EDIZ. BLUES E DINTORNI S.R.L., VIALE TUNISIA 15 - 20124 MILANO MI - ITALY - “POSTE ITALIANE S.p.A. - SPED. IN ABB. POST. - 70% DCB - MILANO” - N. 119 GIUGNO 2012 - € 6,00 IVA INC.
TRIMESTRALE DI CULTURA MUSICALE
IAN SIEGAL
Solo oggi è importante?
TAMPA RED Ritorno a casa
ALAN LOMAX
Musica ed immagini
ALABAMA
FAME, Hinton e Blues
JUKE JOINT
Cultura del Mississippi
Son Seals
Edizioni Blues e Dintorni S.r.l. - N. 119 - Giugno 2012
terza pagina
In questo numero Agenda
Concerti
European Blues Challenge 2012 Ian Siegal
Son Seals
Alan Lomax
The Hill Country Picnic
Dentro i juke joint Recensioni
Antologie & ristampe Polvere di stelle DVD
Sweet Home Alabama Tampa Red
Voci dal Mississippi
Blues In Italy Festival
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Il Blues
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Direttore Responsabile
Marino Grandi
Redazione Silvano Brambilla, Ennio “Fog” Fognani, Marino Grandi Tel. / Fax +39 02 29514949 E-mail: ilbluesmagazine@interfree.it
Hanno collaborato a questo numero Antonio Avalle, Simone Bargelli, Matteo Bossi, Marco Denti, Matteo Fratti, Matteo Gaccioli, Davide Grandi, Giacomo Lagrasta, Enrico Lazzeri, Michele Paglia, Graziano Uliani, Ottavio Verdobbio, Luca Zaninello.
Restyling grafico Marco Fecchio
Corrispondenti Brian Smith (GB), Renato Tonelli (USA)
Amministrazione / Abbonamenti / Pubblicità Luciana Salada - Tel. / Fax +39 02 29514949 E-mail: ilbluesmagazine@interfree.it
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il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Avremmo voluto riprendere il discorso con cui chiudevamo lo scorso numero: carta sì, carta no e magari concluderlo. Non ci siamo riusciti. Rimane il dato di fatto del probabilissimo passaggio del testimone tra due generazioni che hanno, ovviamente e ci mancherebbe altro, concezioni diverse per il raggiungimento dell’obiettivo finale che però rimane comune: diffondere e rendere fruibile al meglio l’amore per la cultura della musica Blues. Quindi, mentre vi lasciamo ancora tra “color che son sospesi”, da parte nostra, con la consueta passione che ci anima ancora (nonostante sia minata dalla crisi che il nostro portafoglio giornalmente ci rammenta, e che trova la riprova di ciò nel ridimensionamento drastico se non nella sparizione di manifestazioni musicali di una certa caratura, vanto per anni della nostra estate musicale), siamo riusciti anche per questa volta a confezionare questo terzultimo numero della nostra rivista cartacea. C’è un po’ di tutto, e per giunta non sempre legato da un filo conduttore logico, perché il nostro desiderio di spaziare nei territori poco battuti rimane, dimostrandosi in fondo la spinta determinante che ci ha fatti nascere. Così se vi presentiamo Son Seals, da un’altra angolazione vi riproponiamo Tampa Red, vi dimostriamo quanto poco loquace sia Ian Siegal al punto da far invidia alle “Voci dal Mississippi”. Abbiamo poi finito per dare spazio alle immagini, ogni tanto ci capita ma solo ogni tanto non essendo dei fan del genere, in quanto oltre alla consueta rubrica dei DVD, vi portiamo testimonianza di due episodi a sé, il primo dedicato ad Alan Lomax ed il secondo al viaggio/inchiesta nei juke joint del Mississippi. E concludiamo questo sguardo polimorfico con un breve spaccato sull’Alabama, abbracciandone il passato con un luogo, i FAME Studios, un artista, Eddie Hinton, e riservando l’oggi per le nostre orecchie attraverso l’ascolto del blues targato XXI° secolo. Ci è però impossibile non ricordare Giancarlo Schinina che ci ha lasciati lo scorso 3 aprile, e se permettete lo facciamo autocitandoci con la chiusura della recensione del suo disco d’esordio: «…è solo un semplice disco di blues suonato con il cuore di chi ha ancora una fede in cui credere» (Maurizio Pol, “Il Blues” n. 30, Marzo 1990, pag.16).
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Fotocomposizione Pinelli Printing S.r.l. Stampa Pinelli Printing S.r.l. Via E. Fermi, 8 - 20096 Seggiano di Pioltello (MI) Tel. 02 926 79 33 In copertina Son Seals (Luglio 2001, foto Pertti Nurmi©) “Il Blues” è una pubblicazione trimestrale di cultura musicale delle Edizioni Blues e Dintorni S.r.l. E-mail: ilbluesmagazine@interfree.it Sito web: www.ilbluesmagazine.it Sede Legale Viale Tunisia, 15 - 20124 Milano MI - Italy Registr. del Tribunale di Milano n. 485 del 18/12/1982. ROC n. 4197 (già RNS n. 5524 dell’11/12/1996). “Poste Italiane S.p.A - Spedizione in abbonamento postale - 70% DCB Milano”. Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi, documenti, fotografie e disegni. Gli articoli non firmati sono a cura della Redazione. Associato all’USPI
Chiuso in redazione il 29/05/2012
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agenda
preso a mandare in onda dalle frequenze 100.35 in FM di Radio Codogno, il martedì dalle 20:00 alle 21:00, la musica del Diavolo. Per gli interventi in diretta telefono 0377 30319. ♦ All’interno del palinsesto di Radio Popolare Roma, che trasmette sulle frequenze di 103.3 Mhz, Gianluca Diana ha ripreso a trattare del Blues e delle sue culture con la messa in onda domenicale, dalle 21:00 alle 22:30, di “Mojo Station”. La trasmissione, che quest’anno festeggia i dieci anni di attività, è ascoltabile anche in streaming su www.radiopopolareroma.it ♦ Ogni domenica alle ore 21:00 Marco Ciapparelli, dalle frequenze di 88.15-88.8-89.1-101 in FM di Radio Punto di San Vittore Olona (MI), cura la messa in onda di “American Tracks” un programma dedicato alla musica blues, soul, jazz e rock. La trasmissione, ascoltabile anche in streaming sul sito www.radiopunto.it, verrà registrata in modalità audio e video e pubblicata sul sito www.youtube.com/radiopunto
Eventi: Quest’anno, grazie alla Blues”, collaborazione della rivista “Il dell’Associazione Roots ‘n’
Blues e dell’Ameno Blues Festival, la finale italiana per l’ European Blues Challenge 2013 si terrà il 3 novembre 2012 ad Arona presso il Palazzo dei Congressi. Le selezioni per accedere alla finale, si effettueranno inviando il materiale in forma digitale ad un sito web che verrà successivamente indicato. Info davidegrandi@gmail.com ♦ Voci dal Deserto, festival internazionale della cultura Tuareg, avrà luogo dal 5 all’8 luglio a Bologna presso la Villa Aldrovandi Mazzacurati. L’evento, che comprende mostre e incontri, conterà anche su concerti tra cui quello dell’8 con i Tinariwen. Info info@tekelt.org Iniziative: Potremmo chiamarlo numerose Limbiate In Blues, in quanto sono le occasioni musicali che
la cittadina di Limbiate (MI) offre per l’estate 2012. Infatti, dopo la sagra dell’Oratorio apertasi lo scorso 30 maggio e conclusasi il 9 giugno scorso con sei concerti, tra cui ricordiamo quelli degli Tea Spoon Quartet e di Amanda & La Banda, sarà la volta di quella che ruoterà attorno al Tram Tram Cafè il 30 giugno con Bullfrog Blues, il 7 luglio con Uncle Tix & The Groovy Guys, il 14 luglio con Filoblues, il 21 luglio con Joy & Zio Bros, ed il 28 luglio con Badwater. In contemporanea ci saranno anche, in località Mombello, l’8 luglio Amanda & La Banda ed il 15 luglio i Black Cat Bone. Info 3389544367
Lutti: Monroe Jones, cantante e chitarrista, il 30 dicembre 2011 a Cleveland, Mississippi; Big Walter “The Thunderbird” Price, cantante e pianista, il 7 marzo 2012 a North Houston, Texas; Eddie King, cantante e chitarrista, il 14 marzo 2012 a Peoria, Illinois; Jerry McCain, can-
Giancarlo Schinina (foto Nicola Riotti©)
tante e armonicista, il 28 marzo 2012 a Gadsden, Alabama; Giancarlo Schinina , cantante, chitarrista, armonicista ed a lungo leader della Level Blues Band, il 3 aprile 2012 a Nonio, Verbania; Andrew Love , tenorsassofonista e membro dei Memphis Horns, il 12 aprile 2012 a Memphis, Tennessee; Michael “Iron Man” Burks, cantante e chitarrista, il 6 maggio 2012 all’aeroporto di Atlanta, Georgia, di ritorno dalla tournée europea; Donald “Duck” Dunn, bassista, il 13 maggio 2012 a Tokyo, Giappone, durante una tournée. discografiche: È orami “SoulNovità prossima la pubblicazione di Land”, il nuovo doppio CD
live della Joe Castellano Super Blues & Soul Band. Con il tour che seguirà, previsto dal 27 luglio al 16 luglio, Joe Castellano intende fe-
NEL PROSSIMO NUMERO (FORSE): MANDOLIN BLUES
INTERVISTA A QUINTUS McCORMICK OLD GRAY MULE
INTERVISTA A JIMMY ANDERSON MIGHTY JOE YOUNG
INTERVISTA A FIONA BOYES BLUE NOTES
INTERVISTA AGLI HILLSTOMP MEDICINE SHOW
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steggiare anche i 10 anni di vita del Blues & Wine Soul Festival. Info www.joecastellanobluesband.com ♦ Per inizio autunno 2012 è prevista l’uscita del secondo disco della band svizzera di Marco Marchi & The Mojo Workers, opera che potrà avvalersi della collaborazione di Sean Carney, Steve Johnson, Andy J. Forest, Washboard Chaz, etc. Novità editoriali: È già disponibile na nelle migliori librerie, edito da Arcanella collana Musica (pagg.190,
Euro 16,50), “Blues! Afroamericani: da schiavi a emarginati” di Mariano De Simone. Ne parleremo nel prossimo numero di settembre. ♦ Il numero 218 della storica rivista americana Living Blues , ne segna anche il lancio dell’edizione digitale online, senza per questo indicare la cessazione del classico formato cartaceo. Una doppia disponibilità quindi, che si prefigge di andare incontro alle generazioni future. Info www.livingblues.com Con la trasmissione “Juke billaRadio: Joint”, condotta da Silvano Brame Leo Bonazzoli, il blues ed i
suoi dintorni continuano ad andare in onda ogni mercoledì dalle 21:30 alle 23:00 dalle frequenze di 101.7 in FM di Radio Città Bollate (MI). La trasmissione è ascoltabile anche in streaming su www.radiocittabollate.it ♦ Continua tutti i giorni la trasmissione “Life In Blues” di Fabio Treves, in onda alle 22:00 sulle frequenze di Lifegate Radio (www.lifegate.it). Info lifeinblues@lifegate.it ♦ Con la trasmissione “Stazione Radio Blues”, Francesco Riboldi ha ri-
La 6 edizione della cheRassegne: rassegna Donne Jazz In Blues, avrà luogo dal 7 al 29 luglio a
2012 a Bertinoro (FC), vedrà impegnate l’8 luglio Lisa Manara & Blue Jackets ospite Ricky Portera; il 15 luglio Kellie Rucker Blues Band; il 21 luglio Giovanna Gattuso Jazz Trio; il 22 luglio Angela Watson Jazz And Blues Band; il 29 luglio Vivian Kelly Blues Band. Contemporaneamente nelle serate del 7, 14 e 21 luglio si terranno le selezioni del Concorso Voci Nuove Donne Jazz & Blues, la cui finale avrà luogo il 28 luglio. Info www.naimaclub.it ♦ Iniziata lo scorso 25 maggio con l’esibizione della Cava Blues Band e proseguita il 3 giugno con Max Prandi Cha Tu King, la rassegna Crema Blues, si propone, attraverso la disponibilità di numerosi locali cittadini, quale palcoscenico ideale per i gruppi italiani. Infatti, il 9 giugno sarà la volta della Fabio Marza Band, il 17 di Acoustic Railroad, il 21 di Francesco Garolfi, il 22 dei Baton Rouge ed il 24 degli Acoustic Trip. Info www.orientagiovanicrema.it ♦ L’anteprima delle 22a edizione del Narcao Blues Festival avrà luogo il 12 luglio a Sassari con l’esibizione della Keb’ Mo’ Band. Info www.narcaoblues.it Riconoscimenti: l’elenco com Music pleto dei premiati con i Blues Awards 2012 è presente nel sito www.blues.org della The Blues Foundation.
Tour: La Peaches Staten Blues al 5Band sarà in tour in Italia dal 3 luglio agosto. Info 347 5352746 oppure
www.myspace.com/lucioomarfalco
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Concerti MARTHA REEVES AND THE VANDELLAS Il primo pensiero che abbiamo pronunciato, dopo aver visto il concerto di Martha Reeves And The Vandellas al Blue Note di Milano lo scorso 31 gennaio, è stato che la suddetta cantante neroamericana è più o meno coetanea di Etta James, Mavis Staples, Bettye Lavette. Una bella generazione, non c’è che dire, ma a parte la compianta Etta, le suddette Mavis e Bettye sanno ancora somministrare forti dosi emotive con i loro dischi e i loro concerti, mentre Martha Reeves non più. Ha vissuto l’epoca d’oro della Motown, divenendo una sorta di reginetta del soul/pop degli anni Sessanta, pur condividendo lo stesso “tetto discografico” della “rivale” Diana Ross & The Supremes, e la sua fama è legata ad un pugno di pezzi fra i quali il primo della lista è quel “Dancing In The Street” che ha fatto ballare più generazioni e che tuttora le permette di continuare a fare spettacoli. La curiosità di ascoltarla per la prima volta dal vivo in Italia era parecchia, ma purtroppo le già poche certezze sono svanite in uno show adatto più che altro ai locali di Las Vegas ed alle crociere sull’Atlantico. D’accordo l’età, ma Martha Reeves non ha più un canto che le consente, almeno in parte, di rinverdire i fasti di un tempo, le sue tonalità hanno il respiro corto ponendo spesso rimedio con un falsetto inespressivo. L’ennesima coppia delle Vandellas, due giovani ragazze, una nera e una bianca, non le hanno fornito il supporto necessario, limitandosi a cantare in modo leggero e raffinato (probabilmente per non coprire la già incerta vocalità della Reeves) senza quelle sollecitazioni tali da poter instaurare un dialogo botta e risposta e incalzanti sottolineature. Un cenno anche ai musicisti, schierati come una r&b band, ma troppo accademici e con la sezione fiati spenta e mai incisiva. Il locale era pieno e il pubblico, più di mezza età che di giovani, si è fatto ovviamente sentire con gli applausi quando Martha Reeves giunta al terzo pezzo in scaletta ha attaccato “Nowhere To Run”, per poi perdersi in una spenta rivisitazione di “Many Rivers To Cross”, un ottimo e significativo pezzo di Jimmy Cliff al qua-
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le non è stato reso il giusto riconoscimento. Di seguito, dopo una pausa “obbligata” al bancone del bar, riparte con altri suoi hit, come “Heatwave”, “Jimmy Mack” e “I’m Ready For Love”, cita Sam Cooke e Marvin Gaye ma non…Etta James scomparsa pochi giorni prima. Il finale è scontato con “Dancing In The Street” che introduce citando i tanti cantanti che nel tempo l’hanno incisa, affermando poi che la canzone in ogni modo è sua e invita il pubblico ad alzarsi per ballare e cantare. Meglio ricordarla con le sue incisioni dell’epoca. Silvano Brambilla
LODI BLUES FESTIVAL C’è stata persino la neve a farci da contorno, quest’anno. La formula del blues invernale a Lodi non demorde e rimane ancora una delle proposte stagionali più efficaci, tra l’estate di proposte più o meno qualitative (ma soprattutto gratuite) e il silenzio, all’arrivo delle prime foglie cadenti. Non è così per la Groove Company e l’appuntamento in questione si rivela tradizionalmente inaugurale del buon anno in blues già da febbraio, per gli affezionati di una capatina nel capoluogo lombardo e non solo, a rinvigo-
rirne tra le nebbie i raffreddati torpori. Così il teatro è sempre lo stesso, compostissimo Alle Vigne (ove non è dato capire facilmente se sia il pubblico a rendere austero il teatro o viceversa…) ma con la trovata, innovativa per quest’anno, di estendere anche ad altri eventi minori le serate nei pub della città, contestuale contorno al teatrale “mainstage” a metà mese. Un guizzo di gradevole conforto allora, nel ritrovare anche al bar dell’aperitivo di tendenza Guitar Ray & The Blues Gamblers il venerdì sera a due settimane, così come al caffè di passaggio, Francesco Piu ad una settimana prima; per non parlare del bis di appuntamenti d’apertura e chiusura nel lodigiano Wellington Pub al blues più congeniale, rispettivamente con Gnola & Billa e infine, col Davide Speranza Trio. Sicchè, tra i concerti programmati, anche alcuni artisti (oltre a quelli di cui sopra) già supporter o headliners nelle precedenti edizioni, tra i quali la nostra scelta (costretta o meno dalla tempistica degli affari quotidiani) caduta sul Bonfa (Paolo Bonfanti) nell’elegante chiostro della rinnovata Biblioteca Laudense: ad hoc per il suo raffinato e virtuoso stile all’acustica, ben apprezzato dal caloroso pubblico di sabato 28 gennaio alle 18. E non ce ne vogliano le curiose proposte d’intermezzo, come i Ricreos, la Marzapoppi Blues o The Cyborgs, ma il
cartellone era ricco e noi, predisposta già da tempo la nostra assegnazione al loggione, auspichiamo ancora le sorprese del Lodi City Blues a una prossima edizione. Intanto, alla due giorni “di portata” (10 e 11 febbraio), il venerdì l’antipasto era garantito dal triestino Mike Sponza, capo del trio elettrico che avrebbe preceduto l’animo soul di Big Daddy Wilson. Indi inguaribile affinità tecnica con gli umori britannici per il primo, che non ha tralasciato d’interloquire con una chitarra dal tocco particolare e con basso e batteria di Mauro Tolot e Moreno Buttinar, scampandoci dalle ennesime velleità da power trio e ritrovando nei brani come “Little By Little” l’espressione composta di British Blues e Chicago Style. Morbido invece l’intervento soul elettroacustico di papà Wilson che, quantunque presentato al pubblico non completamente in forma, è stato piuttosto alfiere di una performance dalle gradevoli contaminazioni: mai eccessive e condite dalle sue percussioni, quanto dalla chitarra unplugged di Roberto Morbioli (Morblues Band). Risultato: una gravida carrellata di gospel, mai urlati dalla voce black di Big Daddy, piuttosto sussurrati in un dondolio generoso, a tratti prolisso, ma dall’eleganza che non si è risparmiata “I Heard The Angels Sing”, “Country Boy” o “Ain’t No Slave” tra le cose migliori.
Veronica Sbergia, Mauro Ferrarese (foto Matteo Fratti)
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Ma è alla sera successiva che si va focalizzando l’esibizione di punta, non tanto nell’atteso nome di Elliott Murphy, quanto piuttosto nella sorprendente line-up da grammofono di Veronica Sbergia (ukulele, washboard e kazoo) & The Red Wine Serenaders, o per meglio dire “chitarre e orpelli vari” di Max De Bernardi, Mauro Ferrarese e il contrabbasso di Alessandra Ceccala, voci e cori di tutti. Nulla a che vedere col rockettone della star in serata, ma vero blues prebellico che ha trasformato il teatro, con la teatralità (appunto…) dei cantastorie in questione, nella platea d’esibizione dei Soggy Bottom Boys stile film “Fratello, dove sei?”. Davvero encomiabili dunque gli interventi, all’unisono e singoli, della frontwoman e delle sue spalle comiche, nell’ironia che ha reso il quartetto artisticamente il più serio del festival. Dalla vivace “Rain Rain Rain” alla sognante “Darkness On The Delta”, fino alla country ballad “Out On The Western Plain” nella grintosa interpretazione della Ceccala. Quanto di meglio, prima che un uso del tutto inappropriato degli strumenti acustici trasformasse di fatto l’impatto scenico di Murphy e i suoi Normandy All Stars in una rock’n’roll exhibition ostentata, facilmente giustificata dal cantautore newyorkese col fatto (ovvio…) che il rock’n’ roll è figlio del blues, riconoscibilissimo nel suo spirito folk dalle ballad (e non poteva essere altrimenti, per un alias Bob Dylan), ma senza tracce di un vecchio disco che il biondo di Long Island pare aver dedicato tempo fa a Robert Johnson … Matteo Fratti
OTIS TAYLOR Breve passaggio in Italia per Otis Taylor lo scorso marzo, noi abbiamo assistito alla serata di lunedì 12 al Clock Tower Pub di Treviglio, dove il bluesman del Colorado era accompagnato dai fidi Larry Thompson e Todd Edmunds rispettivamente batteria e basso mentre alla chitarra c’era una nuova presenza, il giovane Shawn Stachursky (di solito nel gruppo di Jason Ricci). In un locale gremito nonostante la serata a inizio settimana, Otis ha imbracciato il banjo elettrico per tutta la prima parte del concerto, molto valida, con un repertorio che attinge ai suoi vecchi dischi più che al recentissimo “Contraband”, di cui estrae solo un paio di cose tra cui una “Blind Piano Teacher” affine, almeno strutturalmente,
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Otis Taylor (foto Matteo Bossi)
ad altre pagine del suo recente passato. Ecco poi le volute insistite di “Run So Hard The Sun Went Down” né poteva mancare il suo cavallo di battaglia “Ten Million Slaves” che gode di una certa popolarità anche presso il pubblico generalista dopo l’inclusione nel film “Public Enemies”. Abbandonato il banjo in favore di una Stratocaster, le atmosfere si alleggeriscono e Otis lascia un certo spazio anche agli assolo rock di Stachursky, cui manca però un guizzo di creatività oltre ad un suono più personale, di spessore invece il lavoro di Thompson alla batteria. Il nostro sembra di buon umore, non sono mancati nemmeno “Hey Joe” e un pezzo all’armonica che esegue regolarmente ai concerti chiamando la risposta del pubblico, “Hambone”, accenna persino “Volare” piuttosto divertito. Ritroviamo infine le sempre pregnanti “My Soul’s In Louisiana” e “Rain So Hard”, ormai dei piccoli classici, prima di lanciarsi in un ultimo trance blues finale. Matteo Bossi
FIONA BOYES La rassegna Milano Blues 89, benemerita per aver riportato un po’ di blues di qualità nel capoluogo lombardo, ha accolto il 22 marzo scorso l’australiana Fiona Boyes, per giunta in un posto ideale per una manifestazione musicale, lo Spazio Teatro 89. Eravamo curiosi di scoprirla dal vivo dopo averne apprezzate le prove discografiche e Fiona non ha deluso le aspettative impressionando per dedizione e personalità, con un repertorio in larga parte autografo e qualche ripresa che ne dimostra l’eclettismo. Importante anche il contributo di Franco Limido che, a parte i primi brani vissuti in solitudine dalla Boyes, l’ha affiancata con sensibilità e gusto all’armonica per il resto del concerto. Fiona ha uno spiccato senso ritmico, sa dosare le note e il suo stile alla chitarra acustica è una sintesi personale di diversi elementi, canta con
grande sincerità e passione. A volte rivela simpaticamente qualcosa dei pezzi, «questa canzone l’ho cantata in un bar dove nessuno faceva caso alla musica, tranne un tizio che ci cantava sopra, beh oggi quel tale è mio marito» dice ad esempio Fiona i n t r o d u c e n d o “ M e a n Wo r l d ” anche il pezzo successivo, “The Preacher” è ispirato al marito predicatore. La raggiunge Limido ed ecco una riuscita “Easy Baby” dalle belle dinamiche e un omaggio a Hubert Sumlin con “Smokestack Lightnin’” o ancora le sue “Guys Be Wise” e “Howlin’ At Your Door” che deve qualcosa a Robert Belfour. Una parentesi all’elettrica slide , la chitarra è un prestito di Marco Limido, frutta una splendida “Juke Joint On Moses Lane” prima che Fiona torni all’acustico e con “I Want To Go” di J.B. Lenoir concluda, molto applaudita, un bel concerto blues che avrebbe certo meritato il tutto esaurito. Matteo Bossi
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European Blues Challenge 2012
Un altro passo avanti
di Davide Grandi
ccoci di nuovo all’appuntamento annuale di Blues europeo che sta diventando ormai imperdibile, ovvero l’European Blues Challenge. Questa seconda edizione, dopo l’esperienza positiva del 2011, si è svolta sempre a Berlino, piuttosto confortevole in questo 2012 a cominciare dal clima, nel weekend del 16 e 17 marzo. Arrivati il giovedì ci gustiamo una cena ristretta ai membri del Consiglio di Amministrazione (abbreviato in board, quando gli inglesi ci sanno fare!), ma quanto sono cari i ristoranti tedeschi? O forse è solo quello che è stato scelto… mah… rimarremo nel dubbio! Venerdì mattina riunione organizzativa e preparativa e nel pomeriggio invece in largo anticipo al Kulturbrauerei per sistemare accrediti e gadget EBU (quest’anno grazie agli sponsor una bellissima t-shirt). Abbuffata al buffet e le birre ad libitum non aiutano a rimanere lucidi, ma il blues sgorga puntuale sulla terra alemanna quando la Ismo Haavisto Band inizia il suo spettacolo quasi alle 20 spaccate. La prima sera trascorre piacevole come una cena tra amici, e tra le varie band siamo sempre colpiti da Lubos Bena, che nonostante i problemi tecnici ci delizia con una spettacolare “Picking Up Cotton”, mentre dopo il sempre bravissimo Roland Tchakounte (grazie anche al lavoro egregio del chitarrista, Mick Ravassat) ottimo spettacolo di Marco Marchi and the Mojo Workers, di
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Rita Engedalen (foto Pertti Nurmi©)
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Dago Red (foto Pertti Nurmi©)
cui ricordiamo ad esempio la carica “When You Got A Good Friend”. Una nota particolare per i Chehols, giovanissimi lituani, e le loro versioni personali e accattivanti di “Heartbreak Hotel” e “I Ain’t Got You”. Acclamato dal suo pubblico (un autobus di circa 50 fan lo ha seguito dal Belgio), chiude la prima serata Lightinin’ Guy & The Mighty Gators, idolo locale, giusto mix di passione e abilità, sfodera classici come “Bring It On Home” per le sue ammiratrici e “Me & My Blues” storia plausibilmente vera di come la sua vita sia stata salvata dal blues. Un sabato senza sosta ai box il 17 marzo, che inizia con l’Assemblea Generale dell’EBU, prosegue con l’Open Market (novità di quest’anno) ovvero uno spazio dedicato nel primo pomeriggio in cui ogni paese membro ha a disposizione un banchetto per materiale promozionale di musicisti, festival e tutto ciò che riguarda il blues locale, e ci facciamo una bella passeggiata di nuovo fino al Kulturbrauerei per la seconda serata del Challenge. Ci sono i nostri beniamini, ovvero i Dago Red, che sfortuna vuole capitano subito dopo i Vasco The Patch, dalla Bulgaria, che sfornano un rock blues divertente, carico e cantato in lingua madre! I nostri non si lasciano intimidire e, pur ricamando con precisione su toni d’atmosfera, si dimostrano perfettamente all’altezza, con tra le altre una bellissima “I’m Ready”, pur non
piazzandosi, scopriremo alla fine, sul podio. Pur essendo il livello musicale più alto della prima serata, è difficile riuscire a fare i giudici quest’anno (e per fortuna non siamo in giuria!!), e ancor una volta ci appassioniamo allo spettacolo dei giovani The Blues Express dalla Danimarca. Rimaniamo però impressionati da Rita Engedalen & Backbone, meritata vincitrice di questo secondo EBC, con nella band due terzi degli Spoonful Of Blues norvegesi. La jam finale di rito chiuderà la serata, ed i nostri sforzi dei mesi precedenti paiono in parte ricompensati dalla riuscita di questa seconda fatica berlinese, e ci trasciniamo esausti fino all’albergo. Sorpresa di questa edizione è stata la comparsa di Jeremy Spencer, un simpatico vecchietto sorridente e minuto, ormai con pochi capelli (ricordiamo ancora la sua folta chioma), sempre accompagnato da una dolce e simpatica moglie, sorridente anch’essa, che scopriamo vivere in Italia al momento e che ci ripromettiamo di andare presto a trovare. Un pubblico numeroso e soddisfatto ci lascia ben sperare per questa “creatura” ancora giovane, che dal prossimo anno sarà in edizione itinerante, come a gran voce richiesto durante l’Assemblea Generale. Ci rimane giusto il tempo per un brunch la domenica con un vecchio amico d’università e riconquistiamo la strada di casa, felici per l’ottimo risultato e con mille idee in testa per il blues non solo europeo ma anche italiano… Sperando di trovare terreno fertile soprattutto tra i musicisti!
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Ian Siegal Inglese, giovane e figlio del Blues...
ebbene Ian Siegal sia inglese, musicalmente non si sente figlio di quella generazione di musicisti conterranei che negli anni Sessanta hanno ridato interesse al blues neroamericano, perché come ha dichiarato nell’intervista che ci ha rilasciato e che leggerete in seguito, il suo avvicinamento al blues è avvenuto direttamente con bluesmen neroamericani. Ovvio, dunque, che prima o poi andasse nelle sacre terre del blues, guarda caso lo Stato del Mississippi, e l’occasione per farlo è coincisa con le registrazioni del suo ultimo CD, “The Skinny” (“Il Blues” n.116), realizzato con alcuni figli d’arte: Cody Dickinson, Garry Burnside, Robert Kimbrough, Rodd Bland. Nuove generazioni al di qua e di là dell’Atlantico che si sono incontrate per continuare a percorrere la strada tracciata dai gloriosi padri, naturali per Garry, Robert, Cody e Rodd, o spirituali per Ian, quest’ultimo tornato in Italia lo scorso 18 febbraio al Bloom di Mezzago (MI).
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Mike Sponza, Ian Siegal (foto Antonio Avalle)
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di Silvano Brambilla
IL CONCERTO Attraverso la proposta di un prezzo del biglietto popolare, che spesso sconfina nell’offerta di concerti gratuiti, il suddetto locale annovera fra i tanti vantaggi quello di avere frequentatori di ogni età, ragazzi e ragazze, uomini e donne, tutti intenti a godere della musica dal vivo ed a sostenere l’artista di turno. E’ successo anche per Ian Siegal, accompagnato in quest’occasione, e speriamo non sia l’ultima, dall’ottimo Mike Sponza Trio. Per dovere di informazione, ricordiamo che la serata ha avuto inizio con il trio elettroacustico dei Blues Clues. Più si ascolta il Mike Sponza Trio, lui chitarra e voce, Mauro Tolot basso e Moreno Buttinar batteria, più ci rendiamo conto di quanto il terzetto sia uno delle migliori risorse (anche oltre i confini nazionali) del blues di oggi, perché non ha preso la più agevole via di uno scontato rock/blues, ma
con professionalità ha acquisito un capitolo fondamentale, sottrarre note a favore del feeling e della sobrietà per un convincente amalgama fra passato e presente. Tutto questo lo ha confermato eseguendo “When It All Comes Down” (di B.B.King), mentre subito dopo Sponza ha ricordato la sua prima volta al Bloom nel 1997 accanto al mai dimenticato Guido Toffoletti, poi con giusta enfasi, ha introdotto Ian Siegal. Il musicista inglese che, nonostante sia stato nominato nel 2011 dalla The Blues Foundation nella categoria “Best Contemporary Blues Album” nell’ambito della 33a edizione dei Blues Music Awards per il suo disco “The Skinny”, non ha modificato affatto la sua personalità. Poche parole e nessun dialogo con il pubblico. Lui va sul palco per suonare la chitarra elettrica con l’immancabile bottleneck al dito e cantare con la voce arrochita e fumosa, in maniera diretta, senza ornamenti superflui; il blues in stile Chicago, quello più ipnotico delle colline del Mississippi, il rock’n’roll più grezzo fino al soul più viscerale. Parte con una tagliente versione di “Stop Breakin’ Down”, pesca pezzi autografi dai suoi CD, fa scivolare lo slide sulle corde della chitarra omaggiando Muddy Waters, canta pensando a Howlin’ Wolf, esegue solo un pezzo da “The Skinny”, la lunga ed ipnotica “Hound Dog In The Manger”, accenna, “Bring It On Home To Me” di Sam Cooke e sul finale di un concerto travolgente ricorda Etta James con “I’d Rather Go Blind”. Gli riesce tutto bene, anche per merito del trio di Sponza che non si distrae un attimo nel sostenere le sue penetrazioni stilistiche, che diventano “obbligatoriamente” più convenzionali, allorché invita sul palco l’armonicista e amico Franco Limido della Family Style, con cui suona insieme un pugno di standard blues. Ian Siegal concede tre bis eseguiti da solo con chitarra elettrica, due sono ballate più sul versante cantautorale, e l’ultimo è una istintiva versione di “Forever Young” di Bob Dylan. Poi se ne va, definitivamente, con quel suo passo incerto, perché lo aspetta in camerino
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un’altra sigaretta e l’ennesimo bicchiere.
«…il colore della pelle non ha nessuna importanza, suono indifferentemente sia con gli uni che con gli altri.»
L’INTERVISTA Sei sempre stato un’artista personale con una tua visione musicale, fosse essa elettrica o acustica non importa. Le tue influenze arrivano dall’ascolto dei musicisti inglesi del periodo del British Blues, oppure direttamente dai Bluesmen neroamericani. Mi sono ispirato direttamente al blues neroamericano, la mia generazione ha avuto l’opportunità di scavalcare il British blues e andare direttamente ancora più indietro. Non abbiamo dovuto scoprire il blues tramite, che so, John Mayall o i Fleetwood Mac, siamo andati direttamente alle origini, a Muddy Waters, B.B. King ecc.
Abbiamo notato che ti piacciono le scarpe, sono sulla copertina di “The Skinny” e addirittura per il CD, “Swagger” sono in copertina e all’interno. C’è un collegamento con il tipo di musica che suoni oppure sono una tua passione. Effettivamente non ci avevo mai
se era molto conosciuto e apprezzato. Con Guido, tu e Mike Sponza avete in comune una cosa, avete legami anche con musicisti dell’Est Europa. Tu Ian, sei amico del musicista ungherese, Ripoff Raskolnikov del quale hai inciso un suo pezzo, “Horse Dream”. Pensi che l’Europa dell’Est sia una nuova frontiera del blues.
Ci piace l’accompagnamento scarno dei tuoi dischi che ben si lega con la tua voce incisiva. E’ una scelta voluta o ti viene naturale. Mi viene naturale questo approccio scarno e incisivo, non ci penso molto, mi viene così e così lo faccio.
Nel 2005 hai pubblicato, “Shake Hands With The Devil”, il CD è autoprodotto, è dal vivo e suoni da solo in acustico. Da “Meat & Potatoes” i tuoi dischi escono per l’etichetta Nugene e sono più elettrici, è stata una tua scelta oppure è la politica dell’etichetta. Scelgo io il suono da avere nei dischi a seconda di come mi sento, sono libero di fare cose in acustico o in elettrico.
« Sono sempre stato attratto da quel tipo di blues, quello di Burnside e Kimbrough…»
A un certo punto sei andato nel Mississippi dove hai registrato, “The Skinny”, con Cody Dickinson & Co, un gran bel disco, come sei riuscito a fondere le tue radici inglesi con il blues delle colline. Sono sempre stato attratto da quel tipo di blues, quello di Burnside e Kimbrough ma anche dei North Mississippi Allstars. Per me è stato dunque naturale arrivare a quel tipo di sonorità, che non è Delta Blues o Chicago Blues, è una specifica sonorità, a volte suonata con un solo accordo e con la quale mi trovo a mio agio.
Quando eri nel Mississippi hai avuto contatti e hai suonato con qualche vecchio bluesman. No, ho incontrato solo Hubert Sumlin.
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Ian Siegal (foto Antonio Avalle)
pensato, ed è vero. Sono un feticista di scarpe, non avevo mai fatto caso a questa cosa, me l’hai fatta notare tu, l’ho fatto in maniera inconsapevole.
Sono scarpe Italiane? No, americane.
Hai mai suonato con qualche bluesman inglese degli anni sessanta. Sì, con parecchi, fra questi mi piace ricordare, Dave Kelly e Paul Jones.
Hai mai sentito parlare del bluesman italiano, Guido Toffoletti? Nell’ambiente del blues ingle-
Il blues è molto popolare nell’Est Europa, ci sono dei buoni musicisti e c’è una buona situazione, ma non so dirti se è una nuova frontiera del blues.
C’è un motivo per il quale suoni di più con musicisti bianchi che neri. Non c’è nessun motivo, il colore della pelle non ha nessuna importanza, suono indifferentemente sia con gli uni che con gli altri. In “The Skinny”, c’è Cody Dickinson, come Garry e Duwayne Burnside, Robert Kimbrough, Rodd Bland.
P.S.: Un particolare ringraziamento a Mike Sponza per la disponibilità e per l’aiuto durante l’intervista.
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Frank Son Seals L’uomo dalla chitarra verde Cadillac
Introduzione a tradizione blues nella cosiddetta Terra delle Opportunità (Arkansas/Land of Opportunity) non ebbe mai lo stretto retroterra cultural-musicale dei vari stilemi texani, mississippiani o del Tennessee. Musicisti originari dello Arkansas come Robert Nighthawk, Floyd Jones, Casey Bill Weldon,ecc., dovettero emigrare in cerca di fortuna ed opportunità di lavoro. Solamente in seguito al successo di radio locali come la leggendaria KFFA nell’area attorno ad Helena, si concentrarono una serie impressionante di musicisti di blues dai nomi altisonanti. Il vero catalizzatore di questo fenomeno musicale fu senz’altro l’armonicista Rice Miller meglio conosciuto come Sonny Boy Williamson n. 2, ma anche guys come Robert Junior Lockwood, il pianista Lazy Bill Lucas, Driftin’ Slim, Houston Stackhouse, Joe Willie Wilkins, Peck Curtis,ecc., fecero la loro parte in quegli anni avventurosi per consolidare uno stile musicale locale. Con lo spostamento del Blues verso le città del Nord ci furono, almeno sino alla metà degli anni ‘40, anche gli spostamenti dei bluesmen e delle loro famiglie. In questo esodo verso le città del Nord dobbiamo nominare anche bluesmen più giovani come il batterista Willie Smith e i chitarristi Buster Benton, Sammy Lawhorn, Luther Allison ed il nostro Frank Son Seals (1).
di Ottavio Verdobbio
L
“Osceola rock” - L’infanzia trascorsa in una piccola cittadina Son Seals (Maranello, 23-03-1983, Foto Marino Grandi) dell’Arkansas Conosceva tutti i vecchi artisti. Ma Rainey, Jim Seals, il padre di Frank Son Seals, nei lontani Red Foxx ed un batterista chiamato Fat, mi anni’40 faceva parte dei leggendari Rabbit Foot parlava molto di loro quando ero piccolo. Minstrels e nel contempo gestiva un club a West Faceva anche qualcosa sul palcoscenico. Memphis, Arkansas. Nel 1940 la famiglia Seals si Era un buon ballerino. Suonava il piano, la trasferì a Osceola, una piccola cittadina delchitarra, i tamburi ed il trombone, era un l’Arkansas circondata da immensi campi di cotone grande musicista. A West Memphis gestiva che fiancheggiavano la leggendaria Highway 61 e un locale dove nei weekend si suonava il che in seguito Son Seals celebrerà in “Cotton blues. Quando questo locale fu demolito, si Picking Blues”, un brano che inciderà nel suo pritrasferì a Osceola e quello fu il luogo dove lui mo disco intitolato “The Son Seals Blues Band” e mia madre si conobbero e si sposarono». (Alligator 4703/1973). Jim Seals ad Osceola aprì il Dipsy Doodle Club e Frank Son Seals, il più giovaIl bluesman Son Seals, quando si creò una solida ne dei 13 figli dei coniugi Seals, nacque il 13 agofama in quel di Chicago era solito ricordare con sto 1942 nella casa paterna che era situata pronostalgia gli anni della sua infanzia trascorsi ad prio dietro il locale. Osceola nel club paterno, dove «c’era un piano ed «Mio padre era un musicista. La maggior anche una vecchia chitarra con la quale io giocheparte della sua gioventù la trascorse con il rellavo. Ma quello che io volevo veramente suonaRabbit Foot Minstrels Show di F.S. Walcott. re erano i tamburi e quando avevo 11 anni (1953)
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mio padre mi comprò una batteria a Memphis. Solamente nel 1957 cominciai ad interessarmi alla chitarra. Con essa accompagnavo le canzoni del juke-box o mio padre al piano». Se la disgregazione familiare era una costante nelle comunità nere degli Stati del Sud in quegli anni, la famiglia Seals era senza dubbio un’eccezione ed il legame che univa il giovane Son con il padre fu consolidato dalla stessa passione che li univa:la musica del diavolo.
«Si potrebbe affermare che fu mio padre a mettermi sulla giusta strada. Mi insegnò tutto, proprio dal principio. Come accordare la chitarra e maneggiare la tastiera del piano. Mi faceva suonare un accordo per ore …Io mi annoiavo da morire e gli dicevo: “Esco a giocare con gli altri ragazzi.” Ma devo ammettere che aveva ragione, quando facevo gli esercizi con la chitarra, invece di andare su e giù con le dita, mi faceva stare su di un accordo finchè lo sentivo anche quando dormivo. Al mattino, appena sveglio, afferravo la chitarra e riuscivo subito a fare quell’accordo».
“I Hear Some Blues Downstairs”/Il Dipsy Doodle Club: una scuola di vita Il Dipsy Doodle club di Osceola, Arkansas, aveva regolarmente in programma le esibizioni di artisti blues del calibro di Sonny Boy Williamson, Robert Nighthawk, Joe Hill Louis e Albert King. Si narra che all’età di 13 anni Son Seals accompagnasse alla batteria il grande Ramblin’ Bob quando l’errabondo bluesman faceva tappa a Osceola nel locale di Jim Seals. Uno dei bluesmen che influenzarono maggiormente il giovane Frank fu senza ombra di dubbio Albert King, che ebbe una delle sue prime esperienze professionali con un gruppo chiamato Yancey’s Band, che era solito esibirsi nei dintorni di Osceola. Dopo aver trovato lavoro nelle costruzioni come guidatore di bulldozer, Albert King formò un’altra band chiamata The Groove Boys dove militarono alcuni musicisti che gravitavano nei dintorni di Osceola come L.T. Taylor, Junior Anderson, L.V. Parr, Stevie Tucker e Bob Starr. The Groove Boys si esibivano regolarmente al Dipsy Doodle Club, e di lì a poco il giovane Son si trovò a partecipare ad estenuanti jam-session nel fumoso locale del padre in qualità di batterista, stringendo un rapporto di amicizia con il grande bluesman. In seguito Albert Nelson a.k.a.
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Albert King utilizzò il giovane batterista nella sua blues band, e Son Seals registrò con il bluesman di Indianola il secondo disco di Albert per la Stax Records: il pluridecorato “Live Wire/Blues Power (Stax 2003), contenente il famoso monologo di King, una specie di sermone profano rivolto al pubblico acclamante che recita così:
“When you’re playing the Blues, they’re so strong, that’s the reason they call it Blues power and would you believe, I invented Blues power”. (2).
Frank Son Seals voleva a tutti i costi diventare anche un grande chitarrista, e all’età di 18 anni formò una band e trovò un ingaggio per 4 sere alla settimana in un locale chiamato Chez Paris Club a Little Rock, Arkansas, e questo ingaggio andò avanti più o meno per 4 anni. Nel 1963 il chitarrista di Osceola raggiunse Chicago, e soggiornò per circa sei mesi a casa di una delle sorelle e cominciò a frequentare i locali del Southside e del Westside e si unì ai Roadmasters del suo vecchio amico Earl Hooker. Se indubbiamente Albert King, Hound Dog Taylor e l’inimitabile Earl Hooker furono i suoi fondamentali punti di riferimento dal punto di vista chitarristico, il contatto con altri musicisti che gravitavano negli oscuri locali del ghetto quando calava l’oscurità e si accendevano le sfavillanti luci al neon, fu senza dubbio basilare per il giovane Frank Seals. Ad un giovane alle prime armi la vicinanza di bluesmen come Lefty Dizz, Big Red Smith, Junior Wells, Joe Carter e Johnny Little John, ecc., fu fondamentale e Chicago era il luogo adatto per concretizzare un sogno che ad Osceola sembrava ancora così confuso.
Lacy Gibson, Ike Anderson, Son Seals, Snapper Mitchum (1979, foto Pertti Nurmi©)
Lounge e il Psychedelic Shack, dove saliva sul palco con guys come Taylor e Howlin’ Wolf Jr. In questo periodo della sua vita il Blues non garantiva al giovane la possibilità di pagarsi un affitto e così si trovò un day job come operaio edile, mentre ebbe la possibilità di suonare con Hound Dog Taylor quando il vecchio Theodore si scazzottava con il chitarrista Brewer Phillips e Mr. Phillips lasciava temporaneamente gli Houserockers, giurando che non sarebbe più tornato a suonare con quel vecchio energumeno. Qualche anno dopo e precisamente nel 1973 Son Seals ed il bassista Bob Simmons subentrarono agli Houserockers di Taylor come houseband all’Expressway Lounge e
«Mi sono convinto di non tentare più di imparare da altri chitarristi. Mi piace sentire altri musicisti, ma ora non faccio più come una volta quando correvo a casa e, presa la chitarra, tentavo di suonare quello che avevo appena sentito. Voglio io stesso creare le mie cose, voglio dare la mia interpretazione al Blues».
Ritorno a Chicago
«Da un mucchio di bidoni dell’olio tagliati, che stavano lì vicino; si spandeva in tutte le direzioni l’inconfondibile ricco odore di barbecue. “What Have I Done Wrong” di Magic Sam, si diffondeva nell’aria da qualche altoparlante invisibile, come se stessero suonando la musica della mia entrata in scena prima della battaglia» (3).
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Un locale chiamato “Flamingo Club” e la magia del Southside In un locale chiamato Flamingo Club, situato tra la 53rd e Calumet; ogni notte saliva sul palco la Son Seals Blues Band e come per magia l’atmosfera si surriscaldava in tutto il Southside ed anche i vicoli più maleodoranti e bui si illuminavano all’improvviso di luce propria. E fu proprio in questa atmosfera carica di tensione, che un tizio chiamato Wesley Race decise di fare una telefonata dal locale.
«Bruce, ora voglio che tu ascolti». Wesley urlava tenendo la cornetta del telefono orientata verso il palco…Dopo aver ascoltato per 10 minuti Bruce Iglauer si mise a gridare: «Who the hell is that?» al che Wesley Race in trance replicò: «That? That is Son Seals”!».
Se l’agiografia blues é ricca di queste leggendarie e fantasmatiche situazioni, è pur vero che la scoperta musicale di Son Seals fu indubbiamente molto importante, perchè dimostrava ancora una volta che il Blues di Chicago agli inizi degli anni ’70 era più vivo che mai e che giovani musicisti ma anche misconosciuti veterani che vivevano ai margini dello showbiz, erano ansiosi di far conoscere la loro musica e quindi era giunto il momento di portare in studio artisti come Hound Dog Taylor, Frank Son Seals, Fenton Robinson, Big Voice Odom, Vernon Harrington, Big Leon Brooks, Hip Linkchain, Alvin Nichols, ecc.
Il suo soggiorno nella Windy City fu bruscamente interrotto dall’aggravarsi delle condizioni di salute del padre, e Son Seals fu costretto a ritornare in Arkansas e riprese a suonare con il suo vecchio gruppo in locali come il Blue Goose e l’Harlem Club.
Nel 1971 Frank Son Seals, dopo la morte del padre, ritornò a Chicago e si stabilì nel Southside e cominciò a frequentare locali come l’Expressway
questo fu possibile solamente dopo il successo del primo disco inciso da Hound Dog Taylor per la nascente etichetta Alligator di Bruce Iglauer.
Il Rinascimento del Blues a Chicago
Son Seals (2001, foto Pertti Nurmi©)
«Ci sono mille problemi da risolvere ed uno di questi sono i musicisti di blues. Anzitutto sono molto di più i buoni suonatori di blues che il denaro e i posti disponibili. Ed ecco la ragione per cui ingaggio complessi come Otis Rush, Sam Lay, J.B. Hutto, Son Seals, Jimmy
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Son Seals (1979, foto Pertti Nurmi©)
Dawkins, Blueblood Mc Mahon, Magic Slim; uomini di cui ci si può fidare. Questo é molto importante, perchè tanti di questi padroni di locali ti licenziano facilmente e perciò è molto importante per me guadagnare la loro stima e fiducia». (Bob Riedy/pianista).
L’esordio discografico della Son Seals Blues Band (Alligator 4703/1973) fu strabiliante e per certi versi veramente inaspettato, ed ancora oggi questo album rimane forse il migliore inciso dal giovane chitarrista di Osceola. Composizioni come “Sitting At My Window”, “Your Love Is Like A Cancer”, “Cotton Picking Blues”, oppure lo strumentale “Hot Sauce”, a distanza di quasi 40 anni, non perdono la loro carica emozionale ma sono il prototipo di un blues contaminato ma realmente presente nel tessuto culturale e musicale della metropoli. In quegli anni l’Alligator non produceva ancora la musica seriale dei nostri giorni, ma dava la possibilità ad artisti come il Fenton Robinson di “Somebody Loan Me A Dime” e “I Hear Some Blues Downstairs” (AL 4705/AL 4710) oppure l’Hound Dog Taylor (AL 4701/AL4704) dei primi dischi e anche al grande Big Walter Horton ((AL 4702), di uscire dall’anonimato e dal conseguente oblio. «Ancora oggi migliaia di musicisti suonano il Blues alla maniera di B.B.King. Lo stile di B.B. King é veramente stupendo. Allo stesso tempo se io dovessi continuare per il resto della mia vita a suo-
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nare con il suo stile, farei quello che tantissimi altri fanno; e potrei anche essere chiamato B.B. King Junior. Io la penso così. Se gli altri cercano di imitare B.B. King, perché un giorno non potrebbero imitare Son Seals? perché non potrei essere io il responsabile di un cambiamento nello stile del Blues? - Questo è quello che penso e mi sforzo di raggiungere». Se gli album seguenti come “Midnight Son” (Al 4708) o “Chicago Fire” (AL 4720) non mantengono le aspettative dell’album d’esordio; in “Live And Burning” (AL 4712), registrato dal vivo al Wise Fools Pub, locale situato nel Northside su Lincoln Avenue, il chitarrista nella congeniale dimensione live, annichilisce l’ascoltatore con i suoi rauchi e potenti hardblues ad alto tasso energetico come si evince da brani come “Funky Bitch”, “Hot Sauce”, “I Can’t Hold Out” (Elmore James) o “Help Me Somebody” in cui i suoi fendenti alla chitarra sono perfettamente assecondati da una band stellare composta da grandi comprimari della scena blues di Chicago come il potente sassofonista A.C. Reed, Lacy Gibson, senza dimenticare Snapper Mitchum al basso oppure l’ex James Cotton Band Alberto Gianquinto al piano in “Last Night”. Nel corso degli anni il chitarrista di Osceola si avvierà ad una piena maturità non solo strumentale ma anche vocale, ed il suo baritono ruvido e ringhiante raggiungerà vette di eccellenza nell’ultimo album inciso per l’etichetta Alligator, un live intitolato “Spontaneous Combustion” (Alligator 4846/1996) registrato al Buddy Guy’s Legend di Chicago. Frank Son Seals inciderà per l’etichetta di Bruce Iglauer un totale di 8 dischi, ma se escludiamo alcuni episodi di “Bad Axe” (Alligator 4738) come “Cold Blood” e la cover di “Person To Person”, ma anche il suo potente e rauco baritono che impreziosisce “Life Is Hard”, contenuto in “Nothing But The Truth” (Alligator 4822), le sue rimanenti incisioni su Alligator sono avvolte dalla foschia di una rassicurante routine e serialità. Album come “Chicago Fire” (Alligator 4720) e “Bad Axe” (Alligator 4738) ripropongono i suoi blues lenti che vengono alternati a potenti blues con la solita ed adeguata ritmica funky. Dopo l’uscita sul mercato di “Livin In The Danger Zone” (Alligator 4798/1991), i rapporti tra il musicista di
Osceola e Bruce Iglauer si deteriorano, ed anche se negli anni Novanta uscirono altri due dischi per l’alligator (“Nothin But The Truth” e “Spontaneous Combustion”), Frank Son Seals nella seconda metà del decennio dovrà vivere in una drammatica e pericolosa “danger zone” disseminata di eventi critici che lo porteranno ad un passo dalla morte. Nel gennaio del 1997 la sua ex moglie gli sparò mentre stava dormendo, perchè credeva che il bluesman avesse una relazione con un’altra donna, ma il destino fu benevolo con Son Seals: infatti la pallottola si conficcò nella mascella e dopo circa sei settimane di degenza, il musicista ritornò ad esibirsi con assiduità nel circuito dei locali del South e Westside. Nell’estate del 1999 le condizioni di salute del musicista si aggravarono a cause del diabete che lo affliggeva da più di 15 anni, ed a Frank Son Seals venne amputata la gamba sinistra sotto il ginocchio, ma l’uomo di Osceola aveva la pelle dura e dopo circa due mesi era ancora in grado di salire sul palco con l’aiuto delle stampelle.
«Ora sto bene. Mi sono imposto di non farmi trascinare completamente in fondo da ciò che mi è successo. Ho ripensato a ciò che mi diceva mio padre: - Finché respiri, figliolo, hai ancora una possibilità - ».
Son Seals is back in town
«Il batterista all’improvviso attaccò e il brusio tacque. Il bassista gli andò dietro, poi si aggiunse l’armonicista e la chitarra. Contro il microfono era appoggiata una chitarra nera. Un uomo snello uscì sul palco. Era tutto vestito di nero, con un cappello da cowboy e un pesante medaglione d’argento. Si chinò, prese in mano la chitarra nera…e la folla esplose in delirio…La maggior parte dei cantanti di blues inizia con un pezzo ritmato, per scaldare la platea. Lui invece cominciò con “Bad Blood”, una ballata che trapassava il cuore. Le sue lunghe dita erano come pietre focaie contro l’acciaio delle corde. Facevano scintille…Riuscivo quasi a vedere le note scorrere dalla chitarra nera, un nastro liquido di miele e panna, teso sopra spazi di cemento e filo spinato». (Andrew Vachss, La vendetta di Burke).
L’uomo con la chitarra nera aveva sconfitto la sfortuna e il dolore, ed ora era pronto a riconquistare il posto che gli spettava di diritto nel panorama musicale di Chicago e conseguentemente nel mondo spietato dello showbiz.
«…Il pubblico continuava a chiedere un bis dopo l’altro e lui continuava a concederli. Alla fine si inchinò leggermente, si toccò l’orlo del cappello e sparì dietro al palco. ”Son Seals!” gridò il presentatore, mentre lui se ne andava con la chitarra in mano» (4).
La rinascita di Son Seals, come uomo ed artista, è indubbiamente dovuta ad una serie di fattori come il cambio di etichetta e le sue nuove idee musicali che dovevano concretizzarsi nel nuovo disco inciso a New York per i tipi della Telarc, che venne prodotto dallo stesso musicista e dal chitarrista Jimmy Vivino. Un altro dato importante da tenere in considerazione fu senz’altro il rapporto di amicizia e di
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stima con lo scrittore Andrew Vachss, che nei suoi romanzi ha sempre dato largo spazio al Blues e ai suoi interpreti. Ricordiamo che la colonna sonora delle avventure di Burke, l’antieroe creato dallo scrittore è costantemente imperniata sui blues che lo confortano e lo accompagnano mentre dà la caccia a pericolosi killer e pedofili lungo i sentieri sordidi della metropoli dove impera il crimine, e la perversione sessuale è avvolta dall’eccitante magnetismo della seduzione del male.
«La radio continuava ad andare. Prima la Paul Butterfield Blues Band con “Our Love Is Drifting”. Il nostro amore stà andando alla deriva. Poi Bo Diddely con “Before You Accuse Me” - prima che tu mi accusi. Come se il disc-jokey sapesse che ero “in ascolto” » (5).
L’album registrato per l’etichetta Telarc usci sul mercato nel 2000 con il titolo profetico di “Lettin’ Go” (Telarc 83501), e a riprova del fatto che l’etichetta di Cleveland puntasse molto sul rilancio del musicista, notiamo che in un sampler intitolato “Telarc’s Got More Blues/New Blues For 2000” (Telarc 83503) il bluesman di Osceola è uno dei pochi che é presente con due titoli e precisamente “Lettin’ Go” e “Dear Son”. In questo periodo la promozione dell’artista proseguì con l’uscita della rivista Audiophile Sound (Giugno/Agosto 2000) che gli dedicò la copertina e tre brani contenuti nel CD abbinato alla pubblicazione (“Bad Blood” - “Lettin’ Go” - “Bad Luck Child”). “Lettin’ Go” fu il primo disco in studio dopo più di cinque anni di assenza dalle sale di registrazione, ed è composto di 14 canzoni e si avvale della collaborazione dell’amico Andrew Vachss che è l’au-
DISCOGRAFIA
Opere Soliste LP 1) Son Seals Blues Band (Alligator 4703)-USA2) Midnight Son (Alligator 4708)-USA3) Live And Burning (Alligator 4712)-47124) Chicago Fire (Alligator 4720)-USA5) Bad Axe (Alligator 4738)-USA-
Opere soliste CD 1) Living In The Danger Zone (Alligator 4798)-USA2) Nothing But The Truth (Alligator 4822)-USA3) Spontaneous Combustion (Alligator 4846)-USA4) Lettin’ Go (Telarc 83501)-USA-
tore dei testi di due brani cardine come “Bad Blood” e “Doc’s Blues”, mentre l’unica canzone già nota consiste nella ripresa di un suo vecchio classico, ovvero “Funky Bitch”, in cui è presente il chitarrista Trey Anastasio, membro del gruppo rock Phish.
«Stavamo suonando a Rockville, Illinois. e tra il pubblico c’erano dei ragazzi che continuavano a gridare, richiedendo quel motivo…poi scoprimmo che avevano ascoltato i Phish eseguire quella canzone».
Il vecchio Frank Son Seals non era minimamente cambiato. Forse le avversità della vita lo avevano indurito ancora di più come traspare dalla cruda e spietata interpretazione vocale del brano di apertura intitolato “Bad Blood”, e se “Lettin’ Go” é solamente un blues radio oriented con forti accenti funky, notiamo che con “Bad Luck Child” la statura vocale e strumentale di Seals esplode con prepotenza e voracità nel narrare gli attimi di sofferenza passati, nel tentativo di riscattarsi e di essere risarcito per tutti i torti subiti. La rabbia é benzina nel cervello e nella chitarra del bluesman di Osceola, e tutto ciò traspare nel drammatico incidere il blues come “Give The Devil His Due” e nell’autobiografica “I Got Some Of My Money”, dove trapela tutta la sua pena e sofferenza. La sua musica é un audace concentrato di Southside blues, hardblues condito da una possente ritmica funky con l’aggiunta di fiati ad hoc: un melting pot delle visioni musicali che covano sotto la cenere di una Chicago ormai in fiamme e senza speranza. «Non ho intenzione di allontanarmi troppo da ciò
che faccio, finché esisterà il blues. Ma voglio pure realizzare tutto ciò che sento di musicale. Se mi viene una buona idea, desidero metterla alla prova io stesso, anche presentandola al pubblico prima di registrarala. Questo è ciò che è accaduto con il brano country & western (“Rockin And Rollin’ Tonight”): l’ho eseguito molte volte per verificare come avrebbe reagito il pubblico, ed esso mi ha dimostrato di adorarlo.» Dopo l’ottimo riscontro che ebbe “Lettin’ Go”, il bluesman continuò a suonare i suoi blues per altri anni e Burke lo rivide al Flamingo Club fra la 53rd e Calumet in una gelida serata degli inizi di dicembre dell’anno 2004; questa fu l’ultima volta che lo ascoltò. Infatti il bluesman di Osceola si spense a Chicago il 20 dicembre, pochi giorni prima di Natale. Burke apprese la notizia della morte di Son Seals la notte di Natale, quando guidando la sua Corvette si sintonizzò su uno dei programmi di Blues trasmessi dalla KBOO nelle ore piccole. Dalle casse, Son Seals ringhiava “Before The Bullets Fly” e Burke, mentre si accendeva l’ennesima Camel senza filtro, sorrise al pensiero di quel uomo vestito di nero con gli zigomi pronunciati e la barba seduto da solo nel camerino del locale mentre stava fumando un sottile sigaro nero.
POST SCRIPTUM Son Seals suonava una chitarra Guild con amplificatore Fender e la sua chitarra nella luce fioca dei club sembra nera ma il bluesman ci teneva a precisare che era color verde Cadillac. «Possiedo quella chitarra da 25 anni. Una volta me la rubarono, e dovetti fare il diavolo a quattro per recuperarla. L’ho fatta revisionare e mi piace il suo suono.».
Antologie e collaborazioni LP 1) Blues Deluxe (XRT 9301)-USA2) The Blues, Vol, 6 (Sonet 157.102)-GB-2LP-
Antologie e collaborazioni CD 1) Artisti Varî: Houndog Taylor/A Tribute (Alligator 4855)-USA2) Artisti Varî: Telarc’s Got More Blues (Telarc 83503)-USA3) Artisti Varî: Audiophile Blues (Audiophile/Telarc 012)-USA4) Artisti Vari: Hey Bo Diddley A Tribute (Evidence 26124)-USA5) Deluxe Editions (Alligator 5611)-USAMusicassette 1) Live At B.L.U.E.S. (Blues R&B 93702)-USA-
NOTE 1) cit., da “Luther Allison/Soul Fixin’ Man”, Il Blues n. 63, p. 11. 2) «Quando tu suoni i blues, sono così forti, questo è il motivo per cui lo chiamano Blues
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Power. E potete crederci se vi dico che ho inventato il Blues Power». 3) cit., da “Contro il Male” di Andrew Vachss, Sperling & Kupfer Editori, pag. 177
4) cit., da “La vendetta di Burke” di Andrew Vachss, Sperling & Kupfer Editori. 5) cit., da “Contro il Male”, di Andrew Vachss, Sperling & Kupfer Editori, pag. 253.
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Alan Lomax Cacciatore di suoni
di Matteo Bossi
igura di cui abbiamo spesso parlato su queste pagine, Alan Lomax è stato molte cose, per usare un termine anglofono lo si potrebbe definire folklorist, in ogni caso non è stato solo un archivista, collezionista, etnomusicologo e produttore, quanto soprattutto qualcuno che aveva una passione sincera per qualsiasi forma di musica popolare, nel senso più alto del termine. Era di certo una figura complessa animata da dedizione per documentare e diffondere la musica che tanto lo affascinava, malgrado qualche aspetto controverso della sua personalità, tutti gli appassionati di musica gli devono qualcosa. A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel luglio 2002, lo ricordiamo con due diversi film in DVD, il primo dei quali è una produzione olandese di qualche anno addietro intitolata, “Lomax The Songhunter” (DaVid-Rounder) firmata dal documentarista Rogier Kappers. Nato con un approccio più convenzionale, come filmato sulla vita e l’operato di Lomax, il progetto ha preso una direzione differente dopo che Kappers andò a trovare un Lomax ottantaseienne un anno prima di morire, sereno nel suo buen retiro in Florida ma quasi incapace di parlare in seguito all’emorragia cerebrale che lo aveva colpito alcuni anni prima. Kappers decise allora di ripercorrere le tracce dei soggiorni europei di Alan negli anni Cinquanta, cercando in quegli stessi luoghi di trovare persone che avessero registrato musica tradizionale per lui all’epoca o loro familiari superstiti. Si è messo in strada su un vecchio furgoncino Volkswagen, con una foto di Lomax sul cruscotto, dapprima nel nord della Scozia e nelle Ebridi, rileggendo i passi dei diari o delle lettere che teneva nel corso dei viaggi. Di incontro in incontro passa poi in Spagna, dove il ricordo del passaggio di questo americano così interessato alle vecchie canzoni è ancora vivido, e quando Kappers fa ascoltare le loro incisioni di un tempo ad alcune signore, la loro emozione è quasi toccante. Di grande interesse la parte italiana, in Sicilia e Calabria in piccoli villaggi in cui Lomax era passato nel 1954, l’incontro col registra Vittorio De Seta (scomparso lo scorso anno) che in quegli stessi anni aveva girato documentari sui pescatori siciliani e aveva incontrato Lomax e Carpitella. Le immagini dei viaggi sono alternate ad altre dell’anziano protagonista in Florida, i ricordi della figlia Anna, dei suoi amici, tra cui l’arzillo Pete Seeger e alcuni collaboratori. Un bel documentario, da cui traspare l’ammirazione del registra per il suo soggetto, evita però di idealizzarlo cerca piuttosto di coglierne la visione e le intuizioni.
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Per il bluesofilo segnaliamo che qui la tradizione afroamericana è presente solo in modo tangente, però è un film che fa comprendere appieno l’enorme lavoro di conservazione della tradizione orale delle culture sommerse, e di come fosse riuscito nel suo intento di assicurare pari dignità alla musica popolare rispetto a quella cosiddetta colta. Il secondo film, “The Land Where The Blues Began” (Media Generation-Cultural Equity), è stato invece realizzato da Lomax stesso, con John Bishop e Worth Long per la televisione pubblica del Mississippi nel 1979 poi trasmesso dal network pubblico nazionale, PBS e rimontato per un ulteriore passaggio sul piccolo schermo nel 1990. Questa edizione in DVD in occasione del trentennale del film contiene oltre al film originale di un’ora circa, moltissimo materiale aggiuntivo estratto dalle oltre trentacinque ore di pellicola ricavate nell’arco di un
mese tra agosto e settembre 1978. Rivederlo oggi, è come salire a bordo della DeLorean di “Ritorno al Futuro” ed essere trasportati nel Mississippi di oltre trent’anni fa, per strade di campagna, picnic, chiese, prigioni, fattorie, lungo gli argini, davanti al portico di Jack Owens…Colpisce (come già per i filmati coevi raccolti da Ferris), la forza delle voci e delle storie che portano con sè questi uomini e donne, uno per tutti il volto fiero di Beatrice Maxwell mentre racconta la sua vita di contadina. La relazione tra la vita e la musica è molto stretta, tanto è vero che molte attività vengono condotte con essa, dall’arare nei campi, al tagliar legna al lavoro sui binari della ferrovia. Il film restituisce, pur brevemente, una forte percezione della condizione sociale vissuta nel Mississippi rurale di quel periodo, senza troppa pedanteria né romanticismi, la voce fuori campo di Lomax si limita infatti a pochi interventi di raccordo e commento
narrativo. Che bello vedere Jack Owens (inizialmente molto diffidente, come Lomax racconta nel suo libro omonimo, Jack negò con decisione di essere un musicista) suonare con l’amico Spires e raccontare che lui ha «imparato tutto nei campi, in città non ci sono quasi mai stato», o Sam Chatmon, venerabile vegliardo con la lunga barba bianca, parlare di donne e blues e suonare ancora con grande scioltezza, del resto era ancora molto attivo si vedano le sue incisioni per Albatros, Rounder o L+R. R.L. Burnside si vede brevemente mentre suona sullo sfondo di un campo recintato, molto simpatico Eugene Powell, conosciuto discograficamente negli anni Trenta come Sonny Boy Nelson, che oltre a suonare racconta con gusto qualche aneddoto dal suo passato. Niente affatto semplice da filmare, ma catartica, la sequenza in chiesa dove un reverendo tiene un sermone in crescendo capace di indurre uno stato quasi di trance in alcuni fedeli. Bellissima anche la scena di chiusura ripresa ad un picnic di Otha Turner, la sua musica fife & drum e un ballerino di fianco che anticipa il moonwalking di Michael Jackson. Sarà utile menzionare che tra gli extra si possono vedere filmati sul making of e il montaggio del film, raccontati al giorno d’oggi da John Bishop che ironizza sulle differenze tecnologiche, in particolare riguardo al montaggio; ci sono soprattutto due ore complessive di filmati musicali, per intero, non quindi soltanto gli spezzoni che compaiono nel film. Cosa molto apprezzabile, visto che spesso si avrebbe voglia di godersi tutta la performance di un musicista. La parte più consistente è dedicata a Jack Owens e Sam Chatmon, il primo è superlativo in “Can’t See Baby” (intitolata chissà come mai “Kansas City Blues”) e “Cherry Ball” sempre con l’accompagnamento simpatetico di Bud Spires. Il secondo, che raramente è stato filmato, regala alcuni pezzi di storia del blues, suonava coi suoi fratelli, assurti a classici, tra cui“Sitting On Top Of The World”. Due soli i pezzi di Burnside, entrambi splendidi, citiamo almeno “Jumper On The Line”. Di pari impatto sono i filmati di gospel rurale, di piccoli gruppi come i Friendly Brothers con la loro l’interpretazione di “Where Shall I Be?”, che smuoverebbe davvero anche l’uditorio più compassato. Questa è, riprendendo un commento di Lomax, «musica che una volta ascoltata è impossibile dimenticare», il DVD merita, immancabilmente, un posto nella filmografia di ogni appassionato; troverà la sua collocazione accanto a titoli come “Mississippi Blues”, “Deep Blues”, “Feel Like Goin’ Home” , “You See Me Laughin’” e “M For Mississippi”.
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Storia di un Festival
INTERVISTA Sara Davis & Kenny Brown: i fondatori di The Hill Country Picnic di Michele Paglia e Giacomo Lagrasta
n occasione del Blues to impegnati a coordinare gli Rules, festival svizzero altri. di blues underground che si svolge tutti gli Che cosa rende il vostro anni a Crissier, abbiamo interfestival diverso dagli altri vistato Kenny Brown e la escludendo la musica? moglie Sara Davis. Non ci Kenny: L’evento che organizsiamo fatti intimidire dalla carziamo è come una riunione di riera musicale di Kenny, non famiglia e un music festival indifferente dato il grande insieme, è per questo che lo numero di musicisti importanti abbiamo chiamato picnic. con cui ha collaborato, e Esattamente come le famiglie abbiamo approfittato della afroamericane della zona che presenza di Sara per saperne si ritrovavano il venerdì e per di più sulla storia dell’Hill tutto il weekend cucinavano e Country Picnic. suonavano assieme. Questo festival, dedicato inteSara: Molti dei musicisti che ramente alla hill country suonano da noi si conoscono music, ha all’attivo dal 2007 e il picnic è una delle poche ben 5 edizioni ed è uno dei Sara Davis, Kenny Brown (foto Giacomo Lagrasta) occasioni che hanno per più importanti promotori di incontrarsi tutti insieme. La questo genere musicale che, grazie anche a musisituazione, e disse che se volevamo « La maggior maggior parte di loro arriva con la famicisti come Jon Spencer, The Black Keys, North Misorganizzare un festival dovevamo fare parte di loro (i glia e resta qui per tutto il weekend. E’ sissippi Allstars, Hill Country Revue e Hillstomp si così e così, ed alla fine lei organizzò tut- musicisti) arriva come una riunione famigliare. sta diffondendo sempre di più, soprattutto tra i gioto. La prima edizione durò un giorno, con la famiglia e Kenny: Si, come una grande riunione vani. Questa diffusione sta favorendo la conservamentre il secondo anno riuscimmo a resta qui per tutto famigliare blues. zione della musica e della cultura afroamericana, e fare due giorni di festival con più musici- il weekend.» ne è prova il fatto che moltissime band in giro per il sti. Ricordo che si esibirono 23 o 24 È come il continuo del picnic che si mondo traggono ispirazione da questo genere band in due giorni. Ma fu Sara a cominciare e a farsvolgeva a casa di Otha Turner? musicale e i dai suoi capostipiti. ci lavorare insieme. Kenny: Si. Ebbene si, parlo anche di cultura perché, a differenSara: Si esatto, è proprio così. La famiglia Turner za di tutti gli altri blues festival nel mondo, l’Hill La maggior parte delle band che si esibiscono viene al nostro picnic e una volta all’anno noi andiaCounrty Picnic si distingue dal fatto che insieme ai al picnic vengono dal Mississippi. Sappiamo mo al picnic organizzato da loro. musicisti vengono anche le loro famiglie per ritrovarperò che avete chiamato anche gruppi da altri si insieme almeno una volta all’anno. Esattamente stati come i Goshen, che band vi interesserebbe Cosa pensate sul futuro della Hill Country come succedeva a metà del secolo scorso, quando avere al vostro festival? Music? diverse famiglie afroamericane si riunivano durante i Sara: Si, qualche band non mississippiana si è esiKenny: Ci sono tante persone che si stanno avviciweekend per mangiare, suonare e bere insieme nei bita da noi. Ricordo che i Goshen erano in tour li nando all’hill country. Penso che il tour con Jon picnic. Ascoltiamo quindi cosa hanno da dirci su vicino ed erano nostri amici, così li abbiamo invitati Spencer sia servito a fare si che molti giovani si questo festival che, da piccola realtà, si sta trasforal picnic. In generale noi vogliamo focalizzarci sulla avvicinassero a questo genere. Forse non conoscomando rapidamente in uno dei festival più interesHill Country Music. Ci sono tantissime band che ci no bene il passato di questa musica, ma possono santi del panorama underground degli Stati Uniti. scrivono per partecipare al picnic. Diciamo che noi comunque approfondire se gli interessa. Ci sono siamo una organizzazione no profit che vuole manmolte persone che suonano l’hill country in giro per Come è nato l’Hill Country Picnic Festival? tenere l’attenzione sui musicisti che vengono dal il mondo adesso. Kenny: Suonando la musica delle colline del MissisMississippi. Sara: Abbiamo visto che al picnic c’erano persone sippi mi sono accorto di quanto interesse ci fosse provenienti da 37 stati differenti e da 7 differenti per questa musica. Mi sono stupito di vedere così Non è facile organizzare un festival con così nazioni radunate tutte insieme per quest’evento. tante persone, anche al di fuori degli Stati Uniti, tanti musicisti, cosa vi richiede più tempo? Sono stupita di vedere una distribuzione geografica appassionate di questo genere musicaSara: Ottenere i soldi per farlo. E’ la così variegata dell’audience del nostro festival. le. Inoltre, siccome al tempo non c’era cosa più importante, senza quello il Kenny: Abbiamo persone che vogliono venire a nessun festival in Mississippi dedicato «…siamo una resto poco importa. Per fortuna abbiasuonare dal Sud America, dall’Australia e persino organizzazione no a questa musica, ho organizzato un mo molti volontari che ci aiutano durandalla Croazia. Purtroppo non abbiamo il tempo e i party a casa mia con un sacco di per- profit che vuole te il festival. soldi per averli a suonare da noi. Penso che ora sone e chiesi loro cosa ne pensavano mantenere Non importa da quanto tempo stai pial’hill country sia uno dei pochi sottogeneri del blues di provare a mettere in piedi un festival l'attenzione sui nificando l’organizzazione, l’ultima settiancora in vita. E spero che con il nostro apporto musicisti che dedicato all’Hill Country Music. La magmana deve essere fatto quasi tutto il continui a vivere anche in futuro. (Intervista realizzata il 28 maggio 2011 gior parte di loro mi disse che era un’ot- vengono dal resto. Puoi lavorare più che puoi prima, a Crissier, Svizzera) tima idea. Sara poi prese in mano la Mississippi.» ma poi in quel periodo si è sempre mol-
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Fine di un’epoca? Immagini e parole da dove tutto è cominciato ed ora sta finendo
di Marino Grandi
e “M For Mississippi” (“Il Blues” n.105) vi era piaciuto, “We Juke Up In Here!” non vi deluderà affatto. Infatti, al di là della confezione accurata contenente il DVD (con tanto di sottotitoli in italiano curati da Sebastiano Pezzani), un CD con la colonna sonora ed un libretto di 20 pagine privo dei consueti luoghi comuni autocelebranti, è la prima volta che ci capita di vedere un documentario in cui i protagonisti sono i locali ed i loro proprietari e non tanto i musicisti che vi appaiono. Cioè, “We Juke Up In Here!” possiede il grande merito di raccontare da “dentro” quello che sta accadendo nel microcosmo dei juke joint. È ciò accade in questo curioso viaggio che gli infaticabili Roger Stolle e Jeff Konkel compiono, assistiti dagli insostituibili Damien Blaylock e Lou Bopp dietro la macchina da presa e Bill Abel dietro il mixer dello studio di registrazione volante. Ma in realtà gli spostamenti e gli incontri di Roger e Jeff altro non fanno che mettere in luce la fine di un’epoca: quella dei juke joint. Il documentario inizia con Red Paden (proprietario del Red’s Lounge di Clarksdale, che cono- Jeff Konkel, Red Paden, Roger Stolle (Red’s Lounge, Clarksdale) scemmo nel 2003 “Il Blues” n.87, pag.41) che apre la porta del suo locale (dove nel certi live è costretto a ridurre al minimo il blues acufrattempo è sparito il tavolo da biliardo…) decanstico e puntare sul r&b elettrico. Ma il perché della tandone, con quella piacevole cialtroneria che nello chiusura di molti locali, e la trasformazione di alcuni scorrere delle immagini e delle sue parole ce lo farà di loro in semplici bar, è possibile leggerla anche atapprezzare sempre più, i fasti dovuti sia agli ospiti traverso le parole dei musicisti che si alternano al che al proprio amore per il blues. Ed è proprio lui Red’s Lounge, in quanto se tra i vecchi c’è ancora il che accompagna Stolle e Konkel a Mark, paesino a ricordo del tempo che fu «in cui ne sentivi l’odore di 16 miglia ad est di Clarksdale, dove mostra loro il birra rancida e sigarette un miglio prima» o della suo locale precedente, il Red Wine, chiuso ormai mancanza, oggi, del «sapersi divertire». da tempo perché lo sceriffo, quello nuovo, gli impoComunque c’è un fatto incontrovertibile. La musica se un orario di chiusura per lui inaccettabile e, proche esce dall’unico juke joint del Mississippi ancora impegnato nella sua funzione originaria, il Red’s babilmente, una maggior attenzione al tipo di clienLounge («Ground Zero assomiglia solo ad un juke tela che lo frequentava. Ma ciò che emerge ben joint» Anthony “Big A” Sherrod), in funzione della presto in maniera prepotente dagli altri due juke joint visitati, Po’ Monkey Lounge a Merigold ed il Do sua semplicità o forse proprio per quello, ti fa sentire Drop Inn a Shelby (quest’ultimo diventato un bar “a casa”, chiunque tu sia e da qualunque parte del dopo essere stato immortalato con Wesley Jeffermondo tu venga. E se Lil’ Poochie ed Hezekiah son in “M For Mississippi” solo 3 anni fa), è l’irreaEarly lo dimostrano palesemente, diventa logico che lizzabilità di essere ancora luoghi in cui sia possibiPaden desideri passare il testimone unicamente a le suonare dal vivo. Dominano i dee-jay (venerdì e chi ami questa musica soltanto se suonata così. sabato soprattutto), o come afferma Willie SeaInevitabile, a questo punto, che il film si concluda berry proprietario del Po’ Monkey «posso affittare il con Red che invita Stolle e Konkel ad andarsene, locale, ma chi vuole la band (è ormai notte fonda) «di voi ne ho avuto abbase la deve pagare lui». Il distanza per un’altra vita», chiude il locale, sale in «in cui ne sentivi l’odore scorso è semplice e, ridotto al- devi tenere i prezzi bassi ed al diavolo la musica dal auto, si allontana e noi ne seguiamo le sue luci l’osso, suona così: siccome in posteriori finchè svaniscono sullo sfondo. Ma siavivo. Questa situazione, già accennata da Jimmy di birra zona non c’è lavoro, di consemo sicuri che, tra un’imprecazione e l’altra, Paden “Duck” Holmes in “M For Mississippi”, viene qui rirancida e sigarette un guenza non ci sono soldi. badita dallo stesso Holmes che afferma come il suo domani riaprirà il suo Red’s Lounge. Non può non miglio prima» Quindi per riempire il locale Blue Front Cafe di Bentonia dopo 60 anni di con- farlo. È l’ultimo juke joint del Mississippi.
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recensioni sul suo disco, splendido, per la St. George e “Please Mr. Jailer”, wolfiana fino al midollo, in cui il canto di James Yancy Jones graffia da par suo e la band, impeccabile ancora una volta, gli gira attorno. Il disco tiene fede alle promesse, blues semplice e gustoso, testimonianza di una vera amicizia “in blues”. Matteo Bossi
TAIL DRAGGER & BOB CORRITORE
Longtime Friends In The Blues
Delta Groove 150 (USA)-2012-
I’m Worried / Sugar Mama / Birthday Blues / She’s Worryin’ Me / Cold Outdoors / So Ezee / Through With You / Done Got Old / Boogie Woogie Ball / Please Mr. Jailer.
Lo avevano anticipato nell’intervista pubblicata nello scorso numero de “Il Blues”, questo album di studio che suggella una bella amicizia ed ora le registrazioni che circolavano come autoproduzione al festival di Lucerna, hanno trovato un approdo ufficiale presso la Delta Groove. Non possiamo che rallegrarcene perché la formazione messa insieme dal versatile Bob Corritore è di alto livello; allinea infatti Brian Fahey alla batteria, gli ottimi Chris James & Patrick Rynn, Kirk Fletcher alla chitarra e ad elevare di un gradino il tutto, i tocchi di Henry Gray al piano. Un bel disco di Chicago Blues, con la stessa formazione molto apprezzata sul palco del festival elvetico a novembre, con un surplus di originali, anche se non tutti nuovi, a firma di Tail Dragger. La sola cover è la classica “Sugar Mama” di John Lee “Sonny Boy” Williamson, in cui Gray dà una mano anche a livello vocale; splendidamente condotta la rivisitazione del suo 45 giri d’esordio,“So Ezee”, (un originale dell’amico Jimmy Dawkins, qui però accreditato a Tail Dragger), gustoso il dialogo tra le chitarre di James e Fletcher ed infine Corritore a condire il brano con sapidi fraseggi di armonica. L’unico piccolo difetto, a voler essere pignoli, è una certa tendenza di Tail Dragger ad uniformare i brani, tenendo conto che si tratta in maggioranza di tempi medi o lenti e quasi nella stessa tonalità. Provvidenziale variazione e per questo benvenuto, il “Boogie Woogie Ball” col piano di Gray a condurre con classe e dinamismo il brano. Efficaci anche “Cold Outdoors” che ricordavamo
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Music From The Big House Soundtrack
RITA CHIARELLI
Made Iris Music 0007 (CND)-2011-
Rita’s Journey / These Four Walls / Mississippi Boy / Don’t Let Him Catch You (with work undone) / Mercy Blues / Harvest / Rest My Bones / Glory, Glory / Rain On Me (prisonyard rehearsal ) / Rain On Me / I Love You Still / Midnight Special / Convicted.
La blueswoman bianca canadese Rita Chiarelli, dieci anni fa decise di percorrere la via più famosa del blues, la Highway 61, per venire a stretto contatto con una realtà musicale e culturale alla quale è legata artisticamente. Il suo peregrinare l’ha condotta dentro il famigerato Louisiana State Penitentiary conosciuto anche con il nome di Angola, luogo che ci rimanda ai Lomax, padre e figlio, i quali attraverso le tante registrazioni raccolte, fecero sì che i detenuti afroamericani cantori di blues e musica sacra, provassero quel senso di libertà almeno nella parte espressiva. Furono sempre loro a scoprire nel suddetto penitenziario, Leadbelly. Nel suo piccolo anche la Chiarelli ha fatto una encomiabile operazione del genere, con l’aggiunta di riprese video per un documentario che dovrebbe uscire quest’anno. Lo speriamo, così da poter leggere i nomi e vedere i volti di quei musicisti che in questo bel CD si celano anche dietro il nome di qualche gruppo, probabilmente formatosi proprio in carcere. Le tracce sono tredici, e
la Chiarelli oltre ad aver curato le registrazioni è presente anche come cantante. S’inizia però con uno strumentale, breve, melodico, suonato da un piano, e con delle voci in sottofondo, forse quelle dei detenuti, al quale fa seguito un ottimo blues acustico dall’esplicito titolo, “These Four Walls”, composto e cantato con passione dalla Chiarelli. Poi tocca a loro, agli inmates, liberare l’energia e il primo gruppo, nonostante si chiamasse Jazzman, fa del blues dalle coordinate moderne ma dal suono spigliato e ballabile in “Mississippi Boy”, mentre con i Pure Heart Messenger si passa ad un clima gospel dove sono più le voci che gli strumenti a convincere come in “Don’t Let Him Catch You” e “Harvest”, di seguito a loro si aggiunge la Chiarelli e il binomio è vincente sia nella intensa, “Rest My Bones” che nell’enfatico traditional, “Glory, Glory (Hallelujah)”. Di nuovo blues, un notevole slow, “Mercy Blues” cantato dalla Chiarelli (pensando a Janis Joplin), accompagnata dai Jazzman. C’è anche del country con la ballata “I Love You Still”, dove Rita canta ed i Little Country suonano, prima del gran finale, tutti insieme come Angola Inmates, più l’artefice di questo CD, per “Midnight Special”. Silvano Brambilla
Locked Down
DR. JOHN
Nonesuch 530395 (USA)-2012-
Locked Down / Revolution / Big Shot / Ice Age / Getaway / Kingdom Of Izzness / You Lie / Eleggua / My Children, My Angels / God’s Sure Good.
Che Dr. John sia una leggenda a New Orleans e dintorni non è una novità, ma che questo pianista che ha saputo attraversare decadi e vari generi musicali con grande disinvoltura e talento sappia proporre a 70 anni un album moderno e per certi versi innovativo non è cosa scontata: anzi, più ascoltiamo “Locked Down” e più ci convinciamo che il vecchio Mac resta una
delle personalità di riferimento nel panorama musicale non solo americano, non solo blues. Come già altre volte ci è capitato, recensiamo volentieri prodotti che, pur non seguendo le canoniche dodici battute, hanno un linguaggio che è chiaramente debitore al blues, e di cui inevitabilmente condividono i valori; in questo caso poi l’apporto del produttore Dan Auerbach, chitarrista dei Black Keys, ha inciso profondamente nel risultato finale, anche per l’importante cambiamento apportato nella realizzazione dei brani: all’inizio i due con la band si sono concentrati esclusivamente sulla musica, ignorando totalmente le parti vocali, per poi ritornare in sala d’incisione dopo alcune settimane e completare il tutto. Da questo punto di vista il risultato è probabilmente abbastanza distante da altri dischi di Dr. John, ma quello che più colpisce a nostro avviso è la ricchezza di spunti che ne emergono: ci sono moltissimi spezzoni sonori, spesso nella forma di piccoli groove, trame accennate e poi riprese, il tutto caratterizzato dalle differenti tastiere utilizzate (quasi mai il pianoforte), volutamente alla ricerca di suoni vintage, proposti però con grande modernità. Ogni canzone dunque riserva una sorpresa, dall’iniziale title track, che segna fin da subito un’azzeccata commistione fra jazz e r&b, funky e un pizzico di psichedelia che non guasta, fino alla conclusiva “God’s Sure Good”, che racchiude nuovamente questo melting pot: in mezzo tantissime idee, piccole grandi intuizioni da raccogliere e gustare, come nell’interessante “Revolution”, con quelle sonorità di chitarra e tastiere che ci rimandano indietro di quasi mezzo secolo. I fiati di “Big Shot” cadenzano costantemente le battute di questo blues, lasciando le voci in evidenza, per poi proporre gli afflati progressive in “You Lie”, non solo per gli interventi del sax, ma per certe architetture sonore che rimandano al Canterbury Sound degli anni ‘70. L’anima più rock si manifesta nell’intrigante “Getaway”, che sembra quasi preparare il terreno a “Kingdom Of Izzness”, un blues intrigante con i Doors dietro l’angolo, mentre funk e cambi di ritmo si incrociano ripetutamente, come in “Eleggua”, brano che va riascoltato con attenzione. Complimenti dunque Dr. John, per la capacità di innovare, sperimentare, cambiare pur restando coerente con il proprio stile: uno stimolo sicuro anche per tutte le giovani generazioni di artisti, non solo di New Orleans e dintorni. Luca Zaninello
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Deeper In The Well
ERIC BIBB
Dixie Frog 8720 (F)-2012-
Bayou Belle / Dig A Little Deeper In The Well / No Further / Sinner Man / Boll Weevil / In My Time / Every Wind In The River / Sittin’ In A Hotel Room / Could Be You, Could Be Me / Money In Your Pocket / Music / The Times They Are A Changin’ / Movin’ Up.
A volte ci si chiede come mai un musicista come Eric Bibb sia venuto a stare in Europa, per la precisione in Finlandia (ma qualche risposta un po’ meno retorica della domanda la sapremmo trovare..). Certo è che nel mentre riflettiamo, ce lo ritroviamo di nuovo oltreoceano con un ensemble di musicisti della Louisiana, agli studi Cypress House dell’amico Dirk Powell & co. in quel di Pont Breaux, Louisiana, appunto. Il suo abbigliamento da pescatore del Mississippi ce lo colloca sempre là, nel nostro immaginario filoamericano, quantunque il suo lavoro discografico si sia svolto ultimamente, il più delle volte, tra le nostre lande nordiche e la Francia. Ma benché la cosa ci faccia sentire più che mai legati agli stereotipi, non c’è niente di meglio che sentirlo in un disco che riporta a casa la sua musica, quasi suonasse meglio intrisa di quell’aria e quell’umidità che traspira dalle bayou countries fotografate nella terza di copertina. Un personale “..oh, finalmente!” mi suona persino con qualche pregiudizio nei confronti dell’europeismo musicale, ma il blues, lo sappiamo, è internazionale; tralasciamo però la parola “globalizzato”, visto che i regionalismi, anche per il blues, sono quelli che ce lo rendono vivo e variegato, contro all’omologazione stessa dell’aggettivo di cui sopra: una differenza fondamentale, quasi come quella che ci passa tra le parole “prodotto” e “cultura”. E quello che suona Eric, anche stavolta somiglia di più alla seconda che alla prima, ovunque egli si trovi e come magistrale interprete dell’idioma afroamericano, qui accompagnato da altri artisti americani ma conosciuti, guarda un po’, ad
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una trasmissione inglese. Sono loro che fanno la differenza (in quanto musicisti e non in quanto americani) e dalle tracce evocano gli umori cajun della stessa “Bayou Belle” o sudisti come “Dig A Little Deeper In The Well”, arrivando, con “No Further”, a impantanarsi davvero in profondità bluesy anticipanti i traditional (comme d’habitude, per mr. Bibb..) “Sinner Man” o la storica “Boll Weevil”. Quando poi ascoltiamo “Sittin’ In A Hotel Room”, l’album tocca i vertici melodico – compositivi a cui l’artista ci ha abituati, più vicino al tocco e alla sensibilità Piedmont Style ma che, pur con la cover di Taj Mahal “Every Wind In The River” o l’eterna dylaniana “The Times They Are A Changin’”, ce lo rendono songster a pieno titolo. E cittadino del mondo. Matteo Fratti
Otis Taylor’s Contraband
OTIS TAYLOR
Telarc 33188 (USA)-2012-
The Devil’s Gonna Lie / Yell Your Name / Look To The Side / Romans Had Their Way / Blind Piano Teacher / Banjo Boogie Blues / 2 Or 3 Times / Contraband Blues / Lay On My Delta Bed / Your 10 Dollar Bill / Open These Bars / Yellow Car, Yellow Dog / Never Been To Africa / I Can See You’re Lying.
A cadenza quasi annuale Otis Taylor aggiorna con nuovi capitoli la propria storia, siamo ormai giunti al dodicesimo album col “Contraband” in questione. Nonostante i ritmi di pubblicazione sostenuti, va riconosciuto a Otis di essere rimasto fedele ad uno stile molto personale, introducendo di volta in volta delle piccole varianti che rendessero differente ogni progetto, pensiamo ai violoncelli usati su “Double V”, alla collaborazione col trio del pianista jazz Jason Moran in “Pentatonic Wars & Love Songs” o alla rilettura del proprio passato col precedente “Clovis Peaople Vol.3”. Non ha mai smarrito l’attenzione per tematiche scure e poco convenzionali nè la capacità di raccontare delle storie in un modo immediato, come un
pittore a cui bastino pochi tratti per evocare certe atmosfere e l’indefinitezza ne accresca la suggestione. È così anche per queste nuove canzoni, che dal punto di vista sonoro evidenziano in maggioranza una base acustica, su cui si innestano, in varia combinazione i collaboratori abituali, alcuni dei quali lo accompagnano anche nei tour. Fanno la differenza, in positivo, gli interventi di Chuck Campbell alla pedal steel, ad esempio in “Your 10 Dollar Bill”, quelli di Ron Miles alla cornetta ma anche il djembe di Fara Tolno si ritaglia un ruolo ritmico non secondario in un paio di occasioni. Ci piace spendere qualche parola per la scarna e lancinante “2 Or 3 Times” costruita soltanto su pochi accordi dell’acustica di Otis, qualche nota di basso e il lavoro minimale, di cimbali, del batterista Larry Thompson, che produce un effetto straniante rispetto al testo, un racconto di vanteria erotica. Gli amori nelle storie tayloriane sono spesso sfide aperte ai luoghi comuni, contrastati, interraziali, minacciati dalle condizioni economiche, in tal senso ecco “Yellow Car, Yellow Dog” dolente e quasi cinematografica per le immagini che richiama alla mente. Qualche momento ripropone sì giri già sperimentati, ma rivestiti di arrangiamenti affatto banali, “Look To The Side”, oppure la stessa “Contraband Blues”, storia di schiavi usati come merce di contrabbando dai soldati nordisti durante la guerra civile, dove il violino di Anne Harris lascia la propria impronta. Nel complesso, un album solido, piuttosto vario, al quale, chi ama il suo trance-blues si accosterà con soddisfazione Matteo Bossi
Old School Rockin’
STUDEBAKER JOHN Delmark 818 (USA)-2012-
Rockin’ The Boogie / Disease Called Love / Fire Down Below / Rockin’ Hot / Fine Little Machine / Old School Rockin’ / She Got It Right / Deal With The Devil / I Stand Alone / Mesmerized / Brand New Rider /
Dark Night / On The Down Low / Tumblin’ Down The Road.
Nato a Chicago nel 1952, Studebaker John è l’eccellente interprete di un blues ruvido e diretto, senza orpelli ma giocato tutto sulle ritmiche e su interessanti invenzioni sonore. Queste caratteristiche, la capacità di far vibrare le ance dell’armonica e le corde della chitarra con eguale sensibilità e la notevole verve creativa fanno di questo artista, che i lettori questa rivista conoscono bene, uno degli interpreti più originali nel panorama musicale della Città Ventosa. Dopo anni spesi “on the road” e dopo aver licenziato tanti album di valore, il nostro John ha fatto centro nell’eccellente “Maxwell Street Kings” (Il Blues n. 115), pubblicato per la Delmark, che era – come si evince dal titolo – un omaggio ai tempi leggendari in cui musicisti blues di ogni estrazione spendevano il loro talento nei mercati di Maxwell Street. Sempre per l’etichetta di Bob Koester, esce oggi “Old School Rockin’” che, come spiega lo stesso autore, vuole essere un omaggio a quel «rockin’ blues che aiuta la gente a dimenticare i suoi problemi… un sound che si è sviluppato fra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70, quando il blues grezzo ha influenzato tanti artisti contemporanei» (traduzione libera e un po’ riassunta, ma rende il concetto). Ammetto che per gusti personali ero più interessato al progetto legato a Maxwell Street, ma devo dire che anche in questo album Studebaker John ha evitato gli stereotipi ed è riuscito a innervare la sua musica con quel suono ruvido e immediato che lo contraddistingue. Anche la voce particolare, nasale e ovattata a un tempo del leader contribuisce a rendere molto personali le canzoni (quattordici, tutte autografe) qui contenute. Ciò che invece non mi convince in questo progetto, e ne limita le potenzialità, è l’eccessiva durata dei singoli brani e l’assenza di un vero slow, fatta eccezione per “Mesmerized”, discreta ma un po’ troppo levigata, e l’anomala e tipicamente “sua” “Disease Called Love”. Il resto è una cavalcata ritmica che si mantiene quasi sempre su ottimi livelli considerando i brani uno per uno, ma risulta un po’ difficile da ascoltare tutta d’un fiato. Nonostante questo, possiamo dire che Studebaker John ha fatto centro anche stavolta e che il CD si ascolta con piacere. Magari otto brani oggi e sei domani, per riposare un po’ le orecchie e apprezzare tutto il dischetto come merita. Paolo Cagnoni
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recensioni schitarrate tutta tecnica ma niente cuore, né tantomeno sonorità patinate ed asettiche che certamente non si addicono alla storia reale dei blues. Questo bluesman è sicuramente lontano dalle luci abbaglianti del monopolio musicale attuale, ma è autentico e vitale come i suoi blues; dategli una possibilità acquistando questo CD intitolato “Chasing Tha Blues”. Ottavio Verdobbio
Chasing Tha Blues
LITTLE FREDDIE KING MadeWright 67 (USA)-2012-
Born Dead / Crackho Flo / Lousiana Train Wreck / Got Tha Blues On My Back / Pocket Full Of Money / Back In New Orleans / King Freddie’s Shuffle / Great Great Bamboozle / Night Time In Treme / Bywater Crawl / Standin’ At Yo Door / Mixed Bucket Of Blood (bonus track).
Little Freddie King dopo l’ottimo CD intitolato “At Home In The New Orleans Musician’s Village” (MMCD120) in puro e diretto downhome style , accompagnato solamente dalla chitarra di Tim Duffy, ritorna in studio con una band formata dal batterista produttore “Wacko” Wade Wright, dal bassista Anthony “Sheet’s” Anderson e da Robert Lewis Di Tullio all’armonica. In queste tracce sonore i blues di Little Freddie King parlano, sussurrano, gridano e piangono come si evince dall’incidere ipnotico di brani come “Born Dead”, “Louisiana Train Wreck”, “Got The Blues On My Back” e “Standin’ At Yo Door”; poiché il blues dovrebbe negare a priori per la sua stessa origine e provenienza, ogni estetica passiva ed edonista del bello e sublime in sé e per sé: non esiste stupore e meraviglia intellettuale per le sonorità che il blues promana, ma vi è solo consapevolezza della cruda realtà sociale ed individuale che circonda o dovrebbe circondare un vero bluesmen Little Freddie King ha pagato tutti i debiti durante la sua travagliata esistenza ed è ancora con noi per continuare a suonare i suoi lowdown dirty blues sia sottoforma di ipnotici boogie come “Great Great Bamboozle”, oppure ricordando il grande Slim Harpo e la sua “I’m A King Bee” con il brano “Pocket Full Of Money”. L’essenzialità strumentale scandisce assieme alla voce il tempo del blues, tempo come sintomo disperato di disagio, precarietà, tempo di situazioni sociali molte volte spietate e crudeli (vedi il dopo Katrina) e in questo lavoro dell’anziano bluesman non troverete sicuramente poderose
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One Man & His 30w Pram
LEWIS FLOYD HENRY Adjust 001(GB)-2011-
Sacred Gardens / Rickety Ol’ Rollercoaster / Man’s Ruin / Guardian Angels / Good News / Short Space Of Time / Sentimental Values / Magic Carpet / The Devil’s Workin’ / Went To A Party / Way Out There / Miss Dual Carriageway.
Non vorrei sembrare duro, ma la storia di uno come Lewis Floyd Henry appare come un copione già sperimentato, e c’è da immaginarsi cosa gli sarebbe accaduto in giro per lo Stato del Mississippi. Probabilmente avrebbe corso il rischio di cambiare lavoro? Il musicista c’è tutto, ma in America effettivamente le cose girano diversamente, guarda gente come K.M. Williams e se lo sta chiedendo anche Eric Deaton. E se verosimilmente un bel giorno Lewis Floyd avesse visto sulla BBC la trasmissione di Jools Holland con ospite Seasick Steve e si fosse detto: “ma ci potrei essere anche io al suo posto e in più sono anche inglese, potrebbe spettarmi di diritto…”, e alla tuta da benzinaio e alla chitarra a 3 corde avesse preferito un bel carrozzino usato con tanto di amplificatore che fa scena, copertina e soprattutto tanto blues da strada. Ma a quanto pare, per la cronaca, i fatti sono andati diversamente, e per le strade di Londra, mentre intratteneva i passanti alle uscite della metropolitana qualcuno si è accorto veramente di Lewis. Sotto contratto da una piccola casa discografica, Adjust Records (Uk House-Techno-Tribal
label), ha pubblicato un lavoro dal titolo emblematico “One Man & His 30w Pram”, prodotto da Ferg Peterkin, non proprio uno dei tanti, e in poche settimane sono arrivati i giudizi positivi di Mojo, e altrove non sono mancati consensi, con qualche superlativo euforico (come… «il figlio illegittimo di Jimi Hendrix dalla voce tuonante…»). Tornando sulla terra e visto sotto una lente oggettiva, Lewis Floyd Henry suggestiona con semplicità e carisma, canta canzoni autografe facendo un po’ tutto da solo, voce e chitarra ed accompagnandosi energicamente dalla batteria. Il risultato sa di blues, attraverso l’essenzialità di “Rickety Ol’ Rollercoaster” e in “Good News”, un brano eseguito per due che potrebbe far impallidire i migliori White Stripes, o nel blues sporco di “The Devil’s Workin’”. Anche se l’album spazia di gran lunga su sonorità mediamente più rock, sovente elettriche e stradaiole, con tanto di Jimi Hendrix nel cuore:“Went To A Party” e “Magic Carpet”, e andando anche oltre con divagazioni punk o tinte di dura psichedelia “Miss Dual Carriageway”, intervallati da morbidi rock come “Way Out There”. Un’interessante rivelazione della fine dello scorso anno. L’album è disponibile anche in una caratteristica versione in doppio vinile, che include anche la versione in CD. Antonio Avalle
vocale, una sensualità innata e la facilità nel “sostenere” il palco, caratteristiche indiscusse delle grandi personalità; impressioni confermate anche in altre performance alle quali abbiamo assistito. L’album, dalle accese tinte soul e rhythm & blues, è inevitabilmente strutturato anche sulla forte presenza dei suoi strumentisti (il meglio e la storia del blues di casa nostra); Pippo Guarnera, Vince Vallicelli, Leon Price e Nick Becattini. Sono cinque le originali presenti (quattro scritte dalla stessa Ty) mentre i restanti cinque classici racchiudono la parte più blues del CD; particolarmente riuscita la versione di “Rock Me Baby”. Come sempre però soffermandoci con più attenzione nella porzione inedita, qui spicca “Somebody To Love”, ritmata ballata soulfunk dalle soluzioni rock dove la voce di Leblanc grazie ad un’invidiabile dinamicità ed estensione si integra in modo perfetto all’armonia degli accordi…brano che dal vivo assume un grande impatto emozionale. Melodie e situazioni soul (oldschool) in “Don’t Let Go”, traccia scritta insieme a Nick dove risuonano tutte le influenze delle voci regine del passato, da Aretha a Etta; brano questo che si contrappone a “The Rising Sun”, composta in collaborazione a Guarnera, dalle connotazioni più jazz e r&b. ”Dark Well” è invece il giusto modo di iniziare un lavoro; rock ‘n’ roll “scanzonato” e vitale, ricco di ironia e mestiere! Concludendo questo album omonimo firmato Ty Leblanc ci presenta un’indiscutibile talento vocale capace di sorprendere nei più vari stilemi afro-americani; una protagonista già matura e convincente, certamente pronta per le grandi masse anche se noi ci auguriamo resti sempre legata al blues. Simone Bargelli
Leblanc
LEBLANC Gabbiano Jonathan 01 (ITA)-2012-
Dark Well / Rock Me Baby / Don’t Let Go / Somebody To Love / I’d Rather Go Blind / Part Time Lover / This Is A Man’s World / The Rising Sun / Bad Luck City / Jambalaya.
Fascino e sostanza; queste le prime sensazioni avute dopo l’ascolto del nuovo progetto di Ty Leblanc nato sotto la produzione di Gianluca Di Maggio (managment del Trasimeno Blues Festival). La giovane cantante originaria della Louisiana, già ci aveva incantato durante la partecipazione alla passata edizione del festival lacustre grazie alla sua potenza
Black Eye Galaxy
ANDERS OSBORNE Alligator 4936 (USA)-2012-
Send Me A Friend / Mind Of A Junkie / Lean On Me / Believe In You / When Will I See You Again? / Black
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Tar / Black Eye Galaxy / Tracking My Roots / Louisiana Gold / Dancing In The Wind / Higher Ground.
La carriera di Osborne si è sviluppata in quel di New Orleans a partire dai primi anni ‘90, quando vi si stabilì in forma definitiva, lasciando la Svezia dove era nato nel 1966: il contesto familiare è stato certamente favorevole per la sua crescita musicale, dato che il padre era un batterista professionista, e i tanti generi che il giovane Anders si trovò ad ascoltare contribuirono a caratterizzare successivamente il suo stile. Fin da giovane il chitarrista ha privilegiato le sonorità elettriche, virando sovente verso l’hard rock, ma mantenendo costantemente la porta aperta ad altri generi, fino anche a realizzare album molto intimistici; queste stesse caratteristiche le ritroviamo nuovamente nel suo ultimo lavoro che qui vi presentiamo: l’inizio è demandato a un brano dal piglio quasi zeppeliniano, che ritorna similmente in “Black Tar”, qui con distorsore a manetta e sbavature grunge. “Mind Of A Junkie“, se non fosse per la voce, sembrerebbe essere uscito dalla penna di Neil Young, ha tutte le caratteristiche di alcuni suoi brani classici (dura 7:30”, ma non è il più lungo) costruito su due accordi in minore con un assolo che si sviluppa in lunghi spazi dilatati. Seguono quindi un paio di ballate, diverse nelle loro caratterizzazioni, ma molto orecchiabili, certamente debitrici della scuola dei numerosi cantautori a stelle e strisce, uno stile che viene riproposto pure in “Tracking My Roots” e nella traccia successiva, brani più intimistici, gradevoli, in cui la sottolineatura è lasciata a strumenti come l’armonica o la chitarra acustica in “Louisiana Gold”; in mezzo al CD troviamo la title track, una mini suite che propone inizialmente la stessa atmosfera per raggiungere poi toni quasi psichedelici specie nel lungo assolo di 7 minuti, che ci ha fatto venire in mente le lunghe cavalcate chitarristiche di Jerry Garcia e dei Grateful Dead. La seconda metà dell’album è contraddistinta dunque da atmosfere più tranquille, acustiche, e la stessa conclusione è lasciata ad altre due ballate molto piacevoli, “Dancing In The Wind” introdotta da un’armonica solitaria per concludersi poi coralmente, e quindi la delicata “Higher Ground“, caratterizzata dallo struggente violino di Stevie Blacke e dall’intensa voce dello stesso Osborne, brano dai toni quasi religiosi che regala un senso di pace profondo. “Black Eye Galaxy” è un album in cui l’autore si racconta in maniera molto diretta e personale: il blues è qui appena accennato (a volerlo proprio cercare), ma
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oseremmo quasi dire che Anders si mette a nudo, aprendo all’ascoltatore i propri sentimenti, regalandoci un’opera sincera, che certamente merita di essere ascoltata. Luca Zaninello
Crazy
CANDY DULFER Et’ceteraNow 6006 (NL)-2011CD+DVD-
CD 1: Stop All That Noise/ Crazy / Hey Now / Flame / Good Music / Complic8ed Lives / Calling Next Door / Electric Blue / In Or Out / I Do / Rocket Rocket / No End / Open Up / Please Don’t Stop / Too Close. CD 2 :Bonus DVD: Candy Meets Maceo Parker.
si fa più pacata, in ottica nu-soul, con lo slow di “No End” ed è sempre “Izo”, questa volta al flauto, ad innervare l’interessante reggae-rock di “Hey Now” ancora con la voce di Board. Si ritorna, quindi, al funky, questa volta più ammorbidito, di “Please Don’t Stop” e la pregevole tromba di Jan Van Duikeren che svolge il background rockeggiante unitamente al sintentizzatore di Chance Howard, quest’ultimo anche in veste di vocalist, sempre con Candy. La chiusura è affidata alla ballata “Too Close”, ancora sullo stile del soul odierno e dello smooth-jazz, con la sassofonista di Amsterdam sempre sugli scudi. Allegato a questo valido ed innovativo dischetto, troviamo un DVD (poco più di una ventina di minuti) che testimonia l’incontro di Candy con Maceo Parker a Kinston, North Carolina, dove l’ex-sassofonista di James Brown vive; mentre Parker racconta episodi della sua vita scorrono foto di famiglia, spezzoni di filmati del Padrino del Soul, del trombonista Fred Wesley, di George Clinton, del fratello Melvin, batterista, e della madre. Il filmato termina con un duetto al sassofono tra Candy e Maceo, circondati dai ragazzini del posto. Fog
BOB MARGOLIN WITH MIKE SPONZA BAND Blues Around The World VizzTone 11(USA)-2012-
Lost Again / Blues Lover / Down In The Alley / Rather Than Being Free / While You’re Down There / Ice Or Fire / Crazy ‘Bout You Baby / Rollin’ and Tumblin / It’s Hard To Be On The Road / Hard Feelings / The Door Was Open / Love In Vain.
Mike Sponza, dopo aver accompagnato dal vivo musicisti non italiani, quando può mette il sigillo con delle registrazioni, usandole poi o per un disco intero, o per inserirle nei suoi progetti comunitari, “Kakanic Blues”
Ritorna il brillante sassofono della bella olandesina Candy Dulfer, dopo il valido “Funked Up! recensito nel n.108 (pag.27), con una dozzina di brani, che, a differenza del passato, presentano, in certi casi, eleganti e corpose venature rock effettuate dal produttore Printz Board, già alla corte, per una decina di anni, del gruppo dei Black Eyed Peas. Peraltro il sax alto continua ad offrire preziose ed efficaci volute soul, jazz e r&b ed è proprio, dopo il minuto di solitario fraseggio allo strumento (“Stop All That Noise”), che erutta il serrato e coinvolgente errebì della title-track duettato da Board e la Dulfer; sulla stessa onda troviamo anche il buon strumentale “Flame”, seguito dall’effervescente “Complic8ed Lives”. Dal funky marcato di “Good Music”, dove al duo già citato si aggiunge come vocalist Mario “Tex” James, si passa a quello più serrato di “I Do”, dove Candy insieme a Monn Baker si alterna al suo sax pungente; più morbido ed avvolgente si pone “Rocket Rocket”, e qui il ritmo è scandito dal basso funkeggiante di Caleb Speir, che supporta anche quello di “In Or Out”. Il blues compare, invece, con il clarinetto, ed il relativo ed ossessivo giro, ancora di basso, di Tim “Izo” Oringdgreff, alternato tra figure jazzy del sassofono ed un’interessante rapping centrale dei vocalist, nel sincopato “Electric Blue”. A seguire l’atmosfera
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recensioni ieri, “European Blues Convention” oggi. Con Bob Margolin però è stato sorprendentemente spiazzato, perché non si aspettava che l’ex chitarrista di Muddy Waters prendesse lui l’iniziativa di realizzare un CD con le incisioni fatte in Slovenia l’anno scorso, dopo un tour (organizzato dallo stesso Sponza) in Italia, Austria, Ungheria, Serbia, Croazia e Slovenia. Uno della statura di Bob Margolin è meta ambita da molti bluesmen, parliamo di quando viene in Europa, e lui dal vivo si concede volentieri, ma poi dopo le congratulazioni di rito, tutto finisce. Con Sponza e i suoi bravissimi musicisti, Moreno Buttinar batteria e Mauro Tolot basso, la collaborazione invece ha avuto un seguito perché si è instaurato un rapporto che Margolin fra le note di copertina ha definito magico e molto ispirato. Queste dunque sono le ragioni fondamentali che testimoniano questo buon CD dove il blues tradizionale, suonato con naturalezza fra linee elettriche e acustiche, è variegato e stuzzicato anche da una sobria modernità, ed esposto da un convincente Margolin, confortato dall’ottima presenza di Sponza & Company, musicisti ormai di livello internazionale ed a loro agio in ogni condizione. La scaletta con pezzi perlopiù autografi, si apre con la corposa “Lost Again”, cui fa seguito l’elettroacustica medio lenta “Blues Lover”, che vive dei buoni apporti di chitarre con o senza amplificazione. Stessa situazione, ma più preferibile della precedente è “Rather Than Being Free” (di e cantata da Sponza). Con “While You’re Down There” e “Ice Or Fire” si torna sui passi elettrici dal ritmo snello, con un po’ shuffle e un po’ di funky, Margolin e Sponza continuano ad intendersela alla grande e la sezione ritmica è esemplare come del resto per tutto il CD. Uno dei passaggi più alti dell’album è la versione acustica di “Crazy ‘Bout You Baby”, mentre l’immancabile pensiero a Muddy Waters è palese con una buona e contratta versione di “Rollin’ And Tumblin’”, che cede il passo al rock’n’roll cantato da Sponza, con inserti vocali di Margolin, di “It’s Hard To Be On The Road”. Le registrazioni fatte in Slovenia si chiudono con un veloce blues dai tratti rockabilly di “The Door Was Open”, ma Margolin tornato a casa ha voluto aggiungere la sua versione acustica di “Love In Vain” accompagnato da Richard “Rosy” Rosenblatt all’armonica. Può apparire strano a dirsi, ma Bob Margolin ha ritrovato una buona vena proprio accanto ai musicisti italiani della Mike Sponza Band! Silvano Brambilla
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CAROLINA CHOCOLATE DROPS Leaving Eden
Nonesuch 7559-79627 (USA)-2012
Riro’s House / Kerr’s Negro Jig / Ruby, Are You Mad At Your Man? / Boodle-De-Bum Bum / Country Girl / Run Mountain / Leaving Eden / Read’Em John / Mahalla / West end Blues / Po’Black Sheep / I Truly Understand That You Love Another Man / No Man’s Mama / Briggs’ Corn Shucking Jig / Camptown Hornpipe / Pretty Bird.
Anche se la copertina sembra un po’ ripetere un clichè abusato dalla band, ricordando sia le foto edite da Scott Barretta nella rivista Living Blues, che sembrare la versione sporca dell’elegante copertina di “Heritage” di qualche anno fa (“Il Blues” n.106), questo “Leaving Eden” sa mettere finalmente un po’ tutti d’accordo. Il precedente “Genuine Negro Jig” (“Il Blues” n.110), album premiato e alquanto sopravvalutato, ci aveva lasciati un po’ interdetti con il suo involucro infarcito da tinte pop ed immerso in qualche tiepida atmosfera folk blues. Intanto però avevamo apprezzato le potenzialità dei Carolina con i primi due album che lasciavano sperare bene, in quanto contenevano spunti di interesse che ci avevano indotti ad avvicinarli per un intervista (“Il Blues” n.106). Oggi Rhiannon Giddens e Dom Flemons mettono ordine alle loro idee, all’amore per la tradizione, e pur perdendo Justin Robinson, alle prese con un bizzarro progetto da solista con un terzetto d’archi, realizzano il loro lavoro più completo, più fruibile e di gran lunga meno ripetitivo rispetto agli esordi, intenso e più appassionato rispetto all’insipido “Genuine Negro Jig”. Le altre novità sono l’ingresso in squadra di rinforzi come Hubby Jekins e Adam Matta, tra corde e percussioni, e in più troviamo la presenza delle mani esperte di Buddy Miller, figura molto legata alla produzione della tradizione “bianca” americana. Altra nota positiva è la maggiore centralità di Rhiannon Giddens, voce inappun-
tabile quanto il suo contributo al banjo. Il repertorio dell’album è sempre focalizzato su traditional e su cover, poco inflazionate, con il pizzico di qualche brano autografo come “Country Girl”, l’unico episodio che per orecchiabilità li avvicina a quei momenti hip pop presenti nel precedente album. Il resto è pesato equamente tra blues, folk e bluegrass. I brani più illuminanti e vicini al nostro credo sono sicuramente la strumentale “Kerr’s Negro Jig”, il rielaborato traditional “Boodle-De-Bum-Bum” (associato a Ben Curry), una jug song cantata da Don Flemons, il manifesto folk blues di “Ruby, Are You Mad At Your Man?” (di Cousin Emmy), l’effervescente sensualità di “West End Blues”, vecchio strumentale di Etta Baker e Wayne Martin e su cui Rhiannon Giddens ci ha integrato parole e voce, mentre la ballata semplice e gutturale di “Mama No Man”, avrebbe potuto essere interpretata con i medesimi risultati anche dai nostri Red Wine Serenaders. Infine merita una citazione tutta sua il canto crudo di sole voci “Read Em John”, canzone recuperata dagli archivi di Alan Lomax. Torna la fiducia sulle gocciole di cioccolato della Carolina e sulle loro attraenti potenzialità. Antonio Avalle
piuttosto scolastica; da “Bad Loser”, più verace e dal midtempo, molto bello, di “Waitin’ On A Fire”. Un po’ a sè stante è il funky sincopato in stile Dr. John di “Better World”. In stile Delta Blues abbiamo pagine gradevolissime come “Cool With Me Tonight”, grezzo e cooderiano; “Stranger In My Home” e “By And By”. Viceversa più di stile downhome abbiamo “Big Leg Woman” e la cover di Arthur Crudup “After Hours”. Molto vicino al mood di Jesse Fuller è lo stupendo country blues di “Tight Times”, mentre una sorta di fusione tra lo spirito di Mississippi John Hurt e una vena country roots dimora nel bel brano “Long Lost Friend”. Non un disco eclatante, ma sicuramente genuino, lontano dagli inutili svolazzi dei vaughaniani. Enrico Lazzeri
Spider Eating Preacher
EDDIE C. CAMPBELL Delmark 819 (USA)-2012-
Jukebox Classic
DAVIS COEN
Soundview 1005 (USA)-2010-
Better World / Don’t Ever Be Sorry / Cool With Me Tonight / Long Lost Friend / Stranger In My Home / Bad Loser / Waitin’ On A Fire / Tight Times / By And By / Big Leg Woman / After Hours.
Coadiuvato da Jimbo Mathus, il chitarista Davis Coen, ormai trapiantato nel Sud degli States, ci offre un lavoro di downhome blues che fonde, a volte un mood alla Mississippi John Hurt mescolato all’attitudine americana, un po’ figlia di Ry Cooder, che tanto va per la maggiore, oggi, sul mercato indipendente americano. L’aspetto più contaminato con il melting pot roots lo si evince da “Don’t Ever Be Sorry”, ad onor del vero,
I Do / Spider Eating Preacher / Call My Mama / Cut You A-Loose / Soup Bone (Reheated) / I Don’t Understand This Woman / Boomerang / Starlight / Skin Tight / All My Life / My Friend (For Jim O’Neal) / Downtown / Brownout / Been Gone A Long Time / Playing Around These Blues.
Buon disco di Eddie C. Campbell, il suo secondo per la Delmark, più di altri una questione di famiglia e di affetti, prodotto dall’amico di vecchia data Dick Shurman, vi hanno partecipato infatti la moglie di Eddie, Barbara Mayson al basso in metà dei brani, il figlio David al violino in due pezzi. Inoltre come ospite speciale un grande chitarrista di cui Eddie è il padrino, Lurrie Bell il quale da ragazzino suonò il basso nel famoso esordio su LP di Eddie, l’indimenticato “King Of The Jungle”. Band funzionale con anche una sezione fiati, usata solo in una manciata di canzoni, lo stile di Campbell alla chitarra è legato al West Side primigenio, senza concessioni moderniste. Interessante anche la scelta delle cover, soprattutto per quanto riguarda una riuscita rivisitazione degli Ohio
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Players “Skin Tight” irrorata di funky coi fiati a far la loro parte e posta subito accanto, ecco uno dei classici, minori solo per notorietà non certo per bellezza, firmati del compianto Jimmie Lee Robinson, “All My Life”; Eddie ne dà una versione di grande sensibilità e dosa a puntino le note, liquide, della sua chitarra, sostenuto dalle tastiere minimali di Darryl Coutts. Encomiabile anche la successiva “My Friend (For Jim O’Neal)”, su un ritmo alla Bo Diddley è un tributo e un ringraziamento rivolto appunto al fondatore di Living Blues che ha sempre creduto in lui e ora attraversa seri problemi di salute. L’ascolto scorre senza forzature e si chiude con un duetto acustico tra padrino e figlioccio, con Lurrie all’armonica nel brano “Playing Around These Blues” che sembra nascere come qualcosa di colloquiale, spontaneo e pieno di simpatia, o almeno tale è la sensazione che trasmette. Bello dunque ritrovare un musicista del calibro di Campbell, qualcuno che non esasperi i suoni e le note ma le lasci fluire dove serve, senza preoccuparsi di effetti o velocità, ma solo del giusto feeling. Sarebbe auspicabile rivederlo anche sui palchi di qualche festival italiano. Matteo Bossi
11 brani presenti. Sarà forse poco per la generazione di X-Factor, ma vorremmo non tanto vedere/ascoltare i loro prodotti a 72 anni, ma soprattutto gustarne la bontà. Senza per questo voler fare un discorso generazionale di parte, l’ex ragazzo del Bronx ci regala, di nuovo, un album con i fiocchi. Articolato nella consueta formazione a trio, “Tank Full Of Blues” è l’esempio di come anche i bianchi possano dar vita ad opere strumentalmente minimali, in cui c’è spazio solo solo per le note essenziali ed al massimo si gioca a sottrarle anziché aggiungerle. Prendete ad esempio il tempo medio/lento, ma ben scandito, di “I Read It (In The Rolling Stone)”, e vi renderete conto di come la sua voce narrante salga e scenda di tono lungo lo scorrere delle note sfiorate, ma insinuanti, della sua chitarra. O la intensa rilettura di “Two Train” (medley tra “Still a Fool” di Muddy Waters e “Ramblin’ On My Mind” di Robert Johnson) in cui il suo canto, che non vuole essere ciò che non può (nero), riesce ugualmente a trasmettere la partecipazione, sincera, che Dion sta vivendo nell’interpretarla. Ma c’è spazio anche per il ritmo del viaggio, del movimento, che permea “You Keep Me Cryin’”, con la chitarra del leader e la sezione ritmica impegnati nell’emozionalità necessaria, senza un passaggio di troppo. Contraltare a ciò è il taccuino dei ricordi che Dion sfoglia con “Bronx Poem”, uno slow dove chitarra e parole, che sembrano rispettarsi a vicenda, tracciano immagini di ieri vivide e mai scontate. Tuttociò, e molto altro, è contenuto in 44 minuti e 33 secondi, a dimostrazione che non è la durata di un prodotto che ne attesta la qualità. Marino Grandi
Tank Full Of Blues
DION
Blue Horizon 16787 (USA)-2011-
Tank Full Of Blues / I Read It (In The Rolling Stone) / Holly Brown / Ride’s Blues (For Robert Johnson) / Two Train / Do You Love Me Baby / You Keep Me Cryin’ / My Michelle / My Baby’s Cryin’ / I’m Ready To Go / Bronx Poem.
Continua il ritorno alle origini che Dion Di Mucci ha iniziato, con grande coraggio, qualche anno fa (“Il Blues” n.ri 95 e 102). Ma la prosecuzione del discorso avviene con quel completo ribaltamento compositivo che noi, fedeli alli linea e spesso disillusi, attendevamo. Se sinora nei suoi album erano le cover a dominare, qui sono i pezzi autografi che, sebbene condivisi in parte con Mike Aquilina, ammontano a ben 9 sugli
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NATHAN JAMES & THE RHYTHM SCRATCHERS What You Make Of It
Delta Groove 151 (USA)-2012-
Chosen Kind / What You Make Of It / Black Snakin’ Jiver / Later On / Get To The Country / Make It On Your Own / Rhino Horn / Pretty Baby Don’t Be Late / Blues Headache /
Pain Inside Waltz / I’m A Slave To You / First And The Most / You Led Me On / Tri-Tar Shuffle Twist.
Ancora un centro per la Delta Groove, questa volta a segno con Nathan James. L’autore ben spiega il progetto nelle note di copertina: dopo anni di blues acustico, il desiderio di mettere insieme una band per mescolare Delta, East Coast Piedmont e r&b’50-’60. Il primo plauso va alle scelte di produzione ed al missaggio davvero “americano”: volumi aperti per gli strumenti e frequenze medio-basse enfatizzate, dove soprattutto lavorano le chitarre di Nathan; appena sotto la voce, quasi fosse non amplificata, a trovare l’effetto juke joint . I brani sono arrangiati con freschezza e veleggiano tutti tra il buono e l’ottimo; il trio gira alla perfezione (eccellenti Troy Sandow al basso e Marty Dodson alla batteria) e infila variazioni a raffica preferendo, appena possibile, cadere sul tempo tagliato. Abbastanza agevole ricondurre le canzoni all’uno o all’altro genere tra quelli citati da James, sin dall’Hill Country Blues delle prime “Chosen Kind” e “What You Make Of It”, dove Nathan grattugia a dovere la washboard-guitar che si è fatto a casa (in pratica, una elettrica dalla forma cigar box, con il top a washboard). Per l’amor di Dio NON fate come me e non ascoltate “Get To The Country” in macchina - è venuta dura spiegare all’Agente della Stradale che, pur ballando appeso allo specchietto retrovisore, riuscivo a guidare in sicurezza. Ciascuna delle citate vale il prezzo del biglietto e non sono da meno i brani in stile Piedmont: “Black Snakin’ Jiver” e “Pretty Baby Don’t Be Late”, dove un kazoo zanzaroso, ubriaco e perfetto trasforma il divertimento in vero spasso. Al torrido riff di “Rhino Horn” mi sono fiondato in negozio per comprare chitarra, amplificatore e bottleneck . Posso confermare che l’apprendimento richiede sacrificio: mi è costato 4.000,00 euro, ma ora so che è meglio lasciar fare a chi di dovere. Meglio avrei fatto ad ascoltare il brano fino alla fine per godermi la sterzata talkin’ blues (ho comunque ritrovato il buonumore con il ¾ di “Pain Inside Waltz”). La voce di James e la sua classe alla sei corde non fanno una piega quando entrano a piedi pari in territorio r&b, già con la ballata “Later On”, più avanti con “I’m A Slave To You” e “First And The Most”. Pur vero che siamo a metà anno, ma anticipo tutti e non temo smentite nel candidare “What You Make Of It” per la top ten 2012. Matteo Gaccioli
Hellfire
JOE LOUIS WALKER Alligator 4945 (USA)-2012-
Hellfire / I Won’t Do That / Ride All Night / I’m On To You / What’s It Worth / Soldier For Jesus / I Know Why / Too Drunk To Drive Drunk / Black Girls / Don’t Cry / Movin’ On.
Questo lavoro segna il debutto di Joe Louis Walker con l’Alligator che, dopo un quarto di secolo di carriera, dimostra di essere sempre un musicista appassionato, incisivo, con ancora tanta voglia di percorrere le strade del blues: d’altronde il giovane Joe Louis (è nato il 25/12/1949) ha sicuramente vissuto una stagione musicale assai ricca e stimolante, incontrando decine di musicisti fondamentali della Bay Area che hanno inciso profondamente nella sua crescita musicale. Così il CD parte senza esitazioni proprio dalla scoppiettante title track, caratterizzata dall’assolo di chiara influenza hendrixiana, come coglieremo nuovamente in qualche altro episodio. Ma se la matrice blues permea la maggior parte delle tracce, come nell’incisiva “I’m On To You“, guidata dall’armonica dello stesso Walker, l’album si caratterizza per la varietà di umori che esso sa offrire e dunque ben venga lo slow di “I Won’t Do That“ che, oltre all’assolo di grande intensità, ci offre un’ottimo esempio delle qualità vocali del nostro, nuovamente in evidenza anche nei toni drammatici di “What’s It Worth“, piuttosto che nell’avvolgente “I Know Why“ che strizza l’occhiolino al soul. Ci sono chiari riferimenti al rock, con momenti particolarmente accattivanti come in “Ride All Night“, un pezzo che potrebbe tranquillamente essere uscito dalla penna di Jagger/Richards, ma pure in “Soldier For Jesus“ sporcato di gospel, fino a quella “Don’t Cry“ che sbanda, seppur in modo abbastanza piacevole, verso un’easy listening ballabile. Non mancano infine episodi più leggeri, ma sempre gradevoli, come lo spumeggiante “Too Drunk To Drive Drunk“, un divertente blues caratterizzato dal dialogo fra la chitarra e il pianoforte di Reese Wynans che ritroviamo volentieri, o anche il suc-
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recensioni cessivo “Black Girls“, molto ben giocato sui fraseggi della slide e gli intermezzi delle fanciulle del coro. Il finale è lasciato al vecchio cavallo di battaglia del compianto Rory Gallagher, quella “Movin’ On“ che Joe Louis interpreta con personalità, dandone una rilettura decisamente moderna, nuovamente coadiuvato da alcuni interventi puntuali del pianoforte. Grande personalità e mestiere caratterizzano anche quest’ultimo lavoro del chitarrista di San Francisco che certamente non delude, conferma quel sound che da tempo lo caratterizza con soluzioni stilistiche sempre interessanti. Luca Zaninello
tarra. Non si tratta di inediti, è bene precisarlo, ma di un dialogo virtuale che Maxwell ha imbastito estrapolando dei brani dalle sessioni di Spann per l’etichetta Candid nei primi Sessanta; operazione discutibile, malgrado animata dalle migliori intenzioni; i suoi interventi almeno non si possano definire invasivi, ma non ci sembra incidano sul valore intrinseco della musica . Nel resto del disco troviamo composizioni di Maxwell stesso, sovente rielaborazioni di temi di Spann, “David In The Dark”, che fungono da dimostrazione, se ve ne fosse bisogno, della maestria e capacità tecniche e stilistiche raggiunte. È indubbiamente pianista molto educato, non scevro da influenze diverse, a suo agio sia nei boogie, “Cow Cow Boogie” che nei momenti più meditativi, splendida in tal senso“Take Me On Home”, forse l’apice espressivo dell’album. Rimane in parte la sensazione della tipologia di disco realizzato in primis per sé stesso e per rendere onore al più rilevante pianista blues del dopoguerra, elementi che comunque gli amanti del piano potrebbero apprezzare. Matteo Bossi
Stax/Atlantic, come anche “Blues Train” dal piglio funkeggiante. Decisamente notevole è la rilettura del grande r&b anni Cinquanta di Wynona Carr, “Please Mr. Jailer” che esalta le doti vocali della Lewis. Molto tarantiniano è il soul teso e notturno di “Do Something For Me”, che ricorda certe pagine di Marlena Shaw o di Ann Peebles. Se “The Real Deal” è un soul funk che ricorda lo spirito di certe cose di Betty LaVette, viceversa molto calligrafica è la cover di Van Morrison, “Crazy Love”, come di accademismo e di manierismo soffrono “Mother Blues” e ed il soul/blues di “You Can’t Take My Life”. Vivace r&b è “Mojo Kings”, mentre il jazz stempera il soul di “Silver Fox”. Sorprende non poco la versione reggae style del classico di Bill Withers, “Ain’t No Sunshine”. Proveniente dall’Atlantic come gusto è il soul di “Don’t Play That Song”, dai repertori di Aretha Franklin e di Ben E. King, mentre piuttosto di maniera è la soul ballad di “Angel”. Un disco discreto, non certo da trascurare. Enrico Lazzeri
DAVID MAXWELL & OTIS SPANN
Conversations In Blues Circumstantial (USA)-2010-
Marie / Otis In The Dark / Transition #1 / Off The Cuff / Walking The Blues / Transition #2 / Cow Cow Boogie / David In The Dark / Otis’s Great Northern Stomp / Get Your Hands Out Of My Pockets / Twisted Tendons / Walk That Walk / Span And Bob / Transition #3 / Take Me On Home / Thank You Otis.
In un precedente articolo lamentavamo l’assottigliarsi dei rappresentanti dell’arte del piano blues, qui troviamo uno dei più stimati pianisti in attività, David Maxwell, noto soprattutto come sideman (Freddie King, James Cotton, Ronnie Earl…) ma con qualche produzione a proprio nome nel corso di una ormai lunga carriera. Questo progetto lo ha pensato, crediamo, come una sorta di omaggio a colui che ha cambiato la sua visione della musica e il suo modo di suonare, Otis Spann appunto. Maxwell ebbe modo di conoscerlo direttamente nella seconda metà degli anni Sessanta e di assimilarne le particolarità stilistiche. Il disco è interamente strumentale e Maxwell è l’unico strumentista del disco tranne per quattro tracce in cui compare proprio Spann, in una delle quali con Robert Lockwood alla chi-
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The Lost Album featuring Watermelon Man
THE JB’s & FRED WESLEY
SHARON LEWIS & TEXAS FIRE The Real Deal
Delmark 816 (USA)-2011-
What’s Really Going On? / The Real Deal / Do Something For Me / Crazy Love / Mother Blues / Blues Train / Please Mr. Jailer / Mojo Kings / Silver Fox / You Can’t Take My Life / Ain’t No Sunshine / Don’t Play That Song / Angel.
Buon disco ma fortemente di maniera per questa cantante soul/blues, accompagnata da un’ottima band che vede anche, in alcuni brani, ospiti di rispetto come l’armonicista Billy Branch ed il chitarrista Dave Specter. La voce della nostra è molto espressiva, risposa, ma sa raggiungere un potenziale powerful. Qualche cover e poi brani originali come l’apertura di “What’s Really Going On?”, southern soul in stile
HIP-O Select/ Polydor 0016192 (USA)-2011-
Watermelon Man / Sweet Loneliness / Secret Love / Seulb / You’ve Got A Friend / Transmograpification / Use Me/ Get On The Good Foot / Everybody Plays The Fool / Bonus Tracks: Alone Again (Naturally) / Back Stabbers / J.B.Shout / Funky & Some.
Rivedono la luce, dopo una quaranChi desidera sottoporre CD DVD da recensire è pregato di inviarli, possibilmente in duplice copia, a IL BLUES - Rubrica Recensioni - Viale Tunisia, 15 - 20124 Milano. Si prega di non inviare ai singoli recensori materiale destinato alla recensione su “IL BLUES”.
tina d’anni, i brani che il trombonista di James Brown, Fred Wesley, aveva inciso con i JB’s nel lontano 1972 ed il relativo padellone era già stato catalogato come People 5603, numero che, all’ultimo momento, venne assegnato, per motivi sconosciuti, all’ottimo “Doing It To Death”, uno dei 33giri più validi dei musicisti del Padrino del Soul. Qui, dove dominano gli strumentali, l’incipit è costituito da una rilettura di spessore del famoso brano del pianista ed organista jazz, Herbie Hancock, già citato nel titolo e peraltro già impresso su 45 giri, e svolto con estrema efficacia nel suo coinvolgente percorso funkeggiante: brillano e si esaltano oltre al trombone di Wesley, il possente ed articolato basso di Fred Thomas e la chitarra di Jimmy Nolen, ricordando che il ruolo del batterista è qui ricoperto, cosa non usuale, dallo stesso James Brown. Con volute del tutto jazzate si dipana, invece, lo slow swingante di “Sweet Loneliness”, sostenuto dal morbido e convincente fraseggio delle lucenti trombe di Randy Brecker e di Jon Faddis, e con il maestoso Ron Carter che, dall’alto del suo basso tradizionale, detta i tempi del brano insieme alla batteria elegante e pulita di Steve Gadd. Anche i successivi “Secret Love” e “Seulb” si muovono nella stessa stessa direzione e con gli illustri jazzmen appena citati, privilegiando il lato orchestrale della composizione che si muove nell’ambito boppistico, mettendo ancora in mostra un paio di pregevoli assolo della metronomica di Gadd. Nello stesso contesto è interessante l’adattamento di “You’ve Got A Friend” della country-girl Carole King, dove trova spazio l’intervento di spessore del pianista Pat Rebillot. Ci si rituffa, con il trombone, nel funky browniano dell’effervescente “Transmograpification” (del jazzman Dave Matthews), che si ripete nella cover di “Use Me” di Bill Withers, dove rinfoltiscono l’orchestra nomi come Lew Soloff (alla tromba) e Cornell Dupree (chitarra); il James Brown più autentico lo ritroviamo, infine, nel ribollente ritmo di uno dei suoi classici “Get On The Good Foot”, e, quindi, una colorata ed avvolgente “Everybody Plays The Fool” chiude il vecchio vinile con le voci appropriate di Hilda Harris e del più famoso Hank Ballard. Questo dischetto, prezioso per gli appassionati del soul e del funk (e anche del jazz), chiude con quattro bonus, già pubblicati per juke-box, dove emergono un’ottima “Back Stabbers”, hit degli O’Jays, e la frizzante “J.B. Shout” del duo BrownWesley. Fog
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
MARCO MARCHI & THE MOJO WORKERS Listenin’ To My Soul Autoprodotto (CH)-2011-
Intro / I Can’t Be Satisfied / Bankers Blues / Dead Cats On The Line / I Got My Mojo Working / Sporting Life Blues / My Babe / Crossroads Blues / Cocaine Blues / Write Me A Few Lines / Police Dog Blues / Dedicated To Greta.
Se escludiamo i veterani, non come età, ma come esperienza, Bat Battiston, Philipp Fankhauser, Andy Egert e qualche altro di cui ci sfugge il nome, di altri bluesmen svizzeri non ci sono mai pervenute notizie concrete, salvo aver avuto l’occasione negli anni di assistere a qualche loro esibizione sui tanti palchi dei festival blues della Confederazione Elvetica. Accogliamo dunque questo trio nato nel 2009 per volere di Marco Marchi, chitarra acustica, resofonica e voce, che insieme a Claudio Egli all’armonica e Peo Mazza, batteria, percussioni e washboard, ha rivisitato dieci cover pescate fra il repertorio elettrico ed acustico, accomunandole ad una visione tradizionale ornata da un’atmosfera, creata costantemente da un impegno collettivo, sobria ma esigente nella ricerca di genuinità. Marco Marchi e soci si muovono con discrezione e naturalezza in più situazioni stilistiche, Delta Blues, Piedmont, ragtime, con le quali hanno saputo creare di nuovo interesse per alcuni blues divenuti molto popolari, “I Can’t Be Satisfied”, “My Babe”, una versione personalissima di “Crossroads Blues” e una pregevole “Write Me A Few Lines”. Accanto a questi fanno bella mostra altri blues non ordinari come “Bankers Blues” (di Rory Gallagher), “Dead Cats On The Line” (di Tampa Red), “Cocaine Blues” (di Rev. Gary Davis) e “Police Dog Blues” (di Blind Blake). Il CD è aperto da un breve intro che in maniera più estesa viene messo alla fine, è uno strumentale di Marco Marchi dal titolo, “Dedicated To Greta”. Abbiamo gradito, e li invitiamo a proseguire nel percorso intrapreso, dando magari più spazio a composizioni personali. Per contatti www.myspace.com/marcomarchithem ojoworkers Silvano Brambilla
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
Letters From The Bootland
MZ DEE
Autoprodotto (I)-2012-
Nothing But The Radio On / Sugarman Sugarman / I’d Rather Go Blind / Hit Rock Bottom / In all My Dreams / Sticky Situation / That’s The Way God Planned It / Going Down Slow / Desire Street / I Love You More Than You’ll Ever Know / Keep Your Girlfriends Away From Me / If I Never See You Again (It Will Be Too Soon).
È un qualificato artista Maurizio Pugno, non solo come chitarrista, ma anche come autore e arrangiatore, realtà queste che gli permettono di ridare smalto e ri/avviare l’interesse di alcuni artisti americani, a casa loro, come nella Europa unita. Con modestia e competenza sa evidenziare il loro lato stilistico, lo ha fatto per Sugar Ray Norcia e Mark DuFresne con il precedente CD, “Kill The Coffee” con un’ambientazione blues, e lo ha fatto ora per la cantante neroamericana, Mz Dee più incline al soul e r&b. Nella sua missione Pugno è coadiuvato dai suoi validissimi comprimari, il tastierista Alberto Marsico e il batterista Gio Rossi, la sezione fiati (The Cape Horns) con due sax, trombone e tromba (il fratello di Maurizio, Mirko) la quale per convinzione e tenuta è pari alle migliori sezioni fiati del soul/r&b di Memphis e, qua e là, il trio vocale femminile The Sublimes. Ovvio dunque che Mz Dee si è trovata nelle migliori condizioni per esprimere il suo canto maturo e mutevole, ma quello che più si nota nelle dodici tracce, otto autografe (Pugno/Mz Dee) e quattro cover è la parte italiana, musicisti in grado di annodare in maniera esemplare il passato con il presente già in apertura con il r&b “Nothing But The Radio On”. Con “I’d Rather Go Blind” l’emotività affiora pensando a Etta James e, a com’è stato rivisitato un simile gioiellino, ottima Mz Dee, l’assolo e l’accompagnamento di Marsico, il penetrante intervento di Pugno, l’eccellente tocco dei tamburi di Gio
Rossi, la linea dei fiati e le delicate voci femminili. Con toni contemporanei si rimane nell’atmosfera soul ballad di “In All Of My Dreams”, dopo il blues scandito “Hit Rock Bottom”. L’intro chiesastico dell’Hammond ed il suo prosieguo, notifica una bella versione dalla emanazione gospel di “That’s The Way God Planned It” di Billy Preston, per passare poi ad una rivisitazione finalmente non standardizzata di “Going Down Slow”, qui leggermente più ritmata e con il sempre prezioso apporto dei fiati. C’è ancora lo zampino di Marsico nella scelta della cover “I Love You More Than You’ll Ever Know”, perché è di Al Kooper, altro tastierista come Billy Preston. Il New Orleans sound in “Desiree Street” e il r&b da big band anni quaranta in “Keep Your Girlfriends Away From Me”, contribuiscono a declamare l’esito positivo del CD che viene chiuso da un’altra efficace soul ballad, “If I Never See You Again (It Will Be Too Soon)”. Per contatti www.mauriziopugno.it Silvano Brambilla
Stronger For It
JANIVA MAGNESS Alligator 4946 (USA)-2012-
There It Is / I Won’t Cry / Make It Rain / Whistlin’ In The Dark / I’m Alive / Ragged Company / You Got What You Wanted / I Don’t Want To Do Wrong / Thought I Knew You / Dirty Water / Things Left Undone / Whoop And Holler.
È ormai noto che Janiva Magness è una stimata cantante, è socialmente impegnata in un programma per la cura dei bambini dati in affido, negli ultimi anni ha ricevuto parecchi riconoscimenti ed ha trovato, grazie alla
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recensioni musica, la forza di riscattarsi da una vita che dopo averle tolto tanto la sta, finalmente, ripagando. Qualche anno fa è arrivata alla Alligator che le ha pubblicato gli ultimi tre CD (compreso questo) con la conseguente definitiva spinta in termini di popolarità, divenendo un’icona del blues contemporaneo con risvolti soul e r&b. Il CD in esame però si presenta sulla linea dei precedenti, in quanto si inizia a sentire una standardizzazione strutturale, i pezzi sono arrangiati in funzione di sonorità palesemente moderne, dove tutto è prevedibile per una proposta generalista, a discapito del feeling. Janiva non fa mancare la sua generosità e passione con un canto leggermente velato, mentre i musicisti, schierati in elettrico ed impegnati anche ad accompagnare con le voci, adempiono con consuetudine il loro dovere, facendo mancare qua e là del carattere. Fra le dodici tracce, sono pochi i momenti sui quali soffermarsi, si scivola via sugli accenti ritmici convenzionali di “There It Is” e su quelli lenti di “I Won’t Cry” (due dei tre pezzi firmati da Janiva), mentre la cover di Tom Waits “Make It Rain” vive per una buona interpretazione al canto. “Whistlin’ In The Dark” (terzo pezzo autografo), è solo una bella canzone pop che si fa dimenticare dalla seguente buona rivisitazione, percussiva e oscura, di “I’m Alive” di Shelby Lynne che, se la memoria non ci tradisce, è una cantante country. Janiva ha pescato anche nell’ampio e stimolante repertorio di Ike Turner, “You Got What You Wanted” è il pezzo, ma il passo soul/blues dato è lontano dall’espressione corroborante della storica coppia Ike e Tina Turner. Ancora atmosfere soul/blues in “I Don’t Want To Do Wrong” e questa volta è una buona ballad, sia per il canto che per l’accompagnamento. Sul finale del CD si trova la parte migliore, un altro oscuro e torpido blues, “Dirty Water”, un’altra ballad introdotta dalla sola Janiva al canto, e una trascinante “Whoop And Holler”, una sorta di canto di lavoro. Silvano Brambilla
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HERITAGE BLUES ORCHESTRA And Still I Rise
Raisin’ Music 1010 (F)-2011-
Clarksdale Moan / C-Line Woman / Big-Legged Woman / Catfish Blues / Go Down Hannah / Get Right Church / Don’t Ever Let Nobody Drag Your Spirit Down / Going Uptown / In The Morning / Levee Camp Holler / Chilly Jordan / Hard Times.
La foto di copertina potrebbe trarre in inganno. Caso risolto: non abbiamo di fronte i parenti dei Carolina Chocolate Drops, anche se il richiamo alla copertina del loro album “Heritage” (“Il Blues” n.106) sembra effettivamente evidente. Seppur al debutto la Heritage Blues Orchestra, basata a New York City, non è proprio formata da novellini. Il collettivo, guidato dai tre musicisti e vocalist di colore in copertina, è formato dal polistrumentista Bill Sims Jr. (che ha già pubblicato un album omonimo da solista nel 1999), da sua figlia Chaney Sims (diverse collaborazioni con Odetta, Bernard “Pretty” Purdie, Guy Davis) e dal più noto dei tre Junior Mack (Allman Brothers Band, Joe Louis Walker, Derek Trucks, Magic Slim, Honeyboy Edwards, Jeff Healey e altri). La band è allargata con la presenza di Vincent Bucher all’armonica, Kenny “Beedy Eyes” Smith alla batteria (rapidamente diventato tra i più ricercati batteristi in circolazione), e una sincronizzata sezione fiati composta da Bruno Wilhelm (sax tenore e arrangiamenti), Kenny Rampton (tromba), Steve Wiseman (tromba), e Clark Gayton (trombone, sassofono e tuba). Si conviene su quanto setacciato nella tradizione blues e nell’universo di cover, riproponendo sovente questo sacro repertorio con fedeltà e senza la medesima passione. Agli HOB l’operazione invece riesce con disinvoltura, senza aggiungere e togliere nulla a quanto già ascoltato, ma mostrandosi in modo singolare con etti di puro sentimento, consapevoli che nulla o poco si può aggiungere a quanto già sentito. Quest’album funziona perché sa emozionare lambendo l’universo della musica afroamericana. Dalla grinta del country blues a quella più cocciutamente urbana, dalle atmosfere sfacciate di New Orleans a canti di lavoro con voci e battiti di mani, per rifiorire su infusi di jazz e ritornare a pulsanti tamburi per ripercorrere la radice di tutto questo. L’introduttiva “Clarksdale Moan” di Son House scarica brividi a fior di pelle, avvincente invece la rilettura di “C-Line Woman” ricordata
di solito con la versione di Nina Simone. In mezzo classici provenienti dal song book di Muddy Waters, la rilettura di “Catfish Blues” piace e convince la work song “Go Down Hannah” ripresa dagli archivi di Alan Lomax. Bill Sims prende la voce solista su “Going Uptown”, una canzone tradizionale sulla discriminazione minorile, ogni singola traccia delle dodici presenti potrebbe essere dettagliatamente riportata. In chiusura scopriamo i sette minuti di “Hard Times”, che evolve su uno strato acustico per spingersi in una jam dai colori jazz, il contributo dei fiati resta discreto e mai invasivo in tutto l’album. Allora siamo pronti a ripartire dal primo brano: “Clarksdale, Mississippi, è e sarà sempre la mia casa - ed è la ragione per cui mi senti qui intorno seduto a gemere” (Son House). Antonio Avalle
ma i fatti e la realtà, a volte, sono in disaccordo col nostro mito. L’unica pecca, se tale può essere, data la forza del disco, è la sola presenza di cover. Una sola soul ballad: “Never Gonna Let You Go” e poi via con le danze. Ottimo l’uptempo di “Take The Bitter With The Sweet”, grande brano Northern Soul, poi soul groove ritmato, scarno, ma efficace di “I Don’t Love You No More” di HB Barnum. Di stile early Motown è “I Do The Jerk”, mentre un bel soul funk è “Wait A Minute”, tratta anche come 45 giri. Vicini al suono Stax sono “Let’s Kiss And Make Up” e “I Want To Be Loved” di Rufus Thomas. Notevole lo strumentale funky soul di “Fat Back”, mentre un’altra grande pagina di Northern Soul è “Won’t You Let Me Know”. “From Now On” di James Brown è un classico funk soul, mentre “If It Wasn’t For Pride” è il classico Northern Soul pensato per la pista. Chiude un soul funk primitivo che è “Love Is Here To Stay”. Gran bel disco che fa il paio con Sharon Jones e sta portando il soul classico e vintage in auge, in una scena discografica che aveva preso una vena troppo plastificata, ma il merito va sempre però alle indie labels. Per gli amanti di un soul da ballo, vero, da sudare sulla pista. Enrico Lazzeri
Same
THE EXCITEMENTS Penniman 003 (E)-2012-
Take The Bitter With The Sweet / I Don’t Love You No More / I Do The Jerk / Never Gonna Let You Go / Wait A Minute / Let’s Kiss And Make Up / Fat Back / Won’t You Let Me Know / From Now On / I Want To Be Loved / If It Wasn’t For Pride / Love Is Here To Stay.
Grande soul band di Barcellona, capitanata dalla voce asciutta e potente di Koko Jean Davis che si staglia su una registrazione analogica in mono e molto secca nel suono e questo mi fa pensare che, con una produzione migliore in termini finanziari, senza snaturarne l’essenza, questa band avrebbe un suono ancora più travolgente. La sezione fiati spinge a meraviglia e tutto il suono va verso l’attitudine del dancefloor e del party che sono l’anima della scena Northern Soul. In Spagna c’è un grande giro legato al soul, specie in serate, club, collezionisti, soul dancers, etichette, tant’è che, nell’underground, ha sovente superato USA e Regno Unito che spesso sono fari solo di cartone e che vivono della rendita di un mito,
Soul Shot
CURTIS SALGADO Alligator 4947 (USA)-2012-
What You Gonna Do?/ Love Comfort Zone / Getting’ To Know You / She Didn’t Cut Me Loose / Nobody But You / Let Me Make Love To You / Love Man / He Played His Harmonica / Baby, Let Me Take You In My Arms / Strung Out / A Woman Or The Blues.
Infilare nel lettore l’ultimo di Curtis Salgado è un “tuffo al cuore” o … uno “sparo nell’anima”: potrebbe leggersi anche così il titolo che il mentore dei Blues Brothers da al suo lavoro nel passaggio all’Alligator Records di Chicago. Ed è con una godibile verve di cover e non che, in quasi una dozzina di tracce, l’orchestra dell’armonicista di Eugene, Ore-
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
gon, rivisita con grinta la musica con la quale anni fa il “Blues Male Artist of the Year 2010” coinvolgeva il pubblico nei locali di Portland e dintorni, diventando amico e ispiratore dello stesso John Belushi, alias Joliet Jake nel famosissimo film musicale di John Landis, anni ‘80. Il riconoscimento di cui sopra arriva poi ai recenti Blues Music Awards col disco “Clean Getaway”, ma a detta di qualcuno, l’ultimo album è ancora di più. Lasciamo allora a quanto di giurie ufficiali di fare i conti con la storia, e se vogliamo valutare ogni opera a sé (e un performer a tutto tondo) questo “Soul Shot” non si risparmia affatto, selezionando accurate reinterpretazioni ormai assimilate da tempo, senza mai far distogliere l’attenzione dalle tracce autografe. Come “Love Comfort Zone”, che non apre, ma arriva già “in medias res” con una strada spianata dai colori del Southside a firma Bobby Womack per l’energica “What You Gonna Do?”. La seconda traccia, del nostro, scalda quindi gli animi a colpi di funky groove urbano, ondeggiante su organo di Mike Finnigan e l’impeto iniziale prosegue all’ alternanza tra una “Gettin’ To Know You” e la “She Didn’t Cut Me Loose”, dov’è Stevie Wonder a far da scuola all’armonica cromatica, esemplare per il Curtis del brano in questione. Grande è poi l’omaggio, tra quelli in scaletta, a un Otis rifatto con l’energia di James Brown per “Love Man”. E prima che il binomio “Baby, Let Me Take You In My Arms”/”Strung Out” si abbandoni al sentimento, “He Played His Harmonica” risuscita un vero funky autografo e “A Woman Or The Blues” ha l’umiltà di chiudere, stavolta, un disco aperto con una cover e, contrariamente a quanto voglia far credere, non sulla scia ma tra i maestri del soul. Matteo Fratti
CLARENCE MILTON BEKKER Old Soul
Playing For Change 3247 (USA)2012-
Any Other Way/ Yes We Can Can / One More Heartache / I Wish Some-
il Blues - N. 119 - Giugno 2012
one Would Care / Who Is He (And What Is He To You) / Try A Little Tenderness / Everybody Loves A Winner / Tomorrow’s Dream / Can’t Help But Love You / Shine On Me / Hold On, I’m Coming.
Questo brillante soulman di colore, proveniente dal Suriname, dove nasce nell’aprile del 1969, e si stabilizza in Olanda, ad Amsterdam, lo abbiamo conosciuto grazie alla la sua presenza (tra molti altri artisti) nel DVD “Playin For Change 2”, associazione benefica sorta per sostenere ed aiutare i bambini di tutto il mondo (vedi recensione di Silvano Brambilla nel n.117 a pag.39). Già il titolo di quest’ultimo lavoro di Bekker, fa capire l’ambito nel quale si muove l’artista e cioè una rivisitazione di brani, più o meno classici, della musica dell’anima. La scaletta inizia con uno degli architetti del Sound Stax, William Bell, il cui frizzante tempo veloce di “Any Other Way” fa coppia con la splendida, intimista ed avvolgente, soul-ballad dai fiati cangianti di “Everybody Loves A Winner”, con la presenza dell’ottimo bassista Reggie McBride, che è anche co-produttore del dischetto. Rimanendo in quel di Memphis, troviamo un’eccellente rilettura di “Try A Little Tenderness”, brano a suo tempo svolto dal grande Otis Redding, e l’hit esplosivo dell’altrettanto graffiante duo Sam & Dave, “Hold On, I’m Coming”. Ancora nella città sul Mississippi, passiamo al soul-gospel di Al Green (già alla corte della HI Records di Willie Mitchell) con la cover dell’errebì solare e ritmato di “Tomorrow’s Dream”, ancora puntualizzato dalla sezione fiati e con prevegevole assolo all’organo di Carlos Murguia. Saliamo, quindi a Detroit ed alla Motown, per la buona rivisitazione di due brani dal repertorio del campione di quest’etichetta, Marvin Gaye, e cioè il tempo effervescente e veloce di “One More Heartache” e la ballata northern-soul di “Can’t Help But Love You”, dalle venature pop. Il sud è rappresentato, invece, da due composizioni di Allen Toussaint ed Irma Thomas: dell’illustre compositore e pianista di New Orleans, Clarence rivisita una funkeggiante e pungente “Yes We Can Can”, mentre della Regina della Città del Delta, la scelta è caduta sulle raffinate volute dello slow “I Wish Someone Would Care”. La ripresa del piacevole up-tempo “Who Is He (And What Is He To You)” di Bill Withers e l’unico brano composto da Bekker, “Shine On Me”, un r&b dalla lucente tromba di Darrell Leonard, chiudono questo valido compact-disc. Rimaniamo in attesa, dopo le doti vocali, di poterne apprezzare anche quelle compositive. Fog
Fear Nothing
BEVERLY McCLELLAN Junk Drawer 40486 (USA)-2011-
I See Love / Lyin’ To / It Ain’t Me / Nobody’s Fault But Mine / I Can’t Hide Me / Well Wondered / Love Will Find A Way Out / Come To Me / I Will Never Forget / Tender Of The Most / Precious Times.
Nome forse poco noto al pubblico italiano, la McClellan ha però un background di tutto rispetto: ha sviluppato le sue qualità canore sotto la guida di Christina Aguilera e, oltre a essere stata fra le finaliste della prima stagione del talent show americano The Voice, aveva all’epoca già registrato 5 album indipendenti; è inoltre una polistrumentista piuttosto completa. Quello che salta subito all’occhio dalla copertina è la predilezione per i tatuaggi, questi ultimi fatti in particolare per onorare la nonna paterna, che era una nativa americana (appartenente ai Mohawk): essi rappresentano la varietà e i diversi aspetti della sua eredità, tant’è che anche altre fotografie ritraggono le sue braccia colorate più che lei stessa. Musicalmente parlando l’album in questione offre diversi spunti, tesi soprattutto a sottolineare la versatilità della sua voce: ne è un chiaro esempio “Lyin’ To” che usa una struttura blues di base per spaziare poi su altri terreni, come appare analogamente nell’accattivante “It Ain’t Me”, dalle chiare venature funky. Ma con “Nobody’s Fault But Mine” Beverly offre un chiaro esempio delle sue qualità interpretative, rendendo con grande freschezza questo classico slow di Blind Willie Johnson; le composizioni seguenti sono scritte da lei stessa, per cui possiamo apprezzare delle canzoni briose e coinvolgente come “I Can’t Hide Me” e “Love Will Find A Way Out”, con la presenza in quest’ultimo di Keb Mo. L’accattivante “Well Wondered” mostra l’affiatamento della formazione, che garantisce in tutto l’album un sound solido, con buona cura negli arrangiamenti e nei dettagli: ne sono un’ulteriore conferma “Come To Me”, un’appassionata
ballata, i tratti acustici di “Tender Of The Most”, fino alla freschezza della conclusiva “Precious Times”, che mette nuovamente in risalto le qualità del pianista Jimmy Pugh. Se la voce della McClellan è probabilmente lo “strumento” più in evidenza di questo CD, ogni traccia merita attenzione e un ascolto approfondito: spesso il blues è una sorta di punto di partenza per poi sviluppare il brano rendendolo gradevole fin dal primo ascolto grazie all’attenzione messa negli arrangiamenti, anche se ci piace ricordare che alcuni passaggi vengono apprezzati man mano che la canzone risulta familiare. Luca Zaninello
Torch Tones
MARK NOMAD Blues Star (USA)-2011-
Love U Truly / Don’t Say It / Gemini Blues / Poetry In Motion / The Waiting / Real Thing / Cactus Flower / Chinese Checkers / Took More Than You Gave / What Have I Done Wrong / I Got Over You / All One.
Settimo album per Mark Nomad. Originario di Chicago, negli anni ’70 divide il palco con i nomi più noti del blues; fonda la rock-band dei Little Village, omonima dell’altra, più famosa e stellare, formata da Cooder/Hiatt/Lowe/ Keltner nel 1992. Con “Torch Tones” regala alle stampe 12 brani originali incentrati sugli affari di cuore; l’autore si muove tra blues genericamente inteso, funk e rock, a tutti legato in egual misura. L’album ha un andamento irregolare: apre il noioso r’n’b “Love U Truly” (sentiti 0’24”, sentito tutto il pezzo), mentre suonano bene le successive “Don’t Say It” dall’andamento Texas, ed il simpatico shuffle “Gemini Blues”. Il breve strumentale in chiave acustica “The Waiting” è eccellente, trasmette sentimenti in bassa frequenza quasi fosse un pezzo di Blind Willie Johnson, linguaggio che già in passato Nomad ha dimostrato di ben conoscere con l’album “Acoustic Land”. Pollice verso per il rock-blues “Poetry In Motion”, arrangiato con grettezza ed ancor più rovinato dal cantato di Mark. Una voce pulita e coccolosa, la sua, che non funziona
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recensioni per tutte le stagioni e che fa uscire maluccio anche brani in stile Delta come “Took More Than You Gave” e “All One”. All’opposto per la chitarra: Nomad è versatile e sempre di buon gusto quando imbraccia elettrica ed acustica; non da meno il suo slide, che replica - alla perfezione, si direbbe - il suono Allmann. Arrangiamenti ed assolo segnano sempre un punto positivo. Nei brani più funk/rockeggianti aleggia la sensazione del già sentito e così le buone prove di “Chinese Crackers” e “Cactus Flower”, ma questo non incide perché il lavoro è onesto. Fra tutti pesano una manciata di pezzi che non consentono all’album di decollare. Matteo Gaccioli
500 Miles Of Highway
LARRY BURTON
Lost World Music 020 (USA)-2011-
Come Inside My Room / High Heels And Tight Blue Jeans / I’ve Got Your Body (He Has Your Mind) / You’re So Mean To Me / Pipe Dream / Dark Clouds / I Should Have Known / Going Back Home / Good Idea At The Time / You Hurt Me So Bad / The Blues Just Stay The Same / 500 Miles Of Highway.
Nativo del Mississippi, ma presto emigrato a Chicago, Larry Burton è sicuramente uno che può vantare numerosissime collaborazioni, sia su disco che dal vivo: impossibile citarle tutte, ma se si vuole identificare un periodo che ha lasciato un segno decisivo quello parte dalla fine degli anni ‘60, introdotto dal fratello maggiore, sassofonista, nella scena musicale dei club locali. Ma è soprattutto la figura di Albert King e dei musicisti che ruotarono attorno a lui nei decenni successivi che hanno consentito a Larry di farsi un nome e di muovere i suoi passi lungo le numerose strade del blues; ben più delle 500 miglia di autostrada evocate dal titolo di questo suo ultimo lavoro con cui ci propone una dozzina di ottime composizioni originali. L’apertura è lasciata a un piacevole rock blues, che forse rap-
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presenta l’umore predominante nell’album, con la chitarra che ben sottolinea il cantato del leader e si esprime in assolo misurati e senza sbavature; si prosegue sulla stessa strada con “High Heels And Tight Blue Jeans” e più tardi con “Dark Clouds”, dove si spinge un po’ di più sull’acceleratore, ma sempre con gran mestiere. Una caratteristica saliente è anche nei diversi stati d’animo che Burton e la sua band ci propongono: gli slow di “I’ve Got Your Body” e “Going Back Home” sono abbastanza differenti tra di loro ma offrono la stessa carica emotiva, in particolare nei contrappunti regalati dal pianoforte di Tony Llorens, strumento che vogliamo ricordare protagonista nel divertente “Good Idea At The Time” qui però suonato da Jay Spell; analogamente l’allegro blues di “You’re So Mean To Me” è il classico brano che ci fa battere il tempo col piede senza che ci se ne accorga. I rimandi ai musicisti che l’hanno influenzato non mancano di certo, basta ascoltare “I Should Have Known” piuttosto che “You Hurt Me So Bad”, e comunque quel senso di deja vu non guasta affatto; la coesione del gruppo apprezzata fin dalle prime note si mantiene costante su tutte le tracce, anche nell’interessante “The Blues Just Stay The Same”, che inizia con i sapori del nativo Mississippi per il primo minuto suonato solo da Burton, ma che si chiude con toni decisamente più forti, pur mantenendo lo stesso carattere ombroso. Il finale è lasciato a un altro intenso slow che offre nuovamente spazi di apprezzamento per le qualità del cantante/chitarrista, che si trova decisamente a proprio agio in spazi così dilatati e che certamente non sente i suoi 60 anni, se non nella maturità stilistica che lo contraddistingue. Luca Zaninello
The Delta Saints
THE DELTA SAINTS DixieFrog 8712 (F)-2011-
A Bird Called Angola / Good In
White / Company of Thieves / Steppin’ / Momma / Pray On / Voodoo Walk / Callin’ Me Home / Swamp Groove / 3,000 Miles / Train Song.
Entriamo in possesso di questo CD dei “Santi del Delta” proprio mentre, sul loro sito, è annunciata la prossima uscita di un nuovo lavoro con tanto di DVD allegato. Quello di cui sto scrivendo adesso invece è un dischetto autoprodotto ristampato e distribuito in Europa dalla DixieFrog. I The Delta Saints sono un quintetto proveniente da Nashville, si dicono ispirati dal southern soul e definiscono la loro musica un “bayou rock” nel quale le innervature blues sono molto evidenti. Questi elementi mi incuriosivano, perciò partivo con una sorta di pregiudizio positivo nei confronti della band. Devo confessare però che, dopo l’ascolto, sono sorte alcune perplessità. L’attacco di “Bird Called Angola” in realtà è potente e cattura sin dai primi riff rabbiosi di dobro, chitarra e armonica: risalta subito la somiglianza con la “Shake’em On Down” di Fred Mc Dowell, che ha certamente ispirato i Saints. Però, purtroppo, risalta anche quello che a mio parere sarà il tallone d’achille dell’album: la voce di Ben Ringel, che canta bene ma è dotato di una tonalità “bianca” un filo troppo alta e pulita, nonostante gli encomiabili sforzi che fa per abbruttirla e per sporcarla. Infatti la parte vocale “viene fuori” in modo più naturale, ahimè, nei pezzi in cui i Delta Saints propongono un rock duro un po’ fuori contesto e non troppo originale, come in “Good In White” o in “Voodoo Walk”. Le cose girano molto meglio nel rock-bluesswamp lento e cadenzato di “Momma” o nella notturna “Pray On”, con un ottimo gioco in soffusa rincorsa di chitarra, percussioni e armonica. Peccato per la voce che non riesce a scurire il tutto - come sarebbe stato opportuno in un’atmosfera così crepuscolare. Fra le cose migliori segnalo anche l’acustica “3.000 Miles” e la scatenata “Train Song”. Di certo questi ragazzi hanno talento e il dischetto offre più di un buon momento, ma nella loro proposta musicale ci sono ancora alcune cose da registrare, perché quando suonano hard rock escono dal seminato e non convincono più di tanto. Quando invece virano opportunamente verso il bayou blues-rock hanno un sound coinvolgente e rugginoso. Servirebbe però qualche accorgimento per rendere più profonda e piena la parte vocale: per esempio, cantando qualche brano nel microfono dell’armonica, o cercando una seconda voce che faccia da complemento a quella di Ringel. Paolo Cagnoni
Out Of The Dark
SHARRIE WILLIAMS Electro-Fi 3426 (CDN)-2011-
Can’t Nobody / City Limit Musician / Out Of The Dark / What’s Wrong With You / Need More Money / Although Sing The Blues / Prodigal Son / Gone Too Long / Gatekeepers / What Kind Of Man / Breakin’ Out / Choices / My Old Piano / R.I.P.
Si avvale di una formula easy, la cantante del Michigan, erede di certo qual blues al femminile che nonostante l’interpretazione, si dipinge di toni a volte un po’ di maniera. Si muove allora nei dintorni del soul questo “Out Of The Dark”, che è anche una title-track presa a prestito da Walter “Wolfman” Washington, e più di una dozzina di altri brani autografi un po’ orientati al pop. Sfumature di un facile ascolto, che rendono familiari i brani in questione anche a una prima “lettura” audio della lady al quarto album, dopo “I’m Here To Stay” e recenti problemi di salute. I riferimenti passano così da Billie Holiday a Koko Taylor, come non poteva essere altrimenti per questa blues-femme spesso di stanza in Europa, e in questo disco accompagnata poi dal buon lavoro chitarristico di Lars Kutschke, che è anche coautore di alcune delle tracce in questione. E “Gatekeepers”, per esempio, con l’energica “Prodigal Song”, è tra le più rhythm & blues dell’ensemble, cui si aggiungono altri richiami invece esclusivamente più blues sul finale, come “What Kind Of Man” o la sferzante “Breakin’ Out”, con la definitiva “R.I.P.”, dedicata a tutti gli addetti ai lavori che hanno spianato la via della musica nera. Il resto viene piuttosto ammorbidito con ripuliture di arrangiamenti cristallini, echi funk e danzerecci, che passano dal terzetto d’apertura (“Can’t Nobody”, “City Limit Musicians” o la stessa title-track), fino alla retorica un po’ mielosa di “Gone Too Long” o di “Choices”, comunque esecutivamente impeccabili. Ma la song più azzeccata, quanto all’assaggio introduttivo da un contesto ove la Williams si riveli invero portavoce di una tradizione, è nella “My Old Piano” dagli echi di vaudeville o grammofono, e un ricordo in bianco nero di blues classico al femminile (che poi
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sfronda in un più scontato rock’n’roll, ma questa è un’altra storia…). Matteo Fratti
One Man Blues
TINY LEGS TIM TLT Productions 001 (B)-2011-
Something’s Burning / Ocean / The Happiest Man In Town / Standing At The Crossroad / Easy To Catch As A Fool / A Little Bit Of Lovin’ / Poor Boy / One Step At A Time / Everybody’s Drinking / I Believe / Evil / Ramblin’ On My Mind / Hardcore Blues / Roadtrip Part 1.
Il primo aggettivo che ci viene in mente aprendo questo CD e quindi ascoltandone la musica è “essenzialità”: Tiny Legs Tim è il nome adottato dal musicista belga Tim De Graeve, nato anagraficamente nel 1978, ma che affonda le sue radici musicali almeno mezzo secolo prima e certamente non nelle fredde Fiandre ma nel Delta del Mississippi. A un’occhiata superficiale tutto è molto scarno, dalla copertina nera su sfondo blu (dove il testo risulta quasi illeggibile) alle stringate note interne fino allo stesso sito internet dell’autore, praticamente vuoto; l’ascolto dell’album poi conferma che il nostro si avvale solo della sua chitarra e voce. Il disco si apre con un blues molto cadenzato nel quale Tim usa la pennata della mano destra sulle sei corde con una modalità che
definiremmo “percussiva”, una caratteristica che ritroviamo anche nel brano seguente e in altri successivamente. “The Happiest Man In Town” si caratterizza per il suo incedere ipnotico, mentre “Easy To Catch As A Fool” è una ballata triste, dove le note della chitarra sottolineano il lamento della voce. “A Little Bit Of Lovin’” è decisamente più allegro, introdotto dall’armonica che Tim riprende per sviluppare poi l’assolo centrale, così come il successivo “Poor Boy” si sviluppa su un fraseggio di fingerpicking. Arrivati però a metà dell’ascolto dobbiamo rilevare un limite che verrà poi confermato dagli altri pezzi: il suono della chitarra è a nostro avviso troppo monocorde, nel senso che in 14 composizioni il nostro non si è posto la briga di inserire un effetto o di offrire una qualche variazione alle sonorità proposte. C’è qualche rara eccezione come nella cavalcata di “I Believe” che offre una seppur minima variazione, come nella rilettura di “Ramblin’ On My Mind”, l’unica cover presente in questo lavoro; per il resto c’è una grande abbondanza di uso della slide e a nostro avviso alcuni passaggi sono un po’ troppo ripetitivi, tanto che talvolta non ci si accorge neppure che si è passati all’ascolto del brano successivo, avendo mantenuto lo stesso accordo di base. Purtroppo il limite di questi one man blues è nella monotonia, che si annida dietro l’angolo e anche per il giovane musicista belga dobbiamo rilevare un po’ di luci e di ombre in questo album d’esordio. Luca Zaninello Chi desidera sottoporre CD DVD da recensire è pregato di inviarli, possibilmente in duplice copia, a IL BLUES - Rubrica Recensioni - Viale Tunisia, 15 - 20124 Milano. Si prega di non inviare ai singoli recensori materiale destinato alla recensione su “IL BLUES”.
Playing My Game Too
BREEZY
Autoprodotto (USA)-2011-
You’re Gonna Leave Me / 24 Days Later / Cheating On You / Why Did You Go? / Lost For You Darling / Going Back To Alabama / My Tears Can’t Bring Her Back / Palying My Game Too / My Poor Heart Cries / Marilipes.
Dietro al soprannome “Breezy”, si cela un chitarrista/cantante di Roma, Fabrizio Roda, che sette anni fa dopo l’apprendistato in varie formazioni rock/blues della sua città, decide di trasferirsi negli Stati Uniti per prendere il “patentino” di bluesman. Prima tappa New York, dove nel giro di un anno suona nei locali del Lower East Side e del Greenwich Village con un gruppo di nome Inventing Eve. Ma è Chicago la meta, dove arriva nel 2007 e da lì a pochi mesi incontra il bluesman Linsey Alexander, con il quale inizierà una fitta collaborazione dal vivo (divenendo in seguito il suo band leader) in giro per gli Stati Uniti, con apparizioni nei più importanti Blues Festival. Nell’estate del 2010 Breezy partecipa alle registrazioni dell’anziano bluesman per il CD “If You Ain’t Got It”, e nel gennaio di quest’anno la Linsey Alexander Blues Band firma con la Delmark per un nuovo CD con Buddy Guy in veste di ospite.
Non da oggi, la scena blues di Chicago ha sempre accolto e considerato i musicisti venuti da fuori che vogliono vivere e suonare lì, italiani compresi, ricordiamo l’esperienza di Nick Becattini che divenne il chitarrista della Son Seals Blues Band e di Tony Mangiullo, proprietario di uno dei più famosi club di blues, il “Rosa’s”. Breezy al momento è l’unico europeo che suona a tempo pieno nella Windy City e non c’è bluesman o blueswoman che non ha accompagnato. Ed è con qualcuno di loro, più una sezione fiati, che ha voluto condividere la soddisfazione del suo primo lavoro solista che non dà una spinta innovativa al Chicago Blues, ma in cui piuttosto prova con sincera passione a ripercorrere in un contesto attuale i tradizionali passi, dove va sottolineato quanto la sua personalità di chitarrista non è mai preminente, ma equilibrata e funzionale ad un condizione stilistica che, però, sulla distanza non è esente da una certa ripetitività. Fra i dieci pezzi segnaliamo l’iniziale, “You’re Gonna Leave Me” dalla classica forma medio lenta, con armonica (Quique Gomez) e piano (Marty Sammon), per poi divenire scattante con i fiati e accompagnamento vocale. Anche nella successiva “24 Days Later”, Breezy cambia in corsa, ma qui poco convince passare dal tempo slow, con Linsey Alexander al canto, a quello più veloce con il chitarrista italiano che si posiziona anche davanti al microfono. In “Why Did You Go”, altro classico tempo medio, Rockin Johnny suona la chitarra e Lurrie Bell ha una parte solo al canto, mentre in “Playing My Game Too”, sempre Bell, dà un bel contributo con la chitarra. C’è anche l’elegante Bob Stroger in “Going Back To Alabama” e il chitarrista Guy King nella calma strumentale “Marilipes”. Silvano Brambilla
Via Galimberti, 37 - 13900 Biella (BI) - 쎰 (015) 405395 Fax 8493901 e-mail: papermoon@papmoon.com - sito web www.papmoon.com il Blues - N. 119 - Giugno 2012
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antologie & ristampe r&b “Tighten Up Your Own Thing”, la cadenzata “W.o.m.a.n” e le personalizzazioni di “I Found A Love” (Wilson Pickett) e “Tell It Like It Is” (Aaron Neville). Che ristampa! Silvano Brambilla
EDDIE CUSIC
Leland Mississippi Blues
ETTA JAMES
ARTISTI VARÎ
Wolf 120.934 (A)-2012-
Losers Weepers
Lo ricordavamo nel 2005 a Greenville sul palco del Mississippi Delta & Heritage Festival quando, in completa solitudine durante il suo breve set (reso ancora più breve dal nostro ritardo nell’arrivo), ci era apparso penalizzato ulteriormente dal caldo dell’ora di pranzo, al punto che l’odore del cibo ed il rumore delle mandibole in funzione ne sovrastavano sia il canto che il suono della chitarra acustica. Meno male che la Wolf, ristampando “I Want To Boogie” (Hightone 1005, “Il Blues” n.65), realizzato da Matthew Block ed aggiungendovi il brano “Gonna Loose A Good Man” presente nell’antologia “From Mississippi To Chicago” (Hightone 1008, “Il Blues” n.67), ha ridato spazio a questo elusivo bluesman mississippiano. Infatti, sino al 1998, Eddie poteva contare unicamente su tre tracce pubblicate, di cui due per merito dell’etichetta italiana Albatros e di Gianni Marcucci (“Mississippi Delta & South Tennessee Blues” Alb 8387 e “I Got The Blues This Morning” Alb 8461), ed il restante in “Living Country Blues Vol.2” (L+R 42.032). Cusic, oltre a confermarsi artista in cui l’idioma blues ha trovato il giusto equilibrio tra voce e chitarra, abolendo le forzature effettistiche, lascia intuire quanto valore assumano brani che conosciamo quasi esclusivamente nelle versioni elettriche, “Hoochie Coochie Man”, “You Don’t Love Me”, “Big Boss Man”, “You Don’t Have To Go”, “Good Morning Little School Girl”, allorché vengono ricondotti alla dimensione acustica riacquistando quella semplicità originaria che l’urbanizzazione aveva abilmente mascherato. Ma di lui piacciono anche “Reconsider Baby” di Fulson ed i due traditional “Catfish Blues” e “Little Angel Child”, entrambi rivisitati in perfetto stile downhome . Bentornato Mr. Cusic. Marino Grandi
Kent 361 (GB)-2011-
Questa non è già una ristampa postuma di Etta James, perché fa parte di una operazione di reintroduzione di suo materiale nel mercato discografico avviata sul finire dell’anno scorso. Col senno di poi, l’iniziativa per mano della Kent non era probabilmente casuale. La notizia di abbandonare la vita artistica per l’aggravarsi dello stato di salute della James era un dato di fatto e dunque, come è consuetudine nella totalità della musica, il business discografico si fa trovare pronto. Il disco in questione uscì per la Chess nel 1970, in un momento per lei molto tormentato per seri problemi di droga, al punto che se mise in discussione anche la sua dignità, non piegò la sua forza nel voler continuare a cantare il soul come il blues e il r&b, generi, questi, che stavano per essere messi ai margini dalla nascente discomusic, della quale Etta James si è sempre tenuta lontana nonostante le garantisse prospettive di rilancio. La ripubblicazione in questione è composta dalle undici tracce originali dell’omonimo album Cadet 347, a cui sono state aggiunte undici bonus tracks provenienti sempre da registrazioni effettuate nei primi anni Settanta. Non c’è bisogno di sottolineare quanto anche queste sue interpretazioni siano di alto livello, e mai messe in discussione neanche quando gli arrangiamenti sono più estesi, perché il suo canto era irruente e rabbioso, quanto intenso e avvolgente e perché quei tratti stilistici della musica nera erano per lei fonte di riscatto da una vita disordinata, ma artisticamente sempre intransigente. Il r&b più resistente di “Take Out Some Insurance” apre la scaletta che compone originariamente “Losers Weepers”. Di seguito, se l’atmosfera si fa raffinata nel blues lento di “I Got It Bad And That Ain’t Good”, lei al canto è superba nel mantenere le sue peculiarità, che illumina nelle soul ballad come la title track e in “Hold Back My Tears”. Tra le bonus tracks c’è uno dei suoi successi, l’ottimo “The Love Of My Man”, il pugnace
Ace (Top2-1309)-GB-2CD-
La Ace inglese, specializzata in operazioni del genere, ha editato due dischetti dedicati all’etichetta Flash di Los Angeles, contenenti 60 brani di blues, doo-wop, r&b, jive e chacha-cha (!). Creata da Charlie “Flash” Reynolds nel proprio locale, un negozio di dischi al 623 di East Vernon Avenue nel sud della città, la Flash pubblicò, tra il 1955 ed il 1959, una trentina di singoli contenuti nell’antologia, insieme a 5 inediti. Scorrendo il primo compact, senza dubbio il 45 giri migliore è quello del bluesman Sidney Maiden; al frizzante blues di “Hurry, Hurry, Baby”, dove spicca l’armonica del nostro, si contrapppone il graffiante e corrosivo slow di “Everything Is Wrong”. A ruota troviamo altri due interpreti della musica del diavolo, B Brown con i suoi McVouts e Haskell Sadler: il primo ci offre l’ottimo chitarrismo boogie di “Good Woman Blues” e l’elegante “Mambo For Dances”, mentre il secondo ci porta uno shuffle innervato dall’armonica, “Gone For Good” e l’intimista slow di “Do Right Mind”. Il settimo brano “Counting My Teardrops” ci consegna i datati The Jayhawks, gruppo di doo-wop, e sulla stessa linea troviamo anche gli Emanon “4”; non male, al contrario, la voce di Sheryl Crowley con il suo jazz-blues stile Charles Brown (“Just A Night Girl” e “It Ain’t To Play With!”), via solcata anche dall’honker Maurice Simons con “Flashy” e da Gus Jenkins con “You Told Me”. Il secondo CD apre con il boogie (“Mr.Boogie”) di Judge Davis e, tra gli altri, ci propone il valido jump di Mamie Jenkins dal titolo “Jump With Me Baby” e, con il cognome del marito Perry, le avvolgenti ballate di “I’m Hurted” e “My Baby Waited Too Long”. E poi, tra i brani dei gruppi The Hornets, The Poets, The Cubans e gli Arrows, assai commerciali, spicca il valente blues ossessivo del chitarrista elettrico Frank Patt nel mid-tempo ipnotico (ricorda il sound della Fat Possum) delle 2 par-
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The Flash Records Story
Back To Bentonia - 5th Anniversary Deluxe Edition
JIMMY “DUCK” HOLMES Broke & Hungry 13009 (USA)-2011-
D’accordo, cinque anni sono forse pochi per festeggiare la nascita della propria etichetta con una “Deluxe Edition”. Ma Jeff Konkel, il poliedrico (visto anche il suo impegno nel campo della produzione di documentari tra cui il premiato, giustamente, “ M For Mississippi” ed il neonato “We Juke Up In Here!”) proprietario, ha voluto ricordare il primo lustro di vita della sua creatura ricuperando l’album d’esordio sia suo come discografico che di Jimmy “Duck” Holmes quale interprete, quest’ultimo noto più che altro sino ad allora quale proprietario del Blue Front Cafe a Bentonia, Mississippi. Che l’opera ci fosse piaciuta fu chiaro sin da allora (“Il Blues” n.95), per cui se la confezione cartonata è più curata dell’originale ed i quattro brani inediti possono tentare i completisti, diremmo che diventano quasi un obbligo all’acquisto per chi ne fosse ancora sprovvisto. Infatti, sottacendo sulle tracce già edite di cui parlammo a suo tempo, dobbiamo dire che le tracce inedite non sono i soliti fondi di magazzino uso riempitivo del minutaggio. Infatti “Whiskey And Women” e “Rambling On My Mind” sono due tempi medi realizzati dal duo HolmesSpires in perfetto stile casalingo (la seconda traccia più scandita), mentre “Everyday (Blues All Day Long)” ci consegna un Holmes che riscatta la solitudine con una interpretazione vocalmente e strumentalmente carica. Notevole la scarna rilettura di Key To The Highway”, dove Jimmy è accompagnato dal maestro dell’essenzialità alla batteria, ovvero il rimpianto Sam Carr che in queste situazioni andava a nozze. Marino Grandi
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ti di “I’m Your Slave”, con l’apporto del pianismo autorevole di Gus Jenkins. Patt si ripete, quindi, in “Just A Minute Baby”, dal fraseggio alla B.B.King e nel marcato e supplichevole “Don’t Have To Cry No More”. Uno sguardo curioso ed attento sulla realtà minore della città degli angeli. Fog
can Graffiti e la musica che ascoltavano e ballavano i giovani era messa in onda da quel fantomatico disc jokey, Lupo Solitario, e dall’autorevole Alan Freed, il quale nell’aprile del 1955 invitò nel suo show, insieme ad altri artisti neri, anche LaVern Baker. La sua apparizione fu un successo, che si tramutò ben presto in un ritorno nelle classifiche di vendita e nella sua prima tournèe fuori dagli Stati Uniti. Questa bella antologia è un importante tassello artistico di una vivace cantante, ma al tempo stesso è anche un pezzo di storia della musica neroamericana e un potente diffusore dei cambiamenti in atto negli anni Cinquanta. Silvano Brambilla
tra cui quella con Sarah McLachlan supera per intensità quella dell’autore stesso Paul Simon. Tra le tracce meno note eccellente l’africanità che pervade “Mbube” con Taj Mahal, “Schlabelela Hosana” con la profonda voce di Nana “Coyote” Motijoane e l’epilogo tutto al femminile di “Mamizolo” con le Women Of Mambazo. Un’opera che può aprire orizzonti musicali nuovi, ma le cui note interne avrebbero potuto, dovuto diremmo, fornire le fonti discografiche originali da cui sono stati attinti i vari brani che la compongono, permettendo in tal modo al probabile acquirente di procedere a futuri acquisti mirati. Marino Grandi
LADYSMITH BLACK MAMBAZO AND FRIENDS
EDDIE TAYLOR
Inakustik 9111 (D)-2012-2CD-
Abbiamo quasi sempre seguito Eddie Taylor Jr. nel corso del suo excursus musicale, nel quale però non riusciva mai completamente a staccarsi da una certa rigidità interpretativa che finiva, in tal modo, per dare origine a prodotti discografici similari. E questa raccolta non sfugge alla regola. Nemmeno i cinque pezzi inediti, temporalmente più vicini a noi, riescono a risollevare le sorti di un Chicago Blues da mezza sera, privo di mordente, condito da chitarre pulite, voce monocorde, accompagnamenti precisi. Infatti se, tra il materiale nuovo, la comunicativa sembra prendere quota in “Mistress Blues” e nello slow “So Called Friends”, tra le rimanenti dieci tracce già pubblicate meritano di essere ricordate la cover di “Goin’ Upside Your Head” di Jimmie Reed, anche per merito dell’armonica di Martin Lane, l’ascoltabile versione di “Easy Baby” di Magic Sam e “My Little Machine” di John Lee Sonny Boy Williamson, nuovamente grazie ad un armonicista in questo caso Harmonica Hinds. Chicago Blues musicalmente (s)confortante. O perlomeno che non fa per noi. Marino Grandi
LaVern+Rock & Roll
LAVERN BAKER
Hoodoo 263389 (GB)-2011-
Le fattezze di un cofanetto in un CD singolo. L’inglese Hoodoo ha raccolto due dischi di LaVern Baker, usciti per l’Atlantic nel 1956 e nel 1957, più quattro bonus tracks (sempre dello stesso periodo) per un totale di trenta pezzi, accompagnati da un libretto di sedici pagine con foto a colori e bianco e nero, copertine di dischi, locandine di suoi concerti, la lista dei musicisti delle varie session con luogo e date delle registrazioni e una biografia scritta da Gary Blailock. Certo, un vero cofanetto avrebbe ripercorso per intero la sua carriera discografica conclusasi nei primi anni Novanta (è scomparsa in un ospedale di New York il 10 marzo del 1997), ma il momento di maggior successo lo ha ottenuto proprio negli anni Cinquanta, perché rispetto alle sue titolate colleghe, Ruth Brown, Big Mama Thornton, Big Maybelle, Dinah Washington, aveva una multiforme inflessione stilistica: dinamica per il rock’n’roll, squillante per il r&b, intensa per il blues, raffinata per le ballad. Purtroppo però anche lei come la maggior parte degli artisti neri, ha sofferto la discriminazione delle radio che vietavano la messa in onda delle loro canzoni, preferendo trasmettere cantanti bianchi i quali imitavano e suonavano le cover dei suddetti artisti neri! Era l’America puritana, quella ancora fortemente razzista, quella del maccartismo, della caccia alle streghe, ma anche l’America di una nuova generazione che non ne voleva sapere di vincoli. Era infatti il periodo di Ameri-
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Ladysmith Black MambazoAnd Friends
E’ ovvio che ritornare sui Ladysmith Black Mambazo con questa antologia, in cui i Friends sono spesso molto più famosi di loro, dopo aver ascoltato il “Live At Montreux” (“Il Blues” n.94) e l’ancora più straordinario “Long Walk To Freedom” (“Il Blues” n.95) non può che farci sorridere. Soprattutto perché l’operazione commerciale sottesa finisce per trasformarsi in una elegia del gruppo sudafricano, che si dimostra in grado di togliere le ragnatele della consuetudine da brani che ne erano sepolti, ricollocando gli “amici” al ruolo di partner (addirittura non sempre indispensabili) anziché di star. Tra gli esempi lampanti di quanto detto possiamo ascrivere l’incredibile rilettura di “Ain’t No Sunshine”, le voci che si doppiano con quella di Emmylou Harris in “Amazing Grace/ Nearer My God To Thee”, la musicalità con cui sostengono Lou Rawls in “Chain Gang”, la trascinante ricostruzione live di “Sweet Low Sweet Chariot” con China Black, la riproposizione di “Homeless” in due versioni diverse
So Called Friends
Wolf 120.828 (A)-2012-
Smokin’ - The Solo Album: Vol. 5
SMOKEY ROBINSON
Hip-O-Select 0015492 (USA)-2011-
E’ indiscutibile che Smokey Robinson sia stato una delle figure più importanti nel definire lo stile e il successo della Motown, nei ruoli di autore, produttore e cantante, prima come leader dei Miracles e poi da solo. La sua discografia è sterminata, dal 1961 al 1990 ha inciso solo per l’etichetta di Detroit, che lasciò nel 1991 insoddisfatto dei cambiamenti in atto. La Hip-O-Select, specializzata in ristampe ha messo mano anche a del materiale di Smokey e questo, segnato come vol. 5, ma come i precedenti senza tralasciare il titolo originale, è il doppio live registrato con un ampio organico di musicisti al The Roxy di Hollywood nel 1978 e pubblicato dalla Motown lo stesso anno. Sappiamo che Smokey Robinson non fa parte di quella schiera di soulman di stampo sudista dallo stile fangoso e enfatico, il suo essere interprete del canto neroamericano ha una configurazione soul/pop con leggeri tratti di r&b dai contorni raffinati ma con evidenti segni di intensità. Questo live con tracce anche del periodo Miracles, è stato registrato in pieno fermento della disco music e se in qualche passaggio lo si nota per il clima che pervade negli adattamenti musicali, è comunque la qualità a prevalere pronunciata da una interpretazione vocale di classe come dimostrato nei momenti più intimi dalle atmosfere rarefatte: “The Tracks Of My Tears”, “The Agony And The Ecstasy” (qui Smokey è superbo), “Daylight And Darkness”, “Bad Girl / (You Can) Depend On Me”, “Ooo Baby Baby” e “Baby Come Close”. Di livello risulta anche “Quiet Storm” dove Smokey amplia le sue qualità vocali e i musicisti lo assecondano con un passo medio lento, che si evidenzia anche in “Madam X”, mentre nella celebre “The Tears Of A Clown” e “I Second That Emotion” c’è del r&b più contenuto stile Motown. Chiudiamo con “Vitamin U” carica di un stuzzicante clima soul. Un CD esaustivo sulla carriera di Smokey Robinson. Silvano Brambilla
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POLVERE DI STELLE
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i pregio è, certamente, il r&r di Fats Domino che troviamo in “The Imperial Singles /Volume 4/ 1959-1961”(Ace 1306); l’antologia (la quarta ed ultima di una serie comprendente i 45 giri Imperial dell’artista della Crescent City) debutta con lo splendido “I’m Ready”, seguito dagli effervescenti “I’m Gonna Be A Wheel Some Day” e “Be My Guest”. Eccellenti, tra gli altri, anche “Country Boy”, dal graffiante sassofono, e gli slow “If You Need Me”, ”Before I Grow Too Old” e “Walking To New Orleans”. Più serrati e coinvolgenti “My Girl Josephine” e “Ain’t That Just Like A Woman”, che anticipano la solare ballata di “What A Price”, mentre, poi, le composizioni del ’61 segnano una flessione compositiva. Tuttavia l’interessante “Let The Four Winds Blow” e la ritmata “Good Hearted Man” sono tutt’altro che da buttare. Molte delle sue canzoni Domino le compone in coppia con Dave Bartholomew ed a quest’ultimo ancora la Ace (1303) dedica una raccolta dei brani più conosciuti, dal titolo “The Big Beat - The Dave Bartholomew Songbook”. L’apertura è, infatti, costituita dal famoso ed elegante r&r “The Fat Man”, eseguito da Fats, e, quindi, scorrendo la scaletta, fermo restando che molti pezzi sono assai datati ed altri troppo fragili, segnaliamo dapprima il buon r&r di Smiley Lewis “Down The Road”, seguito dalla commerciale “My Ding-A-Ling” dello stesso Bartholomew e dalla levigata ballata “Valley Of Tears”di Buddy Holly. E’ la volta, poi, di Roy Brown, anche lui con un r&r leggerotto (“Let The Four Winds Blow”), così come Bobby Mitchell ed il relativo “I’m Gonna Be A Wheel Someday”. Non male, al contrario, il marcato r&b di “The Monkey”, vocalmente rappeggiato da Dave Barthelemew, seguito, però da un languido “Witchcraft” di Elvis Presley, ma da un interessante “Blue Monday” di Georgie Fame & The Blue Flame. Jerry Lee Lewis, a seguire, espone una frizzante “Hello Josephine”, mentre Brenda Lee da vita ad una solare e delicata “Walking To New Orleans”. Altri brani famosi portano il nome di “I’m In Love Again” di Tom Rush e di “Sick And Tired”, quest’ultimo dalle dondolanti volute reggae, scritto con il soulman Chris Kenner e ricamato dalla bella voce di Neville Grant. Di un certo spessore anche l’errebì “Grow
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Too Old” di Bobby Charles, e, quindi, si termina con “I Hear You Knocking”, altro r&b molto noto, di Dave Edmunds. Il chitarrista Paxton Norris, dal sud del Michigan, con il suo “Something’s Gotta Give” (Autoprodotto 2011) propone brani di un buon e misurato rock & blues, ma anche composizioni avvolte dal respiro del Detroit Sound. Tra i primi spiccano l’introduttiva titletrack, seguita da “Going To Pensacola”, “These Funking Blues” e l’effervescente “What You Talking Bout’Willis?”. Dal taglio soul, invece, si evidenziano il ritmato “Living Tight”, la cover dell’intrigante ballata “Love Light” già nel repertorio di Bobby Bland e lo slow suadente di “Your My Girl”. Da non tralasciare anche anche la rilettura di “My Credit Didn’t Go Through”, solare soul-blues a suo tempo
presenti, da non tralasciare il blues avvolgente e ritmato di “Six String Telephone” di Little Bobby & The Storm, con una pregevole armonica, probabilmente (il dischetto è completamente privo di note !...) di Glen Bowen. Ottimo anche il blues funkeggiante e graffiante alla Luther Allison di “I Came Here To Play” dei Deep Water Reunion, che ritroviamo, più avanti, nello slow incisivo e sermoneggiante di “Blind Dog Bite”. Da Tulsa, Oklahoma, il cantante-chitarrista Scott Ellison con l’ultimo lavoro “Walkin’Through The Fire” (JSE 21204), ripropone il suo valido errebì, talvolta dalle volute blues, alternato a brani dall’incedere più rockeggiante; il primo ha le sue migliori proposizioni in “Hits Like Dynamite”, “Big Big Love” e “The Man Who Shot Mustang Sally”, con tanto di sezione fiati, men-
condotto da Freddie King, bluesman di riferimento, insieme ad Albert King, nell’interessante stile chitarristico di Norris. Ogni anno, nel periodo estivo, si svolge a Fargo, la metropoli più popolosa del North Dakota, un festival blues e dell’edizione del 2006 (18 e 19 agosto) la Gweedo Records ci propone una rassegna degli artisti presenti in un compact dal titolo “Bootleggin’ The Blues - The 11th Annual Fargo Blues Festival” (43205) . Spicca subito agli occhi la presenza del grande Pinetop Perkins, che brilla con il suo serrato ed elegante pianismo nel vibrante tempo veloce di “Big Fat Mama”, supportato da una luccicante armonica. Di spessore è anche il blues corrosivo di “Under Pressure”, dall’incedere marcato e dalle venature rock, del valente Duwayne Burnside e la sua Mississippi Mafia. Tra i gli altri
tre il secondo meglio si estrinseca nella ficcanti “Sweet Thunder” e “Turn Out The Lights”, nella title-track e nella marcata “Trouble Times”. Trasferitosi da Boston a Parigi, il chitarrista e vocalist Peter Nathanson in questo lavoro in solitario “A Drinking Man’s Friend” (Mosaic Music 394952) esprime tutto il suo valore di artista acustico ed intimista. Il campo è assai più vasto di quanto sia unicamente il blues, per quanto il primo brano che ci viene incontro è un tema tipico dei bluesmen, “Drunk Women, Good Whiskey And Beer”, con a ruota il brillante “My Sweet Love Ain’t Around” ed il pulsante “I’ve Been Wronged”. Si prosegue, quindi, con il canto disperato di “You Killed The Love In Me” e la cover splendida e suadente di “Come On Into My Kitchen” del leggendario Robert Johnson, e la lirica scansione della ballata “Dee Baby”. Qual-
che numero di catalogo precedente (394942) e troviamo “The Best Of: Peter Nathanson”, che comprende composizioni tratte dai 4 album precedenti: “Houdoo Guru” (2001), “Riviera Rose” (2003), “Urban Blues”(2007) e “Under The Acid Sky” (1998). Il sound elettrico presenta, a tratti, minor intensità, anche se “Swamp Kind” è un blues dall’incedere incisivo, “Doreen” un veloce e scolpito r&b e “Singing And Playing The Blues” un tempo eccitante con la sua energica armonica. Lo stesso strumento permea anche il blues di Chicago di “Houdoo Guru”, mentre l’incedere funky sostiene “Walking Blues” ed infine più pacato e dalle venature rock sudiste si presenta il lento “Blues For You”. La chiusura di questo interessante e valido compact è appannaggio di un rock-blues alla Hendrix dal titolo “Not The Right Time”. Da Barcellona Blas Picòn & The Junk Express ci propongono l’ultimo lavoro con il solo nome della band (Autoprodotto 31175-2011); il leader (voce ed armonica) conduce la sua band, che annovera anche la valida chitarra di Oscar Rabadàn, sui sentieri di un blues brillante che fa riferimento al Chicago Style. Un gradino sopra gli altri, peraltro di buona fattura, si evidenziano il vigoroso tempo lento di “Low-Life Paradox Blues” ed il vibrante ritmo di “Driftin’With The Flow” e “Ain’t Gonna Cry”, mentre il sassofono del Mississippi ricama l’incedere effervescente di “My Heart Is Shy” e di “The Junk Express”. Una compilation riguardante i primi album della soul-woman Joss Stone (“The Best Of Joss Stone 20032009”) è stata pubblicata dalla Virgin/Emi (71046-26): il sound, a parte l’ottimo primo album di covers di classici soul “The Soul Sessions”, manifesta un incedere dai tratti pop e da juke-box. Dell’album appena citato si evidenziano “Fell In Love With A Boy” e “Super Duper Love”, rispettivamente uno slow marcato dalle coloriture funky ed una solare ballata; da “Mind ,Body & Soul”, viene tratto ancora il soul avvolgente e lirico di “Right To Be Wrong” (vedi Polvere di Stelle del n.94), mentre l’errebì funkeggiante di “Tell Me ‘Bout It” proviene dal dischetto “Introducing …Joss Stone”. Fog
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12-19.08.2012
• Lucky Peterson Band feat. Tamara Peterson (USA) • Tom Principato & Fred Chapellier Blues Band (USA/FR) • Drew Davies & Rhythm Combo (FR/GB) • Jethro Tull’s Mick Abrahams (GB) • Silvan Zingg Trio feat. Mike Sanchez (CH/GB) • Todd Sharpville Band (GB) • Ronnie Jones Big Band (USA/I) • • • • • •
Red Hot Blues Sisters (CAN) Egidio Juke Ingala & The Jacknives Delta Mojo Blues duo (CH) James Thompson Project (USA/I) The Red Wine Serenaders (I) Diatriba (I)
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DVD
Walkin’ Man
SEASICK STEVE Rhino 825646634026 (GB)-2011CD+DVDQuando hai seguito con attenzione un artista, ti eviti tranquillamente l’acquisto di un suo “The Best”, raccolta talvolta superflua. Per Seasick Steve, musicista apprezzato sin dalle sue prime incisioni (“Il Blues” n. 100, 101), allora aveva sessant’anni, per festeggiare i suoi primi dieci anni di produzione è stata pubblicata una raccolta, inutile nella sua veste singola più appetibile, troppo facile cascarci, nel formato noto come de luxe. Il doppio invece, oltre a ripercorrere con una selezione dei suoi migliori brani editi, ventuno brani per quasi ottanta minuti di musica, presenta un DVD ad alta presa emotiva, “Live At Brixton 02 Academy”. E’ pur vero che siamo abituati alle brizzolate performance di B.B. King e, permettetemelo, di gente come Leonard Cohen, ma veder all’opera Seasick Steve, all’anagrafe Steve Would classe 1941, si corre il rischio di restare incollati allo schermo privandoci di ogni distrazione. Energia e potenza pervadono questo ormai settantenne, perché solo così si può esprimere un suono che sa di J.L.Hooker e R.L. Burnside, ma che è noto a questo punto come quello di
Seasick Steve. Un ritratto ci sembra doveroso, dopo dieci anni di produzione che lo hanno portato dalle strade, anche le più sudice d’America ai più blasonati festival targati Gran Bretagna. Nel Regno Unito ha ritrovato amore, dignità e una professionalità, lieto fine di una storia travagliata, fatta di tarde soddisfazioni discografiche, giunte solo dopo sei anni dalla suo debutto nel 2001 con i The Level Devils, l’album “Cheap” poi ristampato solo cinque anni più tardi (“Il Blues” n.101). In seguito a una tormentata infanzia in conflitto con un patrigno subentrato al padre, pianista di boogie woogie, quando aveva appena quattro anni, all’età di tredici anni ha lasciato casa per evitare di ucciderlo. Steve Wold si è ritrovato da adolescente a fiorire tra lavoretti casuali e suonando il suo blues utilizzando chitarre cheap comprate per pochi dollari. Chitarre che utilizza tuttora, un esempio emblematico a cui viene associato è la Three-String Trance Wonder, una sorta di rottame rosso che assomiglia ad una Fender Coronado o a una Teisco Ep-7, ridotta a tre corde con un vecchio pickup Harmony attaccato con lo scotch, una semiacustica utilizzata con un’ampli Roland Cube a transistor. Secondo i suoi racconti fu comprata per 75 dollari a Como, Mississippi, da un tipo di nome Sherman, che poi gli riferì che l’aveva acquistata a 25 dollari il giorno prima. Da quel giorno, Steve Wold suonò quella chitarra senza aggiungere nulla al suo suono e soprattutto all’accordatura basata sulle tre corde originali. Nel DVD è possibile vederlo in azione anche con la One Stringed, scatoletta artigianale guidata da una sola corda strapazzata con un bottleneck (sovente rappresentato da un cacciavite) e creata per lui da James “Super
L’inserzione sopra riportata costituisce un servizio senza corrispettivo, ai sensi dell’art. 3, primo comma, del DPR 26/10/72 n. 633
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Chikan” Johnson, ammiratela nella rovente versione di “Diddley Bo”. Nel video si può ammirare anche una piccola scatola di legno dove batte il piede, stomp box, abbellita con la targa di una moto del Mississippi. Dopo tanto girovagare, arriva poi in Norvegia e corona un amore importante con un matrimonio, lei si chiama Elisabeth (donna a cui è dedicato anche un EP “Songs for Elisabeth” - Atlantic Records, Rykodisc 2010 5051865763123, una raccolta di editi). Poco dopo sopraggiungerà un infarto che interromperà la sua attività musicale. Sollecitato proprio dalla moglie, Steve torna in pista incidendo il suo primo album da solista “Dog House Music” (“Il Blues” n.100) e iniziando ad accogliere inviti tra festival e apparizioni televisive (sintomatica la partecipazione al Jools Holland’s Hootenanny Show, che raccoglie consensi e apre le porte ad un successo imprevisto). Inizialmente preferisce esibirsi in perfetta solitudine sfoderando con onore la sua tre corde. Ama suonare da solo, per sentirsi libero, per il piacere di improvvisare con il pubblico e intraprendere cambi di ritmo sporadici. Le prime immagini del DVD infatti lo ritraggono nella sua entità piena e libera, con l’interpretazione solitaria di “Man From Another Time”, potrebbe bastare vederlo da solo, ma non è così. All’incantatore d’età si aggiunge alla batteria Dan Magnusson (già con i Level Devils), che potenzia la dose e il decollo del concerto, da vedere “Big Green And Yeller” (da notare i piatti di Magnusson completamente usurati), situazione che raggiunge l’apoteosi nella successiva “Happy To Have A Job”, tra Dan e Steve c’è una sintonia perfetta. Il palco si affollerà con la presenza occasionale del figlio Paul Martin Wold (washboard e chitarra) e del contrabbasso guidato dalla bella Amy La Vere, interprete emozionata di “Never Been Sadder”, cavalcata rock blues tratta da un suo album “This World Is Not My Home”, seguita sul finale dalla versione, già edita su CD, della cover di Hank Williams di “I’m So Lonesome I Could Cry”. Tra le sedici tracce ritroviamo momenti più romantici come “Walkin’ Man”, e più tirati come “Ghiggers”, pura energia, o “Cut My Wings”, dove l’utilizzo della tre corde trasmettono senza esitare piacevoli formicolii a fior di pelle. Il video, che presenta anche un corto di trenta minuti, “Bringing It All Back Home” in cui Steve Seasick ripercorre luoghi e situazioni del suo passato, è dedicato alla memoria di Charlie Gillett, storico giornalista del rock inglese, autore del libro “The Sound Of The City” e dj di Radio Londra con la trasmissione “Honky Tonk”, scomparso l’anno scorso. Antonio Avalle
Live At The Royal Albert Hall 2011
B.B. KING
Shout! 06002527958354 (USA)2012-CD+DVD-
Aderendo totalmente alla legge del contrappasso, dopo il primo DVD di Seasick Steve non potevamo che presentarvi l’ultimo di B.B.King. Non desideriamo, con questa scelta, inscenare paragoni improponibili, ma solo farvi vivere, visivamente, dimensioni diverse. Il vecchio re è stanco, e chi non lo sarebbe ad 86 anni, al punto che il repertorio è ridotto ad un ripasso essenziale di una carriera ultrasessantennale e condito da ampie pause discorsive. Non ha bisogno di pubblicare nuovi dischi (il centinaio alle spalle lo ha già consegnato alla storia), ma la voglia di suonare e la capacità di essere felice sul palco non l’hanno ancora abbandonato. Ed è dietro questa fiammella, inestinguibile per ora, che va visto il concerto a Londra del 28 giugno scorso alla Royal Albert Hall qui presente. Che poi le esigenze di mercato o meno gli affianchino gli ospiti di turno (Derek Trucks, Susan Tedeschi, Ron Wood, Slash, Mick Hucknall), crediamo che in fin dei conti costoro altro non abbiano fatto che essere l’omaggio meritato all’ultimo monarca del Blues, non spostando più di tanto il numero dei presenti. Musicalmente parlando impossibile non citare la sua personale versione di “Key To The Highway”, la sua voce potente quando intona “See That My Grave Is Kept Clean”, poi la “Rock Me Baby” con Trucks e signora (eccellente la prestazione vocale della Tedeschi in tutto lo show, mentre il marito ci è parso troppo impegnato a dimostrare la sua bravura), l’eterna “The Thrill Is Gone”, mentre troppo lunga la “B.B. Jams With Guest” e lo scontato finale affidato a “When The Saints Go Marching In”. Il video, che si conclude con le interviste a tutti i protagonisti della serata, è principalmente indicato ai neofiti ed ai completisti, in quanto potrebbe essere per i primi la chiave di volta che può indurli ad un viaggio a ritroso nel tempo e scoprire il Re, magari anche solo discograficamente, al massimo del fulgore. Marino Grandi
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Sweet Home Alabama opo la città di Memphis, adagiata sul Grande Fiume, con la fertile regione del Delta del Mississippi, e Chicago, la metropoli sul lago Michigan, il nostro occhio si sofferma sul soul ed il blues, provenienti da quello che fu lo Stato della prima capitale della Confederazione Sudista e cioè l’Alabama. A Montgomery venne, infatti, eletto, il 18 febbraio del 1861, il primo Presidente dell’Unione nella persona di Jefferson Davis e qui venne edificata la prima White House al 644 di Washington Avenue e sempre da qui partì l’ordine di fare fuoco su Fort Summer, episodio cruciale che diede il via alla Guerra Civile tra Nordisti e Sudisti. Sempre in questa stessa città, molti anni dopo, nel 1955, il paladino della libertà della gente di colore, il pastore protestante di una chiesa battista, il Dr. Martin Luther King organizzò un boicottaggio dei bus cittadini, che segnò un momento fondamentale della lotta pacifica per l’uguaglianza della razza. La scintilla che aveva scatenato la protesta era stato il famosissimo episodio di Rosa Parks, alla quale era stato negato di rimanere seduta in un posto riservato ai bianchi. Sempre nell’ambito della rivolta nera, rimane negli annali, purtroppo, anche la marcia di protesta da Selma a Montgomery del 1965, bloccata dalla polizia con molti feriti ed un morto (n.d.r. “Bloody Sunday”). A livello musicale, la zona dell’Alabama è certamente inferiore a quella del Mississippi e della Windy City, ma ciò non ci impedirà di intrufolarci, grazie alla biografia dell’Otis Redding bianco, Eddie Hinton, redatta da Silvano Brambilla, profondo conoscitore di blues, soul e gospel, e di rovistare tra le incisioni della leggendaria casa discografica FAME. Infine, dopo questa iniezione di storia, chiuderemo la nostra incursione in Alabama con l’attualità, e lo faremo attraverso le recensioni dei prodotti discografici, che più diversi non si può, di Debbie Bond, SharBaby e di Microwave Dave.
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La prima Casa Bianca della Confederazione (Montgomery, foto Davide Grandi)
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Down in Alabama Il soul degli Studios di Muscle Shoals
la fine degli anni Cinquanta, quando tre amici di Florence, Alabama, amanti del r&b e della musica nera, e musicisti in un gruppetto chiamato Fairlanes, dove canta un certo Dan Penn, decidono di creare uno studio di registrazione per dare sfogo alla loro passione: Tom Stafford, Rick Hall e Bill Sherrill, questi i loro nomi, creano un laboratorio musicale in un appartamento al primo piano di un palazzo che ospita, al piano strada, un drugstore di proprietà del padre di Stafford. Fondano, quindi, la FAME (Florence Alabama Music Enterprise), ma, ben presto, Rick Hall diventa unico titolare, e si sposta, nel 1960, nella vicina Muscle Shoals, sempre in un locale piano terra ad uso commerciale. La compilation editata dalla Ace con il titolo “The FAME Studios Story - 1961-1973 / Home Of The Muscle Shoals Sound” (Ace /Kentbox 12) ci racconta il glorioso percorso dell’etichetta in questo eccellente cofanetto composto da 3 compact ed 84 pagine di note, foto e discografia. Il primo CD, “Steal Away”, prende il nome dall’omonimo brano svolto (nel 1964) dall’elegante soulman Jimmy Hughes ed è un’eccellente soul-ballad, magistralmente condotta dal falsetto pregevole e southern dell’autore. L’incipit risale, tuttavia, all’anno 1961, allorché venne organizzata una seduta con il cantante Arthur Alexander, dove venne registrata la delicata ballata country-soul “You Better Move On”, che ebbe un ottimo riscontro di pubblico e che verrà, anche, ripresa molti anni dopo da Willy De Ville. Nello stesso periodo accanto a Hall troviamo il già citato Dan Penn, che è anche compositore, e Quin Ivy, dj di una stazione radio di Sheffield, che iniziano a prestare la loro collaborazione, e nel ’63 gli studi si spostano al 603 di East Avalon Avenue ed in quel tempo la house-band è composta da Jimmy Johnson alla chitarra, Junior Lowe al basso, Spooner Oldham alle tastiere e Roger Hawkins alla batteria. Ma è con il suo gruppo che mirabile, fastoso e lirico, emerge lo slow “Hold What You’ve Got”, che diede inizio alla trionfale carriera di Joe Tex, e prima di lui si evidenziano il frizzante country di “Let Them Talk” di Penn ed e a seguire il serrato e ribollente (inedito) errebì, con pregevole assolo di sax, di “A Man Is A Mean, Mean Thing” della brillante soul-woman Barbara Perry. I tempi veloci proseguono, quindi, con continuità in “Fortune Teller” dei The Del-Rays, in “Funny Style” di Bobby Marchan ed in “Almost Per-
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FAME Studios
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suaded” di June Conquest. E’ la volta, quindi, della ballata “Let’s Do It Over”, eseguita magistralmente da Joe Simon, che era stato indicato, all’epoca, come il successore del grande Otis Redding. Simon registra nel 1965, lo stesso anno nel quale Quin Ivy, con il benestare di Rick Hall, apre i Quinvy Studios nella vicina Sheffield dove nascerà la mitica “When A Man Loves A Woman” per Percy Sledge. Molti artisti, alla luce del successo di Sledge, convergono a Muscle Shoals e così troviamo il pupillo di Redding, Arthur Conley, presente nel compact con l’incalzante r&b di “I Can’t Stop (No,No,No)”. Quindi, tra gli altri, segue il fulminante e corrosivo “Land Of 1000 Dances” del grande Wilson Pickett, che atterra in Alabama, proveniente dalla Grande Mela, accompagnato dal vice-presidente dell’Atlantic Jerry Wexler, anch’egli stupito ed incuriosito per quello che accadeva, musicalmente, nella zona. Siamo intanto arrivati al 1966, ed i brani del secondo compact sono compresi tra quell’anno ed il 1968. Il titolo del dischetto è “Slippin’Around” dal colorito e vivace r&b di Art Freeman, ma, in realtà, si parte con il botto e cioè il mirabile e lirico demo country-soul di “You Left The Water Running” di Otis Redding, che il georgiano incise unicamente su 45 giri (ma oggi lo si può trovare nel cofanetto “Otis!” della Rhino/Atlantic) e che costituisce l’unica sua registrazione ai Muscle Shoals. Dopo il frizzante tempo veloce di “A Shot Of Rhythm & Blues” dell’ex Drifters Clyde McPhatter, di spessore è anche l’avvolgente tempo lento sullo stile di Otis ,“Without A Woman”, che Kip Anderson interpreta, corrosivo ed esaltante come da manuale del soul, genere omaggiato, subito dopo, dalla famosissima e ruti-
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lante “Sweet Soul Music” da Arthur Conley, dai fiati lucenti (a proposito di questi strumenti, le sezioni più utilizzate per le varie registrazioni sono i Memphis Horns ed i Muscle Shoals Horns, nei quali troviamo, tra gli altri, le trombe di Wayne Jackson, di Gene “Bowlegs” Miller e di Harrison Calloway, ed i sassofoni di Andrew Love e di Floyd Newman). A questo punto è l’ora del soulman di punta della Fame, e cioè Clarence Carter, del quale si propone, dapprima, uno dei brani in duo con Calvin Scott, “Thread The Needle”, relativo agli inizi carriera, allorché il cantante non vedente di Montgomery non riusciva a trovare un hit da classifica, e poi con il successo, al quale approderà solitario, del famoso country & soul di “Slip Away”, dallo splendido sottofondo creato dall’organo di Carter. Prima, però, una lirica e mirabile Aretha Franklin scende da New York per “I Never Loved A Man (The Way I Love You)”, una rutilante Etta James espone la sua famosissima e pirotecnica “Tell Mama” e la regina di New Orleans, Irma Thomas, offre il marcato incedere di “Cheater Man”. Sempre per quanto riguarda la vocalità femminile, brilla il ritmato di Jeanie Greene, “Don’t Make Me Hate Loving You”, insieme al radioso soul chiesastico di “As Long As I Got You”, eseguito alla grande dalla chicagoana Laura Lee, ex componente del gruppo gospel dei Meditation Singers. Sempre proveniente dalla Città Ventosa, seppure originaria dell’Alabama, anche Mitty Collier svolge in ”Take Me Just As I Am”, un’ottima e graffiante ballata (inedita). Passando al canto maschile, di grande impatto è il blues veloce “Miss You So” con il falsetto penetrante e stimolante di Ted Taylor, artista, ingiustamente non valorizzato, della terra di Louisiana. Altri soulmen di spessore rispondono ai nomi eccellenti di Don Covay e di Otis Clay: il primo è presente con un vibrante ed intimista lento stile Stax, mentre il secondo riprende con il suo possente tenore vocale “Do Right Woman, Do Right Man”. Sulla stessa linea troviamo le ballate soul di ”Don’t Lose Your Good Thing” dei Blues Busters, e di ”Once In A While” di Spencer Wiggins. In quel periodo, intanto, erano variati i componenti del gruppo casalingo con l’arrivo di David Hood al basso e Barry Beckett alle tastiere a sostituire rispettivamente Albert Junior Lowe e Spooner Oldham; e nel frattempo negli studi di Ivy lavora come sessionman il giovane Eddie Hinton, che per la sua vicinanza allo stile di Otis Redding, potrebbe tran-
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quillamente proporsi come soul-singer, cosa che farà, con successo, più tardi. Ed eccoci, così, al terzo e conclusivo capitolo, che comprende brani dalla fine del ‘68 al 1973, anno nel quale la FAME conclude il suo cammino di casa discografica front-line; il titolo “Get Involved” viene tratto dal 45 giri del viso pallido George Soulé, ma lo svolgimento di questo errebì ha, purtroppo i tratti della languidità delle volute pop. Grandissima invece è la famosa cover di “Hey Jude” di Wilson Pickett, con l’inarrivabile slide di Duane Allman e Pickett che svolge il suo peculiare screamin’ corrosivo. Intanto Clarence Carter prosegue la sua avventura e qui troviamo l’ up-tempo “Snatching It Back”, ed a ruota un valido James Govan con l’er-
rebì di “Wanted: Lover (No Experience Necessary)”. Non da meno l’eccellente soul “I’m Just A Prisoner” di Candi Staton, nell’anno (1969) in cui la ritmica dei FAME forma la Muscle Shoals Rhythm Section e viene sostituita dalla Fame Gang (i chitarristi Junior Lowe e Travis Wammack, il basso di Jesse Boyce, le tastiere ed il pianoforte di Clayton Ivey e la batteria di Freeman Brown). La sede dei nuovi studi è, adesso, il numero 3614 della Jackson Highway ancora a Sheffield ed il nuovo nome è Muscle Shoals Sound Studios, e vi troveranno spazio anche artisti rock e pop (la prima è Cher). Proseguendo con il compact, Clarence Carter confeziona un altro hit, il country-soul “Patches”, successo che arriderà anche agli Osmonds con l’evanescente
Eddie Hinton
Un missionario bianco nella musica neroamericana
“One Bad Apple”, mentre Spencer Wiggins elabora un’eccellente ed intensa rilettura dello slow “I’d Rather Go Blind”. Prima della conclusione del dischetto, da segnalare l’illustre presenza di uno dei re del r&r, Little Richard, che soggiornò a Muscle Shoals, nel marzo del 1970, e di Lou Rawls, il primo per incidere il frizzante “Greenwood, Mississippi”, ed il secondo per proporre una geniale versione funk del lento “Bring It On Home To Me” di Sam Cooke. Intanto iniziano ad arrivare per registrare altre etichette non solo più esclusivamente di soulmen e soulwomen, come Solomon Burke, gli Staple Singers, Millie Jackson, etc, ma anche di artisti rock, primi fra tutti i Rolling Stone e, quindi, i vari Simon & Garfunkel ,Willie Nelson, Bob Dylan ed altri.
di Silvano Brambilla
l missionario è colui che si dedica con abnegazione alla diffusione di una idea, adempiendo a ciò con particolare spirito di sacrificio. A questo punto, pensiamo che Eddie Hinton sia una delle figure alle quali calza meglio il significato del suddetto sostantivo.
Chuck Berry, che con le sue prime composizioni essere uno dei luoghi più ambiti per le vacanze, ovdal grezzo suono elettrico. La passione per la muviamente per facoltosi americani ed europei. Ma sica lo aveva già rapito e il suo motto era: lavoro, lasappiamo anche che è uno degli stati chiave per voro, lavoro e condivisione e, come si può notare l’elezione del Presidente degli Stati Uniti, che lì si dalle sue parole, voleva che il suo costante impetrova la più numerosa comunità cubana che è in digno fosse messo a disposizione di altri in ambito saccordo con la linea politica di Fidel Castro, e che musicale (proprio come una missione!). E così avc’è Cape Canaveral. Approfondendo poi l’aspetto Tutto comincia, per caso, in Florida venne, dal giorno in cui iniziò a frequentare, siamo musicale, ci rendiamo conto che quella zona degli All’inizio si fa una certa fatica a ricordare lo Stato a metà degli anni Sessanta, l’area di Muscle Stati Uniti, ha fatto la sua parte, perlomeno nel “ridella Florida come una terra feconda di musica e Shoals, Alabama, che prende il nome dalla omonilasciare” certificati di nascita e di residenza, in musicisti, perché nell’immaginario collettivo, grazie ma cittadina, nota per una copiosa quantità di molquanto in varie località della Florida sono nati: uno a film e telefilm che ne hanno messo in mostra la luschi ( mussels) presenti lungo le rive del fiume dei primi bluesmen acustici, Blind Blake; il cantante Tennessee e per le pericolose secche, shoals, prisovrabbondante presenza femminile, ha finito per e pianista di blues e rock’n’roll, Billy “The Kid” ma che venisse costruita una diga negli anni ‘20. La Emerson; le cantanti di gospel, Marie Knizona era costituita da altre tre cittadine, Sheffield, ght e Marion Williams; la soulwoman Betty Tuscumbia e Florence e proprio in quest’ultima, a Wright; il soulman Paul Kelly; il chitarrista cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Rick Hall, Sarasota Slim (che ha pubblicato dei lavori Billy Sherrill e Tom Stafford, diedero vita alla mitica per l’etichetta italiana Appaloosa) e una delFAME, Florence Alabama Music Enterprise, etile ultime interessanti scoperte, JJ Grey & chetta e studio di registrazione con alle dipendenze Mofro. In più Tampa Red e Ray Charles vi fior di sessionmen come Jimmy Johnson, Chips hanno trascorso un certo periodo della loro Moman, David Hood, Roger Hawkins ed altri, i quavita; la Sacred Steel Music ha iniziato dalle li, a loro volta nel 1969, si misero in proprio per aprichiese di quello Stato a diffondere i suoi re in una ex fabbrica di bare (!) i Muscle Shoals sermoni “strumentali”, e nei primi mesi del Sound Studios al 3614 di Jackson Highway a Shef1969 di passaggio a Jacksonville, a Duane field. Sempre in quell’angolo musicalmente magico Allman nacque l’idea di formare la leggendel Sud degli Stati Uniti, c’erano anche i Quinvy daria Allman Brothers Band. Sarà stato il Studio di Quin Ivy, dove Eddie Hinton iniziò a modestino ma proprio nella suddetta città, il 15 strare anche le doti di compositore in quanto, in giugno del 1944 nacque Edward Craig Hincoppia con il chitarrista Marlin, scrisse e produsse ton, un ragazzo bianco che nel DNA aveva un pugno di pezzi per due cantanti di country/soul, già una irrefrenabile passione per la musica Don Varner e Tony Borders. La loro unione come neroamericana, al punto da diventare non autori fu determinante anche per l’avvio della carsolo un cantante, chitarrista, pianista, ma riera di Percy Sledge, che incise “Cover Me” e “It’s compositore, produttore e sessionman. Ma All Wrong But It’s Alright”. Siamo nella metà degli Eddie (così è conosciuto), non si formò muanni Sessanta e la reputazione di autori giunse alle sicalmente in Florida, perché divenne granorecchie del produttore dell’Atlantic Jerry Wexler il de a Tuscaloosa, Alabama, dove dall’età di quale chiese a Hinton e Greene di scrivere, in copcinque anni si trasferì con la madre dopo pia o separatamente, un pezzo per Dusty Springche i genitori divorziarono. Ed è proprio qui field. Nacque “Breakfast In Bed” a firma però non di che inizia la sua avventura nella musica forloro due, ma di Eddie Hinton e Donnie Fritts, canmando la sua prima band, The Minutes, dozone che fece parte del disco “Dusty In Memphis”, po aver abbandonato l’università dell’Alabadell’allora “pupilla” di Wexler. Nel frattemma, perché come disse a sua mapo Hinton lavorava anche come chitarridre: «so già cosa voglio fare e «so già cosa sta per il produttore Quinton Claunch per non ho bisogno di titoli di studio voglio fare e per suonare e cantare». Hinton non ho bisogno registrazioni Goldwax e Jewel di Lowell parte con il blues e il rock’n’roll, di titoli di studio Fulsom, Charles Brown e Ted Taylor, mentre come solista a capo del gruppo cimentandosi sia con cover di per suonare e Eddie Hinton (Porretta Terme, 1991, foto Luciano Morotti) Jimmie Reed, John Lee Hooker e cantare» The 5 Minutes, esordisce discografica-
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mente nel 1966 con un pugno di cover r&b: “Blue Blue Feeling”, Neighbour Neighbour”, “Walking With Mr. Lee” e “Turn On Your Love Light”, rieditate in “Beautiful Dream (Zane 1023)”, una delle belle ed esaustive quattro antologie che l’etichetta inglese Zane ha messo in circolazione a partire dagli inizi di questo secolo.
due ballad da brividi, successivamente ritoccate e finite con lo stesso impatto nel capolavoro “Very Extremely Dangerous”. Poi c’è il blues, elettrificato, in “I Still Wanna Be Your Man”, ipnotico in “I’m Coming After You” (alla maniera di un altro suo idolo, John Lee Hooker) e cadenzato nell’ottimo “Dear Y’All”. E ancora, il suo tipico tempo medio dai sapori sudisti di “Build Your Own Fire”, il lento “It’s All L’occasione è a portata di mano, ma… Wrong But It’s Alright”, la bluesata “I’m On The RiNel 1967 entra a far parte in pianta stabile del giro ght Road Now” ed infine due pezzi entrati nei redei mitici Muscle Shoals Studios e con lui anche il pertori di Percy Sledge, “Cover Me”, John Hamsuo più caro amico Duane Allman, il quale qualche mond e Aretha Franklin, “Every Natural Thing”. Il anno dopo, gli chiederà di diventare il cantante e suo desiderio di incidere il primo disco si concretizchitarrista dell’Allman Brothers Band, invito che za nel Novembre del 1977, dove ritorna ai Muscle Hinton declinerà per continuare a suonare e comShoals per registrare in presa diretta una perla del porre per gli altri, scelta questa che lo porterà a rideep soul e non solo, “Very Extremely Dangerous” coprire entrambi i ruoli nelle registrazioni di alcuni (Capricorn 0204), con la formidabile sezione ritmimostri sacri della musica neroamericana come, ca (di cui fece parte) e fiatistica, dei suddetti studi. Aretha Franklin, Solomon Burke, Joe Tex, Wilson Il disco però non ebbe un riscontro immediato, perPickett, Bobby Womack, Staple Singers, Johnny ché l’etichetta che lo pubblicò, la Capricorn, fallì e Taylor, ma anche per alcuni artisti bianchi come, a fronte di ciò la diffusione fu limitata. Col tempo Tony Joe White, Bonnie Bramlett, The Box Tops, riuscimmo a recuperare una copia in vinile dalla John Hammond ecc. I problemi con alcol e droga quale era impossibile staccarsi, fino a due anni fa purtroppo diventano seri e lo allontaneranno sia quando, «per sentire l’effetto che fa», lo riascoldalla Muscle Shoals Rhythm Section che dalla tammo in versione CD grazie alla Universal che lo musica, dove fa ritorno nei primi anni Settanta ini- Eddie Hinton (Porretta Terme, 1991, foto Luciano Morotti) ripubblicò negli Stati Uniti con il numero di catalogo ziando di nuovo la carriera solista e dove esplo66748780162, mentre per il mercato europeo se derà il suo immenso talento di soulman ne occupò di nuovo l’inglese Zane Records. Enno Uliani. Tornando ai quattro suddetti …Duane che lo porterà ad essere definito «l’Otis trambe le edizioni, in cui non ci sono brani in più o “Dear Y’All” (Zane 1016), che Allman, il quale compact, alternate take, contengono un libretto di sedici pagiRedding bianco», per la forte intensità nel raccoglie gran parte dei pezzi incisi ai qualche anno ne scritto dal suo grande amico e musicista John D. cantare, con una voce maledettamente Muscle Shoals fra il 1974 e il 1975 con i dopo, gli Wyker. Hinton ha inciso un capolavoro, uno di quei nera, che emerge soprattutto nelle soul suoi vecchi compagni di lavoro come Dachiederà di dischi che ha ridato orgoglio alla musica soul più ballad. La figura di Redding è stata la sua vid Hood al basso, Barry Beckett al piano, diventare il vera in piena era disco music, uno di quei dischi da principale fonte di ispirazione, e possiaRoger Hawkins alla batteria, Jimmy Johnsalvare in qualsiasi modo come nella scena finale mo immaginare la soddisfazione di Hin- cantante e son alla chitarra, Spooner Oldham all’ordel film, ispirato da una storia vera, “I Love Radio ton quando la moglie di Otis, Zelma, gli chitarrista gano, è il più rappresentativo perché con Rock”, mentre l’imbarcazione, trasformata in una chiese di diventare l’insegnate di chitarra dell’Allman una naturalezza disarmante e una sensiBrothers radio pirata, affondava al largo dell’Inghilterra. Il didei suoi figli dopo la tragica scomparsa di bilità che neppure le dipendenze da sosco si compone di nove pezzi autografi e una cover, “Big’O”. Come dicevamo sopra, parte Band… stanze hanno annebbiato, evidenzia il “Shout Bamalama” di Otis Redding. Il canto di Hindella sua carriera solista è stata ricostruisuo attaccamento al soul come al blues, ton non è mai stato così espressivo, la sua voce è ta dalla Zane Records con quattro CD, in uno di con quel canto dalla voce roca, drammatica, vera. ancora più sporca, roca, e la spinge fino a soffocarquesti, “Playin’ Around – The Songwriting Sessions Parentesi: nel loro album “Go Go Boots”, i Drive By la in gola per poi liberarla con un urlo drammatico Vol.2” (Zane 1020) ci sono due pezzi registrati dal Truckers hanno inserito un paio di cover di Eddie Hinton e in una intervista, il leader del gruppo, Patcome nell’iniziale “You Got Me Singing”, una ballad vivo al Porretta Soul Festival nel 1994, “The Well Of terson Hood (figlio di David Hood e grande amico di su di un tempo medio illuminata dai fiati, poi c’è la Love” e “Mr. Pitiful”. Per dovere di informazione va Eddie) ha dichiarato che il suo disco preferito di lenta “I Got The Feeling” dove si sdoppia al canto, ricordato che la doppia antologia, “The Best Of Hinton è “Dear Y’ All”. Chiusa parentesi. Proseprima della versione rock’n’roll del pezzo di RedSweet Soul Music – Porretta Soul Festival 1994guendo nell’ascolto del CD, le soul ballad sono il ding e di quel gioiello emozionale che è “Get Off In 1995” termina con una versione inedita registrata al punto emozionale più alto e con Redding nel cuore It”, una ballad che ancora oggi è da pelle d’oca! Ma Birdland Studio, Alabama, il 27 aprile del 1991, di ci presenta una meraviglia come “Dangerous Hinon è finita, perché c’è il serrato r&b di “Brand New “Fa, Fa, Fa, Fa, Fa (Sad Song)” con il solo Eddie ghway”, e che dire di “We Got It” e “Get Off In It”, Man” e un’altra ballad da brividi, “We Got It”. Hinton al canto e al piano, alla presenza di Grazia-
DISCOGRAFIA
Album solisti CD 1) Very Extremely Dangerous (Capricorn 0204)-USA2) Letters From Mississippi (Instant-Line 4.00172)-D3) Cry And Moan (Bullseye 9504)-USA4) Very Blue Highway (Bullseye 9528)-USA-
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Antologie personali CD 1) Hard Luck Guy (Zane 1012)-GB2) Dear Y’All - The Songwriting Sessions (Zane 1016)-GB3) Playin’ Around - The Songwriting Sessions Vol.2 (Zane 1020)-GB4) Beautiful Dream (Zane 1023)-GB5) A Mighty Field Of Vision - The Anthology 1969-1993 (Raven 736750)-AU-
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Gli ultimi bagliori Nel suo anno di grazia, 1978, Eddie ritorna negli studi dell’etichetta Capricorn ed ai Birdland per registrare altri pezzi, reperibili nel CD “Hard Luck Guy” (Zane 1012), completato con alcune session del 1994, fra le quali ricordiamo l’ottima versione con i fiati di “Sad Song”. Tracce di emotività del suo capolavoro discografico si possono cogliere anche nell’intensa soul ballad che dà il titolo all’album, in “Here I Am” nell’avvolgente “I Can’t Be Mine” e ancora in quella “Can’t Beat The Kid”, scritta per John Hammond, nelle bluesate “Watch Dog” (poi di Tony Joe White) e la più cadenzata ed elettroacustica “Three Hundred Pounds Of Hongry”. Deluso dagli eventi legati alla mancata diffusione di “Very Extremely Dangerous”, Hinton va in Georgia con la moglie Sandra e mette insieme un nuovo gruppo, The Rocking Horses, ma la cosa non funziona, perché la depressione e il conseguente ricorso ancora a droghe e alcol è devastante. Ci vorranno circa dieci anni perché incida il secondo lavoro, l’ottimo “Letters From Mississippi” (Instant 4.00172), registrato parte ancora ai Muscle Shoals e parte ai The Birdland, sempre in Alabama. Rispetto al precedente, qui si nota una parziale presenza della sezione fiati, schierata solo nei tre pezzi
dai sapori r&b, “My Searching Is Over”, …l’unico che ne come Van Gogh, un genio, monumen“Everybody Meets Mr. Blue” e “Wet ha demolito tale. Non ho mai visto nessuno andare fiWeather Man”; mentre la parte ritmica, so- quel muro che no in fondo come Eddie». Eddie Hinton è prattutto fra le trame di chitarra e tastiere, stato e rimane l’unico che ha demolito separa dà corpo all’intero lavoro, il quale non quel muro che separa l’espressività della l’espressività manca di momenti splendenti come le balmusica soul fra artisti neri e bianchi. Negli della musica late, “Everybody Needs Love”, “I Want A pochi gli hanno reso un tributo, i sosoul fra artisti anni Woman” e il rifacimento di un pezzo di praccitati Drive By Truckers, il chitarrista neri e bianchi. Sam Cooke, “I’ll Come Running (Back To texano Jimmy Thackery and The Drivers You)”. Ma il suo stato psicofisico ha imboccato una che ha ripreso undici suoi pezzi per un CD che ha invia senza uscita e prima della sua morte avvenuta titolato “We Got It”, Bonnie Bramlett con la canzone, per un attacco cardiaco a casa di sua madre il 28 lu“Where’s Eddie” inclusa nella antologia “The Country glio 1995 a Birmingham, incide gli ultimi due capitoli Soul Revue”, e nel 2001 con una stella in bronzo è discografici per la Bullseye, “Cry And Moan” (9504)” entrato a fare parte della Tuscumbia’s Alabama Mudel 1991 e il buon “Very Blue Highway” (9528) del sic Hall Of Fame. 1993, ultimo approdo al suo viscerale amore per la Nel 2007 i cineasti Deryle Perryman (nativo di Flomusica nera. Jim Dickinson che conobbe bene Hinrence, Alabama) e Moises Gonzales produssero un ton e fu il produttore dell’album “Toots In Memphis” film documentario su Hinton, intitolato “Dangerous del grande cantante giamaicano Toots Hibbert, in cui Highway”, al quale prestò la voce narrante Robert Eddie figurava come chitarrista lo ricordò con queste Cray, grande ammiratore di Eddie. Il film venne parole: «Il music business gli ha spezzato il cuore, proiettato in diversi festival americani e debuttò in potete comprenderlo se ascoltate i suoi dischi. Ma Europa nell’edizione 2008 del Porretta Soul Festival, potete anche ascoltare la resistenza di fronte alle diftuttavia non ne circola purtroppo una versione in ficoltà dell’uomo, la resistenza dello spirito di Eddie DVD, a quanto sembra per problemi con i detentori Hinton e sapeva davvero suonare la chitarra. Divendei diritti delle canzoni incluse.
Ricordo di Eddie Hinton
27 aprile 1991, Decatur, Alabama, quasi al confine con il Tennessee ono alla ricerca di uno dei miei miti: Eddie Hinton per convincerlo a partecipare ad un festival che sta muovendo i primi passi a Porretta Terme. Ho conosciuto la musica di Eddie perché Gianni Del Savio mi ha fatto una copia di “Very Extremely Dangerous”, un LP che mi ha colpito per le similitudini con Otis Redding. Ho un appuntamento a casa di John Wyker, leader di una non meglio identificata associazione o forse setta chiamata Mighty Field Of Vision. Le case sono graziose, in mezzo al verde, con giardini ben curati, come le avevo viste nei telefilm americani. Sono le prime ore di un pomeriggio umido. John Wyker mi aspetta in casa con un disordine incredibile. Il pavimento pieno di riviste, di ritagli di articoli e di lettere aperte dove ci sono, bene in mostra, anche quelle che gli avevo scritto. Mi dice che Eddie arriverà. Abita a Birmingham con la madre e il patrigno. Passano le ore e, non arrivando nessuno, il mio amico fotografo Luciano Morotti diventa impaziente. John Wyker prende un totem (come quelli degli indiani), va ai quattro angoli della casa, alza al cielo il totem e dice: «Solo Dio sa se Eddie arriverà!». Delusi e amareggiati chiediamo a John di accompagnarci ai famosi Muscle Shoals Studios. Almeno vediamo quelli, penso. Jimmy Johnson e Dick Cooper, padroni di casa, ci accolgono calorosamente dicendoci che Eddie Hinton è uno dei più grandi talenti che abbiano mai conosciuto, ma non sempre affidabile. Restia- Eddie Hinton (Town Creek, Alabama, 27-04-1991, mo un po’ poi John ci invita a seguirlo a foto Luciano Morotti) Town Creek, dal suo amico Owen Brown. Immensi campi di grano ed in mezzo una casa in no pochi minuti e si avvicina un van, un vecchio stile coloniale, probabilmente antecedente la Dodge. «Eccolo» dice John Wyker. Vediamo guerra civile americana. Nel soggiorno un piccoscendere un personaggio robusto, con un’enorlo studio di registrazione: Birdland Studio. Passame pancia, i pantaloni stretti e troppo lunghi, che
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di Graziano Uliani
strisciano per terra. Non può essere Eddie Hinton, pensiamo.Troppo diverso dalle foto che abbiamo visto su “Letters From Mississippi”. Doveva essere smilzo…Ha una grossa borsa piena di lattine di birra e di sigarette al mentolo. Inizia a piovere e ci rifugiamo nello studio. Esclama in un buffo italiano «Che si dice, Graziano, paisà!...ti piace Otis Redding, vero?». Gli chiedo come fa a conoscere quelle parole in italiano. Il suo padrino - mi dice ha fatto la guerra in Italia e lui ricorda quella frase. Si mette al piano ed attacca “Fa, Fa, Fa, Fa, Fa.” Non ho più dubbi, è proprio lui. Chiedo a Owen Brown di registrare, ma fuori sono tuoni e fulmini, la luce salta continuamente e non è possibile completare la registrazione. Impreco, ma non c’è niente da fare. Prosegue con “Security” e poi con “She Caught The Katy”. Una voce incredibile, uno stile inconfondibile. E’ già sera, noi dobbiamo proseguire per Memphis. Peccato…Causa il temporale ho perso la possibilità di portarmi via la documentazione di quell’incontro memorabile. Ma i sogni qualche volta si avverano. Tornato in Italia, trovo una busta che arriva da Town Creek, Alabama! Contiene una cassetta, una compact cassette targata Birdland Studio. Non ci posso credere: sono i tre brani che Eddie aveva suonato per me! Qualche mese dopo, Eddie Hinton, accompagnato da John Wyker sarà a Porretta nella sua unica performance europea. Ho pensato di rendere omaggio a Eddie Hinton, rivestendo le canzoni che aveva eseguito per me, solo piano e voce, con gli abiti del Memphis Sound, chiedendo ad alcuni dei musicisti che l’avevano già accompagnato a Porretta di completare l’opera, esprimendo tutto il loro feeling. «Che ne dici, Eddie…paisà!»
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Last Time I Saw You
MICROWAVE DAVE & THE NUKES Autoprodotto (USA)-2011-
Drinkin’ Wine Since Nine / Jesus Was Smart / I’ve Got A Bet With Myself / The Worst Thing / Tire Man / Alabama Saturday Night / Last Time I Saw You / Hydraulic Grind / All Nite Boogie / Goin’ Downtown / Cadillac Ride / Vagabundos / Rafferty.
Lo avevamo già testato positivamente due volte nella rubrica “Polvere di Stelle” nei numeri 56 e 58. Il perché poi non ci siamo più dati la briga di seguirlo con maggior attenzione, rimane un mistero anche per noi. Incuria, leggerezza, dimenticanza, premura, etc. Facciamo pubblica ammenda oggi, ricuperando l’ultimo album di Dave Gallaher, in arte Microwave Dave. Unicamente nativo di Chicago, in quanto ha vissuto nel Texas, Georgia e Florida, prima di stabilirsi definitivamente verso la metà degli anni Ottanta ad Huntsville, Alabama, dove forma la sua band The Nukes. E’ persino scontato dire che la musica di questo cantante (potente) e chitarrista (convincente), che in realtà non tralascia le percussioni, possiede una sua unicità che deriva dalla fusione, inconscia o meno, dei diversi stili acquisiti, assorbiti, nei varî Stati in cui ha vissuto. E questa
Microwave Dave
multiculturalità finisce per diventare il suo pregio, perché lo conduce ad esprimersi in completa libertà, sia come esecutore che come autore. Ma più della solita scarsa citazione la meritano The Nukes, ovvero Rick Godfrey (basso e armonica, partner di Dave sin dalla fondazione) e James Irvin (batterista presente dal 2004), che formano una sezione ritmica esemplare per tocco e senso della misura, doti che in una formazione a trio rischiano spesso di latitare. Cercando di essere più realisti del re, dobbiamo riconoscere al leader di aver in parte, o perlomeno in questo album, accantonato il ruolo dominante del suo strumento (reminiscenze texane?) per lavorare alla creazione di un consistente risultato sonoro corale. Niente divismo quindi, se si esclude “Rafferty” torrenziale strumentale finale, probabile fuga in avanti dell’insopprimibile ego. Per il resto un’opera compatta, che ha i suoi vertici nelle cadenzate “I’ve Got A Bet With Myself” con l’intermezzo senza forzature di basso e batteria, e “Tire Man” carico di frasi spezzate trascinanti, entrambe odoranti di paludi. Quando le trame si fanno più ritmiche è la volta di “Alabama Saturday Night” impreziosita dall’armonica di Godfrey, mentre se in “ Cadillac Ride” è il lowebow del leader suonato slide a tracciare la strada, in “Vagabundos” c’è il sapore amaro del confine tra Texas e Messi-
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co. Un cenno a sé per lo slow “The Worst Thing”, quasi un talking blues in cui brillano la chitarra accarezzata di Dave ed il lavoro sui piatti di Irvin. Se volete provare ad uscire dal già ascoltato, questo CD fa per voi. Marino Grandi
SharBaby’s 11 O’Clock Blues
SHARBABY
Digitdoc (USA)-2011-
Slippin’ / Cause I Love Ya / The Stalker / Pick In My Pocket / Busted / Remember When / I’m Ready / Alabama Bound / Red Eye Snake / Beer ‘N’ Atmosphere / Keep Your Mind To Yourself.
Sebbene nativa di South Bend, Indiana, Sharon “SharBaby” Newport ha saputo guadagnarsi il ruolo di una delle Alabama Blues Women più rispettate. Senza dubbio, gli oltre 40 anni di attività vorranno pur dire qualcosa, anche se non sempre l’anzianità è sinonimo di qualità. Per conoscere meglio questa cantante e chitarrista, abbiamo optato per l’album in esame, che la coglie in una dimensione numericamente ridotta a livello di formazione (ovviamente oltre a lei alla voce ed alla chitarra ritmica, ci sono i soli Jaydog alla batteria ed il poliedrico Tom Boykin impegnato nella chitarra solista, basso e tastiere), in quanto il precedente lavoro risalente al 2009 “Chicago Blues Alabama Style” ci era parso più che altro la rimasticazione dello stile Windy City con poca Alabama. Qui invece ci troviamo alle prese con un blues delle ore piccole (che le 11 del titolo si riferiscano alle nostre 23?), cioè quando si ripensa a come abbiamo trascorso la giornata e l’unica cosa che desideriamo in quel momento è un suono semplice, pacatamente ritmico al cui fluire possiamo aggiungere quella parte di noi ancora attiva. Infatti SharBaby predilige i tempi medi, e se la sua voce ricorda quella di Tracy Chapman ed il suo chitarrismo quello di Barbara Lynn, chi guizza con nitidezza, asciuttezza ed energia mai sprecata è la chitarra di Boykin. Intendiamoci, non è il caso di gridare al miracolo, ma se riflettiamo sul fatto che è autrice di 10 dei brani presenti (dell’altro è coautrice con la zia Rosie Brittain), che le scansioni di “The Stalker” (il titolo non ha bisogno di commenti) e “Red Eye Snake” sono di tutto rispetto, che i tempi medi “Slippin’” e “Alabama Bound” (quest’ultimo con la chitarra di Boykin che sottolinea e richiama il canto di Sharon) e che slow come “Remember When” e “Keep Your Mind To Yourself” non si trovano tutti i giorni, possiamo solo sperare di poterla vedere, magari con questa formazione, su un palco di casa nostra. Marino Grandi
SharBaby (foto Mike Stephenson©)
Hearts Are Wild
DEBBIE BOND Blues Root Productions 1105 (USA)-2011-
Dead Zone Blues / Hearts Are Wild / My Time / Drama Mama / You’re The Kind Of Trouble / Still Missing You / Rick’s Boogie / Baby I love You / Nothing But The Blues / Falling / I like It Like That / Since I found Love.
Per sapere tutto su Debbie Bond c’è un’esaustiva intervista nel n.108 di questa rivista, fatta da Marino Grandi. Qui ci limitiamo ad estrarre alcune sue sincere dichiarazioni riguardo l’appartenenza al blues, solo perché in questo suo ultimo CD qualcosa ci lascia perplessi. Dice nell’intervista che si è appassionata al blues grazie soprattutto alla frequentazione con Johnny Shines, ma anche con altri bluesmen dell’area di Tuscaloosa, Alabama, dove risiede, in più ha co/prodotto l’unico e ottimo CD del duo Little Whitt & Big Bo “Moody Swamp Blues” (“Il Blues” n.53), è stata la chitarrista del grande Willie King ed è tuttora la spina dorsale dell’Alabama Blues Project, organizzazione che si occupa fra le varie iniziative di portare il blues nelle scuole. Davamo per scontato dunque di trovare in questo suo nuovo lavoro dosi, o perlomeno tracce, di quel blues sanguigno con il quale si è for-
Debbie Bond (foto Gabriele Penati©)
mata. Invece la rossa chitarrista (per via dei capelli), si è orientata su un blues e r&b piuttosto leggero, dove in entrambi i casi manca del mordente, vuoi per il suo canto dalle esili tonalità e francamente a tratti imbarazzante, vuoi per una sezione ritmica che non si fa ricordare e vuoi anche per la sezione fiati che al momento opportuno non dà la spinta necessaria. A salvare un po’ le sorti di questo CD c’è il marito Rick Asherson alle tastiere ed armonica, ma non è sufficiente per alzare la temperatura. La ballad, “Hearts Are Wild”, il blues con una linea jazz “Drama Mama”, il blues ritmico “You’re The Kind Of Trouble” e la già nota per via di Willie King, “I Like It Like That”, hanno una parvenza mediocre. Continuiamo a credere nella passione per il blues di Debbie Bond, però forse dovrebbe rivedere qualcosa, canto compreso. Silvano Brambilla
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Perfectly Good Guitar Tampa Red, Chicago e mezza dozzina di blues per un dollaro
no dei suoi compagni d’avventura, Big Bill Broonzy (quindi non uno qualsiasi) in tempi non sospetti, e cioè prima di tutti, aveva detto: «C’è soltanto un Tampa Red e quando è morto, è finito tutto». Da un punto di vista aveva ragione perché Tampa Red è stato uno di quei musicisti la cui originalità non si può discutere. D’altra parte se quasi un secolo dopo l’epitaffio di Big Bill Broonzy, John Campbell, prodigioso, misterioso e sfortunato bluesman, raccontava che tutto quello che sapeva della chitarra (e non era davvero poco) l’aveva imparato ascoltando Tampa Red, soprattutto durante i suoi anni con Ma Rainey vuol dire che ha lasciato un’eredità enorme e imponderabile, come se avesse fornito tutto un nuovo vocabolario, e non solo chitarristico, e non soltanto blues. La chitarra è uno strumento particolare, in apparenza semplice e limitata, in realtà elastica e infinita. Già il blues è una forma che si adatta in ogni ambiente, un virus capace di modificarsi a secondo dell’atmosfera e delle necessità e le canzoni di Tampa Red lo sono ancora di più perché alla sostanza del songwriting, si aggiunge uno stile chitarristico unico, tale da fargli guadagnare l’appellativo di guitar wizard , che è quanto mai perfetto nel suo caso. La chitarra è la spina dorsale sui cui è installata e protetta la canzone. Forma il perimetro e il territorio su cui la canzone si sviluppa e rimane incisa nel tempo. C’è una logica se, La chitarra è uno come spesso succede (e strumento non solo per John Camp- particolare, in bell), le canzoni di Ma Rai- apparenza ney sono ricordate per il la- semplice e voro chitarristico di Tampa limitata, in realtà Red e d’altra parte c’è un elastica e motivo se il lavorìo chitarri- infinita.
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Tampa Red
stico di Tampa Red è considerato al massimo livello proprio per la simbiosi con le canzoni di Ma Rainey (senza dimenticare la sua collaborazione con Memphis Minnie). Ry Cooder, uno dei maggiori fruitori delle invenzioni di Tampa Red ha cercato di spiegare così il segreto di questo mago della chitarra:
di Marco Denti
«Tampa Red ha semplificato tutto e ha suonato la chitarra con il feeling di una big band, il più delle volte come solista. Ha trasformato la musica rurale in commerciale e di conseguenza è diventato molto popolare. Ha inciso centinaia di dischi, e sono tutti ottimi. Alcuni sono incredibilmente ottimi. Bisognerebbe dire, okay, è da lì che è partita quasi tutta la musica pop. E aveva questa grande tecnica, certo. Riuscì a sintetizzare tutto, per quanto io riesca lontanamente a comprenderlo. Aveva le canzoni, aveva lo stile vocale, aveva il ritmo. C’è una linea diretta da Tampa Red a Louis Jordan a Chuck Berry». Se si segue il percorso delle interpretazioni delle sue canzoni, si può vedere come è riuscito a fornire i suoni e le parole adattabili e plasmabili all’evoluzione della musica e della cultura: ai capisaldi già citati da Ry Cooder, vanno segnalati anche Elmore James e Muddy Waters. Le tappe essenziali di un’intera metamorfosi possono essere lette e indicate attraverso le canzoni di Tampa Red o meglio attraverso le loro interpretazioni. E’ come se fossero elementi di un DNA da cui di volta in volta si sono moltiplicate altre forme vitali. E’ stato come una radice essenziale, la cui linfa è arrivata a trasformare l’essenza del blues rurale nel sound (elettrico) della città e infine nel rock’n’roll. Il suo ruolo nella genesi di tutta questa epopea è essenziale perché tra i suoi cambi di pelle c’è anche quello che l’ha portato a condividere la rivoluzione che ha condotto il rudimen«Ha trasformato tale blues a moltiplicarsi la musica rurale con le vibrazioni e i suoni in commerciale e metropolitani. Tampa Red di conseguenza aveva una naturale predisposizione a voltare pagiè diventato molto popolare.» na, perché è stato uno di
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quei musicisti che ha cambiato in continuazione e appartamento di Chicago e …la Bluebird era alla come se nella sua storia la trasformazione, l’evolucerchia degli amici e in realtà una zione, la metamorfosi fosse innata ha cominciato con dei discepoli bluesman. A collana cambiarsi il nome, poi ha cambiato città, dal Sud al confortare le ipotesi di Ry economica della Cooder Nord, dalla Georgia all’Illinois e infine, nella stessa rispetto alla natura RCA Victor che sequenza, ha cambiato per sempre il modo di suo“pop” (nella migliore accevendeva i 78 giri zione del termine, va precinare la chitarra, il blues e tutto ciò che è venuto doa 35 centesimi, sato, che poi è pur sempre po. Riassunta in poche righe, ed escludendo i draminvece che ai mi personali (che sono un’altra storia), la sua vita è la contrazione di “popular”), normali 75… davvero un continuo cambiamento di fronte che conon è soltanto l’accessibimincia con un triplo salto carpiato del nome. Tampa lità del songwriting di Tampa Red e l’immediatezza del suo talento chitarristico, Red è nato infatti come Hudson Woodbridge è disu cui non ci sono comunque dubbi. Vale la pena riventato ben presto Hudson Whittaker, assumendo il cordare però che la Bluebird era in realtà una collana cognome della nonna che l’ha allevato e infine Tameconomica della RCA Victor che vendeva i 78 giri a pa Red in omaggio alla città dove è cresciuto. I moti35 centesimi, invece che ai normali 75, in modo che vi dell’aggiunta del colore non sono mai stati conferfossero appetibili anche dalle fasce di popolazione mati e comunque sono relativi: è il susseguirsi dei meno solvibili, ovvero, tradotto in italiano, dagli afroanomi a sottolineare la ricerca di un’identità che, come mericani. Una formula edulcorata di race records, riportano le note al seguito di “The Bluebird Recorche permise al blues di diffondersi e di solidificare la dings 1934-1936”, è arrivata ascoltando “Crazy sua simbiosi con Chicago. Lo slogan della Bluebird Blues” di Mamie Smith. era «tre dischi per un dollaro», e se i conti non tornaTampa Red disse, dopo aver ascoltato quel gioiello no fino all’ultimo nickel è perché non è la matematica della riserva speciale dell’annata 1920: «Mi sono deta far girare il mondo, ma il marketing. to a me stesso: non conosco nessuna musica, ma Da qualche parte i soldi per l’affitto dovevano pur questa possono suonarla». Quel folle blues divenne saltare fuori e per la Bluebird incisero Bo Carter, il veicolo con cui Tampa Red, incrociando il suo deTampa Red Arthur Big Boy Crudup (il fantasma di Elvis ringrazia stino con quello di Georgia Tom ovvero Thomas Dorancora), Sonny Boy Williamson, Washboard Sam, sey, arrivò a Chicago, all’alba del 1925. Roosevelt Sykes e lo stesso Big Bill Broonzy, ma della sua cintura urbana in cui vive gente La tensione che emana la chitarra di …ha cambiato anche Jimmie Rodgers e Glenn Miller. Fu un periodi diversa provenienza (neri, irlandesi, itaTampa Red è senza dubbio frutto di una per sempre il do fertile e fondamentale anche per Tampa Red, tecnica innovativa, in particolare per modo di suonare liani, tedeschi) ma dove ogni sobborgo reche continuò a lungo a registrare producendo dischi sta portatore della cultura e delle tradizioquanto riguarda l’uso della slide, che lo la chitarra, il ha visto diventare un modello irrinunciaper vent’anni, incidendo più di duecento canzoni ceni dei suoi abitanti. blues e tutto ciò bile. Bisogna anche ricordare che la mulebrando, tra l’altro, almeno un classico assoluto con Il blues di Chicago nasce da e in queste che è venuto sica, così come tutte le espressioni cultu“It Hurts Me Too”. Una canzone che, uscita nel 1940 condizioni e Tampa Red era lì, il posto dopo. rali, risente e si nutre dell’atmosfera in cui e una volta ripresa da Elmore James nel 1957, degiusto nel momento giusto. All’epoca incivive. L’arrivo a Chicago di Tampa Red coincide con cennio per decennio sembra essersi adattata ai perdeva per la Bluebird Records che gli pagava l’affitto la scoperta di una moderna metropoli che vive già corsi multipli e sotterranei del blues prima con John dell’appartamento sulla 35th and State dove viveva tutte le contraddizioni, le durezze (da quelle climatiMayall e Chuck Berry, poi con Hound Dog Taylor e i con la moglie Frances, e la sua casa a Chicago è che a quelle sociali) della faticosa convivenza urbaGrateful Dead (e l’immancabile Dylan) infine con stato un vero crocevia dove una moltitudine di musina. Il ritratto della città fatto da Upton Sinclair in “La Eric Clapton, i Gov’t Mule e Keb’ Mo’ e siamo già nel cisti ha imparato a capire come convivere con il giungla” (Il Saggiatore), titolo esplicito del capolavoro secondo millennio, almeno così come lo conosciablues. In un’intervista del 1964 a Michael Bloomfield che risale agli inizi del ventesimo secolo non è molto mo. Come sia possibile, è qualcosa che riguarda la (un interlocutore privilegiato essendo a sua volta un diverso da quello elaborato da ‘Ala Al-Aswani in “Chimagia, il mistero, l’imponderabile di un chitarrista caeccelso chitarrista) Robert Nighthawk ricordava: cago” (Feltrinelli) solo qualche anno fa: «L’hanno pace di suonare soltanto quella musica e di raccon«Credo di aver cominciato proprio allora. Un pezzo chiamata la regina del West per via della sua importare anche un “Dead Cat On The Line” trasformanalla volta, a notte inoltrata. Uno di quei blues lo suotanza e della sua bellezza, la città del vento perché dolo in un simbolo. Come se nel blues ci nai con la slide. Non lo imparai direttamente da Tampa Red. Certo, mi piaceva brezze impetuose non cessano mai di percorrerla in fosse qualcosa in grado di trasfigurare la come suonava la slide e così appena ho «Mi sono detto a realtà, traducendola in una materia subliogni stagione, la città del secolo per il suo sbalordititrovato un’idea ho voluto provare a suo- me stesso: non vo espandersi in un breve lasso di tempo, la città con minale, per cui ormai basta un gatto dead or alive sul bordo della strada ed è narla anch’io. Ho sempre voluto suonare conosco le spalle larghe in riferimento all’altezza dei suoi gratcome lui, ma immaginavo di scoprire nessuna musica, inevitabile che il viaggiatore pensi subito tacieli e ai molti operai che la abitano, la città del sarò a Tampa Red. O a Bukka White. Certi qualcosa di diverso». L’influenza di Tam- ma questa e del farò in relazione alla frenesia degli americani di bluesmen non muoiono mai. Ogni tanto, pa Red non sarebbe diventata tale se possono emigrarvi in cerca di un futuro migliore, e la città dei devono tornare a casa. fosse rimasta confinata alle pareti del suo suonarla.» sobborghi» per indicare i settantasette sobborghi
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Voci dal Mississippi INTERVISTA Bud Spires: un soffio di Storia
e si passa a Bentonia percorrendo la US 49 è d’obbligo fermarsi al Blue Front Cafè, il juke joint gestito da Jimmy “Duck” Holmes. Questo locale è una vera e propria pietra miliare nella storia dei juke joint del Mississippi, e sono tantissimi i musicisti di spessore che almeno una volta vi si sono esibiti. Proprio qui ci siamo fermati, quel pomeriggio del 29 giugno 2010, per registrare Bud Spires, armonicista originario del posto. Da diversi anni lontano dalla scena musicale, Bud riesce ancora a stupire con la sua armonica, nonostante la vecchiaia e gli acciacchi che ormai all’età di 80 anni si fanno sentire. Il respiro irregolare e affannato, e le frequenti pause nei pezzi, rendono faticoso l’ascolto ma ogni tanto, quando le mani gli consentono di terminare le sequenze di note, viene a galla il glorioso passato da musicista. Mr. Spires ha suonato spesso con Jack Owens, chitarrista di Bentonia, che è stato suo amico e mentore. Il suo stile è relativamente semplice, e si basa sull’alternanza tra le strofe cantate e i fraseggi di armonica, e questo rende i suoi brani molto incisivi. Notato da David Evans e poi successivamente da Alan Lomax, fece diverse registrazioni sul campo. In una di queste Bud suona il pezzo “Easy Ridin’ Buggy” su un furgone. Il filmato è stato girato da
S
di Michele Paglia e Giacomo Lagrasta
Alan Lomax nel ’78, ed è possibile trovarlo anche su YouTube, oltre che nel DVD “The Land Where The Blues Began” recensito a pag. 16. Nel 1970 partecipò all’incisione del disco “It Must Have Been The Devil” di Jack Owens. Nel 2006 accompagnò Jimmy “Duck” Holmes nel disco “Back to Bentonia” e nel 2007 in “Done Got Tired of Tryin’”, con Lightnin’ Malcolm alla batteria. Da ricordare anche la sua presenza, sempre con Jack Owens, all’interno del documentario “Deep Blues: A Musical Pilgrimage To The Crossroads” di Robert Mugge. Nonostante dopo la registrazione Bud fosse abbastanza provato, siamo comunque riusciti a strappargli una breve intervista.
Dove sei nato? Sono nato qui a Bentonia, Mississippi, nel 1931.
Come hai iniziato a Bud Spires (foto Lou Bopp©) suonare? Ho cominciato da solo, quando avevo 5 anni. Subito mio pa- «Volare con un jet?» volta mi disse: «Ragazzo, dove dobdre mi voleva comprare una chitarra, mi disse Jack, «No, biamo suonare?», e io gli risposi che ma alla fine mi prese un’armonica. io voglio rimanere avevamo un concerto in California. Poi ho imparato a suonarla da solo. con i piedi per terra, Al che lui replicò «Non sono mai staQuando fui in grado di suonare de- chiama gli to in California prima d’ora», ed allocentemente, mi chiamarono in radio organizzatori.» ra io gli dissi che nemmeno io c’ero per suonare cinque pezzi. Qui conobstato. Lui allora mi chiese per quanto bi Jack Owens e con lui suonai altre dovessimo guidare, e io subito gli fetre o quattro… Sì quattro volte per la radio. Ricordo ci sapere che non dovevamo guidare ma avevamo che mi disse: «Ragazzo, tu suoni bene l’armonica» prenotati due voli aerei. «Volare con un jet?» mi e poi «Ragazzo tieni una nota che devo accordare disse Jack, «No, io voglio rimanere con i piedi per la chitarra», al che gli dissi che la mia armonica era terra, chiama gli organizzatori.» Ma gli organizzatotroppo alta per accordare la corda bassa della chiri ci dissero che erano già prenotati i voli. Ricordo tarra, ma lui insistette. Suonammo, ma la chitarra ancora che Jack, prima di salire sull’aereo, bevette non era molto accordata ed alla fine del concerto mi molto, preso com’era dalla preoccupazione. Una disse: «Sì ragazzo la tua armonica è troppo alta per volta decollati gli chiesi come stava, e lui mi rispoaccordare la chitarra». Dopo quella performance se: «Mi sento come se stessi volando». Quello fu il suonammo insieme molte altre volte. nostro primo volo aereo. Bud Spires (foto Lou Bopp©)
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Cosa puoi raccontarci di Jack Owens? Ricordo un episodio in particolare, e fu quando una
Ora con chi suoni? Suono ancora qualche volta con Jimmy “Duck” Holmes.
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INTERVISTA Rufus Roach e Harold Quinn: due appassionati
di Michele Paglia e Giacomo Lagrasta
nche in Mississippi, come da noi, molte persone si sono cimentate nel blues per diversi anni e non hanno mai avuto la forza o il talento per diventare musicisti professionisti. Queste persone, che spesso suonano blues per passare qualche serata con amici e altri musicisti, possono essere definiti appassionati, senza nulla togliere al loro talento musicale. Rufus Roach e il nipote Harold Quinn rientrano pienamente in questa categoria. Li abbiamo incontrati il 28 giugno 2010, durante il nostro tour nel profondo Sud, non lontano da Tchula, nella fattoria dove Rufus vive e lavora. Subito ci ha impressionato l’ospitalità con cui Rufus ci ha accolti nella sua abitazione, ci siamo sistemati in salotto e lo abbiamo ascoltato suonare sia testi originali che classici del blues. Harold Quinn, nipote di Rufus, ha accompagnato i brani con il basso, dando un tocco più incisivo ai pezzi proposti. In complesso l’esibizione è stata interessante, ed alcune parti potevano fare invidia Rufus Roach, Harold Quinn (foto Giacomo Lagrasta) persino ad un musicista di professione. Oramai era verso sera quando gli abbiamo strappato un’intervista per documentare la vo diventare un grande chitarrista, e accordare il mio strumento fatto con un’asse di loro presenza nel panorama musi- « Nel ‘62 lui si la gente diceva che se avessi lavolegno, ma non potevo perché non aveva le chiavi cale mississippiano, sempre meno faceva chiamare Trato duro ci sarei riuscito. E’ così per l’accordatura. Allora lui accordò la sua chitarra legato alla figura leggendaria del Bone, poi Teel che ho cominciato a suonare. sulla nota della mia diddley bow e suonammo per un bel pezzo. Rividi quell’uomo circa due anni vecchio bluesman e sempre più Drago e ora si fa dopo, e lui mi chiese se io ero quel ragazzo con popolata da una selva di musicisti chiamare T-Model Ora suoni spesso fuori? Hai una cui aveva suonato quella sera a Yazoo City ed io appassionati che riprendono in Ford.» band? risposi di si. Mi chiese se suonavo ancora e gli dismano canzoni e motivi che hanno No, suono qualche volta da solo nei si che stavo continuando. Ci siamo fatti una foto fatto di quella terra la culla della musica contemlocali del posto. insieme. Nel ’62 lui si faceva chiamare T-Bone, poi poranea. Teel Drago e ora si fa chiamare T-Model Ford. Si, A chi ti sei ispirato? T-Model Ford, vive non tanto lontano da qui, queCiao Rufus, dove sei nato? Richard Williams, e poi alla musica di mio zio che sto è il T- Bone a cui mi riferisco. Sono nato nel ‘47 in un posto chiamato Valhome, era un musicista locale. Vedevo suonare lui quanMississippi, a 25 miglia da Thornton. do ero un bambino, circa nel ‘51, molto tempo fa Ciao Harold, puoi parlarci di te? ormai. Sono nato nella contea di Holmes a Lexington, Come hai cominciato a suonare la chitarra? Mississippi, nel 1944, il 21 di febbraio. Ho cominHo cominciato a suonare con una chitarra autocoPuoi raccontarci qualcosa che ti è capitato? ciato a suonare nella band della scuola come batstruita. Al tempo vivevamo in una casa di legno, Si nel 64, ero in un posto chiamato Pig Men Low terista. Poi, quando ho finito la high ed allora ho appeso un filo ad un muro ed è così in Yazoo City, Mississippi, e un tizio school, ho cominciato a suonare altri che ho iniziato a suonare la chitarra. Poi mio si avvicinò chiedendo se ero in gra- «… quando in zona strumenti e ora sto imparando a padre e mia madre mi regalarono una chitarra do di accompagnarlo a suonare c'è un concerto vera, ricordo ancora che aveva 22 tasti, era una qualcosa. Io gli risposi che potevo blues vai e guardalo. suonare la chitarra. Non sono bravo come mio zio Rufus ma sto imparanStella. Appena tornai a casa mi misi subito a suointonare con il mio strumento mono- Deve essere un do. nare, me la portavo persino a letto. Al tempo volecorda qualsiasi cosa. Poi mi disse di piacere imparare.»
A
Che altri strumenti suoni? Suono anche un po’ la tastiera ed il basso. Continuo comunque a suonare la batteria.
Hai una band e ti esibisci in pubblico? No, non ho una band. Qualche volta do lezioni a chi vuole avvicinarsi alla musica. Ogni tanto, quando mi chiama, accompagno mio zio.
Hai un consiglio da dare a chi vuole avvicinarsi al blues? Il mio consiglio è di ascoltare tanti dischi di blues e, ovunque tu sia, quando in zona c’è un concerto blues vai e guardalo. Deve essere un piacere imparare.
Rufus Roach (foto Lou Bopp ©)
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Quale è stata l’esperienza più bella che hai avuto in campo musicale? Una volta, prima di diplomarmi andai in gita scolastica a vedere un concerto di James Brown. Quella è un’esperienza che non dimenticherò mai. Sicuramente l’esperienza musicale più bella che ho avuto.
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blues in italy
Ma-Moo Tones
FRANCESCO PIU Groove 004 (I)-2012-
Scoperto da Gianni Ruggiero della Groove Company “su un’isola”, la Sardegna, in quel di Narcao, perduto fra un blues/gospel di Blind Willie Johnson e parentesi soul e hendrixiane, Francesco Piu nello spazio di soli cinque anni (2007-2012), ha già concretizzato una carriera artistica di tutto rispetto con due CD, “Blues Journey” e l’ottimo “Live At Amigdala” del 2009, inframmezzandoli con due anni accanto a Davide Van De Sfroos e copiosi concerti, a proprio nome, in locali e festival anche all’estero. Una crescita artistica soddisfacente ma non totalitaria, perché gli mancava di avverare un desiderio: realizzare un CD con la complicità di un suo musicista di riferimento. I sogni a volte si tramutano in realtà e, sempre sotto la professionale gestione del suddetto Gianni Ruggiero (divenuto anche una sorta di fratello maggiore per Francesco), della produzione artistica di questo terzo CD si è preso cura Eric Bibb, artista che non ha certo bisogno di presentazioni e che continua a tenere accesa la discussione se sia meglio su disco o dal vivo. Determinante per Piu è stato anche l’incontro con Daniele Tenca la cui concreta sensibilità anche come autore, li ha portati a diventare insieme i responsabili di testi e musica di sei pezzi; che sia nata la nuova coppia….Battisti/Mogol del blues? Da sottolineare anche il fatto che Francesco, investito da un periodo esaltante per la sua professione, ha per la prima volta messo in gioco la sua qualità di autore scrivendo di suo pugno due pezzi. Ma torniamo alla presenza di Bibb nel ruolo di produttore artistico, ruolo che ci ha consentito un legittimo pensiero riguardante il rischio di modificare le istintive sonorità di Piu a favore di situazioni più consone al musicista neroamericano. Ciò non è avvenuto, perché la presenza di Bibb non è stata assolutamente ingombrante, in quanto si è limitata a qualche consiglio su come evidenziare meglio la voce del
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nostro, per ricavarne maggior efficacia. Francesco, che passa con estrema disinvoltura dalle chitarre acustiche, all’elettrica, al banjo, è sempre coadiuvato dall’eccellente Davide Speranza, inesauribile con l’armonica a riempire qualsiasi spazio, e dall’infaticabile Pablo Leoni ai tamburi, versatile nel sostenere la base ritmica. Il CD si apre con “The End Of Your Spell” un pungente blues che tratta l’amara riflessione sulle drammatiche condizioni sociali devastate anche dalla televisione, segue il corposo “Over You” che precede la prima cover, “Trouble So Hard”, cantata con trasporto e che dimostra la passione di Francesco per il gospel. Bella è la ballata “Blind Track” (la mano di Daniele Tenca anche nella parte musicale si sente). Vivace nel suono ma non nel testo (sempre di Daniele) è “Colors”, mentre “Overdose Of Sorrow” e “Down On My Knees” (anche questa ottima) sono composte interamente da Piu con una verniciata di funky/soul per la prima (con Bibb presente alla chitarra baritono), e un testo sacro con accenti sincopati stile New Orleans per la seconda. Due cover chiudono il CD, l’ipnotica e inusuale versione con chitarra elettrica di “The Soul Of A Man” e l’acustica strumentale con il solo Francesco “Third Stone From The Sun” di Hendrix. E’ il disco più espressivo e maturo di Francesco Piu, ha un respiro internazionale, ed è già nella lista dei migliori dell’anno, anche per la grafica e il libretto con i testi.
è stato ormai spremuto e consumato e dunque risulta difficile ritrovare buone sensazioni, ma gli Harpin On Blues hanno avuto la capacità di farci ricredere in parte a quello detto una riga sopra, per la naturale spontaneità e freschezza messe in campo. A ciò va aggiunto il riuscito amalgama fra i musicisti, Paolo Demontis armonica e sax, Beppe Rainero chitarra elettrica, dobro e voce, Gianluca Martini contrabbasso e Massimo Gianoglio batteria, bravi per essenzialità e naturalezza nel collocare gli strumenti dove necessitano, sax e chitarra elettrica, ben sorretti dalla ritmica, hanno ben ridisegnato, “Easy Baby” e “I Just Want A Little Bit” di Magic Sam. Riposto il sax e presa fra le mani l’armonica, il leader Demontis pesca nel repertorio di William Clarke, “Greasy Gravy” e James Cotton, “Midnight Creeper”, due efficaci strumentali. Chi si avventura fra il blues di Chicago sa che deve passare anche da Muddy Waters, ed è così che gli Harpin On Blues hanno fatto con una convincente rilettura elettroacustica di “I Can’t Be Satified”, con una snella versione di “Sugar Sweet” e con il tempo medio di “Trouble No More”. Per contatti www.reverbnation.com/harpinonblues
VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI
Old Stories For Modern Times Totally Unnecessary (I)-2012-
A.O. Blues
HARPIN’ ON BLUES Autoprodotto (I)-2012-
È inevitabile che la frenesia per l’esordio discografico sia alimentata da una serie di fattori, fra i quali, sistemare la scaletta dei pezzi. Il quartetto torinese ha ovviato a quel problema mettendoli in ordine alfabetico, da qui il titolo del loro CD, A (alphabetic) O (order) Blues. Sono nove cover, sette delle quali sono dei classici del Chicago Blues. Tale scelta oggi è alquanto rischiosa per il semplice fatto che il repertorio della città ventosa
Con tocchi di freschezza e bravura, Veronica Sbergia e Max De Bernardi, presa una pausa discografica come Red Wine Serenaders, continuano a togliere la polvere da vecchie registrazioni rivitalizzandole con un uso qualitativamente moderno. Per questo CD hanno ripreso altri quindici pezzi tutti rigorosamente dei primi decenni del secolo scorso, decenni di grandi trasformazioni in cui bisognava avere carattere per non farsi sopraffare dagli eventi, dalle ostilità anche fra la stessa razza, e dalla supremazia maschile nei confronti della donna, fatto questo, tenuto ben sotto controllo per quanto riguarda due grandi interpreti della musica neroamericana come Sophie Tucker e Memphis Minnie. Questo
per dire che il repertorio scelto da Veronica e Max va dal 1910 (con un pezzo della Tucker) al 1938 (con un pezzo della Minnie). Nel mezzo tante altre storie di figure maschili e femminili, fra blues, ragtime, jazz primordiale, folk, atmosfere del Vaudeville, dei Medicine Show, dei frequentatissimi bordelli e del sudore dei campi di cotone. È un CD dove Veronica Sbergia conferma con le sue sfumature vocali un’aderenza ai temi stilistici trattati (suona anche il washboard e il kazoo), e dove Max De Bernardi, non dividendo questa volta gli spazi come nei Red Wine, si inoltra più frequentemente al canto solista e con i vari strumenti a corda, si sobbarca un gran lavoro di solismi, accompagnamento e rifinitura. Insieme si fanno ricordare per il cadenzato blues, “Press My Button (Ring My Bell)”, per la vivace “Beedle Um Bum” cantata a due voci, per la lenta “Miss The Mississippi And You” (di Jimmie Rodgers), per il blues “The Last Kind Words”, per l’ottima ripresa di “Keep Your Hands Off Her” (di Big Bill Broonzy) e per “Long As I Can See You Smile” (della grande Memphis Minnie). Il microfono passa poi al solo Max De Bernardi che, in solitudine con le sue chitarre, esegue due ottimi blues, “Ragged But Right” (di Riley Puckett) e “Kentucky Blues” (di Little “Hat” Jones). A rendere squisito il CD ci pensano anche alcuni ospiti, Sugar Blue all’armonica, ben calato nell’atmosfera swing di “Viper Mad” (di Sidney Bechet); Massimo Gatti con il mandolino e Leo Di Giacomo con la chitarra acustica, per la trascinante “Some Of These Days” (di Sophie Tucker), dall’incalzante ritmo che ci rimanda al grande Django Reinhardt; Bob Brozman con la sua resofonica per il blues in “Cigarettes Blues” e per la ballata (bravissima Veronica al canto) “Sweet Papa (Mama’s Getting Mad)”. Per ulteriori informazioni www.redwineserenaders.it
TBB & Friends
THE TRUE BLUES BAND Autoprodotto (I)-2012-
Riemerge il nome di Lorenz Zadro, questa volta non per il ruolo di orga-
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nizzatore del mega evento, “Blues Made In Italy”, ma come musicista, chitarrista per la precisione, e membro di questa blues band veneta (composta da chitarre, tastiere, sezione ritmica e sezione fiati), che presta la sua “manodopera” dal vivo, sia a colleghi italiani, che americani ed europei. Alcuni di loro sono stati dunque coinvolti per dar forma ad un CD non scevro da una canonicità dentro la quale però si nota qua e là una volontà di creare una propria identità, soprattutto per quanto riguarda alcuni testi con tematiche di tutto rispetto, composte sia dal solo Valter Consalvi (voce e chitarra ritmica) che in coppia con Lorenz, ai quali va dato merito di aver messo l’accento su due incresciose storie del nostro paese, la prima, dal titolo “Q.33” con un misurato passo funky, è una testimonianza sull’inferno della battaglia di El Alamein (durante la seconda guerra mondiale), raccolta da un reduce paracadutista, Giorgio Peruzzi, e la seconda “I Don’t Agree!” un agile blues con il coinvolgimento di Stefano Zabeo alla chitarra e canto: un omaggio al grande Peppino Impastato dove, sul finale del pezzo si può ascoltare la sua voce recuperata da una delle sue trasmissioni a Radio Aut. Proseguendo nell’ascolto, si nota come la TBB sia disposta su più fronti stilistici della musica neroamericana, e non sia subalterna nei confronti di alcuni suddetti colleghi di lungo corso e più affermati. Non ci sono personalismi o fughe in avanti, tutti fanno fronte comune per creare un bel clima che estrapoliamo da alcuni episodi come “The Bridge”, una ballata elettroacustica con Roby Zonca; da “Night Life” uno slow blues con fiati ed eseguito a due voci, l’ospite Matteo Sansonetto e Valter Consalvi, quest’ultimo con una vocalità più conforme al clima; “Get Up, Get Down” un tempo medio con Sarasota Slim alla chitarra solista e da “Something You Got” versione blues/soul ben cantata in duetto fra Stephanie “Ocean” Ghizzoni e sempre Valter Consalvi. Notevole è poi l’oscuro blues “July 22” con Dave Moretti voce e armonica, il suono slide della chitarra di Lorenz(?) ed un efficace sezione ritmica percussiva. Ci sono anche i fratelli Limido fra gli ospiti, Franco voce e armonica, Marco chitarra, i quali con il solo accompagnamento di basso e batteria della TBB, eseguono un loro rarefatto slow blues, “Livin’ Lovin’ Drinkin’”, feeling allo stato puro! L’ultimo ospite in ordine di apparizione è l’inglese Rowland Jones (voce e chitarra) che in duo con Lorenz, rivisita una ballad di Bob Scaggs, “I Just Go”. Per contatti www.thetruebluesband.com
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Shock!
ONE MAN 100% BLUEZ Autoprodotto (I)-2012-
Si rimane favorevolmente “scioccati” dal nuovo lavoro di Davide Lipari, alias One Man 100% Bluez, per una serie di fattori che andiamo ad esporre con lo stesso criterio di quando… maneggiavamo solo i 33 giri, perché di questo si tratta e non di CD, primo fattore. Il secondo è la copertina, fronte e retro molto originali, vivace, luminosa e composita, dove forse sono i ricordi, gli affetti e passioni di Davide che fanno bella mostra con foto e immagini varie che ornano la sua figura sul davanti e quella del fido batterista Ruggero Solli (stretta in una mano) sul retro. Poi c’è il terzo fattore: togliere il disco dalla custodia, metterlo sul giradischi, appoggiare la puntina, ed ecco che si viene da subito catapultati nei varî studi di registrazione mississippiani dove la Fat Possum ha concepito quell’idioma blues che ha fatto proseliti ovunque e ha creato un forum di discussioni fra gli appassionati, se è logico o meno rivitalizzarlo anche con inserimenti di elettronica come è avvenuto per qualche episodio discografico di R.L. Burnside, T-Model Ford, Asie Payton. Prima o poi da Davide Lipari, che è un profondo conoscitore e uno dei più affidabili portavoce, non solo in Italia, della suddetta tipologia blues mississippiana, dovevamo aspettarci che nel suo incessante peregrinare su per le Hills arrivasse a completare il suo percorso anche con l’aiuto di supporti elettronici. Supporti di cui, diciamolo subito per togliere qualsiasi dubbio, Davide ha usufruito con un giusto equilibrio senza che fossero mai invadenti e stucchevoli, ma anzi, contribuendo a mantenere e rafforzare un blues sempre ipnotico e intrigante. Questa situazione, intitolata “electro” e composta da sei tracce, si trova sul lato A del 33 giri, dove il bluesman romano canta e suona chitarre, banjo, stomp box, basso, armonica e percussioni, supportato dai “marchingegni” elettronici di tale Low Chef. Il connubio funziona, è attraente, tradizione e modernità non sono mai andate così d’accordo come qui, “Am I Dead?”, “Shock!”, “Frantic” e la parentesi cantata in italiano, “Cerca”, il tutto in una sorta di trance blues contagioso e con la voce volutamente in mono (anche per
tutti gli altri pezzi). Per il lato B, chiamato “acoustic”, Davide ha richiamato il prezioso Ruggero Solli alla batteria, di nuovo Low Chef e Matteo Vallicelli al contrabbasso; altre sette tracce, dove l’aspetto acustico a volte si apre all’elettrico e viceversa, ottima è “Johhny D” con il banjo, poi c’è la sincopata “My Mind And Me”, l’atmosfera alla Kimbrough” in “Lonesome Driver” e c’è della tensione in “Heaven Van”, dove Davide suona l’armonica. Anche nel lato B, come nell’altro, l’ultima traccia è cantata in italiano, la poco ottimistica, “Vedo Nero”. Di trasparente invece c’è la validità di “One Man 100% Bluez!”. Per contatti www.davidelipari.com
RUDY ROTTA
Me My Music And My Life
Pepper Cake 2071 (D)-2012-2 CD-
Questo doppio CD è un’antologia che mette a fuoco parte della lunga carriera di Rudy Rotta, ed un tale avvenimento va dunque celebrato nel modo migliore. Obiettivo raggiunto anche attraverso l’inserimento di quelle registrazioni dove Rudy ha coinvolto nomi di primo piano del blues, come Carey Bell in “So Di Blues” e “Mama Save The Children”, Peter Green nella sua “Black Magic Woman”, John Mayall & The Bluesbreakers in “My Babe”, Robben Ford in “St. James Infirmary” e “It’s All Over Now Baby Blue” e Brian Auger & The Oblivion Express in “Truth”. Non c’è nessun inedito fra i venticinque pezzi presenti, forse perchè quelli scelti rappresentano al meglio la versatilità che da sempre anima il chitarrista veronese. Blues cantato anche in italiano, reminiscenze rock, momenti acustici, una passione per i Beatles e linee dall’aspetto più orecchiabile per un tentativo di maggior presa su di un pubblico più ampio. Ma Rudy Rotta non è solo quello racchiuso in questa doppia compilation, perché continua a fare dischi ed è sempre su di un palco, più in Europa e Stati Uniti che in Italia. Silvano Brambilla
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festival Chicago Blues Festival (29a ed.): dall’8 al 10 giugno nel Grant Park di Chicago. Tra gli altri si esibiranno l’8 Fernando Jones & My band, Mississippi Gabe Carter & Black Oil Brothers, Jimmy Dawkins, Rev. K.M. Williams; il 9 Diunna & Blue Mercy, Billy Branch & Sons Of Blues, Terry “Big T” Williams, Mark “Muleman” Massey, Homemade Jamz Blues band, Geneva Red’s Original Delta Fireballs; il 10 The Rising Stars Fife And Drum Band, Lurrie Bell, Kilborn Alley, Liz Mandeville & Donna Herula Duo, Women In Blues, Mavis Staples. Info www.chicagobluesfest.us Bergamo Blues (1a ed.): dal 9 giugno al 14 agosto in forma itinerante nell’ambito della provincia di Bergamo. Si inizierà il 9 a Bergamo con Fabrizio Poggi e Soul 7ma, per proseguire il 21 a Treviglio con Cek, Eric Bibb & Staffan Astner, il 20 luglio ad Ambra frazione di Zogno con There Will Be Blood, Bud Spencer Blues Explosion, il 25 a Monasterolo del Castello con The Royal Southern Brotherhood, il 29 a Calusco d’Adda con Little Paul Duo, Elliott Murphy Band, il 10 agosto a Sarnico con Blues Explosion, l’11 a Spinone al Lago con Chemako, Veronica Sbergia & Red Wine Serenaders, il 14 a Valbondione con Treves Blues Band. Info www.geomusic.it Torrita Blues Festival (24a ed.): dal 21 al 23 giugno a Torrita di Siena (SI), con la partecipazione dei vincitori di Effetto Blues 2012, Eric Bibb & Fabrizio Poggi, Joe Louis Walker & Todd Sharpville, The Cyborgs, Mac Arnold & Plates O’ Blues con Paul Reddick. Info www.torritablues.it Jazz Ascona (28a ed.): dal 21 giugno al 1° luglio ad Ascona, Svizzera, con la presenza, tra gli altri, di Davina & The Vagabonds, Irma Thomas, Lilian Bouttè’s Gumbo Zaire con Pee Wee Ellis. Info www.jazzascona.ch Vintage Roots Festival (4a ed.): dal 21 al 24 giugno ad Inzago (MI), con la partecipazione di Mark Tortorici, Dr. David Evans, 19 th Street Red, The Big Fat Mama, Max Prandi, The Jacknives. Info www.vintageroots.it Ameno Blues (8a ed.): dal 22 giugno al 14 luglio, e che quest’anno interesserà le località del Lido di Gozzano ed Ameno in provincia di Novara. Se l’apertura del 22 giugno sarà al Lido di Gozzano con T. Rogers Band, Roberto Luti & Luke Winslow King Band, tutte le altre date avranno quale sede Ameno. Toccherà il 29 a Fabio Marza Band, The Blasters, a cui faranno seguito il 30 Paolo Bonfanti Band, Dave Kelly, il 5 luglio Latvian Blues Band, Zakyia Hooker, il 13 Karl Wyatt & Maurizio Bestetti, Dwayne Dopsie & Zydeco
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Hellraisers, il 14 T. Roosters, Mz Dee Big Band. Info www.amenoblues.it Mojo Station Blues Festival (8 a ed.): il 22 e 23 giugno al Circolo degli Artisti, Via Casilina Vecchia, Roma, con la partecipazione di Dead Shrimp, Angelo “Leadbelly” Rossi & Ruggero Solli, Hollowbelly il 22, e di Spookyman, The Blues Against Youth, Luke Winslow Trio & Roberto Luti il 23. Info www.mojostation.net Rootsway Roots’n’Blues Food Festival (8a ed.): itinerante in alcune località della provincia di Parma, si snoderà quest’anno nei giorni 22 e 23 giugno a Coltaro di Sissa con Francesco Piu, Alligator Nail, Hollowbelly, T. Rogers Band; il 29 e 30 presso La Corte Le Giare di Ragazzola con Sindacato del Mojo, Valceno Country Dance, Bluegrass Stuff, Nathan James & Franco Limido, Gnola Blues Band; il 6 e 7 luglio al Podere La Bertazza a Diolo di Soragna con Luke Winslow King Band & Roberto Luti, Latvian Blues Band, Mandolin’ Brothers, Chemako & Debbie Walton. Info www.rootsandblues.org Dal Mississippi al Po (8 a ed.): dal 28 giugno al 1° luglio a Piacenza con incontri pomeridiani con scrittori, giornalisti, poeti e critici, mentre musicalmente si potrà ascoltare il 28 Joe Louis Walker, il 29 Roland Tchakounte, il 30 Alain Apaloo AP3 ed il 1° luglio Popa Chubby. Info www.festivalbluespiacenza.it North Mississippi Hill Country Picnic (7a ed.): a Potts Camp, Mississippi, USA, dal 29 al 30 giugno, con, tra gli altri, North Mississippi Allstars Duo, John Wilkins, Robert Belfour, Cedric Burnside Project, TModel Ford, David Kimbrough, Jimbo Mathus, Eric Deaton, Rising Star Fife & Drum Band, Duwayne Burnside, Kenny Brown. Info www.northmississippihillcountrypicni c.com Rapperswil-Jona Blues ‘n’ Jazz (14a ed.): dal 29 giugno al 1° luglio a Rapperswil-Jona, Svizzera, con, tra gli altri, Wilko Johnson, Rudy Rotta, Veronica & The Red Wine Serenaders, Zakiya Hooker, Paul Reddick, Fabrizio Poggi (il 29); Joe Louis Walker, Mac Arnold & Plate Full O’ Blues, The Commodores (il 30). Info www.bluesnjazz.ch Montreux Jazz Festival (46a ed.): dal 29 giugno al 14 luglio presso l’omonima cittadina svizzera sul lago Lemano, con Taj Mahal, Joe Bonamassa Acoustic Project il 29; Bobby Womack il 6 luglio; Van Morrison, Buddy Guy il 7; Chicago Blues: A living History l’8; Hugh Laurie, Dr. John, Trombone Shorty & Orleans Avenue il 9. Info www.montreuxjazz.com Blues In Villa (14a ed.): dal 29 giugno al 3 luglio a Brugnera (PN), con
Joe Louis Walker il 29, Stevie Salas & Bernard Fowler – I.M.F.’ Project il 30, 19 th Street Red, Henrik Freischlader Band il 1 luglio, Mike Stern/Richard Bona Band il 2, Just Duet, Soultrax feat. Donna Gardier il 3. Info www.bluesinvilla.com Cognac Blues Passion (19 a ed.): dal 3 all’8 luglio a Cognac, Francia, con Chicago Blues A Living History, Billy Boy Arnold, Chaney Sims & Bill Sims Jr., Dave Arcari, Guy Forsyth, Heritage Blues Orchestra, John Primer, Nathan James, Robert Randolph, Terry “Harmonica” Bean, The Delta Saints, The Excitements. Info www.cognacbluespassions.com San Vito Blues & Soul Festival (11a ed.): dal 6 al 14 luglio a San Vito di Cadore (BL) ed in altre località del Cadore, con Alligator Nail & Max Lazzarin il 6, The Creole Band & Ty Leblanc il 7, Gianna Cerchier & The Power Play il 12, 19 th Street Red, Bella Blues Band & Kay Foster Jackson il 13. Info www.sanvitobluesandsoul.it Vallemaggia Magic Blues (11 a ed.): dal 6 luglio al 3 agosto in varie località della Vallemaggia, Svizzera. A Brontallo ll 6 luglio Woman In Blues, Zakiya Hooker; a Moghegno l’11 Max Dega & Bev Perron, Wilko Johnson ed il 12 Donnie Romano Trio, Latvian Blues Band; a Giumaglio il 18 Neal Black & The Healers, Eric Sardinas ed il 19 Marco Marchi & The Mojo Workers, Joan Armatrading; a Cevio il 25 Eamonn McCormack, Manfred Mann’s Earth Band ed il 26 Fabrizio Poggi & Chicken Mambo, Sweet Soul Music Revue; ad Avegno il 2 agosto Jessy Martens, Blues Explosion 2012 ed il 3 Wolfgang Kalb, The R&B Allstars. Info www.magicblues.com Nice Jazz Festival (18a ed.): dall’8 al 12 luglio a Nizza, Francia, con Tinariwen, Dr. John il 10; Amadou & Mariam, Robert Randolph, Sharon Jones il 12. Info www.nicejazzfestival.fr Liri Blues Festival (25a ed.): dall’11 al 15 luglio ad Isola del Liri (FR), con l’11 Keb’ Mo; il 12 Veronica Sbergia & Max De Bernardi Duo, Fabio Treves Quintet con Guitar Ray; il 13 Guy Davis & Fabrizio Poggi; il 14 Bap Kennedy; il 15 Joan Armatrading. Info www.liriblues.it Etna In Blues: dal 12 al 14 luglio a Mascalucia (CT). Info www.etnainblues.it Pistoia Blues Festival (33 a ed.): dal 13 al 15 luglio a Pistoia, con la presenza di Gerry McAvoy’s Band Of Friends, B.B. King il 13; Leblanc, Gov’t Mule, John Hiatt il 15. Info www.pistoiablues.com Porretta Soul Festival (25 a ed.): dal 19 al 22 luglio a Porretta Terme (BO), con la partecipazione di The
Bar-Kays, The Bo-Keys, Otis Clay, Syl Johnson, David Hudson, John Gary Williams, Memphis All Stars R&B Band, Larry Springfield, Tasha Taylor, The Excitements & Jean Koko Davis, The Sweethearts, Ban Cauley, Robin McKelle & Flytones, The Real Mother Funkers. Info www.porrettasoul.it Trasimeno Blues Festival (17 a ed.): dal 19 al 29 luglio, con eventi collaterali quali le vignette finaliste del Trasimeno Blues Cartoon Fest etc. Musicalmente invece saranno impegnati, Royal Southern Brotherhood, Eric Bibb & Habib Koitè, Bernard Allison, Leblanc, Dwayne Dopsie & The Zydeco Hellraisers, The Dynamics, Mz Dee & Maurizio Pugno Large Band, Mississippi Big Beat, P-Funking Band, Veronica & The Red Wine Serenaders, Paul Venturi & Max Sbaragli, Betta Blues Society, One Man 100% Bluez, Amanda & La Banda, Lil’ Cora & The Soulful Gang, The Ukulele Lovers, etc. Info www.trasimenoblues.it Narcao Blues (22a ed.): a Narcao (CI). Info www.narcaoblues.it Torre Alfina Blues Festival (8 a ed.): dal 20 al 22 luglio nel Borgo di Torre Alfina nel comune di Acquapendente (VT). Info www.torrealfinablues.com Notodden Blues Festival (25a ed.): dal 2 al 5 agosto a Notodden, Norvegia, con Z Z Top, Paul Rodgers, Jonny Lang, Ten Years After, Fabulous Thunderbirds, Ruthie Foster, The Mannish Boys, Southside Johnny, Rod Piazza, Roomful Of Blues & James Cotton, Delta Groove Revue, Eden Brent Trio. Info www.bluesfest.no Sunflower River Blues & Gospel Festival (25a ed.): dal 10 al 12 agosto a Clarksdale, Mississippi, USA. Info www.sunflowerfest.org Tenero Music Nights (6a ed.): dal 12 al 19 agosto a Tenero, Svizzera, con la partecipazione di Lucky Peterson Band, Tom Principato & Fred Chapellier Blues Band, Drew Davies & Rhythm Combo, Jethro Tull’s Mick Abrahams, Silvan Zingg Trio & Mike Sanchez, Todd Sharpville Band, Ronnie Jones Big Band, Red Hot Blues Sisters, Egidio Juke Ingala & Jacknives, Delta Mojo Blues Duo, James Thompson Project, The Red Wine Serenaders, Diatriba. Info www.musicnights.ch Sierre International Blues Festival (4a ed.): dal 23 al 25 agosto a Plain Bellevue-Sierre, Svizzera, con, tra gli altri, Ana Popovic, Shemekia Copeland. Info www.sierreblues.ch Lugano Blues To Bop (24a ed.): dal 30 agosto al 2 settembre a Lugano, Svizzera. Info www.bluestobop.ch Mississippi Delta Blues & Heritage Festival (35a ed.): il 15 settembre a Greenville, Mississippi, USA. Info www.deltablues.org
il Blues - N. 119 - Giugno 2012