e cerchiamo di stimare da quale oscuro fondo provengano questi saperi e questi discorsi che oggi si ammantano di tale autorità scientifica… Il dispositivo critico che viene messo in atto a partire dalla memoria di Rivière partecipa dunque di quel grande progetto di una archeologia dei saperi moderni, delle scienze mediche e sociali cui M. Foucault, La vie des hommes infâmes (1977), in DE, vol. II, pp. 237-253, in part. p. 243; trad. it. La vita degli uomini infami, a cura di G. Zattoni Nesi con una prefazione di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 30-31. 24 Ivi, p. 248; trad. it. cit., p. 49. 25 Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur, mon frère… Un cas de parricide au XIXe siècle, a cura di M. Foucault, Gallimard-Julliard, coll. «Archives», Paris 1973; trad. it. Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello. Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di A. Fontana e G. Pasquino, Einaudi, Torino 1976. 23
248 Alain Brossat Foucault lavora dagli anni sessanta. Ma non è la “follia” di Rivière, mostro o demente, ad esserne oggetto, bensì tutto il “marchingegno” (“machinerie”) giudiziario, penale, medico, giornalistico che si mette in moto dinnanzi al proprio misfatto. È d’altronde questo che ha perfettamente compreso René Allio, autore del film eponimo basato sul volume collettaneo curato da Foucault, che si apre non sul crimine, ma sul fatto che tale crimine sia preso dai poteri che si incarnano nei suoi differenti volti: il gendarme, il sindaco, il medico, il giudice, il procuratore, ecc.26 Si vede dunque bene qui che per Foucault gli archivi non “testimoniano” nulla, ma sono piuttosto il solido punto di appoggio per una consumata arte di condurre una battaglia, di sviluppare una strategia e una tattica destinate a spingere l’avversario a scoprire le proprie armi: la memoria di Rivière, vero gioiello d’archivio, costituirà una di queste “basi” a partire dalle quali, in quegli anni, Foucault conduceva la propria lotta contro le perizie psichiatriche, contro le inconfessabili alleanze tra lo psichiatrico e il penale, contro tutta l’ermeneutica che è diventata di moda attraverso la psicanalisi, ecc. Infine, il vero proposito critico di Le Désordre des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille, una raccolta di testi commentati che Foucault ha pubblicato con Arlette Farge, specialista del diciottesimo secolo francese, nella collana “Archives” diretta da Pierre Nora, è duplice. Da una parte abolire dimostrativamente la distinzione disciplinare che separa la Storia, che si suppone votata all’“esattezza dell’archivio”, dalla filosofia, inchiodata invece all’“architettura delle idee”, e con questo proseguire dunque la battaglia, qui certo con meno clamore che in Pierre Rivière, contro i «gesti troppo evidenti» sui quali riposa l’architettura dei saperi, un lavoro di demolizione di lungo corso nell’opera di Foucault, che si accompagna ad ogni tipo di frase scioccante («non sono un filosofo») e di azione eclatante (ad esempio, la pubblicazione de La volontà di sapere nella collezione “Bibliothèque des histoires”, per Gallimard). D’altra parte, con questo libro, la critica delle evidenze, nelle quali sono incastonate le nostre abitudini di pensiero, consisterà nel mostrare, convocando tutta una letteratura amministrativa che nella Parigi del diciottesimo secolo comprende le lettres de cachet, dando dunque semplicemente a vedere, in primo luogo, come queste ultime non corrispondano a ciò che 26
125’.
R. Allio, Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur, mon frère…, Francia 1976,
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viene detto dalla tradizione repubblicana dopo la Rivoluzione francese – ovvero un’irrecusabile testimonianza della violenza o della crudeltà della monarchia assoluta come forma di potere barbaro, la manifestazione più spettacolare dell’arbitrio del monarca –, ma tutto al contrario, in modo più banale e meno eclatante, un’abbondanza di segni che dimostrano come il Re fosse chiamato in causa da famiglie desiderose di sbarazzarsi di uno dei loro membri, per ogni sorta di ragione, buona o cattiva che fosse – come scrivono Foucault e Arlette Farge : «La lettura di questi dossier ci ha messo sulle tracce non tanto della collera del sovrano quanto delle passioni del popolino, al cui centro si trovano le relazioni familiari – mariti e mogli, genitori e figli […] La storia delle Lettres de cachet deve essere cercata sotto lo spessore delle idées reçues, di cui tali lettere conservano solo il puro piacere reale che serviva a rinchiudere nobili infedeli e importanti vassalli disobbedienti»27. Il “gioco” critico della storica o del filosofo consisterà nel mettere in evidenza, sotto l’ingannevole splendore del potere sovrano, l’ascesa di una forma completamente diversa di potere, un potere di polizia che si basa su un tessuto sociale dalle maglie sempre più strette e su quel che gli autori chiamano un’“attivazione” (enclenchement) dell’istituzione familiare all’interno del grande apparato amministrativo. Non sono più le grandi deviazioni rispetto alla legge e le stridenti sfide lanciate al sovrano ad alimentare quotidianamente questo potere di polizia, bensì «tutto un insieme di minuscole agitazioni, di scontri tra genitori e figli, di dispute tra coppie o tra vicini, di schermaglie dovute al vino o al sesso e di un gran numero di passioni segrete»28, dunque di ogni tipo di nuova relazione che si stabilisce tra l’autorità e le famiglie che si rivolgono al Re per liberarsi di questo o quel parente che ne offusca la reputazione. Attraverso la critica dell’idée reçue si sviluppa l’analitica foucaultiana del potere: potere delle relazioni, potere produttivo anziché fondamentalmente repressivo… Il ricorso all’archivio è quel che permette a Foucault di tracciare una linea di separazione tra i compiti della critica e la pura e semplice denuncia. La critica si impegna a scorticare, a sottoporre a esame, a prendere di traverso quel che Foucault chiama «le cose dette» e i modi dire, tanto di ieri quanto di oggi; ed è a questo fine che le sue risorse devono essere trovate nell’archivio, in quanto spazio in cui si consegna la prosa del mondo. 27 28
Le désordre des familles, cit., p. 10, corsivi miei. Ivi, pp. 350-351.
250 Alain Brossat Il compito della critica che si innesta sull’archivio è ancora, e continuerà ad essere, dice Foucault, quello di decidere su ciò che egli chiama la «criticabilità delle cose», che si suppone assegni alla filosofia un suo compito specifico: «rispondere a domande come: chi siamo? Che cosa sta accadendo? […] interrogativi molto diversi dalle domande tradizionali: che cos’è l’anima? Che cos’è l’eternità? [una] filosofia del presente [prova a] cogliere quale sia l’evento sotto il cui segno noi siamo nati e quale sia l’evento che continua, tuttora, ad attraversarci»29. IV. Per finire, vorrei occuparmi molto brevemente di due questioni che mi sembrano cruciali nell’approccio alle attuali poste in gioco degli archivi: la questione del testimone, in quanto figura che si oppone alla figura dell’archivio e a quella della società di sorveglianza, tema recentemente riproposto in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden sulle attività della NSA. Il testimone, come superstite del genocidio, colui che attesta che l’inconcepibile è davvero accaduto (a dispetto di, e contro tutte le strategie di oblio, di relativizzazione e di negazione del crimine assoluto), è il personaggio che Claude Lanzmann mette al centro del suo film Shoah e, di nuovo, ancora in altri film più recenti, in cui la sua parola di verità viene costantemente opposta alle finzioni delle immagini d’archivio. Se quel che è più caratteristico del genocidio è il fatto di includere nel proprio programma la cancellazione delle proprie tracce, le immagini che allora si susseguono in una maniera o in un’altra possono solo mentire, contribuire a banalizzare, indurre in errore. O peggio, sono oscene, come le foto che si riferiscono alle camere a gas – la cui presentazione in un’esposizione ha dato luogo a una famosa polemica tra Lanzmann e Georges Didi-Hubermann. L’orrore che a Lanzmann e ai suoi sostenitori ispirano le immagini d’archivio relative al genocidio rivela qui tutto il proprio fondo religioso: è osceno il fatto stesso di far vedere o di rappresentare il crimine assoluto, la Shoah. M. Foucault, La scène de la philosophie, entretien avec M. Wat-anabe (1978), in DE, vol. II, pp. 571-595, in part. pp. 573-574; trad. it. La scena della filosofia, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 213240, in part. p. 216. 29
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A ben guardare, si rivela che l’opposizione tra il testimone e l’archivio costruita da Lanzmann è prettamente politica. I suoi film, organizzati sulla parola e sul volto dei testimoni, sono concepiti come macchine da guerra, dispositivi rivolti non solo contro chi nega il genocidio – pure verso chi sarebbe portato ad avere delle riserve sulla retorica del crimine unico (incommensurabile, assolutamente singolare…) veicolata dai suoi film – ma anche contro coloro che rifiutano il legame continuamente evidenziato tra la memoria del crimine unico e la riserva inesauribile di legittimità che egli accorda allo Stato-riparatore, ovvero lo Stato di Israele. I film di Lanzmann, che si concatenano attraverso la figura del testimone-sopravvissuto, sono fatti letteralmente per interrompere ogni discussione su tali questioni, facendo sì che prevalga assolutamente e definitivamente la testimonianza indiscutibile del superstite e che soltanto attraverso la sua parola si concatenino azioni e rituali di rammemorazione. La messa al bando degli archivi acquista qui tutto il suo senso: essi, al contrario, richiedono la discussione, ci si può rapportare ad essi solo tramite un regime di pluralità – non solamente devono essere accessibili al più gran numero di persone (ciò che d’altronde è oggetto di una battaglia senza fine), ma nessuno si può arrogare la pretesa di conoscerne esclusivamente il segreto, di detenere il monopolio della sua lettura, in tutti i sensi del termine. Secondo questa prospettiva, l’archivio può agganciarsi al dibattito pubblico, richiamarne l’“apertura”, fornendo così un test per la democrazia. La ritualizzazione della memoria e la sacralizzazione della figura del testimone tendono invece a ristabilire il governo dei preti, i clericalismi di ogni risma. Al contrario, Lanzmann ritiene che queste norme democratiche non si debbano applicare in questo spazio di raccoglimento che è la memoria della Shoah. Pretendere di farlo per lui significa già mettere un dito nell’ingranaggio del negazionismo. Sulla seconda questione, quel che si è recentemente svolto sotto i nostri occhi sbalorditi mi sembra essere della più grande importanza, nella misura in cui le rivelazioni di Snowden diffuse dalla stampa lanciano un appello che ci sollecita a riformulare la nostra comprensione di ciò che separa i regimi democratici da tutto ciò che gli si oppone (in particolar modo i regimi totalitari). In 1984, George Orwell dà alla figura di questa violenza esercitata dal potere la sua forma più canonica, quella di un ineguagliabile abuso di potere costituito dal modo in cui un regime totalitario sequestra gli archivi, li manipola, li riscrive per sottomettere il passato alle
252 Alain Brossat proprie condizioni, li utilizza per stritolare gli esseri viventi. I regimi totalitari sono quelli che falsificano il passato, cancellando nelle foto d’archivio i volti degli oppositori liquidati, che bruciano i libri e gli archivi personali degli scrittori che spediscono ai campi di concentramento, che alterano i documenti storici, ecc. Le democrazie riservano invece una grande cura alla conservazione degli archivi, perché rispettano il passato, anche quando esso include ogni sorta di ricordo imbarazzante per chi al momento governa, perché i democratici sanno che una società privata o amputata della propria memoria non può che essere una società malata e disorientata. È su questa linea di separazione chiara e netta che abbiamo vissuto per molto tempo, almeno dalla Seconda Guerra mondiale, separazione riattivata dopo la caduta dell’URSS, cui è seguita una liberatoria irruzione di rivelazioni d’archivio… Ma nell’ora in cui si scopre un nuovo incubo, prodotto dalla combinazione dei possibili consentiti dalla rivoluzione informatica e dall’ossessione antiterrorista occidentale (in particolare statunitense) dopo l’11 settembre, nell’ora in cui viene rigorosamente imposta a ciascuno di noi l’equazione “connesso = sorvegliato, spiato” e quindi sospetto, potenziale colpevole, che cosa resta dell’opposizione che fonda le nostre basilari certezze filosofiche e politiche arendtiane tra la violenza totalitaria e la libertà democratica? Con la messa sotto sorveglianza dell’insieme delle comunicazioni via internet o telefono operata da agenzie statali specializzate, la posta in gioco degli archivi si disloca brutalmente: da un parte non è più la conservazione, la manipolazione o il sequestro della memoria del passato ad essere la questione principale, ma l’archiviazione infinita di ciò che conserva istantaneamente la traccia degli scambi verbali o scritti tra le persone, tra tutte le persone. Ciò che è a repentaglio a causa di tutto ciò non è tanto (come di frequente è stato detto quando le rivelazioni hanno avuto luogo) la vita privata degli individui, ma la possibilità stessa di una vita pubblica democratica, la cui caratteristica più saliente è proprio di essere fatta da persone “libere”, nella misura in cui queste ultime si oppongono a coloro i quali si ritiene che il potere sottoponga a una sorveglianza constante o alla privazione della libertà per i crimini e i delitti di cui si sono resi colpevoli. Nelle nostre società, la condizione di essere libero (la cittadinanza) si oppone di per se stessa al fatto di essere sottomesso a una sorveglianza continua, alle condizioni imposte da nuovi Panopticon. È semplicemente questo che ci autorizza a rispondere, a un poliziotto che ci chiede dove stiamo andando,
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che banalmente questo non è affar suo, a meno che egli non ci sospetti di star commettendo, o di essere sul punto di commettere, un delitto o un crimine, ma questo solo nel caso che egli ne dimostri l’evidenza. Contrariamente a quel che suggerisce Orwell in 1984, dal momento che i regimi totalitari non hanno i mezzi per predisporre un Panopticon generalizzato, la sorveglianza che esercitavano sui cittadini era selettiva e basata su tecnologie poliziesche abbastanza rudimentali. Al tempo dell’informatica dopata dal terrorismo si procede in senso inverso: si fabbrica un archivio immediatamente volto a registrare tutti, o quasi, i messaggi che vengono scambiati e, in seguito, si fa una selezione grazie a macchine programmate per far scattare l’allarme quando parole-chiave preordinate vengono pronunciate… L’era del sospetto si estende a tutti, il lavoro della macchina è di fare la selezione tra i “veri” e i “falsi” sospetti, per usare una nomenclatura hitchcockiana. Non si tratta di un nuovo totalitarismo, di un impronunciabile “totalitarismo democratico”, nella misura in cui questo nuovo Panopticon non è associato al terrore di massa, bensì a una nuova forma di captazione dell’archivio al servizio della violenza nascosta del potere. Sta a noi inventarne e proclamarne il nome… Traduzione dal francese di Orazio Irrera
Alain Brossat Université Paris 8 brossat.alain@orange.fr
. The Archive and the Archives. Archaeology of Discourses and Government of the Living According to Foucault the archive does not designate “the totality of the texts that are preserved by a culture” but, rather, the conditions of possibility of the statements within a given cultural field, their conditions of emergence and disappearance, as well as the events that are connected to these rules. In this way, from the point of view of the archaeology of discourses, the archive assumes less the form of a document than that of a monument. This article investigates the ways in which this culturalist approach of the archive (as Foucault states, “by archive I mean first of all the amount of things that within a certain culture are told, preserved, valorised, reused, repeated and transformed”) can be politicized
254 Alain Brossat through the issue of the archives: both in The Disorder of Families and in the Lives of Infamous Men, as well as in the collective study on Pierre Rivière, Foucault highlights the stakes of governmentality that are in the archives. These stakes are eminently salient today, in a time when archiving, data recording and generalized surveillance tend to become strictly indistinct. Keywords: Michel Foucault, Archaeology, Archive, Governmentality, Surveillance, Discourse, Pierre Rivière.
Michel Foucault e la Rivoluzione francese Sophie Wahnich
Michel Foucault non ha mai scritto sulla Rivoluzione francese. Si po-
trebbe pensare che abbia evitato con cura questo oggetto storico: oggetto che resta precluso, anche quando scopre una Rivoluzione viva in Iran, nel 1978. Anche allora, la Rivoluzione francese sembra appiattita su quel che egli chiama le «democrazie borghesi o rivoluzionarie» e sulle «definizioni del governo islamico». Foucault afferma che, lungi dall’essere imprecise, queste ultime gli «sono sembrate di una limpidità molto familiare e devo dire abbastanza poco rassicurante. “Sono le formule di base della democrazia, borghese o rivoluzionaria, noi non cessiamo di ripeterle dal XVIII secolo e sapete a che cosa hanno condotto”»1. Quel che sembra implicitamente svalutato, è il dominio borghese tramite il regime parlamentare. Sembra affiorare la nozione marxista di rivoluzione borghese. Aldilà, però, della posta in gioco immediatamente filosofico-politica, la parola “rivoluzione” stessa è connotata, in Foucault, come parte di un’identità francese poco raccomandabile. Egli afferma infatti di essersi rifiutato di rispondere alla domanda che gli era stata fatta al rientro dall’Iran, “è la rivoluzione?”, e aggiunge: «a questo prezzo in Francia ogni tipo di opinione consente di interessarsi a quello che non è di “casa nostra”»2. I Francesi si interessavano forse all’Iran solo se potevano ritrovarvi un sintagma nazionale, una rivoluzione identificata in ultima istanza con la Rivoluzione francese? Non c’è niente che permetta di affermarlo con certezza, ma la parola rivoluzione come universale sarebbe l’unica a permettere di uscire dal nostro contesto, dato che se è così altrove, allora è così anche da noi.
M. Foucault, À quoi rêvent les Iraniens ?, in Dits et écrits, 1976-1979, Gallimard, Paris 1994, p. 692; trad. it. Ritorno al Profeta?, in Taccuino persiano, a cura di R. Guolo e P. Panza, Guerini e Associati, Milano1998, p. 38. 2 M. Foucault, Le chef mythique de la révolte en Iran, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p.716; trad. it. Il mitico capo della rivolta iraniana, in Taccuino persiano, cit., p. 60. 1
materiali foucaultiani, a. II, n. 4, luglio-dicembre 2013, pp. 255-282.
256 Sophie Wahnich Quando Michel Foucault fa ricorso alla nozione di “spiritualismo politico”3, anche questa volta per esplicitare l’Iran, la fa risalire al Rinascimento e alle grandi crisi del cristianesimo. Come se anche la Rivoluzione francese non fosse testimonianza di una grande crisi del cristianesimo tra giansenismo, spirito conciliare e scontro tra due cleri, quello che voleva questa rivoluzione e che, bisogna comunque riconoscere, ha svolto un ruolo fondatore nel darle avvio. Si pensi, sul piano teorico, a Sieyès o a Gregorio e sul piano pratico a quei parroci che presero per primi la decisione di unirsi al Terzo stato affinché gli Stati generali divenissero assemblea nazionale costituente. Ora, a proposito del legame tra spiritualità e politica, Foucault afferma: «sento già degli Europei ridere; ma io […] so che hanno torto»4. Nel 1978, in Francia, la memoria di questo legame tra spiritualità e politica che ha abitato, in modi diversi, tutte le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Francia, sembra tramontata. “Spiritualismo politico” è diventato un ossimoro, a meno di non appiattirlo – cosa che Foucault rifiuta giustamente di fare – sul teologico-politico. Per questo, Foucault preferisce parlare di “insurrezione” più che di “rivoluzione” anche se, così facendo, sembra contentarsi – cosa che fa raramente – del senso comune associato sia al concetto di rivoluzione, sia alla storia della Rivoluzione francese. Aveva già dato conto di questa indisponibilità della parola rivoluzione prima della rivoluzione iraniana: a partire dal 1789, l’Europa si è modificata in relazione all’idea di rivoluzione, e la storia europea è stata dominata da questa idea. Ma in questo momento è proprio tale idea che sta cominciando a scomparire5.
Foucault affermava che la rivoluzione era un concetto occidentale, preso nella crisi del pensiero occidentale e nella crisi dell’universale occiSu questa nozione di spiritualismo politico in Foucault, cfr. J. Cavagnis, Michel Foucault et le soulèvement iranien de 1978. Retour sur la notion de spiritualité politique, in «Cahiers philosophiques», n. 130, 2012. 4 M. Foucault, À quoi rêvent les Iraniens?, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 694; trad. it. cit., p. 40. 5 M. Foucault, Michel Foucault et le zen: un séjour dans un temple zen, in Dits et écrits, 19761979, cit., p. 623; trad. it. di M. Bertani, Michel Foucault e lo zen: un soggiorno in un tempio zen, in Il discorso, la verità, la storia. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 275. 3
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dentale e finalmente nella crisi del marxismo. In realtà, quando vede un accostamento possibile tra quel che accade in Iran e la Rivoluzione francese, cita François Furet, il cui libro Penser la Révolution française esce in quello stesso anno. Ora, il meno che si possa dire, è che Furet si rifiuta di appiattire l’evento rivoluzionario sulle strutture economiche e sociali, come fa la storia marxista, ma è anche lontano da una prospettiva insurrezionale o popolare. Possiamo anche dire che quando l’insurrezione emerge, la chiama «slittamento [dérapage]». Furet si interessa alle élites, mentre Foucault si interessa ai popolani che fanno una rivolta a mani nude. Foucault prova ad individuare il modo in cui la volontà del popolo iraniano è una, ostinata, efficiente, il modo in cui «la rivolta di una società intera ha soffocato la guerra civile»6, mentre Furet fa dell’irruzione popolare il fattore decisivo della violenza politica e della guerra civile. In quanto storica del periodo rivoluzionario, che ha lavorato tra il 1990 ed oggi, non posso che essere sorpresa da quel che avverto come un malinteso, un’alleanza di fatto il cui senso potrebbe risiedere solo in una simpatia esplicita e comune per un terzo, il settimanale Le Nouvel Observateur e la sua volontà di essere il luogo di sintesi di una seconda sinistra affrancata dal “marxismo” e dal “giacobinismo”, la cosiddetta deuxième gauche. Ma se questo può esser sufficiente a capire perché è Furet ad esser citato e non Albert Soboul, non lo è però per dar conto dell’avversione di Foucault per la Rivoluzione francese come oggetto di sapere, che dopotutto poteva essere un oggetto come un altro. La questione può sembrare aneddotica. Come non riconoscere che Foucault stesso è stato insurrezionale nel suo rapporto con il sapere7 e con la politica, e quindi cosa importa se non ha lavorato sul periodo della Rivoluzione francese? In realtà, sin dai miei primi lavori di storica della Rivoluzione francese, Foucault mi è stato utile più volte e su più punti. Ma, nel momento in cui la Rivoluzione francese è più che mai appiattita sulla narrazione standard di Tocqueville, maître à penser del “Pensare M. Foucault, Une révolte à mains nues, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 701; trad. it. Una rivolta con le mani nude, in Taccuino persiano, cit., p. 44. 7 Il riferimento è qui al Seminario organizzato al Collège International de Philosophie, nel 2013, da Diogo Sardinha e Roberto Nigro, Foucault insurrectionnel. Si trattava di individuare la familiarità del pensiero di Foucault con la nozione di insurrezione, ed è in questo quadro che il presente articolo è stato presentato. 6
258 Sophie Wahnich la Rivoluzione francese”, che sia da parte dei post-colonial studies, per rifiutare ogni valore a questo momento storico e politico, o per l’attuale potere cinese, per tenere sotto controllo le velleità di lotta di classe, ci sembra importante non solo risolvere l’enigma, ma riuscire a mostrare, con l’esempio della rivoluzione iraniana, fino a che punto Foucault è stato attento a quel che per me è il passaggio tra la Rivoluzione francese e quella iraniana, almeno nella sua fase insurrezionale, quella di uno sciismo ancora insurrezionale, in quella fase cioè non ancora istituzionalizzata intorno alla nozione di repubblica islamica, che livellerà le aspirazioni popolari a una maggiore emancipazione. Vorrei infine mostrare come, nonostante tutto, Foucault, come pensatore che ha mancato questo oggetto “Rivoluzione francese”, può fornire risorse per riprenderne la storia in altro modo e farne un luogo per pensare il nostro presente, così come egli impegnava ogni pensiero della storia a fare, ogni filosofia a «diagnosticare il presente». Foucault è uno storico della storia fredda? Pratico-inerte/teorico-attivo Quando, nel 1966, esce Le parole e le cose, in un’intervista alle Lettres françaises, Foucault spiega il suo lavoro prendendo le distanze da Jean-Paul Sartre, senza citarlo e citando invece il suo concetto di “pratico-inerte”: Piuttosto che cercare di spiegare questo sapere dal punto di vista pratico-inerte, cerco di formulare un’analisi di quello che potremmo chiamare il “teorico-attivo”8.
Questo sapere di cui parla è quel che permette implicitamente a una data società, in un dato momento, di darsi delle teorie, delle pratiche, delle opinioni, delle istituzioni. È un sapere fondamento che è inconscio, ma necessario, affinché una società non sia solo una collezione di individui, ma sia costituita da parte a parte da quel che Foucault chiama «condizioni di possibilità». Le rotture sono individuate quando queste condizioni di M. Foucault, Michel Foucault. “Les Mots et les Choses”, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., pp. 498-499; trad. it. di G. Costa, Michel Foucault. Le parole e le cose, in Archivio Foucault 1. 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, p. 111. 8
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possibilità sono rinnovate, cioè quando il principio organizzatore o, come lo definisce Foucault, il «sapere costituente e storico»9, il sottosuolo della nostra coscienza del senso cambia e trasforma l’insieme dei discorsi, quali che siano e da ovunque vengano. Foucault afferma che il vantaggio di questo tipo di ricerca è di «evitare ogni problema di precedenza della teoria rispetto alla pratica e viceversa»; egli afferma di cercare degli «isomorfismi»10. In questo modo, ricusa l’idea che il principio diacronico sia necessario ad ogni comprensione e, chiaramente, l’idea di un’«esistenza che precede l’essenza». Se, infatti, questo principio organizzatore pesa su un’epoca, non c’è bisogno di riferirsi agli atti specifici di un soggetto per spiegare le sue scelte, le sue decisioni. Dal punto di vista sartriano o del pratico-inerte, però, non sono solo gli atti individuali a condizionare le situazioni storiche, è tutta la materia lavorata, fisica e ideale, ed è questa materia lavorata che, lavorando inconsciamente, impedisce di aver coscienza di quel che si fa. Ne consegue l’idea di inerzia, di qualcosa che pesa, che impedisce di andare oltre il punto di vista della coscienza, cosa che fa sì che ognuno appartenga al suo tempo, senza però che sia un’aria del tempo, una moda, ma anche un fondamento per certi aspetti comune e, per altri, legato all’esperienza specifica di ognuno. Per Foucault, il teorico-attivo, lungi dall’impedire, “permette”, è il suolo della storia, un suolo nutriente, altrettanto inconscio del praticoinerte, ma della coscienza Foucault non si cura. Il concetto gli sembra infatti appartenere al XIX secolo, come quello di Uomo. Ed è proprio a questa sopravvivenza che intende dare il colpo di grazia. Per tutte queste ragioni, il lavoro di Foucault si pone altrove ed anche contro la Critica della ragione dialettica11. Foucault spiega che le scienze umane conducono «più alla scomparsa dell’uomo che alla sua apoteosi»12. Questa espressione «scomparsa dell’uomo» è vicina a quella di Lévi-Strauss che discute la Critica della ragione dialettica, nel suo seminario pubblicato nel 1962 ne Il pensiero selIbidem. Ibidem. 11 J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique, t. I, “Questions de méthode”, Gallimard, Paris 1960-1985; trad. it. di P. Caruso, Critica della ragione dialettica. I Teoria degli insiemi pratici, Il Saggiatore, Milano 1963. 12 M. Foucault, Michel Foucault. “Les Mots et les Choses”, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 502; trad. it. cit., p. 114. 9
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260 Sophie Wahnich vaggio13. Là dove Sartre cercava con la Storia una Verità dell’Uomo, LéviStrauss affermava di voler «dissolvere l’uomo» con l’antropologia. Una deviazione attraverso un primo dissidio: Sartre/Lévi-Strauss Al cuore del dissidio tra Lévi-Strauss e Sartre, si trova il ruolo della storia come «disciplina regina» per comprendere la «Verità dell’uomo». Ogni espressione conta in un dibattito che è sia di metodo scientifico, sia di messa in dubbio delle premesse del lavoro sartriano, a causa delle difficoltà di Sartre a pensare le società non occidentali, cosiddette senza storia, nella questione della totalizzazione, della concorrenza tra discipline (storia o antropologia). In tali questioni, la Rivoluzione francese, per Lévi-Strauss come per Sartre, vale come esempio che permette di accreditare la propria tesi, senza tuttavia essere centrale nel dibattito. Colpisce il fatto che negli anni sessanta l’oggetto Rivoluzione francese fosse un oggetto evidente, bagaglio comune di una cultura condivisa, dove è ancora impensabile di non sapere niente di ciò di cui si parla. Le vere poste in gioco sono però altrove, e sono epistemologiche: se si debba o meno far saltare l’idea stessa di una possibile Verità dell’Uomo, e se sì, come? Questo è il nodo della questione. Per Lévi-Strauss, le scienze umane non devono trovare una Verità dell’Uomo, ma «dissolverla». E dissolvere l’uomo significa denaturalizzarlo, farla finita con la natura umana a favore di una conoscenza della molteplicità dei modi di essere al mondo. Si tratta quindi di emanciparsi da una concezione atemporale ed etnocentrica dell’umanità. Dissolvere l’uomo, da una parte, emancipare l’uomo dall’altra. Per Lévi-Strauss, dissolverlo per farla finita con l’idea di una natura umana immutabile, farla finita con le invarianti e voler quindi anche emanciparlo da queste catene idealiste. Per Sartre, emanciparlo a prezzo del pensiero della ragione dialettica. Questa ragione dialettica permetterebbe di pensare non un uomo immutabile, ma un uomo alle prese con situazioni variabili e che spostano il senso dato dagli attori alle loro azioni. Lo svelamento di una situazione si fa nella e attraverso la praxis che la cambia, la coscienza avviene nell’azione, non ne è la fonte. È per questa capacità di C. Lévi-Strauss, Œuvres. La Pensée sauvage, Gallimard, Paris 2008; trad. it. Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964. Nella sua Prefazione, Lévi-Strauss evoca una «discussione frutto di tante cure» da costituire « al disopra delle inevitabili divergenze […] un omaggio indiretto d’ammirazione e di rispetto» (p. 10). 13
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raccontare e di avere un rapporto reale con la Storia tramite la praxis che c’è una ragione dialettica all’opera, e una coscienza. Questo è il quadro in cui Sartre afferma che la soggettività non è né tutto, né nulla; rappresenta un momento del processo oggettivo (quello dell’interiorizzazione dell’esteriorità) e questo momento s’elimina sempre per rinascere di nuovo. Ora, ciascuno di questi momenti effimeri – che sorgono nel corso della storia umana e che non sono mai né primi né ultimi – è vissuto come punto di partenza dal soggetto della storia14.
La Storia come totalizzazione potrebbe essere l’insieme di questo processo in movimento. Per questo motivo, Sartre privilegia lo studio di un initium, la Rivoluzione francese, e non sa cosa farsene delle società cosiddette “senza storia”, che non utilizzano la storia per trasformarsi. Possiamo riconoscere qui le nozioni di “storia calda” e “storia fredda”, care a Lévi-Strauss: “storia calda” è quella che permette alle società di servirsi delle loro contraddizioni per trasformarsi, “storia fredda” è quella che permette alle società di non trasformarsi. Per Lévi-Strauss questi sono effettivamente due modi di concepire la storia come narrazione sul passato ed egli rimprovera a Sartre di non volerli prendere in conto, escludendo così dalla Storia una parte dell’umanità. Sartre farebbe così della storia: l’ultimo rifugio di un umanesimo trascendentale: come se, alla sola condizione di rinunciare ai singoli “io” troppo privi di consistenza, gli uomini potessero ritrovare, sul piano del noi, l’illusione della libertà15.
È in questa logica che Lévi-Strauss afferma che la concezione sartriana della storia è vicina a quella dei primitivi, esclusi per il fatto di non aver coscienza storica, e che il vero problema posto dalla Critica della ragion dialettica è: «a quali condizioni il mito della Rivoluzione francese è possibile?»16 Lévi-Strauss accusa così Sartre di non essersi molto allontanato dai marxisti da lui criticati. Affermare il carattere mitico della storia della Rivoluzione francese, così come è presentata nella ragione dialettica, J.-P. Sartre, Critique de la Raison dialectique, t. I, «Questions de méthode», op. cit., p. 39, nota 1; trad. it. cit., libro I, pp. 38-39, nota 14. 15 C. Lévi-Strauss, Œuvres. La Pensée sauvage, cit., p. 841; trad. it. cit., p. 283. 16 Ivi, p. 832; trad. it. cit., p. 276. 14
262 Sophie Wahnich significa negare la sua dimensione scientifica: il suo senso non è il più vero, ma il più ricco, oggi, in modo contingente: L’uomo contemporaneo, per poter assumere in pieno la parte di agente storico, deve credere a questo mito. […] L’uomo cosiddetto di sinistra si aggrappa ancora a un periodo della storia contemporanea che gli dispensava il privilegio di una congruenza tra gli imperativi pratici e gli schemi d’interpretazione. Forse quest’età dell’oro della coscienza storica è già finita; e il fatto che si possa almeno concepire tale eventualità prova che si tratta solo di una situazione contingente17.
Abbiamo qui l’avvio di una destituzione non solo di un certo regime dell’umanesimo, ma di un certo regime della storia e, infine, la destituzione della centralità dell’oggetto Rivoluzione francese in questo regime della storia. Una storia che non sarebbe più tale Tuttavia, Foucault non è così distante da Sartre quando, nel maggio 1966, ne La Quinzaine littéraire afferma: Si pensa all’interno di un pensiero anonimo e vincolante che è quello di un’epoca e di un linguaggio. Questo pensiero e questo linguaggio hanno le loro leggi di trasformazione. […] Questo pensiero che precede il pensiero, questo sistema che precede ogni sistema è lo sfondo sul quale il nostro pensiero “libero”18 emerge e scintilla per un istante19.
In ogni caso, la libertà non è scomparsa, scarto importante rispetto a Lévi-Strauss. Ma se la filiazione di formazione resta presente e riconosciuta, il giovane uomo di trentotto anni parla dell’uomo di sessantuno evocando: il magnifico e patetico sforzo di un uomo del XIX secolo per pensare il XX secolo. […] Sartre ha fatto quanto ha potuto per integrare la cultura contemporanea alla dialettica, vale a dire le conquiste della psicoanalisi, dell’economia politiIbidem. Le virgolette sono già nel testo originale. 19 M. Foucault, Entretien avec Madeleine Chapsal, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 515; trad. it. Intervista con Madeleine Chapsal, in Archivio Foucault 1, cit., p. 119. 17 18
Michel Foucault e la Rivoluzione francese 263 ca, della storia, della sociologia. […] In questo senso, Sartre è l’ultimo hegeliano, e direi anche l’ultimo marxista20.
La parola «patetico» trasforma lo scarto generazionale in rivalità implicita. Sartre, ci dice Foucault, è non contemporaneo: superato, fuori tempo e quindi fuori uso – come dire che è già morto. Il conflitto tra questi due uomini e queste due generazioni, queste due correnti di pensiero scoppia quando Sartre pubblica un’intervista ne L’Arc21, dove afferma che il lavoro di Foucault testimonia di un rifiuto della storia proprio dello strutturalismo. Una risposta di Foucault appare ne La Quinzaine littéraire, nel marzo 1968, in cui egli afferma che Sartre è troppo preso dalla propria opera per aver letto Le parole e le cose, e di conseguenza «quel che egli ne dice non può sembrarmi molto pertinente»22, ed aggiunge che non aveva dato il suo consenso alla pubblicazione e che da diciotto mesi rifletteva sulle obiezioni che gli erano stato fatte, «tra cui quelle di Sartre». Foucault preferisce ancora credere di non esser stato letto, che di non essere stato capito nel suo spostamento dal pratico-inerte al teorico-attivo, che fonda un’autonomia del “sistema” rispetto alle volontà libere dei soggetti. In effetti, la questione della storia dei saperi e del pensiero è indubbiamente quella che interessa a Foucault. Questa, però, non è quella che Sartre considera come la Storia. Anche se la Storia degli uomini come totalità e come Verità dell’Uomo non è o non è più quella di tutti gli storici, Sartre chiamerà questi ultimi alla riscossa, come categoria disciplinare omogenea, potremmo dire come sistema della storia. Afferma quindi: uno storico, oggi, può non essere comunista, ma sa di non poter scrivere seriamente la storia senza mettere in primo piano gli elementi materiali della vita degli uomini, i rapporti di produzione, la praxis – anche se pensa come me che, al di sopra di questi rapporti, le “sovrastrutture” costituiscano delle regioni relativamente autonome23. M. Foucault, L’homme est-il mort ?, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 541; trad. it. È morto l’uomo?, in Archivio Foucault 1, cit., p. 125. 21 J.-P. Sarte, Jean Paul Sartre répond, ne «L’Arc», Sartre Aujourd’hui, n. 30, octobre 1966. 22 M. Foucault, Foucault répond à Sartre, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 666; trad. it. Foucault risponde a Sartre, in Archivio Foucault 1, cit., p. 195. 23 J.-P. Sarte, Jean Paul Sartre répond, cit. 20
264 Sophie Wahnich La generazione di Foucault valorizza un lavoro su queste regioni autonome e afferma che si tratta appunto di produrre questa autonomizzazione, garante di un sapere competente che permetterà di non confondere più passato e presente e di uscire dall’immaginario di una natura umana eterna. Foucault approfitta peraltro dell’uscita della traduzione francese del libro di Ernst Cassirer sull’Illuminismo per mostrare come questo ebreo tedesco avesse, da precursore, autonomizzato gli enunciati dell’Illuminismo dalle loro situazioni e dai loro enunciatori: Cassirer procede secondo una sorta di “astrazione fondatrice”: da un lato cancella le motivazioni individuali, gli accidenti biografici e tutte le figure contingenti che popolano un’epoca; dall’altro lato, scarta o quantomeno lascia in sospeso le determinazioni economiche o sociali. Quel che allora si dispiega di fronte a lui, è una tela indissociabile di discorso e di pensiero, di concetti e di parole, di enunciati e di affermazioni che analizza nella sua configurazione specifica. […] Egli isola da tutte le altre storie (quella degli individui come quella delle società) lo spazio autonomo del “teorico”: e ai suoi occhi si rivela una storia fino ad allora rimasta silenziosa24.
Il metodo di Cassirer si oppone quindi a quello di Sartre, che prova a tener tutto insieme nella figura di un uomo traversato da parte a parte dal pratico-inerte. Il dibattito sulle pratiche storiche è quindi al tempo stesso un dibattito sul tema “uomo”. Se l’uomo scompare, non saranno più gli stessi intervalli di tempo ad esser privilegiati. Se per gli uni come per gli altri c’è il rigore dell’archivio, la questione della scala di tempo pertinente fabbrica la scansione del campo. Nel giugno 1967, Foucault spiega che, nella storia, la nuova avventura è quella di Fernand Braudel, di François Furet, di Denis Richet, di Emmanuel Le Roy Ladurie, delle ricerche della scuola di storia di Cambridge, della scuola sovietica. In questa questione di periodizzazioni, si tratta chiaramente di rifiutare la scansione rivoluzionaria: Questi storici si pongono il difficilissimo problema della periodizzazione. Ci si è accorti che la periodizzazione evidente scandita dalle rivoluzioni politiche non era sempre il miglior tipo di taglio possibile da un punto di vista metodologico. 24
M. Foucault, Une histoire restée muette, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., pp. 547-548.
Michel Foucault e la Rivoluzione francese 265 Ogni periodizzazione delinea nella storia un certo livello di avvenimenti e, inversamente, ogni strato di avvenimenti richiede una propria periodizzazione. […] Così si accede alla complessa metodologia della discontinuità. La vecchia opposizione tradizionale fra le scienze umane e la storia (secondo la quale le prime studiano il sincronico e il non-evolutivo, mentre la seconda analizza la dimensione del cambiamento incessante) scompare: il cambiamento può essere oggetto di analisi in termini di struttura, il discorso è popolato di analisi prese a prestito dall’etnologia e dalla sociologia, dalle scienze umane. […] In questo modo, forse per la prima volta, si ha la possibilità di analizzare come oggetto un insieme di materiali che sono stati depositati nel corso del tempo sotto forma di segni, di tracce, di istituzioni, di pratiche, di opere, ecc.25.
Se il metodo di Foucault è davvero nuovo nel suo progetto di autonomizzazione dell’oggetto discorsivo come modo di accesso a un sottosuolo teorico che regge la superficie, invertendo il punto di vista marxista, in cui le infrastrutture dominano le sovrastrutture, i debiti della storia nei confronti della sociologia e delle altre scienze umane risalgono in ogni caso agli anni trenta, alla creazione della rivista Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre. Non è questa la novità. Rifiutare il tempo vivo degli eventi, riferendolo a quello delle scansioni rivoluzionarie, invece, non era mai stato fatto, perché queste diverse temporalità, i tempi lunghi delle strutture, i tempi delle congiunture e dell’evento venivano infatti dal marxismo. Labrousse lavora sulle congiunture di prezzo, Febvre sull’attrezzatura mentale, che è un’altro modo di parlare di una teoria che fonda il suolo su cui si possono dispiegare l’azione e le credenze degli uomini, i marxisti sono legati alle grandi scansioni e definiscono così una successione di periodi storici legati alle strutture socio-economiche: lo schiavismo, il feudalesimo, il capitalismo, etc. Non possiamo vedere in questo una grande novità. Resta tuttavia un nuovo uso di tali questioni di temporalità, di periodizzazione. Foucault semplifica a oltranza e fabbrica, in realtà, alleanze con gli storici che rifiutano il valore dell’evento in generale e di quello rivoluzionario in particolare. Egli ritrova quindi non le parole, ma la prosodia del Lévi-Strauss de Il pensiero selvaggio, quando rispondeva a Sartre e rifiutava l’uso della Rivoluzione francese come mito utile ai cittadini. Foucault amplia però l’argomentazione a tutto un modo di fare la storia: M. Foucault, Sur les façons d’écrire l’histoire, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 586; trad. it. Sui modi di scrivere la storia, in Archivio Foucault 1, cit., pp. 154-155. 25
266 Sophie Wahnich Per molti intellettuali il rispetto distante […] verso la storia era il modo più semplice per mettere d’accordo la loro coscienza politica con la loro attività di ricerca o di scrittura. […] Per alcuni, la storia come disciplina costituiva l’ultimo rifugio dell’ordine dialettico: lì si poteva salvare il regno della contraddizione razionale26.
Foucault conclude: Rifiutare una simile forma di dire storico sarebbe come attaccare la grande causa della rivoluzione27.
Occorre constatare che gli storici citati sono quelli che hanno rifiutato in modo più profondo l’oggetto rivoluzione come oggetto pertinente (Braudel, Le Roy Ladurie) o che hanno sovvertito da cima a fondo la storia della Rivoluzione, abbandonando l’idea stessa di studiare le giornate rivoluzionarie e portando in primo piano la dimensione politica e discorsiva di un momento storico che avrebbe potuto fare a meno di attori, dato che si era giocato tutto prima, e quindi prima dell’irruzione del popolo in queste famose giornate (Furet e Richet). Così facendo, a fianco di Lévi-Strauss, di Braudel e di Furet, Foucault conduce in realtà un dibattito combattivo sugli obiettivi della storia. Gli obiettivi della storia Per Foucault, il lavoro filosofico consiste nel «diagnosticare il presente»28; egli prende in prestito la parola “diagnosi” da Nietzsche. Si tratta di «dire che cosa è il presente, dire in che cosa il nostro presente è diverso e assolutamente diverso da tutto ciò che esso non è, ovvero dal nostro passato»29. Singolarizzare il presente, l’“oggi”, mentre la Critica della ragione dialettica faceva, di ogni evento parziale, la possibilità di una totalizzazione nell’esperienza vissuta di darsi i propri lumi per agire, nella praxis. Per questo, in Sartre, il passato non era separato dal presente, ma essi erano in contiguità. Se questa contiguità crollava, la Storia poteva allora Ivi, p. 585; trad. it. cit., p. 154. Ibidem. 28 M. Foucault, Foucault répond à Sartre, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., p. 665; trad. it. cit., p. 194. 29 Ibidem. 26 27
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svanire. In realtà, nelle parole di Sartre, «la storia si appella alla storia» ed è il soggetto, con la sua inchiesta, il suo sguardo, le sue letture, rese possibili ed efficienti dalla sua praxis politica, a dare un senso alla storia: [O]gni storia, nel momento in cui, al presente o al passato, si stabiliscono dei rapporti con altre storie, è l’incarnazione della Storia30.
Ogni storia universale incarna allora la Storia universale. La Storia (temporale) si appella alla temporalità come la coscienza si appella alla coscienza: può essere compresa e resuscitata (grazie al suo uso pratico) solo in base a una prassi storica che si definisce anch’essa attraverso il suo sviluppo temporale31.
Sartre immagina quindi cosa potrebbe essere un essere non storico. Uno spirito assoluto e senza svolgimento (intuizione) non potrebbe comprendere la storia. Se la libertà non si altera per un condizionamento storico, i monumenti o gli archivi non avranno il senso di una Totalizzazione, non incarneranno la Storia e rimarranno oggetti parziali dalla presenza fugace, se non privi di presenza. Bisogna che [il] libero organismo sia di per sé storico, che sia cioè egli stesso condizionato dall’interiorizzazione del suo legame in esteriorità con la totalizzazione, egli stesso incarnazione; che sia egli stesso la Storia32.
In questa pagina non si dice solo che il modo di relazioni che perpetua una storia nella Storia è esso stesso storico (e quindi si evolve), ma anche, dal mio punto di vista, che questo rapporto può cessare se cessa questa relazione che è, in quanto tale, la coscienza storica. Se questa relazione non è più intrattenuta, non è più trasmessa come esperienza di umanizzazione, la coscienza storica viene a mancare. Ora, affermando la morte dell’uomo come soggetto della storia, Foucault afferma in effetti che una concezione della storia di questo tipo è J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique, cit., t. II, p. 456; trad. it. L’intelligibilità della storia. Critica della Ragione dialettica. Tomo II, a cura di F. Cambria, Marinotti, Milano 2006, p. 568. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 30
268 Sophie Wahnich obsoleta. Quando Sartre gli rimprovera di non prendere in conto la storia, gli rimprovera di non sostenere più questa contiguità e questa coscienza storica. Sartre aveva fatto della Rivoluzione francese il laboratorio di quel che impediva agli uomini di essere liberi, ma anche di quel che li portava, nonostante tutto, a diventarlo. Un laboratorio dell’emancipazione in una concezione della Storia, senz’altro discontinua e anche fragile, ma sempre ritotalizzata nella coscienza della Storia. Nella sua risposta a Sartre, Foucault parla di una ragione che non obbedisce al progresso ma, nella Critica della ragione dialettica, Sartre non aveva difeso questa idea di progresso: aveva anche sottolineato che questa categoria era quella del tempo omogeneo capitalista. Le accuse fondate sulla rivalità continuano, ma i campi sono ormai divisi. Secondo Foucault, la storia per il filosofo intreccia tre miti: «continuità, esercizio effettivo della libertà umana, articolazione della libertà umana sulle determinazioni sociali»33. Egli afferma che è questa la storia che vuole «uccidere», ma in questo assassinio uccide anche, pare, ogni desiderio di rivedere la questione del tempo rivoluzionario, del momento rivoluzionario, della libertà rivoluzionaria. Questi sono oggetti troppo evidentemente sartriani, oggetti diventati ai suoi occhi, come Sartre, “antiquati”. Torniamo ora alla domanda iniziale: “Foucault è uno storico della storia fredda?”. Qualificarlo in questo modo sarebbe un po’ sbrigativo, ma è vero che si è alleato con degli storici che affermano che la funzione della storia non è più quella di darsi lumi per l’oggi, ma dei saperi per comprendere un passato separato dal presente. Il presente rivoluzionario fa irruzione nel 1978 in Iran, senza che Foucault sia mai tornato sulla storia rivoluzionaria. Ritrovare l’oggetto mancato con Foucault, nonostante Foucault Foucault interroga l’entusiasmo: ritorno su alcune contiguità tra rivoluzione iraniana e Rivoluzione francese Torniamo alla nostra domanda iniziale. Osservando la rivoluzione iraniana, Foucault si sposta dal “sistema” all’evento insurrezionale stesso, avvertendo che ci può essere una storia contigua possibile tra rivoluzione M. Foucault, Foucault répond à Sartre, in Dits et écrits, 1954-1969, cit., pp. 666-667; trad. it. cit., p. 195. 33
Michel Foucault e la Rivoluzione francese 269
iraniana e Rivoluzione francese. Certo, una Rivoluzione francese che non è quella della storiografia marxista, da cui il ricorso a François Furet, come smarcamento necessario. Ma come seguirlo? Per afferrare questa contiguità, è necessario un regime di osservazione più simpatetico con l’oggetto rivoluzione come momento popolare e insurrezionale di quello di François Furet. Proverò quindi a mostrare sia questa contiguità, sia lo scarto tra Rivoluzione francese e rivoluzione iraniana su alcuni punti, partendo però da un’altra corrente critica, quella che abbiamo provato a scavare a fianco degli althusseriani e poi dell’antropologia del politico. Con la rivoluzione iraniana del 1978, Foucault incontra l’insurrezione e l’entusiasmo, pur continuando a rifiutare la nozione di rivoluzione. Il movimento iraniano non ha subìto quella “legge” delle rivoluzioni che sotto il cieco entusiasmo farebbe, a quanto sembra, risaltare la tirannia che già le abitava segretamente. […] La spiritualità a cui si riferiscono coloro che stavano per morire non è paragonabile al governo cruento di un clero integralista. I religiosi iraniani vogliono legalizzare il loro regime attraverso i significati della sollevazione. Squalificando la sollevazione perché oggi c’è un governo di mollahs, ci comportiamo come loro. […] Proprio da questo deriva l’esigenza di far risaltare quello che c’è di non riducibile in un simile movimento34.
Aggiungerei di non riducibile e di non manipolabile, quindi nell’entusiasmo. Questa nozione di entusiasmo costituisce un passaggio tra le diverse rivoluzioni e le loro preoccupazioni. Durante le Rivoluzioni inglesi, in Inghilterra, l’entusiasmo è sinonimo di fanatismo, ma costringe i filosofi a pensarlo. Così è per Locke e per il suo allievo Shaftesbury. Quando quest’ultimo riflette sul ruolo dell’entusiasmo nelle Rivoluzioni inglesi, fa della religione il principio di identificazione pericoloso. Tuttavia, al contrario dei suoi detrattori a lui contemporanei – in particolare John Locke – non si oppone in modo radicale all’entusiasmo. Dal suo punto di vista, questa emozione fa parte della natura umana e costituisce l’indole di uno spirito visionario. L’entusiasmo designa lo stato della nostra mente: M. Foucault, Inutile de se soulever ?, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 793; trad. it. di S. Loriga, Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 134. 34
270 Sophie Wahnich quando è rapita in una visione e si fissa in un oggetto reale o in una mera immagine della divinità; quando vede, o crede di vedere, cose prodigiose più che umane35.
L’entusiasmo è la passione che ci fa accedere al sublime, premettendoci di cogliere cose che superano i confini di quel che il nostro spirito è in grado di afferrare, o che non può afferrare senza provare le più violente emozioni, «l’orrore, il turbamento, la paura o l’ammirazione». L’entusiasmo è quindi: il sentimento di riconoscimento di un principio divino, ma lungi dal consistere in un sentimento soggettivo o nella convinzione intima dell’ispirazione divina, si tratta del sentimento che proviamo quando siamo capaci di riconoscere nell’universo un ordine e un’armonia che testimoniano dell’esistenza di un principio divino nel mondo36.
Se l’entusiasmo produce il furore, l’eccesso viene dalla violenza del sentimento di socievolezza e non dall’ostilità fra gli uomini. Per Shaftesbury, si tratta di capire in che modo la religione susciti l’entusiasmo, di considerarne l’ambivalenza e di affermare che, come ogni ambivalenza umana, essa è suscettibile di esser regolata. Si tratta di non privarsi del buon entusiasmo, con il pretesto che potrebbe diventare fanatismo. Potremmo dire che Foucault, sottolineando il ruolo del sensibile condiviso e della mentalità sciita, abbia provato a descrivere un buon entusiasmo, per spiegare l’efficacia del contagio entusiasta in situazione insurrezionale. Affermava infatti: Questi uomini di religione sono come delle lastre sensibili sulle quali si incidono le collere e le aspirazioni della comunità. Volessero andare contro corrente, perderebbero questo potere che si basa essenzialmente sul gioco della parola e dell’ascolto. Non abbelliamo le cose. Il clero sciita non è una forza rivoluzionaria37. Shaftesbury, Lettre sur l’enthousiasme, Le Livre de Poche, Paris 2002; trad. it. Una lettera sull’entusiasmo, a cura di E. Garin, Fussi, Firenze 1948, p. 78. 36 C. Crignon de Oliveira, Présentation, in Shaftesbury, Lettre sur l’enthousiasme, cit. 37 M. Foucault, Téhéran: la foi contre le chah, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 687; trad. it. Teheran: la fede contro lo scià, in Taccuino persiano, cit., p. 33. 35
Michel Foucault e la Rivoluzione francese 271
Così, in Michel Foucault il clero non si confonde con l’entusiasmo popolare, ma gli permette di trovare un luogo, una forma che si può disgregare se non risponde alle aspirazioni che sono attivate dalle collere. In realtà, il clero accetta di darsi la capacità di contenimento. Questa ricerca di contenimento esiste anche nella Rivoluzione francese, in una sacralità che non è allora legata a un clero, a una religione rivelata, ma alla sacralizzazione civica dei nuovi ruoli politici. Provo a farne un esempio. Quando i ministri cosiddetti patrioti entrano al ministero, viene organizzata una festa a Parigi, un banchetto che si conclude con il battesimo di una bambina che incarna la repubblica che verrà. Una Marianna ante litteram. In questo banchetto, il sindaco di Parigi, «Pétion, è stato ricevuto come un padre a un pranzo di famiglia. Un vincitore della Bastiglia, lasciandosi andare all’entusiasmo, ha giurato a nome dei suoi compagni fedeltà al caro sindaco»38. Questa fedeltà si rivolge a colui che aveva difeso l’idea di sottoporre a giudizio il re fuggitivo nel luglio del 1791, che aveva vinto alle elezioni il responsabile del massacro di Campo di Marte, La Fayette. La sua presenza è sia celebrazione del giorno e evocazione di quell’altro picnic segnato a lutto del 17 luglio 1791. Festeggiare la vita in questo banchetto civico con un sindaco che viene a sedersi alla tavola del popolo, significa invertire i segni del lutto repubblicano seguito al massacro. Non solo erano stati assassinati dei repubblicani, ma i militanti erano stati arrestati, i giornali chiusi, i giornalisti mandati in esilio. Ora c’è una nuova nascita, una nuova aspettativa. La fedeltà al sindaco è fedeltà a questa aspettativa. Possiamo accostare eventi analoghi del 1791 e del 1978. In entrambi i casi, soldati del popolo sono portati a sparare su gente del popolo. Il 17 luglio 1791 al Campo di Marte, nelle manifestazioni contro lo Scià nel 1978. Foucault evoca questi fatti: Il governo è costretto, per mantenere l’ordine, a fare appello a truppe che a ciò non sono né preparate, né portate. Ed esse hanno presto l’occasione di scoprire di non avere a che fare con il comunismo internazionale, ma con l’uomo della strada, coi commercianti del bazar, con gli impiegati, i disoccupati, come lo sono i loro fratelli, o come loro stessi sarebbero se non fossero soldati. “Li si può far tirare una volta, ma non due; a Tabriz, otto mesi fa, è stato necessario cambiare tutta la guarnigione”. […] M’è stato confermato poi che un ufficiale è 38
«Le Moniteur universel», 25 marzo 1792.
272 Sophie Wahnich stato ucciso dai suoi soldati, il Venerdì Nero, per aver dato ordine di sparare sulla folla; e che alcuni soldati, il giorno dopo, si sono uccisi39.
Nel luglio 1791, alcuni membri della guardia nazionale si erano anche ribellati ai loro capi e alcuni si erano addirittura suicidati per aver sparato sui propri fratelli. Più avanti, Foucault aggiunge: «la febbre politica non dimenticava i morti, era il culto al quale avevano diritto»40. Credo che si potrebbe dire la stessa cosa di molte feste politiche del marzo e dell’aprile del 1792. Queste feste hanno luogo sia per vendicare i morti del Campo di Marte, sia per ritrovare l’ardore della vita. Così è per il banchetto che abbiamo appena evocato, ma anche per la festa della libertà del 15 aprile 179241. A proposito dell’Iran, Foucault evoca ancora: un movimento attraversato dal soffio di una religione che parla meno dell’aldilà che della trasfigurazione di questo mondo42.
Mentre, però, Pétion spiega che non si deve identificare questo culto e questa aspirazione a un corpo, gli Iraniani fanno della rivoluzione una lotta delle incarnazioni sovrane: espellere lo Scià, venerare Khomeini. Nonostante tutto, manca quella lezione di controllo delle identificazioni che danno il coraggio e la forza di battersi e di credere. Quando [gli Iraniani] rischiavano la loro vita […] iscrivevano la loro fame, le loro umiliazioni, il loro odio nei confronti del regime […] ai confini del cielo e della terra, in una storia sognata che era sia religiosa sia politica. […] I contenuti immaginari della rivolta non si sono dissipati alla luce della rivoluzione. Sono stati immediatamente trasposti su una scena politica che sembrava affatto disposta a riceverli, ma che, in realtà, era di tutt’altra natura43.
M. Foucault, L’arméé, quand la terre tremble, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 667; trad. it. L’esercito, quando la terra trema, in Taccuino persiano, cit., p. 17. 40 M. Foucault, Téhéran: la foi contre le chah, cit., p. 685; trad. it. cit., p. 31. 41 Su queste due feste rimando al mio libro La longue patience du peuple. 1792, Naissance de la République, Payot, Paris 2008. 42 M. Foucault, Le chef mythique de la révolte de l’Iran, in Dits et écrits, 1976-1979, cit., p. 716; trad. it. Il mitico capo della rivolta iraniana, in Taccuino persiano, cit., p. 60. 43 M. Foucault, Inutile de se soulever ?, cit., p. 792; trad. it. cit., pp. 133-134. 39
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Non c’era stata alcuna lezione sulle cattive identificazioni, sul rifiuto necessario delle incarnazioni degli ideali. Eppure, nel Corano, come nella Rivoluzione francese, la comunità può resistere all’oppressione: È la giustizia che ha fatto la legge, e non la legge che ha costruito la giustizia. […] Bisogna difendere, contro il cattivo potere, la comunità dei credenti44.
I rivoluzionari francesi invocano un diritto di resistenza all’oppressione nella Dichiarazione dei diritti che prende molto in prestito dai primi sinodi, in cui i credenti avevano vinto contro i prelati corrotti. Per questo, la religione: fa delle insoddisfazioni infinite, degli odi, delle miserie, delle disperazioni una forza […] perché rappresenta una forma di espressione, un modo di relazione sociale, una organizzazione elementare elastica, e largamente accettata, una maniera di essere insieme, un modo di parlare e di ascoltare, qualcosa che permette di farsi sentire dagli altri, e di volere con essi, nello stesso tempo45.
Foucault conclude: «questa forza poteva rifiutare di incarnarsi in un corpo di potere». Questa, però, s’incarna presto in un corpo, quello di Khomeini, che dà la definizione di governo islamico, peraltro poco rassicurante per Foucault: “Sono le formule di base della democrazia, borghese o rivoluzionaria, noi non cessiamo di ripeterle dal XVIII secolo e sapete a che cosa hanno condotto”. Ma mi è stato subito risposto: “Il Corano le aveva annunciate assai prima dei vostri filosofi e, se l’Occidente cristiano e industriale ne ha perduto il senso, l’Islam, per parte sua, ne saprà preservare il valore e quindi l’efficacia”46.
A mio parere, tutta la questione sta nel sapere se sono queste formule, o se è invece la devozione, a produrre l’assoggettamento attraverso l’entusiasmo per un corpo venerato, al posto di un entusiasmo per argomenti a favore della giustizia e del diritto. Quando Pétion crea l’entusiasmo durante il banchetto del marzo 1792, si rifiuta di incarnare l’aspettativa e dà una lezione di teoria politica: M. Foucault, Téhéran: la foi contre le chah, cit., p. 687; trad. it. cit., pp. 32-33. Ivi, p. 688; trad. it. cit., p. 34. 46 M. Foucault, À quoi rêvent les Iraniens ?, cit., p. 692; trad. it. cit., p. 38. 44 45
274 Sophie Wahnich Cittadini! Esclama Pétion, non è ad un uomo che dovete giurare fedeltà, è alla nazione, è alla costituzione47.
L’entusiasmo evocato, legato sia al culto dei morti del Campo di Marte, sia al culto della vita, non deve incarnarsi, fissarsi, identificarsi ad un corpo, a un leader. Nella Rivoluzione francese, questa tentazione all’identificazione è effettiva, ma è vissuta a lungo, dal 1789 al 1794, come pericolosa e presentata in quanto tale in una pulsazione complessa di desideri di incarnazione e di rifiuti di incarnazione. La figura di un Khomeini e dei suoi usi, nel 1978, crea lo scarto tra le esperienze della Rivoluzione francese e di quella iraniana. Khomeini incarna, nel vero senso del termine, e non è più solo una placca sensibile e friabile. Da questo punto di vista, si vede bene come un altro modo di fare la storia della Rivoluzione francese avrebbe potuto dare lumi sia agli attori, sia ai commentatori della rivoluzione iraniana. Il discorso sullo straniero durante la Rivoluzione francese, tra archeologia del sapere e attualità Tuttavia, il Foucault de Le parole e le cose e de L’archeologia del sapere48 può senz’altro sostenere un lavoro sulla Rivoluzione francese, con Foucault e nonostante Foucault. Così, quando ho iniziato il mio lavoro sulla nozione di straniero nella Rivoluzione francese, si trattava di individuare non dei soggetti di enunciazione, ma delle formazioni discorsive, il “ça parle” di una società, quel che nel Centre interuniversitaire d’analyse du discours e de sociocritique des textes di Montréal, Régine Robin49 e Marc Angenot avevano chiamato “discorso sociale”, nel solco di Foucault e di Althusser. Si trattava di individuare i modi in cui una società metteva in circolazione enunciati senza locutore, cioè senza che si potesse davvero riferire a questi enuncianti una posizione di soggetti operanti, attraverso i loro enunciati, processi di soggettivazione, anche se è possibile situare socialmente e politicamente questi locutori. Un “dicibile” prodotto socialmente e non soggettivamente. «Le Moniteur universel», cit. M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980. 49 Nel libro di Régine Robin, Histoire et linguistique, Armand Colin, Paris 1973, un intero capitolo verte su Michel Foucault. 47 48
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Questo approccio ai discorsi era sia strutturalista, sia marxiano, e permetteva di non riferire più gli enunciati a soggetti politicamente e socialmente situati, ma permetteva di individuare quali enunciati attraversavano spazi determinati. Questo avrebbe permesso di non riferire tutto a lotte politiche immediate, o a posizioni immediate, anche se, in un secondo tempo, i momenti di rottura, di discontinuità potevano essere analizzati anche in funzione di queste lotte inscritte proprio nei discorsi. Si trattava quindi di non far valere un contesto esterno al discorso, ma di individuare, dall’interno dei discorsi, i modi di iscrizione dei contesti nelle tracce enunciative. Solo in questo modo e in momenti esatti del corpus il soggetto dell’enunciazione, che non è propriamente il soggetto, tornava. Ne L’Archeologia del sapere, la storia era diventata: L’impiego e la messa in opera di una materialità documentaria (libri, testi, narrazioni, registri, atti, edifici, istituzioni, regolamenti, tecniche, oggetti, costumi, ecc.) che presenta sempre e dovunque, in ogni società, delle forme sia spontanee sia organizzate di persistenza50.
«La storia tende all’archeologia», ci dice dunque Foucault, perché descrive i documenti nel loro funzionamento, nella loro organizzazione, anziché farne «i luoghi di decifrazione delle tracce»51. Tuttavia, la storia delle scienze permetteva di uscire dalla totalizzazione della storia seriale e di mettere in rilievo i diversi concetti per pensare la discontinuità (soglia, rottura, interruzione, mutazione, trasformazione) e l’irruzione degli eventi. Da questo punto di vista, l’archeologia si opponeva a quella storia che, certo, organizzava le tracce, ma lo faceva per fabbricare il continuum della storia e non la sua discontinuità. Per questo, Foucault rifiuta il carattere della storia servile verso la Tradizione e produttrice di questa Tradizione immutabile. Egli dà quindi vita a un’epistemologia critica della storia, che può presentare analogie con quella di Walter Benjamin. Anche Foucault rifiuta infatti di fare delle Rivoluzioni il momento necessario di una presa di coscienza nel continuum del progresso, come forma dello sforzo incessante di una coscienza all’opera. Foucault afferma infatti che la storia non deve produrre coscienza storica, coscienza che sarebbe originaria e svelata delle Rivoluzioni, come 50 51
M. Foucault, L’Archéologie du savoir, cit., p. 14; trad. it. cit., p. 10. Ibidem; trad. it. cit., p. 11.
276 Sophie Wahnich accesso difficile alla libertà. In questo caso, infatti, la storia non sarebbe “scansione”, ma “divenire”. Una storia che non fosse: meccanismo di rapporti, ma dinamismo interno; che non fosse sistema, ma duro travaglio della libertà; che non fosse forma, ma sforzo incessante di una coscienza che torna su se stessa e cerca di recuperarsi fino al livello più profondo delle sue condizioni: una storia che fosse al tempo stesso lunga pazienza ininterrotta e vivacità di un movimento che finisce per spezzare tutte le barriere52.
Confesso che quando ho riletto questo passaggio, non ho fatto a meno di sorridere pensando ai titoli dei miei ultimi due libri: Les émotions, la Révolution française et le présent. Exercices pratiques de conscience historique, e La longue patience du peuple, 1792, naissance de la République53. Essi testimoniano della difficoltà, se non dell’impossibilità di attenersi alle posizioni de L’Archeologia del sapere quando oggi si fa storia della Rivoluzione francese. In realtà, a parte l’ironia su me stessa, la questione teorica era già questa: in che modo una tale archeologia, che nel rifiuto della coscienza storica rigetta l’idea di un qualsiasi progresso della storia, proprio come fa Benjamin, può produrre un sapere critico e non solo descrittivo dei documenti? Questo sapere critico potrebbe chiamarsi non “coscienza storica”, ma giustapposizione discontinua di momenti di verità storica che, in quanto tali, sono modi di produrre, nonostante tutto, una presa di coscienza per il ricercatore e per il suo lettore. In qualche modo, il sapere come rivoluzione, rivoluzione però rigettata come presa di coscienza quando il tempo è totalizzazione, cioè la Storia con l’esse maiuscola, come quella di Sartre ne La critica della ragione dialettica. In breve, come riconquistare la “coscienza storica” detotalizzando il tempo? Questa era la domanda che mi si presentava quando investivo la questione dello straniero in un rapporto che interrogava in modo immediato il mio presente. Accettare di produrre un’archeologia, uscire dai temi della storia, certo, ma per cogliere una situazione e ritornare al presente, carica di un sapere che permetterebbe di porgli nuove domande. Foucault aveva già risposto, in qualche modo, a questa domanda. Io ho lavorato in effetti su queste poste in gioco, dalla laurea fino alla tesi di Ivi, p. 23; trad. it. cit., p. 19. Cfr. S. Wahnich, Les émotions, la Révolution française et le présent. Exercices pratiques de conscience historique, CNRS Éditions, Paris 2009 e La longue patience du peuple, 1792, naissance de la République, cit. 52 53
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dottorato, tra il 1986 e il 1994, e Foucault aveva in realtà tenuto una lezione sul testo di Kant, Che cos’è l’Illuminismo? al Collège de France nel 1983 e Magazine littéraire l’aveva pubblicata nel 1984. In questa lezione, Foucault affrontava questa stessa domanda, formulandola in questi termini: optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità54.
Di fatto, Foucault fa dell’Illuminismo (Aufklärung) il momento che interroga, in modo riflessivo, il legame tra la razionalità e il suo presente, mettendo peraltro in relazione in modo esplicito, in un articolo del 1984, “la vita, l’esperienza e la scienza”55, ma potremmo anche dire, in modo analogo, “il presente, il sensibile ed il sapere”, e allora mi ci ritroverei perfettamente. Si tratta quindi di afferrare il presente nella sua differenza, di afferrare la discontinuità del presente rispetto a ieri e all’indomani, un presente che non annuncia niente e che non produce alcuna necessità di un filo continuo. Il presente come luogo di individuazione delle discontinuità di questo momento presente, nel suo rapporto a ieri e nel filone d’indagine de L’archeologia del sapere. L’ontologia dell’attualità non è certo la ragione dialettica, ma sembra affermare, nonostante tutto, che nel sapere stesso del presente, si tratta di trovare nell’attualità il luogo stesso dell’interrogarsi; il filosofo dovrebbe: «dirne il senso […] per specificare il modo in cui è in grado di agire all’interno di questa attualità».56 Siamo molto vicini alla praxis di Sarte, pur avendo abbandonato ogni totalizzazione, anche parziale. Questo è il quadro epistemologico del lavoro svolto. La questione della lotta delle razze nel periodo rivoluzionario Per lavorare sulla nozione di straniero nel periodo rivoluzionario, avevo individuato nel mio corpus di Archivi parlamentari dei campi semantici, delle traiettorie tematiche, dei sintagmi invariabili e provavo a cogliere M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières ?, in Dits et écrits, 1980-1988, cit., pp. 687-688; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 261. 55 M. Foucault, La vie: l’expérience et la science, in Dits et écrits, 1980-1988, cit., pp. 763776; trad. it. La vita: l’esperienza e la scienza, in Archivio Foucault 3, cit., pp. 317-329. 56 M. Foucault, Qu’est ce que les Lumières ?, cit., p. 681; trad. it. cit., p. 255. 54
278 Sophie Wahnich dove e come taluni spostamenti diventavano leggibili nell’ordine del discorso. In questo modo ho potuto individuare il senso politico della parola “straniero”, più vicino alla nozione di traditore e di controrivoluzionario del nostro “straniero”, inteso come proveniente da un altro popolo o paese. Ho potuto così capire perché il re Luigi Capeto fosse la figura per eccellenza dello straniero del momento rivoluzionario. Ho poi anche potuto individuare il modo in cui il discorso sugli Inglesi li avesse a poco a poco promossi al rango di criminali di lesa umanità per aver tradito sia il diritto, sia la lingua del diritto. Lo straniero era quindi un soggetto politico prima di un essere sociale e così una pluralità di forme sociali dava il proprio contenuto a quel che sembrava proprio essere una nozione: i funzionari che abusano del loro potere, i generali traditori, i nobili emigrati, i faziosi, i pigri e gli stranieri, come gli Inglesi, i Prussiani, gli uomini mascherati come Anacharsis Cloots e così via. Tuttavia, un sintagma invariabile poteva contraddire un approccio di questo genere. Lo si ritrovava in particolar modo negli enunciati del decreto del 26 Germinale, anno II e si trattava del sintagma “i nobili e gli stranieri”. Se i nobili erano figure di straniero, questo sintagma era ridondante, e se invece non lo erano, bisognava capire perché in questa varietà di figure dello straniero si aveva cura di isolare “i nobili e gli stranieri”. È stata proprio la lettura di Foucault che mi ha chiarito la questione. Egli mostrava che le rivolte contro i Normanni conquistatori, «al termine delle quali era stata concessa la Magna Charta, avevano dato luogo […] ad alcune misure specifiche di espulsione degli stranieri (in questo caso, più di coloro che venivano dal Poitou e dall’Anjou che dei normanni)»57. Più tardi, nel XVII secolo, la discussione giuridico-politica dei diritti del sovrano e dei diritti del popolo si era svolta in Inghilterra, a partire da questo vocabolario dato dall’evento della conquista, dal rapporto di dominio di una razza su un’altra e dalla rivolta, o dalla minaccia permanente di rivolta dei vinti contro i vincitori. Era dunque possibile tentare una prima interpretazione. “I nobili e gli stranieri” erano dunque due tipi di conquistatori, i conquistatori del passato, che avevano affermato di essere nobili perché vincitori, e i potenziali conquistatori del momento, che potevano conquistare la sovranità occuM. Foucault, Il faut défendre la société. Cours au Collège de France 1976, a cura di F. Ewald, A. Fontana, M. Bertani, Seuil/Gallimard, Paris 1997, p. 88; trad. it. di M. Bertani, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, p. 90. 57
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pando le posizioni del popolo sovrano. A questi nobili e stranieri erano in effetti vietate sia le piazzeforti, sia le società popolari. Interdizione dei luoghi in cui si difendeva il territorio, dei luoghi in cui si discuteva della legge e del suo fondamento. Due luoghi la cui conquista poteva sovvertire la sovranità del popolo francese. Foucault ci diceva che i discorsi di questa lotta delle razze, o guerra delle razze, non erano appannaggio di aristocratici come Boulainvilliers, nella Francia del XVIII secolo. La lotta delle razze abitava sia i discorsi degli assolutisti, sia quelli dei parlamentari; abitava le posizioni radicali dei Diggers o dei Levellers. I rivoluzionari potevano così legarsi a questa lotta che, di fatto, era una lotta binaria tra vincitori e vinti. Il sintagma invariabile affermava che i nobili, come gli stranieri, dovevano essere considerati come dei vinti pronti a rivoltarsi e che bisognava anticipare questa rivolta. E quindi, si trattava ancora di lotta delle razze? La questione non era priva di importanza, perché se la lotta delle razze, nel lavoro archeologico e genealogico di Foucault, indicava proprio una lotta politica, essa era ancora concepita tra gruppi sociali definiti come delle “gens”, dei lignaggi, un sangue comune, un’origine comune. Per spingersi oltre, occorreva ritornare all’archivio rivoluzionario e ritrovare i processi di derazzializzazione all’opera nei discorsi dal 1789. In Che cosa è il terzo stato, quindi sin dal 1789, l’abate Sieyès aveva affermato che era necessario derazzializzare i rapporti sociali: Il terzo stato non deve temere di risalire ai tempi passati. Si riferirà all’anno che precede la conquista, e dato che è oggi abbastanza forte da non lasciarsi conquistare, la sua resistenza sarà senza dubbio più efficace. Perché non dovrebbe rimandare nei boschi della Franconia tutte quelle famiglie che hanno ancora la folle pretesa di discendere dalla razza dei conquistatori e di aver ereditato i loro diritti? La nazione epurata potrà allora consolarsi, credo, di esser stata ridotta a non credersi più composta di discendenti dei Galli e dei Romani58.
Questo rinvio si era materializzato al momento della riunione degli Stati generali, in cui l’enunciato dello stesso Sieyès, in questo stesso testo, era stato messo alla prova dei fatti: L’Abbé Sieyès, Qu’est ce que le Tiers Etats?, Réédition du Centenaire, Paris 1888, capitolo II, p. 32. 58
280 Sophie Wahnich Se la si privasse dell’ordine privilegiato, la nazione non sarebbe qualcosa di meno, ma qualcosa di più59.
I nobili in quanto tali sono di colpo esclusi dalla nazione sovrana. Sono esclusi in quanto vinti e probabilmente anche in quanto nobili sempre pronti a rivoltarsi, ipotesi politica confermata dall’emigrazione e dal tradimento di alcuni generali. Solo abbandonando la propria nobiltà si poteva, nonostante tutto, diventare cittadini. Questa derazzializzazione, o questo modo di dar congedo alla guerra delle razze a beneficio di una semplice guerra con i suoi vincitori e vinti, non si trova solo in questo testo. La si può individuare in certi ragionamenti che pure affermano che bisogna rinunciare all’uso di quel che Foucault chiama: uno strumento, discorsivo e politico insieme, che permetteva a [vincitori e vinti] di formulare le rispettive tesi60.
La questione non è più l’origine razziale, ma l’origine politica della fondazione contrattuale. Non prendendo parte a questa fondazione, i nobili hanno raddoppiato la loro qualità di stranieri. In modo più fondamentale, quando Saint-Just si chiede: «che cos’è un re per un Francese?»61, non oppone solo un aristocratico al popolo, ma il potere derivato dal sangue e quello che viene dalla riconquista politica della propria sovranità. Una grandezza razzializzata e una grandezza politica e storica. Derazzializzare la grandezza significa reiscriverla nel tempo della storia come fabbricazione del mondo, mentre il sangue immobilizzava una tradizione fuori dal tempo. Saint-Just può quindi chiedere ancora: vorrei sapere quali erano, dal tempo di Pompeo, i padri da cui discendono i re a noi contemporanei. Quali erano, per i loro discendenti, per le loro pretese Ibidem. Cours du 4 février 1976. Cours du 04/02/ 1976. Cote: C61(3.2) © IMEC. http:// michel-foucault-archives.org/?Il-faut-defendre-la-societe. Cfr. anche M. Foucault, Il faut défendre la société, cit., p. 88; trad. it. cit., p. 90. 61 Saint-Just, Rapport sur la police générale, présenté à la Convention nationale le 26 Germinal an II (15 avril 1794), in Œuvres complètes, a cura di A. Kupiec e M. Abensour, Gallimard, Paris 2004, p. 752. 59 60
Michel Foucault e la Rivoluzione francese 281 al governo della Gran Bretagna, dell’Olanda, della Spagna e dell’Impero? Come il pensiero rapido e la ragione trovano poco spazio tra le età, tutti questi tiranni sono pronipoti di contadini, di marinai o di soldati, che valevano più di loro62.
La lotta delle razze è quindi invalidata e trattata come una finzione politica sia da Sieyès, sia da Saint-Just. La finzione non verte sui rapporti di forze, ci sono ancora dei vincitori e dei vinti, c’è ancora la lotta. Essa verte sulle razze, che avevano infranto l’idea di un’umanità non solo una, ma fatta di individui liberi ed eguali per diritto e che non potevano ottenere il proprio status sociale e politico per nascita, cioè per il sangue, per il corpo. Si trattava quindi di derazzializzare i nomi del potere – bisogna farla finita con i re ereditari – e di derazzializzare i nomi dei popoli. Se i territori hanno nomi storici, anche chi popola questi territori ha nomi storici, e questa storia non è modellata dall’origine, ma dal rapporto costituito dal legame alle leggi del paese. «Dove non ci sono leggi, non c’é patria»63, afferma Saint-Just. Non sono quindi né i padri, né la madri a fare le patrie, ma le leggi elaborate collettivamente quando si è divenuti un popolo sovrano. Questo popolo sovrano può mettere a punto procedure di inclusione degli stranieri che non sarebbero vissute come procedure di conquista. Il popolo include quelli che non sono dello stesso sangue, ma riconoscono le regole del suo contratto politico, le sue leggi. Quando, nel 1792, si dà il titolo di cittadino francese a stranieri prestigiosi, la questione del sangue si ripresenterà in modo metaforico. Lamourette parla infatti di «consanguineità filosofica»64 con questi uomini valorosi dell’Illuminismo. Ci sono popoli, che non sono razze, ma istituzioni politiche. Ci sono posizioni di potere, che non sono però ereditarie. Ci sono, certo, lotte per ottenere il potere o dei territori, o per recuperarli se vengono usurpati, ma non sono lotte di razze: sono guerre, certo, ma guerre della libertà contro la tirannia, delle battaglie politiche. Lo studio del periodo rivoluzionario, trascurato da Foucault, può quindi essere illuminato dalla storia lunga del discorso della lotta delle razze. La Rivoluzione francese opera quindi per “interruzione”, al modo di 62 63
p. 456. 64
Ivi, pp. 752-753. Saint-Just, Esprit de la Révolution et de la Constitution (1791), in Œuvres complètes, cit., Lamourette, Archives parlamentaires, t. 48, p. 689.
282 Sophie Wahnich Walter Benjamin65, cessazione più soggettiva, al modo di Sylvain Lazarus66. Se però il periodo della Rivoluzione francese rinuncia alla razzializzazione del politico, la razza si scava un altro cammino. Quando ricompare nel XIX secolo, è diventata un oggetto di sapere scientifico. Si tratta di comprendere, con Foucault, in che modo questo sapere rimetta in questione la derazzializzazione rivoluzionaria della nazione o, più precisamente, del “nome francese”, e fabbrichi una nuova formazione discorsiva, per cui è possibile ipotizzare che operi, in modo singolare, oggi. Comincia quindi un’altra storia, un’altra codificazione, un’altra epoca. Quanto alla nostra, forse è tempo di individuare, sul piano teorico, usi della storia che non richiedano di rinunciare alla concezione sartriana della storia che, nonostante tutto, implica alcuni attori irruttivi, né alla concezione foucaultiana della storia, che permette di distinguere più facilmente quel che nel presente è appunto puro presente, nel meglio, ma anche nel peggio. Traduzione dal francese di Laura Cremonesi
Sophie Wahnich IIAC-CNRS sophiw@club-internet.fr
. Michel Foucault and the French Revolution Michel Foucault has never written on the French Revolution. This paper tries on the one hand to clarify why, and on the other hand to show that Foucault can be a relevant reference, today, for those who work on the French Revolution. Having returned on what makes cut between Sartre and Foucault from the point of view of the conception of history, the paper suggests putting to the test the French and Iranian Revolutions with regard to Foucault. Keywords: Foucault, Sartre, Lévi-Strauss, Cold history, French Revolution, Iranian revolution, Archaeology of knowledge. Walter Benjamin sostiene che l’interruzione è una delle modalità dell’azione rivoluzionaria ne Les Thèses sur l’histoire, pubblicate in francese con il titolo, Sur le concept d’histoire, in Ecrits français, Gallimard, Paris 1991 e, tradotte da M. de Gandillac, rivista da P. Rusch in Œuvres, III, Gallimard, Paris 2000. 66 S. Lazarus, Anthropologie du nom, Seuil, Paris 1996. 65
Si ringraziano sentitamente per l’eccellente lavoro svolto tutti i colleghi che hanno accettato di collaborare alla procedura di double-blind review per i primi quattro numeri di materiali foucaultiani :
Domingo Fernández Agís, Giso Amendola, Elisabetta Basso, Thomas Berns, Giuseppe Bianco, Chiara Bonfiglioli, Gianvito Brindisi, Alain Brossat, Florence Caeymaex, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Silvia Chiletti, Dino Costantini, Eleonora De Conciliis, Glenda Garelli, Gianluca Gatta, Pascale Gillot, Massimiliano Guareschi, Miriam Iacomini, Jonathan Xavier Inda, Sandro Luce, Boyan Manchev, Serena Marcenò, Ottavio Marzocca, Manuel Mauer, Diego Melegari, Sandro Mezzadra, Bruno Moroncini, Brett Neilson, Roberto Nigro, Johanna Oksala, Federico Rahola, Ariane Revel, David Risse, Anna Simone, Patrick Singy, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Federica Sossi, Tiziana Terranova, Alberto Toscano, Francesca Zampagni