Se il cervello va a fuoco

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LA STAMPA MARTEDÌ 12 MARZO 2019

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Torna alla ribalta una concezione alternativa di uno dei disturbi mentali più diffusi al mondo Al centro delle nuove ricerche c’è Edward Bullmore, psichiatra all’università di Cambridge

Se il cervello va a fuoco Chi soffre di depressione spesso è vittima di infiammazioni che scatenano molecole tossiche NEUROSCIENZE MAURILIO ORBECCHI

ual è la causa di maggiore disabilità nei Paesi ad alto livello di sviluppo? Verrebbe da pensare all’infarto, al cancro, all’ictus e malattie simili. Invece, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità, i danni maggiori alla capacità espressiva e lavorativa derivano dai disturbi mentali. In particolare, la sola depressione causa un danno sociale equivalente a circa il 4% del pil. Vale a dire che, se trovassimo una cura immediata e definitiva per questo disturbo, un Paese come l’Italia passerebbe dalla stagnazione a una forte crescita.

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Purtroppo, però, dal punto di vista terapeutico la situazione è ferma agli Anni 80, quando vennero introdotti gli antidepressivi serotoninergici, così chiamati perché aumentano il livello della serotonina e di altri mediatori cerebrali nelle sinapsi, gli spazi di giunzione tra i neuroni. La teoria che manca Tuttora, non disponiamo ancora di una teoria condivisa sulla genesi della depressione. L’idea che la carenza di serotonina ne sia la causa, perché in una discreta percentuale di depressi il suo aumento spesso migliora l’umore, è semplicistica. La depressione emerge come una manifestazione dovuta a cause molteplici e, quindi, va

curata in modi diversi, non con una singola panacea. Le ricerche scientifiche sulla depressione hanno fatto tornare alla ribalta un’idea non nuova, che ha però ripreso straordinaria vitalità, conquistando l’interesse degli studiosi: si tratta della teoria infiammatoria della depressione, descritta in maniera eccellente da Edward Bullmore, professore di psichiatria all’università di Cambridge, nel suo «La mente in fiamme», in questi giorni in libreria per Bollati Boringhieri. I depressi hanno un maggior numero di infiammazioni, anche provocate da fattori psicosociali come stress cronico, avversità della vita e povertà, oltre che da eventi fisiologici come menopausa o in-

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vecchiamento. L’infiammazione attiva la risposta del nostro sistema immunitario, che cerca di distruggere l’elemento patogeno penetrato nell’organismo. Questa difesa naturale porta, però, alla produzione di prodotti di scarto che consistono in molecole proteiche chiamate citochine, le quali possono avere un’azione a distanza. Giungono a superare la barriera ematoencefalica e a intossicare il cervello, attivando le cellule della microglia (il sistema immunitario del cervello). A loro volta queste cellule rilasciano altre citochine, che vanno a danneggiare ulteriori aree del cervello. Quando avviene questo processo, le connessioni si perdono o diventano più rigide, il rifornimento di serotoni-

na a livello delle sinapsi viene perturbato e molti neuroni tendono a diventare più piccoli e a morire. In questo modo si può spiegare il collegamento tra infiammazione, depressione, perdita di memoria e gli altri problemi cognitivi che si ri-

scontrano nei depressi. Anche se ci sono ancora nodi da sciogliere, non sembrano ormai esserci dubbi sul fatto che infiammazione e depressione siano unite da un nesso causale e che in molti casi la depressione non derivi dalla


MARTEDÌ 12 MARZO 2019 LA STAMPA

tuttosalute no che l’aumento dell’infiammazione può precedere la depressione anche di anni. Il cambiamento di visione osserva Bullmore nel suo interessante libro - non è una questione puramente teorica: la neuro-immunologia potrebbe offrirci in futuro nuovi approcci terapeutici, magari legati all’uso di anticorpi anticitochine. Si tratta di nuovi metodi di cura che saranno probabilmente meno invasivi di quelli attuali.

riflessione sui propri problemi, bensì da una componente di carattere fisico. Sperimentalmente, un ratto a cui vengano iniettati batteri infettivi si ritira dal contatto sociale e si ritrova con il sonno e l’alimentazione disturbati, come acca-

de agli esseri umani depressi. Potrebbe trattarsi di una risposta emersa nel corso dell’evoluzione, quando una malattia, in mezzo alla savana, costringeva il malato a ritirarsi e a usare tutta la sua energia per guarire. Molti studi dimostra-

Architettura e funzionalità Gli studiosi sanno da tempo che attività come la psicoterapia, la meditazione, lo yoga, il tai chi e gli esercizi fisici quotidiani modificano la microarchitettura e la funzionalità del cervello, aiutando a gestire lo stress e rinforzando il sistema immunitario che produce effetti antinfiammatori. In questa direzione va anche l’alimentazione con almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno, come ripete incessantemente l’immunologo Alberto Mantovani. Tuttavia, queste pratiche, certo salutari, nella maggior parte dei casi non sono sufficienti, perché la depressione è inibente e tende a generare paralisi motivazionale e inattività. Perciò si stanno cercando nuovi metodi di stimolazione diretta del sistema immunitario. Si tratta di una strada che ha già portato a buoni risultati in oncologia e che si sta rivelando sempre più uno dei fattori chiave della nostra salute psicofisica. — c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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UNO STRUMENTO PER SVILUPPARE E PRESERVARE I NEURONI

L’onda delle note aiuta la mente “Educa i bimbi, protegge gli anziani” NICLA PANCIERA

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suon di lettere. La musica è un valido supporto nell’insegnare ai più piccoli a parlare e a leggere. Non solo. La pratica e l’ascolto musicale nel corso della vita dimostrano di avere benefici effetti sulle altre funzioni cognitive. Fino alla terza età, quando viene inserita tra le pratiche capaci di alleviare i sintomi di alcune malattie neurodegenerative, come il Parkinson. Ma in che modo due linguaggi così diversi, come quello musicale e quello verbale, possono interagire? Perché le elaborazioni cerebrali dei due tipi di stimoli sono correlate, sebbene non esattamente identiche. Se da un lato ci sono numerose evidenze che rivelano l’attivazione delle medesime aree neurali durante la loro elaborazione, altri lavori mostrano che musica e linguaggio sono processati diversamente e alcune componenti sono dissociabili. Entrambi originano dallo stesso sistema di riconoscimento dei suoni e hanno alcune caratteristiche in comune, come il ritmo, il timbro, la tonalità, l’altezza, la durata del suono. E oggi sappiamo che le attività

svolte su una base ritmicomusicale possono favorire l’acquisizione delle abilità fonologiche e l’automatizzazione dei processi di lettura. Di questo si parlerà giovedì all’Università Cattolica di Milano nell’incontro «Il cervello musicale e il linguaggio», una delle iniziative organizzate in occasione della Settimana mondiale del Cervello, celebrata in 80 Paesi fino al 17 marzo. Scopo della Settima-

Al via nel mondo la settimana dedicata a un organo ancora enigmatico na, che in Europa è coordinata dalla «European Dana Alliance for the Brain», è sottolineare l’importanza della prevenzione nella lotta alle malattie neurologiche, che solo in Italia colpiscono 5 milioni di persone. «Lo slogan è “proteggi il tuo cervello”», ha spiegato Gianluigi Mancardi, direttore della Clinica neurologica dell’Università di Genova e presidente della Società Italiana di Neurologia, che aderisce all’iniziativa. «Prevenzione significa

adottare stili di vita sani e svolgere attività cognitivamente stimolanti per aumentare la “riserva cognitiva”». Secondo questa teoria, più la vita è ricca di contatti e stimoli e migliore sarà l’efficienza del cervello, che arriverà ben nutrito - e ciò significa maggiori vascolarizzazione e densità sinaptica - nell’età avanzata e quindi più al riparo dal danno neuronale. Tanto che alcuni suggeriscono di usare il termine «mantenimento cerebrale». Tra queste attività ludico-ricreative, ci sono la lettura, il ballo e, appunto, la musica: il suo apprendimento non coinvolge solo le aree preposte all’udito, al linguaggio e alla «motricità fine», ma influisce sulle funzioni cognitive connesse alla percezione spaziale, alla memoria e all’attenzione. Il cervello, in effetti, funziona come un’orchestra grazie all’attività di tante aree. Quando una sezione «suona» bene, trascina anche le altre. Non stupisce quindi che proprio la musica - ascoltata, cantata ed eseguita e con la capacità di coinvolgere così tante funzioni cognitive - continui a essere sotto i riflettori della ricerca. — c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


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