Materiali foucaultiani v, 9 10

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anno V, numero 9-10 gennaio-dicembre 2016 ISSN 2239-5962


materiali foucaultiani peer reviewed

DIREZIONE & REDAZIONE

Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini , Martina Tazzioli

COMITATO SCIENTIFICO

Philippe Artières, Étienne Balibar, Jean-François Bert, Alain Brossat, Judith Butler, Edgardo Castro, Sandro Chignola, Pierre Dardot, Arnold I. Davidson, Mitchell Dean, Didier Fassin, Domingo Fernández Agis, Colin Gordon, Frédéric Gros, David Halperin, Jonathan X. Inda, Bruno Karsenti, Christian Laval, Olivier Le Cour Grandmaison, Boyan Manchev, Manuel Mauer, Achille Mbembe, Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Peter Nyers, Johanna Oksala, Aihwa Ong, Michael A. Peters, Mathieu Potte-Bonneville, Jacques Rancière, Judith Revel, Michel Senellart, Jon Solomon, Vincenzo Sorrentino, Ann Laura Stoler, William Walters, Robert J.C. Young

Si ringrazia il Comitato di lettura per l’eccellente lavoro svolto.

© 2016 mf/materiali foucaultiani www.materialifoucaultiani.org e-mail: redazione@materialifoucaultiani.org

ISSN 2239-5962 Grafica e impaginazione | Daniele Lorenzini Immagine in copertina | Clara Mogno


materiali foucaultiani ANNO V, NUMERO 9-10

GENNAIO-DICEMBRE 2016

SOMMARIO 3 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Soggettivazione e assoggettamento: tra le maglie del soggetto

Saggi 9 Maria Muhle Biopolitical Life and Its Milieu. Between Self-Preservation and Self-Transgression 27 Domingo Fernández Agis La normalisation médicale dans Surveiller et punir 41 Mathieu Corteel Le nominalisme de la médecine contemporaine. Éléments d’archéologie du big data en médecine 69 Gianvito Brindisi Foucault e il governo del giudiziario 85

Valentina Moro Verità e discorso: il “politico” nel linguaggio tragico

107 Giulia Guadagni Regimi di verità in Michel Foucault 127 Manlio Iofrida “Annali franco-tedeschi”: i testi di Foucault sull’Illuminismo alla luce del confronto fra Francia e Germania


Soggettivazione e assoggettamento: tra le maglie del soggetto di Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Soggettività e soggettivazione, insieme ad assoggettamento, sono nozio-

ni che hanno avuto un’ampia diffusione non solo in filosofia, ma anche nel campo delle scienze sociali, degli studi di genere e degli studi postcoloniali. Il nome di Michel Foucault è divenuto punto di riferimento principale all’interno di questa costellazione di usi dei concetti in questione, in particolare nella letteratura anglosassone. La coppia assoggettamento/ soggettivazione e, in particolare, il fatto di concepire queste due nozioni come insieme di meccanismi tra loro interconnessi, e quindi l’impossibilità di pensare l’uno senza l’altra, ha permesso di formulare una critica radicale della filosofia del soggetto cartesiana. Il pensiero di Foucault ha indubbiamente giocato un ruolo fondamentale in differenti campi del sapere, in particolare la sua tesi secondo la quale una riflessione sul soggetto non può essere separata da un’analisi delle relazioni di potere e delle condizioni materiali attraverso cui si viene prodotti come soggetti, così come delle pratiche grazie alle quali gli individui si sottraggono a forme di assoggettamento e di controllo disciplinare e/o biopolitico. Questa ambivalenza delle pratiche di soggettivazione, come insieme dei meccanismi di oggettivazione e assoggettamento attraverso cui gli individui sono prodotti come soggetti, ma anche delle pratiche trasformative che potenzialmente tali individui possono sempre mettere in atto su loro stessi, è uno dei punti centrali che ci interessa sviluppare. Ci sembra però importante sottolineare, prima di tutto, che quello di Foucault non è l’unico nome da associare alla diffusione interdisciplinare dell’uso di queste nozioni e della riflessione teorico-politica alla quale esso apre. Infatti, è piuttosto attraverso una polifonia di testi e autori, in particolare all’interno della letteratura femminista, che il tema della soggettivazione è diventato oggetto di importanti riflessioni nell’ambito dell’antropologia, della filosofia e della teoria politica anglosassoni, così come di usi altrettanto diffusi negli studi sulle migrazioni e sulla cittadinanza. L’antropologia medica, l’antropologia dello Stato e quella degli studi di genere hanno sicuramente avuto un’influenza di primo piano nell’elaborazione e nella “messa al lavoro” della nozione di soggettività in ambito non prettamente filosofico. In questa vasta letteratura spicca in particolar modo il volume collettaneo Subjectivity and Violence, nel quale la soggettività viene definita come «esperienza interiore della persona che include le sue posizioni nel campo del potere relazionale», esperienza che ci si propone di osservare materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 3-7.


4 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli per come «viene prodotta attraverso l’esperienza della violenza e il modo in cui i flussi globali che coinvolgono immagini, capitale e persone si articolano con logiche locali relative alla formazione dell’identità»1. In altri termini, lo studio dei processi di formazione e trasformazione della soggettività diventa, in questo contesto disciplinare, una lente per cogliere il funzionamento e i cambiamenti dei fenomeni e delle strutture sociali. Tale polifonia di voci ed eterogeneità di approcci disciplinari hanno garantito una pluralità costitutiva del significato e dell’uso del campo semantico che ruota intorno alle nozioni di soggettività, assoggettamento e soggettivazione. È questa pluralità che, a nostro avviso, risulta essenziale mantenere viva oggi, contro ogni tentazione di riduzionismo a un’unica fonte o a un’unicità dei significati e degli usi possibili. D’altro canto, la moltiplicazione degli usi di nozioni come soggettività e soggettivazione ha fatto sì che, talvolta, queste vengano impiegate senza che si operi un’effettiva distinzione rispetto ad altre categorie della filosofia politica, come quelle di “agency” o di “soggetto”. Tuttavia, il lavoro di riflessione e problematizzazione che, in quanto materiali foucaultiani, siamo interessati a intraprendere sulle nozioni soggettività e soggettivazione, e sulle implicazioni teorico-politiche a esse correlate, non è in alcun modo di stampo normativo: non si tratta di tracciare confini o di definire usi “legittimi” e “illegittimi” di queste nozioni, e in particolare della coppia concettuale assoggettamento/soggettivazione. Al contrario, partendo da un’eterogeneità irriducibile di significati e usi, così come delle genealogie attraverso le quali – in diversi campi del sapere – il tema è emerso, ci proponiamo di aprire un cantiere di ricerca nel quale il lavoro di Foucault si situa come punto di riferimento e come fulcro di interazioni molteplici al tempo stesso con altre prospettive disciplinari, con altre fonti e autori, con altri “sguardi” filosofico-politici. Le nozioni di soggettività e soggettivazione vengono spesso impiegate in un senso esclusivamente positivo, annullando così in parte la dimensione dei processi di assoggettamento, secondo un orientamento teorico che privilegia la capacità di azione del soggetto e che rimanda a una riproposizione di teorie filosofiche caratterizzate da un individualismo metodologico di fondo. L’insistenza da parte di Foucault sull’impossibilità di 1

V. Das, A. Kleinman, M. Remphele e P. Reynolds (a cura di), Violence and Subjectivity, University of California Press, Berkeley 2000, p. 1.


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pensare i processi di soggettivazione senza operare al contempo un’analisi dettagliata dei meccanismi di assoggettamento rende tuttavia tali approcci radicalmente inadatti a cogliere la complessità di ciò che potremmo definire le maglie del soggetto. È infatti importante sottolineare come Foucault inscriva la propria analisi dei processi di soggettivazione all’interno di una ridefinizione parziale del proprio lavoro sulle relazioni di potere. In particolare, ne Il soggetto e il potere, egli introduce una nuova griglia concettuale attraverso la quale pensare le relazioni di potere, una griglia centrata essenzialmente sue due elementi: governo e condotta. Forse la natura equivoca del termine condotta è uno dei migliori aiuti per arrivare a cogliere la specificità delle relazioni di potere. “Condurre” significa al contempo “guidare” gli altri (a seconda dei meccanismi di coercizione più o meno rigidi), ed un modo di comportarsi all’interno di un campo più o meno aperto di possibilità. L’esercizio del potere consiste nel guidare la possibilità di condotta, e nel regolare le possibili conseguenze. Fondamentalmente, il potere non è tanto un affrontamento fra due avversari o l’obbligo di qualcuno nei confronti di qualcun altro, quanto una questione di governo2.

La novità di questo approccio alle relazioni di potere consiste nel fatto che i concetti di governo e di condotta consentono di pensare l’articolazione di due movimenti: l’azione del potere sugli individui al fine di modellare le loro soggettività (la dimensione della condotta e del governo degli altri) e l’azione degli individui su loro stessi (la dimensione della condotta e del governo di sé). In tal modo, la costituzione della soggettività è concepita come ciò che emerge non solo dall’azione del potere, nel suo tentativo di superare e neutralizzare le resistenze, ma anche dall’interazione strategica tra tecniche di governo e tecniche di sé. Per questo, in ottica foucaultiana, oltre e insieme a una genealogia del soggetto, si tratta di intraprendere una genealogia delle pratiche e dei processi di soggettivazione che si articoli a una genealogia dei modi di assoggettamento. Inoltre, più che domandarsi attraverso quali dinamiche di potere gli individui vengano prodotti come soggetti, uno sguardo foucaultiano sulla coppia assoggettamento/sogget2

M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, La casa Usher, Firenze 2010, pp. 248-249.


6 Cremonesi, Irrera, Lorenzini, Tazzioli tivazione suggerisce di interrogarsi sulle forme e le modalità particolari secondo le quali, in un contesto storico-politico determinato, gli individui diventano soggetti in un modo specifico, e che a sua volta può essere oggetto di ulteriori trasformazioni. Nel 1980, Foucault introduce tale questione parlando di una serie di tecniche di sé che gli individui possono praticare al fine di modellare la loro soggettività. Tuttavia, secondo Foucault, le pratiche di soggettivazione devono essere messe in correlazione con la nostra forma attuale di soggettività – immersa in processi di governamentalizzazione. In altre parole, se è possibile praticare una serie di tecniche di sé al fine di trasformare il nostro essere, questo lavoro deve iniziare dal modo in cui la nostra soggettività si è costituita storicamente. Come Judith Revel ha efficacemente sottolineato, la forma della nostra soggettività costituisce «l’esito provvisorio di modi oggettivizzanti di soggettivazione così come di modi autonomi di soggettivazione, e possiede una struttura a chiasmo, in cui le due dimensioni della soggettivazione e dell’assoggettamento non possono essere completamente separate»3. Questo non significa affatto che un lavoro di auto-trasformazione sia impossibile o inutile. Al contrario, secondo Foucault, il nostro compito eticopolitico consiste precisamente nel migliorare le nostre capacità di auto-trasformazione, anche in connessione con un lavoro radicale sulle (e contro le) forme contemporanee dell’assoggettamento. In questo senso, il lavoro della soggettivazione è principalmente un lavoro di désassujettissement4. Proiettando queste riflessioni oltre le analisi di Foucault, gli interrogativi che ci interessa sollevare all’interno di un cantiere di ricerca aperto riguardano le possibili pratiche collettive di disassoggettamento e di soggettivazione messe in atto – o ancora da inventare – a fronte di nuove forme di assoggettamento e di controllo. Come ripensare la nozione stessa di disassoggettamento alla luce dell’approccio genealogico foucaultiano alla coppia concettuale assoggettamento/soggettivazione? E cosa significa, al di là di ogni elaborazione teorico-concettuale, inventare pratiche ed espeJ. Revel, Between Politics and Ethics. The Question of Subjectivation, in L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli (a cura di), Foucault and the Making of Subjects, Rowman & Littlefield, London 2016, p. 177. 4 M. Foucault, Qu’est-ce que la critique?, in Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, Vrin, Paris 2015, p. 39. 3


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rienze collettive di disassoggettamento e di soggettivazione? In che modo la dimensione collettiva si trova a essere così ripensata? E in che termini sarebbe possibile ripensare la nozione stessa di “soggettività politica” alla luce della coppia concettuale assoggettamento/soggettivazione e all’interno di pratiche collettive in fieri? Bologna, Lamezia Terme, Messina, Viareggio agosto 2017 Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli


Saggi


Biopolitical Life and Its Milieu

Between Self-Preservation and Self-Transgression Maria Muhle

Biopolitical Life

In 1976, in the first volume of his History of Sexuality, Michel Foucault introduces what would become a “polemical” concept in his work as well as for his interpreters: the “bio-politics of the population”. This notion has ever since then polarized the readings of Foucault’s theory of power and maybe played a much more important role then he ever intended. The most prominent and popular (mis)reading of biopolitics may very well be its “ethical” interpretation in terms of bio-ethics. Biopolitics would thus be the “political” administration of the changes and new possibilities of the life sciences, predominantly of biology and genetics1. This reading recovers another line of interpretation that, even though it considers biopower not in terms of governance but in philosophico-political terms, gives way to a twofold misreading: whether the analysis of bio-power is structurally linked to an analysis of the regime of politics as a permanent state of exception, or it is subtended with a “positive” politics of life that thwarts the “negative” power over life. Roberto Esposito calls this polarity of the notion of biopolitics an “insurmountable oscillation” between a positive and productive reading of the relation between politics and life and another negative and tragic reading implied by Foucault’s writings themselves. While the former interpretation awards life with an intrinsic force that resists bio-power, such as Antonio Negri and Michael Hardt propose, the latter, proposed by Giorgio Agamben, radicalizes the thanato-political aspect in the notion of “bare life”2. For this reading of the notion of “biopolitics”, see C. Geyer (ed.), Biopolitik. Die Positionen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001; for the critique of a liberal eugenics, see J. Habermas, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005. 2 See R. Esposito, Vom Unpolitischen zur Biopolitik, in T. Bedorf and K. Röttgers (eds.), Das Politische und die Politik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2010. 1

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 9-26.


10 Maria Muhle What seems to emerge in this very short enumeration of interpretative lines of the notion of biopolitics is that they are induced by an interpretation or attempt to define the notion of life rather than the terms “politics” or “power”: they give a “definition” of life (as biological life, as bare life or as vital power) that Foucault himself, and for coherent reasons, has always omitted to provide. This omission seems to have encouraged the ethical, “creative” or “tragic” readings of Foucault’s biopolitics. In order to propose a genealogical study of what might be understood as a “biopolitical life” or life under a biopolitical condition, it is thus important to take a closer look at a notion of life that might have inspired Foucault’s analysis. This notion of life emerges in Georges Canguilhem’s writings on philosophy and medicine, and it does not correspond to any of the three alternatives mentioned above. Foucault gives a somewhat “canonic” definition of biopolitics in The Will to Know, where he introduces “bio-politics” (with a hyphen that will be abandoned in the following years) as one side or pole of a twofold power over life that he distinguishes from the right of death incarnated by the sovereign power. The two principal forms in which the power over life has developed are not antithetical, but rather constitute the two poles of the changes that power underwent around the 17th century and whose main role was “to ensure, sustain and multiply life”3. The first pole is constituted by the disciplines, “an anatomo-politics of the human body” that is centered on “the body as a machine”4 and to which Foucault dedicated one of his main works, Discipline and Punish (1975), as well as his lecture series at the Collège de France Abnormal, in 1974-19755. The second pole of the power over life – biopolitics – develops around the middle of the 18th century: it is a form of power centered on the “species body, the body imbued with the mechanics of life and serving as the basis of the biological processes”. This species body is governed (or “supervised”) through an entire series of interventions and regulatory controls that Foucault calls “a bio-politics M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 1. An Introduction, Pantheon Books, New York 1978, p. 138. 4 Ibidem, p. 139. 5 Even though the main topic of the lectures on Abnormal is the functioning of the disciplinary power under its psychiatric institutionalization, the passage from the disciplinary form of power to the biopolitical power is more explicit here then in Discipline and Punish. It is thus possible to affirm that Foucault’s genealogy of biopolitics starts with these lectures. 3


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of the population”. And he concludes this introduction of the notion of biopolitics as follows: “The setting up, in the course of the classical age, of this great bipolar technology – anatomic and biological, individualizing and specifying, directed toward the performances of the body, with attention to the process of life – characterized a power whose highest function was perhaps no longer to kill, but to invest life through and through”6. To resume, Foucault defines biopolitics, on the one hand, through its reference to life as its object – as opposed to the sovereign power, whose object is the juridical subject, and to the disciplinary power, whose techniques are directed towards the individual. On the other hand, the specificity of the biopolitical techniques lies in the quality of the relation to life that is a positive and not a repressive one, and it is intrinsic and not exterior to its object: biopolitical techniques increase, protect and regulate life – in short, they “make live”. And they do so by infiltrating the processes of life (instead of suppressing or submitting them) in order to govern or rule them from the inside. It is important to keep this twofold definition in mind, since it permits to counteract the reduction of biopolitics to a simple politics whose object is life, which has given way to the generalization of the notion in its (bio-)ethical version. While in the first occurrence in The Will to Know, Foucault’s main focus seems to lie in the fact that post-sovereign power is defined through a new object, the life of the population, in his lectures of the following years, namely Security, Territory, Population (1977-1978) and The Birth of Biopolitics (1978-1979), Foucault accentuates the specific quality of this relationship, its positivity. He therefore reformulates and amplifies the notion of biopower referring to it under the notion of “governmentality”: the techniques of governmentality are not only defined by their relation to a specific object – the life of the population – but also by their specific quality, that is, their positivity. The introduction of this new “name” of power might be a reaction to a slightly too “narrow” notion of biopolitics that focuses mostly on the relation to its “new” object (life) and less on the positivity of this relation. In any case, it permits to refocus the analysis on the productivity of power, which, as I would like to show, relies on the imitation of the vital dynamics of life. It is thus in the analysis of governmentality – and therefore in Foucault’s reading of liberalism and the foreshadowing of a theory of neoliberalism – that the implications of biopolitics, as a “positive” and “productive” power over life, are unfolded. 6

M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 1, p. 139.


12 Maria Muhle Archeology of Life To concretize the meaning of a “positive” relationship between power and life, it is necessary to focus on the notion of life that is implicated in the term of “biopolitics” such as Foucault makes use of it. Foucault operates with a notion of life that he does not determine: life is a correlate of the techniques and strategies of power and knowledge. It lacks any ontological status and is itself “produced” by the power-knowledge constellation, or, to use the famous formula in The Order of Things: life emerges in the passage between Natural History and Biology, that is, in the epistemic break that took place around 1800. And it emerges at that moment because of an archeological dislocation that introduces the notion of “organization” as fundamental to the study of the living and replaces the “tableau” of Natural History by an opposition that becomes constitutive: the opposition between the organic (the living) and the inorganic. This archeological dislocation permits to think of life as fundamentally dynamic: life is the polarity or tension between the two poles of the organic and the inorganic. It is here, Foucault explains, that a definition of life through death, that is, as “resistance to death” such as the French anatomist and physiologist Xavier Bichat proposed, becomes thinkable7: life – one could say paraphrasing and transposing Canguilhem’s definition of the normal – is a dynamic and thus a polemical notion8, since it is formed in the tension Bichat does not understand life, as in the traditional vitalist definition, as the actualization of a prefigured principle of life, nor, as in the mechanist model, as a series of actions and reactions subjected to a determined and therefore calculable causality. In his Recherches physiologiques sur la vie et la mort, commenting on the traditional vitalist notion of life, he writes: “La plupart des médecins qui ont écrit sur les propriétés vitales ont commencé par en rechercher le principe […]: l’âme de Stahl, l’archée de van Helmont, le principe vital de Barthez, la force vitale de quelques-uns, etc., tour à tour considérés comme centre unique de tous les actes qui portent le caractère de la vitalité, ont été tour à tour la base commune où se sont appuyées, en dernier résultat, toutes les explications physiologiques. Chacune de ces bases s’est successivement écroulée” (X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort [1800], Flammarion, Paris 1994, pp. 119f.). Following Foucault, the classical debate between vitalism and mechanism is only the surface phenomenon of the archeological dislocation constituted by the opposition between the organic and the inorganic. 8 In On the Normal and the Pathological, Canguilhem states that “the normal is not a static or peaceful, but a dynamic and polemical concept” (G. Canguilhem, On the Normal and the Pathological, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht-Boston-London 1978, 7


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between these different poles; it is a polar movement between tendencies of self-preservation and tendencies of self-transgression. Nevertheless, it is crucial to note that Foucault, unlike Bichat or Canguilhem, does not aim at analyzing the vital dynamics in itself, that is, at defining life as vital power; he rather analyzes the epistemic fact that life becomes thinkable as dynamic, vital or living. It is thus this understanding of “Life” (along with “Labor” and “Language”) as a “quasi-transcendental”9, that is, the archeology of life, that expatiates the indetermination of life in Foucault’s thought. This indetermination is not a lack or an omission in Foucault’s thought such as Agamben has claimed (adding that his interpretation of life in terms of bare life has come to fill this lack and complete the Foucauldian theory of power)10. On the contrary, this indetermination is a methodological point and ought to be taken seriously inasmuch as the sharpness of Foucault’s reflections on biopolitics lies in this very indetermination understood as “normalizability” of life by power/knowledge strategies. It is neither an oversight nor an inexactness, but an intentional indetermination that is opposed, on the one hand, to an interpretation of life as “force” that would situate it beyond the power mechanisms and, on the other, to an ontological reformulation of that same indetermination that considers life in its radical bareness. Polarity of Life Thus, the articulation of power that governs the living supposes a knowledge of the living. In the epistemic conjuncture in which biopolitics emerges, this knowledge is articulated through a notion of life such as it is introduced by medicine and biology, which are both related to a specific vitalist thought of the beginning of the 19th century: life is defined p. 146). Foucault picks up on this formulation in his lectures on Abnormal: “The norm is not simply and not even a principle of intelligibility; it is an element on the basis of which a certain exercise of power is founded and legitimized. Canguilhem calls it a polemical concept. Perhaps we could say it is a political concept” (M. Foucault, Abnormal. Lectures at the Collège de France, 1974-1975, Picador, New York 2003, p. 50). 9 M. Foucault, The Order of Things. An Archeology of Human Sciences, Vintage Books, New York. 1994, p. 249. 10 G. Agamben, Homo Sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press, Stanford 1998.


14 Maria Muhle through its fundamental variability, through its possibility to deviation and error. It is precisely in this deviation or erring that life appears as fundamentally living, as bearing a vital dynamic. What is at play here is thus a dynamic notion of life that nevertheless is not subsumable under a mere teleology of the organic as Kant suggests in the modus of the “as if ”, nor under a specific vitalist conception of the dynamics of life as an unitary principle; what is at stake is the understanding of life as fundamentally dynamic and erratic, as a dynamic that is itself polarized between different dynamics of the living – the self-preservation of the organic and the vital self-transgression and creation that go beyond the mere preservation of an organic equilibrium. Hence, the movement of self-transgression is not to be disconnected form the self-preservative movement: life, as it emerges around 1800, is neither pure transgression nor preservation, but defines itself in the tension between these two as a polarity. In his Recherches physiologiques sur la vie et la mort, published in 1800, Bichat formulates a fundamental difference between the sciences of the living and the natural sciences: while the laws of nature are “unchangeable, invariable and constantly the same in any moment”11, the organic or vital laws are variable, irregular and unstable, since their object – life – is constantly submitted to variations, errors, deviations and anomalies. In his General Anatomy, Bichat differentiates in this way two things in the phenomena of life: firstly, the state of health; secondly, the state of illness; physiology is in charge of the phenomena of the first state, pathology has as its object the second state. The history of the phenomena in which the vital forces have their natural type conducts to the history of the phenomena in which these forces are altered12.

Canguilhem reformulates this opposition in On the Normal and the Pathological as a “fundamental epistemic fact”: if there can be (and there is) a biological pathology, then a physical, chemical or mechanical pathology cannot exist, precisely because the physical forces cannot be altered. While the physical phenomena are indifferent to their surrounding, there cannot be, as Canguilhem puts it, any “biological indifference”:

11 12

X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, p. 121. X. Bichat, Anatomie générale, in Recherches physiologiques sur la vie et la mort, p. 232.


Biopolitical Life and Its Milieu 15 We, on the other hand, think that the fact that a living man reacts to a lesion, infection, functional anarchy by means of a disease, expresses the fundamental fact that life is not indifferent to the conditions in which it is possible, that life is a polarity and thereby even an unconscious position of value; in short, life is in fact a normative activity. […] Normative, in the fullest sense of the word, is that which establishes norms. And it is in this sense that we plan to talk about biological normativity13.

For Canguilhem, Bichat’s major merit lies in his acknowledgment of the productivity of the irregularities, of the errability and fallibility of life, in short, of the “negative dimension” – the negative vital values such as anomaly, illness, death – for the living14: he speaks in this context of the “intelligence of anomaly” that retrieves the signs of a vital force (“pouvoir de vivre”) by turning these negative values of existence into “meaningful” elements deploying the vital dynamics of life15. Canguilhem thus adopts at once from Bichat the epistemological thesis that the knowledge of life is based on the analysis of the morbid phenomena – life is only acknowledgeable through its errors, which refer every living being to its constitutive imperfection and incompleteness –, and the determination of life as a dynamic that tends to a “natural type”, to a norm.

G. Canguilhem, On the Normal and the Pathological, p. 70. Foucault analyzes this inversion of vitalism into a “mortalism” in The Birth of the Clinic: “The irreducibility of the living to the mechanical or chemical is secondary only in relation to the fundamental link between life and death. Vitalism appears against the background of this ‘mortalism’” (M. Foucault, The Birth of the Clinic, Tavistock Publications, London 1973, p. 145). His reading of Bichat’s Recherches and his affirmation of the permanent presence of death in life led Foucault to the reformulation of the notion of illness by that of “pathological life”. In his short text on the notion of life in the thought of Foucault and Deleuze, Agamben refers to this notion of life determined by death (life as a reaction to death) as the “first” understanding of life, that will be replaced in Foucault’s reflections by life introduced by Canguilhem as the domain of error. Against Agamben, I would like to argue that there is neither a dislocation in the theory of knowledge nor a subjective turn announced by it. Instead, the fundamental relation between life and death prefigures the fallibility of life that gives way to its twofold dynamics and represents the functional model of the governmental. 15 See P. Macherey, Normes vitales et normes sociales, in Actualité de Georges Canguilhem. Le normal et le pathologique, Institut Synthélabo pour le progrès de la connaissance/Les empêcheurs de penser en rond, Paris 1998, p. 72. 13 14


16 Maria Muhle The value of life, that is, life as value, life in its inner normativity, is thus founded on its own uncertainty or precariousness (“précarité”)16. The normative dynamics of life unfold between the two poles: the preservation of the internal organic equilibrium (of the “milieu intérieur”, in Claude Bernard’s words), and the permanent challenge of this very equilibrium. Canguilhem thus differentiates two normative dimensions of life that stand in an intrinsic relationship to each other: a homeostatic, self-preservative dynamic that tends to organic normality, and a self-transgressive, genuinely normative dynamic that creates norms. While the former presupposes a holistic understanding of the organism and is thought of by means of the global activity of regulation as the biological fact par excellence, the latter transgresses this organic equilibrium and creates new vital values: the achieved norms, or the normal situation, are constantly put at risk, because otherwise the living would immobilize itself in the artificial equilibrium of organ functions. Vital normativity, for Canguilhem, is not assimilation or adaption (here lies the fundamental error in the classical biological interpretation of the relation between the living and its milieu), but rather permanent challenge of the given: a living being behaves normatively if it does not adapt to a given milieu or norm – in that case, it would be pathological – and creates its own norms and its own milieu. Life is a twofold normative activity that, on the one hand, refers negatively or reactively to the threats of the internal and external milieu and its negative values, and, on the other, positively or actively produces its own milieu and its vital norms. Only in its deviance form the norm life can be normative, that is, truly vital. Normativity consists in “breaking norms and establishing new ones” (“faire craquer les normes”)17. An internal equilibrium is only possible on the background of such a creative force: normality is founded on normativity. The challenge of Canguilhem’s notion of life lies in the fact that the organic normality is permanently exposed to the normative deviances, that is, that life does not stay in a state of equilibrium (such as, for example, the one laboratory produces artificially), but puts this state of equilibrium permanently on the testbed in order to transgress it. Otherwise, that is, if life were “only” organic, it would be pathological; instead, life is a polarity See G. Canguilhem, Vie, in Encyclopædia Universalis, vol. 16, Encyclopœdia Universalis Éditeur, Paris 2002, p. 532. 17 G. Canguilhem, On the Normal and the Pathological, p. 95. 16


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and therefore organic and creative at once – it is living in the emphatic sense of the word18. It is precisely this notion of life in its active-reactive polarity that is illuminating in order to understand the specific modus operandi of the postsovereign techniques of power “as life” which enfold both the biopolitical and the governmental techniques. Biopolitics as Life To understand what we mean by “biopolitics as life”, we need to turn back to the relation that power entertains with life which we presented as a mimetic one: in order to govern the living population, the forms of biopower imitate or mimetize the very dynamics of life, that is, its polarity between life and death, or between auto-transgression and auto-conservation, the normal (one should read normative) and the pathological. Life then has to be understood in a double sense: as the object of post-sovereign techniques of power and, in its dynamical dimension, as their operational model. And imitation has to be understood following the Aristotelian understanding of mimesis not as a simple copy (art as a copy of nature) but as the reproduction of the sense of a specific phenomenon or production. Hence, the biopolitical-governmental techniques adopt the internal logic of life as the model of their own dynamics and establish a relation of internal exteriority with the vital phenomena. The norms of biopower operate as if they were vital, that is, they adopt the vital functioning of the processes of life as their model and exteriorize them in the social norms. For Foucault, biopolitics is a modality of power which, in a precise historical moment, over-determines the other modalities of power. Therefore, he proposes a genealogy of power that does not aspire at unveiling transhistorical or structural elements or at discovering the original and foundational scene of power in general, but at analyzing concrete constellations of power-knowledge as conditions of possibility of the constiCanguilhem attributes such a “propulsive value” to the physiological constants that allow the living to behave normatively in the exposed meaning and opposes them to the pathological constants: “The pathological state, on the other hand, expresses the reduction of the norms of life tolerated by the living being, the precariousness of the normal established by disease. Pathological constants have a repulsive and strictly conservative value” (G. Canguilhem, On the Normal and the Pathological, p. 137). 18


18 Maria Muhle tution and imposition of specific forms of governmentality. Instead of speaking of power or politics of life, or of power over life, Foucault will finally speak of the “government of the living” in his lectures of the late 1970s, in order to highlight the insoluble relationship between power and life that however does not lead to the dissolution of life or of power, but to their necessary imbrication. In this sense, even the formulation “power over life” that Foucault introduces in The Will to Know may appear ambiguous since it supposes an exteriority between the processes of life and power. It is not until the lectures on governmentality that this ambiguity will be completely resolved in an “amplified” notion of biopolitics, that is, in a form of power which is always internally linked to life both as its object and as its functional model: a government of life. When taking seriously the central hypothesis of the present article – that a reformulated and amplified notion of biopolitics is one whose techniques refer to life in two ways, taking it not only as its object, but also as its functional model19 –, we can state that the biopolitical norms not only apply to the phenomena of life but, moreover, that they mimetize its dynamics, that is, its normativity such as Canguilhem presents it. This hypothesis is confirmed by Foucault’s reformulation of the biopolitical techniques under the notion of “security techniques” in his lectures on governmentality that follow the same scheme, that of biological normativity. With the aim of better regulating, controlling and governing life, the security techniques adopt the immanent dynamic of life that they exteriorize by transposing it to the social norms. This mechanism can be observed in the examples that Foucault provides of the operating mode of security norms that “anticipate” the aleatory processes of live in order to prevent major deregulations. For instance, the empirical techniques of the inoculation campaigns against the smallpox (“la petite vérole”) are based on two strategies that are fundamental for the biopolitical modus operandi: firstly, they start from the phenomenon in its very reality (through quantitative methods/statistics) and, secondly, they incorporate or imitate the dynamic of their object of reference. The first strategy the techniques of variolization borrow from the biopolitical operations is their relation to the empiric reality of the phenomenon in question, in this case the epidemic, and more specifically For an extended discussion of this hypothesis, see M. Muhle, Eine Geneaolgie der Biopolitik. Zum Begriff des Lebens bei Foucault und Canguilhem, Fink, München 2013. 19


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smallpox. The techniques of variolization are developed in a relation of double dependency to the statistic investigations that, firstly, indicate which are the groups of population at higher risk and, secondly, retain the success of the inoculation campaign by reflecting them in the mortality rate. Foucault calls this operation a process of normalization and distinguishes it from the disciplinary normation: normation presupposes a purely prescriptive character of the norm that is at the basis of the definition of the normal and the a(b)normal. The phenomena are submitted to the norm, they are normed; normalization is in contrast a dynamic and variable process and its norm is “an interplay of differential normalities”20. The process of normalization covers life in its very reality, that is, in its vital multiplicity as self-regulating and self-creative entity whose immanent dynamic results from the permanent deviations from the so-called “normal” situations. In this sense, Foucault writes: “The normal comes first and the norm is deduced from it, or the norm is fixed and plays its operational role on the basis of this study of normalities”. Or, as he adds in a note, “the operation of normalization consists in establishing an interplay between these different distributions of normality”21. The second strategy consists in the mimetization of the vital dynamics by the techniques of variolization. Since the efficiency of the security techniques is based on the very reality of the phenomenon, it is fundamental to take into account their dynamics. By doing so, the principle of the fight against the smallpox through variolization is to assure health of the population by producing the illness, and therefore by unchaining in the body its auto-immunization: variolization, explains Foucault, did not try to prevent smallpox so much as to provoke it in inoculated individuals, but under conditions such that nullification of the disease could take place at the same time as this vaccination, which thus did not result in a total and complete disease. With the support of this kind of first small, artificially inoculated disease, one could prevent other possible attacks of smallpox. We have here a typical mechanism of security with the same morphology as that seen in the case of scarcity22. M. Foucault, Security, Territory, Population. Lectures at the Collège de France, 1977-1978, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007, p. 63. 21 Ibidem. 22 Ibidem, p. 59. 20


20 Maria Muhle With respect to the treatment of scarcity, Foucault explains even more clearly that whereas the juridical-disciplinary regulations that reigned until the middle of the eighteenth century tried to prevent the phenomenon of scarcity, from the middle of the eighteenth century, with the physiocrats as well as many other economists, there was the attempt to find a point of support in the processes of scarcity themselves, in the kind of quantitative fluctuation that sometimes produced abundance and sometimes scarcity: finding support in the reality of the phenomenon, and instead of trying to prevent it, making other elements of reality function in relation to it in such a way that the phenomenon is cancelled out, as it were23.

The techniques of the security dispositive thus correspond to an operational model that is not based on negation, but rather on grasping the dynamics of the vital phenomenon in its very reality which aims at reestablishing its internal equilibrium when it is threatened. The Population and Its Milieu The generalization of this operational mode of power goes along with the emergence of what Foucault calls “an absolutely new political personage”24, the population, considered “as a set of processes to be managed at the level and on the basis of what is natural in these processes”25. This population is not, then, a collection of juridical subjects in an individual or collective relationship with a sovereign will. It is a set of elements in which we can note constants and regularities even in accidents, in which we can identify the universal of desire regularly producing the benefit of all, and with regard to which we can identify a number of modifiable variables on which it depends. Taking the effects specific to population into consideration, making them pertinent if you like, is, I think, a very important phenomenon: the entry of a “nature” into the field of techniques of power, of a nature that is not something on which, above which, or against which the sovereign must impose just laws26. Ibidem. Ibidem, p. 67. 25 Ibidem, p. 70. 26 Ibidem, p. 74. 23 24


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The nature, which enters the realm of power relations through the population, does not address the notion of sovereignty but what will be a new technique of power, the “government” that, as Foucault suggests, “is basically much more then sovereignty, much more then reigning or ruling”27. This new constellation of power, which refers to a “natural” object whose dynamics Foucault spelled out in his lectures at the Collège de France “Society Must Be Defended”, marks the central point of intersection between the vital and the social. This intersection is fundamental for the understanding of the amplified notion of biopolitics that imitates the vital dynamics of life exteriorizing them into social norms of security. Here, Foucault claims that population is an ensemble of natural and social elements, both exposed to and produced by power relations. In this sense, the task of biopolitics is to introduce mechanisms of regulation into the natural-social phenomenon that is global population: [R]egulatory mechanisms must be established to establish an equilibrium, maintain an average, establish a sort of homeostasis, and compensate for variations within this general population and its aleatory field. In a word, security mechanisms have to be installed around the random element inherent in a population of living beings so as to optimize the state of life. […] [I]t is, in a word, a matter of taking control of life and the biological processes of man as species and of assuring that they are not disciplined, but regularized28.

The modus operandi of the “new”, post-sovereign techniques of power is to frame the hazardous play, the vital dynamics, the aleatory of life in the general population. They do so without repression or negation of the phenomena themselves, by allowing for an apparent freedom, which nevertheless needs to remain within specific limits that, even though they can be very wide, are not to be exceeded. In the case of crisis, the postsovereign techniques of power pathologize life’s vital normativity in the way Canguilhem defined it, that is, by reducing it to normality29. Ibidem, p. 76. M. Foucault, “Society Must Be Defended”. Lectures at the Collège de France, 1975-1976, Picador, New York 2003, pp. 246-247. 29 The absence of repression or negation, nevertheless, does not suppose, as Foucault clearly points out on different occasions, a “better”, “humanist” or libertarian form of power; what changes profoundly in this positivation is that the power over death (that has never reached a bigger extension then in the 20th century, as Foucault recalls) exists 27 28


22 Maria Muhle Thus, when the surplus of vital force creates a disorder in the forms of power, the vitality of life is to be dissolved in the internal (and quasinatural) equilibrium (of the population), reducing the vital to the normal, which therein becomes governable. Consequently, biopolitics and the forms of governmentality share a double relationship to the phenomena of life that they govern and whose dynamics they imitate and transpose to the norms of power that operate as if they were vital. The vital force is thus considered as an organic element of biopolitics that30, by imitating the vital dynamics, imitates at once the polarized interplay between creation and conservation of the vital processes. This specific status of the population as natural-artificial hybrid is spelled out by Foucault through another central notion, the “milieu” (that he also adopts from Canguilhem’s seminal analysis in his text The Living and its Milieu) in which the population becomes perfectly governable. The milieu is part of the biopolitical or governmental dispositive since it permits a non-direct – a disposing – access to the living. It is by intervening in the milieu that population is regulated. Or, as Foucault puts it: “What one tries to reach through this milieu, is precisely the conjunction of a series of events produced by these individuals, populations and groups, and quasi natural events which occur around them”31. The living is not exposed directly to power mechanisms but the latter get to the living through the milieu that is manipulated in order to secure the development of the population: post-sovereign power strategies create a milieu in which the population can unfold its living dynamics, which means that the means of self-conservation are held at the disposal of the living so that life can regulate itself. According to Foucault, this milieu is paradigmatically represented by the “town”, where the “naturalness” of human species emerges within an artificial milieu. This connection between the natural and living and the political and artificial is fundamental to biopolitics and presents Foucault’s own “re-formulation” or amplification of the mechanisms of postas the complementary element (the “counterpart”) of the biopolitical strategies that are not directed to the juridical subject, nor to the disciplinary individual, but to the biological population. The modern thanatopolitics are executed under biopolitical premises, that is, in order to assure the existence of everybody: “massacres have become vital” (M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 1, p. 137). The “war of races” is the paradigmatic example. 30 See T. Lemke, Biopolitik zur Einführung, Junius, Hamburg 2007, p. 67. 31 M. Foucault, Security, Territory, Population, p. 21.


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sovereign power techniques. It is not just a power that refers to life, but a power that creates a milieu where the interaction between the natural and the artificial follows the precepts of power itself: through this milieu, the town, that is at once artificial and natural, the population can be reached, becomes permeable to power techniques. Referring to Jean-Baptiste Moheau, whom he calls the first great theorist of biopolitics, and his Recherches sur la population, Foucault explains that what has fundamentally changed in the relation to life and the naturalness of human species is its quality: “[W]hat [before] then appeared above all in the form of need, insufficiency, or weakness, illness, now appears as the intersection between a multiplicity of living individuals working and coexisting with each other in a set of material elements that act on them and on which they act in turn”32. Life is no longer perceived as fundamentally negative, insufficient and needy, but as a positive dynamics that power mechanisms can adopt in order to govern the living more efficiently. Thus, it is not life itself that becomes the object of biopower, but the biological link of the living (the population) to the physical materiality within it exists, that is, its hybrid constitution oscillating between the biological, natural, living dimension and the permeability to an artificial, social and material manipulation within the milieu, a manipulation through power that appears as if it were natural. Between Self-Preservation and Self-Transgression To conclude, it is thus possible to affirm, from an epistemic perspective, that the techniques of biopolitics participate in the very movement of re-definition of the notion of life: they do not “confront” themselves to a life that exists beyond its historical constellations of power-knowledge, but they “invade” a life that is saturated with these very techniques and constellations, a correlative life, which consequently lacks any ontological status, a life that is undetermined and open to determinations and normalizations from the outside. A hybrid, natural-artificial life. Therefore, it is not only the condition of possibility of a biology that appear around 1800, but also the condition of possibility of a biopolitics. 32

Ibidem, p. 22.


24 Maria Muhle However, from a political perspective, it is important to take a careful look at the twofold processes of life and their relation to biopolitics, since the “amplified” notion of biopolitics – governementality – stands out from the sovereign or disciplinary techniques of power inasmuch as the security dispositive encloses both the self-preserving aspect of vital processes as well as the transgressive aspect, and inscribes them incessantly in the biopolitical efforts of the constitution of a “good” population through the interaction on a milieu. One might think, after the analysis of vital normativity as a fundamental element of the post-sovereign strategies of power, that this is where a possible “resistance” to the forms of power lies: in a “form of life” that transcends its inscription into power mechanism. But it is crucial to understand that the normativity of life, even taken as the model of the modus operandi of post-sovereign power, is not exterior to these strategies of power and thus cannot constitute an “outside of power”, as some of the recent interpretations of Foucault’s notion of biopolitics suggest. Foucault himself does not treat explicitly the problem of resistance in relation to biopower beyond the unveiling of their quasi-organic entanglement. In the first volume of The History of Sexuality he presents the identification of a simple affirmation of sexuality to resistance against power as an illusion created by power itself. The so-called sexual revolution does not mean the liberation of a dominated subject but its major inscription into the sexual dispositive33: We must not think that by saying yes to sex, one says no to power; on the contrary, one tracks along the course laid out by the general deployment of sexuality. It is the agency of sex that we must break away from, if we aim – through a tactical reversal of the various mechanisms of sexuality – to counter the grips of power with the claims of bodies, pleasures and knowledges, in their multiplicity and their possibility of resistance. The rallying point of the counterattack against the deployment of sexuality ought not to be sex-desire, but bodies and pleasures34.

The short analysis that Foucault presents of the human rights, the “‘right’ to life, to one’s body, to health, to happiness, to the satisfaction of needs” (M. Foucault, The History of Sexuality, Volume 1, p. 145) as “incomprehensible” for the classical juridical system, is to be understood in a similar way. 34 Ibidem, p. 157. 33


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This somehow imprecise affirmation has given way to various “positive” readings of the “last” Foucault linking the apparent rupture in the theory of power (between biopolitics and governmentality) to the third “theoretical shift”35 that following Foucault became necessary in order to analyze “what is termed ‘the subject’”36. Instead of following this path that links the subjective turn to a reformulation of the theory of power (which allegedly ended in a “dilemma”) and the possibility of a space beyond power that seems not fully coherent with Foucault’s thinking, to say the least37, I would like to focus on an alternative way of approaching the entanglement of what we have been describing as the self-preservative and the self-transgressive dimensions of biopolitical life in order to make very clear that the latter is as much a technique of biopolitics as the former – and much more so under current ultra-neoliberal conditions and the reign of the “entrepreneurial self ”38. Life, as understood by Canguilhem and transposed by Foucault, is a normative concept, defined in the polarity between two tendencies, selfregulation and self-transgression. It refers to the normative tension between these two poles and it is fundamentally related to vital negative values such as anomaly, illness, death: for Canguilhem, in a vital understanding of life, there is no self-regulation without self-transgression and vice-versa. The homeostasis of the organism is produced through the deviations of the same organism, deviations that are not reducible to their organic function, but that permanently transgress the cycle of equilibrium of the organism in order to be fully vital, that is, normative. The notion of life is fundamentally determined by this polarity. Hence, the power over life refers to life insofar as it is polar, that is, it encompasses both the orThe first shift was oriented towards “the advancement of learning”, that is, the forms of discursive practices that articulated the human sciences, while the second shift analyzed what is described as power: “the manifold relations, the open strategies, and the rational techniques that articulate the exercise of powers” (M. Foucault, The Use of Pleasure. Volume 2 of The History of Sexuality, Vintage Books, New York 1985, p. 6). 36 Ibidem. 37 For this discussion, see M. Muhle, Eine Geneaolgie der Biopolitik, pp. 276-281; M. Saar, Genealogie als Kritik. Geschichte und Theorie des Subjekts mach Nietzsche und Foucault, Campus, Hamburg 2007; P. Sarasin, Foucault zur Einführung, Junius, Hamburg 2005. Saar and Sarasin read Foucault’s technologies of the self from different perspectives as the turn to the subject and therefore an “antidote” to power. 38 See U. Bröckling, Das unternehmerische Selbst. Soziologie einer Subjektivierungsform, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007. 35


26 Maria Muhle ganic and the vital dimensions of life. Therefore, the “force” of life – its capacity to create, to produce differences – is not an alternative to power (as Deleuze might argue), but rather a structural moment (an organic element) of power. The tactical production of deviation – the imperative of difference – is thus to be understood as a step further towards the inscription of life in a biopolitical-governmental paradigm. Maria Muhle Akademie der Bildenden Künste München muhle@adbk.mhn.de . Biopolitical Life and Its Milieu. Between Self-Preservation and Self-Transgression Michel Foucault defines biopolitics, on the one hand, through its reference to life as its object but, on the other hand, he argues that the specificity of the biopolitical techniques lies in the quality of the relation to life that is a positive and not a repressive one, and it is intrinsic and not exterior to its object: biopolitical techniques increase, protect and regulate life – in short, they “make live”. In order to avoid the “optimistic” misreading of Foucault’s biopower, this article proposes to concretize the meaning of this “positive” relationship between power and life through the notion of “mimesis” and by taking a closer look at the “dynamic” understanding of life, such as it has been developed by Georges Canguilhem, which unfolds in the polarity between a self-regulating (homeostatic) and a selftransgressive (creative) dynamic. The main hypothesis of this article is that, in order to govern life, the forms of biopower imitate or mimetize the very dynamic of life, that is, its polarity between life and death, or between auto-transgression and auto-conservation, the normal (one should read normative) and the pathological. The norms of biopower operate as if they were vital. Thus, the entanglement of the self-preservative and the self-transgressive dimensions of the biopolitical life permits to underline that the latter is as much a technique of biopolitics as the former – and much more so under current ultra-neoliberal conditions and the reign of the “entrepreneurial self ”. Keywords: Biopolitics, Governmentality, Life, Mimesis, Milieu, Population, Organism.


La normalisation médicale dans Surveiller et punir Domingo Fernández Agis

L’allusion à la normalisation médicale est présente dès le début de Sur-

veiller et punir, l’ouvrage dont il sera surtout question dans cet article. En effet, dans les premières pages du livre, Michel Foucault insiste sur la fonction significative qu’a jouée la médecine dans l’humanisation des peines imposées par la justice pénale. La portée théorique d’un tel travail est plus grande qu’on ne le suppose normalement : il s’inscrit à l’intérieur d’un projet d’investigation très original, qui marquera de manière extrêmement significative l’évolution intellectuelle de Foucault pendant les années 1970 et jusqu’à sa mort en 1984. Nous pouvons constater l’amplitude de ce projet en passant en revue les matériaux que Foucault a accumulés pendant le travail préparatoire du livre. De ce point de vue, les fonds conservés à la Bibliothèque nationale de France constituent une aide précieuse, car ils nous permettent de constater que, même si Foucault concentre son attention dans Surveiller et punir sur des aspects liés à la punition des délits, en parlant aussi des espaces disciplinaires comme l’école ou la caserne, son intérêt de chercheur s’est concentré sur bien d’autres sujets, afin d’encadrer adéquatement son propre parcours. En ce sens, il est très significatif que le titre de l’ouvrage provienne d’une annotation que Foucault fait à propos d’un discours prononcé par le député Monsieur de Foucault à l’Assemblée Nationale : celui-ci avait parlé de la nécessité d’accorder aux autorités religieuses et militaires des pouvoirs de châtiment sur leurs subordonnés, dans le but de maintenir l’ordre à l’intérieur de ces institutions. À la fin de ses notes de lecture sur cette session de l’Assemblée, Foucault écrit : « Débat à l’Assemblée Nationale du 12 oct. 1789, au sujet des lettres de cachet et du droit, pour les évêques, de “surveiller et punir” les ecclésiastiques en les envoyant au Séminaire »1. Le contexte historique de ce débat à l’Assemblée est très tendu : le même jour, le comte d’Artois, frère de Louis XVI, demande à l’empereur Joseph II, Archiduc d’Autriche, d’intervenir en France. Pendant ces jours, toutes 1

Bibliothèque nationale de France (BnF), Fonds Michel Foucault, boîte nº 5, 7-8.

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 27-40.


28 Domingo Fernández Agis les préoccupations des membres de l’Assemblée Nationale Constituante se concentrent sur la nécessité de prendre des mesures efficaces pour maintenir l’ordre public à l’intérieur du pays2. Sans doute, la coïncidence de nom et le sujet abordé dans ce discours du député Monsieur de Foucault ont dû émouvoir Foucault au moment où il réalisait ses recherches3. En tout cas, il est significatif que ce soit dans ce contexte qu’émerge pour la première fois le titre que Foucault allait donner à son livre. L’objet ultime de Surveiller et punir est l’exploration des possibilités de liberté dans un monde marqué par l’obsession des pouvoirs politiques et économiques de surveiller de manière de plus en plus subtile et efficiente les citoyens. C’est pourquoi l’ouvrage de Foucault est un essai sur les possibilités d’être libre dans les sociétés modernes et non pas simplement une histoire des moyens et des modalités de châtiment. L’analyse historique que Foucault a menée jusqu’à son bout dans Surveiller et punir ouvre la voie à une autre interprétation de notre ordre social. En ce sens, à la lumière de ses conclusions, il est possible d’offrir une lecture singulière de l’histoire de la médecine et du poids de cette discipline scientifique dans les processus de normalisation sociale4. On ne souligne pas souvent l’importance de la médecine dans cette transformation de la façon de punir. À ce propos, on se concentre plutôt sur les institutions pénales, et on ne parle pas (ou pas tellement) du savoir-pouvoir exercé par les disciplines et les techniques impliquées dans ces processus. De l’autre côté, il faut prendre en considération aussi la régulation systématique des conditions de vie des condamnés et toutes les questions liées de la gestion des circonstances atténuantes ou aggravantes des délits mêmes. Tout cela est loin d’être étranger à la médecine pendant les deux derniers siècles. Il y a bien entendu d’autres travaux où il est possible de trouver des informations importantes à propos du rôle joué par la médecine dans ces processus mais, malgré tout, les réflexions qui se trouvent dans Surveiller et punir sont d’une importance cruciale. Les prendre en considération est aujourd’hui fondamental, malgré les quarante ans qui nous séparent déjà de sa publication. Pour comprendre cela il suffit J.B. Duvergier, Collection complète des lois, décrets, ordonnances, règlements, avis du Conseil d’État (1788-1830), t. I, Paris, A. Guyot et Scribe éditeurs, 1834, p. 51. 3 M.J. Mavidal (dir.), Archives parlementaires (1787-1860), t. IX, Paris, Librairie Administrative de Paul Dupont, 1875, p. 412-414. 4 D. Taylor, « Normativity and Normalization », Foucault Studies, nº 7, 2009, p. 47. 2


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 29

de revenir sur les quelques mots que Foucault écrit au début de Surveiller et punir, mots qui nous révèlent quelque chose de grande importance concernant la naissance de la normalisation juridique et sanitaire et sa relation avec d’autres transformations du pouvoir moderne : Parmi tant de modifications, j’en retiendrai une : la disparition des supplices. On est, aujourd’hui, un peu porté à la négliger ; peut-être, en son temps, avaitelle donné lieu à trop de déclamations ; peut-être l’a-t-on mise trop facilement et avec trop d’emphase au compte d’une « humanisation » qui autorisait à ne pas l’analyser. Et de toute façon, quelle est son importance, si on la compare aux grandes transformations institutionnelles, avec des codes explicites et généraux, des règles unifiées de procédure ; le jury adopté presque partout, la définition du caractère essentiellement correctif de la peine, et cette tendance, qui ne cesse de s’accentuer depuis le XIXe siècle, à moduler les châtiments selon les individus coupables ? Des punitions moins immédiatement physiques, une certaine discrétion dans l’art de faire souffrir, un jeu de douleurs plus subtiles, plus feutrées, et dépouillées de leur faste visible, cela mérite-t-il qu’on lui fasse un sort particulier […]. Et pourtant un fait est là : a disparu, en quelques dizaines d’années, le corps supplicié, dépecé, amputé, symboliquement marqué au visage ou à l’épaule, exposé vif ou mort, donné en spectacle. A disparu le corps comme cible majeure de la répression pénale5.

Bien sûr, cette disparition du corps « comme cible majeure de la répression pénale » n’implique pas l’évanescence du corps devant la justice. C’est, en effet, tout le contraire qui arrivera. Le corps se fait présent, on dirait qu’il se fait omniprésent, à travers une micropolitique exercée sur lui et au sein de laquelle la technologie médicale vient remplir un vide impossible à accepter par le pouvoir, et finit par occuper une position essentielle. On découvrira, en effet, les possibilités infinies de châtiment que la connaissance profonde du corps humain offre au pouvoir. Plus grande sera la connaissance du corps, plus subtile deviendra la façon de punir. Mais ce n’est pas cela qui compte en dernière instance. Peut-être plus important encore est-il le contrôle minutieux du fonctionnement du corps humain, qui permet de découvrir de nouvelles possibilités liées à la ductilité matérielle de celui-ci. Dans l’une de ses phrases lapidaires, Foucault soutient que « le châtiment est passé d’un art des sensations 5

M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, p. 13-14.


30 Domingo Fernández Agis insupportables à une économie des droits suspendus »6. En tout cas, d’après Foucault, S’il faut encore à la justice manipuler et atteindre le corps des justiciables, ce sera de loin, proprement, selon des règles austères, et en visant un objectif bien plus « élevé ». Par l’effet de cette retenue nouvelle, toute une armée de techniciens est venue prendre la relève du bourreau, anatomiste immédiat de la souffrance : les surveillants, les médecins, les aumôniers, les psychiatres, les psychologues, les éducateurs ; par leur seule présence auprès du condamné, ils chantent à la justice la louange dont elle a besoin : ils lui garantissent que le corps et la douleur ne sont pas les objets derniers de son action punitive. Il faut réfléchir à ceci : un médecin aujourd’hui doit veiller sur les condamnés à mort, et jusqu’au dernier moment – se juxtaposant ainsi comme préposé au bien-être, comme agent de la non-souffrance, aux fonctionnaires qui, eux, sont chargés de supprimer la vie. Quand le moment de l’exécution approche, on fait aux patients des piqûres de tranquillisants. Utopie de la pudeur judiciaire : ôter l’existence en évitant de laisser sentir le mal, priver de tous les droits sans faire souffrir, imposer des peines affranchies de douleur. Le recours à la psycho-pharmacologie et à divers « déconnecteurs » physiologiques, même s’il doit être provisoire, est dans le droit fil de cette pénalité « incorporelle »7.

Pourtant, cette absence du corps soumis à la torture, c’est la garantie de sa présence pleine dans les couloirs de la justice actuelle. Cette justice a soustrait le corps du condamné à l’action aberrante du pouvoir dans les supplices, mais fait don du corps du détenu à toute une série de thérapeutes et techniciens qui travaillent sur lui. La position du médecin est la plus encombrante parmi toutes. Son savoir légitime un pouvoir situé à un niveau supérieur de celui des autres thérapeutes et techniciens. Le médecin peut administrer le châtiment sans recourir à la douleur physique, à la mutilation, à la cruauté excessive, à l’ostentation superflue du pouvoir de massacrer. À la limite, il peut administrer la mort au condamné sans le faire souffrir, sans que le pouvoir se manifeste à travers lui comme pouvoir inhumain. Parmi les disciplines médicales, une position tout à fait particulière est occupée par la psychiatrie dans le complexe appareil de la justice pénale. Le pouvoir des spécialistes en ce domaine n’a cessé d’augmenter 6 7

Ibid., p. 16. Ibid., p. 16-17.


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 31

pendant le dernier siècle. L’expertise psychiatrique est aujourd’hui presque déterminante dans l’attribution de la responsabilité, l’administration de la peine et l’allocation des bénéfices pénitentiaires. Foucault nous explique comment s’est produite la transformation des idées à propos de la culpabilité, jusqu’au moment où l’on a commencé à considérer qu’il est impossible « de déclarer quelqu’un à la fois coupable et fou »8. En effet, pendant le XIXe siècle, la justice pénale arriva à considérer que « l’état de folie ne pouvait entraîner ni une peine modérée, ni même un acquittement, mais un non-lieu »9, tout en étant de plus en plus intéressé par la détermination des degrés de la folie et, en fonction de ceux-ci, par l’établissement d’une gradation des châtiments à imposer. Foucault déclare à ce propos, avec la prose pétillante qu’on lui connaît : Du point de vue du Code pénal, c’étaient autant d’absurdités juridiques. Mais c’était là le point de départ d’une évolution que la jurisprudence et la législation elle-même allaient précipiter au cours des 150 années suivantes : déjà la réforme de 1832, introduisant les circonstances atténuantes, permettait de moduler la sentence selon les degrés supposés d’une maladie ou les formes d’une demifolie. Et la pratique, générale aux assises, étendue parfois à la correctionnelle, de l’expertise psychiatrique fait que la sentence, même si elle est toujours formulée en termes de sanction légale, implique, plus ou moins obscurément, des jugements de normalité, des assignations de causalité, des appréciations de changements éventuels, des anticipations sur l’avenir des délinquants10.

Le cas du psychiatre est très significatif, puisque cet expert a acquis un pouvoir indépendant et parfois complémentaire de celui du juge. Ainsi, la médecine pénale trouve dans la psychiatrie une manière de pénétrer un univers dans lequel le pouvoir s’exerce avec toute sa force et de la façon la plus claire possible. Par toute une série d’analyses et de preuves, le psychiatre (et les autres professionnels de santé avec lui) réalise un pronostic non pas tant de l’évolution d’une certaine maladie, mais de la vie future du patient dans sa dimension sociale11. Ici, la connexion entre diagnostic e pronostic manifeste des conditions préalables du point de Ibid., p. 25. Ibid. 10 Ibid. 11 M. Foucault, « L’évolution de la notion d’individu dangereux dans la psychiatrie légale du XIXe siècle » (1978), Déviance et société, vol. 5, nº 4, 1981, p. 404. 8 9


32 Domingo Fernández Agis vue social et des conséquences individuelles aussi bien que collectives. On s’exprime, à travers tout cela, sur le type d’individu qu’on considère digne de vivre avec nous ainsi que sur le type de société qui, à nos yeux, mérite d’être établie. Foucault s’interroge sur le rôle du psychiatre dans la justice pénale : Le rôle du psychiatre en matière pénale ? Non pas expert en responsabilité, mais conseiller en punition ; à lui de dire, si le sujet est « dangereux », de quelle manière s’en protéger, comment intervenir pour le modifier, s’il vaut mieux essayer de réprimer ou de soigner12.

L’exercice du pouvoir politique et son histoire nous apprennent que la répression est toujours une option à considérer, mais le pouvoir psychiatrique, et médical en général, nous apprend également qu’il y a une autre façon d’aborder la question : considérer le délinquant comme un malade qu’il est possible de soigner ou comme quelqu’un que l’on ne saurait guérir, et qui ne peut donc pas être récupéré à des fins d’utilité sociale. Au bout du compte, du point de vue de la psychiatrie tout comme de celui de la médecine en général, cela relève de la conception du corps humain comme un mécanisme très subtil, qui parfois se décompose et qu’il est possible de recomposer ou non selon les cas. Le point essentiel est de construire un savoir capable d’établir ces distinctions et de leur donner un fondement acceptable par la société13. Par ailleurs, l’humanisation des peines ne peut être comprise qu’en prenant en considération la profonde transformation idéologique qui a caractérisé le siècle des Lumières. À cette époque, l’aspiration fondamentale est celle de faire traverser toute la société par la rationalité ; ainsi, un même élan rationnel doit traverser la pensée, le fonctionnement de l’économie, le droit, la science et la politique. Tout le monde est censé consentir à l’ordre rationnel que l’on veut mettre en place. Même le délinquant, à la limite, est appelé à croire qu’il est ce que les thérapeutes disent qu’il est, et rien de plus. Dans ses notes préparatoires à Surveiller et punir, Foucault fait référence à Gustave de Beaumont, auteur d’une enquête sur le fonctionnement des prisons aux États-Unis pendant l’année 1831, où il évoque l’alternative M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 26. S. Prozorov, « The Unrequited Love of Power. Biopolitical Investment and the Refusal of Care », Foucault Studies, nº 4, 2007, p. 59. 12 13


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 33

suivante : « réformer ou punir »14. La question clé est celle de connaître les possibilités de réformer les délinquants, en promouvant le sentiment de culpabilité et en développant chez eux des attitudes sociales15. Dans les travaux préliminaires à la rédaction de son ouvrage, Foucault étudie aussi le rapport d’Ange Guépin et Eugène Bonamy sur la ville de Nantes, datant de 1835, où ils parlent de « prévention et répression » comme des points focaux d’attention du pouvoir social en relation aux activités délictueuses16. En tout cas, dans Surveiller et punir, Foucault tire ses conclusions à propos du régime de la prison, en mettant l’accent sur la fonction capitale du médecin à l’intérieur de celle-ci : Le régime de la prison doit être, pour une part au moins, contrôlé et pris en charge par un personnel spécialisé possédant les capacités morales et techniques de veiller à la bonne formation des individus. Ferrus, en 1850, à propos du médecin de prison : « Son concours est utile avec toutes les formes d’emprisonnement… nul ne pourrait posséder plus intimement qu’un médecin la confiance des détenus, mieux connaître leur caractère, exercer une action plus efficace sur leurs sentiments, en soulageant leurs maux physiques et en profitant de ce moyen d’ascendant pour leur faire entendre des paroles sévères ou d’utiles encouragements17.

Foucault remarque que, depuis 1945, « dans tout établissement pénitentiaire fonctionne un service social et médico-psychologique », et parle – à propos de ce que nous venons de lire – du « principe du contrôle technique de la détention »18. Il insiste aussi sur l’importance d’avoir conçu à l’avance le corps humain comme un mécanisme subtil et complexe, mais mécanisme tout de même. L’application systématique des procédures de transformation du comportement humain repose précisément sur cette conception du corps humain comme corps-machine. Les mouvements du corps, la régulation de ses fonctions et la perception que le condamné en a sont susceptibles d’être contrôlés, transformés, restructurés en fonction d’objectifs qui ne sont pas compréhensibles par les individus concrets impliqués dans ces actions. Seulement certains parmi les serviteurs BnF, Fonds Michel Foucault, boîte nº 4, 1-8. M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 270. 16 BnF, Fonds Michel Foucault, boîte nº 4, 1-8. 17 M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 275. 18 Ibid. 14 15


34 Domingo Fernández Agis techniques du pouvoir social de surveiller et punir ont accès à ces objectifs. Comme Foucault le rappelle, Le grand livre de l’Homme-machine a été écrit simultanément sur deux registres : celui anatomo-métaphysique, dont Descartes avait écrit les premières pages et que les médecins, les philosophes ont continué ; celui, technico-politique, qui fut constitué par tout un ensemble de règlements militaires, scolaires, hospitaliers et par des procédés empiriques et réfléchis pour contrôler ou corriger les opérations du corps. Deux registres bien distincts puisqu’il s’agissait ici de soumission et d’utilisation, là de fonctionnement et d’explication : corps utile, corps intelligible. Et pourtant de l’un à l’autre, des points de croisement19.

Foucault a étudié comment le corps humain est devenu, à partir de la fin du XVIIIe siècle, le point d’intersection du pouvoir politique, économique et médical. Mais c’est sans doute ce dernier pouvoir qui est essentiel, puisque la connaissance du corps humain est ce qui assure son parfait assemblage dans la machine sociale et productive. Depuis cette époque-là, l’hôpital va devenir, peu à peu, une véritable machine à guérir. Mais ce sont la prison et les autres institutions dans lesquelles se met en place un contrôle exhaustif des internés qui deviennent le point focal des technologies de transformation des individus. Dans ces institutions, on fait un véritable travail de re-subjectivation, on cherche à construire de nouvelles subjectivités dociles, productives et efficaces. Dans les travaux préliminaires à la rédaction de Surveiller et punir, Foucault prête beaucoup d’attention à l’ouvrage de Léon Faucher, De la réforme des prisons. Il s’intéresse de façon particulière aux aspects relatifs à l’hygiène dans les prisons pour montrer comment une relation entre l’hygiène et la santé y soit établie, tout en soulignant que l’attention aux habits d’hygiène a une importante fonction normalisatrice20. Mais l’aspect essentiel est l’attention au fonctionnement du corps humain, dans ses dimensions morale et matérielle. En ce sens, Foucault explique que L’Homme-machine de La Mettrie est à la fois une réduction matérialiste de l’âme et une théorie générale du dressage, au centre desquelles règne la notion 19 20

Ibid., p. 138. BnF, Fonds Michel Foucault, boîte nº 4, 1-8.


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 35 de « docilité » qui joint au corps analysable le corps manipulable. Est docile un corps qui peut être soumis, qui peut être utilisé, qui peut être transformé et perfectionné. Les fameux automates, de leur côté, n’étaient pas seulement une manière d’illustrer l’organisme ; c’étaient aussi des poupées politiques, des modèles réduits de pouvoir21.

Le corps doit être l’objet privilégié de la connaissance scientifique, mais le but ultime de cette entreprise est bien celui de transformer le corps, en faisant de celui-ci une matière modelable et utile aux objectifs du pouvoir. Foucault prend pour exemple l’attention aux procédures disciplinaires dans la Prusse de l’époque, en soutenant que l’« obsession de Frédéric II, roi minutieux des petites machines, des régiments bien dressés et des longs exercices », doit être comprise à l’intérieur de ce contexte politique22. À partir de là, il est possible de se demander quelles sont les limites du corps humain et aussi jusqu’à quel point peut-on arriver avec lui. Répondre à ces questions a été énormément important pour développer la mécanique du pouvoir moderne. Dans les institutions fermées, par conséquent, allait se développer une technologie du corps humain qui offre un savoir de plus en plus complet sur ses possibilités et ses limites23. Deux processus de normalisation sont ici en jeu : le premier fait référence à l’élaboration d’une connaissance la plus complète possible sur le corps humain ; le second à l’utilisation systématique de cette connaissance pour obtenir des résultats de plus en plus performants dans un domaine concret. La multiplication de ces domaines est aussi recherchée par un pouvoir social qui aspire à une domination plus subtile à travers son omniprésence silencieuse et apparemment innocente. La minutie des règlements, le regard vétilleux des inspections, la mise sous contrôle des moindres parcelles de la vie et du corps donneront bientôt, dans le cadre de l’école, de la caserne, de l’hôpital ou de l’atelier, un contenu laïcisé, une rationalité économique ou technique à ce calcul mystique de l’infime et de l’infini. Et une Histoire du Détail au XVIIIe siècle, placée sous le signe de JeanBaptiste de La Salle, frôlant Leibniz et Buffon, passant par Frédéric II, traversant la pédagogie, la médecine, la tactique militaire et l’économie, devrait aboutir à M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 138. Ibid. 23 F. Gros, « Foucault e la società punitiva », materiali foucaultiani, vol. III, n° 5-6, 2014, p. 254-255. 21 22


36 Domingo Fernández Agis l’homme qui avait rêvé, à la fin du siècle, d’être un nouveau Newton, non plus celui des immensités du ciel ou des masses planétaires, mais des « petits corps », des petits mouvements, des petites actions24.

On dira, peut-être, que ces objectifs sont trop modestes, qu’ils ne peuvent pas avoir d’intérêt du point de vue du pouvoir, mais c’est en effet tout le contraire. Ce sont, en apparence, des objectifs très limités, mais leur utilisation systématique se révèle extrêmement utile et efficace. La normalisation que la médecine rend possible constitue le point d’appui pour affirmer l’utilité tout comme l’efficace du modèle. C’est pourquoi on peut soutenir que l’organisation du savoir médical est aussi un enjeu économique : en effet, elle offre une rentabilité marchande et sociale qu’au bout du compte possède également une dimension économique. C’est en ce contexte qu’il faut comprendre le sens de la lutte contre l’oisiveté, à l’intérieur des prisons et dans la société en général. Foucault accorde une considération particulière à cet aspect-là, en étudiant les écrits des réformateurs des prisons pendant le XIXe siècle. À son avis, les facteurs qui ont de l’importance à l’intérieur des prisons (la salubrité, l’organisation des activités, la lutte contre l’oisiveté, l’attention à la moralité, l’importance accordée à l’instruction, etc.) l’ont également au sein de la société qui existe en dehors des murs25. Quelques années plus tard, dans sa conférence « La naissance de la médecine sociale », Foucault développera certains de ces aspects qui, en revanche, n’apparaissent dans Surveiller et punir que de manière fugace26. La multiplication des forces productives n’est donc pas seulement une question de nombre d’effectifs. Elle est plutôt une question d’organisation systématique de ces forces-là : Comme le chef d’armée dont parlait Guibert, le naturaliste, le médecin, l’économiste est « aveuglé par l’immensité, étourdi par la multitude… les combinaisons sans nombre qui résultent de la multiplicité des objets, tant d’attentions réunies forment un fardeau au-dessus de ses forces. La science de la guerre moderne en se perfectionnant, en se rapprochant des véritables principes M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 142. BnF, Fonds Michel Foucault, boîte nº 4, 1-8. 26 M. Foucault, « La naissance de la médecine sociale » (1977), dans Dits et écrits, t. III, Paris, Gallimard, 1994, p. 207-208. 24

25


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 37 pourrait devenir plus simple et moins difficile » ; les armées « avec des tactiques simples, analogues, susceptibles de se plier à tous les mouvements […] seraient plus faciles à remuer et à conduire ». Tactique, ordonnancement spatial des hommes ; taxinomie, espace disciplinaire des êtres naturels ; tableau économique, mouvement réglé des richesses27.

De ce point de vue, l’organisation de l’activité thérapeutique et normalisatrice dans la vie hospitalière a un intérêt spécial. L’efficacité de l’hôpital sur le plan social trouve son fondement dans son caractère fonctionnel et dans son but, qui est celui d’optimiser l’efficacité technique dans l’exercice de la médicine. La projection des résultats sur la praxis médicale dans son ensemble est évidente : l’hôpital a fait la médicine moderne, il est son miroir et son espace privilégié. Mais l’hôpital est aussi un espace de pouvoir concentré où l’on peut suivre le développement technique de la médecine et prendre conscience des raisons de son pouvoir croissant dans la société. L’hôpital – celui qu’on veut aménager dans la seconde moitié du [XVIIIe] siècle, et pour lequel on a fait tant de projets après le second incendie de l’HôtelDieu – n’est plus simplement le toit où s’abritaient la misère et la mort prochaine ; c’est, dans sa matérialité même, un opérateur thérapeutique28.

Foucault définit l’hôpital comme un opérateur thérapeutique et il souligne son double aspect, clinique et social, dans le sens le plus large du terme. Avec la prison, l’hôpital est pour ces raisons le lieu qui suscite les dilemmes éthiques majeurs de notre temps. Bien sûr la guerre, la dynamique des populations, l’écologie nous mettent au quotidien face à des compromis bien difficiles à gérer, mais la définition même de la vie et de la mort et nôtre façon d’agir à l’égard des grandes questions éthiques trouvent dans l’hôpital leur espace idéal d’application. Apparaît, à travers les disciplines, le pouvoir de la Norme. Nouvelle loi de la société moderne ? Disons plutôt que depuis le XVIIIe siècle, il est venu s’ajouter à d’autres pouvoirs en les obligeant à de nouvelles délimitations ; celui de la Loi, celui de la Parole et du Texte, celui de la Tradition. Le Normal s’établit comme 27 28

M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 150. Ibid., p. 174-175.


38 Domingo Fernández Agis principe de coercition dans l’enseignement avec l’instauration d’une éducation standardisée et l’établissement des écoles normales ; il s’établit dans l’effort pour organiser un corps médical et un encadrement hospitalier de la nation susceptibles de faire fonctionner des normes générales de santé ; il s’établit dans la régularisation des procédés et des produits industriels. Comme la surveillance et avec elle, la normalisation devient un des grands instruments de pouvoir à la fin de l’âge classique29.

Foucault met l’accent sur la fonction de contrôle, sur la vigilance minutieuse et ininterrompue que des institutions en apparence non destinées à cette fin exercent sur toute la société. Il remarque que les résultats sont paradoxalement plus performants quand l’institution a été mise au point pour des autres fins, quand elle n’a en apparence aucune relation avec la surveillance sociale. En effet, dans « La politique de la santé au XVIIIe siècle », Foucault parle de la difficulté d’établir un « rapport d’antériorité ou de dérivation » entre la « médecine privée, libérale, soumise aux mécanismes de l’initiative individuelle et aux lois du marché », et « une politique médicale qui prend appui sur une structure de pouvoir et qui vise la santé d’une collectivité »30. Cet encadrement rend encore plus difficile la compréhension du sens des règles de fonctionnement des institutions sanitaires. Dans ce contexte, la figure du professionnel de santé a été profondément transformée par l’évolution même de l’organisation de la vie à l’intérieur de l’hôpital31. Le droit à la santé dont l’apparition est située par Foucault en 1942, dans le Plan Beveridge, fait son entrée dans la politique sanitaire contemporaine en reconnaissant l’État comme le responsable de la concrétisation de ce droit32. Mais avant d’arriver à cette reconnaissance problématique, une série de transformations visant l’attention médicale aux patients ont été nécessaires. En particulier, les transformations réalisées au XVIIIe siècle ont une signification décisive. Comme résultat de celles-ci, Ibid., p. 186. M. Foucault, « La politique de la santé au XVIIIe siècle », dans Les machines à guérir. Aux origines de l’hôpital moderne, Paris, Institut de l’environnement, 1976, p. 11. 31 M. Foucault, « L’incorporation de l’hôpital dans la technologie moderne » (1978), dans Dits et écrits, t. III, op. cit., p. 508. 32 M. Foucault, « Crise de la médecine ou crise de l’antimédecine ? » (1976), dans Dits et écrits, t. III, op. cit., p. 40. 29 30


La normalisation médicale dans Surveiller et punir 39 L’inspection d’autrefois, discontinue et rapide, est transformée en une observation régulière qui met le malade en situation d’examen presque perpétuel. Avec deux conséquences : dans la hiérarchie interne, le médecin, élément jusquelà extérieur, commence à prendre le pas sur le personnel religieux et à lui confier un rôle déterminé mais subordonné dans la technique de l’examen ; apparaît alors la catégorie de « l’infirmier » ; quant à l’hôpital lui-même, qui était avant tout un lieu d’assistance, il va devenir lieu de formation et de collation des connaissances : retournement des rapports de pouvoir et constitution d’un savoir. L’hôpital bien « discipliné » constituera le lieu adéquat de la « discipline » médicale ; celle-ci pourra alors perdre son caractère textuel, et prendre ses références moins dans la tradition des auteurs décisifs que dans un domaine d’objets perpétuellement offerts à l’examen33.

L’hôpital marque ainsi un pas décisif vers sa conversion en une institution où doit régner une transparence parfaite. Nous retrouvons ici un certain air de famille entre ces deux institutions « disciplinaires », l’hôpital et la prison. Comme Foucault le découvre dans les travaux préparatoires qu’il mène en vue de la rédaction de son livre, c’est dans l’ouvrage d’HarouRomain, Projet de pénitencier, publié à Caen en 1840, qu’apparaît l’idée de la prison comme « maison de verre ». À ce propos, Foucault soutient que le médecin fait que l’existence du condamné soit visible au pouvoir, dans ses détails les plus intimes. Grâce à ses services, la prison est encore davantage une « maison de verre »34, idée que Foucault prend en considération aussi dans les pages de Surveiller et punir35. Mais le plus important pour nous, aujourd’hui, est sans doute de mettre en lumière les conséquences de la conversion d’autres institutions, médicales et éducatives surtout, en de véritables maisons de verre. Domingo Fernández Agis Universidad de La Laguna dferagi@ull.es

M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 188. BnF, Fonds Michel Foucault, boîte nº 4, 9-12. 35 M. Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 253. 33 34


40 Domingo Fernåndez Agis . Medical Normalization in Discipline and Punish The ultimate object of Discipline and Punish is not so much the explanation of the origins of the repressive procedures than the exploration of the possibilities of freedom, in a world characterized by the obsession of an increasingly meticulous and efficient surveillance of citizens. This is why Foucault’s book is an essay on the possibilities of being free in modern societies and not only a history of the instruments and modalities of punishment. The historical analysis that Foucault carried out in Discipline and Punish opens the door to a different interpretation of our social order. In this respect, relying on his conclusions, it is possible to offer a specific reading of the history of medicine and of the weight of this scientific discipline in the processes of social normalization. Keywords: Foucault, Medicine, Discipline, Normalization, Surveillance, Freedom, Social Order.


Le nominalisme de la médecine contemporaine Éléments d’archéologie du big data en médecine Mathieu Corteel

Introduction

Dans La naissance de la clinique, en filigrane de ses travaux sur la folie,

Michel Foucault mettait en évidence le dépassement sémantique et sémiotique de la nosographie médicale du XVIIIe siècle par le développement de la médecine clinique apparu entre la fin du XVIIIe et le début du XIXe siècle. Ce bouleversement épistémologique constitue ce sur quoi la médecine contemporaine allait développer sa méthode d’investigation sur le pathologique ; et ce par une observation attentive de l’inscription de la maladie dans le corps. Le regard médical, en devenant l’instance première dans la connaissance du pathologique, se devait d’organiser la totalité des manifestations d’une maladie au sein d’une sémantique. Le rapport nominaliste entre les mots et la maladie constitue l’élément fondateur du tournant clinique. Avant l’apparition de ce regard médical dit « clinique », le savoir médical était tributaire d’une nosologie essentialiste qui manquait la positivité de la pathologie, en la réduisant à des schémas généraux par mécompréhension de la spécificité de la maladie et de la singularité du malade. Les maladies étaient considérées comme des « universaux », ayant une réalité propre – elles existaient indépendamment de leurs inscriptions dans un corps. De fait, la médecine classique constitua un réalisme nosologique au travers d’une inscription ontologique de la maladie dans un système de classification propre au « jardin des espèces » du botaniste Linné. Elle réduisait ainsi la maladie à des tables et tableaux qui permettaient d’ordonner les caractéristiques phénotypiques de ces dernières, sans toutefois accorder un crédit suffisant à l’observation des variations internes. « Le grand souci des classificateurs au XVIIIe siècle est animé par une constante métaphore qui a l’ampleur et l’obstination d’un mythe : c’est le transfert des désordres de la maladie à l’ordre de la végétation »1. 1

M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972 p. 206.

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 41-68.


42 Mathieu Corteel Cette classification qui lésait la connaissance médicale, développa une méprise de la singularité du patient et de l’événement de la maladie, par un besoin constant de subsomption des pathologies sous des espèces générales. « Ne traitez jamais une maladie sans vous être assuré de l’espèce »2. De cette injonction directive de Gilibert, la médecine nosologique du XVIIIe faussa toute sa pratique. En effet, cette mécompréhension par subsomption conduisait inévitablement les médecins à des apories et des traitements étranges, tels que l’absorption de limailles de fer recommandée par Sydenham pour traiter l’hystérie3. On considérait alors les maladies à partir du désordre microbiotique des « esprits animaux » selon l’ordre des humeurs4. Sauvages, Gilibert, Sydenham et Cullen – les grands théoriciens de cette « spatialisation de la maladie » qui perdura jusqu’au tournant clinique initié par Cabanis, Pinel, Corvisart et Bichat – développèrent en conséquence des traitements inefficaces. Leur conception classificatrice des pathologies qui spatialise la maladie en tableau par une hiérarchisation en familles, genres, espèces, perpétuait l’archaïsme de la médecine de Galien. Ils préservaient ainsi une vision essentialiste de la maladie au travers d’une sémantique des universaux, qui faussait immanquablement toute la sémiotique du regard médical. En effet pour ces derniers, comme la connaissance de la maladie se donnait avant l’inscription de cette dernière dans le corps – par un détour qui l’essentialise – la manifestation de la maladie dans la profondeur du corps était minimisée voir occultée. Comme l’écrit Foucault à cette intention, « la règle classificatrice domine la théorie et jusqu’à la pratique : elle apparaît comme la logique immanente des formes morbides, le principe de leur déchiffrement et la règle sémantique de leur définition »5. En rendant par là le regard médical hermétique à J.E. Gilibert, L’anarchie médicinale ou la médecine considérée comme nuisible à la société, Neuchâtel, 1772, t. I, p. 198. 3 M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, op. cit., p. 328. 4 Les théories médicales de l’époque classique sont héritières de la conception des « esprits animaux » de Descartes, qui dans Les passions de l’âme (1649) mettait en évidence le mécanisme de ces derniers dans la relation des affects corporels à l’esprit par l’intermédiaire de la glande pinéale (zone de recoupement entre le corps et l’âme). Selon Descartes, les variations des passions étaient liées à une trop grande humidité ou sécheresse de certains organes, notamment la bile ou le cerveau. Ceci modifie la théorie macrobiotique des humeurs de Galien en déplaçant ces mouvements morbides dans un ordre microbiotique. 5 M. Foucault, La naissance de la clinique (1963), Paris, P.U.F., 2009, p. 2. 2


Le nominalisme de la médecine contemporaine 43

la spatialité propre du corps, autrement dit, à l’inscription de la maladie dans le corps, l’épistémé classique n’arrivait pas à faire correspondre de manière efficiente sa sémantique universaliste avec une sémiotique nominale du regard médical en lien avec la singularité du patient. Le tournant clinique qui va se développer à la fin du XVIIIe siècle au travers d’un regard médical s’ouvrant aux variations des symptômes et des signes de la maladie apportera la positivité de la connaissance du pathologique par l’acceptation de la fragilité qui existe dans le rapport entre les mots et les choses au sein du diagnostic clinique (ce que l’on dit de ce que l’on voit), et dans la combinatoire des signes pour le pronostic (ce que l’on prévoit par le calcul de l’incertain). La perception du médecin devenue discursive et réfléchie s’affranchit ainsi d’une quête des universaux au sein de son savoir pour tendre vers une compréhension précise de la singularité du patient et de sa maladie. Comme l’écrit Corvisart à cette intention : « toute théorie se tait ou s’évanouit toujours au lit du malade »6. L’observation silencieuse devient la part structurante de l’Organon médical qui lie la perception avec le langage théorique pour favoriser « la genèse de la composition »7. Cette genèse qui par méthode analytique relie l’ensemble des déductions pour comprendre la maladie au delà de l’hic et nunc en transformant le symptôme en signe, apporte au tableau stérile de la nosologie, la dynamique temporelle nécessaire à son efficience. Il s’agit dès lors de relever les signes permettant de temporaliser la maladie en ouvrant le savoir médical au delà du simple support perceptif de la singularité du malade (pour évidemment la comprendre et la traiter) vers une accumulation d’informations permettant l’expansion heuristique de la médecine clinique. Comme l’écrit Michel Foucault à propos de l’institution clinique : Ce qui constitue maintenant l’unité du regard médical, ce n’est pas le cercle du savoir dans lequel il s’achève, mais cette totalisation ouverte, infinie, mouvante, sans cesse déplacée et enrichie par le temps, dont il commence le parcours sans pouvoir l’arrêter jamais : déjà une sorte d’enregistrement clinique de la série infinie et variables des événements. Mais son support n’est pas la J.N. Corvisart, Préface à la traduction d’Auenbrugger, Nouvelle méthode pour reconnaître les maladies internes de la poitrine, Paris, 1808, p. VII. 7 Ibid. 6


44 Mathieu Corteel perception du malade en sa singularité, c’est une conscience collective de toutes les informations qui se croisent8.

Cette accumulation d’informations s’effectuant par le schéma d’une intelligence collective permettant un approfondissement gnoséologique de la recherche médicale sera une base fondamentale pour toute la médecine moderne. À cela s’ajoute l’utilisation du calcul de probabilités dans le travail du médecin. L’on découvre à la même époque que la probabilité permet de dépasser le manque de certitude dans le diagnostic et le pronostic sur les maladies. Le manque de connaissance reconnu par les médecins sur les variables des maladies est un vecteur de positivité dans la recherche en même temps que le motif d’introduction de la mathématique statistique dans les processus gnoséologiques de la médecine clinique. À l’époque de Laplace, soit sous son influence, soit à l’intérieur d’un mouvement de pensée du même type, la médecine découvre que l’incertitude peut être traitée, analytiquement, comme la somme d’un certain nombre de degrés de certitude isolables et susceptibles d’un calcul rigoureux. Ainsi, ce concept confus et négatif, qui tenait son sens d’une opposition traditionnelle à la connaissance mathématique, va pouvoir se retourner en un concept positif, offert à la pénétration d’une technique propre au calcul9.

Bien qu’il ne soit pas aisé de replacer les développements de la médecine contemporaine dans une filiation de cette rupture nominaliste de la médecine clinique face à l’essentialisme de la nosologie du XVIIIe, certains développements actuels nous y invitent. Les avancées récentes dans l’élaboration des systèmes de traitement des données médicales, permises par le développement du big data, semblent parachever ce projet épistémologique de la médecine clinique en ouvrant la totalisation du savoir à l’accumulation d’informations multiples et à leur traitement nominal. Cette accumulation de données qui s’établit à plusieurs niveaux constitue ainsi une nouvelle manière d’énoncer la maladie : 1) les données de la bioinformatique l’énonce au niveau des cellules (histologie) et de l’ADN ; 2) les données de la neuroinformatique au niveau des tissus du cerveau par l’imagerie cérébrale ; 3) les données cliniques au niveau du patient (âge, 8 9

Ibid., p. 29. Ibid., p. 97.


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sexe, résultats sanguins, etc.) ; 4) les données de la santé publique au niveau de la population. Ces différents niveaux d’énonciation qui définissent respectivement divers usages du big data en médecine sont aujourd’hui soumis à une convergence au travers d’un dispositif translationnel qui entend combiner ces derniers au sein d’une sémantique plus vaste. La bioinformatique translationnelle qui entend favoriser la combinatoire par un support numérique capable de calculer un nombre exponentiel de variables ouvre la sémantique à de nouvelles modalités épistémologiques. En effet, le changement de support sémantique qui s’établit par le développement du big data en médecine convoque le philosophe dans l’étude de son épistémé. Depuis le tournant clinique le rapport entre l’énoncé (ou diagnostic) et la maladie trouve son support technologique au travers d’une sémantique qui décrit le visible et s’inscrit en ligne directe avec une sémiotique médicale capable d’établir un pronostic. Le symptôme, en devenant signe, permet le développement positif du pronostic par un travail de mise en relation entre les mots et les choses. Avec les données médicales combinées par les nouveaux dispositifs (big data), l’on énonce l’invisibilité de la maladie aux échelles microscopiques et macroscopiques avec une célérité dépassant le regard médical. Cette énonciation, qui ne s’appuie non plus sur une observation de symptômes mais sur des signes numérisés, convoque le rapport au patient dans une dynamique de connaissance inversée. La logique de composition des pathologies est décrite avant même l’apparition des symptômes dans la spatialité du corps. Le signe préexiste au symptôme. En effet, l’analyse prédictive, en anticipant la maladie, destitue le patient comme centre de la connaissance. Les données qui se basent dès lors sur le potentiel pathologique constituent un système sémiotique. Ce sont les signes d’une composition à venir de la maladie dans le corps. Lors du diagnostic (énonciation de la maladie au moyen d’un support sémantique), de quoi les données sont-elles les données ? En quoi les signes supplantentils les symptômes dans la formation de données pour le pronostic ? Le travail sur le potentiel pathologique qui investit le patient sous l’angle de la donnée, définit un nouveau dispositif sémantique et sémiotique. Comment donc ce nouveau dispositif de calcul de données hétérogènes (big data) se mêle-t-il au regard du praticien et à sa logique pour favoriser la connaissance de la maladie ? Enfin, si l’on considère l’aspect machinique qui


46 Mathieu Corteel affranchit « le thème anthropologique »10 de la maladie que l’on considère en tant que système complexe non-humain, il apparaît clairement que le support sémantique, qui initialement définissait un tournant nominaliste dans le savoir, est aujourd’hui exacerbé par l’imagerie médicale qui développe des systèmes complexes sur le modèle de la multitude pathogène. Le passage d’un système ontologique à une sémiotique structure de fait la connaissance en faisant l’économie du sujet dans le but de favoriser la connaissance de la maladie à travers sa logique de composition. Le savoir médical aujourd’hui considérablement augmenté de supports sémantiques qui traduisent en signes et données les manifestations pathologiques, se détache de l’Anthropos pour tenter de comprendre la complexité de la maladie. Ce geste qui fut inauguré avec la médecine clinique, et peut-être plus particulièrement avec l’étude des tissues de Bichat, constitue une conception du pathologique en termes de lésion parfois asymptomatique et donc détaché du patient qui ne peut être confondu avec sa maladie. L’invisibilité silencieuse de la maladie conduit ainsi à déconstruire le sujet en favorisant l’utilisation de nouveaux supports sémantiques (les données) ainsi que des technologies de calcul (algorithme). En quoi le nominalisme médical et cette déconstruction du sujet favorisent-ils par le développement de ces nouveaux dispositifs technologiques, une approche qui ne réduit pas la complexité de la maladie au malade ? Afin de répondre à cet ensemble de questions je reprendrai les éléments de l’archéologie du savoir médical développés par Michel Foucault dans La naissance de la clinique, pour dans un premier temps expliciter comment s’élabore dans le savoir médical contemporain, le passage du couple symptômesigne au couple donnée-signe. Dans un second temps, j’interrogerai cette utilisation technologique dans son rapport au regard et à la raison morale du médecin, afin de définir l’affranchissement du thème anthropologique dans son rapport au raisonnement du médecin. Le tournant sémiotique : du couple symptôme-signe au couple signe-donnée La sémantique des symptômes fonde le diagnostic médical par le jeu de la visibilité et de l’invisibilité des manifestations morbides. Le symptôme témoignant du retrait de la maladie, fait transparaitre à travers le 10

M. Foucault, L’archéologie du savoir (1969), Paris, Gallimard, 1986, p. 26.


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corps malade offert au regard médical, le phénomène11 d’une substance pathogène qui se dérobe toujours à l’œil attentif, dans la profondeur opaque de la chair. En cela, il incombe au médecin de dire ce qu’il voit et ne voit pas par des outils sémantiques fragiles, car ne pouvant embrasser dans son entièreté l’aspect nouménal de la maladie. Il traduit la maladie dans la langue des pathologies en laissant le savoir ouvert aux apparitions morbides. On pourrait dire de la maladie qu’elle est au sens kantien du terme un « concept limitatif » pour le médecin, c’est-à-dire qu’elle limite les prétentions de sa perception dans le procès de description qu’il traduit lors du diagnostic. Il le sait, il ne peut inclure toutes les manifestations d’une maladie par traduction langagière. Il inclut consciemment le fossé existant entre les mots et les choses dans sa pratique. L’emploi du concept de maladie est en cela toujours négatif pour lui, au sens où il restreint les limites de son impression sensible dans le cheminement de sa connaissance12. La valeur sémantique des symptômes est toutefois riche au sens ou ces derniers constituent le matériau privilégié par le médecin pour accéder à l’invariance de la maladie. « Le symptôme – de là sa place royale – est la forme sous laquelle se présente la maladie : de tout ce qui est visible, il est le plus proche de l’essentiel ; et de l’inaccessible nature de la maladie, il est la transcription première »13. Malheureusement, peu flexibles sont les mots qui traduisent la plasticité des maladies dans le savoir médical. La maladie se dérobe non seulement à la vue mais aussi au langage. Sur ce point Bergson disait avec justesse « qu’une idée, si souple que nous l’ayons faite, n’aura la même souplesse que les choses »14. C’est seulement par la mise en évidence de cette fragilité du savoir qu’apparaît la vérité de la maladie. Traduire jusqu’à la plus infime marque qui parsème les corps, afin de faire taire les maux, devient dès lors un idéal – celui de la médecine clinique. « La médecine ne donne plus à voir le vrai essentiel sous l’individualité sensible ; elle est devant J’entends par « phénomène », les choses telles qu’elles nous apparaissent au sens de l’Erscheinung dans son emploi au sein de la Kritik der reinen Vernunft de Emmanuel Kant. 12 E. Kant, « Critique de la raison pure » (1781-1787), trad. fr. A.J.-L. Delamarre et F. Marty, dans Œuvres philosophiques I. Des premiers écrits à la critique de la raison pure, Paris, Gallimard, 1980, p. 984. 13 M. Foucault, La naissance de la clinique, op. cit., p. 89. 14 H. Bergson, « La philosophie de Claude Bernard » (1913), dans La pensée et le mouvement, Paris, Alcan, 1939, p. 264. 11


48 Mathieu Corteel la tâche de percevoir, et à l’infini, les évènements d’un domaine ouvert. C’est cela la clinique »15. Avec l’apparition de la clinique, le savoir médical entend non plus relier la sémantique des pathologies avec une ontologie qui attribue aux universaux une réalité propre, mais avec une sémiotique permettant de retracer la constitution des maladies dans le temps. Le tournant nominaliste, initié par la médecine clinique, en reconnaissant la faillibilité du savoir médical ainsi que l’inscription temporelle des signes d’une maladie, inaugure un système qui fonde la signifiance d’une maladie par l’union du symptôme et du signe. Le signe qui annonce ce qui va se passer par le pronostic, et, qui par un tour anamnestique, restitue l’ordre de composition de la maladie, temporalise en offrant au savoir la capacité de reconnaître les pathologies. « À travers l’invisible, le signe indique le plus loin, l’en dessous, le plus tard. En lui, il est question de l’issue, de la vie et de la mort, du temps et non de cette vérité immobile, de cette vérité donnée et cachée, que les symptômes restituent en leur transparence de phénomène »16. Étant donné que la maladie en soi n’est plus l’objet de la recherche clinique, la collection des symptômes est ce que l’on nommera « la vérité de la maladie ». Le symptôme devient ainsi le signifiant et le signifié de la maladie. Signifiant car constituant une totalité par la vérité de la maladie en tant que collection ouverte de symptômes ; signifié par lui-même dans un retour tautologique et une opposition au non-pathologique. « Singulière ambiguïté puisque dans sa fonction signifiante, le symptôme renvoie à la fois au lien des phénomènes entre eux, à ce qui constitue leur totalité et la forme de leur coexistence, et à la différence absolue qui sépare la santé de la maladie ; il signifie donc par une tautologie, la totalité de ce qu’il est, et par son émergence, l’exclusion de ce qu’il n’est pas »17. Ceci fonde pour Foucault ce qu’il nomme un « langage d’action »18 qui énonce la maladie avec vivacité en rendant compte par une externalisation linguistique d’une vérité intérieure. Ce système nominal clinique reliant la sémantique des symptômes et la sémiotique des signes d’une maladie est rendu possible par l’entremise d’une conscience qui temporalise par différence (succession, simultanéité, M. Foucault, La naissance de la clinique, op. cit., p. 97. Ibid., p. 90. 17 Ibid., p. 91. 18 Ibid., p. 92. 15 16


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fréquence, etc.). Par cette irruption de la conscience du médecin, c’est le calcul sur la totalité des symptômes ainsi que la structure de leur composition qui s’établit. On passe d’une spatialisation de la maladie à un calcul de probabilités sur cette dernière par la temporalité du signe. La spatialisation de la maladie dans un ordre sémantique permet dans un premier temps une organisation de l’intuition sensible par la subsomption graphique de l’écriture en tant que support externe. Quant à la temporalisation sémiotique, elle intériorise l’ensemble des appréhensions par le calcul. « Le symptôme devient donc signe sous un regard sensible à la différence, à la simultanéité ou à la succession, et à la fréquence. Opérations spontanée différentielle, vouée à la totalisation et à la mémoire, calculatrice aussi ; acte par conséquent qui joint, en un seul mouvement, l’élément et la liaison des éléments entre eux »19. Le savoir clinique développe ainsi par le support de la conscience une capacité à reconnaître les pathologies par des opérations synthétiques a posteriori (inférence à partir des symptômes) et a priori (inférence à partir des signes). L’aperception du médecin par la traduction des manifestations pathologiques et le calcul de probabilités sont constitutifs d’un savoir dont l’outil principal est la cognition humaine. En ce sens, la médecine clinique est tributaire, par le couple du symptôme-signe, d’une cognition humaine qui recueille au lit du malade l’ensemble des traits de sa maladie. Cette faculté de connaître proprement humaine s’établit par une série de synthèses qui relient le phénomène avec le concept. Selon Kant, ces opérations synthétiques sont au nombre de trois : 1) l’esthétique transcendantale définit une première synthèse par les a priori de l’intuition que sont l’espace et le temps (il s’agit de la synthèse de l’appréhension sensible) ; 2) le schématisme définit une seconde synthèse en rendant homogène le schème (nombre) au concept et à l’intuition par le concours de l’imagination comme faculté de répétition ou d’itération ; 3) la logique de l’entendement permet d’ordonner selon les catégories (concepts purs de l’entendement) l’ensemble d’une perception par reconnaissance20. Ibid., p. 93. Ces trois synthèses, telles que je les décris ici, sont présentes dans la Kritik der reinen Vernunft de 1781. Cette première version définit l’imagination en tant que faculté cognitive active dans le schématisme. Dans la version de 1787, cet aspect disparaît. L’entendement est dès lors ce qui fonde toute liaison. En ce qui concerne la cognition du médecin, il me semble que l’imagination joue un rôle central dans la production des séries de représentation morbide par sa capacité de reproduction temporelle et spatiale. 19 20


50 Mathieu Corteel Les trois synthèses kantiennes fondent par l’observation clinique un type de savoir qui permet une recognition d’une maladie ; ce qui néanmoins ne réduit pas l’amplitude phénoménale de sa manifestation. De fait, la perception clinique laisse toujours ouverts les modèles au champ de la manifestation morbide. La combinatoire sémiotique qui s’établit par le schème numéral établit le lien entre les deux dernières synthèses de manière transcendantale, sans ne jamais exclure le regard sur la maladie. Dans le raisonnement clinique, l’attention aux manifestations morbides ne disparaît jamais. Ainsi, la médecine clinique développe le principe d’une recherche médicale qui doit, dans un premier temps, laisser parler la maladie et traduire ses expressions dans un support sémantique, par une méthode d’observation qui recueille au lit du malade les symptômes. Il s’agit du diagnostic. À partir de cette première synthèse sémantique apparaissent les signes de la maladie qui vont tendre à saisir l’ordre de composition de la maladie. C’est là qu’apparaissent le schème numérique et le calcul ; il s’agit du pronostic. Dans le savoir clinique, l’on tend vers le calcul des données, par le passage d’un jugement assertorique (sur la base de symptômes) à un jugement apodictique (sur la base de signes). Le raisonnement se fonde donc sur la diversité empirique, par la variété combinatoire qui met en évidence certaines analogies ; l’on s’intéresse aux fréquences par l’observation de la multiplicité des faits individuels ; enfin les degrés de certitude et d’incertitude liés à une maladie permettent d’approcher la complexité de cette dernière. L’aspect transcendantal de la clinique, qui apparaît avec le pronostic sous la forme d’un jugement synthétique a priori, n’essentialise aucunement la maladie sous des « universaux ». Les catégories permettant la reconnaissance restent de l’ordre du « concept limitatif », en ce sens elles sont avant tout nominalistes ; ce sont des outils logiques qui favorisent le calcul et n’ont pas prétentions à l’existence. Il s’agit de rendre efficient le calcul par une ouverture temporelle de la cognition face à la maladie. Avec la clinique, la temporalité du signe fonde une nouvelle approche, non plus ontologique mais sémiotique de la maladie. Ainsi, l’identification des maladies se fait par le calcul de probabilité qui anticipe la propagation du mal dans le corps et non plus par une classification qui réduit la complexité à un monisme des espèces. « Ce retournement conceptuel a été décisif : il a ouvert à l’investigation un domaine où chaque fait constaté, isolé, puis confronté à un ensemble a


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pu prendre place dans toute une série d’événements dont la convergence ou la divergence étaient en principe mesurable »21. C’est là pour Foucault l’origine du calcul de probabilités en médecine. Le nominalisme des manifestations morbides est aujourd’hui exacerbé par la machine, car les données que calcule cette dernière ne sont plus tributaires des symptômes qui laissent toujours en retrait l’aspect nouménal de la maladie. La manifestation a posteriori d’une maladie n’est plus le corrélat nécessaire du savoir médical. Le phénomène morbide qui se dévoile reste le premier accès à la maladie mais dans le sens d’une intuition générale de l’ordre de l’examen clinique ; il faut par la suite particulariser et préciser la maladie par des examens paracliniques (imagerie, biologie, etc.). Le savoir médical est en cela tributaire du calcul des données. Ces dernières sont recueillies par des moniteurs, des microscopes, ou bien au moyen de prélèvements (sanguins, salivaires, etc.) qui ne font appel qu’au schème du nombre. Ce qui signifie, au niveau paraclinique, que l’on ne s’intéresse plus au phénomène ou symptôme d’une maladie pour fonder le calcul mais directement aux modalités des signes, c’est-à-dire à leur présence ou absence chez un patient. Sur la base de cette présence ou absence de signes, les données apporteront les précisions nécessaires à la connaissance particulière d’une pathologie. Car, les données sont le schème numéral des signes, c’est-à-dire une synthèse non pas définie par la faculté humaine d’imagination, mais par la faculté machinique d’imagerie médicale. Par l’imagerie médicale le support sémantique passe de l’écriture au nombre et donc d’une spatialisation à une temporalisation. Les catégories deviennent des « ontologies sémantiques »22 et le jugement devient itération. Sous la forme d’une reconstruction tridimensionnelle d’un organe, d’un film montrant l’évolution temporelle d’un organe, ou encore sous la forme d’une imagerie quantitative23 (extraction d’informations quantitatives à partir d’image médicale), le support devient numérique et la cognition devient quant à elle machinique. Cette numérisation – d’une grande aide pour la médecine contemporaine – est ce qui fonde le développement du big data en médecine. Elle apporte un tour computationnel au nominalisme clinique. M. Foucault, La naissance de la clinique, op. cit., p. 97. Une ontologie sémantique est un modèle informatique sous lequel s’organisent les concepts et les métadonnées par des relations de sens et de subsomption. 23 A. Todd-Pokropek, « Imagerie médicale quantitative », ADSP, n° 42, mars 2003, p. 83. 21 22


52 Mathieu Corteel Ces données qui ne sont pas le résultat d’une perception humaine mais leur corrélat permet l’adjuvance du regard médical. Il faut en effet une conscience humaine pour prélever, mettre en place un moniteur, et comprendre les résultats. Seulement, la collecte est faite par des machines pour des machines qui calculent ces données. L’homme modélise les données pour former des systèmes complexes mais la machine agit au sein de ces derniers ; en ce sens que les synthèses ici ne sont plus des jugements synthétiques mais des synthèses sémiotiques pures. Leur système de reconnaissance permet une structuration machinique du savoir. En effet, le champ ouvert de la connaissance d’une maladie est devenu trop ample ; il comporte trop de variables pour un esprit humain. Le fait que les données ne soient pas parlantes en elles-mêmes est bien connu. Mais encore faut-il se former une estimation correcte des types de travaux qui permettent de rendre parlantes des formes particulières de données. Dans les analyses moléculaires de la génétique du développement, par exemple, les effets observés acquièrent du sens grâce à la construction de modèles provisoires (et souvent parfaitement élaborés), formulés pour intégrer les nouvelles données aux observations préalables tirées d’expériences similaires. À mesure que les observations deviennent plus complexes, l’ordinateur devient un partenaire de plus en plus indispensable pour les représenter, les analyser et les interpréter24.

Le big data en médecine apparaît lorsque l’ordinateur devient nécessaire pour le traitement des données. L’imagerie médicale en devenant de plus en plus performante et les fichiers qu’elle comporte de plus en plus lourds, il fallut récemment développer des ordinateurs disposant d’une capacité de traitement plus puissante. Aujourd’hui cette capacité de traitement massif de données se développe par la création d’algorithmes prédictifs qui usent du développement exponentiel de l’imagerie pour fonder des pronostics de manière a priori. En se basant non plus sur la manifestation des symptômes mais sur une traduction de signes en données, l’imagerie médicale permet une virtualisation de la maladie. En définissant une dimension objective propice au calcul itératif, elle énonce de la chose analysée son potentiel pathogène en la reconnaissant dans des modèles abstraits. En supplantant le symptôme dans l’observation, le signe permet d’établir le système de la E. Fox Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores et machines en biologie du développement (2004), trad. fr. S. Schmitt, Paris, Gallimard, p. 259. 24


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reconnaissance pathologique sur un support numérique ; ce qui permet parfois d’énoncer la maladie avant sa manifestation phénoménale (ex : maladies génétiques). Le big data explore le facteur annonciateur d’une sémiotique schématisée par un recoupement massif de données. En effet, le big data se définit généralement par sa capacité de collecte et de traitement massif de données, mais il ne se limite pas seulement à ça. La définition la plus pertinente pour la médecine est décrite selon la règle des cinq « V » : 1) V = Volume : le traitement s’établit sur une quantité de données de l’ordre du pétaoctets 1015 octets. 2) V = Vélocité : le traitement des données se fait en temps réelle. 3) V = Variété : les données sont hétérogènes. 4) V = Véracité, la qualité des données est importante ; il faut donc évaluer ces dernières pour savoir si elles sont erronées ou incomplètes. 5) V = Valeur, il s’agit de l’utilité des données pour les services auxquels elles s’appliquent. Dans le domaine de la médecine clinique les points 4) et 5) sont cruciaux, car la validité des données et les ordres d’importance sont ce qui permet l’efficience du système. Ainsi, il s’agit de modéliser les données au travers d’ontologies sémantiques qui prennent en compte ces critères. Paradoxalement, cette modélisation des données définit des modèles généraux pour décrire des singularités pathologiques complexes, ce qui témoigne de l’aspect nominaliste de ces systèmes. Les modèles généraux ne sont pas des réalités en soi, mais des outils sémantiques. L’ordinateur augmente la capacité prédictive du pronostic par une synthèse catégorielle. Tout ceci tend à rendre compte du potentiel pathogène d’une maladie par des calculs itératifs qui dépassent la capacité cognitive du médecin. Comment tout ceci s’accorde-t-il avec la pratique du clinicien ? Le transfert de cognition que fait le praticien envers la machine lui laisse t’il le pouvoir légiférant dans la connaissance de la maladie ? Le logos médical et la machine : la vérité sensible et l’impératif moral du médecin comme facultés législatrices de la connaissance du pathologique Les systèmes complexes qui abordent la maladie dans sa multiplicité au travers de sa virtualité mettent entre parenthèses le malade pour développer une connaissance numérique du pathologique. Cette connaissance nécessaire à la médecine dépasse l’art du soin dans la perspective d’une


54 Mathieu Corteel ouverture de la cognition humaine à ce qui est non-humain, ou devraiton dire non traitable par la cognition humaine ; la maladie est dès lors considérée comme une entité complexe non réductible à l’énonciation qu’en fait le malade ou la description qu’en fait le médecin. Nous avons vu que les synthèses du schème numérique et des catégories sémantiques (ou ontologies sémantiques) permettaient de traduire la maladie dans un sens nominaliste, où l’on considère cette dernière non dans l’unité d’une essence fixe, mais dans la multiplicité d’un devenir. Ainsi, par la temporalité de l’imagerie médicale, le calcul itératif développe une connaissance dépassant les capacités de la cognition humaine. Le nombre de variables excédant de loin les capacités du médecin, ce dernier doit s’aider nécessairement de la machine. Seulement, le rapport du médecin au malade ne peut être réductible à de l’information sous le schème du numérique. Une part importante de la cognition du médecin reste inconditionnelle. Elle se doit de s’adapter face à la maladie par un silence théorique et langagier. Face au patient, la déontologie prescrit un rapport moral qui considère ce dernier comme une fin et jamais comme un moyen25. Le patient ne doit pas être confondu avec sa maladie, ce que la machine n’est pas en mesure de faire. En cela, le logos médical dans sa dimension sensible et morale, ne peut être réduit à un système expert. Il est légiférant dans la connaissance de la maladie en première et dernière instance. Le travail de ce logos est de mettre la maladie sous l’empire du jugement en la détachant du malade sans ne jamais nuire à ce dernier. Le malade n’est pas la maladie, seulement celle-ci l’habite dans l’espace de son corps et le temps de sa conscience. Si bien qu’elle devient pour lui une propriété, un agrégat de sa personne, et cet aspect le médecin ne peut le négliger. Il doit donner au patient les armes pour juger cette maladie en lui laissant le choix dans son traitement. Ainsi, la cognition du médecin ne peut pas se confondre avec le traitement des données et inversement. Cela signifie que pour comprendre pertinemment ce que pourrait être une relation d’efficience entre la machine et le médecin : il ne faut ni considérer le savoir médical comme une machine, L’impératif catégorique kantien présente pour la pratique médicale une dimension non réductible à l’expertise de la machine. Cette dernière ne peut satisfaire à l’exigence morale. Le respect de la singularité et de l’autonomie du patient doit avant tout passer par une reconnaissance des choix propres et le respect inconditionnel du patient et de son corps. 25


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ni rendre anthropologocentrée26 cette dernière. Ceci ne mènerait qu’à la formation d’apories. Je propose ici une mise en lumière dans le rapport de la cognition du médecin à la machine. Cette mise en lumière suppose une distinction claire entre les systèmes experts des années 1970-1980 et le big data. Bien que ces deux dispositifs établissent des continuités dans l’ordre du savoir, force est de constater que le big data se défait du fantasme de reproduire la cognition du médecin. Là où les systèmes experts tentaient de reproduire la discursivité propre au médecin dans la formulation de diagnostics et pronostics divers, le big data se détache de cette discursivité pour traiter des données au-delà des capacités cognitives de l’humain. La rapidité et les variables s’attèlent à la tache de la reconnaissance des maladies dans des modèles prédéfinis en laissant au médecin la synthèse clinique initiale ainsi que la légifération sur les résultats obtenus. Le rapport heuristique de l’homme et de la machine qui apparaît en médecine durant les années 1970, à travers l’élaboration de systèmes experts (sciences cognitives et intelligence artificielle) se fonde sur une approche conjecturale de la cognition médicale (logique bayésienne et logiques floues). En effet, comme je le mentionnais plus haut, les signes que relève le médecin face à un patient sont faillibles ; si bien que l’incertitude est activement intégrée dans la cognition du médecin. Ceci constitue un lieu commun depuis le tournant clinique. « On apprend en clinique à juger de la valeur des signes […] la prise de conscience des limites de fiabilité des signes diagnostiques est essentielle à une méthodologie médicale rigoureuse »27. Comme le met en évidence Anne Fagot-Largeault, l’attribution d’une valeur aux signes face à l’incertitude fonde ce qu’elle nomme une « heuristique conjecturale »28. Cette méthode s’oppose à « l’heuristique catégorique » des nosologies essentialistes ; elle est en cela nominaliste et intègre dans son procédé le calcul de probabilité. C’est d’ailleurs par le calcul de l’incertitude (ou Par l’adjectif néologique « anthropologocentré », je qualifie une syntaxe propre à l’humain qui ne peut se décentrer de la logique propre de ce dernier. Ce qualificatif englobe toute tentative de rendre humain le non-humain par une logique anthropocentrée – ce concept reprend l’idée de l’anthropocentrisme en y incluant le « logos » (logique). 27 A. Fagot-Largeault, « Le concept de maladie sous-jacent aux tentatives d’informatisation du diagnostic médical », dans Médecine et philosophie, Paris, P.U.F., 2010, p. 151. 28 Ibid., p. 150-151. 26


56 Mathieu Corteel de probabilité) que les sciences cognitives ont développé des systèmes experts restituant partiellement la cognition du médecin face à une maladie. Cependant cette synthèse de la cognition falsifia la cognition de l’homme et de la machine, par une volonté impérieuse de substitution. En voulant remplacer l’homme par la machine, les sciences cognitives des années 1970-1980 se sont méprises sur la spécificité de la machine et de l’homme dans le savoir médical. La formalisation de la logique bayésienne et des logiques floues dans des systèmes experts à usage médical a élaboré une aporie cognitive qui consiste à confondre les mécanismes de cognition de l’humain et de la machine. À partir de la méthode bayésienne, les sciences cognitives élaborèrent des systèmes d’aide à la décision sur le principe de l’incertitude. Ce modèle fut très présent durant les années 1980 ; il permit le développement de systèmes experts très performants dont le plus connu reste celui de l’hôpital de Leeds29. Le problème ne vient pas du système en lui-même, mais de son impact sur le raisonnement clinique. « La théorie bayésienne est ouvertement normative, en ce sens qu’elle inclut des règles de décision explicites. Sa “philosophie de la rationalité” a incontestablement, depuis une vingtaine d’années, influencé le raisonnement clinique »30. L’aspect normatif de la théorie bayésienne développe une formalisation machinique dans la cognition du médecin. Seulement, comme ces dispositifs développent des déductions probabilistes et non catégoriques, ils se doivent nécessairement de ne pas inférer avec la raison morale du médecin, qui est précisément l’instance catégorique définitive – dans la formulation Dans la ville de Leeds on développa un système d’aide à la décision dans un service de chirurgie. « Testé sur des dossiers de patients dont le diagnostic était connu, il servit d’abord à l’enseignement des étudiants. Puis il fut essayé sur des cas nouveaux : malades hospitalisés pour un syndrome abdominal aigu. Les données de l’interrogatoire et de l’examen physique étaient soumises à l’ordinateur, qui calculait la probabilité des diagnostics. Le médecin de garde prenait sa décision indépendamment de l’ordinateur. Une étude rétrospective montra que le diagnostic correct (vérifié par la chirurgie) était fait plus souvent par l’ordinateur (environ 90%) que par le clinicien le plus expérimenté (environ 80%), et a fortiori le chef de clinique (environ 70%) ou l’interne (environ 50%). Un certain nombre de personnes, qui avaient été opérées à tort, eussent évité la chirurgie si l’on s’était fié au calcul effectué par la machine. Les médecins de garde furent désormais associés au travail informatique » (ibid., p. 154). 30 Ibid., p. 152-153. 29


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du jugement. L’impératif catégorique kantien31, en tant que procédure morale, doit se substituer au calcul bayésien au moment de la prise de décision finale. La machine doit être une aide à la décision et non la décision en elle-même. Sans cette légifération de la raison morale comme dernière instance, les risques de léser la dignité du patient en raison du critère de l’efficience clinique sont importants. La machine ne doit pas aliéner la cognition médicale par la normativité propre à la méthode bayésienne. De plus, comme le met en évidence Anne Fagot-Largeault, avec ce dispositif « nul programme universel n’est en vue. Seule est transposable de Leeds à Colombes la méthode générale de raisonnement (bayésienne), qui tient en une équation. La base de données, qui fait l’efficacité diagnostique de cette méthode, est au mieux une base de données locales, constamment remise à jour. En informatique médicale aussi, la décentralisation fait son chemin »32. En cela l’on comprend que le modèle de calcul est transposable mais que les données ne le sont pas ; d’un hôpital à un autre, les manifestations d’une maladie diffèrent. « Une appendicite ne se traduit pas par les mêmes symptômes à Paris qu’à Londres, la séméiologie des maladies varie selon les populations »33. La vérité sensible du médecin est ainsi convoquée comme instance première pour manifester la singularité d’une maladie. L’ordre de composition qui s’établit par la synthèse active de l’imagination n’est pas réductible au système de reconnaissance de la machine. L’on ne peut généraliser à partir de la logique bayésienne les manifestations d’une maladie. Seul le modèle de calcul reste viable mais en seconde instance – dans l’analyse de ce qui a préalablement été perçu et schématisé. L’observation clinique est fondatrice par rapport au savoir et doit dans son approche taire les logiques pour appréhender la maladie.

Nous retenons ici la seconde formulation de l’impératif catégorique : « Agis de façon telle que tu traites l’humanité, aussi bien dans ta personne que dans toute autre, toujours en même temps comme fin, et jamais simplement comme moyen » (E. Kant, Métaphysique des mœurs, I. Fondation. Introduction, trad. fr. A. Renaut, Paris, Flammarion, 1994, p. 108) qui est d’une part la formulation autour de laquelle gravite toutes les autres et qui plus est, manifeste la spécificité humaine dans sa formulation. 32 A. Fagot-Largeault, « Le concept de maladie sous-jacent aux tentatives d’informatisation du diagnostic médical », art. cit., p. 158. 33 Ibid., p. 157. 31


58 Mathieu Corteel Le regard qui observe ne manifeste ses vertus que dans un double silence : celui, relatif, des théories, des imaginations et de tout ce qui fait obstacle à l’immédiat sensible ; et celui absolu, de tout langage qui serait antérieur à celui du visible. Sur l’épaisseur de ce double silence, les choses vues peuvent enfin être entendues, et entendues par le seul fait qu’elles sont vues34.

Cette épaisseur du silence dont parle Foucault rend bien compte de l’aspect hermétique du regard médical relativement à toute médiation (théorique, logique, synthétique, etc.) et absolument face à toute énonciation préalable de la maladie. La théorie et la logique des signes sont tues relativement, car elles se doivent de réapparaître une fois que le regard médical aura élevé au visible ce qui était enfoui dans la profondeur du corps. Quant au langage qui ne laisserait pas s’exprimer la maladie dans le visible, il faut le taire absolument. Il faut reconduire par le regard, la logique de composition d’une maladie ; parler son langage. Il y a un devenir-maladie du logos. Le médecin doit penser comme la maladie pour rendre perméable sa vision aux manifestations morbides de cette dernière. « Le regard de l’observation et les choses qu’il perçoit communiquent par un même logos qui est ici genèse des ensembles et la logique des opérations »35. Ce logos qu’entretient le médecin face à la maladie constitue l’instance inaliénable qui apporte au calcul bayésien les éléments sémiotiques relatifs à un patient précis. Comme les symptômes n’apparaissent pas nécessairement dans le même ordre ou la même composition selon les populations et les individus, il faut laisser au regard médical sa vérité sensible. La capacité dialogique (ou de neutralité) du regard médical, qui laisse la maladie s’exprimer par les symptômes sans interférer avec eux, est ce qui permet précisément le devenir-maladie du logos. Il ne faut pas rendre les manifestations morbides anthropologocentrées en leur prêtant une syntaxe humaine. Il s’agit au contraire pour le médecin de déconstruire son langage en le modulant sur la syntaxe de la maladie et la logique de composition de cette dernière par le silence. « Le regard médical s’accomplira dans sa vérité propre en silence sur elle ; si tout se tait autour de ce qu’il voit […] dans la clinique ce qui se manifeste est originairement ce qui parle »36. Il s’agit de faire parler la maladie à travers sa logique propre. M. Foucault, La naissance de la clinique, op. cit., p. 108. Ibid., p. 109. 36 Ibid., p. 108. 34 35


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En ce qui concerne les logiques floues, elles ne tendent pas par la machine à normer la logique médicale, mais bien au contraire, leur prétention est de synthétiser la cognition du médecin ainsi que la logique de composition de la maladie. En ce sens elles tendent à rendre anthropologocentrée la logique computationnelle de la machine. En effet, comme le met en évidence Anne Fagot-Largeault : « Les promoteurs de ces méthodes (logiques floues) visent explicitement à simuler la logique humaine, en inculquant aux ordinateurs un mode de raisonnement inexact, présumé être le mode de raisonnement humain habituel »37. Elle ajoute par ailleurs, que les logiques floues entendent rendre compte de la maladie par l’usage de concepts approximatifs, en ce sens la maladie prend dans la machine des allures de concept limitatif comme dans la cognition du médecin. Une maladie est l’union d’un certain nombre de symptômes (flous). La procédure diagnostique consiste à trouver à quel degré l’ensemble des symptômes du patient intersecte avec telle ou telle maladie. Les chiffres correspondent à des estimations subjectives. Les promoteurs des techniques floues espèrent montrer que les concepts approximatifs utilisés par les experts ont autant d’efficacité heuristique que les probabilités (précises, et fondées sur des données empiriques patiemment colligées) sans lesquelles les bayésiens affirment qu’on ne peut raisonner correctement38.

À partir de cette double dynamique, les promoteurs de cette méthode entendent développer une machine qui par des inférences non pas logiques mais plausibles, synthétise la logique de composition des maladies au sein de la cognition du médecin. Le système expert MYCIN39, capable de choisir l’antibiotique le plus adapté au traitement d’infection bactérienne, A. Fagot-Largeault, « Le concept de maladie sous-jacent aux tentatives d’informatisation du diagnostic médical », art. cit., p. 158. 38 Ibid., p. 158-159. 39 Ce système expert fut développé à Stanford dans le cadre de l’Heuristic Programming en 1970 par Edward Shortliffe. Il ne fut cependant jamais employé en dehors de son cadre expérimental. Son fonctionnement consiste à développer des diagnostiques sur la base d’environ six cents règles prédéfinies. À partir d’une série de questions auxquels doit répondre le patient de manière binaire (oui/non) la machine définit le traitement adéquat. Le problème fut que la machine prenait environ 30 minutes pour formuler un résultat – ce qui est un temps trop long dans la pratique clinique. 37


60 Mathieu Corteel a la particularité de prendre en compte le doute du patient lui-même sur ses propres signes ; ce que ne permet pas faire un système bayésien dont le programme est moins flexible. Le système flou a donc une capacité d’interlocution vis-à-vis du patient. De plus, son programme est « modulaire »40, ce qui lui conforte un très haut taux de compétence dans l’aide à la décision, mais aussi une capacité pédagogique non négligeable. « En fait, MYCIN a été doté d’un système pédagogique auxiliaire (GUIDON) qui utilise la compétence de MYCIN pour guider l’apprentissage du raisonnement clinique, en ajustant ses objectifs au niveau de l’étudiant ; pour ce système, le « bon » diagnostic est celui que donne MYCIN »41. Ce système expert très performant est un outil intéressant mais ne peut en aucun cas se substituer à la cognition du médecin qui mêle de manière inconditionnelle, perception et inférence. Le problème de ce genre de systèmes experts est qu’il mêle confusément la reconnaissance de signes avec le raisonnement médical. Seulement, dans l’observation clinique « l’opération essentielle n’est plus l’ordre de la combinatoire, mais l’ordre de la transcription syntactique »42. Confondre la combinatoire (même floue) avec cette transcription est ce qui fait que ce genre de système ne parvient pas à se rendre dialogique face à la maladie. Il l’anticipe et la préconçoit inévitablement. C’est donc pour cela qu’il ne peut être efficient par exemple face à des maladies rares. En cela, le regard médical reste toujours l’instance fondatrice dans l’appréhension d’une maladie et la raison morale du médecin l’instance législatrice dans le savoir. Comme l’écrit Anne Fagot-Largeault : La logique des raisonnements médicaux a fait l’objet de nombreuses et passionnantes études au cours des années 1970, lorsqu’on en espérait une possible informatisation du diagnostic ou, du moins, une aide de l’ordinateur à la décision. Le rêve de remplacer le médecin par un système expert s’étant estompé, l’assistance informatique au jugement médical s’est ensuite déplacée vers l’imagerie et le vers le stockage d’informations43. « Qui permet de modifier une règle, ou d’ajouter un module, sans bouleverser l’ensemble du programme » (A. Fagot-Largeault, « Le concept de maladie sous-jacent aux tentatives d’informatisation du diagnostic médical », art. cit., p. 161). 41 Ibid., p. 160. 42 M. Foucault, La naissance de la clinique, op. cit., p. 117. 43 A. Fagot-Largeault, « Calcul des chances et diagnostic médical », dans Médecine et philosophie, op. cit., p. 36. 40


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Ces tentatives d’informatisation du jugement médical sont toutefois très intéressantes car elles mettent en évidence l’aspect inaliénable de la cognition du médecin. De ce fait, mettre au jour les limites de ces systèmes constitue un des aspects important de l’archéologie du savoir en médical, car ceci permet de comprendre les développements récents du big data en médecine qui constitue une alternative à ces systèmes. En effet, le big data n’est ni normatif ni anthropologocentré. Il fait l’économie de ce projet de substitution. Il ne tend pas à formater le jugement du médecin et encore moins à prendre la forme de ce dernier. Il s’agit avant tout d’un dispositif de stockage et d’imagerie, et non d’un système expert entendant remplacer le médecin dans sa pratique. Le calcul itératif des algorithmes permet d’intégrer au savoir médical un grand nombre de données passées sous le schème de l’imagerie numérique. Ce que le big data a de spécifique par rapport à l’ensemble des systèmes experts, c’est qu’il tend à particulariser le pronostic par une accumulation massive de données hétérogènes. Par exemple, en bioinformatique, le big data permet le profilage des gènes par une classification dynamique des données génétiques en microcatégorie (microarray). Ceci favorise une classification plus précise des cancers et des leucémies, et donc permet une particularisation des traitements pour les patients44. Au niveau clinique, son application permet aussi une meilleure organisation de certains services hospitaliers. L’algorithme APACHE II, déjà utilisé dans plusieurs hôpitaux, permet par exemple de calculer à partir d’une modélisation des données du patient et de l’hôpital, les probabilités de réadmission et de mortalité d’un patient en unité de soins intensifs. Ce calcul prédictif prévient le risque de laisser repartir un patient trop tôt en régulant le séjour de ce dernier dans l’unité selon sa spécificité propre et la gravité de sa pathologie. Cet usage permet d’assurer une efficience et une synergie plus grande du service, en offrant une particularisation du traitement45. L’algorithme VFDT (Very Fast Decision Tree) permet quant à lui d’établir un autre type d’usage clinique du big data, par une gestion en temps réel des données des patients ayant M. Herland, T.M. Khoshgoftaar et R. Wald, « A Review of Data Mining Using Big Data in Health Informatics », Journal Of Big Data, vol. 1, n° 2, 2014, in <http://www. journalofbigdata.com/content/1/1/2> (consulté le 6 août 2017), p. 8. 45 A.J. Campbell, J.A. Cook, G. Adey et B.H. Cuthbertson, « Predicting Death and Readmission after Intensive Care Discharge », British Journal of Anesthesia, vol. 100, n° 5, p. 656-662. 44


62 Mathieu Corteel une maladie non transmissible (diabète, maladie cardio-vasculaire, etc.). Il favorise un pronostic particularisé par la transmission et le traitement des données du patient en temps réel. Ceci ne substitue pas le corps individuel du patient par des données, et encore moins le regard du médecin par la machine46. Bien que les résultats se basant sur les données numériques des patients permettent d’anticiper le développement de certaines maladies avant même l’apparition de certains symptômes ; il est faux de croire que ces machines découvrent quoi que ce soit de nouveau. Les maladies rares et orphelines leurs échappent quoi qu’il arrive. En cela, la suppléance du big data dépasse l’écueil de la substitution, car ici ce qui importe ce n’est pas de développer un dispositif médical qui ferait l’économie du médecin, mais au contraire de faciliter sa pratique par une meilleure organisation des services et un meilleur traitement de données. La vérité sensible de la maladie que perçoit le médecin reste l’instance fondatrice – il faut passer du symptôme à la donnée. Quant à l’impératif moral, il reste l’instance légiférante dans le jugement face à la maladie. Leur accommodement à la machine qui traite les données est ce qui permettra l’évolution de la médecine dans les années à venir. Je ne pense pas en cela que la médecine contemporaine développe dans ce rapport à la machine « une mort de la clinique ». Le travail de recherche est toujours entretenu dans un lien à la cognition du médecin dans le rapport sémiotique et sémantique vis-à-vis du malade. L’EBM (evidence based medicine) – qui se trouve être aujourd’hui le protocole de la recherche médicale – laisse une place importante à la cognition du médecin et au rapport clinique. Le médecin restitue l’ordre de composition des pathologies par son regard qu’il confronte aux données de la recherche, c’est-à-dire, à la littérature médicales (articles). Bien évidemment les données de la recherche sont définies par la combinatoire de la machine. L’épistémé qui parcourt le discours médical contemporain est computationnelle. Seulement, le geste épistémique qui replace l’individualité du patient dans La vision technophobe développée sur la base du Post-scriptum sur les sociétés de contrôle écrit par Deleuze en 1990 (G. Deleuze, Pourparlers, Paris, Éditions de Minuit, 1990, p. 240-247), est une réaction vis à vis des systèmes experts mais ne peut porter sur le big data, qui particularise le diagnostic en ne réduisant pas le patient à des données et le médecin à une machine. « Dans le régime des hôpitaux : la nouvelle médecine « sans médecin ni malade » qui dégage des malades potentiels et des sujets à risque, qui ne témoigne nullement d’un progrès vers l’individuation, comme on le dit, mais substitue au corps individuel ou numérique le chiffre d’une matière « dividuelle » à contrôler » (ibid., p. 247). 46


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l’ordre du discours reste celui du praticien dans le rapport au malade. Les décisions s’établissent toujours dans le concours de l’expérience clinique, des données de la recherche (littérature médicale) et de la préférence du patient. La capacité du médecin à confronter ses observations avec les données de la recherche nécessite bien évidemment l’outil informatique, seulement, l’instance légiférante au niveau du savoir reste le médecin. Quant à la prise de décision thérapeutique, elle ne peut s’initier qu’à partir du dialogue entre le médecin et le malade. Par ailleurs, la perspective critique de Nancy Cartwright47 à l’endroit des essais cliniques randomisés (Randomized control trial) pourrait être dépassée par le big data. Le biais qu’elle met en évidence dans l’échantillonnage de données et la causalité pourrait être dépassé par la bioinformatique translationnelle qui, dans une perspective exhaustive, entend développer une combinatoire à partir de la multiplicité hétérogène des données dans une approche non-causale. Les preuves – dans le projet de développement du big data – entendent dépasser l’échantillonnage des données en élaborant une perspective synoptique qui dépasse les catégories génériques qui excluent des groupes de participation minoritaires aux essais cliniques (femme, enfant, personnes âgées, etc.). Les preuves tendent ainsi à dépasser l’exclusion des populations minoritaires. De plus, la combinatoire qui s’établit à partir du calcul bayésien et floue, dépasse dans l’algorithme le schème causal humain à partir de la capacité de calcul de la machine. L’avancée actuelle de ce dispositif dans le domaine médical n’étant encore qu’à l’état embryonnaire, je me permets de reléguer ce point à un statut hypothétique. Conclusion Le nominalisme de la médecine contemporaine qui se développe au travers du big data, s’établit dans une corrélation du savoir entre trois étants qui se recoupent autour d’une substance étrangère qu’est la maladie. Le praticien, le malade et la machine, gravitent autour de la maladie pour fonder un savoir ouvert sur ses manifestations et son mode d’existence propre. La N. Cartwright, « Evidence-Based Policy. What’s to Be Done about Relevance », Philosophical Studies, vol. 143, n° 1, 2009, p. 127-136. 47


64 Mathieu Corteel maladie qui échappe toujours à son énonciation parle un langage étranger à la syntaxe anthropologique, et par ce fait impose un silence théorique au praticien. Il faut laisser parler les symptômes et progressivement se défaire du patient – le mettre entre parenthèses – pour laisser le corps exprimer la maladie. Par suite, le savoir médical réapparaît, il éclaire un parchemin organique en établissant le corps comme support linguistique pour fonder le diagnostic. C’est à partir de ce support de chair et d’os qu’il entre en communication avec la maladie. Le support linguistique du corps permet d’appréhender la dynamique morbide en propre au travers de signes qui, apparaissant et disparaissant, laissent transparaître dans l’incertain, la fréquence et le schème numérique. À partir de cette numérisation, le calcul machinique – à un niveau transcendantal – apporte les éléments du pronostic. Le médecin légiférant doit encore une fois moduler son langage sur un support autre. Cette fois il s’agit de la machine. Le support numérique se doit d’être un outil qui aide à sa décision, et aujourd’hui l’on ne peut en faire l’économie. Le médecin doit donc parler un langage de machine. Le développement du savoir médical en dépend, seulement la dernière instance de ce savoir reste le médecin, qui recouvre sa langue première pour s’ouvrir au patient. Le médecin retire au savoir les parenthèses qu’il avait mises sur le patient, pour le considérer comme une fin et éclairer son jugement dans la dignité. Le nominalisme de la médecine s’établit donc sur trois langues étrangères, celle de la maladie par le support du corps, celle de la machine par un support numérique et enfin celle du médecin face au malade dont le support est la conscience humaine. Cette gravitation autour de la maladie impose une approche sur divers supports hétérogènes qui chacun à sa manière nominalise le savoir. Comme nous l’avons vu au niveau de l’observation des symptômes, le langage se tait pour écouter les manifestations morbides dans une langue étrangère toujours sensible aux variations. Le corps est une singularité pour chaque maladie ; il est l’herméneutique de la maladie. Quant au niveau transcendantal du calcul itératif, les ontologies sémantiques ne sont que des outils numériques qui permettent l’organisation de concept sans pour autant prétendre à une réalité propre. La complexité dans laquelle ces ontologies s’établissent, tend avec une prétention limitée, à manifester la complexité de la maladie, en reconnaissant sous des modèles, la logique de composition de cette dernière. Le support numérique développe une apophantique formelle aidant au jugement par la preuve. Enfin le support


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de la conscience humaine, lui aussi apophantique, élève le jugement à un niveau moral et décisionnel. Cette logique de composition nominale déconstruit le sujet et dépasse l’épistémé moderne de la finitude humaine. Car dans ce procédé, même la dernière instance – celle de la raison humaine – n’est pas unitaire mais multiple. Il ne s’agit pas ici de dialectique mais d’une énaction entre la machine et l’humain. La finitude de la cognition humaine s’attèle à d’autres supports qui l’excèdent, et, lui permettent une ouverture de son savoir dans la reconnaissance des multiples masques de la maladie. Le théâtre morbide de la maladie, devient plurivoque. Le médecin parle en lui plusieurs langues, et développe des rapports multiples à la maladie en la différenciant du malade. Il voit le Même se conjuguer dans la répétition des signes et la différence dans la normativité du patient. Et quand il s’adresse à ce dernier, il invoque un humain complexe qui ne se réduit pas à son état actuel de malade. Être malade est un mode d’existence précis, mais le patient dépasse ce simple mode d’existence. Il est toujours l’autre de sa maladie. Son existence ne s’épuise pas dans le savoir singulier de sa maladie. De plus, le numérique accentue cette complexité en se défaisant de l’antropologocentrisme. La complexité de la maladie traduite dans un support numérique échappe à la subjectivité humaine et à son langage. En cela une archéologie du savoir de type foucaldien se doit, vis-à-vis du big data, de comprendre cette rupture dans le savoir médical. La maladie est étrangère, la machine l’est tout autant. Faire de ces deux entités le miroir de l’homme constitue une erreur qu’il faut à tout prix éviter pour comprendre le savoir médical contemporain. Ceci nécessite une approche qui ne soit pas tributaire d’une anthropologie moderne. Il faut replacer le savoir médical dans l’ordre de la continuité et de la discontinuité de l’épistémé computationnelle qui dépasse l’épistémé moderne. L’archéologie du big data se doit de mettre au jour le tournant discursif qui s’inscrit dans le savoir médical à partir du nominalisme de la clinique. Le calcul de l’incertitude qui parcourt la formation de diagnostics et pronostics divers à partir du XIXe siècle, fait émerger une épistémé computationnelle dans le savoir médical. Il s’agit à partir de cela de voir comment le discours probabilitaire va établir une distanciation entre les mots et les choses pour progressivement atteindre une autonomie narrative. À la question de « qui parle ? » le big data répondra « les données ». Les flexions dans le discours médical nous


66 Mathieu Corteel invitent – par le développement du discours probabilitaire – à comprendre comment la place de la finitude de la cognition humaine va laisser place à la computation dans le jeu incessant de la combinatoire. La discursivité médicale tend depuis le XIXe siècle vers une mort de l’homme dans la connaissance de la maladie. Seulement, elle retourne dans un rapport clinique – mêlé d’éthique et de morale – à la légifération humaine. Le savoir médical porte le poids axiologique de l’humain alors que « l’homme s’effacerait, comme à la limite de la mer un visage de sable »48. L’approche épistémologique s’adjoint ainsi nécessairement à un rapport complexe qui ne peut pas faire l’économie des valeurs de l’ars medicinae. Sans quoi, l’on proclamerait une « mort de la clinique »49. La parole serait remplacée par les mots d’ordre de l’ordinateur. L’ordre du discours médical devenu numérique proclamerait un éloignement progressif du malade et du praticien, en privilégiant la relation épistémique de la machine et de la maladie. Cette hypothèse recouvre davantage le fantasme technologique des technophobes, qu’une réalité actuelle. Le regard médical ouvert au schème numérique n’épuise pas sa capacité herméneutique dans les données. Il ouvre son champ de perception à un plan synoptique et dynamique qui dépasse la simple observation. Je me refuse cependant de parler de progrès. Car, la médecine restera quoi qu’il arrive un savoir fragile mais nécessaire dont l’objet fuyant qu’elle aborde l’excède ontologiquement. La maladie – étant un système de relation et non une entité – s’adaptera toujours aux modalités du savoir pour tromper le regard. Au même titre qu’il y a un a priori historique qui parcourt les discours médicaux dans le lien du visible et de l’invisible ; il y a un a priori historique de la maladie. Comme l’a montré Mirko Drazen Grmek à partir du concept de « pathocènose », il y a à travers l’histoire des transformations de la maladie. Ainsi « au Néolithique supérieur, avec le passage au mode de vie sédentaire ; au Moyen Âge avec les migrations des peuples venant d’Asie ; à la Renaissance, avec la découverte de l’Amérique ; et enfin, à notre époque, avec l’unification mondiale du pool des germes pathogènes et avec la chute M. Foucault, Les mots et la choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966, p. 398. 49 D. Couturier, G. David, D. Lecourt, J.D. Sraer et C. Sureau (dir.), La mort de la clinique ?, Paris, P.U.F., 2009. 48


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spectaculaire de la plupart des maladies infectieuses »50 la pathocènose se modifie. Nous influençons la mutation des maladies dans le mouvement de nos sociétés et de notre savoir au même titre que ces dernières initient des changements sociétaux. Le rapport externe des maladies s’établit dans un double jeu dont les règles nous échappent. Les découvertes de Pasteur dans le domaine de la bactériologie initient l’hygiénisme des sociétés occidentales et font disparaître les maladies infectieuses. Seulement, les sociétés se transforment et les maladies mutent. Le monde actuel et le mouvement incessant de populations travaillent la pathocènose au même titre que cette dernière travail les politiques sanitaires. Le virus s’adapte et nous sommes un facteur de son adaptation. La pharmaceutique le fait muter dans la dynamique sanitaire de son traitement. L’émergence du big data qui renforce la médecine prédictive par la vaccination et le traitement a priori des agents pathogènes verra sans aucun doute naître des maladies qui échappent à sa perspective synoptique. En cela le regard clinique réaffirme son lien nécessaire à la maladie. Parler le langage morbide nécessite la poétique sémiotique et sémantique de l’œil, du corps et de l’algorithme. Seulement, l’étrangeté de la maladie faussera inlassablement nos traductions. L’herméneutique médicale sera toujours excédée par l’ontologie de la maladie. Mathieu Corteel Université Paris-Sorbonne mathieu.corteel@paris-sorbonne.fr . Nominalism in Contemporary Medicine. Elements for an Archaeology of Big Data in Medicine This article aims to describe the organization of contemporary medical knowledge and in particular, relying on Foucault’s The Birth of the Clinic, the epistemological continuity between this knowledge and the medical knowledge of the 19th century. The calculation of probability which emerges from the clinical incertitude founds a computational episteme that is present, today, in the M.D. Grmek, « Le sida est-il une maladie nouvelle ? », Médecine et maladies infectieuses, 1988, p. 579. 50


68 Mathieu Corteel discourse on diseases. Medical knowledge establishes – between the machine, the physician and the patient – a synoptic perspective on the disease which, through a narrative detachment, tends to prevent the development of diseases thanks to the collect of digital data that show the invisible of the disease by relying less and less on its visible morbid manifestations (symptoms). However, the physician remains the first and last authority within the order of medical knowledge; in order to translate the ineffable language of the disease, he only has to combine his own cognition and the computation of the machine. Thus, big data seems to announce not so much the “death of the clinic” than the obliteration of the anthropological theme in the computational metaphor. Keywords: Medicine, Clinic, Semiotics, Semantics, Big Data, Disease, Foucault.


Foucault e il governo del giudiziario Gianvito Brindisi

L’intenzione affidata alle pagine che seguono è quella di offrire qualche

spunto di riflessione intorno alla critica foucaultiana della sfera giudiziaria, linea di ricerca spesso trascurata sia perché oscurata da temi di maggior effetto ricadenti nel medesimo alveo, sia a causa della solo recente pubblicazione di numerosi corsi e conferenze decisivi per la sua messa a fuoco ma rimasti appunto per lungo tempo inediti. È infatti nostra convinzione che Foucault abbia svolto una linea di critica del giudizio che pur non offrendosi nella sua produzione complessiva in un’elaborazione compiuta – ciò che la recente pubblicazione di Théories et institutions pénales smentisce solo in parte –, può tuttavia essere ricostruita, come risulta chiaramente già quando si ricordi la definizione foucaultiana dell’obiettivo di Sorvegliare e punire, ossia svolgere una «storia delle correlazioni tra l’anima moderna e il nuovo potere di giudicare»1, o la sua dichiarazione relativa all’impossibilità di tracciare una storia della soggettività in Occidente senza prima analizzare la relazione esistente tra direvrai e juger nel processo penale2. Due luoghi testuali, questi ultimi, nei quali l’intenzione foucaultiana è piuttosto esplicita, ma che non devono oscurarne numerosi altri che rivestono un ruolo decisivo nell’intero arco della sua riflessione3, concorrendo ad articolare un’analisi di grande complessità di cui non è possibile in questa sede dare conto in modo esauriente, e in relazione alla quale ci limiteremo pertanto a svolgere alcune considerazioni che speriamo possano restituire il valore di diverse intuizioni foucaultiane M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1995, p. 26 (trad. mod., nella misura in cui il traduttore italiano ha reso «histoire corrélative de l’âme moderne et d’un nouveau pouvoir de juger» con «storia delle correlazioni tra l’anima moderna e il nuovo potere di punire»). 2 Cfr. M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981), trad. it. di V. Zini, Einaudi, Torino 2013, p. 10. 3 Sia sufficiente il riferimento a M. Foucault La verità e le forme giuridiche, trad. it. di L. D’Alessandro, La Città del Sole, Napoli 2008, o a Id., Théories et institutions pénales. Cours au Collège de France. 1971-1972, a cura di B.E. Harcourt, Gallimard-Seuil, Paris 2015. 1

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 69-84.


70 Gianvito Brindisi – non suscettibili di totalizzazione – per la nostra attualità. Non prima di aver rilevato, però, come del peso rivestito dalla linea di ricerca in esame nel pensiero di Foucault possa rintracciarsi un indice nel lavoro di alcuni dei suoi più stretti collaboratori – sebbene solo parziale, non potendosi certo attribuire, alle opzioni di ricerca degli uni, significato dimostrativo dell’interesse dell’altro –, nella misura in cui, appunto, essi ne hanno riconosciuta l’importanza ora in termini tanto relativi, ossia all’interno dell’opera foucaultiana, quanto assoluti – come François Ewald e Alessandro Fontana, il primo elaborando una riflessione attorno alla regola di giudizio, e il secondo adottandone la postura metodologica nei suoi studi sulla nascita dell’istruttoria –, ora in termini esclusivamente assoluti, qual è il caso di Blandine Kriegel e Pasquale Pasquino4. Ciò premesso, va ricordato innanzitutto e molto sinteticamente che questa linea foucaultiana di ricerca si è concretizzata nell’elaborazione di una serie di analisi che riconoscono ai modi di giudizio e ai regimi probatori una funzione costitutiva di processi di oggettivazione e di soggettivazione, mostrando ad esempio come essi abbiano contribuito alla formazione dei soggetti di conoscenza, o come rappresentino una sorta di binario di scambio e di canale di intensificazione tra rapporti di potere, spostamento di ricchezza e forme di verità, o ancora come configurino, integrando regimi di veridizione e tecnologie di trasformazione del soggetto, alcune delle principali pratiche tendenti a legare l’individuo all’enunciazione della Nel folto numero di contributi dedicati da Ewald al rapporto tra Foucault e il diritto analizzato sotto molteplici punti di vista si ricordino almeno, per la loro maggiore attinenza al tema in questione: F. Ewald, Justice, égalité, jugement, in «Cahiers de philosophie politique et juridique», n. 8 (1985), pp. 219-244; Id., Pour un positivisme critique: Michel Foucault et la philosophie du droit, in «Droits», n. 3 (1986), pp. 137-142; Id., Une expérience foucaldienne: les principes généraux du droit, in «Critique», nn. 471-472 (1986), pp. 788-793; nonché Id., L’État providence, Grasset, Paris 1986, dove le idee espresse nei saggi precedentemente richiamati trovano un’articolazione complessiva in direzione dell’antiformalismo. Di A. Fontana si vedano Il vizio occulto: nascita dell’istruttoria, in «aut aut», n. 195-196 (1983), pp. 133-163; Id., Le piccole verità. L’aurora della razionalità moderna, in «aut aut», n. 216 (1986), pp. 93-122; Id., Polizia dell’anima. Voci per una genealogia della psicanalisi, Ponte alle Grazie, Firenze 1990. Di B. Kriegel si veda Réflexions sur la justice, Plon, Paris 2001, mentre di P. Pasquino si ricordino, tra gli altri, L’origine du contrôle de constitutionnalité en Italie. Les débats de l’Assemblée Constituante (1946-1947), in «Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico», vol. 56 (2006), n. 1, pp. 1-12, e Id., Judicial Power and Representative Democracy, in O. Erguel (a cura di), Democracy and the Judiciary. Symposium of the Union of Turkish Bar Association, Ankara 2006, pp. 61-66. 4


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verità. All’interno di questa serie di analisi è di certo ravvisabile un nucleo metodologico costante suscettibile di essere applicato tanto alla morale quanto al diritto, inquadrati da Foucault non nel loro elemento formale, né nella loro effettività in relazione ai comportamenti, bensì nella loro dimensione tecnologica e strategica in relazione ai processi di soggettivazione. I codici, i valori non dicono nulla, infatti, dei modi in cui devono essere praticati, elaborati o realizzati e, quando pure restino gli stessi nel tempo, la loro concretizzazione sarà sempre dipendente dalle modalità di articolazione degli elementi che costituiscono il come dell’esperienza morale e giuridica – che Foucault specificherà nell’introduzione metodologica a L’uso dei piaceri –, vale a dire delle sostanze etiche, dei modi di assoggettamento, delle tecniche e infine dei teloi, ciò che può valere anche per le analisi della penalità svolte in Sorvegliare e punire, in relazione al rapporto tra elementi di codice, tecnologie morali e di potere e oggetti di giudizio5. Ad ogni modo, questo insieme eterogeneo di concetti si inserisce nella dimensione più pratica del pensiero foucaultiano, nel suo implicare la messa in discussione di forme di esperienza. Basti pensare all’uso del concetto di tecnologia, nella misura in cui le tecnologie (morali, di potere, politiche, del corpo, di verità, del sé, etc.) sono per Foucault matrici di ragion pratica6 e sono dotate di un valore non ontologico, ma genealogico e strategico, essendo oggetto di spostamenti e di riutilizzazioni che conferiscono loro una portata ogni volta differente all’interno dei sistemi in cui sono utilizzate7. Le condizioni che, in un dato momento storico, rendono tale o tal Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 19-27, e Id., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 30-37. 6 M. Foucault, Tecnologie del sé, a cura di L. H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton, trad. it. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 13. 7 Si tratta di un impianto assai ricorrente in Foucault, e comprensivo, oltre che del già richiamato rapporto tra codici morali o giuridici e processi di assoggettamento/soggettivazione in relazione alle tecnologie di potere o del sé, del rapporto tra le tecniche punitive e i sistemi in cui sono utilizzate (come in M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, Gallimard-Seuil, Paris 2013, pp. 8-16), del rapporto tra stato e tecnologie e rapporti di potere, o tra rivoluzione e resistenza (come in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 16-17; al riguardo cfr. V. Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi, Roma 2008, p. 73), nonché, risalendo più indietro, del rapporto di uno stesso spazio con i sistemi in cui esso è utilizzato (come in M. Foucault, Eterotopie, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 307-316). 5


72 Gianvito Brindisi altra pratica socialmente accettabile, legittima, costituiscono per Foucault un campo autonomo di ricerche in virtù della loro regolarità, della loro «ragione», termine che non indica per Foucault il fondamento intemporale di un fenomeno, ma per l’appunto la strategia, da intendersi come ragion d’essere dei mutamenti fenomenici. Il discorso foucaultiano, insomma, è in grado di configurare un metodo che permette di analizzare la storia morale e quella giudiziaria in un campo in cui giocano elementi tecnologici, strategici, economici ed epistemologici, nonché procedure di oggettivazione e di soggettivazione che si relazionano ai codici e producono effetti drammatici sulla costituzione della soggettività. E a voler individuare la specificità delle analisi foucaultiane all’interno del campo giuridico, essa, crediamo, potrebbe riconoscersi nell’analisi di ciò che può definirsi la continua produzione e ridefinizione del giudiziabile, vale a dire delle ridefinizioni o dei ritagli storici degli oggetti di giudizio e dei soggetti di conoscenza, e dunque del divenire delle forme del giudizio nel campo più generale dell’economia delle relazioni di potere. Ma se quanto detto è perlomeno ragionevole, allora una lettura foucaultiana delle forme di razionalità giudiziaria non può che intendere il contesto giudiziario come una cartina di tornasole per la lettura dei rapporti di potere, dei giochi di verità e delle forme di soggettività, e lo spazio del processo come uno dei luoghi in cui si decide il gioco strategico che può preludere a una riarticolazione di un regime di verità, come uno degli spazi in cui si formano strategicamente le categorie costitutive delle nostre forme di esperienza, i differenti dire-vrai per il tramite dei quali gli uomini si governano. È però opportuno, a questo punto, ritornare su quel governo del giudiziario scelto come titolo del nostro intervento per specificare come il genitivo qui impiegato vada inteso in senso esclusivamente soggettivo, vale a dire come capacità del giudiziario di governare, assumendo il concetto di governo in modo semanticamente ampio. Nelle sue analisi Foucault ha infatti spesso descritto, pur non esprimendosi mai in questi esatti termini, quella che potremmo definire una forma di “governo dei giudici”, sebbene in un’accezione diversa da quella maggioritaria e dunque ben più diffusa, intorno alla quale si è sviluppato un largo dibattito che Foucault di certo conosceva, ma sul quale non si è mai pronunciato. Un simile “disinteresse” è legato probabilmente alla natura politica e polemica di questo dibattito, articolato sostanzialmente intorno al problema di quelle che Foucault defi-


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niva architetture costituzionali, nonché alla serenità con cui Foucault accoglieva l’idea che i giudici “governassero”. Mentre lo scandalo diffusamente connesso alla locuzione “governo dei giudici” discende dalla rappresentazione della giustizia come emanazione della sovranità statuale, di contro dunque alla sterilizzazione del potere giudiziario dovuta alla sua funzione, al livello della sua legittimazione, di esecutore del comando legislativo – scandalo, ad esempio, di chi postulava la razionalità o la naturale limitatezza dei parlamenti –, Foucault ha pensato infatti la giurisdizione in una storia di lungo periodo nelle sue continuità e discontinuità, concentrandosi non sulla sua autonomia relativa, ma sul rapporto da essa intrattenuto con altri poteri e saperi e nella sua funzione costituente. All’interrogazione sul modo in cui la giustizia viene praticata propria delle teorie dell’interpretazione, che mostrando come il giudice giudica, o come dovrebbe farlo, conducono, come ha mostrato efficacemente Mauro Barberis, all’accettazione di un dato di fatto inevitabile, ossia alla necessità per il giudice di creare diritto8, possiamo accostare un’interrogazione sui poteri con cui è in rapporto, sui saperi che essa usa, su come li usa e sulle forme di soggettività che produce, essendo questi gli indici della politicità della funzione, inserita in un quadro governamentale in cui il giudice svolge un ruolo non tanto suppletivo e contingente rispetto al politico, quanto costitutivo rispetto al sociale. È per tale ragione che anche il momento più prettamente esegetico di intendimento dell’interpretazione giuridica, quello in cui la si è voluta pensare come automatica e meccanica – momento di singolare coincidenza tra statalizzazione della giustizia e orizzonte disciplinare –, non è affatto inteso da Foucault come svincolato dalla contaminazione con altri poteri e saperi, nella misura in cui il diritto si è aperto alla sua concretizzazione per opera di concetti nati altrove, ad esempio nell’intersezione tra diritto e medicina, in funzione di un governo del sociale realizzantesi mediante la partizione tra il normale e il patologico. Sin dal XIX secolo il potere giudiziario non ha mai funzionato esclusivamente in relazione ai codici legali, essendo integrato da quel potere-sapere disciplinare che lo ha rifunzionalizzato rispetto al sapere ridefinendone gli oggetti di giudizio. E proprio nella sfera penale, dove il principio di legalità gioca un ruolo considerevole, il giudizio giuridico, aprendosi alla discorsività psichiatrica, M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 2004, p. 1. 8


74 Gianvito Brindisi ha prodotto la credenza nella capacità della perizia di determinare l’esatta misura a partire dalla quale ritenere legittimo punire ed essere puniti. L’istituzione giudiziaria, diceva Foucault, è andata così integrandosi «sempre di più ad un continuum di apparati (medici, amministrativi, ecc.), le cui funzioni sono soprattutto regolatrici»9, e si è data «il compito di vegliare su una popolazione piuttosto che di rispettare dei soggetti di diritto»10. Ad ogni modo, e coerentemente con la rappresentazione di cui sopra, si tende attualmente a ritenere da più parti che questo dibattito di lunga data abbia perso mordente, come se, venuta meno l’influenza (tendenzialmente) esclusiva dello stato, e dunque in parallelo al venir meno della legge come istanza regolativa della società, la giurisprudenza in generale potesse ambire nuovamente ad articolare un diritto in presa diretta con la realtà sociale, e la giurisdizione, costituzionale in particolar modo, si riscoprisse come “naturale” depositaria della custodia del governo della società11. D’altra parte, però, a questo stesso dibattito sono ancora in molti a dare seguito, in ragione del nuovo quadro costituzionale, sovranazionale e internazionale in cui si muovono i nostri ordinamenti, caratterizzato da nuove forme di pluralismo giurisdizionale e paragiurisdizionale: posizione che riteniamo senz’altro condivisibile, alla luce dell’opportunità di indagare in che misura, in questo quadro così rinnovato, sorgano nuovi problemi relativi non solo alla (carenza di) legittimazione democratica dei giudici, ma alle loro modalità di “governo”, come è vero che oggi la giurisdizione funziona al di là dei quadri dello stato ed è in cerca di nuove forme di legittimazione, le quali rischiano però di elidere la portata politica, in senso lato, del fenomeno. Ma al di là di tale prospettiva, crediamo, l’apporto di Foucault può rivelarsi fondamentale sia per riscrivere la storia di questo dibattito e per leggere in modo diverso il quadro attuale, sia e soprattutto perché capace di mostrare come il governo dei giudici non abbia riguardato e non riguardi esclusivamente M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2003, p. 128. 10 M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento, in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, trad. it. di A.L. Carbone e A. Inzerillo, Duepunti Edizioni, Palermo 2009, p. 117. 11 Maurizio Fioravanti ha ad esempio sostenuto che il lavoro delle Corti Costituzionali va pensato come attività di governo nel suo concorrere a «tenere unita una comunità politica composita» (M. Fioravanti, Costituzionalismo e positivismo giuridico, in «Politica & Società», n. 1 (2009), p. 27). 9


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le architetture legali o la sfera costituzionale, bensì la giustizia ordinaria nel suo essere iscritta in un quadro generale di potere. In altri termini, la fase epocale che i nostri sistemi sociali starebbero attraversando, caratterizzata da un notevole aumento delle funzioni giudiziarie, è suscettibile di essere letta da un lato nel divenire sempre più incerto del confine tra legislazione, giurisdizione e amministrazione, da un altro come un superamento, su vari fronti – dall’alto (ad es. giustizia internazionale ma in particolar modo sovranazionale, comunque non fondata su una forma di sovranità) e dal “basso” (ad es. giustizia arbitrale)12 – del modello tradizionale di giustizia, il quale denegava la sua funzione differenziale, e da un altro ancora attraverso una storia della giustizia che non guardi solo allo sviluppo interno di apparati, metodi e concetti, bensì anche al suo rapporto con altri saperi e poteri concorrenti alla definizione della meccanica sociale e di una forma di razionalità politica più comprensiva, se si vuole, di un certo assetto di potere. Come anticipato, l’attuale ordinamento giuridico, plurale e sganciato dalla sovranità e da un quadro monistico, ci pone di fronte a un nuovo pluralismo giudiziario, un pluralismo in cui emergono sempre più prepotentemente conflitti tra giurisdizioni di vario ordine e grado non ascrivibili a un’unica gerarchia. Si pone pertanto il problema della legittimazione di un giudice che non dipende più dalla legge, dunque dallo stato, e se ciò impedisce di certo una nuova fondazione aprioristica e meccanica del giudizio giuridico e relega in secondo piano l’interesse ad allentare l’incatenamento del giudice alla legge, è però ancora molto difficile comprendere come possa realizzarsi un’oggettività del giudizio, nei termini di Ewald, anche in funzione della limitazione del potere nel sistema politico complessivo13. Come ha mostrato Nicola Picardi, lo stato e la rappresentazione a esso legata della giurisdizione come funzione della sovranità e soggetta a una logica deduttiva o informativa appaiono ora come una breve parentesi nella lunga storia delle istituzioni giudiziarie, non «creazioni arbitrarie» ma «risultato della razionalità umana e delle circostanze particolari nelle quali essa opera in concreto»14, nonché della sua struttura comunicativa. SebbeCfr. N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè, Milano 2007, pp. 13-14. 13 Si veda ad esempio il lavoro di G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of Law e la governance globale, Il Mulino, Bologna 2012. 14 N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, cit., p. 15. 12


76 Gianvito Brindisi ne lo stesso Foucault nel 1972 proponesse una concezione della statalizzazione del diritto e della procedura come confisca delle forme bellicose di giustizia feudali, non per questo intendeva significare che l’apparato statuale non avesse innescato poi una nuova differenziazione sociale di ordine ugualmente bellicoso. Proprio nel quadro del suo monopolio statuale la giurisdizione – una giurisdizione marchiata dunque dalla sovranità – si è contaminata con processi già allora transnazionali come la costituzione del capitalismo e l’orizzonte disciplinare, letti da Foucault in una logica bellicosa. È per queste ragioni che presentare la giurisdizione come oramai libera dal temporaneo sequestro statuale del diritto e della procedura può risultare, in una prospettiva foucaultiana, un’operazione di riduzionismo analogo a quello statuale. Più che esaltare la funzione della giurisprudenza in un quadro pluralistico, o la logica comunicativa e il suo superamento della logica deduttiva e informativa del processo statualmente inteso, Foucault esalterebbe la logica bellicosa del processo e delle azioni giudiziarie, in forza di una concezione del processo per nulla irenica, ma appunto conflittuale. Da qui la difficoltà di ricondurre la posizione foucaultiana a una qualsiasi corrente storiografica o filosofica del diritto, non essendovi per Foucault né una volontà sovrana che sequestra o sublima in un orizzonte statuale la materialità sociale spontanea intesa come irrazionale, né una storia fondata in ragione o una realtà vivente assiologicamente oggettiva che le si oppone, ma al limite un’eccedenza rispetto alla quale si ridefiniscono i poteri, ciò da cui discende un’insopprimibile esigenza di critica delle istituzioni in generale tesa a mostrarle come funzionanti a partire non dal loro fondamento, volontaristico o razionale che sia, ma da rapporti strategici che determinano l’essere e le ridefinizioni della razionalità politica in generale, nonché di quella giurisprudenziale in senso stretto. Se si volesse ora ricercare nella produzione foucaultiana una traccia della configurazione della situazione attuale, si potrebbero innanzitutto richiamare diversi interventi degli anni Settanta nei quali, oltre a impiegare spesso il verbo veiller (“vegliare”) per descrivere l’attività giudiziaria, Foucault sostiene che la giustizia non obbedisce all’idea di operare la partizione tra il lecito e l’illecito, e che essa non è tanto applicare la legge, quanto un certo modo di fare con la legge15, così che un certo disordine nelle disapplicazioni della legge o nella sua applicazione differenziale (ad es. 15

M. Foucault, Maniere di giustizia, in Id., La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 108.


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nella «giustizia parallela» per gli immigrati)16 è funzionale a produrre delle irregolarità accettabili (a garanzia di una tolleranza per tutti), delle dissimmetrie utilizzabili (che assicurano dei vantaggi agli uni a discapito di altri) e soprattutto «ciò che ha il più alto valore in civiltà come la nostra: l’ordine sociale». Primato dell’ordine, questo – sostiene Foucault –, che «ha almeno due conseguenze importanti: che la giustizia sostituisce sempre più la preoccupazione della norma al rispetto della legge; e che essa tende meno a sanzionare le infrazioni che a penalizzare i comportamenti»17. Ma si ricordi, anche, un suo intervento davvero illuminante del 1977, La ridefinizione del giudiziabile, tenuto nel corso di un convegno organizzato dal Syndicat de la Magistrature sul testo collettivo Liberté libertés. In questo testo Foucault leggeva un sintomo di quanto stava accadendo in relazione alle tecniche di potere nella società contemporanea, nonché di un certo modo di porre la questione del potere ridefinendo il ruolo del giudice, ridistribuendo le funzioni giudiziarie e dislocandole attraverso tutto il corpo sociale, determinando un aumento dell’ambito di «ciò che può entrare nel campo di pertinenza di un’azione giudiziaria»18, così che non si trattasse più, insomma, di far funzionare la legge come economia dei rapporti di potere, ma di trovare un equilibrio non costituzionale tra una pluralità di poteri, subordinati però alla gestione giudiziaria o paragiudiziaria. Foucault parlava al riguardo di una «demoltiplicazione del ruolo del magistrato e della funzione giudiziaria, che attraversa tutto il corpo sociale, facendo riferimento a canali istituzionali diversi, sia che i tribunali stessi vedano accresciute le loro funzioni, sia che, al contrario, si creino organismi dotati di funzioni giudiziarie»19; e riconosceva, altresì, come ciò determinasse una trasformazione della razionalità del giudiziario, chiamato, oltre che a M. Foucault, Le citron et le lait, in Id., Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, con la collaborazione di J. Lagrange, Gallimard, Paris 2001, p. 696. In questo stesso testo Foucault sostiene che il Syndicat de la Magistrature, istituito nel 1968 e accusato di politicizzare la giustizia, ha avuto il merito di porre «la questione della legge a una certa politica della giustizia che era quella dell’ordine», il che non equivaleva certo a ritornare al mero legalismo, bensì ad affrontare il problema dell’ibridazione tra l’architettura giuridica che il XVIII e il XIX secolo avevano immaginato e la meccanica dell’ordine sociale. Su questa antinomia, cfr. altresì Id., Tecnologie del sé, cit., pp. 151-153. 17 M. Foucault, Le citron et le lait, cit., p. 697. 18 M. Foucault, La ridefinizione del giudiziabile, in Id., La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 37 e 45. 19 Ivi, p. 43. 16


78 Gianvito Brindisi definire una partizione tra lecito e illecito a partire dalla legge, a operare ulteriori partizioni – tra il vero e il falso, tra il fisiologicamente buono e il fisiologicamente nocivo, etc. – in assenza di un codice di riferimento. La decisione giudiziaria trovava così il suo nuovo elemento caratterizzante nello stabilimento di un optimum di sicurezza e di libertà funzionale per un corpo sociale, il cui obiettivo era quello di far funzionare dei meccanismi di protezione che circoscrivessero i comportamenti vulnerabili della popolazione. La ridefinizione del giudiziabile offre però a nostro giudizio, pur correndo il rischio di sovra-interpretare, due ulteriori spunti di particolare interesse: qui, infatti, Foucault da un lato inquadra la razionalità giudiziaria classica come avente il compito di stabilire la partizione tra lecito e illecito a partire dalla legge, pur avendo in precedenza mostrato come questa fosse solo la rappresentazione di marca statualistica del giudiziario, il quale, al contrario, era andato contaminandosi con poteri e saperi differenti (ciò a cui fa solo tangenzialmente riferimento); mentre dall’altro, trattando dei nuovi poteri che si intendono affidare al giudiziario, Foucault non parla – diversamente da quanto si registra invece assai spesso nel dibattito sull’esorbitanza del potere giudiziario – di supplenza, di sostituzione temporanea e contingente delle funzioni del politico, né di crisi del politico come crisi legislativa, come se questa fosse destinata a essere superata, e ciò perché non pensa il diritto in generale (solo) a partire dalle architetture legali o costituzionali, né la giurisdizione come emanazione della sovranità statuale. Insomma, è come se Foucault sostenesse che la nuova riflessione relativa alle funzioni della giustizia assumesse al livello teorico e rappresentativo quello che era stato il funzionamento concreto precedente della razionalità giudiziaria, sebbene su un altro versante ancora, cioè su un nuovo ordine di realtà. Foucault fa infatti riferimento a quanto da lui stesso poco prima analizzato in una frase che andrebbe presa pressoché alla lettera: «Anche se non abbiamo bisogno di essere protetti come individui o come specie, abbiamo tutti dei comportamenti che – questi sì – devono essere circoscritti, perché sono particolarmente vulnerabili»20. A significare che il potere giudiziario contemporaneo, o perlomeno la figura che di questo è tracciata nel testo collettivo oggetto del suo intervento, non pretende di governarci in quanto individui psicologici né in quanto specie vivente – i due ordini di realtà introdotti dal potere disciplinare e dal biopotere –, ma in quanto soggettività comportamentali. 20

Ivi, p. 49.


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È intuitivo cogliere la differenza con il governo dei giudici inteso in senso classico: affermare che il giudice svolga una funzione di regolazione sociale è cosa ben diversa dal ritenere che interpreti la legge, crei diritto e usurpi il legislativo. È solo nel primo caso che il giudice governa svolgendo una funzione di regolazione della società, nella misura in cui determina la norma di funzionamento ottimale delle relazioni umane, in base non tanto a parametri legali, quanto piuttosto a parametri epistemologici fornitigli dai saperi tecnici. Crediamo pertanto sia ugualmente evidente che il tradizionale dibattito sul governo dei giudici possa e debba a questo punto essere riscritto, a partire da un’analisi dei rapporti tra sapere e potere di giudicare, nonché da un’analisi storico-sociale delle forze che attualmente spingono per nuove e vecchie forme di giustizia differenziali. Non vi è purtroppo modo, in questa sede, di affrontare analiticamente ed esaustivamente l’argomento, ma saranno sufficienti alcuni utili esempi. La presa in carico dei comportamenti è visibilissima, innanzitutto, nell’ottica psichiatrica, la quale, come ha mostrato Davide Tarizzo, disarticola la soggettivazione in vista dell’ottimizzazione, configurando una «transizione da un regime biopolitico retto dalla logica della Norma a un regime etopolitico retto dalla logica dell’Ottimo, vale a dire dell’efficienza». Il potere-sapere psichiatrico non si esercita più, cioè, sui tipi devianti, ma «sui singoli comportamenti devianti, o meglio ancora sui singoli comportamenti deficitari, vale a dire su quei comportamenti o su quegli insiemi di segmenti comportamentali che indeboliscono le prestazioni dell’animale umano […]. E di qui il nuovo approccio alla terapia, che non tenderà più a catalogare i soggetti bensì i comportamenti, mirando alla loro circoscritta e puntuale eliminazione»21. Anche Mauro Bertani ha spesso sottolineato come il numero delle entità psicopatologiche si sia moltiplicato, e come ogni comportamento associato a stati ansiosi sia diventato potenzialmente a rischio, e ogni condotta antisociale, compulsiva o aggressiva sia giudicata prodromica di possibili evoluzioni psicopatologiche e passibile di intervento terapeutico22. La partizione tra normale e patologico si è fatta perciò più incerta, e il mutamento in direzione di una maggiore fluidità delle discorsività medico-legali è probabilmente una delle ragioni per le quali D. Tarizzo, Dalla biopolitica all’etopolitica: Foucault e noi, in «Nóema», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 47-49. 22 Cfr. M. Bertani, Postfazione, in M. Foucault, Discipline, poteri, verità, Marietti, Genova 2008, pp. 258-262. 21


80 Gianvito Brindisi la giurisprudenza italiana si è uniformata recentemente a quella di altri paesi europei, riconoscendo i disturbi della personalità come cause di non imputabilità. I disturbi della personalità sono divenuti materie soggettive giudicabili, con la conseguente possibilità, per la psichiatria, di intervenire anche al livello delle più infinitesimali distorsioni del comportamento, e per il giudiziario di estendere la penalità a elementi che non rientrano in alcun codice penale: ciò che equivale, in buona sostanza, a un riconoscimento sempre più marcato della potenziale derivazione clinica dei principî giuridici. La perizia continua così ad assolvere al suo duplice compito di trascrizione giuridico-medica del delitto, in grado di presentare un crimine come una malattia o un disturbo, e di codificazione medico-giudiziaria, vale a dire di codificazione in termini penali delle categorie psichiatriche. E allorché si pensi poi, come più recente approdo di quella linea che Foucault aveva definito di somatizzazione della malattia mentale, all’attuale passaggio dall’homo psichologicus all’homo neuronalis che va concretizzandosi grazie alle nuove tecniche sviluppate dalla medicina predittiva – in grado di attribuire la devianza a un deficit genetico o neuropsicologico, e di stabilire un optimum genetico sufficiente a non essere definiti socialmente pericolosi –, non si farà difficoltà a prefigurare la possibilità di intervenire sui processi chimici del cervello, con tutto ciò che ne consegue per le nostre forme di autocomprensione23. Su un altro versante è invece da registrare una sorta di amministrativizzazione del giudiziario nell’insieme della gestione preventiva del rischio, come ad esempio in relazione ai migranti. Qui, da un lato, la nozione di pericolosità sociale si risolve nel rovesciamento della sua funzione originaria di individualizzazione della pena, nella misura in cui, rispetto ai migranti, per la sua presunzione è condizione sufficiente che sia intervenuta una condanna penale, anche non definitiva, se non addirittura una denuncia24; e dall’altro il discorso di verità cui sono tenuti i richiedenti asilo è subordinato al governo delle condotte e al permanente sospetto di menzogna che grava su di essi, così che non possano discostarsi dalle «categorie e condizioni normative stabilite in anticipo dalla cartografia delle mobilità Cfr. su tutto ciò ivi, pp. 262-263. Si rinvia al riguardo al lavoro dell’Osservatorio sul giudice di pace istituito dalla Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre, in <http://clinicalegale.giur.uniroma3.it/> (consultato il 6 agosto 2017). 23 24


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irregolari tracciata dal regime delle migrazioni»25, pena il rifiuto dell’asilo e l’invisibilità politica. Un discorso ulteriore, infine, è quello che ruota intorno al fenomeno del forum shopping, che vede l’economia influire direttamente sulle decisioni giudiziarie inserendovi criteri e parametri del tutto estranei alla sfera giuridica, come l’efficienza allocativa, i costi di transazione, etc.26, e così abbattendo il peso dei diritti sociali. L’intera impostazione neoliberale intorno alla giustizia, d’altronde, è orientata a fare di questa un elemento funzionale all’efficienza negli scambi e negli accordi tra le parti, in una vera e propria ottica di concorrenza tra stati – e relativi apparati giudiziari – che ambiscono a costituirsi come centri di attrazione di capitali27. In questo senso, i valori che presiedono alla decisione giudiziaria sono il profitto dell’impresa e l’attrazione degli investimenti, in linea con quelle forme di deregolamentazione dei meccanismi finanziari, del capitale e del lavoro che si iscrivono a loro volta nella linea di partizione tra illegalismi dei beni e illegalismi dei diritti, e dunque nel solco dell’esigenza sempre rilanciata da parte del capitale di godere di tribunali speciali o di processi differenti per l’efficientizzazione del sistema28. Con la conseguenza che, considerata anche l’evoluzione dei meccanismi di controllo della popolazione, sembrerebbe essersi realizzato pienamente il passaggio dal regime di sorveglianza e controllo delle classi marginali di contro al regime eccezionale riservato ai crimini finanziari a una governamentalità, a più livelli, delle tracce e dei tracciati umani di contro alla faciliM. Tazzioli, Condotte di non-verità. Biografie irregolari e confessione senza verità nel governo dei rifugiati, in Foucault e le genealogie del dir-vero, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2014, p. 175. 26 Cfr. al riguardo D. Bifulco, Il potere giudiziario, in F. Angelini e M. Benvenuti, Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Jovene Editore, Napoli 2012, p. 366. 27 Cfr. A. Garapon, Lo stato minimo. Il neoliberalismo e la giustizia, a cura di R. Sabato, Cortina, Milano 2012. 28 Cfr. al riguardo M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 95. Nicola Picardi ha mostrato come ad oggi si registrino in Italia ventisette tipologie differenti di processo civile corrispondenti alla geografia dei privilegi delle classi dominanti – come l’autodichia del Parlamento e della Corte Costituzionale – e di quelle emergenti – come nel processo del lavoro e nel processo societario (N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, cit., p. 4). Risale invece a tre anni fa l’istituzione del Tribunale delle imprese ad opera del Governo Monti, per effetto del DL 24 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività. 25


82 Gianvito Brindisi tazione, alla fluidificazione quando non alla vera e propria cancellazione della traccia finanziaria29. Rispetto a tutto questo, crediamo di poter sostenere che il XIX e il XX secolo hanno visto affermarsi in Occidente un’economia delle relazioni di potere fondata non (solo) sulla costruzione di un’architettura giuridica, ma su una meccanica dell’ordine che ha affidato al giudice, oltre a un compito infinito di enunciazione delle norme sociali, come ritiene Antoine Garapon, una funzione di intervento operativo volto alla produzione di ordine sociale. E se ciò è vero, la perdita di capacità regolativa della legge, la domanda di sicurezza e di norme e la cosiddetta supplenza del giudiziario nei confronti del politico possono essere interpretati allora non già come causa, bensì come effetto dell’aumento dell’offerta giudiziaria, ossia della “decisione” dell’Occidente di governare il pluralismo attraverso una rifunzionalizzazione del giudiziario. Foucault, è chiaro, non sarebbe interessato tanto al governo dei giudici in relazione al giudizio di costituzionalità delle leggi, quanto piuttosto al ruolo giocato dai giudici in quella che potrebbe definirsi la governamentalizzazione dello stato costituzionale, e oggi dell’ordine globale. Come già per lo stato legislativo, anche la forma costituzionale del potere rischia infatti di essere raddoppiata di volta in volta da meccanismi governamentali che le conferiscono un contenuto e una forma di razionalità altri. Il fatto che il potere giudiziario sia attualmente percepito come custode dei valori non toglie che l’opera di concretizzazione, di valorizzazione o di investimento storico dei valori stessi ricada nel gioco interpretativo della storia, e così nelle forze che ne danno un’interpretazione e nelle forme di soggettivazione che si strutturano mediante queste interpretazioni. Il che significa che neanche con una costituzione rigida la “sfera del decidibile” è mai data una volta per tutte, e che l’architettura legale o costituzionale non esaurisce il problema della meccanica dell’ordine. Per quanto una corte costituzionale possa essere considerata una garanzia dei diritti dei governati di fronte ai governanti, assunta la locuzione “governo dei giudici” nell’accezione fin qui prospettata, la tutela dei governati deve giocarsi anche nella sua dimensione costituente al livello dell’esercizio ordinario della giurisdizione e della paragiurisdizione, soprattutto perché l’ordine giuridico globale funziona in assenza di un’architettura giuridica e all’interno di quello che potremmo definire, prendendo a prestito Sempre per restare al caso italiano, sono significative le denunce di numerosi magistrati relative alla differenziazione degli illegalismi e in particolare alla difficoltà di perseguire i reati tributari, propri dei colletti bianchi, favoriti da un bassissimo tasso di rischio e di costo penale spinto talvolta quasi fino alla garanzia di impunità. 29


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un concetto di Bourdieu, un colossale campo giudiziario, costituito anche da agenzie paragiudiziarie, in cui si lotta sì per il monopolio di dire il diritto, ma anche per la governamentalità giudiziaria globale. D’altronde, se è vero che quelle che Foucault definiva le discorsività del maître30 – degli insegnanti e dei pedagoghi, ad esempio – si sono indebolite, ciò non vale per i giudici, chiamati a produrre ordine sociale e a vegliare sulla popolazione vulnerabile a livello globale, ed esposti a un forte rischio di dipendenza dalle determinazioni dei saperi e delle pratiche economici (OMC), medici, psicologici e neurologici (OMS, DSM), e più in generale dalla deriva efficientistica che sta travolgendo la sfera pubblica. Risiede in questo il germe di un nuovo possibile arbitrio giudiziario, cui è possibile reagire solo a condizione di promuovere una nuova questione giudiziaria come quella illuministica, problematizzando quanto si è oramai consolidato in senso comune, vale a dire l’expertising (tecnico, giudiziario etc.) come esito della nostra storia morale. E ciò proprio perché lo spazio del processo è uno dei luoghi in cui si può decidere il gioco strategico che può preludere a una riarticolazione di un regime di verità. Intendere l’attuale pluralismo giurisdizionale non come la manifestazione di un potere autonomo e indipendente, bensì, a partire da una dinamica delle forze sociali e con uno sguardo storico-sociologico comprensivo, come un binario di scambio in cui si decidono strategicamente direzioni di ricchezze, norme e valori, giochi di verità diretti a regolare la meccanica sociale e a produrre forme di soggettività, è dunque quanto mai necessario. Perché questo orizzonte strategico configura un nuovo campo di lotta tra istanze plurali di giustizia che, sebbene non possa valere di per sé come garanzia di pluralismo sociale, può nondimeno diventarlo nella misura in cui nuove fonti di normatività o di eccedenza sociale riescano a imporsi costituendo un argine all’amministrativizzazione del comando o al comando economico in senso stretto31. Gianvito Brindisi Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” gianvito.brindisi@unicampania.it Cfr. M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 243-244. Cfr. al riguardo S. Chignola, Governo, ordine politico, soggettivazione. Su federalismo e partecipazione, in <http://uninomade.org/wp/wp-content/uploads/2012/10/Costituzionegoverno-federalismoChognola.pdf> (consultato il 6 agosto 2017), p. 8. 30 31


84 Gianvito Brindisi . Foucault and the Government by the Judiciary This paper aims to show the heuristic potential of Foucault’s research on the judiciary in relation to the current framework of the government by the judiciary. From the definition of the problem in Foucault’s work, and by understanding the notion of government in a wide semantic sense, beyond legal architectures, it is argued that Foucault allows us to rewrite the debate on the government by judges. By placing jurisdiction within a long-term history, in relation to other powers and knowledge competing in the definition of social mechanisms and therefore in its regulatory and constitutive function within a specific form of political rationality, Foucault highlights the politics of the judicial function, since the judge plays a role that is not additional to the political but constitutive to the social. Since the trial is one of the places which allows to decide the strategic game that can prelude a re-articulation of a regime of truth, it is appropriate to question in this direction the rise of the judicial governmentality within the current pluralistic framework, in order to problematize what is now commonly accepted, namely expertising as the outcome of our moral history. Keywords: Justice, Jurisdiction, Judicial Governmentality, Jurisdictional Pluralism, Trial, Judicable, Judicial Power.


Verità e discorso: il “politico” nel linguaggio tragico Valentina Moro

Introduzione: il “politico” come conflitto costitutivo della comunità

L’intento primo di questo articolo è il tentativo per lo meno parziale di

seguire e approfondire la metodologia impiegata da Michel Foucault per analizzare i testi letterari antichi. In particolare, la volontà all’origine del presente lavoro è di individuare, nel linguaggio del Filottete di Sofocle1, il modo di relazionarsi dei soggetti con la verità, e le conseguenze specificamente politiche che tale relazione implica. Il fondamentale strumento di comprensione, al fine di individuare il “filo politico” nell’intreccio del discorso senza annullare la distanza storica e culturale che ci separa dal suo autore, è rappresentato da una concezione della verità che lega sempre l’essere col dire, la “realtà” all’efficacia della parola che la dice. Tale concezione della verità, come esistente solo all’interno del discorso, è significativamente descritta e delineata da Michel Foucault. È sufficiente in questa sede fare riferimento al corso Leçons sur la volonté de savoir2, dove Foucault non parla di “verità” ma di “volontà di verità”, che esercita un ruolo di esclusione in rapporto al discorso3. Foucault introduce il riferimento alla tragedia (e in particolare a quella sofoclea), sottolineando che proprio nell’impossibilità del conoscere risiede la tragedia per gli eroi, ma anche che il «desiderio di sapere» dell’eroe non è in lui connaturato, Sebbene si tratti di una tragedia ritenuta unanimemente dalla critica fortemente “politica”, non sono stati pubblicati di recente riguardo ad essa studi a carattere propriamente politico, fatta eccezione per l’importante contributo D. Susanetti, Catastrofi politiche. Sofocle e la tragedia di vivere insieme, Carocci, Roma 2011. 2 Il riferimento è a M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France. 1970-1971, Gallimard-Seuil, Paris 2011, pp. 4 e ss. 3 Questa riflessione sul “ruolo di esclusione” legato a tale concezione della verità verrà approfondita in altri corsi, fra gli anni settanta e ottanta (si veda per esempio M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, Gallimard-Seuil, Paris 2013) a proposito di sistemi di esclusione che si sono affermati storicamente (esercitando autorità e violenza), ma che di conseguenza si sono rivelati arbitrari e modificabili come ogni altro paradigma storico, diventando gradualmente sempre più “dolci”. 1

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 85-105.


86 Valentina Moro bensì nasce nel momento in cui dalla divinità viene pronunciata una «parola enigmatica»4. Si sono scelte fonti letterarie, non filosofiche, nella consapevolezza che, sebbene l’intento di ricavare un’analisi politica a partire da un testo tragico non sia nuovo, possono essere nuove la tipologia di analisi condotta e le tematiche politiche analizzabili. Nella drammaturgia classica, il mito si “sgancia” dallo stretto legame con alētheia (verità), che gli garantiva tutto il suo prestigio quando la parola del poeta era considerata vera5; entra invece nello spazio relativo di apatē (inganno), dove nulla gode della certezza della “verità”, ma tutto ciò che viene detto è ricavato da una logica il cui valore non è assoluto bensì determinato unicamente dal fatto che essa abbia prevalso occasionalmente su una logica contrapposta6. Infatti, nella peculiare reinterpretazione contenuta in un testo tragico, il mito viene messo in scena come un “gioco di verità”, in virtù del quale alētheia emerge solo come il risultato di rapporti di forza, analogamente al modo in cui le istanze politiche prevalgono nel contesto politico ateniese di V secolo7. Per quanto riguarda il tentativo di comprendere quale fosse la concezione politica dei Greci nel V secolo a.C., molto vasto è il panorama M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir, cit., p. 15. C. Brillante, Le Muse tra verità, menzogna e finzione, in S. Beta (a cura di), I poeti credevano nelle loro Muse?, Edizioni Cadmo, Firenze 2006, pp. 34-35, sul concetto di alētheia, rispetto all’interpretazione heideggeriana del termine come ciò che è dis-velato, cioè «sottratto alla velatezza», «non più nascosto», sostiene una lettura diversa: alēthes è ciò che rimane fermo nel ricordo e non viene cancellato da lēthē (la “dimenticanza”), oppure può essere concepito come un contenuto della comunicazione che risulti attendibile, poiché «merita di essere affidato alla sfera del ricordo». Come ogni messaggio (dunque come ogni tipologia di comunicazione) ciò che conta è la posizione nella quale si comunica, e la relazione tra parlante e uditorio: il poeta era considerato “maestro di verità” poiché aveva ricevuto l’investitura e dunque l’autorità di parlare da parte della divinità. 6 Si veda al riguardo M. Detienne, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Maspero, Paris 1967; trad. it. di A. Fraschetti, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 71 e ss. 7 Il problema della verità come ciò che risulta da una serie di rapporti di forza si attesta, “intrecciandoli”, sui piani politico, giudiziario e sociale, e viene mostrato nelle sue parossistiche conseguenze da Gorgia: si veda al riguardo M. Untersteiner, I sofisti, Mondadori, Milano 1996, pp. 207-208 dove, a partire dalla lettura dell’Apologia di Palamede, viene messo in evidenza come la parola (logos) in tribunale sebbene aspiri a imporsi come verità (alētheia), si scopra necessariamente come contraddittoria, pura e semplice opinione (doxa) che prevale in forza di una casualità. In questo consiste il primato dell’inganno (apatē) per Gorgia. 4 5


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bibliografico al quale è possibile fare riferimento8. Ma ai fini di questo articolo si sceglie piuttosto di procedere accostando un’analisi di tipo foucaultiano sul rapporto del soggetto con la verità alla riflessione di Nicole Loraux sul “politico” come conflitto. Tale riflessione ha come fulcro il modello della stasis (guerra civile), conflitto che sta a monte del tessuto comunitario e che da questo riemerge costantemente. Per meglio comprendere la posizione di Loraux, riferimento importante per destabilizzare il modello identitario e “centrico” di cittadinanza della polis, risulterà utile fare un confronto, in maniera schematica e funzionale, col punto di vista di Christian Meier. Da una parte infatti, Meier lega l’affermazione del concetto di “politico” nella Grecia antica alla nascita della polis. Il “politico” era inteso come lo spazio del koinon, cioè di ciò che è “comune”, “condiviso”, “messo in mezzo”; era ciò che caratterizzava la polis «nel suo identificarsi con la cittadinanza»9. Ciò si lega strettamente, dunque, alla nozione di politeia (“costituzione” e insieme “cittadinanza”) e al suo nesso intrinseco, già solo sul piano linguistico, con ciò che – e con chi – viene considerato politikon. La costituzione era considerata “giusta” qualora in essa la cittadinanza potesse identificarsi, cioè qualora essa fosse la garanzia dell’uguaglianza10, e dunque dei diritti politici di tutti coloro che fossero a pieno titolo cittadini11. Per comprendere la dimensione politica e istituzionale della polis classica, fra i riferimenti principali vanno ricordati: M.H. Hansen, The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes. Structures, Principles and Ideology, Blackwell, Oxford 1991; Id., Polis. An Introduction to the Ancient Greek City-State, Oxford University Press, Oxford 2006; F. Fusillo, Polis, in R. Esposito e C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Laterza, RomaBari 2000, pp. 539-540; G. Poma, Le istituzioni politiche della Grecia in età classica, Il Mulino, Bologna 2003; P. Schmitt Pantel et F. de Polignac (a cura di), Athènes et le politique. Dans le sillage de Claude Mossé, Albin Michel, Paris 2007; G. Serra, Edipo e la peste. Politica e tragedia nell’“Edipo re”, Marsilio, Venezia 1994. 9 Cfr. C. Meier, La nascita della categoria del politico in Grecia (1980), Il Mulino, Bologna 1988, p. 27 e M. Bontempi, Forme dell’archein e misto della politeia, in S. Chignola e G. Duso (a cura di), Storia dei concetti. Storia del pensiero politico, Editoriale scientifica, Napoli 2006, pp. 13-62. 10 Foucault, già all’inizio degli anni settanta, aveva problematizzato l’emersione del concetto di dēmos, presupposto dell’ideale democratico di “uguaglianza”, e l’istituzione della legge scritta (costituzione politica e insieme “discorso dell’ordine sociale”) a seguito della crisi agraria e delle trasformazioni politiche rispetto alla grecità arcaica di VII e VI secolo a.C. Si veda al riguardo M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir, cit., pp. 118 e ss. 11 In questo modo il concetto di “politico” viene legato specificamente all’identità politica del cittadino. Come sottolineato in G. Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica 8


88 Valentina Moro Guardando ai testi di Nicole Loraux12, tuttavia, risulta impossibile soffermarsi, per comprendere la dimensione del “politico” nell’antica Grecia, unicamente sulla statica e giuridicamente riconosciuta identità del cittadino, nonché sul principio dell’uguaglianza civica, tanto caro a Meier. Loraux infatti rivendica lo spazio del conflitto come il proprio del “politico”: l’immagine “ufficiale” delle istituzioni della polis, pacificata al proprio interno dopo aver respinto il conflitto all’esterno, caratteristica espressione della coesione e dell’uguaglianza, non è che ideologia, non storia e soprattutto non politica, ma oblio forzoso dei dissidi interni e instaurazione di un “regime di memoria” ufficiale e collettivamente riconosciuto. La dimensione del “politico” va colta dunque nel conflitto stesso, dove le molteplici istanze contrapposte trovano espressione e prendono forma13: l’identità politica aveva nella polis greca l’assoluto primato su ogni altro tipo d’identità14 e dunque ogni istanza poteva trovare attuazione solo se veniva trasposta in senso politico. Cenni storici Sofocle, tragediografo di origini aristocratiche, è stato direttamente coinvolto nella politica ateniese ed è vissuto nel corso di quasi tutto il V secolo, periodo storico decisivo per la polis e per la Grecia intera. Del Filottete è possibile stabilire con certezza la data di rappresentazione, nel

e invenzione della modernità, Mimesis, Milano 2007, pp. 207-208, l’elemento del «carattere maschile dell’ideale di umanità incarnato dai Greci» è una costante nella produzione discorsiva sull’antichità greca, basata sull’esaltazione spesso anche strumentale di una soggettività che esclude il femminile e che dunque non è «bisognosa di confrontarsi con la differenza». 12 Il riferimento è qui in particolare a N. Loraux, L’invention d’Athènes, Mouton Éditeur, Paris 1981 e a N. Loraux, La cité divisée, Payot & Rivages, Paris 1997. 13 Questa caratterizzazione dello spazio politico come “luogo” in cui coabitano conflittualmente istanze contrapposte rimanda necessariamente a una riflessione su come i Greci pensassero l’alterità, e sul concetto di “esclusione” come parte integrante del processo di inclusione. Si veda al riguardo F. Hartog, Le miroir d’Hérodote, Gallimard, Paris 1980, in particolare pp. 331 e ss. e pp. 524 e ss. 14 Cfr. C. Meier e P. Veyne, Kannten die Griechen die Demokratie?, Verlag Klaus Wagenbach, Berlin 1988; trad. it. di M. Pelloni, L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 53-54.


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corso delle Grandi Dionisie del 409 a.C.15. Le vicende storiche degli anni immediatamente precedenti mostrano un’Atene coinvolta appieno nella guerra del Peloponneso. L’ateniese esiliato Alcibiade favorì gli accordi presi contro gli ateniesi tra gli Spartani e i Persiani; nel frattempo ad Atene si attuò un graduale mutamento dell’ordinamento istituzionale che condusse all’instaurazione di un governo di tipo oligarchico16. Tale governo dei Quattrocento tuttavia venne deposto già nel 411 a.C. e vennero ripristinate le istituzioni democratiche17. Furono privati dei diritti politici tutti coloro che avevano collaborato con il governo oligarchico. Il rientro di Alcibiade ad Atene avvenne infatti nel 408 a.C., l’anno immediatamente successivo alla prima messa in scena del Filottete: risulta assai verosimile l’ipotesi che Sofocle, all’interno del dramma che stava redigendo proprio in quegli anni, abbia avuto intenzione d’inserire un riferimento alla persona che più suscitava l’interesse popolare all’epoca18. Attorno alla vicenda del susseguirsi dei diversi ordinamenti e del rientro di Alcibiade ad Atene ruotano pertanto diverse problematiche, tutte relative alla domanda di inclusione di una personalità o di un raggruppamento sociale all’interno della cittadinanza, e dunque al limite in base al quale venivano assegnati i diritti politici, problematiche che ritornano nel Filottete stesso, in cui per l’esercito acheo vi è la necessità di reintegrare l’eroe precedentemente abbandonato sull’isola di Lemno. La tragedia della verità Nell’antefatto della vicenda inscenata dalla tragedia sofoclea, Filottete, eroe diretto a Troia a bordo delle navi greche, viene morso In G. Ugolini, Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica, Carocci, Roma 2000, pp. 185 e ss. vi è un puntuale riferimento alle fonti che permettono di inquadrare il contesto della rappresentazione del Filottete. 16 Secondo la ricostruzione aristotelica contenuta ne La costituzione degli Ateniesi (Arist. Athen. Pol. 29 e ss.), il passaggio necessario per la piena istituzione di un nuovo ordinamento oligarchico è il mutamento del criterio di inclusione ed esclusione, spostando la “soglia” di assegnazione dei diritti politici all’interno della cittadinanza solo a coloro che fossero sufficientemente ricchi. 17 Per una dettagliata trattazione riguardante i mutamenti avvenuti all’epoca nell’ordinamento politico ateniese si rinvia a L. Canfora, La guerra civile ateniese, Rizzoli, Milano 2001. 18 Si veda ancora G. Ugolini, Sofocle e Atene, cit., pp. 185 e ss. 15


90 Valentina Moro da una vipera; i compagni di viaggio, non sopportando l’odore, la vista e le urla dell’ammalato, lo abbandonano sull’isola di Lemno con l’arco che aveva ricevuto in dono da Eracle. Ma un vaticinio svela che l’eroe e l’arco costituiscono l’unica speranza per i Greci di ottenere la vittoria a Troia. Narra dunque Sofocle come a questo punto a Odisseo non resti altro da fare che tornare sull’isola accompagnato dal giovane Neottolemo, figlio di Achille, per sottrarre con l’inganno l’arco a Filottete: fingendosi nemico di Odisseo e degli Atridi, Neottolemo dovrà guadagnarsi la fiducia dell’eroe. Lo stratagemma sembra sortire il suo effetto nel momento in cui Filottete, colto da un accesso di dolore, consegna l’arco al giovane, del quale si fida ciecamente. A questo punto, in preda al rimorso, il figlio di Achille si oppone ad Odisseo, mostrando nobiltà d’animo nei confronti del sofferente, al quale restituisce l’arma tentando invano di persuaderlo a imbarcarsi con loro per conquistare la città nemica. L’intervento ex machina di Eracle risolve la situazione e sancisce la partenza di tutti per Troia, dove Filottete sarà curato e la città conquistata grazie all’arco e al suo possessore. Nel Filottete le complicazioni della comunicazione verbale emergono in tutta la loro drammaticità, il che produce conseguenze significative dal punto di vista politico. La verità “entra in circolo” nelle parole di individui che hanno una specifica posizione rispetto alle istituzioni della comunità della quale fanno parte, e che sono legati fra loro da una serie di relazioni asimmetriche di potere. Per prima cosa vanno dunque ricercate e analizzate tali forme di relazione asimmetrica tra i principali personaggi, cogliendo in esse il riferimento a rapporti istituzionalizzati che indirizzano le vie d’esperienza, e che stabiliscono una concezione del vero e del falso nel confronto costante con la quale, necessariamente, si delinea il rapporto fra un soggetto e la sua verità. Non c’è nel testo una verità fondata in senso assoluto19, bensì ci sono parole più o meno credibili a seconda della posizione di chi parla rispetto a chi ascolta, del legame di fiducia che si forma o spezza tra i due, della capacità della parola di determinare un comportamento “inserito correttamente” nello spazio della reciprocità e istituzionalmente Come sottolineato nell’introduzione alla più recente edizione critica del Filottete (si veda Sofocle, Philoctetes, a cura di S.L. Schein, Cambridge University Press, Cambridge 2013, pp. 18-20), nemmeno il coro, la voce collettiva, offre una via di fuga rispetto alle “torsioni” del linguaggio, che rendono impossibile una distinzione tra il vero e il falso. 19


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riconosciuto, oppure di motivare un inaspettato “cambiare idea” (come avviene per Neottolemo, in maniera assai originale nell’intero panorama della tragedia greca). È riscontrabile dunque una specifica politicità del linguaggio tragico, in quanto si tratta di un linguaggio poietico, che serve per “fare cose”, per produrre azioni all’interno di una rete di relazioni20. Fra i personaggi principali del testo tragico, i quali hanno ciascuno un ruolo politico ben preciso, esistono diversi tipi di relazione asimmetrica, la maggior parte dei quali è possibile ricondurre per lo più ad un’istituzione della Grecia classica. La prima fra queste relazioni, che inquadrano da un punto di vista “istituzionale” la vicenda, è quella fra l’uomo (l’eroe, nel caso della tragedia, che incarna le sorti tragiche dell’intero genere umano) e la divinità, la cui silenziosa onnipotenza si traduce in una conoscenza totale degli eventi, che impone sulla sorte degli uomini, nella forma del fato, una verità21. Vi è tragedia per gli eroi sofoclei proprio dal momento che essi non comprendono l’ordine divino. Filottete non lo comprende anche per via del fatto che sono Odisseo e Neottolemo a “spiegarglielo” e a farsene portavoce: essi l’hanno ingannato e quindi figurano ai suoi occhi come dei traditori. Filottete dice infatti ad Odisseo, ai vv. 991-992: «[...] con i tuoi giochi di parole: se metti avanti gli dei, tu li sbugiardi!» Infatti, per quanto la parola del dio possa essere reputata alētheia, nel momento in cui viene riportata, entra “in circolo” nei discorsi degli uomini ed essi “se ne impossessano” (come Odisseo, pronto ad eseguire le indicazioni dell’oracolo, ma evitando da subito l’indicazione di persuadere Filottete, e anzi privo di scrupoli nel volerlo ingannare) o la respingono (come Filottete, Il riferimento alla “poieticità” del logos introduce una comparazione fra l’efficacia performativa del linguaggio nel dramma sofocleo e il modo in cui il sofista Gorgia, appartenente alla medesima generazione di Sofocle, considerava quello stesso potere del logos. Si veda al riguardo la riflessione di Barbara Cassin sul carattere performativo del discorso sofistico (B. Cassin, L’effet sophistique, Gallimard, Paris 1995, p. 73). Per chiarezza, sul concetto di “performativo” si rimanda a N. Austin, Sophocles’ “Philoctetes” and the Great Soul Robbery, University of Wisconsin Press, Madison 2011 e J.R. Searle, Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1969; trad. it. di G.R. Cardona, Atti linguistici, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 50-51. 21 M. Untersteiner, I sofisti, Mondadori, Milano 1996, pp. 170-171 scrive che il mito viene riletto dai poeti tragici proprio perché questi ritrovano in esso l’espressione più piena dell’ambiguità e delle contraddizioni che connotano l’esistenza umana; l’inganno che sta dietro al logos che detta l’agire umano opera con la legge della necessità, identificandosi dunque con dikē. 20


92 Valentina Moro irremovibile nella sua decisione di non ascoltare i suggerimenti del giovane, che pure al termine del dramma si mostra pronto a restituirgli l’arco): essa non comunica “verticalmente” con gli uomini, ma “orizzontalmente” deve inserirsi all’interno di trame relazionali (la gerarchia militare che vincola Neottolemo), tra rivalità (tra Filottete e Odisseo) e tra avvicinamenti (come quello tra il giovane e Filottete), che la rendono sempre una verità detta e dunque sottoponibile a dubbio22. L’eccedenza di Filottete Nella figura di Filottete, abbandonato su un’isola disabitata ma necessario per il buon esito della spedizione militare, è individuabile un pieno confronto con una comunità politica (la conformazione dell’esercito degli Achei diretto a Troia è agilmente paragonabile ad una comunità politica se consideriamo che i diritti politici venivano assegnati fin dall’età arcaica a coloro che facevano parte a pieno diritto dell’esercito)23 che, per salvaguardare la propria tenuta, esclude e allontana l’eccedenza rispetto a quello che “ideologicamente” viene presentato come un insieme di uguali24. Si veda, riguardo al «linguaggio di alētheia», M. Untersteiner, Sofocle, Lampugnani Nigri editore, Milano 1974, pp. 321-322. 23 Si precisa che tale accostamento tra l’esercito acheo e la comunità politica dell’Atene del V secolo è possibile solo attuando un “anacronismo”, vale a dire attraverso una lettura “oplitica” del mito e della realtà militare cui fa riferimento. 24 Va ricordato a questo punto l’esordio della prima lezione del corso M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 3 e ss., in cui Foucault mette in evidenza la problematicità del concetto di «esclusione» in relazione a una società. Il riferimento è ai Tristi Tropici di Lévi-Strauss, e in particolare al passaggio in cui l’antropologo distingue fra due tipologie le società a seconda di come esse si sbarazzano di un individuo pericoloso e dotato di una forza ostile: l’uno dei due raggruppamenti risolve il problema assimilando al proprio interno l’elemento ostile, l’altro neutralizzandolo, cioè espellendolo al di fuori del corpo sociale e mantenendolo isolato. L’esclusione, così come è intesa nella distinzione di Lévi-Strauss, colpisce dunque tutti coloro che all’interno della società possono essere considerati «anormali» o «devianti» (delinquenti, minoranze etniche, religiose o sessuali, malati mentali, individui che si trovano al di fuori dei circuiti di produzione o di consumo). Tuttavia Foucault sottolinea che nozioni come quelle di «devianza» e «anomalia», con il loro portato psicologico, sono servite unicamente a nascondere le tecnologie per mezzo delle quali le società escludevano un certo raggruppamento di individui, ma solo per poterli poi identificare, per l’appunto, come «anormali» e «devianti». L’esclusione è quindi soltanto, secondo Foucault, «l’effetto rappresentativo generale di un certo numero di 22


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Come evidenzia Vidal-Naquet, ad Atene in epoca classica l’organizzazione militare e l’organizzazione civica si confondono: l’Ateniese, in quanto cittadino, deve combattere25. La tragedia infatti presenta una situazione in cui Filottete deve venire reintegrato nel contesto comunitario, ma all’interno di una comunità militare: è la finalità politica della vittoria a Troia che spinge gli Achei a cercare nuovamente Filottete, e questo è ancora più evidente per il fatto che l’eroe è tanto importante per i suoi compatrioti quanto lo è un’arma, il suo arco, che viene simbolicamente a coincidere con la vita stessa dell’eroe: al v. 931 egli dice a Neottolemo «rubandomi l’arco, m’hai tolto la vita», e al v. 933 ribadisce «non togliermi la vita!» Nel momento in cui l’oracolo afferma la necessità del reintegro dell’eroe, per il buon esito della spedizione su Troia e quindi per la salvezza stessa della comunità dell’esercito, ciò può avvenire solo sulla base di una procedura istituzionalizzata: Filottete si relaziona infatti con Neottolemo prima come supplice poi come philos26. L’esordio del suo discorso viene condotto su un piano di “parità” tra i due: l’arciere comincia la supplica nel nome del padre e della madre del giovane (v. 468), motivo per quest’ultimo di ottima reputazione e di aristocratiche radici, e fa appello all’animo nobile del figlio di Achille (vv. 475-476: «Chi è veramente nobile detesta ciò che è turpe e si gloria del bene»). Ma poi, per aumentare l’efficacia della propria supplica, Filottete si colloca in una posizione di “inferiorità” (per lo meno simbolica) rispetto a Neottolemo. Per ricoprire il ruolo di supplice, l’eroe deve seguire infatti un vero e proprio rituale, nel linguaggio e nei gesti: invoca Zeus protettore dell’hikesia, cioè della supplica (v. 484) e poi si inginocchia davanti strategie e di tattiche di potere», e porta con sé l’immagine ingannevole di un consenso sociale nell’escludere colui che viene rappresentato come anormale, mentre l’espressione di tale consenso di fatto non c’è mai. 25 Si veda al riguardo P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir, Maspero, Paris 1981; trad. it. di F. Sircana, Il cacciatore nero, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 103 e ss. Vidal-Naquet sostiene, d’accordo con Loraux (L’invention d’Athènes, cit.), che i registri dei caduti in guerra nel V secolo aiutino a delineare cosa si intenda per “identità ateniese”. Infatti in questi registri compariva il termine «Ateniesi» in opposizione all’esercito avversario, ma anche per designare gli opliti rispetto alle truppe leggere. 26 Cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, vol. 1 e vol. 2, Éditions de Minuit, Paris 1969; trad. it. di M. Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. 1 e vol. 2, Einaudi, Torino 1976, p. 262: «La nozione di philos enuncia il comportamento obbligatorio di un membro della comunità nei confronti dello xenos, dell’ospite straniero». La philia nella società greca antica ha un fondamento istituzionale.


94 Valentina Moro al giovane (vv. 485-486), nonostante sia zoppo (il rituale prevede anche che il supplice abbracci le ginocchia di colui al quale è diretta la supplica)27. È finalizzata all’umiliazione anche la richiesta di essere imbarcato «come un carico in più» (v. 473), nonostante il suo trasporto possa costituire per Neottolemo un «grande […] fastidio» (vv. 473-474); e ribadisce lo stesso concetto con altrettanta umiltà anche ai vv. 480-483. Al fine di muovere la compassione di Neottolemo, Filottete utilizza un altro espediente tipico dei supplici, e cioè il riferimento al proprio padre (vv. 492-494). Il linguaggio dei personaggi rivela inoltre il costituirsi di un legame di philia tra Filottete e Neottolemo, che è leggibile nella dimensione istituzionalizzata del contraccambio e della reciprocità: come già evidenziato in precedenza, ai vv. 656-657 e 660-661 Neottolemo chiede di poter «vedere», «toccare» e «adorare come un dio» l’arco, solo qualora fosse per lui «lecito»; il giovane rivolge a Filottete parole che questo giudica «riverenti» (v. 662). Accordando al giovane il permesso di prendere l’arco, l’anziano eroe evidenzia il fatto che è stato il giovane, lui soltanto, ad avergli concesso la possibilità di tornare in patria. Come sottolinea Susanetti, l’instaurarsi del rapporto di reciprocità della philia impone di rendere i benefici ricevuti28. Ma è proprio questa tipologia di relazione forte tra i due che impedisce a Neottolemo di persistere nell’inganno, e che quindi ostacola lo stesso processo di re-inclusione dell’eroe nella comunità. Il risvolto politico di tale analisi è assai rilevante, dal momento che si può ricondurre il radicamento irriducibile dell’odio di Filottete nei confronti di coloro che l’hanno abbandonato29 a una stasis (“guerra civile”) interna al corpo politico collettivo, che spezza quella coesione che secondo Christian Meier, andando a costituire lo “spazio del comune”, è il “politico” stesso. Tuttavia ciò che risulta è che proprio la riemersione di istanze contrapposte e irriducibilmente contraddittorie (incarnate nel testo tragico dall’irremovibile Filottete, rispetto al risentimento del quale nulla può il Ivi, pp. 473 e ss.: il supplice è colui che «giunge alle ginocchia»; si veda nello specifico passaggi tratti dall’Iliade e dall’Odissea citati come esempi in ivi, p. 476. 28 Si veda D. Susanetti, Catastrofi politiche, cit., pp. 131-132: è Neottolemo stesso a sottolineare che «chi ha ricevuto un beneficio e sa contraccambiare è un amico più prezioso di ogni possesso» (vv. 672-673). 29 L’odio dell’eroe è più forte del suo attaccamento nostalgico alla Grecia, che pure egli mostra già dal primo incontro con Neottolemo e i suoi marinai, nel momento in cui chiede loro di poterli sentire parlare greco e definisce la terra natìa «carissima» (cfr. vv. 223-224 della tragedia). 27


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tentativo di mediazione di Neottolemo) sia il cuore contenutistico politico della tragedia. Odisseo sofista? Il comportamento e i discorsi di Odisseo rimandano a un necessario confronto con i contenuti di pensiero della Sofistica, non fosse altro perché la gran parte della critica che ha scritto sulla tragedia ha insistito su questo tipo di collegamento30. In particolare, fondamentale è il riferimento ai principali testi ad oggi leggibili di Gorgia31, non solo perché il sofista appartiene alla medesima generazione di Sofocle ed entrambi vivono la stessa temperie culturale, ma soprattutto perché Gorgia nei suoi testi presenta la problematicità del rapporto fra il soggetto e la verità delle parole che questo dice come dirompente. Ciò che il sofista intende per “apatē” (che può essere qui inteso come “carattere ingannevole del discorso”) è il concetto il cui valore viene da Gorgia esaltato e spinto al parossismo, in quanto gli permette di comprendere la cesura che si crea tra il soggetto e il suo dire, nel momento in cui quello stesso soggetto comprende di essere incapace di conoscere e di comunicare qualcosa di vero. Tale cesura è la stessa che segna drammaticamente le vite dei personaggi delle tragedie sofoclee. Seth L. Schein32 per spiegare la caratterizzazione sofoclea del personaggio di Odisseo, nel quale l’astuzia e la natura di polymēchanos33 (che si può tradurre come “capace di molti stratagemmi”) vengono spinte al parossismo rispetto ai poemi omerici34, fa riferimento a Tucidide (3, 83, 1), il quale commenta i mutamenti prodottisi in ambito morale e sociale durante la guerra del Si veda ancora, come esempio su tutti, l’edizione curata da Schein (p. 22), in quanto pubblicazione più recente del testo della tragedia. 31 Lo pseudo-trattato Peri tou mē ontos («Sul non essere») e le opere retoriche Encomio di Elena e Apologia di Palamede. 32 Cfr. l’edizione curata da Schein, p. 20. 33 Cfr. v. 1135 del testo tragico; lo stesso epiteto è usato in Hom. Od. 5, 203. 34 Va precisato che i poemi omerici facevano riferimento ad un contesto in cui la verità, come la giustizia, erano il prodotto di un’ordalia: la parola vera non era decretata tale da un giudizio esterno, bensì era quella pronunciata dal dio o l’esito di una sfida fra guerrieri. Si veda al riguardo come in G. Brindisi, Potere e giudizio, Editoriale scientifica, Napoli 2010, pp. 106 e ss. tale questione viene rilevata sul piano della pratica giudiziaria. 30


96 Valentina Moro Peloponneso, a seguito di rivolte e conflitti civili: secondo lui è venuta a mancare l’«onestà» che caratterizza le «nature nobili». Non è sufficiente tuttavia ricondurre l’opposizione tra Odisseo e Filottete a quella tra un abile artefice di macchinazioni politiche e un irriducibile eroe aristocratico, che si mostra fedele ai propri principi. La peculiarità della tragedia sta proprio nel fatto che la figura di Neottolemo consente allo spettatore/lettore una sorta di “straniamento” rispetto ai modelli rappresentati dai due eroi, che appartengono entrambi ad una generazione più anziana; si ritiene sia preferibile prendere perciò le distanze da quel tipo di interpretazione che riconduce Odisseo a una presunta “modernità” corrotta e Filottete all’eroismo di un passato dorato e ormai perduto. Neottolemo rifiuta l’astuzia odissiaca, sebbene essa possa garantire la presenza di Filottete e del suo arco a Troia, e dunque, per i Greci, la vittoria della guerra; ma critica anche l’arroccamento di Filottete sulle proprie posizioni, quando questi si rifiuta di seguire il consiglio di un amico e di accantonare il proprio risentimento in modo da portare a compimento ciò che è bene per i Greci ma anche per lui stesso35. Odisseo e Filottete incarnano agli occhi del giovane due modelli comportamentali ed educativi contrapposti, l’uno attento in particolare al kerdos, al “profitto”, in senso politico, di ogni azione, l’altro ai principi-guida dell’agire, che, nel caso di una “nobile natura”, dev’essere improntato alla timē (“onore”) per essere degno di rispetto. Nell’Atene del V secolo un sistema di valori come quello propugnato da Filottete risulta perdente rispetto alle logiche della politica, che ricordano l’attività mercantile in quanto focalizzate su un “profitto”: la possibilità di trovare uno stabile meson, dunque uno spazio intermedio e condiviso sul quale si basa la struttura della polis36 dipende totalmente dall’individuazione di norme e regole di mediazione valide per tutti, a Anche Schein (pp. 22-23) sottolinea il fatto che Neottolemo prende le distanze sia dagli insegnamenti di Odisseo, riconducibili a quelli dei sofisti in quanto basati sull’assunzione di modalità di comportamento sempre differenti a seconda dei fini sociali e politici che si vogliono ottenere, sia dalla rigidità della posizione di Filottete, secondo un modello riconducibile a una tipologia di educazione tradizionale che suggerisce di mantenere sempre un certo tipo di comportamento (che si fonda sui valori di “onore” e “nobiltà”), indipendentemente dalle specifiche circostanze in cui si agisce. 36 Questo “spazio intermedio” è spazio politico in quanto i suoi confini sono tracciati dal legislatore e dal suo nomos. Si veda al riguardo M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 41-42. 35


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prescindere dalla differenza a livello sociale. Questo comporta dunque il rifiuto di un’etica aristocratica ed elitaria, che necessita delle dimostrazioni di valore individuale e che permette al singolo di distinguersi: la riproduzione di un modello etico non avviene più a partire da uno status aristocratico, bensì diventa possibile e anzi necessaria per tutti, perché l’identità prima dell’individuo non è più quella legata all’oikos bensì quella politica; il presupposto della polis democratica è dunque una concezione dell’aretē come omogeneità di valore e di capacità fra tutti i cittadini. Filottete e Odisseo possono essere pensati come rappresentanti di due diverse tipologie di comunità: rispettivamente, l’una fondata su un insieme di valori tradizionali, aristo-cratici, e l’altra su rigide gerarchie e sul “principio di autorità”. Essi sono anche portatori di una diversa concezione del linguaggio, che può creare o meno rapporti di fiducia. Il linguaggio di Odisseo è riconducibile alle astuzie retoriche e alle macchinazioni politiche dei sofisti in quanto ogni affermazione dell’eroe è attentamente architettata per raggiungere specifici fini, e tutto risulta ai suoi occhi “malleabile” e “catturabile”37. La comunicazione che Filottete intrattiene con Neottolemo è invece di tutt’altro tipo: piana, lineare, fa riferimento a legami ben precisi, istituzionalizzati, consacrati agli dei. Per esempio quando, all’inizio del dramma, vuole convincere il figlio d’Achille a riportarlo a Lemno, instaura con lui un legame in qualità di supplice, e così facendo risulta persuasivo anch’egli, ma in maniera diversa rispetto a Odisseo, in quanto priva d’inganno e fondata su un rapporto di onestà e di fiducia. I due eroi più anziani parlano dunque a Neottolemo a partire da dimensioni istituzionali e da posizioni diverse, contendendosi nei suoi confronti un ruolo pedagogico: Odisseo ostenta una posizione gerarchicamente superiore, mentre Filottete alterna il ruolo di supplice alla posizione di parità garantita da una philia tra aristocratici.

Mentre ai vv. 93-94 Neottolemo dice con fierezza di non voler «essere chiamato traditore (προδότης)», Odisseo è pronto anche a ricevere ingiurie, se questo può servire alla buona riuscita del suo stratagemma politico (cfr. vv. 64-65), e dichiara di non essere interessato ad avere la fama di eroe, ma di essere orgoglioso piuttosto nel saper essere qualsiasi tipo di uomo, a seconda del genere d’uomo che occorre in ogni specifica situazione (cfr. vv. 1050-1051). Come sottolinea Filottete, da parte di Odisseo «tutto può essere detto, tutto può essere osato» (vv. 633-634). 37


98 Valentina Moro Neottolemo e la pratica del “dir vero” La maggiore innovazione sofoclea del mito di Filottete è la figura di Neottolemo e il suo “cambiare idea” finalizzato a rivelare la verità. Questa decisione del giovane figlio di Achille viene a collocarsi nella rete di relazioni nella quale egli è inserito e soprattutto rispetto alla posizione che egli ha: il suo ruolo politico, come capo dell’esercito, legittimo erede di un trono regale, nonché destinatario di una supplica e philos rispetto a Filottete, ma anche soldato agli ordini di Odisseo. È alla luce di questo evento determinante nel testo tragico che si deve riprendere l’interrogativo di partenza di quest’indagine, riguardante la concezione della “verità” nel V secolo di Sofocle. Una “verità” che, come mostra il personaggio di Neottolemo, è una dimensione che il soggetto deve individuare e incarnare con il proprio agire. Il “parlar franco” di Neottolemo può essere almeno parzialmente accostato alla pratica della parrēsia, che, come sottolinea Foucault, è prima di tutto una nozione politica: è un “dire la verità” a partire da uno status “inferiore” del parlante rispetto all’uditorio (si può trattare anche di un’opinione che si pronuncia con l’idea che si tratti di verità, ma in disaccordo con l’opinione della maggioranza) e che quindi richiede le qualità morali necessarie per l’assunzione del rischio38. Il discorso di verità del parresiasta va valutato sulla base dello stile dell’esistenza di chi lo pronuncia, va “incarnato”, “vissuto”. Allo stesso modo Neottolemo incarna il proprio discorso di verità dopo aver sperimentato l’inganno come pratica contraria ad una condotta onesta. Nel suo caso, dopo aver attraversato la negazione di un “codice di condotta”, riconosce il valore dello stesso, e lo sceglie. Tale Cfr. M. Foucault, Discourse and Truth. The problematization of Parrēsia, Northwestern University Press, Evanston 1985; trad. it. di A. Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, pp. 5 e ss. Si veda al riguardo anche M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France. 1984, Gallimard-Seuil, Paris 2009, p. 10: la nozione di parrēsia emerge inizialmente, nella Grecia antica, nella pratica politica e nella problematizzazione della democrazia, poi la filosofia la riconsidera dal punto di vista dell’etica personale e della costituzione del soggetto morale. Sulla trattazione foucaultiana del concetto di parrēsia, cfr. L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico. Spunti per una critica dell’attualità, ETS, Pisa 2008, pp. 145 e ss. e A. Sforzini, Dramatiques de la vérité: la parrêsia à travers la tragédie attique, in D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et vérité, 1980-1984, Vrin, Paris 2013, pp. 139160. Per una ricognizione storica del concetto si veda anche G. Scarpat, Parrhesia greca, parrhesia cristiana, Paideia, Brescia 2001. 38


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codice di condotta, tuttavia, non corrisponde propriamente alla pratica della parrēsia, che Foucault distingue dall’enunciato performativo «per il fatto che quest’ultimo è integralmente ritualizzato, in qualche modo liturgico, prevede uno statuto riconosciuto dell’enunciatore e produce effetti predeterminati nell’intenzionalità che agisce il linguaggio»39. Al contrario, si tratta infatti per Neottolemo di scegliere un codice di condotta anch’esso “istituzionalmente inquadrato”, in questo caso non a partire dal ruolo del giovane nell’esercito rispetto al proprio comandante, bensì a partire dal suo ruolo di ospite, di philos, di discendente di Achille. Va infatti sottolineato che il turbamento del giovane si accentua proprio nel momento in cui Filottete dice, ai vv. 904-905, «nulla che sia indegno di tuo padre tu fai o dici, soccorrendo un uomo valente»: in questo modo l’eroe tocca un tasto dolente, perché il principale timore di Neottolemo è per l’appunto quello di mostrarsi indegno del proprio padre (di rivelarsi «aiskros», al v. 906, cioè “turpe”, “indegno”, definizione che caratterizza l’esatto opposto della figura eroica). Ciò non toglie, tuttavia, che il “gioco di posizioni” all’interno del quale si muove Neottolemo, e in particolare la relazione asimmetrica che lo lega a Odisseo, comporti che il giovane debba assumersi un rischio nel prendere parola. L’ordine gerarchico è infatti l’elemento chiave che regge la società così come l’esercito: è per questo che Odisseo, nell’impartire l’ordine a Neottolemo, gli ricorda prima di tutto il fatto che è «figlio di Achille» (all’inizio del v. 50), poi il fatto che si trova lì con un ben preciso dovere militare al quale adempiere (v. 50: «quello per cui sei venuto») e infine sottolinea che il giovane deve essere all’altezza della sua stirpe40 (v. 51). E tutto questo deve essere portato a compimento rigorosamente senza che il giovane si interroghi sulla “liceità” degli ordini che deve eseguire (vv. 52-53: «se ricevi un ordine strano, / un ordine di quelli da te mai uditi in passato, devi obbedire»). Per persuadere Neottolemo ad agire secondo i suoi ordini il re di Itaca fa perno anche su un altro argomento, mettendo in evidenza il fatto che se il giovane facesse in modo che Filottete li seguisse a Troia compirebbe un’azione di utilità “comune” per i Greci, come sottolinea anche il coro a vv. 1143-1145: «Neottolemo, / sottoposto al comando di lui, / ha fatto il bene comune di tutti i suoi». In questo S. Chignola, Foucault oltre Foucault, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 179. Il termine ghennaios, qui impiegato, letteralmente significa infatti «corrispondente alla natura/alla nascita». 39

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100 Valentina Moro modo il testo tragico ci permette di “segmentare”, nella diacronia della sua realizzazione, la trasmissione di un ordine all’interno di una gerarchia militare (proprio grazie al fatto che la “ribellione” di Neottolemo agli ordini del suo comandante interrompe la fluidità di tale trasmissione), e di analizzarla in ogni suo passaggio, mentre normalmente se ne considera soltanto la realizzazione finale. Il giovane sceglie di assumersi tale rischio, nella netta convinzione che il discorso che sta pronunciando sia parola di verità. Infatti, con le parole «cosa debbo fare?» al v. 895 questi pronuncia la prima esplicita espressione di turbamento e inizia una sorta di “monologo interiore”, condotto contemporaneamente alla sticomitia con Filottete: egli capisce che può confrontarsi solo con se stesso per decidersi riguardo al da farsi, lamentando il fatto che il suo «discorso» non abbia «vie d’uscita» (v. 897), e che «tutto diventa fastidio quando si tradisce la propria natura per fare ciò che non si deve». Il giovane denuncia quindi un tradimento verso se stesso ma (qui ancora indirettamente) anche verso Filottete. Egli dimostra infatti il proprio valore individuale attraverso il proprio “mutamento” (si veda v. 1270, dove lui stesso dichiara di «aver cambiato idea»; cfr. anche vv. 915 e ss., dove il giovane svela l’inganno a Filottete, dicendogli: «non ti terrò nascosto nulla»), con l’ammissione di aver «commesso un errore» (cfr. v. 1224) e di aver ingannato un uomo (cfr. v. 1228, «con turpi raggiri e inganni» e v. 1234), ma anche con la compassione che prova nei confronti dell’uomo ferito e malato (cfr. vv. 965-966). È proprio questo stesso discorso, infine, che gli consente di relazionarsi nuovamente con Filottete, giocando a carte scoperte e tentando di riposizionarsi rispetto all’eroe, suo interlocutore, ricostruendo la reciprocità, la parità richiesta come base per un rapporto di fiducia. Il giovane infatti invita Filottete a salpare, invocando come proprio testimone «Zeus, garante dei giuramenti» (v. 1324): appoggiandosi non dunque a una base di fiducia che sa bene di aver perduto, ma alla ragionevolezza ed ineluttabilità della parola degli dei. Con la stessa autorevolezza il giovane rimprovera in seguito Filottete per la sua scelta “suicida” di restare a Lemno, non ascoltando le sue parole sebbene egli si mostri suo philos (cfr. v. 1385), e gli impartisce un insegnamento, in virtù dell’esperienza che lui stesso ha appena conseguito nel “conoscere se stesso”: «impara a non essere fiero in relazione ai mali» (v. 1387). Riassumendo, perché si possa parlare di “responsabilità” del parlante è dunque necessario che chi parla lo faccia a partire da una certa posizione


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rispetto alle relazioni istituzionali nelle quali si trova calato: deve esserci, come già evidenziato, una differenza di status tra il parlante e il suo uditorio. All’interno del Filottete (e in generale nelle tragedie sofoclee) non si trova mai un riferimento lessicale ad un rapporto parresiastico. Eppure è rilevante sottolineare l’affinità nella concezione della verità che emerge nel discorso del parresiasta così come in quello di Neottolemo, e il risvolto politico che tale concezione assume. Si tratta, appunto, di una verità non più s-velata agli uomini dagli dei e non più monopolio esclusivo di una qualche autorità (politica, sociale eccetera), bensì la verità è quella che ciascuno si assume (ed è in grado di assumersi) la responsabilità di dire, e che dunque ha valore proprio in quanto si configura all’interno di un “dire”, nella dimensione sociale (pertanto istituzionale) a partire dalla quale si parla. Analizzando lo Ione di Euripide, Foucault41 sottolinea il fatto che nella tragedia vi sia stato uno spostamento della verità da Delfi ad Atene, dove, appunto, essa non veniva più svelata agli esseri umani dagli dei, bensì da esseri umani ad altri esseri umani, per mezzo della parrēsia; è una verità per trovare e per dire la quale gli uomini si devono mettere in gioco. La dimensione politica in cui si configura propriamente tale “dir vero”, sottolinea ancora Foucault, è quella istituzionale della cittadinanza ateniese: conferire la cittadinanza ateniese significava concedere la possibilità di avere, all’interno delle istituzioni della polis, lo status di “uomo libero” e il “privilegio della parrēsia”. Questa concezione della verità va dunque di pari passo con una “specializzazione” del linguaggio politico tra l’età arcaica e quella classica, nel momento in cui la libertà di parola in assemblea diventa diritto base del cittadino42. La riflessione foucaultiana si inscrive all’interno di una considerazione della politica sulla base di relazioni asimmetriche che portano a pensare il potere sempre a partire dalla critica ad esso. L’assenza di verità come morbo politico La posta in gioco propriamente politica di quest’analisi della tragedia sta nel comprendere le ripercussioni dell’oscillazione della decisione politica fra la necessità di una mediazione e di un compromesso che Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité, cit., p. 22. Si veda al riguardo anche L.M. Napolitano Valditara, Platone e le “ragioni” dell’immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 141. 41 42


102 Valentina Moro scaturisca dall’oblio dell’odio e dal respingimento del conflitto all’esterno della compagine comunitaria, e una riemersione continua della pulsione conflittuale. Nell’economia del testo tragico, da una parte Filottete rappresenta questa drammatica e irriducibile riemersione, tanto più in quanto egli è l’eroe extra-ordinario, la cui voce non accetta di essere messa a tacere, dall’altra Odisseo rappresenta l’istituzione, quell’istanza che si pone come punto fermo, come garanzia di sicurezza per la decisione dell’uomo politico, e che, tuttavia, è incarnata dall’uomo polytropos per eccellenza, l’uomo dell’artificio e, in particolare nell’interpretazione sofoclea della vicenda, dell’apatē. Le due istanze contrapposte si fronteggiano e la tragedia dell’uomo greco del V secolo, in particolare di colui che ricopre un incarico politico (nel testo si tratta, evidentemente, di Neottolemo), è proprio quella del decidere, avendo la responsabilità non solo per la propria sorte ma soprattutto per quella della comunità. In un’epoca in cui il punto di riferimento della voce della divinità è venuto ormai totalmente a mancare, assieme a quello di ogni possibile “maestro di verità”, poeta o indovino che sia , in cui la verità è universalmente intesa come una “verità” detta, comunicata, e dunque inevitabilmente sottoposta a dubbio e a interpretazione (il portato più innovativo dell’insegnamento della Sofistica), le conseguenze effettive della difficoltà politica, oltre che morale, del decidere risultano efficacemente riscontrabili nella letteratura del tempo, e ancor più in un testo tragico. Nel Filottete il conflitto interno alla comunità riemerge fino alla fine come impossibile da mettere a tacere, se lo si considera dal punto di vista del rapporto fra il soggetto e le parole da lui stesso proferite. L’accostamento con la sedizione all’interno della polis, in quanto comunità organizzata, sistema chiuso, è infatti immediato. Un morbo politico che dunque assomiglia tanto ad un morbo fisico, al medesimo morbo che colpisce Filottete, e che il corpo malato stesso di Filottete, a sua volta, rappresenta, all’epoca della prima spedizione greca su Troia, per la stabilità interna dell’esercito sulle navi dei Greci, impossibilitato, a causa del fetore della ferita, a celebrare i riti e le libagioni in onore degli dei. Sulla scorta delle analisi di Foucault è possibile leggere, nel testo tragico, il mito nella forma di quei “giochi di verità” cui si accennava nel terzo paragrafo di questo articolo. Proprio in essi è riscontrabile inoltre la riemersione costante della pulsione conflittuale, che Loraux mostra come centrale per definire il “politico” nella Grecia del V secolo:


Verità e discorso: il “politico” nel linguaggio tragico 103

la presa di parola, nella menzogna o nell’assunzione di responsabilità che il dire-vrai comporta, viene da Sofocle presentata come totalmente libera (anche qualora comporti un rischio per il parlante), rispecchiante il contesto assembleare che veniva considerato il simbolo dell’ideologia democratica ateniese. Similmente, il personaggio di Tersite, nel secondo libro dell’Iliade, prende la parola nel corso di un’assemblea deliberativa in opposizione a Odisseo, trovandosi poi a subire la violenza di questo43. Arlene W. Saxonhouse fa riferimento all’episodio omerico, sottolineando come Tersite non fosse in realtà legittimato a parlare liberamente. Eppure è il suo stesso atto di presa di parola che gli consente, pur con ripercussioni violente, di entrare di fatto nella cerchia deliberativa tradizionalmente riservata ai potenti. In episodi come questo, Saxonhouse legge l’emergere nel pensiero greco dei prodromi di quello che Foucault definirà il “parlar franco” dei parresiasti, che non nasce dunque come un diritto garantito (come sarà poi nell’Atene del V secolo), bensì come il raggiungimento della libertà dalle gerarchie, nel rifiuto dei principi aristocratici afferenti alla cosiddetta «società della vergogna»44. Il conflitto, di cui parla Loraux, costitutivo della democrazia ateniese ma occultato, nella stessa, dall’ideologia dell’uguaglianza assembleare, si traduce per Foucault nella libera presa di parola individuale, la cui componente di rischio è inversamente proporzionale alla posizione d’autorità a partire dalla quale ciascuno parla. Non ci è possibile in questa sede sviluppare un’analisi comparata e dettagliata delle specificità rispettive delle ricerche di Foucault e Loraux attorno alla democrazia ateniese, che permetta di comprendere appieno ciò che diversifica il concetto di “regime di verità” rispetto al “regime di memoria” di cui parla Loraux. È sufficiente in questa sede fare solo un breve riferimento al testo di Jean Terrel, Politiques de Foucault, il cui quarto capitolo mette a confronto le analisi condotte da ciascuno dei due autori attorno alla tragedia Ione di Euripide, alla quale Cfr. Hom. Il. II, vv. 274-360. Si veda al riguardo A.W. Saxonhouse, Free Speech and Democracy in Ancient Athens, Cambridge University Press, Cambridge 2006. Si veda anche H.M. Roisman, Women’s Free Speech in Greek Tragedy, in I. Sluiter e R. M. Rosen (a cura di), Free Speech in Classical Antiquity, Brill, Leiden 2004, pp. 91 e ss., sulla fondamentale distinzione tra isēgoria, come diritto proprio a tutti i cittadini al “discorso pubblico” (cioè a prendere parola rivolgendosi a un organo di governo della polis), e parrēsia, come “privilegio” di parlare in pubblico anche criticando persone, istituzioni e politiche specifiche. 43 44


104 Valentina Moro abbiamo fatto riferimento in precedenza45. Da una parte Loraux si occupa della questione della parrēsia in riferimento alla democrazia ateniese, ritrovando nel teatro (e, nello specifico, nella tragedia) lo strumento grazie al quale le istituzioni democratiche mettevano in questione i propri limiti e presupposti, tra i quali, per l’appunto, l’imposizione di un artefatto “regime di memoria” che mettesse a tacere quella dimensione conflittuale originaria della quale abbiamo discusso anche in questo contributo. Dall’altra Foucault “relativizza”, al contrario, la specificità della democrazia greca del V secolo: essa, non diversamente da qualsiasi altro ordinamento istituzionale, si traduce pur sempre in relazioni di potere. È alla luce di queste (e non della “deliberazione pubblica” che caratterizza in maniera originale l’ordinamento democratico ateniese, secondo Loraux) che a Foucault interessa studiare la parrēsia: un diritto e insieme una sorta di dovere di resistenza per il governato, di critica per l’intellettuale. Valentina Moro Università degli Studi di Padova valentina.moro.8@gmail.com . Truth and Discourse: the “Political” in Tragic Language The aim of this article is to problematize some key elements of Sophocles’ Philoctetes by using a Foucauldian methodology and analyzing its language and dramaturgy. It focuses on the very idea of truth, and on the relationship between the subjects and their own particular way of understanding and telling the truth. Truth is always told – as Foucault points out – and the way it is told is framed by the rules of language. This is the same tragic conclusion achieved by Neoptolemus, the young protagonist of the Philoctetes, at the end of the play. In this article, I explain how this idea has a strong relation with the 5th century BC socio-institutional context, and with the Greeks’ philosophical and political thought. In doing so, I mainly refer to Nicole Loraux and her account of Greek politics as framed by the element of conflict, instead of the institution of citizenship and the idea of equality. The aim of the article is to use Foucault 45

Si veda J. Terrel, Politiques de Foucault, PUF, Paris 2010, pp. 225 e ss.


Verità e discorso: il “politico” nel linguaggio tragico 105 as a model of analysis – as a tool – in order to understand how Sophocles’ play, instead of being centered on a prevalent notion of “truth”, presents a polyphony of many different voices in conflict with each other, showing how truth always circulates through language and is always embodied. Keywords: Theatre of Truth, Sophocles, Nicole Loraux, Parrēsia, Stasis, Tragic Language, Greek Political Thought.



Regimi di verità in Michel Foucault Giulia Guadagni

Introduzione

L’intento di questo contributo è ricostruire il percorso che ha condotto

Foucault da una prima ipotesi di correlazione tra produzione discorsiva, verità e potere negli anni sessanta, alla definizione di due regimi di verità differenti, tra la seconda metà degli anni settanta e il 1980: il regime di auto-indicizzazione del vero, specifico della scienza moderna e contemporanea, e il regime del dir-vero su se stessi, risalente all’antichità e al primo cristianesimo. Il concetto di regime di verità è stato elaborato da Foucault a metà degli anni settanta e ricopre un ruolo fondamentale nell’ambito delle sue ricerche sui rapporti tra soggettività e verità. Un regime di verità è un modo di legare l’individuo e le forme della soggettività alla manifestazione del vero1, posto che per «verità» non si intenda «l’insieme delle cose vere che sono da scoprire o da fare accettare, bensì l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere»2. Riferimento centrale per questo tema è la lezione tenuta al Collège de France il 6 febbraio 1980, durante il corso Du gouvernement des vivants. Attraverso una ricostruzione della formazione e dello sviluppo della nozione di regime di verità si intende sia offrirne un quadro il più possibile completo, mettendo in luce lo statuto teorico autonomo che essa ricopre nell’opera di Foucault, sia darle la solidità concettuale e la sistematicità necessarie a farne un uso il più possibile rigoroso e fecondo. 1 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France. 1979-1980, Seuil-Gallimard, Paris 2012; trad. it. di D. Borca e P. A. Rovatti, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, p. 106 [d’ora in poi GV]. 2 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, realizzata nel 1976 da A. Fontana e P. Pasquino, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 171-192, in particolare p. 191.

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 107-126.


108 Giulia Guadagni Nel mettere in rilievo il concetto di regime di verità si intende inoltre smorzare la rigidità dell’interpretazione che (tri)partisce il pensiero di Foucault in una successione cronologico-tematica di sapere, potere e etica. In tal senso questo contributo si inserisce in un insieme recente di studi che ripensa il percorso foucaultiano a partire dalla lettura dei corsi al Collège de France, la cui pubblicazione si è appena conclusa3. L’analisi complessiva dei tre registri della produzione scritta e orale di Foucault fa emergere elementi che restano sottotraccia nella sola lettura dei libri. In questa sede in particolare vedremo come, attraverso una tale lettura integrata, la verità emerga quale tema costante dell’intero suo percorso filosofico4. Il concetto di regime di verità rientra a pieno titolo nella storia politica della verità che, a più riprese, Foucault si è proposto di tracciare5. A tal proposito è opportuno ricordare che il progetto di condurre una storia politica della verità si fonda sul presupposto teorico che la verità abbia una storia. I riferimenti in questo senso sono sia il Nietzsche del periodo attorno al 1880 per il quale «erano […] centrali le questioni della verità, della storia della verità, della volontà di verità»6, Per una ricostruzione del percorso editoriale dei corsi di Foucault al Collège de France e delle implicazioni letterarie, filosofiche, giuridiche e politiche della loro pubblicazione rimandiamo a C. Del Vento e J.-L. Fournel, L’édition des cours et les « pistes » de Michel Foucault. Entretiens avec Mauro Bertani, Alessandro Fontana et Michel Senellart, in «Laboratoire italien», n. 7 (2007), pp. 173-198. 4 In tale senso, ha ricoperto un ruolo rilevante anche la recente pubblicazione delle conferenze al Dartmouth College del 1980, M. Foucault, Subjectivity and Truth e Christianity and Confession, ed. it., Sull’origine dell’ermeneutica di sé, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012; e del corso tenuto all’Università di Lovanio nel 1981, M. Foucault, Mal faire, dir vrai. Fonction de l’aveu en justice. Cours de Louvain, 1981, Presses Universitaires de Louvain-University of Chicago Press, 2012; trad. it. di V. Zini, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981, Einaudi, Torino 2013. 5 Cfr. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. di A. Fontana, M. Bertani e V. Zini, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972; Id., Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, Seuil-Gallimard, Paris 2003; trad. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004, pp. 210-212; Id., La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 54. 6 M. Foucault, Structuralism and Post-Structuralism, intervista con G. Raulet, in «Telos», vol. 16 (1983), n. 55, pp. 195-211; trad. fr. in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. IV, n. 330, pp. 431-57 [d’ora in poi DE]; trad. it. Strutturalismo e post-strutturalismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 301-332, in particolare p. 317. Cfr. Id., Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971; ripreso in DE, vol. II, n. 84, pp. 1363


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sia l’epistemologia storica francese, soprattutto Bachelard e Canguilhem7. L’attenzione per la relazione tra verità e potere, evidenziata dall’uso di un termine politicamente forte come «regime», non è però un punto di partenza per Foucault, bensì in un certo senso un punto di arrivo, almeno nel percorso che lo ha portato da Histoire de la folie à l’âge classique, nel 1960, a La volonté de savoir, nel 1976. Negli anni sessanta infatti ciò che gli premeva indagare era la questione della relazione tra produzione discorsiva e verità. L’archéologie du savoir in particolare era parzialmente intrappolata in quella che Dreyfus e Rabinow hanno chiamato «illusione del discorso autonomo»8. In seguito, negli anni settanta, egli ha concentrato la propria 56; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 43-64, in particolare p. 47; cfr. anche Id., Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France. 19701971, Seuil-Gallimard, Paris 2011; trad. it. di M. Nicoli e C. Troilo, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), Feltrinelli, Milano 2015, in particolare la Lezione su Nietzsche, conferenza tenuta all’Università McGill di Montréal nell’aprile 1971. 7 Sull’influenza della «tradizione epistemologica» francese sulla propria opera, soprattutto quella esercitata da Canguilhem, si veda M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, in particolare l’Introduzione; Id., Sur l’archéologie des sciences. Réponse au Cercle d’épistémologie, in «Cahiers pour l’analyse», n. 9 (1968), pp. 9-40 ; ripreso in DE, vol. I, n. 59, pp. 696731; trad. it. di M. de Stefanis, Il sapere e la storia. Due risposte sull’epistemologia, Savelli, Milano 1979; Id., Strutturalismo e post-strutturalismo, cit., in particolare pp. 306-307 e pp. 311-312; Id., La vie: l’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de morale», vol. 90 (1984), n. 1, pp. 3-14, poi Postfazione a G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, PUF, Paris 1994; trad. it. La vita: l’esperienza e la scienza, in G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998; D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 2005, in particolare pp. 52-53. Sul rapporto tra Foucault e l’epistemologia storica rimandiamo a D. Lecourt, Pour une critique de l’épistemologie, Maspero, Paris-Montpellier 1972; trad. it. di F. Fistetti, Per una critica dell’epistemologia, De Donato, Bari 1973; J. Revel, Michel Foucault: discontinuité de la pensée ou pensée du discontinu?, in «Le Portique» (en ligne), nn. 13-14 (2004), in <http://leportique.revues.org/635> (consultato il 6 agosto 2017); P. Macherey, Da Canguilhem à Foucault, la force des normes, La fabrique éditions, Paris 2009; trad. it. Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme, ETS, Pisa 2011; Ph. Sabot, Archéologie et histoire des sciences. Y a-t-il un « style Foucault » en épistémologie?, in P. Cassou-Noguès e P. Gillot (a cura di.), Le concept, le sujet et la science. Cavaillès, Canguilhem, Foucault, Vrin, Paris 2009, pp. 109-124. 8 È il titolo del primo capitolo del loro libro. Con l’espressione «illusione del discorso autonomo» gli autori evidenziano lo spostamento operato da Foucault a metà degli anni sessanta, «da un interesse per le pratiche sociali che caratterizzavano sia il discorso che le istituzioni» a «una attenzione quasi esclusiva alle pratiche linguistiche». Ciò, a parere di Dreyfus e Rabinow, avrebbe condotto Foucault, nell’opera del 1969, a trascurare


110 Giulia Guadagni attenzione sugli effetti di potere dei discorsi scientifici, inseguendo la risposta alla domanda «in che modo, nelle società occidentali moderne, la produzione di discorsi cui si è attribuito (almeno per un certo periodo di tempo) un valore di verità è legata ai vari meccanismi e istituzioni di potere?»9. Come scrive Judith Revel, l’analitica del potere gli ha permesso di superare «la divisione – vigente in tutti gli anni sessanta – tra discorsivo e non discorsivo»10. Negli anni ottanta, infine, Foucault ha ricentrato la propria ricerca sulla relazione tra manifestazione del vero, costituzione di soggettività e forme di governo. Le ricerche degli anni sessanta però, pur non problematizzandolo in maniera esaustiva, già alludevano al tema del potere. Osservando ciò, diventa possibile rinunciare almeno in parte alla divisione tematica tra anni sessanta, settanta e primi anni ottanta. Definizioni iniziali La locuzione «regime di verità» è entrata a far parte del lessico foucaultiano solo nel corso del biennio 1975-1976. Nonostante ciò è possibile ricostruirne l’origine nelle opere degli anni sessanta, in particolare in Histoire de la folie à l’âge classique e ne L’archéologie du savoir e mostrare così il percorso attraverso cui Foucault, nel 1980, è arrivato a concentrare la propria ricerca sulla relazione tra il dire-il-vero e le forme di implicazione e costituzione di soggettività e a definire il regime di verità specifico delle scienze come regime di auto-indicizzazione del vero. Negli anni sessanta, l’attenzione di Foucault era rivolta principalmente alle scienze umane le quali, in virtù del loro statuto epistemologico ambiguo l’influenza esercitata dalle pratiche sociali su quelle discorsive e a presupporre una fittizia autonomia del ricercatore dal proprio oggetto d’indagine; cfr. H. Dreyfus e P. Rabinow, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press, Chicago 1983; trad. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 9-10. Secondo gli autori però Foucault non ha mai veramente rinunciato alla sua posizione iniziale secondo la quale le istituzioni sociali esercitano un’influenza significativa sulle pratiche discorsive. Sembrano perciò suggerire che L’archéologie du savoir sia una parentesi, un esperimento metodologico, all’interno del pensiero di Foucault; cfr. ivi. pp. 18-19. 9 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 8. 10 J. Revel, Michel Foucault. Un’ontologia dell’attualità, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, p. 94.


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ed essendo strettamente legate ad istituzioni e a esigenze economiche, politiche e sociali immediatamente riconoscibili, offrivano un terreno d’indagine adatto a «cogliere in modo più “certo” il groviglio degli effetti di sapere e potere»11. Rispetto alle cosiddette scienze dure le scienze umane mostrano immediatamente i rapporti che intrattengono con le strutture politiche ed economiche della società. Nelle pagine di Histoire de la folie dedicate a Descartes si trova allo stato embrionale ciò che, ne L’ordre du discours, si chiamerà partage, cioè uno dei princìpi di esclusione che operano all’interno della produzione dei discorsi scientifici. Nel corso della lezione inaugurale al Collège de France, nel 1970, il partage sarà descritto come quel principio di esclusione che si manifesta nella relazione tra ragione e follia. Secondo tale principio, che nell’interpretazione di Foucault è stato inaugurato da Descartes, «il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri»12. Già in Histoire de la folie la filosofia cartesiana era intesa come atto inaugurale dell’idea secondo la quale la ragione è comune a tutti, eccetto che ai folli. La follia infatti occupa un posto del tutto particolare nella formulazione del dubbio cartesiano, distinguendosi dal sogno e dall’errore. Se questi ultimi possono essere esperiti e poi ce ne si può liberare, perché garantiscono il permanere della verità, la follia no. L’impossibilità di essere folle è «essenziale non all’oggetto del pensiero, ma al soggetto pensante»13. Come scrive Salvatore Natoli seguendo Foucault, «[la follia] non consente neppure di dubitare. Il pensiero del folle non può essere erroneo, perché non è neppure pensiero. In tale senso non compromette il cammino verso la verità, perché non gli appartiene»14. L’analisi del pensiero di Descartes occupa solo poche pagine di Histoire de la folie à l’âge classique, ma è fondamentale. Svolgendo tale analisi infatti, da una parte Foucault mette in evidenza uno dei contenuti del cogito, cioè l’esclusione della follia dal percorso conoscitivo razionale il quale permette di constatare che c’è una verità e di muoversi in direzione della verità; dall’altra parte egli propone di leggere la filosofia cartesiana come espressione essa stessa di una riorganizzazione del sapere, come momento M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 171. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 11. 13 M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1972; trad. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976, p. 68. 14 S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005, p. 43. 11 12


112 Giulia Guadagni istitutivo di una più generale pratica di esclusione15. Dunque, anche se in modo meno approfondito ed esplicito che in seguito, già nella sua prima opera Foucault metteva in evidenza gli effetti di potere generati dalla pratica discorsiva. Vent’anni dopo riprenderà Descartes al momento di definire il regime di auto-indicizzazione del vero. Nella definizione di formazione discorsiva de L’archéologie du savoir rintracciamo un embrione di quello che sarà il concetto di regime di verità. In questo testo Foucault tratta degli enunciati come di quegli atti linguistici in cui «un soggetto autorizzato asserisce (scrive, dipinge, dice) ciò che – sulla base di un metodo accettato – appare come una seria pretesa di verità»16. Si tratta esclusivamente di un tipo molto specifico di atto linguistico che Dreyfus e Rabinow definiscono «serious speech act»17, cioè quell’atto linguistico le cui procedure di convalidazione sono fissate, e che è soggetto a regole che ne determinano la possibilità di essere accettato come scientificamente vero: non enunciati qualsiasi dunque, non enunciati quotidiani. Nel testo del 1969, nell’ambito della domanda circa il fondamento dell’unità delle «famiglie di enunciati […] che si designano come la medicina o l’economia o la grammatica»18, Foucault scrive che ci si troverà di fronte a una formazione discorsiva «nel caso in cui, tra un certo numero di enunciati [serious speech acts], si possa descrivere un […] sistema di Cfr. ivi, pp. 30-32. La posizione di Foucault sul cogito cartesiano ha dato avvio a una discussione con Derrida, protrattasi negli anni attraverso la pubblicazione di alcuni scritti. Nel 1963 Derrida ha tenuto una conferenza, pubblicata l’anno successivo col titolo Cogito e histoire de la folie, nel corso della quale criticava le pagine di Histoire de la folie dedicate a Descartes. A questo scritto Foucault ha risposto nel 1972 con un articolo inizialmente pubblicato in giapponese e ripubblicato lo stesso anno, in una diversa versione, in appendice alla riedizione di Histoire de la folie dello stesso anno. Cfr. J. Derrida, Cogito e histoire de la folie, in «Revue de métaphysique et de morale», nn. 3-4 (1964); trad. it. in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971; M. Foucault, Michel Foucault Derrida e no kaino, in «Paideia», n. 2 (1972), pp. 131-147; trad. fr., Réponse a Derrida, in DE, vol. I, n. 140, pp. 281-295; trad. it. Risposta a Derrida, in Id., Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 101-118 e Id., Mon corps, ce papier, ce feu, appendice III a Histoire de la folie à l’âge classique, cit.; trad. it. Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, in Id., Storia della follia nell’età classica, cit. Per una ricostruzione e un commento critico sulla querelle con Derrida rimandiamo a F.P. Adorno, Événement et origine dans « Histoire de la folie », in D. Lorenzini e A. Sforzini (a cura di), Un demie-siècle d’« Histoire de la folie », Kimé, Paris 2013, pp. 89-102. 16 H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 72. 17 Ibidem. 18 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 47. 15


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dispersione, nel caso in cui, tra gli oggetti, i tipi di enunciazione, i concetti, le scelte tematiche, si possa definire una regolarità»19. Le formazioni discorsive sono le regolarità mostrate dai rapporti tra serious speech acts dello stesso genere e di genere differente e le trasformazioni cui sono sottoposte20. Ora, le famiglie di enunciati che compongono le scienze umane sono famiglie di serious speech acts. Un legame tra i concetti di formazione discorsiva e di regime di verità emerge nel corso di un’intervista rilasciata a Pasquale Pasquino e Alessandro Fontana nel 1976, durante la quale Foucault usa la parola «regime» riferendosi alle proprie opere degli anni sessanta21. In Histoire de la folie e ne Les mots et les choses il problema del potere era ancora poco evidenziato: «ciò che mancava al mio lavoro – dice – era questo problema del “regime discorsivo”, degli effetti di potere propri al gioco enunciativo»22. Riferendosi alla domanda posta negli anni sessanta circa le trasformazioni dei paradigmi scientifici, nella stessa intervista sostiene che tali trasformazioni non siano semplicemente delle nuove scoperte, ma nuovi regimi nel discorso e nel sapere23, e che avvengano in virtù di una «modificazione nelle regole di formazione degli enunciati che sono accettati come scientificamente veri»24. Il regime discorsivo è qui inizialmente indicato come «quel che regola gli enunciati ed il modo in cui si reggono gli uni agli altri per costituire un insieme di proposizioni scientificamente accettabili e suscettibili di conseguenza di essere verificate o falsificate attraverso procedimenti scientifici25. Riconosciamo in questa prima definizione di regime discorsivo un’elaborazione ulteriore del concetto di formazione discorsiva. La domanda all’interno della quale Foucault si muove è ancora quella circa le relazioni tra vero e falso nell’ambito delle discipline scientifiche, il tema è la verità intesa come sistema che definisce la partizione tra vero e falso. Si può allora sostenere che la formazione discorsiva corrisponda al regime Ivi, p. 48. Cfr. H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 73. 21 Tale operazione di analisi e riformulazione del proprio percorso passato è un tratto ricorrente del suo filosofare, occorre dunque leggere le osservazioni di questo genere tenendo conto del loro statuto particolare di retrospettive. 22 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 174. 23 Cfr. ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 19 20


114 Giulia Guadagni discorsivo spogliato dei suoi effetti di potere26. Occorre tuttavia limitare questa analogia al regime discorsivo, poiché le successive definizioni di regime di verità chiameranno in causa dimensioni, come quella della soggettività, ancora estranee all’opera del 1969. Nonostante ciò il legame che è stato evidenziato tra gli scritti foucaultiani degli anni sessanta e un periodo successivo, sembra avvalorare l’ipotesi di una continuità tematica, costituita dal tema della verità, che sfugge alla tripartizione sapere-potere-etica. Il regime di verità nell’analitica del potere Senza addentrarci oltre nell’analisi de L’archéologie du savoir, possiamo affermare che Foucault si sia dedicato alla questione della verità, della pretesa di verità e della sua relazione con il potere già a partire dalla fine degli anni sessanta. Egli stesso, nell’intervista del 1976, descrive un ponte che collega Histoire de la folie a Surveiller et punir. Già le ricerche sulla follia erano ricerche sul potere ma questa tematica non era stata esplicitata, come dimostra il fatto che la parola «potere» non vi appare quasi mai27. Foucault riconduce tale forma di censura alla situazione politica di allora, dominata da una destra che poneva il problema del potere solo in termini di sovranità, in termini giuridici, e dai marxisti che lo ponevano solo in termini di apparato di Stato. Solo dopo il ’68, «a partire dalle lotte quotidiane e condotte alla base, con quelli che si dibattevano nelle maglie Anche se non nei termini di un confronto diretto tra le nozioni di formazione discorsiva e di regime di verità, bensì per fugare l’interpretazione secondo cui, a partire dal 1980, Foucault avrebbe mutato completamente direzione nel dedicarsi al cristianesimo delle origini e all’antichità greca e romana, Bertani evidenzia il legame che intercorre tra L’archéologie du savoir e le opere della seconda metà degli Settanta, sostenendo che proprio l’indagine sui rapporti tra soggetto e verità abbia accompagnato Foucault lungo tutto il suo percorso filosofico; cfr. M. Bertani, La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 75-100, in particolare pp. 76-77. 27 Cfr. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., pp. 176-177. A proposito della continuità che lega le prime opere di Foucault, in particolare Histoire de la folie à l’âge classique e alcuni corsi al Collège de France degli anni settanta, in merito ai rapporti tra verità e potere rimandiamo a D. Defert, Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault, intervista con O. Irrera e D. Lorenzini realizzata il 9 novembre 2011, in «materiali foucaultiani», vol. 1 (2012), n. 2, pp. 145-157, in particolare pp. 145-146. 26


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più fini della rete del potere»28, è stato possibile occuparsi di tematiche che fino ad allora erano rimaste escluse dall’analisi politica: «l’internamento psichiatrico, la normalizzazione mentale degli individui, le istituzioni penali»29. Tali questioni non erano pertinenti a un’analisi subordinata alla sola istanza economica, ma lo sono diventate – conclude Foucault – anzi, sono diventate essenziali, quando ci si è potuti rivolgere al «funzionamento generale degli ingranaggi del potere»30. In ciò, e nella militanza con il Groupe d’information sur les prisons troviamo la motivazione storica dell’analitica del potere. Come scrive Revel, l’esperienza del G.I.P. ha permesso a Foucault di sviluppare «un nuovo modello d’indagine che non separa più l’esperienza soggettiva dalla teorizzazione»31. Foucault stesso quindi, tra le sue ricerche dell’inizio degli anni sessanta e quelle degli anni settanta, disegna un ponte costituito dalla ricerca intorno ai regimi discorsivi, cioè dalla questione del rapporto tra il sapere e le relazioni di potere. All’inizio degli anni settanta dunque è tornato su un tema che era già presente in forma embrionale in Histoire de la folie e che ha ritrovato il suo posto centrale a partire da L’ordre du discours, caricato di una nuova pregnanza politica. All’interno dell’analitica del potere è messa in luce a più riprese la relazione tra potere e verità e i suoi effetti. Fedele al proprio metodo di rinuncia agli universali32, Foucault sostiene che il potere non sia un oggetto M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 177. Ibidem. 30 Ibidem. 31 J. Revel, Michel Foucault. Un’ontologia dell’attualità, cit., p. 94. 32 Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil-Gallimard, Paris 2004; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 14-15 e pp. 30-31; GV, pp. 87-88; Id., Foucault, in D. Huisman (a cura di), Dictionnaire des philosophes, PUF, Paris 1984, vol. I, pp. 942-944; trad. it. di S. Loriga, Foucault, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3 (1978-1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 248-252, in particolare pp. 250-51. Rimandiamo inoltre a P. Veyne, Foucault révolutionne l’historie, Seuil, Paris 1979; Id., Foucault et le dépassement (ou achèvement) du nihilisme, Seuil, Paris 1989; Id., Le dernier Foucault et sa morale (1986), ed. it. a cura di M. Guareschi, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, Ombre Corte, Verona 1998, p. 45, p. 48 e p. 54; M. Senellart, Michel Foucault: gouvernementalité et raison d’État, in «La pensée politique», n. 1 (1993); trad. it. di G. Gentile, Michel Foucault: governamentalità e ragion di Stato, in «Bollettino dell’Archivio della Ragion di Stato», n. 2 (1994), pp. 37-73, in particolare p. 63; P. Veyne, Foucault, Albin Michel, Paris 2008; trad. it. di L. Xella, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano 2010, pp. 45-61; M. Bertani, La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana, cit., p. 76. 28 29


116 Giulia Guadagni ma un rapporto di forza, una relazione. Il potere non è un oggetto di scambio, non si dà e non si possiede. Non bisogna perciò domandarsi chi lo detenga, perché «non è qualcosa che si divide tra coloro che l’hanno […] e coloro che non l’hanno e lo subiscono»33. Ciascuno è preso all’interno di molteplici e multidirezionali relazioni di potere e «nelle sue maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre posti nella condizione sia di subirlo che di esercitarlo34». Il potere inoltre è sempre correlato a un ordine del discorso, a un sapere, ad alcuni effetti di verità: Non c’è esercizio del potere senza una certa economia dei discorsi di verità che funzioni in – a partire da e attraverso – questo potere. Siamo sottomessi dal potere alla produzione della verità e non possiamo esercitare il potere che attraverso la produzione della verità. […] Siamo sottomessi alla verità anche nel senso che la verità fa legge; è il discorso vero che almeno in parte decide; esso trasmette, spinge avanti lui stesso degli effetti di potere35.

La relazione inscindibile tra potere e verità produce effetti di assoggettamento, contribuisce a costituire soggettività specifiche. Ogniqualvolta qualcosa viene definito come vero (o falso), cioè sempre, perché non c’è esercizio del potere senza un’economia dei discorsi di verità e perché il potere è presente in ogni relazione umana, tale definizione agisce sugli individui, «diventa una coordinata del loro diventare soggetti»36. È questo ciò che Foucault chiama assoggettamento, cioè il nostro essere «giudicati, condannati, classificati, costretti a compiti, destinati a un certo modo di vivere o a un certo modo di morire, in funzione dei discorsi veri che portano con sé effetti specifici di potere»37; potremmo dire in funzione di discorsi definiti veri. Nell’ambito delle relazioni tra individuo e verità, l’assoggettamento è «il modo in cui gli individui sono [conosciuti] e guidati dagli altri»38 attraverso M. Foucault, « Il faut défendre la société ». Cours au Collège de France. 1976, SeuilGallimard, Paris 1997; trad. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”. Corso al Collège de France (1976), Feltrinelli, Milano 2010, p. 33. 34 Ibidem. 35 Ivi, p. 29. 36 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Carocci, Roma 2013, p. 17. 37 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 29. 38 M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica di sé, cit., p. 40; rimandiamo anche a L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini e M. Tazzioli, Introduzione a A.A. V.V., Foucault e le genealogie del dir-vero, a cura di mf/materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2014, p. 10. 33


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tecniche coercitive, mentre la soggettivazione è il modo in cui gli individui conoscono e conducono se stessi39, «i processi attraverso cui il sé è costruito e modificato da se stesso»40, le pratiche di sé e le tecnologie di sé. A diversi regimi di verità, nei testi e nei corsi tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, corrisponderanno diversi effetti di assoggettamento e/o di soggettivazione. Se la prima occorrenza della locuzione «regime di verità» risale al 1975, in particolare al primo capitolo di Surveiller et punir, è durante l’intervista del 1976 con Pasquino e Fontana che essa emerge per la prima volta in tutta la sua valenza politica41. In questa occasione il concetto di regime di verità fa il suo definitivo ingresso nel lessico foucaultiano, introducendo, in relazione al tema della verità, quella dimensione del potere che era in qualche modo assente nei testi degli anni sessanta. Assumendo che «la verità non è al di fuori del potere, né senza potere»42, Foucault intende mettere in luce gli effetti di potere prodotti dal discorso scientifico. Durante la prima lezione del corso al Collège de France del 1976 domanda: «non bisognerebbe forse interrogarsi sull’ambizione di potere che la pretesa di essere una scienza porta con sé?»43. Con ciò non si propone di mettere in discussione la validità, la veridicità, di questa o quella teoria scientifica, bensì il fatto che i contenuti della scienza siano di per sé evidenti, in quanto scientifici. Egli intende evidenziare il fatto che l’assunzione della distinzione tra vero e falso come fondamento del processo conoscitivo innesca meccanismi di esclusione. Nell’intervista con Pasquino e Fontana si trova una prima definizione del regime di verità, della politica generale della verità, operante all’interno di ogni società come «l’insieme formato da i tipi di discorsi […] che [la società] accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica di sé, cit., p. 40. Ibidem. 41 Cfr. D. Lorenzini, What Is a “Regime of truth”?, in «Foucaultblog» (2013), Forschungsstelle für Sozial-und Wirtschaftsgeschichte, Universität Zürich, in <www.fsw. uzh.ch/foucaultblog/featured/28/what-is-a-regime-of-truth> (consultato il 6 agosto 2017). 42 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 189. 43 M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 18. 39 40


118 Giulia Guadagni verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che funziona come vero»44. Un regime di verità quindi costituisce la politica generale della verità di una determinata società, ed è formato da tipi di discorsi specifici, meccanismi, tecniche e status sociali. È una definizione molto più ampia di quella di regime discorsivo. Il regime di verità si determina nei legami che la verità intrattiene con i sistemi di potere che «la producono e la sostengono»45. La verità cui Foucault si riferisce – scrive Pier Aldo Rovatti – è una verità «de-metafisicizzata»46, è la verità così come è stato possibile pensarla dopo Nietzsche, non più come un oggetto da conoscere e da possedere, non come qualcosa di cui progressivamente appropriarsi, bensì una verità che «ha innanzitutto e sempre a che fare con la storia delle pratiche e con la storia specifica delle soggettivazioni»47. L’accostamento del termine «regime» alla verità così intesa introduce una dimensione politica, indica che la verità è sempre inserita in un rapporto di potere e che «è sempre anche la posta in gioco di una relazione di comando e di obbedienza che si tratta di far emergere»48. Per spiegare cosa sia un regime di verità si può ricorrere alla metafora del contenitore, utilizzata sia da Rovatti, sia da Paul Veyne. Quest’ultimo descrive i regimi di verità come delle bocce per i pesci, dei vasi «falsamente trasparenti»49 all’interno dei quali ciascuno è immerso dal momento in cui vive in una determinata epoca storica e in un luogo specifico: «ogni società – scriveva infatti Foucault – ha il suo regime di verità»50. Tale regime fa sì che la verità si riduca «a dire il vero, a parlare conformemente a ciò M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 190. Ivi, p. 191. 46 P.A. Rovatti, Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 35-48, in particolare p. 43. Questo articolo di Rovatti non tratta degli scritti di Foucault degli anni settanta, ma di quelli degli anni ottanta, in particolare della nuova definizione di regime di verità formulata in Du gouvernement des vivants. 47 Ivi, p. 45. 48 Ibidem. 49 P. Veyne, Foucault, cit., p. 21. 50 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 190. Bernini, riprendendo la metafora della boccia dei pesci, sostiene che Foucault alla fine, con le ricerche sull’antichità, abbia smentito, senza esplicitarlo, l’incommensurabilità dei sistemi di pensiero da lui stesso postulata; cfr. L. Bernini, Pesci rossi, filosofi e acrobazie. L’impossibile morale di Michel Foucault, in «Thaumàzein», n. 1 (2013), pp. 291-304. 44 45


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che si riconosce come vero e che un secolo più tardi farà sorridere»51. I regimi di verità, secondo la formulazione delle procedure di esclusione che regolano la produzione dei discorsi, esposta ne L’ordre du discours, sono ciò che determina la nostra possibilità o impossibilità di dire qualcosa, di reputare vero o falso qualcos’altro. Sono la griglia epistemologica in cui siamo immersi e dalla quale non si può uscire, che fa sì che alcuni discorsi siano possibili in un certo tempo e in un certo luogo e non in altri. Foucault, nel 1970, chiama «interdetto» l’effetto del regime discorsivo: quel meccanismo di esclusione, operante a livello dei discorsi per il quale «non si ha il diritto di dir tutto, […] chiunque, insomma, non può parlare di qualsiasi cosa»52. Il regime di verità agisce sia sul soggetto parlante sia sull’oggetto del discorso, sia sul chi parla sia sul cosa si dice. È ciò che la ricerca genealogica si propone di far emergere, pur nella consapevolezza di non potersene chiamare fuori (consapevolezza raggiunta da Foucault solo successivamente a L’archéologie du savoir, secondo Dreyfus e Rabinow53). Un regime di verità è l’espressione della relazione tra sapere e potere. Esso fa sì che, in un determinato periodo storico, alcuni saperi siano passibili di squalifica, implica che alcune voci abbiano diritto di cittadinanza e altre no. Ancora ne L’ordre du discours, Foucault fa l’esempio delle procedure di limitazione dei discorsi che presiedono all’organizzazione delle discipline scientifiche. A seconda dei tempi e dei luoghi, ogni disciplina – in questo caso il riferimento è alla botanica, alla biologia e alla medicina – ha un suo vero: l’esser vero o falso di una proposizione è preceduto dal suo essere «nel vero» della disciplina. Per appartenere a una disciplina una proposizione deve rispondere «a condizioni in un certo senso più rigide e più complesse della verità pura e semplice»54: deve rivolgersi a un piano di oggetti determinato, utilizzare specifici strumenti concettuali e tecnici e iscriversi in un certo tipo di orizzonte teorico. Solo il rispetto di queste condizioni fa sì che una proposizione sia «nel vero» di una disciplina. Mentre Veyne, almeno nel testo citato, si riferisce al livello epistemologico del regime di verità, Rovatti ne sottolinea il senso politico. P. Veyne, Foucault, cit., p. 21. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 9-10. È da notare come questa frase sia quasi identica a un’altra scritta nel 1969 a proposito delle condizioni che permettono l’apparire di un oggetto di discorso; cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 56. 53 Cfr. H. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 128. 54 M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 26. 51

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120 Giulia Guadagni Egli ricorda che il contenitore (la boccia dei pesci) non ha la sola funzione di «distribuire le parti del vero e del falso», ma «soprattutto detta le funzioni del comandare e dell’obbedire in una microfisica del potere che non passa sulle nostre teste, bensì attraversa i nostri corpi e – sempre di più – ci interpella come singoli individui»55. La metafora del contenitore, come sottolinea anche Rovatti, forse riferendosi alla descrizione di Veyne, è utile per farsi un’idea di cosa sia un regime di verità, ma è parzialmente imprecisa56. Se il regime di verità è la struttura in virtù della quale un dato sapere è ritenuto scientifico e gli si riconosce di conseguenza una certa portata veritativa, mentre a un altro no, esso è anche e soprattutto ciò che istituisce la differenza tra sapere scientifico e non; attraverso questo concetto Foucault sostiene che la conoscenza sia fondata sul gioco del vero e del falso. Con la parola «regime» quindi, Foucault introduce nel proprio campo di analisi quello che prima era mancato, l’attenzione esplicita agli effetti di potere determinati dal gioco enunciativo e una dimensione politica che emerge con chiarezza nello svolgersi dei suoi corsi al Collège de France. Tale concetto, pur segnando una distanza con le opere degli anni sessanta, proviene da esse, secondo i percorsi che abbiamo cercato di ricostruire. L’auto-indicizzazione del vero: il regime di verità delle scienze Il 6 febbraio 1980, durante la quinta lezione del corso Du gouvernement des vivants, Foucault problematizza la legittimità della nozione di regime di verità domandandosi: esistono degli obblighi di verità, così come esistono obblighi giuridici e politici? In che cosa e perché la verità obbliga57? Egli espone un’obiezione possibile all’accostamento dei due termini «regime» e «verità». Nel caso in cui si consideri la verità come contenente in se stessa la propria forza coercitiva – scrive – in questo caso la nozione di regime di verità sembra diventare superflua. Se si sostiene che la forza di coercizione della verità sta nel vero stesso, allora «la verità non ha affatto bisogno di un regime, di un regime di obbligo»58. È il vero stesso P.A. Rovatti, Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione, cit., p. 45. Cfr. ibidem. 57 Cfr. GV, p. 101. 58 GV, p. 102. 55 56


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a determinare il suo regime, a dettare legge, a obbligarmi, secondo la formula «è vero, e io mi inchino»59. Sostenendo tale concezione della verità – continua Foucault, rigettando la sua stessa obiezione – si tralascia però una distinzione importante. Si può infatti considerare il vero come index sui, si può cioè sostenere che solo la verità sia legittimata a mostrare il vero, che il vero possa essere istituito solo all’interno di un gioco tra vero e falso60. Non si può però pretendere – sostiene – che la verità sia, di conseguenza, anche lex sui, rex sui, judex sui. Infatti «non è la verità a essere creatrice e detentrice dei diritti che esercita sugli uomini, degli obblighi che essi hanno nei suoi riguardi, […] non è la verità che in qualche modo amministra il suo stesso impero»61. Osserviamo che, sottesa a ogni ragionamento, c’è l’affermazione «se è vero, mi inchinerò, è vero, dunque mi inchino»62, ma – argomenta Foucault – «questo “dunque” non è un “dunque” logico, non può appoggiarsi a nessuna evidenza»63. Questo «dunque» comporta un obbligo, un impegno, un dovere, che non dipende dalla verità stessa: «questo “tu devi” – conclude – è un problema, un problema storicoculturale che credo sia fondamentale»64. Il «dunque» compreso tra l’«è vero» e il «mi inchino» è la conseguenza dell’accettazione di uno specifico regime di verità che, nella lezione del 6 febbraio 1980, è definito «regime scientifico di auto-indicizzazione del vero»65. Nell’avanzare tale obiezione, Foucault ha assunto un punto di vista interno ad esso e, da questo punto di vista, non intende negare la validità delle regole che, all’interno di questo regime, istituiscono la divisione tra vero e falso66. Le regole però – questo è il punto – non sono a propria volta autonome; al contrario, sono sempre storiche, culturali67. Non c’è alcuna evidenza necessaria a fondamento di un regime di verità. Nel definire il regime GV, p. 103. Cfr. ibidem; cfr. D. Lorenzini, Foucault, il cristianesimo e la genealogia dei regimi di verità, in «Iride», vol. 25 (2012), n. 66, pp. 391-401, in particolare pp. 395-396. 61 GV, p. 103. 62 Ibidem. 63 Ibidem. 64 GV, p. 104. 65 Ibidem. 66 Cfr. D. Lorenzini, Foucault, il cristianesimo e la genealogia dei regimi di verità, cit., pp. 395-396. 67 Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 13. 59 60


122 Giulia Guadagni scientifico di auto-indicizzazione del vero, Foucault sta in un certo senso portando a termine la definizione di regime di verità proposta nell’intervista del 1976, sottolineando però, con una forza che prima mancava, il ruolo del soggetto68. Per farlo usa il verbo «inchinarsi», che suggerisce un’idea di sottomissione, di resa, intendendo così forse mettere in luce il valore politico del riconoscere l’esistenza di qualcosa come un regime di verità. Per mostrare il funzionamento del regime di verità delle scienze, porta poi l’esempio del cogito cartesiano, riallacciandosi così a Histoire de la folie à l’âge classique. La condizione necessaria affinché il «dunque» del «penso, dunque sono» abbia valore probante – afferma – è che «ci sia un soggetto che possa dire: quando qualcosa sarà vero, e vero con ogni evidenza, mi inchinerò»69. La condizione posta da Descartes è che questo soggetto non possa essere folle: «l’esclusione della follia – scrive Foucault – è quindi l’atto fondamentale nell’organizzazione del regime di verità, di un regime di verità che avrà la particolare proprietà di essere tale per cui, quando qualcosa sarà evidente, ci si inchinerà, e che avrà come proprietà particolare il fatto che sarà il vero in sé a costringere il soggetto a inchinarsi»70. Tale interpretazione del cogito cartesiano, lungi dall’essere solo un esempio del funzionamento del regime scientifico di auto-indicizzazione del vero, è l’esposizione della sua fondazione. Secondo Foucault infatti è con Descartes che la ragione moderna ha costituito se stessa come altra rispetto alla follia e Descartes è una tappa fondamentale nell’organizzazione del regime di verità proprio del discorso scientifico contemporaneo. Sempre nella lezione del 6 febbraio, Foucault propone di «parlare della scienza» come di quella «famiglia di giochi di verità che obbediscono tutti allo stesso regime»71, il nostro, il regime di auto-indicizzazione del vero in cui «il potere della verità è organizzato in modo che la costrizione sia assicurata dal vero stesso»72, la cui peculiarità sta nel nascondere la propria forza coercitiva, mostrandosi come evidente, dato che «nell’evidenza la manifestazione del vero e l’obbligo che ho di riconoscerlo e di porlo Per un commento critico su questa rinnovata attenzione al ruolo giocato dal soggetto rimandiamo a P.A. Rovatti, Il soggetto che non c’è, in M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano 2008, e a D. Defert, Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault, cit., pp. 148-149. 69 GV, p. 105. 70 Ibidem. 71 GV, p. 106. 72 Ibidem. 68


Regimi di verità in Michel Foucault 123

come vero coincidono perfettamente»73. Il punto, ancora una volta, non è mettere in discussione la verità o la falsità di un’ipotesi scientifica, bensì mettere in luce la modalità con cui ci relazioniamo al discorso scientifico e alla sua verità o falsità. Diversi regimi di verità Il progetto di condurre una storia politica della verità negli ultimi anni della vita di Foucault è confluito nell’intento di tracciare una «genealogia del soggetto moderno»74. Essa è stata esplicitamente inaugurata nel corso al Collège de France del 1980, quando Foucault ha posto la questione delle relazioni che intercorrono tra governo, verità e soggettività come questione politica che riguarda l’attualità: «perché e in che forma, in una società come la nostra, esiste un legame così profondo tra l’esercizio del potere e l’obbligo, per gli individui, di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione della verità?»75. Posto che il regime di verità è un modo di legare l’individuo, cioè la costituzione di soggettività specifiche, e la manifestazione del vero, ovverosia il dire-il-vero, si possono distinguere – scrive Foucault – diversi regimi di verità. Nel 1980 infatti distingue il regime proprio della scienza moderna e quello, diverso, sviluppatosi a partire dalle tecniche del sé nell’antichità greca e romana e dalle pratiche di veridizione di sé in uso GV, p. 102. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica di sé, cit., p. 33. 75 GV, p. 88. Abbiamo sottinteso in questa sede lo spostamento teorico dalla nozione di potere a quella di governo. Si veda a questo proposito M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Seuil-Gallimard, Paris 2004; trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2010, in particolare le lezioni del 25 gennaio, 1 e 8 febbraio; Id., Nascita della biopolitica, cit., in particolare le lezioni del 10, 17 e 24 gennaio; GV, in particolare la lezione del 9 gennaio. Rimandiamo inoltre, senza pretendere di esaurire l’ampia letteratura critica sul tema, a P. Pasquino, Michel Foucault: la problematica del “governo” e della veridizione, in P.A. Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano 1986; C. Gordon, Governamental Rationality: An Introduction, in G. Burchell, C. Gordon e P. Miller (a cura di), The Foucault Effect. Studies in Governamentality, Harvester Wheatsheaf, Hemel Hempstead 1991; M. Senellart, Michel Foucault: governamentalità e ragion di Stato, cit., pp. 37-73; S. Chignola, Biopotere e governamentalità. Michel Foucault e la politica dei governati, in S. Marcenò e S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé e degli altri, Duepunti, Palermo 2011. 73 74


124 Giulia Guadagni presso il primo monachesimo cristiano. La formulazione del regime di verità del 1976 era centrata sulle scienze, nello specifico sulle scienze umane e sulle relazioni reciproche che legano la produzione di verità e i meccanismi di potere. Le ricerche di quegli anni, da Surveiller et punir a La volonté de savoir, guardavano alla produzione di verità come a ciò che forma i soggetti, come il soggetto delinquente o il soggetto di desiderio. In tal senso abbiamo delineato un filo che lega le opere foucaultiane degli anni sessanta a quelle del decennio successivo, che conduce dalla formazione discorsiva al regime scientifico di auto-indicizzazione del vero, passando per il regime discorsivo e una prima definizione di regime di verità. Dal 1980 invece, l’attenzione di Foucault si è spostata sulla dimensione dell’autos, dell’io stesso: è il soggetto che dice la verità su di sé, è l’«autoaleturgia»76, il dire-il-vero su se stessi che viene messo in questione. L’intento del corso – leggiamo nella quarta lezione – è indagare la questione del «governo degli uomini attraverso la manifestazione della verità nella forma della soggettività»77, cioè la manifestazione di una verità auto-riferita, una verità su di sé. Foucault annuncia allora di essere intenzionato a mettere da parte lo studio del regime di verità della scienza, per studiare altri regimi di verità e si propone di esaminare il cristianesimo «dal punto di vista dei regimi di verità»78. Nella restante parte del corso del 1980, infatti, si dedica ad esporre i propri studi sul monachesimo, analizzando in particolare le pratiche del battesimo, della penitenza e dell’esame di coscienza, da lui interpretate come parte di un regime di verità. Poco dopo la fine del corso al Collège de France, tra l’aprile e il maggio del 1980, tiene un altro corso, all’Università cattolica di Lovanio, sul ruolo della confessione nelle istituzioni giudiziarie79. Tra questi due corsi c’è uno stretto legame: GV, p. 61. Dove per «aleturgia» Foucault intende «l’insieme delle procedure possibili, verbali o meno, con cui si porta alla luce ciò che si pone come vero in opposizione al falso […]»; GV, pp. 18-19. 77 GV, p. 88. 78 GV, p. 109. 79 M. Foucault, Mal fare, dir vero, cit. Foucault aveva già scritto in precedenza a proposito della confessione: ne La volonté de savoir l’aveva descritta come un rito fondamentale per le società occidentali, come «una delle tecniche più altamente valorizzate per produrre la verità»; La volontà di sapere, cit., p. 54. Nello stesso testo si proponeva di condurre una «storia politica della verità», che avrebbe contribuito a mostrare come la sua produzione fosse interamente attraversata dai rapporti di potere; ivi, p. 56. Mentre nella prima lezione di Mal faire, dire vrai Foucault definisce la confessione dal punto di vista linguistico, come atto linguistico, in Du gouvernement des 76


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in entrambi Foucault analizza l’Edipo Re, espone i risultati delle proprie ricerche sul monachesimo cristiano e le sue pratiche di veridizione, ma soprattutto esplora la medesima tematica generale, ovvero la storia politica delle veridizioni – il tentativo di determinare le modalità e le condizioni di apparizione storiche di un regime di verità. Attraverso questo contributo si è inteso mostrare come tale tematica sia trasversale a tutta l’opera di Foucault. Egli stesso, secondo lo schema retrospettivo già incontrato in precedenza, afferma che la storia politica delle veridizioni costituisce il quadro generale delle sue ricerche80. Che si tratti del regime di verità operante nel discorso scientifico o di quello che conduce il soggetto a scoprire una verità riguardo a se stesso però, la posta in gioco rimane la stessa. Foucault mostra la possibilità di un agire politico diretto ai regimi di verità: «il problema politico essenziale – scriveva nel 1976 – è sapere se è possibile costituire una nuova politica della verità […] il problema non è di cambiare la coscienza della gente o quello che ha nella testa, ma il regime politico, economico, istituzionale di produzione della verità»81. La forza critica della nozione di regime di verità e il motivo per cui può essere ancora utile, sta nel fatto che Foucault, attraverso questo concetto, ci mostra che non siamo obbligati ad accettare uno specifico regime di verità, ma soprattutto che non siamo obbligati a conformare ad esso, dare forma in base ad esso, alla nostra soggettività82. Foucault, mostrando che non è vero che la verità non lascia scelta, che possiamo fare altrimenti che non modulare le nostre condotte sulla verità, indica come uscire da quella che Lorenzini chiama una pericolosa trappola etico-politica83, indica che la verità costituisce di per sé una questione politica84. Non indica però la possibilità di fare a meno del tutto di un regime di verità. Il percorso che abbiamo compiuto assumendo un punto di vista interno all’opera di Foucault solleva anche, naturalmente, una serie di questioni che lo oltrepassano, come quella della portata euristica attuale del concetto di regime di verità. Ci è sembrato rilevante, in quest’ottica, vivants si riferiva più genericamente agli atti di confessione come l’insieme delle pratiche che nel cristianesimo delle origini coinvolgevano il dir vero su se stessi; cfr. Mal fare, dir vero, cit., pp. 3-9 e GV, pp. 109-110. 80 Cfr. ivi, p. 12. 81 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 191. 82 Cfr. D. Lorenzini, What is a “Regime of truth”?, cit. 83 Cfr. ibidem. 84 M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, cit., p. 192.


126 Giulia Guadagni sia ricostruirne la formazione e lo sviluppo, delineandone così un quadro complessivo e unitario, ripercorrendo alcune tappe dell’opera foucaultiana, sia riconoscere e mettere in evidenza le differenze che intercorrono tra i diversi regimi di verità studiati da Foucault. Solo tenendo presenti tali differenze sarà infatti possibile fare di questa nozione un uso rigoroso e dunque fecondo, anche quando si tratta di tradurlo rispetto a esperienze e pratiche contemporanee85. Giulia Guadagni Università della Calabria guadagni.giulia@gmail.com . Regimes of Truth in Michel Foucault’s Work This paper focuses on the formation and transformation of the concept of “regime of truth” in Foucault’s work. It traces out the theoretical legacies of such a concept in The Archaeology of Knowledge, and then isolates its first definition in some writings from the Seventies where the relation between truth and power is highlighted. Finally, the paper engages with the key role that regimes of truth plays in some of the last Courses at the Collège de France. The aim of the paper is to show the theoretical autonomy of the concept of “regime of truth” and to strengthen the theoretical dimension of such a concept, which percolates Foucault’s work and which is largely used in the secondary literature. Keywords: Foucault, Regimes of Truth, Subjectivation, Subjection, Power, SelfIndexation of Truth, Truth-Telling. A questo proposito, con fine esemplificativo e senza pretesa di completezza, rimandiamo ad alcuni studi che usano la nozione di regime di verità come chiave di lettura di diversi aspetti del neoliberismo: M. Nicoli, Regimi di verità nell’impresa postfordista, in «Esercizi filosofici», n. 5 (2010), pp. 65-77, in <www.univ.trieste.it/eserfilo/art510/ nicoli510.pdf> (consultato il 6 agosto 2017); M. Tazzioli, Politiche della verità. Michel Foucault e il neoliberalismo, Ombre Corte, Verona 2011; P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009; trad. it. di R. Antoniucci e M. Lapenna, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013; P. Maltese, L’università postforsidista, ETS, Pisa 2014; M. Nicoli e L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in «aut aut», n. 362 (2014), pp. 49-74. 85


“Annali franco-tedeschi”: i testi di Foucault sull’Illuminismo alla luce del confronto fra Francia e Germania Manlio Iofrida

Il tema della critica e quello connesso dell’Aufklärung coprono una serie

di anni dell’attività dell’ultimo Foucault che è tutt’altro che breve: si va dal 1978, quando Foucault pronuncia la conferenza Qu’est-ce que la critique?, che costituisce il suo primo testo sull’Illuminismo1, al 1984, quando esce il testo What Is Enlightenment?2. Si tratta dunque del periodo segnato dalla crisi del modello della microfisica e della prima biopolitica manifestatasi subito dopo la composizione del primo volume della Storia della sessualità e che porterà, attraverso passaggi numerosi e non indolori, al modello finale della “costruzione del sé o della soggettività”, punto di approdo finale della riflessione del filosofo francese. In realtà, in questo gruppo di testi, è il senso dell’intera ricerca foucaultiana che viene ripreso, reinterpretato e trasformato: è innanzitutto opportuno, dunque, fermarsi un momento a riconsiderare l’arco complessivo di quest’ultima. In effetti, uno sguardo diacronico sul suo sviluppo dal principio alla fine rende particolarmente chiara una caratteristica dell’intera sua attività: il costante dialogo e confronto con la filosofia tedesca, non solo contemporanea, ma degli ultimi due secoli; quello di Foucault non è che un esempio di un fenomeno che parte almeno dal 1870 in poi, ma che risale fino dal tempo della grande Rivoluzione: si tratta dello scambio, dell’opposizione reciproca e del reciproco rispecchiamento fra Francia e Germania, un fenomeno che costituisce probabilmente il nucleo più Se ne veda ora l’edizione critica in M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, Vrin, Paris 2015; per comodità del lettore italiano citeremo però nel seguito la traduzione italiana del testo (originariamente pubblicato nel 1990 sul «Bulletin de la Société Française de Philosophie») col titolo Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997. 2 In P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 32 e ss.; per la versione francese cfr. Qu’est-ce que les Lumières ?, in M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris, 1994, vol. IV, pp. 562 e ss.; citeremo qui dalla traduzione italiana che, col titolo Che cos’è l’Illuminismo?, si trova in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217 e ss. 1

materiali foucaultiani, a. V, n. 9-10, gennaio-dicembre 2016, pp. 127-142.


128 Manlio Iofrida solido della cultura europea degli ultimi secoli. Si considerino, da questo punto di vista, i filosofi che costituiscono i due pilastri del pensiero foucaultiano: Kant, che diviene un architrave della III Repubblica, che dopo la sconfitta di Sedan, si ricostruisce su una reinterpretazione laica e illuministica del suo pensiero (a cui si associa il riferimento a Fichte, che ad esempio per Jaurès è un protosocialista); e Nietzsche, di cui la III Repubblica ha costituito il primo luogo di ricezione massiccia e che, d’altra parte, comprende per così dire già in se stesso un complesso rapporto fra Francia e Germania – in Nietzsche questo dialogo polemico fra le due sponde del Reno trova una prima, potente personificazione3. E non bisogna nemmeno dimenticare che il primo grande studioso, nel senso filologico del termine, di Nietzsche è stato un personaggio che potrebbe definirsi franco-tedesco come Charles Andler, intellettuale alsaziano, emigrato in Francia dopo l’annessione dell’Alsazia alla Germania nel 1870 e che fu insieme autore di una monumentale monografia in cinque volumi su Nietzsche, editore di una rigorosa traduzione del Manifesto del Partito Comunista e fondatore della germanistica francese4. È ovvio, dunque, come il riferimento di Foucault a Kant e a Nietzsche dimostri il suo profondo radicamento in questo nucleo che è il cuore pulsante della cultura europea; tutta la sua carriera filosofica può essere interpretata come un comporre motivi via via diversi a partire dalla tastiera tedesca. Fin da Storia della follia, i lumi tutelari di Foucault sono due personaggi che hanno costantemente operato questo scambio come Cfr. in proposito il classico lavoro di Giuliano Campioni, Les lectures françaises de Nietzsche, PUF, Paris 2001. 4 Per quanto riguarda lo studio su Nietzsche, cfr. Ch. Andler, Les précurseurs de Nietzsche, Bossard, Paris 1920; Id., La jeunesse de Nietzsche, Bossard, Paris 1921; Id., Le pessimisme esthétique de Nietzsche, Bossard, Paris 1921; Id., Nietzsche et le transformisme intellectualiste, Bossard, Paris 1922; Id., La maturité de Nietzsche, Bossard, Paris 1928; Id., La dernière philosophie de Nietzsche, Bossard, Paris 1931. Per la traduzione del Manifesto, cfr. K. Marx et F. Engels, Le Manifeste Communiste, vol. I: trad. nouv. de Charles Andler, avec les articles de F. Engels dans la Réforme (1847-1848); vol. II: Introduction historique et commentaire, Société nouvelle de librairie et d’édition, Paris 1901. Su Andler, cfr. E. Tonnelat, Charles Andler. Sa vie et son œuvre, Les Belles Lettres, Paris 1937; Justinien Raymond, Préface à Ch. Andler, Vie de Lucien Herr, Maspero, Paris 1977; A. Venturelli, Aspekte und probleme der frühen Nietzsche-rezeption in Frankreich: Charles Andler und Lucien Herr, in «Nietzsche-Studien», vol. 24 (1995), pp. 261-270; J. Le Rider, Nietzsche en France, PUF, Paris 1999, pp. 78 e ss. e passim; Ch. Prochasson, Introduction à Ch. Andler, La civilisation socialiste (1911), Le bord de l’eau, Lormont 2010. 3


“Annali franco-tedeschi” 129

Bataille e Blanchot – Bataille con il riferimento fondamentale a Nietzsche, Blanchot aggiungendovi il riferimento a Heidegger, ma, cosa ancora più importante, quello ai romantici di Iena, a Kafka e a Thomas Mann5. Più o meno fino al ’68, la partitura tedesca di Foucault implica un modello che possiamo definire nicciano-heideggeriano, che si mostra in modo particolarmente esplicito nell’Introduzione all’Antropologia pragmatica di Kant6 e si articola sul presupposto forte di una filosofia dell’origine e del fondamentale, dove questi concetti di sapore heideggeriano sono identificati col dionisiaco del Nietzsche della Nascita della tragedia; e anche se, con gli scritti successivi e con Le parole e le cose, quest’origine si fa superficiale, essa resta un presupposto concettuale senza il quale il discorso foucaultiano non sarebbe comprensibile: la morte dell’uomo, con cui si conclude l’opera, rimanda al ritorno di una falda di linguaggio assoluto che è chiaramente una ripresa di posizioni heideggeriane7. In proposito mi permetto di rinviare al mio saggio Sulla Kehre di Maurice Blanchot: per un ripensamento complessivo della questione, di prossima pubblicazione su «Riga». 6 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2008. 7 Si tratta, ovviamente, di una lettura di Heidegger molto infedele e molto contestabile, ma questo non stupirà: chiunque conosca le vicende della enorme, quanto variegata e spesso sotterranea penetrazione del pensiero del filosofo tedesco in Francia fin dagli anni fra le due guerre sa che non si può parlare quasi mai di letture fedeli e anche minimamente letterali; e anche quella di Foucault è molto “tagliata” e personale; i concetti che egli mutua da Heidegger (origine, linguaggio) sono profondamente trasformati, diversi ne sono gli esiti: ma sarebbe impossibile comprendere la sua posizione senza il riferimento ad essi, e alla filosofia heideggeriana nel suo complesso – è quello che Foucault stesso rivendicò nella sua ultima intervista, Le retour de la morale, che non fece in tempo a rivedere, ma che gli interpreti hanno generalmente accettato come pienamente autentica (cfr. M. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. IV, pp. 696 e ss.). Da Béatrice Han, che alla questione del rapporto Heidegger-Foucault ha dedicato un libro bello, benché troppo heideggeriano, L’ontologie manquée de Michel Foucault, entre l’historique et le trascendental, Jerôme Millon, Grenoble 1998, a H.L. Dreyfus, più volte intervenuto su questo nodo (si vedano soprattutto H.L. Dreyfus, Being and Power: Heidegger and Foucault, in «International Journal of Philosophical Studies», n. 4 (1996), pp. 1-16, e Id., Being and Power Revisited, in A. Milchman e A. Rosenberg (a cura di), Foucault and Heidegger: Critical Encounters, University of Minnesota Press, Minneapolis 2003, pp. 30-54), al volume di Timothy Rainer, Foucault’s Heidegger. Philosophy and Transformative Experience, Bloomsbury, New York 2007, fino da ultimo a Graziano Mazzocchini, Soggettività, umano e tecniche del sé: l’ultimo Foucault e il secondo Heidegger, in «Sapere aude. Revista de Filosofia», n. 7 (2016), pp. 32 e ss., si può dire che i numerosissimi studiosi che si sono occupati di questo problema, con varie sfumature e differenze anche sostanziali nell’interpretazione del pensiero foucaultiano, concordano comunque su quanto sopra detto. 5


130 Manlio Iofrida Il ’68 e l’Archeologia del sapere segnano una forte rottura con Heidegger: vi concorrono gli eventi politici, ma anche l’influsso di Wittgenstein e quello di Derrida e del suo attacco allo Heidegger dell’originario; ma oggi disponiamo di un documento davvero straordinario, per come ci permette di penetrare nel cantiere spesso assai segreto del filosofo francese, e che mostra in modo inoppugnabile che fu Gilles Deleuze il filosofo a cui, in questa svolta, Foucault si sentì più vicino: si tratta della Lezione su Nietzsche contenuta nelle Lezioni sulla volontà di sapere8; se il saggio coevo Nietzsche, la genealogia, la storia, il cui centro è costituito dal rifiuto del tema dell’origine, non era esplicito nel dichiarare i suoi debiti deleuziani, la Lezione non lascia dubbi in proposito ed opera una netta rottura con Heidegger. Conviene ripercorrerne i punti essenziali. Il discorso si presenta subito come una fortissima polemica con la verità; ma Foucault, sulle tracce del Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale, parte ancora più a monte: è la conoscenza stessa che è stata «inventata», e «la sua possibilità non è definita dalla sua stessa forma», ma rimanda a istinti, al «completamente altro, a ciò che le è estraneo, opaco, irriducibile»9; la conoscenza è senza modello e non è la decifrazione di una struttura del mondo che le sia anteriore10. Rispetto alla conoscenza, «la verità è stata inventata ancora più tardi»11: solo a un certo punto la conoscenza viene messa al servizio della verità12, mentre solo a un certo punto questo, che è un asservimento frutto della storia, viene posto come un rapporto di diritto13. Su questa strada, Foucault giunge rapidamente al fondamentale tema della volontà di verità: si tratta ancora una volta di Nietzsche, che «pone nella volontà la radice e la ragion d’essere della verità» e Foucault non manca di mettere in evidenza come questa mossa sia uno «spostamento importante rispetto alla tradizione filosofica». Delineando una ricerca sempre più incentrata M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), Feltrinelli, Milano 2015, pp. 219 e ss. Come è noto, il manoscritto di questa lezione è andato smarrito e gli editori l’hanno sostituita con il testo, di contenuto assai affine, di una conferenza su Nietzsche che Foucault tenne nell’aprile 1971 all’Università McGill di Montréal. 9 Ivi, pp. 219-220. 10 Ivi, pp. 220-221. 11 Ivi, p. 223. 12 Ivi, p. 224. 13 Ibidem. 8


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sul tema della volontà, Foucault esplicita allora i suoi obiettivi polemici e allinea a Platone e Kant anche Heidegger, il cui tema del nesso fra volontà e libertà è visto come perfettamente interno a tale tradizione; val la pena di richiamare il passo: [Per la tradizione filosofica] il rapporto verità-volontà sarebbe caratterizzato dal fatto che la volontà non dovrebbe far altro che far valere la verità. Volere la verità è volere che essa si manifesti, si enunci, sia qui […] la volontà di verità non ha potuto essere pensata che sotto forma di attenzione: puro soggetto, libero da determinazione e pronto ad accogliere, senza deformazione, la presenza dell’oggetto; sotto forma di saggezza: padronanza del corpo, sospensione del desiderio, blocco degli appetiti. Al cuore del rapporto volontà verità, nella tradizione filosofica, troviamo la libertà. La verità è libera rispetto alle sue determinazioni. La volontà deve essere libera per poter dare accesso alla verità. La libertà è l’essere della verità; ed è il dovere della volontà. Un’ontologia (la libertà del vero sarà Dio o la natura); un’etica (il dovere della volontà sarà il divieto, la rinuncia, il passaggio all’universale). Questa libertà fondamentale che articola l’una sull’altra volontà e verità è quella che è formulata: - nell’ὁμοίοσις τῷ θεῷ di Platone, - nel carattere intellegibile di Kant, - nell’apertura heideggeriana14.

Come si vede, Heidegger è associato a Platone e Kant come esponente di una concezione della verità e della libertà fra loro strettamente legate; e tutto ciò è fatto in nome di un richiamo a Nietzsche come negatore radicale di ogni idea di conoscenza e di verità: siamo entrati nella fase (che dura fino a circa il 1975) in cui il momento della verità conosce la più lunga eclisse nel pensiero di Foucault; è questa secondarizzazione15, nel discorso foucaultiano, del momento della verità, con la conseguenza di una forte polemica con Ivi, p. 231-232. È una secondarizzazione, non certo soppressione del momento della verità, che continua a giocare un ruolo importante nel discorso foucaultiano – basti pensare alle coppie concettuali poteri-saperi, discipline-saperi, che sono le parole-chiave della microfisica del potere. Ma caratterizza quest’ultima concezione il fatto che il momento del potere – cioè quello della volontà – abbia una precedenza logica, anche se non temporale, rispetto a quello della verità e del sapere; è questa precedenza logica che cessa nel momento in cui comincia ad affacciarsi il tema dell’Aufklärung. 14 15


132 Manlio Iofrida la scienza, a fare da sfondo al modello della guerra, che dominerà i corsi di Foucault per molti anni a venire; ed è questo il momento di massima vicinanza a Deleuze16, che aveva pubblicato, proprio nel 1968, Differenza e ripetizione17 e Spinoza e il problema dell’espressione18 e, poco dopo, nel 1969, Logica del senso19. Questo tramonto dell’idea di verità, e il corrispondente sorgere del primato della volontà, che hanno costituito il presupposto ontologico della ricerca foucaultiana più o meno fino al 1975, dovevano essere richiamati come premessa necessaria per affrontare ora la questione della critica in Foucault. Sono infatti proprio il trasformarsi del ruolo della verità, il declino del volontarismo, il trasformarsi del concetto stesso di vita (come vedremo, Foucault torna a confrontarsi con Canguilhem) a segnare il sorgere della questione della critica e dell’Illuminismo: la vita non è più un fenomeno in cui prevale il momento della volontà, ma ad essa è essenziale un momento autoriflessivo, un rapporto autocorrettivo con l’errore, che radica nel più profondo del vivente il momento della critica. Verità e critica diventano centrali proprio nel momento in cui la configurazione nicciana e deleuziana viene congedata e viene congedato il ’68; è quindi essenziale tenere presente la crisi delle posizioni antisistema a cui Foucault aveva aderito dal ’68, crisi a cui Deleuze risponde modificando molto meno le sue concezioni. È l’epoca in cui il centro della scena viene occupato non più dalla critica del capitalismo, ma da quella al totalitarismo sovietico e al socialismo reale, in cui si sviluppa da molte direzioni una corrosiva polemica contro Marx e il marxismo, in cui nello stesso momento si affaccia in Occidente con prepotenza la crisi del modello keynesiano e del boom economico dei Trenta gloriosi e le tematiche neoliberali iniziano la loro ascesa, fatto che fu da Foucault colto con grande prontezza20. Possiamo qui richiamare le tematiche del corso Espressa anche in due celebri saggi: Arianne s’est pendue e Theatrum philosophicum, rispettivamente in M. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 767 e ss. e vol. II, pp. 75 e ss. 17 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971. 18 G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata 1999. 19 G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975. 20 Sul contesto storico-politico della riflessione foucaultiana di questi anni, cfr. S. Audier, Penser le « néolibéralisme ». Le moment néolibéral, Foucault et la crise du socialisme, Le bord de l’eau, Paris 2015. 16


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Sicurezza, territorio, popolazione21: rispetto a un Machiavelli identificato con una visione del potere ancora volontaristica e autoriferita, la nuova concezione governamentale è vista come caratterizzata dal rispetto della verità come momento autonomo rispetto alla volontà del sovrano. La governamentalità non è più, come la disciplina, un unilaterale modellamento dei corpi, ma un governo che deve tener conto del fatto che c’è un’alterità che resiste al potere e che è soggetta a delle leggi; per governare si deve tener conto dell’esistenza di leggi naturali: una certa idea di natura, un certo statuto della verità scientifica, che non è frutto della volontà, uno statuto nuovo dell’economia emergono e vengono a occupare un posto importante nel pensiero foucaultiano. E l’idea stessa di vita si trasforma: in fondo, essa torna ad essere autonoma e prioritaria rispetto al potere, che, in alcuni passaggi della Volontà di sapere, era parso fagocitarla. Quello che è notevole è che proprio in questo momento del riemergere dell’autonomia della verità, della natura e del biologico22, Foucault comincia ad avere un nuovo punto di riferimento oltre Reno: la Scuola di Francoforte e la sua critica della ragione strumentale; naturalmente, Nietzsche non scompare23, ma a lui si affiancano i Francofortesi, e alla fine di questo percorso assisteremo anche a un certo riaffiorare di Heidegger e del nesso verità-libertà che abbiamo visto essere così violentemente rigettato nel 1971 – il tutto nel quadro dell’imporsi, sulla scena del lavoro foucaultiano, della filosofia antica, specie a partire dal 1979. Per precisare meglio il taglio della sua lettura, esaminiamo sinteticamente il primo testo sull’Illuminismo, la conferenza Illuminismo e critica del 1978. Ma misuriamo fin da adesso il senso e la portata della svolta che il filosofo francese sta imponendo al suo pensiero: nell’allearsi con Deleuze e nel congedare un certo heideggerismo, M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2004. 22 È essenziale precisare (come mi ricorda Diego Melegari, che ringrazio) che l’idea di natura che Foucault ora ripropone niente ha a che fare con quella di un’origine pura e vergine: «La natura è qualcosa che sottende, attraversa, e rientra nell’esercizio stesso della governamentalità. Si potrebbe dire che ne è l’ipoderma indispensabile. Rappresenta l’altra faccia di qualcosa la cui faccia visibile ai governanti è la loro stessa azione» (M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 27). 23 Per precisare ulteriormente questo passaggio delicato: si potrebbe anche dire che da ciò emerge un niccianesimo diverso, in cui, conformemente all’ispirazione di un altro Nietzsche rispetto a quello cui Foucault si era ispirato precedentemente, i temi della verità, della razionalità, della verità hanno un maggiore spessore. 21


134 Manlio Iofrida Foucault aveva rotto con quanto di Hegel e di dialettica hegeliana era rimasto nel modello di Blanchot e Bataille; Nietzsche, la genealogia e la storia erano in questo senso un congedo da Hegel che comportava anche una rottura con la prospettiva francofortese: l’opera che rappresenta l’estrema propaggine della microfisica del potere, La volontà di sapere, si presentava come una polemica distruttiva contro Marcuse: al di là delle differenze che sussistono fra Adorno, Horkheimer e Marcuse, era il tema francofortese del recupero dialettico di un’altra ragione rispetto a quella strumentale e capitalistica che veniva allora colpito: è a questa ragione dialettica, intesa come alternativa possibile al processo di razionalizzazione occidentale e capitalistico, che ora Foucault riapre, nel (ri)allacciare il dialogo coi maestri di Francoforte24. È una mossa pesante sullo scacchiere filosofico dell’epoca, se si pensa che la presa di distanza dai Francofortesi aveva segnato negli anni settanta uno spartiacque25 che i momenti successivi del postmoderno e del pensiero debole avrebbero mantenuto. Si noterà in primo luogo che la chiave fondamentale del testo è data proprio dal parallelo Francia-Germania26: nel momento in cui la questione della razionalizzazione riemerge al di fuori del modello nicciano del primato della volontà, è il Max Weber riletto dai Francofortesi, con la sua analisi sul processo di razionalizzazione, ma anche con la centralità da lui conferita al tema della religione, che viene in primo piano. Ma, accanto a questi temi, la cui fonte sono evidentemente Horkheimer e Adorno, appare esplicito il riferimento a Habermas27, di cui è soprattutto il tema della legittimità Foucault avrebbe difficilmente accettato che gli si attribuisse una ripresa della dialettica, anche se intesa nel senso critico e negativo dei Francofortesi, ma parliamo qui di una necessità filosofica interna al suo discorso, che va al di là delle sue affermazioni; il ripetuto riferimento positivo a Hegel che riemerge in alcuni degli ultimi corsi al Collège de France conferma che egli andava in questa direzione: cfr. M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France (1981-1982), Gallimard-Seuil, Paris 2001, pp. 29-30 e p. 467; M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France (1982-1983), GallimardSeuil, Paris 2008, p. 22. Su questo tema della dialettica, cfr. anche infra. 25 In proposito, paradigmatico è l’allora celebre saggio di Lyotard, Adorno come diavolo, in J.-F. Lyotard, Des dispositifs pulsionnels, 10/18, Paris 1973, pp. 115 e ss. 26 Foucault, Illuminismo e critica, cit., pp. 44 e ss. 27 Cfr. ivi, p. 52; sul confronto Habermas-Foucault la letteratura è assai vasta: mi limito qui a ricordare M. Kelly (a cura di), Critique and Power. Recasting the Foucault/Habermas Debate, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994; D. Ingram, Foucault and Habermas on the Subject of Reason, in G. Gutting (a cura di), The Cambridge Companion to Foucault, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 215-261. 24


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che sembra aver qui richiamato l’interesse del filosofo francese. Conviene ora ripercorrere alcuni passi di questa riflessione parallela sul pensiero francese e tedesco. Nel momento in cui, col XIX secolo, il processo di razionalizzazione fa un salto decisivo – con l’età industriale – esso si sostanzia secondo Foucault: 1) nel costituirsi di una scienza positivista, 2) in uno Stato che si fa titolare del processo di razionalizzazione, 3) in una scienza dello Stato, in cui convergono i punti 1) e 2). È a questo punto che Foucault sviluppa il parallelo fra Germania e Francia, che sono viste divergere nella modalità del processo di razionalizzazione, anche se la tela fondamentale del processo rimane la stessa. La Germania sviluppa precocemente una critica a tale processo attraverso una linea di critica al positivismo che va «dalla scuola hegeliana alla Scuola di Francoforte», al cui centro è la messa sotto accusa della scienza e della tecnica28. La Francia, segnata dalla tradizione illuministica e rivoluzionaria, si è mossa molto più tardi su questo terreno, tanto che «sarebbe piuttosto nell’ambito di un pensiero di destra, nel corso del XIX e XX secolo, che si agiterebbe l’atto di accusa storico contro la ragione o la razionalizzazione in nome degli effetti di potere che essa porta con sé»29; Foucault ricorda anche il fallimento del movimento della Riforma in Francia, laddove tale movimento, nato in Germania, si era per primo posto come «arte di non essere governati». Ed è qui che interviene l’ipotesi, audace e originale, di Foucault: la sua idea è che la Francia, quando arriva in ritardo su questo fronte dell’Aufklärung, lo fa, a partire dagli anni Trenta, grazie al lavoro convergente della ripresa della fenomenologia e della sua scuola di storia della scienza: vengono citati esplicitamente Cavaillès, Bachelard e Canguilhem30. In sostanza, Foucault propone un parallelismo fra la Scuola di Francoforte e il pensiero francese contemporaneo emerso a partire dagli anni trenta e sviluppatosi dopo la seconda guerra mondiale: la ricostituzione storica del senso delle scienze avvenuta in Francia corrisponde alla Dialettica dell’Illuminismo e alla critica della ragione strumentale sviluppata dai tedeschi (e esplicitamente Foucault fa a questo punto il nome di Weber31). È evidente, naturalmente, che, nel tratteggiare questa schematizzazione storica, Foucault sta nello M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., pp. 44-45. Ivi, p. 45. 30 Ivi, p. 47. 31 Ivi, p. 48. 28 29


136 Manlio Iofrida stesso tempo ponendosi su un terreno performativo: la constatazione del convergere dei due progetti francese e tedesco è anche un invito a un incontro e a un’alleanza della scuola fenomenologica francese, ma, più sostanzialmente, della prospettiva che era specificamente quella di Foucault, con le posizioni dei Francofortesi. Foucault sviluppa poi una riformulazione di tutta la sua ricerca sul potere articolandola come «rapporto tra potere, verità e soggetto», che considera un sinonimo di Aufklärung o di modernizzazione32, visti non come momenti storici determinati, ma come griglie di lettura di «qualsiasi momento storico»33: tutte le analisi della microfisica del potere, dell’archeologia e della genealogia, la polemica con l’origine, la questione del nesso sapere-potere vengono sinteticamente riprese e aggiornate secondo la nuova prospettiva34. Fermiamoci un momento a valutare il significato di queste affermazioni: è evidente, innanzitutto, che non si tratta, da parte di Foucault, di una ripresa letterale di questa o quella concezione francofortese, ma di un taglio problematico che viene condiviso; e tale taglio problematico è quello del significato del processo di razionalizzazione occidentale e della sua storicizzazione. Che mutamento comporta questo nella concezione complessiva di Foucault? Siamo di fronte, né più e né meno, a un contraccolpo di quel passaggio da un primato della volontà a un nuovo ruolo della verità e della razionalità di cui ho parlato più sopra: non si tratta più di scontro fra poteri (per quanto produttori di razionalità), quanto di un esercizio critico dei soggetti nei confronti di una razionalità che si impone loro: di un disassoggettamento da quel processo di governamentalizzazione che ha nella produzione della razionalità il suo strumento principe; e questo disassoggettamento ha nell’Aufklärung, nel lavoro critico del soggetto la sua arma principale – i riferimenti al V secolo greco, alle Rinascite, all’Illuminismo settecentesco35 sono infatti tutti momenti storici in cui il logos, la razionalità hanno avuto una funzione critica. In questo senso, il pensiero di Foucault (anche se difficilmente egli avrebbe accettato questa caratterizzazione) assume una sfumatura inconfondibilmente dialettica proprio nel senso francofortese: si tratta di contrastare il dominio della razionalizzazione occidentale Ivi, p. 51. Ibidem. 34 Ivi, pp. 53-62. 35 Ivi, p. 51. 32 33


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producendo altri tipi di razionalità36 e agendo sulla leva della soggettività – una strada che ben presto avrebbe condotto Foucault al tema della cura di sé. Se ora esaminiamo brevemente la celebre introduzione all’edizione inglese de Il normale e il patologico, che è coeva a Illuminismo e critica37, vediamo che Foucault ricostruisce il parallelo Francia-Germania in termini sostanzialmente analoghi, anche se alcuni particolari di carattere storico sono differenti38 ed è qui presente il famoso excursus sulle due correnti della fenomenologia in Francia39; ma quello che ci interessa è che il discorso sia incentrato sulla medesima convergenza con la Scuola di Francoforte presente nell’altro testo; e la tournure dialettica del suo discorso giunge fino a questa affermazione: Nella storia delle scienze in Francia, come nella teoria critica in Germania, in fondo il problema è esaminare una ragione, l’autonomia delle cui strutture reca insieme con essa una storia di dogmatismo – una ragione, dunque, che può avere effetti emancipatori solo a condizione che riesca a liberarsi da se stessa40.

Altrettanto interessante è che questa nuova centralità di una ragione critica e dialettica si accompagni a un ripensamento del concetto di vita, via il commento ai testi di Canguilhem. Si vorrebbe dire: i temi che Foucault tratta riguardano lo statuto di verità di una scienza in senso forte come la biologia; e il centro del discorso è posto sulla relazione paradossale che campeggia nelle scienze della vita: quella tra i meccanismi fisici e chimici e i modelli matematici da un lato, e il vitalismo, inteso come irriducibilità della Naturalmente, per Foucault, niccianamente e wittgensteinianamente, l’insistenza, rispetto ai Francofortesi, è maggiore sull’eterogeneità di questi molteplici giochi della razionalità; ma il punto sostanziale è che anch’egli rimane sul terreno della razionalità e che la razionalità o le razionalità alternative si costruiscono criticando e trasformando, ma non annichilendo, la razionalità governamentale: e questa è (checché voglia Foucault, che ha continuato a esprimersi negativamente in proposito: cfr. l’intervista Strutturalismo e poststrutturalismo, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 311 e ss.) una posizione dialettica. 37 La citiamo nella prima versione, e nella traduzione italiana che ne pubblicarono, col titolo Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, in «Quaderni piacentini», n. 14 (1984), pp. 40 e ss. (per il testo francese cfr. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. III, pp. 429 e ss.). 38 Ad esempio il ruolo di Comte e di una parte del positivismo è qui evidenziato come quello di un pensiero critico della razionalizzazione (ivi, p. 42). 39 Ivi, p. 40. 40 Ivi, pp. 42-43 (corsivo mio). 36


138 Manlio Iofrida vita a quei meccanismi e modelli41. Un’altra specificità delle scienze della vita, rispetto alla fisica e alla chimica, è che i momenti nevralgici del loro sviluppo storico non sono segnati dalla formalizzazione, ma da «quello della costituzione dell’oggetto e della formazione del concetto». Ma, proprio in nesso a questo, giungiamo all’idea che, nel concetto di vita, ne va del concetto stesso: la vita è ciò che si mantiene in quanto ha un rapporto essenziale all’errore e alla verità; l’essere vivente si attrezza di concetti per organizzare la sua sopravvivenza nell’ambiente42 – il che è come dire che esso produce razionalità e che, dunque, la vita è, essenzialmente, un rapporto con la ragione; quel rapporto critico con la razionalità che abbiamo visto essere tipico dell’Aufklärung è già una caratteristica, che potremmo chiamare trascendentale, della vita stessa43. Anche questa concezione della vita, in cui il logos e la razionalità hanno un ruolo così essenziale, rappresenta, rispetto al modello nicciano-deleuziano degli anni Settanta, una novità notevole44. Se ora passiamo al testo What is Enlightenment? del 198445, ci troveremo di fronte a uno scritto molto diverso da Qu’est-ce que la critique?: il riferimento a Kant prende la forma di un commento particolareggiato alla kantiana Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, ma, soprattutto, la questione del soggetto ha assunto un ruolo assai più centrale: alla prospettiva, prevalentemente negativa, della necessità, da parte del soggetto, di sottrarsi alla razionalità governamentale si sostituisce quella, positiva, della costruzione di un sé autonomo, cioè della cura di sé; la costituzione di un soggetto autonomo, nello spirito del kantiano raggiungimento dell’età matura, è così diventato il campo di lotta per l’elaborazione di regole nuove, per la costruzione di una razionalità Ivi, p. 48. Ivi, p. 50. 43 Non è qui ovviamente il luogo di discutere della sostenibilità di questa concezione della vita come gioco di conoscenza ed errore: faremo solo notare che, via Canguilhem, è ancora a un certo Nietzsche, diverso da quello della Genealogia, che esso sembra riportare. 44 Anche se è indubbio che questo tema di un rapporto fra vita e concetto possa essere visto come trasversale a tutta la sua opera, fin da Storia della follia; per Foucault come per tutti gli autori, vale il principio che non c’è nulla di assolutamente nuovo nel loro percorso – il che non esclude il fatto che esistano periodi e momenti diversi di tale percorso. 45 Che citeremo nella traduzione italiana di cui supra, nota 2. 41 42


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nuova rispetto a quelle che il potere governamentale vuole imporre: una nuova ragione passa per la costituzione di un nuovo sé, di un nuovo soggetto. È il tema che Foucault stava sviluppando nei suoi corsi e nel secondo e terzo volume della Storia della sessualità. Tutto ciò ha però il suo acme quando il testo, con un salto brusco e inaspettato, da Kant passa a Baudelaire, dalla questione dell’Aufklärung passa a quella della modernità. Foucault ricorda innanzitutto la presa di distanza di Baudelaire dalla definizione superficiale della modernità come «il transitorio, il fuggitivo, il contingente»: Per lui [Baudelaire] essere moderno non significa riconoscere e accettare questo movimento perpetuo; al contrario, significa assumere un certo atteggiamento rispetto a questo movimento; e questo atteggiamento deliberato e difficile consiste nel riafferrare qualcosa di eterno che non sta né al di là dell’istante presente, né alle sue spalle, ma in esso. […] La modernità non è un fatto di sensibilità al presente che fugge; è una volontà di “eroicizzare” il presente46.

E, poco più sotto, è il tema della autocostruzione del soggetto o cura di sé a essere da Foucault posto come centrale: Tuttavia, per Baudelaire la modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi. […] L’uomo moderno, per Baudelaire, non è colui che parte alla scoperta di se stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta; è colui che cerca di inventare se stesso. Questa modernità non libera l’uomo nel suo essere proprio: essa gli impone il compito di elaborarsi da sé47.

Dunque, problema del presente e del rapporto fra il divenire e l’eterno, fra l’attimo e la sua eroicizzazione, fra il flusso e la sua immobilizzazione, nonché problema della soggettività: è evidente che, dietro Baudelaire, è Benjamin a far capolino ed è estremamente probabile che lo faccia attraverso un testo di Habermas poco conosciuto, uscito in traduzione francese nel 1981 con il titolo La modernité: un projet inachevé48, in cui il M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., p. 223. Ivi, p. 225. 48 In «Critique», vol. 37 (1981), n. 413, pp. 950 e ss.; si tratta, come Habermas stesso avverte, del testo alla base del discorso che egli pronunciò in occasione del conferimento 46 47


140 Manlio Iofrida rapporto Benjamin-Baudelaire era largamente trattato e in cui, anche contro Foucault, Habermas prendeva una forte posizione antipostmoderna e favorevole a una versione aperta del modernismo49: ora, è paradossale, ma inoppugnabile che, seppure sulla base della sua posizione filosofica e quindi con argomenti in parte differenti, Foucault sfrutti l’occasione del testo sull’Illuminismo per schierarsi dalla parte di Habermas sulla questione, cruciale in quegli anni, della disputa fra moderno e postmoderno50. Nel porsi, con la sua personale prospettiva della cura di sé come alternativa alla governamentalizzazione, in questa linea francofortese, che ha i suoi capostipiti (oltre che in alcuni fondamentali temi weberiani) in Adorno e Benjamin, e il suo continuatore in Habermas, Foucault confermava l’appartenenza del suo discorso alla grande tradizione della critica modernista al capitalismo, rifiutando risolutamente di aderire alla nuova vulgata postmoderna di una fine della storia nella forma di una fine della modernità, come era stata prospettata da Lyotard. A questo punto, una nuova costellazione si forma nel cielo del pensiero del filosofo francese, ed è tutta, come sempre, tedesca: la tematica dell’estetica dell’esistenza ha espliciti rinvii a Burckhardt, due volte citato51 come punto di riferimento di tale tematica in questa fase finale del suo lavoro, ma è ovvio che è anche segno, pur in mancanza di espliciti richiami, di un certo riavvicinamento a Marcuse e al grande solco aperto dalle Lettere sull’educazione estetica di Schiller; inoltre, in questi anni, in cui vedremo campeggiare, nel discorso del filosofo francese, le figure del premio Adorno, nel 1980: in esso appare chiaro il persistente legame della riflessione del filosofo tedesco sia con Adorno, e in particolare con la sua Estetica, che con Walter Benjamin. 49 La posizione che poi si troverà nel noto libro Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003. 50 Il libro di Lyotard, La condition postmoderne (Éditions de Minuit) è infatti del 1979; per un’altra risoluta presa di posizione antipostmoderna di Foucault, cfr. l’intervista Strutturalismo e poststrutturalismo, cit., pp. 318 e ss. Come è noto, Habermas, in un saggio che rivede sostanzialmente i suoi giudizi precedenti su Foucault, registrò la novità che rappresentava questa presa di posizione di Foucault e la sua vicinanza alla propria: cfr. J. Habermas, Taking Aim at the Heart of the Present, in D. Hoy (a cura di), Foucault. A Critical Reader, Blackwell, Oxford 1991, pp. 193 e ss. 51 Foucault, Dits et écrits, cit., vol. IV, p. 410 e pp. 629-630; ma anche un passaggio sullo stesso argomento de L’uso dei piaceri ha un sapore inconfondibilmente burckhardtiano (M. Foucault, L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, p. 95).


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del cinico, che ha nel francescano e nel profeta due tra i suoi doppi, e la questione della sollevazione, opposta alla rivoluzione52, è anche la stella del Principio Speranza53 di Ernst Bloch a levarsi sull’orizzonte foucaultiano54; accanto a queste nuove stelle, ne tornano due che già erano apparse in costellazioni precedenti: quella dello Hegel della Fenomenologia dello spirito e quella di Heidegger, con il suo nesso fra verità e libertà, così violentemente tagliato nel 197155; parallelamente, è evidente un certo declino di Nietzsche, talvolta quasi dichiarato56. Sulla base di questi punti di riferimento, Foucault sviluppa una critica delle società della tarda modernità che è una rivendicazione del valore del carattere multiverso della razionalità di fronte a un capitalismo che vuole imporre un modello di ragione unica: si conferma che il dialogo con l’altra sponda del Reno è la nota costante di Foucault e, in questa ultima fase, Nell’altro testo sull’Illuminismo che Foucault ha redatto, che ora possiamo leggere come lezione del 5 gennaio 1983 del corso Il governo di sé e degli altri (Feltrinelli, Milano 2009), egli dedica la prima ora della lezione al commento del testo kantiano del 1798 sul conflitto delle Facoltà, che, come è noto, affronta il tema della rivoluzione come segno prognostico della tendenza del genere umano a progredire verso il meglio (cfr. I. Kant, Il conflitto delle Facoltà, Morcelliana, Brescia 1994); la “ripetizione” di questa posizione kantiana sembra una conferma della presa di distanza di Foucault dal modello della rivoluzione francese, presa di distanza che è sottesa a tutta la sua opera, come dimostra il suo positivo, costante rapporto con François Furet (Foucault apprezzò molto la Storia della rivoluzione francese, scritta da Furet insieme a D. Richet e pubblicata per la prima volta nel 1965-1966 in due volumi, e espresse ammirazione perfino per l’opera in cui Furet giunse ai suoi risultati critici più estremi, Penser la Révolution, Gallimard, Paris 1978; cfr. rispettivamente M. Foucault, Dits et écrits, cit., vol. II, p. 280 e vol. III, p. 745). 53 E. Bloch, Principio Speranza, Garzanti, Milano 2005. 54 Sappiamo della lettura da parte di Foucault di questo testo grazie all’intervista inedita del 1979 a Farès Sassine reperibile al seguente indirizzo internet: <http://faressassine.blogspot.it/2014/08/entretien-inedit-avec-michel-foucault.html> (consultato il 6 agosto 2017). 55 Per quanto riguarda i riferimenti a Hegel, cfr. supra, nota 24; per quanto riguarda Heidegger, cfr. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., pp. 285 e ss., dove la menzione del filosofo tedesco non è esplicita, ma è inequivocabile attraverso il richiamo del nesso veridizione-libertà, in precedenza visto da Foucault come appartenente alla tradizione metafisica di Platone e Kant; per un richiamo esplicito e positivo al filosofo tedesco cfr. M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Gallimard-Seuil, Paris 2001, p. 29. 56 Cfr. M. Foucault, Strutturalismo e poststrutturalismo, cit., pp. 316-318; ma rimandiamo, su questo, a quanto abbiamo detto supra, alla nota 23. 52


142 Manlio Iofrida la Scuola di Francoforte sembra aver, se non sostituito, inflettuto assai diversamente l’eredità del pensiero di Nietzsche. Manlio Iofrida Università di Bologna manlio.iofrida@unibo.it . “German-French Annals”: Foucault’s Texts on the Enlightenment in the Light of the Comparison between France and Germany In this paper, Michel Foucault’s reflection on the themes of critique and the Aufklärung is reconsidered within the framework of the cultural relationship between France and Germany starting from the French Revolution, suggesting that his entire thought can be read from this point of view. Foucault’s break with Heidegger in his Lecture on Nietzsche (1971) and his successive self-criticism on the model of microphysics, starting from 1976, are pointed out as critical moments of the development of his thought: his texts on critique and the Aufklärung and his appeal to the Frankfurt School can be understood only in this context. Finally, the pregnancy of Foucault’s “new” alliance with the Frankfurt School and of his harsh polemic against Lyotard’s concept of postmodern is examined. Keywords: French Philosophy, German Philosophy, Kant, Nietzsche, Heidegger, Frankfurt School, Postmodern.


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