Orbecchi, l'indice, maggio 2016, Come trasformare un neonato in un trentenne alcolizzato

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La profonda influenza dei traumi infantili Come trasformare un neonato in un trentenne alcolizzato di Maurilio Orbecchi

Segnali

- Psicologia

importanza del trauma, come fattore di grave L’ disturbo psicologico e sociale, è consapevolezza che oggi fa parte della psicologia del mondo occiden-

tale tanto da apparire ovvia e scontata. Il concetto è così radicato, che sembra provenire da tempi remoti. Eppure è soltanto negli ultimi duetre decenni del Novecento che il trauma è stato ufficialmente riconosciuto come fattore patogeno con l’inserimento del Disturbo post-traumatico da stress nel Dsm, il manuale di psichiatria che fornisce un linguaggio comune agli psichiatri di tutto il mondo. Buona parte del merito va ai veterani del Vietnam, che radunandosi in rap groups autogestiti, e chiamando gli psichiatri ad assistere ai loro incontri, contribuirono a far riscoprire l’importanza patogena del trauma già messa in luce dal medico e psicologo francese Pierre Janet negli ultimi due decenni dell’Ottocento. In seguito la sua scoperta fu oscurata per quasi un secolo dal trionfo della psicoanalisi freudiana e dalla linea di ricerca, rivelatasi stagnante, che proveniva dall’errata idea di Freud del conflitto patogeno tra pulsioni sessuali e cultura, tra eros e civiltà. Oggi sappiamo che per creare problemi di salute psicologica a un individuo sono sufficienti avvenimenti che si presentano a tutti nel corso della vita: un incidente, un lutto, la perdita di un posto di lavoro: “Non bisogna essere un soldato o visitare un campo profughi in Siria o in Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade intorno a noi, ai nostri amici, alle nostre famiglie e ai nostri vicini” scrive Bessel van der Kolk, già professore di psichiatria alla Boston University, nel suo interessante libro Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche (ed. orig 2015, trad. dall’inglese di Sara Francavilla e Maria Silvana Patti, pp. 514, € 33, Raffaello Cortina, Milano 2015), che descrive i più avanzati modelli e le più efficaci terapie del trauma a studiosi del settore e lettori interessati in un libro rigoroso e scorrevole. Oggi siamo anche a conoscenza del fatto che i traumi subiti durante l’infanzia sono determinanti, e che la qualità della vita usufruita dall’individuo in quel periodo è il più importante fattore in grado di predire buona, o cattiva, salute fisica e psicologica per tutta la sua vita. Siamo generalmente al corrente dell’intima relazione tra cure genitoriali e salute biologica. Sappiamo che l’insensibilità, la durezza, la trascuratezza e l’invadenza dei genitori portano a conseguenze patologiche per i bambini, mentre la capacità di riprendersi dalle avversità, dai lutti e dalle delusioni – vale a dire la resilienza – deriva dalla fiducia trasmessa dal caregiver nei primi due-tre anni di vita. Generalmente però non sappiamo che la situazione è talmente rilevante che l’abuso infantile nelle sue diverse espressioni di violenza fisica, sessuale, emozionale, o di trascuratezza è considerato oggi dagli esperti la più grave, costosa e urgente questione di salute pubblica nel mondo. Soltanto negli Stati Uniti, estirpare l’abuso infantile ridurrebbe il tasso di depressione della metà, l’alcolismo di due terzi, il suicidio, l’uso di droga e la violenza domestica di tre quarti. A tutto questo si aggiungerebbe una notevolissima riduzione delle principali malattie somatiche, cosa che, tra l’altro, comporterebbe un notevole risparmio per i vari sistemi sanitari tanto che la diminuzione degli abusi dovrebbe essere uno priorità per uno Stato moderno al fine di svolgere un’opera di prevenzione. Di fronte a simili risultati la consapevolezza generale non è soddisfacente e la risposta delle istituzioni è ancora scarsa. Negli Stati Uniti il National Child Traumatic Stress Network è stato istituito dal Congresso soltanto nel 2001. Molte nazioni occidentali sono ancora prive di

istituti e di politiche preventive adeguate. I bambini sono straordinariamente sensibili agli eventi avversi principalmente per due motivi fondamentali. Il primo è che sono altamente emotivi e scarsamente cognitivi: la parte centrale del cervello, il mesencefalo, è condivisa tra tutti i mammiferi con omologie sorprendenti anche a livello biochimico, ed è già piuttosto matura alla nascita, mentre la parte riflessiva corticale impiegherà oltre due decenni per formarsi fino in fondo. Non hanno quindi la possibilità di elaborare e di affrontare quanto sta avvenendo. La seconda ragione consiste nel fatto che i bambini non sono in grado di sopravvivere da soli per cui hanno bisogno, come ha dimostrato John Bowlby, di attaccarsi a una figura che li accudisca, li protegga, li guidi con amore verso una sintonizzazione emotiva armonica col mondo. Nel caso in cui la figura che li aiuta è la stessa che ha comportamenti inadeguati, spaventanti o trascuranti, si innesca nel bambino un conflitto irrisolvibile tra il fuggire la minaccia e la spinta biologica a trovare rifugio nella persona che si occupa di loro, che però è anche quella stessa che crea loro stress. Si tratta di conflitto di impossibile elaborazione per un bambino, che si risolve con la formazione di un legame di attaccamento insicuro,

o disorganizzato, che condizionerà la persona per il resto della sua vita relazionale e affettiva, con modelli di comportamento che creeranno problemi a chi ha non ha avuto una base sicura nel primo anno di vita. Se, nel corso dell’infanzia, a un attaccamento di scarsa qualità si aggiungono abusi fisici, sessuali, emozionali o trascuratezze emotive si ottiene una miscela distruttiva che forma quello che è stato chiamato da Judith Herman “disturbo post traumatico da stress complesso”, e da altri “trauma dello sviluppo”, che porta verso la disistima di se stessi, la depressione e le condotte autolesive. Non si tratta di situazioni rare, o di eventi che riguardano soltanto le fasce marginali della società, ma di fatti diffusi e pervasivi con conseguenze più comuni e complesse dell’impatto di un uragano. Sono questi gli eventi, scrive van der Kolk, che “possono trasformare un neonato con tutte le sue promesse in un barbone trentenne ubriaco”. I bambini traumatizzati sono stati svalutati, per cui spesso si sentono ignobili, sono ipervigili, soggetti a reazioni più immediate degli altri, e possono impiegare tutte le loro energie per il controllo della tensione. Ne rimane loro ben poca per lo studio e per i normali compiti scolastici. Per alleviare la loro autosvalutazione e la loro tensione, tendono a un affidamento totale, anche nei confronti dei loro persecutori, per cui da adulti saranno facilmente vittime di ideologie, integralismi e fondamentalismi anche sotto formo di fanatismo. Se il “trauma dello sviluppo” fosse riconosciuto

come entità nosografica dal Dsm ci sarebbero maggiori finanziamenti per affrontare gli enormi problemi di supporto e sostegno psicologico e sociale alle famiglie in difficoltà per cercare di prevenire i traumi sui bambini. I risultati offerti dai pochi centri pilota che hanno avuto la possibilità di effettuare interventi diretti di prevenzione nei contesti di violenza domestica e abuso di droghe sono molto incoraggianti. Una delle maggiori conseguenze dei traumi è la dissociazione, ampiamente descritta da Pierre Janet che pur non avendo introdotto il concetto ne è tuttavia considerato il padre per la qualità della sua sistematizzazione. La dissociazione è caratterizzata da una serie di sintomi che vanno dalla disconnessione dalla propria identità, dal proprio corpo, o dalla realtà, alle amnesie, alle fughe dissociative, ai falsi ricordi. In queste situazioni, il rapporto con il corpo gioca un ruolo dominante per cui van der Kolk, nel suo Trauma Center di Brookline, vicino a Boston, insieme alla psicoterapia, utilizza una serie di approcci corporei che hanno come obiettivo quello che lui chiama “farsi amico il corpo”. L’approccio corporeo è necessario perché il trauma, diversamente da altri eventi, incide sui ricordi somatici (il corpo accusa il colpo): l’odore della persona violenta, il senso di vomito, la stretta al cuore, le vampate, la paralisi alle gambe sono solo alcuni esempi di ricordi corporei. Per di più il modo che l’evoluzione ha fornito agli esseri umani per calmarsi è quello di utilizzare il corpo, aggrappandosi a un’altra persona. Ma le persone che durante l’infanzia sono state abusate emozionalmente, fisicamente o sessualmente da chi li doveva proteggere, da un lato desiderano il contatto fisico, dall’altro lo fuggono, o comunque non lo maneggiano bene. Per ottenere una nuova disponibilità e ristabilire la padronanza del corpo, occorre riabituare la mente a sentire le piacevoli emozioni del corpo, in un clima di fiducia. Le vittime del trauma compromettono il rapporto con il corpo e non possono guarire fino a quando non familiarizzano con lui, e ne diventano amiche, imparando a sviluppare con calma e piacere quelle sensazioni che il trauma ha obnubilato, partendo dalla capacità di percepire la fisicità sottostante alle emozioni, come il calore, la tensione muscolare, il senso di rilassamento e così via. Le persone abusate o trascurate vengono accompagnate a tollerare emozioni e sensazioni corporee senza esserne sopraffatti. Antiche terapie psicofisiche come lo yoga e la meditazione, quest’ultima oggi rivista alla luce delle neuroscienze e chiamata Mindfulness per distinguerla dalla meditazione religiosa, si rivelano molto terapeutiche insieme alle moderne terapie di desensibilizzazione e riconsolidamento dei ricordi come l’Emdr e il Neurofeedback, la terapia sensomotoria. Chi si occupa di traumi ha sperimentato che diverse procedure di intervento che coinvolgono, arte, musica, danza, canto, psicodramma, terapia di gruppo si sono rilevate efficaci, naturalmente insieme a una psicoterapia riflessiva empatica e affettiva che aiuti a diventare consapevoli del proprio passato e dell’esperienza interiore, ossia di che cosa accade dentro di noi, e al nostro corpo. Ciò che conta, come scrive van der Kolk, è che il terapeuta abbia a disposizione diverse possibilità di intervento per poter indirizzare il paziente a quegli approcci che per lui sono più adatti per curare la parte emotiva del nostro cervello, allontanandola dalla situazione di allarme e riportandola al suo lavoro ordinario di prendersi cura del nostro corpo. n maurilio.orbecchi@gmail.com M. Orbecchi è medico e psicoterapeuta


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