DICEMBRE 2010 Medicina di Famiglia
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Il secondo parere in medicina Pratica sempre più diffusa non solo nelle patologie complesse ma anche nella normale pratica clinica
Giovanni B. D’Errico Medico di Famiglia, Foggia Area Oncologia e Cure Palliative Aimef Responsabile nazionale
L’ opinione di un altro medico sia sulla diagnosi sia eventualmente sulla terapia, una volta considerato quasi offensivo, una sorta di dichiarazione di sfiducia nei confronti del primo curante oggi viene considerato legittimo e un diritto del paziente.
Si diffonde sempre di più l’uso di chiedere il secondo parere non solo in situazioni patologiche complesse, ma anche a volte per placare uno stato d’animo e uno stato emozionale provocato da allarmismi mediatici. Se il secondo parere è giustificato di fronte a una diagnosi complessa,come nel caso di diagnosi oncologiche o neurologiche, non è giustificato in presenza di patologie che non richiedono competenze superspecialistiche e/o multidisciplinari. La richiesta sempre più pressante da parte dei pazienti condiziona e contribuisce a creare uno stato di incertezza che condiziona e provoca perturbazioni nel rapporto medico paziente. Il medico di famiglia chiamato ad assolvere queste richieste, spesso non giustificate se non dalla convinzione che più pareri contribuiscono a dare sicurezza alla diagnosi e/o alla prognosi, deve mettere in atto tutta la sua competenza relazionale per districarsi di fronte a tali richieste e non cedere a richieste improprie. Per evitare di essere complice di sprechi inutili deve sempre cercare di consigliare al meglio il proprio paziente infondendo sicurezza e rendendolo partecipe nelle scelte che lui ritiene giuste secondo scienza e coscienza. Uno dei maggiori campi in cui queste richieste sono frequenti riguarda l’oncologia. Chi riceve una diagnosi complessa di cancro sente spesso il bisogno di consultare un altro sanitario per avere la conferma del referto ottenuto, ma anche di placare l’ansia della diagnosi o prognosi. Spesso dopo una diagnosi o una proposta terapeutica fatta nel proprio centro o ospedale di riferimento si cerca un centro specializzato per confermare quanto proposto. Purtroppo nel 30 per cento dei casi in cui i pazienti volontariamente richiedono il secondo parere, questo risulta essere in disaccordo con il primo”. Cio induce a cercare un terzo parere creando
confusione e sconforto nel paziente e spesso anche nel medico curante. L’abitudine del secondo parere non riguarda solo i pazienti, ma, come dimostrano alcune ricerche, anche i medici quando sono colpiti da una malattia grave. “Molti di questi medici “pazienti” cercano una seconda, una terza, una quarta o addirittura una quinta opinione, consultando esperti, nonostante siano loro i primi a mettere in guardia i propri pazienti dal fare ciò” (Klitzaman). Questo indica,che di fronte a situazioni complesse che possono mettere a repentaglio la propria vita e/o comportare delle invalidità, è naturale e giustificato sentire una seconda opinione di un esperto del settore. A volte un secondo parere si rende necessario per definire una diagnosi complessa o decidere per un intervento chirurgico rischioso. Resta inteso che il proprio medico curante rimane sempre il punto di riferimento per il paziente e la propria famiglia onde evitare inutili perdite di tempo e di denaro senza ottenere vantaggi per la propria salute, anche se il paziente rimane sempre l’unico responsabile della propria decisione. Di fronte a tale richiesta il medico del passato si riteneva offeso nella sua competenza e professionalità, oggi invece, con la possibilità di ottenere in tempi brevi tutte le informazioni sulla propria malattia e la facilità con cui ci si può recare in posti anche distanti dalla propria residenza, c’è un graduale cambiamento culturale tanto che in alcuni ospedali è previsto al loro interno un servizio dedicato al secondo parere. Le difficoltà insorgono quando i risultati di indagini eseguite sono discordanti, in questi casi, al medico curante a cui si chiede cosa fare, non resta che consigliare al meglio secondo la propria competenza professionale, sfruttando il rapporto di fiducia guadagnato negli anni con il proprio paziente per evitare di fare scelte sbagliate.
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WORLD Pillole dal Mondo
Infezione da virus dell’epatite B di Gaetano Scotto
L’ETICA E IL SENSO DELLA SPERANZA di Mauro Marin
I meningiomi cranici di Gaetano Rizzi
La vita umana, al nascere, nelle situazioni di confine di Filippo M. Boscia
Un nuovo marker biologico nelle malattie croniche intestinali di Michele Falcone e Sabrina Dembech
Medicina di Famiglia Medicina e Salute tra Scienza e Società
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La formazione dei medici di famiglia negli altri Paesi a cura della redazione
Mental coach di Dalila Campanile
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La filmografia come strumento di apprendimento di Giovanni B. D’Errico
IL grande cocomero a cura della redazione
Manuale sulle cure palliative a cura della redazione
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Medicina di Famiglia Medicina e Salute tra Scienza e Società
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Emergenza nella formazione dei futuri medici del SSN. Circa 4 medici su 10, nei prossimi dieci anni, andranno in pensione. A svestire il camice bianco saranno infatti 115 mila medici, oggi compresi nella fascia di età tra i 51 e i 59 anni, ovvero il 38% di tutta la popolazione medica attiva. Tra questi sono compresi il 48% dei medici dipendenti dei servizi sanitari regionali e Università, il 62% dei medici di famiglia, il 58% dei pediatri di libera scelta, il 55% degli specialisti convenzionati. A scattare la fotografia è la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), nel corso della II Conferenza nazionale della professione medica, oggi a Roma.Secondo la Fnomceo, dall’analisi dei dati emerge chiaro un aspetto: “la formazione dei futuri camici bianchi è una vera emergenza, per la quale serve un progetto ad hoc, efficace, che richiede innanzitutto una maggiore connettività e flessibilità nelle relazioni e nelle ‘regole di ingaggio’ tra le Facoltà di medicina e le strutture pubbliche e private accreditate dei Servizi sanitari regionali”. Un progetto a cui la Fnomceo sta lavorando, per mettere i nuovi professionisti al ‘passo dei tempi’. “Il nuovo medico - spiega Bianco - in ragione degli sviluppi straordinari della medicina come scienza tecnologica, ha bisogno di più strumenti per poter gestire queste straordinarie risorse. Che sono costose e che presentano una serie di problemi, come quello dell’appropriatezza del loro utilizzo”. Per il presidente della Fnomceo, questo scenario, pone a cascata una serie di altri problemi: “la selezione degli accessi, i contenuti formativi, la formazione degli specialisti. Ecco perchè spiega - faremo tutta una serie di proposte, che a nostro giudizio ridefiniscono un modello di formazione che vede una forte integrazione tra l’attività storica dell’università e l’attività formativa del Ssn”. Università e Ssn che, per Bianco, “devono vivere un momento di forte cooperazione per superare l’emergenza nella qualità”. Il progetto della Fnomceo si fonda su un processo continuo e integrato che parte dall’accesso agli studi di medicina al termine dell’attività professionale. “Deve misurarsi - sottolinea Bianco - non solo con l’evoluzione dei saperi tecnico-scientifici, ma anche con le nuove definizioni, i nuovi orizzonti e le diverse legittimazioni culturali e civili che costantemente ridisegnano gli scopi della medicina e della sanità”.Non solo formazione universitaria, quindi, ma anche formazione continua post laurea. “Nel nostro sistema - spiega Bianco - è purtroppo in forte ritardo una cultura della promozione e della valutazione della qualità dei professionisti e dei servizi. Una criticità che sarebbe sbagliato e controproducente pensare di risolvere affrontandola dalla ‘coda’, attraverso l’esclusivo potenziamento di modelli burocratici, inquisitori e sanzionatori di controllo”. Per la Fnomceo, per formare i medici del futuro, un ruolo fondamentale deve essere svolto dalle Società medico scientifiche. “Realizzando al più presto - spiega il presidente Bianco - un modello di accreditamento istituzionale, così da garantire il loro riconoscimento in ruoli di interlocutori stabili, affidabili e autorevoli delle istituzioni sanitarie”. Per Bianco, “lo stesso nuovo sistema di Educazione continua in medicina (Ecm) può, in prospettiva, offrire al bisogno di formazione continua dei medici e di tutti i professionisti sanitari non un frammentato e disorganico universo di soggetti a vocazione formativa, non sempre trasparenti, efficaci ed indipendenti, ma solo provider in grado di garantire lo sviluppo e la continuità di un sistema formativo affidabile e calibrato sulle esigenze dei singoli professionisti e delle organizzazioni nelle quali operano”. (Adnkronos Salute)
PILLOLE DAL MONDO in collaborazione con www.gosalute.it
Degenerazione maculare Alcuni ricercatori dell‘Università di Bonn hanno scoperto, nell‘ambito di uno studio multicentrico, che in molte persone colpite vi erano dei depositi di prodotti del metabolismo. Finalmente hanno riferito i ricercatori si è riusciti a rendere visibili le modificazioni delle cellule visive sensibili alla luce. La scoperta è stata più sorprendente di quanto ci si aspettasse, poiché ne è emerso che la malattia si sviluppa su uno strato anatomico più profondo e non sul livello primario dei fotoricettori“. Le cellule pigmentarie non riescono più ad allontanare gli scarti del metabolismo e ciò determina la degenerazione di alcune aree“. I ricercatori hanno individuato la causa dell‘AMD in diversi difetti genetici. Ciò tuttavia, come un gruppo di lavoro dell‘Universität Regensburg ha spiegato, non apre grandi speranze: “Il nostro studio mostra che fattori genetici conosciuti non svolgono alcun ruolo quando lo stadio è avanzato“.
Il caffè dopo pasto potrebbe prevenire il diabete mellito Una ricerca condotta dall’Istituto Nazionale per la Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), avanza l’ipotesi secondo la quale sarebbe possibile inibire gli enzimi coinvolti nella digestione dei carboidrati grazie all’azione dei composti fenolici presenti nel caffè, con un meccanismo simile ad alcuni farmaci antidiabetogeni. La ricerca evidenzia che è proprio grazie alla presenza degli acidi clorogenico, ferulico e caffeico - i composti fenolici del caffè - ma non alla caffeina, che avviene l’inibizione dell’ α-glucosidasi. Ciò può accadere solo se il caffè è consumato dopo il pasto, perché i composti fenolici della bevanda sembrerebbero in grado di bloccare i residui del sito attivo dell’enzima responsabili dell’idrolisi degli oligosaccaridi. Pertanto il caffè, sia esso normale o decaffeinato, potrebbe ridurre i livelli di glicemia post-prandiale e prevenire l’insorgenza del diabete di tipo 2. L’attività di prevenzione del caffè nei confronti dell’insorgenza di diabete di tipo 2, già provata come dose-dipendente (più caffè meno rischio), dovrà però essere verificata in vivo sull’uomo, valutando la risposta glicemica a un pasto ricco in carboidrati complessi in presenza e assenza di caffè.
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Le Cure Primarie nel Regno Unito. Incentivi alla qualità delle cure
Rischio di diabete mellito e assunzione di bevande ad alto contenuto di zuccheri Una attuale meta-analisi condotta da scienziati della Harvard School of Public Health è giunta alla conclusione che chi beve regolarmente bevande a contenuto zuccherino è soggetto ad un rischio più alto di ammalarsi di diabete tipo 2 e di sindrome metabolica: bastano un bicchiere o due perchè il rischio di ammalarsi di diabete tipo 2 aumenti del 26%, di sindrome metabolica del 20%. Questo studio definisce il rischio potenziale rappresentato dai “softdrinks”, anche per quanto concerne la salute dentale e le malattie cardiovascolari. Lo studio definisce come l’assunzione di bevande e alimenti con molto zucchero (glucosio, fruttorio) aumentano il rischio di diventare diabetici.
Il lavoro dl medico di famiglia è in continua crescita Il carico di lavoro dei medici di famiglia, è in continua crescita. Lo dimostrano i ‘numeri’ di ciascun professionista: da 6,6 contatti all’anno per paziente del 2003 a 7,1 del 2009, che equivale a circa 30 visite al giorno. Ma il tempo dei camici bianchi è assorbito molto anche dalla burocrazia che occupa più della metà della vita professionale. È la fotografia scattata dal VI Rapporto Health Search della Società italiana di medicina generale che ha monitorato i comportamenti di un campione statisticamente significativo di 650 professionisti. Chi va dal medico di famiglia è soprattutto donna (ma non dai 75 anni in poi, quando a prevalere sono gli uomini) e ha più di 55 anni (anche se dagli 85 anni l accesso diminuisce). Su 100 visite, 23 terminano con la richiesta di accertamento diagnostico-strumentale, 14 con una richiesta di visita specialistica e 72 con una prescrizione farmaceutica. Health Search è un database che si è evoluto fino a offrire uno spaccato degli effetti degli interventi di cura. Oggi rappresenta un sistema di valutazione dei costi sanitari ‘pesati’ per risultati, uno strumento essenziale per favorire la clinical governance del sistema. L’ipertensione arteriosa essenziale è la patologia che impegna maggiormente il medico di famiglia (15,5% delle visite), seguita dal diabete mellito (5,3%) e dai disordini del metabolismo lipidico (3,3%). Analizzando il numero medio di visite annuali eseguite per la gestione di una determinata patologia, il diabete mellito ha fatto registrare più contatti, con un incremento dal 7,11% del 2005 al 7,57% del 2009. Seguono i pazienti con cardiopatia ischemica cronica (7,3%) e infarto miocardico acuto (7,27%)”. Si è registrata una sostanziale continuità nel numero delle prescrizioni di farmaci: da 73,5 su 100 visite nel 2003 a 72 nel 2009, con una prevalenza nelle Regioni del Centro-Sud (Adnkronos Salute).
La questione della riorganizzazione delle Cure Primarie nel Servizio Sanitario Inglese (NHS) ha vissuto negli ultimi 10 anni due momenti fondamentali. Il primo nel 1999 con l’aggregazione dei General Practitioners (GPs) in strutture dotate di funzioni gestionali e di committenza (Primary Care Groups e poi Primary Care Trust). Il secondo nel 2003 con il nuovo contratto dei GPs (Investing in General Practice – The new medical services contract) che ha introdotto un sistema di remunerazione della quota variabile dei GPs ispirato al principio delP4P e basato sul livello di raggiungimento di obiettivi di appropriatezza ed efficacia clinica, capacità organizzativa e di soddisfazione degli assistiti. Quality and Outcomes Framework (QOF), questa la denominazione del nuovo sistema d’incentivazione dei GPs inglesi, considerato da alcuni autori come un fatto rivoluzionario, come “la più audace proposta mai tentata al mondo”. Il QOF è un sistema di incentivazione su base volontaria al quale possono aderire gruppi di GPs (le practice: in media composte da 3 GPs per un bacino di 6.000 assistiti) che, dalla sua introduzione, ha determinato nel giro di 4 anni, dal 2002 al 2006, un incremento medio di più del 50% del reddito di un GP. Il sistema di valutazione del QOF assegna fino ad un massimo di 1000 punti (ciascun punto, per una practice standard, valeva nel 2006 circa 120 sterline) distribuiti in 5 settori di valutazione, misurati attraverso 135 indicatori: 1. area clinica (655 punti); 2. organizzazione della practice (181 punti); 3. servizi aggiuntivi, come screening oncologici e sorveglianza della salute infantile (108 punti); 4. soddisfazione/esperienza dei pazienti (36 punti); 5. assistenza olistica (20 punti). L’area clinica, che vale più del 50% dello score complessivamente ottenibile, è centrata sulle malattie croniche (19 settori tra i quali: cardiopatia ischemica, ictus e TIA (transient ischemic attack), ipertensione, asma, epilessia, diabete, BPCO (BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva), depressione, tumori), sulla base della considerazione che per queste condizioni la responsabilità della continuità delle cure è a carico soprattutto del GP e delle cure primarie, che esistono linee guida cliniche nazionali e che rappresentano una priorità nell’agenda del National Health Service (NHS). La scelta delle malattie incluse nel QOF discende infatti dalla misurabilità e dai benefici attesi in termini di salute sulla base delle evidenze scientifiche. La remunerazione è in relazione alla proporzione di pazienti, arruolati all’interno dei differenti registri di patologia, per i quali sia stato raggiunto l’obiettivo. Per sostenere l’introduzione del QOF, il NHS ha messo in campo nei primi 3 anni di applicazione più di 3 miliardi di sterline per finanziare le cure primarie attraverso l’aggiornamento dei sistemi informativi e tecnologici a supporto, l’aumento del numero di GPs del 12%, l’assunzione di personale di studio e infermieristico e l’aumento sostanziale della remunerazione.
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Infezione da virus dell’epatite B in pazienti immunocompromessi Gaetano Scotto Responsabile S.S.Day-Hospital, Clinica Malattie Infettive, Azienda Ospedaliero-Universitaria Foggia Giovanna D’Addiego Francesca Campanale Medico in formazione, Clinica Malattie Infettive, Azienda Ospedaliero-Universitaria, Foggia Vincenzina Fazio Responsabile S.S.Virologia, II Laboratorio, Azienda Ospedaliero-Universitaria, Foggia
L’infezione da virus dell’epatite B (HBV) costituisce tuttora un problema sanitario mondiale, infatti approssimativamente due miliardi di persone nel mondo sono state infettate da HBV e di questi circa 350 milioni sono portatori cronici del virus. Anche in Italia l’entità epidemiologica del problema non è indifferente, pur se negli ultimi trent’anni si è avuto un cambiamento radicale, infatti studi effettuati negli anni ’70 documentavano una prevalenza dell’infezione da HBV (soggetti HBsAg positivi) nella popolazione generale >2% con una maggiore prevalenza nelle regioni meridionali. Negli ultimi decenni, sia per l’introduzione obbligatoria della vaccinazione anti epatite B, sia per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, sia per la campagna di educazione e di sensibilizzazione per i comportamenti a rischio (vedi anche infezioni da HCV ed HIV), il quadro epidemiologico è radicalmente mutato. Oggi in Italia l’infezione cronica da HBV presenta una bassa ende-
mia con una prevalenza nella popolazione libera <1% (circa 900.000 portatori di HBsAg), senza sostanziali differenze tra Nord e Sud. Tuttavia sono presenti nel nostro Paese un numero imprecisato, ma certamente dell’ordine di qualche milione di individui, con la cosiddetta “infezione da HBV occulta”, segnalata dalla presenza nel sangue di almeno un anticorpo contro l’antigene dell’HBV (solitamente anti-HBc). Per un lungo periodo questa situazione non ha destato alcun interesse, venendo definita come un segnale di avvenuta guarigione dall’infezione, ma negli ultimi anni, da quando si è avuta una maggiore conoscenza dei meccanismi che portano alla latenza virale ed è divenuta possibile effettuare una più’ precisa misurazione della viremia da HBV, si è compreso che in molti casi il virus, apparentemente eradicato dal circolo, tuttavia si sia indovato in modo persistente nel fegato, pronto, in particolari situazioni, a riattivarsi.1
L’infezione da HBV è una forma di epatite a bassa endemia (< 1%) in cui il virus si localizza in modo persistente nel fegato e puo’ in particolari condizioni riattivarsi determinando una vera e propria malattia acuta determinando un decorso grave e, talora, fulminante.
Ma allora come si definisce esattamente un’infezione da HBV? E qual’è il significato dell’infezione occulta, è solo una curiosità dottrinale o può avere un reale riscontro clinico? Per una migliore comprensione di quanto sarà esposto in seguito è importante conoscere l’esatta definizione virologica dell’infezione da HBV e, quindi, la situazione basale del paziente. L’infezione cronica da virus B viene definita “conclamata” nei portatori dell’antigene di superficie (HBsAg) ed “occulta” nei
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10 soggetti negativi per l’antigene, ma positivi per un marker anticorpale. Tra i soggetti portatori conclamati, in rapporto o meno alla presenza dell’antigene e e/o di una carica virale >20.000 UI/ ml si possono distinguere le seguenti categorie: 1) Portatori con attiva replicazione virale (HBV-DNA determinabile): condizione in cui è quasi sempre presente uno stato di malattia epatica. 2) Portatori inattivi. Soggetti con persistente normalità delle transaminasi, HBeAg negatività e basse concentrazioni seriche di HBV, quindi incapace di determinare una malattia epatica. Nella maggior parte di questi soggetti l’esame istologico evidenzia un fegato sano o un’epatite mite e,solo in pochi casi, si possono notare gli esiti di una malattia cronica particolarmente severa. I portatori occulti (HBsAg negativi), come già detto, vengono generalmente associati alla presenza degli anticorpi anticore (anti-HBc), con o senza anti-HBs, infatti tale marcatore si evidenzia in circa l’80% di tali soggetti, tuttavia è stata riscontrata un’epatite occulta anche in un 20% di pazienti in cui tutti i marcatori serici di HBV risultavano negativi. I primi dati su un’evidenza d’infezione occulta furono dimostrati, nel 1985 da Brechot che, in pazienti persistentemente negativi, rilevò, mediante un’analisi molecolare, bassi titoli serici di HBV-DNA. La messa a punto di più’ evolute tecniche di biologia molecolare ha, in seguito, consentito di dimostrare, in modo inconfutabile, anche in questa tipologia di soggetti, la presenza di HBV-DNA intraepatico. Ma qual è il rapporto tra infezione da HBV ed eventuali condizioni di immunosoppressione? E’ ormai noto da alcuni decenni come un’epatite B, in remissione o apparentemente guarita, possa, in particolari condizioni, evolvere in una forma piu’severa o riattivarsi determinando una vera e propria malattia acuta con decorso grave e, talora, fulminante. Le prime segnalazioni sono nel 1975 di Wands2 che aveva evidenziato in un paziente immunocompromesso l’insorgenza di una forma acuta da HBV, malgrado questi presentasse, in precedenza, i markers di un’infezione pregressa e risolta, e di Galbraith3 che, nello stesso anno, descriveva per primo una riattivazione di epatite B in un soggetto sottoposto a chemioterapia. Si è, quindi, osservato nel tempo come l’impiego di farmaci chemioterapici ed immunosoppressori sempre più’ potenti e/o la coesistenza di malattie onco-ematologiche potessero influenzare l’infezione da virus B, sia in termini di evoluzione dell’epatite cronica (forme conclamate) che la riacutizzazione di forme occulte. In quest’ultima situazione si verifica una slatentizzazione dell’infezione, infatti HBV rimane segregato nel fegato finchè il paziente presenta un sistema immunitario efficiente, ma in caso di declino dell’immunocompetenza, il virus può riattivare la sua infezione nel sangue ed indurre danno epatico, danno tanto più precoce e più grave quanto è più marcata l’immunosoppressione. Come si evidenzia l’evoluzione e/o la riattivazione di un’infezione da virus B? 1) Nei soggetti con infezione conclamata, la comparsa (nei portatori inattivi) o la persistenza (nei portatori attivi) di una viremia significativa (≥20.000 UI/mL) è frequentemente associata a danno epatico. 2) Nei soggetti solo anti-HBc si evidenzia la ricomparsa dell’HBsAg (sieroreversione). 3) In entrambe le categorie l’incremento di almeno un loga-
ritmo dell’HBV-DNA, rispetto al nadir, in due successivi controlli rappresenta un indice di riacutizzazione virale (rebound). Ma qual è il meccanismo patogenetico attraverso cui si giunge ad una riattivazione dell’epatite B negli immunodepressi? Dobbiamo distinguere due differenti fasi: una molto precoce, di massiva immunosoppressione ed un’altra tardiva, di immunoricostituzione. La riacutizzazione che si realizza nella prima fase è legata all’intensa replicazione virale, questo evento si presenta raramente ed è responsabile di una forma definita epatite fibrosante colestatica. Istologicamente questa epatite è caratterizzata da un intenso accumulo intraepatocitario di antigeni virali che esercitano un effetto citopatico diretto. Questo spiegherebbe la ridotta risposta al trattamento antivirale, poiché l’intervento con i farmaci solitamente avviene quando il fenomeno di accumulo negli epatociti è già attivato e tale processo è spesso irreversibile.4 Il quadro più frequentemente osservato è, invece, quello che si manifesta a distanza di 3-36 mesi dall’immunosoppressione ed è legato alla risposta immunitaria (immunoricostituzione) conseguente alla replicazione virale; questa forma, immunomediata, si presenta istologicamente come la classica epatite globulare. In questo caso la riacutizzazione epatitica può presentare una diversa evoluzione clinica a seconda che si manifesti in un organo completamente sano oppure su un fegato già malato. Tuttavia non dobbiamo pensare che la riattivazione di HBV negli immunocompromessi sia un fatto matematico, tale situazione, infatti, risulta fortemente correlata al tipo di immunosoppressione indotta dalla malattia di base e/o dai farmaci utilizzati.
La persistenza di HBV-DNA quantitativa significativa > 20.000 UI/mL è indice di danno epatico. La siero conversione dell’HBaAg è indice di riattivazione virale. L’incremento del valore. della viremia rilevato in due successivi controlli è indice di riacutizzazione virale. Quali sono le patologie, nei diversi ambiti specialistici, in cui più frequentemente è possibile una riattivazione dell’epatite B sotto trattamento immunosoppressivo? Quali son i farmaci a più alto rischio di induzione di un’epatite acuta? Tralasciando l’ambito dei soggetti sottoposti a trapianto di organo, che devono far capo a Centri altamente specializzati ed i soggetti HIV+ per la particolare tipologia della immunodeficienza, focalizzeremo la nostra attenzione su tre categorie di pazienti. 1) Pazienti con malattie oncologiche: la prevalenza di HBsAg positività, in questa coorte di soggetti varia tra il 5.3% (Europa) ed il 12% (Cina); la frequenza di riacutizzazione oscilla tra il 20% ed il 56%. Tale variabilità nella riattivazione è legata all’uso di alcuni farmaci specifici (steroidi, antracicline, 5-fluorouracile) e nei portatori conclamati alla presenza o meno di alcuni marker virologici (presenza dell’antigene e, variante e-minus dell’infezione
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Nei pazienti immunocompromessi è consigliabile incrementare la diagnostica virologica e rendere universale lo screening sierologico per HBV in modo da individuare precocemente le esacerbazioni o riattivazioni da HBV. da HBV, presenza o meno dell’HBV-DNA preterapia). E’ ovvio, quindi, come la diversa severità clinica della riacutizzazione sia correlata alla funzionalità epatica pre-chemioterapia e la variazione della percentuale di mortalità (5-40%) sia associata a questi parametri.5-8 2) Pazienti con malattie onco-ematologiche: la possibilità di riacutizzazione in questa categoria di pazienti, appare maggiore rispetto ad altri ambiti oncologici, in relazione all’entità dell’immunosoppressione, con una prevalenza del 21-67% ed una letalità del 20%. Il rischio sembrerebbe incrementato dall’utilizzo di anticorpi monoclonali (soprattutto anti-CD20) il cui effetto sulle plasmacellule e la notevole soppressione dell’immunità umorale condizionano in modo significativo la risposta immunitaria verso HBV. La possibilità di riacutizzazione epatitica può manifestarsi anche a distanza di mesi (12-36) dall’ultima somministrazione del monoclonale, questo avviene in particolare nei soggetti conclamati attivi, ma può verificarsi anche nei soggetti solo anti-HBc positivi. Non molto dissimile è la situazione in corso di trapianto di midollo, in quanto la fase di condizionamento determina un effetto immunosoppressivo particolarmente intenso per di più amplificato dalla successiva terapia anti-rigetto, per cui la possibilità di riacutizzazione epatitica permane per tutta la fase di immunoricostituzione (sino a 1-2 anni dal trapianto). In ambito oncologico ed onco-ematologico le terapie a più alto rischio sono rappresentate da: chemioterapia con fludarabina, regimi dose-sense, trapianto allogenico, trapianto autologo mieloablativo, induzione nelle leucemie acute, utilizzo di anticorpi monoclonali (antiCD20, anti-CD52)5-7. 3) Pazienti con malattie reumatologiche: le segnalazioni di riacutizzazioni del virus B in ambito reumatologico sono episodiche; si sono verificate soprattutto in corso di trattamento con clorochina, azatioprina, metotrexate ed anti-TNF, erano coinvolti esclusivamente pazienti con infezione conclamata sia attivi che inattivi. Anche in questo caso come in ambito onco-ematologico, il rischio sembrerebbe legato sia alla fase di immunosoppressione che a quella di immunoricostituzione. Sono state individuate due distinte categorie di pazienti in rapporto al rischio di riattivazione dell’epatite B ed in relazione al tipo ed entità di immunosoppressione a) Soggetti ad alto rischio: pazienti sottoposti a terapia con anticorpi anti-TNF, steroidi a medio-alto dosaggio (>7.5 mg/die) per periodi prolungati, ciclofosfamide, metotrexate, leflunomide, ciclosporina, tacrolimus, azatioprina, micofenolato ed anticorpi anti-CD20 (rituximab). b) Soggetti a basso rischio: pazienti trattati con steroide <7.5 mg/die, salazopirina, idrossiclorochina.5,6
Quali sono le strategie di trattamento in caso di esacerbazione o riattivazione dell’infezione da HBV? Esistono due alternative terapeutiche legate a diverse situazioni cliniche: la profilassi o la terapia: 1) La profilassi si effettua con farmaci antivirali nei confronti di un’infezione inattiva od occulta, al fine di prevenire una riacutizzazione epatitica. Possiamo distinguere due tipi di profilassi: a) profilassi universale se effettuata su tutta la popolazione che presenti un potenziale rischio di riattivazione (portatori inattivi e/o anti-HBc) b) profilassi mirata se effettuata solo in caso di comparsa dei markers d’infezione (HBsAg e/o HBVDNA) senza che si evidenzino i dati biochimici di riacutizzazione epatitica.9,10 Il farmaco attualmente consigliato dalle linee guida per la profilassi della riattivazione dell’epatite B è la lamivudina, un analogo nucleosidico dotato di potente effetto antivirale. Tale farmaco però presenta una bassa barriera genetica per cui può facilmente indurre la selezione di mutanti farmaco-resistenti che renderebbero inutile il trattamento, tuttavia, trattandosi in genere di pazienti che al baseline presentano una bassa carica virale, risulta idoneo per la profilassi visto il minimo rischio di resistenza. Nel portatore inattivo la profilassi universale è indicata in campo onco-ematologico, nei trapianti di midollo ed anche in ambito reumatologico, specie qualora si utilizzino protocolli notevolmente immunosoppressori e/o farmaci biologici (anti-TNF, anti-CD20 etc.). Nel portatore occulto è raccomandato soltanto il monitoraggio dell’HBsAg per una precoce individuazione e trattamento dell’epatite associata a siero-reversione, mediante un protocollo di profilassi mirata. Negli occulti sottoposti a trapianto di midollo o con patologie onco-ematologiche è consigliata la profilassi universale, soprattutto in caso di associazione chemioterapia-anticorpi monoclonali CD20 (rituximab). Da parte di alcuni esperti è giunto, recentemente, un parere favorevole alla profilassi con lamivudina di pazienti anti-HBc positivi, in trattamento con farmaci biologici, anche in ambito non ematologico. Quest’ultimo punto risulta attualmente fortemente dibattuto;, la nostra esperienza in una coorte di 16 pazienti con infezione occulta, affetti da malattie reumatologiche trattati con biologici e profilassati con lamivudina, ha dato buoni risultati in quanto nessun soggetto ha evidenziato al momento riattivazione dell’epatite. Se possibile la profilassi antivirale andrebbe iniziata almeno 2 settimane prima della terapia immunosoppressiva, continuata per tutta la durata del trattamento e proseguita per almeno 12 mesi dalla fine della stessa in oncologia e reumatologia, per 18 mesi in ambito ematologico. Particolare cautela nella sospensione della profilassi (proseguire sino a 24 mesi!) specie nei soggetti trattati con ripetuti cicli di anticorpi monoclonali 9-11. 2) Terapia elettiva: trattamento dell’epatite B esacerbata o riattivata nei soggetti portatori attivi o in quelli originariamente inattivi in cui si ha un incremento dei valori serici delle transaminasi oltre la norma e viremia significativa (>20.000 UI/mL); sieroreversione con segni clinico-laboratoristici di epatite acuta in pazienti con forma occulta. Anche in questi soggetti, non potendosi utilizzare gli interferoni, in quanto poco tollerati nelle condizioni di
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12 immunodepressione, il trattamento d’elezione è rappresentato dagli analoghi nucleos(t)idici. Sono quindi raccomandati farmaci caratterizzati da un’elevata barriera genetica (raramente inducono farmaco-resistenza) e da un’alta capacità antivirale (in particolare entecavir e tenofovir)11. In conclusione alla luce di quanto sopra esposto appare oggi giustificato proporre un approccio razionale al problema dell’epatite B negli immunodepressi, in quanto la reinfezione da HBV in tali soggetti è un evento prevedibile e prevenibile. La prima e fondamentale raccomandazione è quella di incrementare la diagnostica virologica e rendere universale lo screening sierologico per HBV in questa tipologia di pazienti. Per una valutazione basale è sufficiente la determinazione dell’HBsAg, in caso di positività è indicato determinare l’HBVDNA. Se si pone il problema del portatore occulto è utile valutare l’anti-HBc e l’anti-HBs ed è importante finalizzare la ricerca del portatore occulto e la sua sorveglianza durante tutto il suo trattamento immunosoppressivo e nel follow-up. La riattivazione è prevenibile, come dimostrato da vari studi in cui si è evidenziato un crollo della riattivazione dell’HBV nei pazienti trattati con lamivudina, basta solo un po’ di attenzione e buona volontà. Bibliografia 1. Raimondo G, Allain JP, Brunetto MR at al. Statement from the Taormina expert meeting on occult hepatitis B virus infection. J Hepatol 2008;49:652-57. 2. Wands JR, Chura Cm Roll FJ et al. Serial studies of hepatitis-associated antigen and antibody in patients receiving antitumorchemotherapy for myeloproliferative and lymphoproliferative disorders. Gastroenterology 1975; 68:105-12.
3. Galbraith RM, Eddleston AL, Portmann B et a.Chronic liver disease developing after outbreak of HBsAGnegative hepatitis in haemodialysis unit. Lancet. 1975;2(7941):886-90. 4. Marzano A, Angelucci E, androne P et al. Prophylaxis and treatment of hepatitis Bin immunocompromised patients. Dig Liver Dis 2007;39:397-408. 5. EASL Clinical Practice Guidelines Management of Chronic hepatitis B. J Hepatol 2009;50:227-42. 6. Hsu C, HsiungCA, Su IJ et al. A revisit of prophylactic lamivudine for chemotherapy-associated hepatitis B reactivation in non-Hodgkin’s lymphoma. A randomized trial. Hepatology 2008; 47:844-53. 7. Yeo W, Chan PKS, Zhong S et al. Frequency of hepatitis B virus reactivation in cancer patients undergoing cytotoxic chemotherapy: a prospective study of 626 patients with identification of risk factors. J Med Virol 2000; 62:299-307. 8. Kim MK, Ahn JH, Kim SB et al. Hepatitis B reactivation during adjuvant anthracycline-based chemotherapy in patients with breast cancer. Korean j Intern Med 2007; 22:237-43. 9. Katz LH, Fraser A, Gafter-gvili A et al. Lamivudine prevents reactivation of hepatitis B and reduces mortality in immunosuppressed patients: systematic review and meta-analysis J Viral Hepat 2008; 15:89-102. 10. Loomba R, Rowley A, Wesley R et al. Systematic review: the effect of preventive lamivudine on hepatitis B reactivation during chemotherapy. Ann Intern Med 2008; 148:519-28. 11. Hui CK, Cheung WW, Au WY et al. Hepatitis B reactivation after withdrawal of pre-emptive lamivudine in patients with haematological malignancy on completion of cytotoxic chemotherapy. Gut 2005;54:1597-603.
Diagnostica delle epatiti croniche I virus che possono cronicizzare, determinando epatiti croniche sono: virus B (HBV), C (HCV), e D (HDV). Esiste inoltre la possibilità che virus epatitici minori possono dare epatiti croncihe: virus Hepstein Barr, virus Citomegalovirus, virus Herpes, virus Coxsackie e Adenovirus. Il 10% delle infezioni primarie cronicizza. Il 40% delle infezioni croniche da il portatore sano, il 60% diventa epatite cronica che può evolvere in cirrosi. Epatite cronica B E’ caratterizzata dalla presenza di HBV-DNA e dell’HBeAg nel siero. Nei portatori sani di HBsAg vi è l’assenza HBeAg, di HBV-DNA. Il rilievo occasionale di HBsAg pos., in genere espressione di infezione “cronica” deve comportare il controllo per 6-12 mesi di transaminasi e trimestrali e HBsAg. Inoltre bisogna controllare l’andamento dell’antigene HBeAg e anticorpo antiHBeAg. Epatite cronica C E’ presente l’anti HCV o il genoma virale HCV-RNA nel siero. Se si rileva HCV positivo bisogna: confermare la positività e valutare le transaminasi. 1. Se anti- HCV pos. e transaminasi elavate, controllare ogni 2 mesi transaminasi e a 6 mesi anti HCV. 2. Se anti HCV pos. E transaminasi normali controllare ogni 2 mesi transaminasi e ogni anno anti HCV. 3. Se anti HCV persiste pos. e transaminasi normali il paziente è portatore cronico. 4. Se le transaminasi si alterano durante il follow-up, il paziente ha un’epatite cronica.
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L’ETICA E IL SENSO DELLA SPERANZA Malati terminali: gestire la speranza è utile Mauro Marin Medico di Famiglia, Pordenone
I medici dovrebbero cercare di incoraggiare i pazienti ed i loro familiari a trovare la speranza possibile nel contesto delle loro situazioni di malattia invalidante o terminale perché la speranza aiuta a migliorare la qualità di vita (J Palliative Care 2008, 24/2: 110-116). Ma qual’è l’utilità terapeutica del trasmettere speranza ai pazienti con malattia terminale ? qual’è il ruolo della speranza rispetto al dire la verità sulla prognosi di una grave malattia ? Cosa si può sperare ? Per Tommaso d’Aquino la speranza è il desiderio di un benessere futuro difficile da raggiungere, ma ritenuto raggiungibile: nessuno spera ciò che crede in ogni caso irraggiungibile. La speranza presuppone dunque la fiducia di riuscire a realizzare gli obiettivi prefissati ritenuti realistici. E’ sul rapporto di fiducia che si basa la relazione tra medico e paziente e la trasmissione delle dovute informazioni necessarie all’acquisizione di un valido consenso alle cure ed a creare motivazione e adesione alle cure. La speranza è gestibile perché il tipo di informazioni ricevute dal medico di fiducia può contribuire ad orientare le convinzioni del paziente. Nella letteratura empirica la speranza appare come un concetto che comprende diverse prospettive : significato personale, forza interiore, motivazione per la cura o una vita più normale possibile, conferma e valorizzazione delle relazioni interpersonali, riconciliazione con la vita e con la morte, fede religiosa. Gli autori raggruppano questi temi in “sperare per qualcosa” (cura e normalità), e “vivere nella speranza” (reazioni e riconciliazioni). La speranza infatti non si limita ad aspirare irrealisticamente alla guarigione, ma col progredire della consapevolezza di malattia include anche solo il desiderio di alleviare i sintomi (cure palliative) ed essere confortati ed assistiti fino alla fine con empatia e continuità da parte di familiari e sanitari, sensibili a bisogni e aspettative. In ogni situazione c’è sempre un aspetto positivo da valo-
rizzare o un obiettivo a breve termine da condividere e su cui focalizzare l’attenzione. La speranza può essere intesa come un approccio alla vita con l’idea che qualcosa rimane da fare, che è necessaria l’azione, un’attività condivisa sostenuta dalle relazioni interpersonali e focalizzata sulle relazioni interpersonali, per vivere con coraggio e intimità alla ricerca di un benessere migliore. Esistono comunque aspetti vulnerabili della speranza: le aspettative non si possono realizzare o non sono supportate dagli altri e da chi assiste, le aspettative rendono alcuni pazienti selettivamente sensibili solo alle informazioni favorevoli che alimentano la speranza senza fondamento col rischio di affrontare un’amara disillusione. Inoltre la speranza può essere inconscia e illogica non solo in relazione a credenze e obiettivi trascendentali, ma anche riguardo ad aspettative chiaramente irrealistiche o ad una negazione difensiva della realtà. Secondo il codice di deontologia medica, le informazioni riguardanti prognosi gravi capaci di procurare sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando termini non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata oppure di delegare ad altra persona l’informazione deve essere rispettata. Il paziente ha il diritto all’informazione che richiede sulla sua malattia per dare un consenso alle cure necessarie, per riorganizzare come crede la propria vita in funzione delle sue condizioni e aspettative realistiche e per provvedere agli interessi morali e patrimoniali propri e della sua famiglia. Le comuni obiezioni a dire la verità sono motivate dalla difficoltà di valutare come perseguire l’interesse reale del malato terminale nel singolo caso, come predire la sua capacità di sopportare la verità e come controllare le sue reazioni (Ann N Y Acad Med 1997, 809:500-7). Quando una persona è in grado di accettare la verità, si accorgerà che sta morendo da numerosi indizi sulla sua condizione, che potrà cogliere se lo vuole: la malattia che peggiora,
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14 le cure modificate, la reticenza, l’imbarazzo, gli atteggiamenti di tristezza o di forzata allegria di familiari e amici. Ma se invece preferisce non accorgersene, interpreterà ciò che avviene intorno a lei nel modo più conveniente. La sua scelta di conoscere o negare la realtà guiderà il comportamento di chi lo assiste. Non c’è speranza senza paura e paura senza speranza, affermava Benedetto Spinoza. La crisi della consapevolezza per dover affrontare la progressione di malattia, il morire e la separazione dai propri cari può evocare paure di andar incontro ad un dolore e un’angoscia priva di dignità, di perdere l’integrità fisica e psichica e poi dei rischi sconosciuti della morte (Geriatrics 1997, 52/8 : 91-92). Le strategie usate per affrontare queste paure includono l’esercizio dell’autocontrollo, la preghiera per chi ha fede, la comunicazione comprensiva con le persone significative e la fiducia nella continuità del loro sostegno, la fiducia in sè di
riuscire a morire come si desidera con coraggio, in pace e circondati da affetto (Arch Intern Med 1998, 158/8 : 879-84 ; Ann. N.Y. Acad. Sci. 1997, 809 : 80-2 e 440-459). La fede religiosa aiuta le persone credenti ad affrontare l’avvicinarsi della morte e il dolore del lutto perché dà un senso a sofferenza e morte, dà una conferma all’identità personale e dà certezza alla vita dopo la morte. Un aiuto efficace alla persona morente richiede disponibilità, interesse, compassione, esperienza sul morire e sul lutto, capacità di comunicazione, sensibilità per comprendere la realtà e il suo significato per la persona che la vive, per incoraggiare l’espressione dei sentimenti, per evitare la minimizzazione, per accettare la disperazione e la rabbia, per dare le spiegazioni richieste e per potenziare il senso di identità e di autostima del morente (Am Fam Physician 1998, 57/5 : 935 e 939-940). E’ possibile dunque dire la verità e cercare la speranza possibile.
Il metodo Simonton
Un programma di sostegno per malati di tumore e malati cronici Il programma del metodo Simonton si propone di potenziare le naturali forze di auto-guarigione e migliorare la qualità della vita di persone malate e dei loro famigliari. E’ una proposta di aiuto destinata a sostenere e a rinforzare la terapia e ad aiutare ognuno a scoprire il proprio cammino di guarigione. Nato oltre trent’anni fa negli Stati Uniti, il metodo si è recentemente esteso in Germania, in Svizzera, in Polonia, in Giappone e in Italia, dove il dr Simonton aveva condotto regolarmente corsi di formazione per consulenti e seminari destinati ai malati e alle persone di sostegno. Il dr. O. Carl Simonton era Oncologo e specialista di radioterapia, è stato il fondatore e poi il direttore del Simonton Cancer Center a Malibu (in California negli Stati Uniti) fino alla sua morte il 18 giugno 2009. Insieme a Le Shan è stato uno dei pionieri della psiconcologia e ha lavorato per oltre trent’anni con persone malate di cancro che volevano dare un supporto attivo al proprio processo di guarigione. Sin dai primi anni settanta era emersa, nell’ambito del lavoro clinico, una grande differenza tra le persone nei loro processi di guarigione: colpite dalla stessa patologia, alcune di esse riuscivano a superare la grave malattia, mentre altre non ne erano in grado. Il dottor Simonton e il suo team indagarono sulle ragioni di questi fenomeni e, sulla base degli studi intrapresi, fecero importanti scoperte. Constatarono infatti che le persone malate di tumore, o di altre patologie gravi, avevano più possibilità di guarire se prendevano attivamente parte al processo di guarigione, sviluppavano speranza, avevano progetti validi per il futuro ed erano impegnate in attività che procuravano loro gioia e soddisfazione.
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I meningiomi cranici Tumore benigno a lenta crescita spesso asintomatico per lungo tempo Gaetano Rizzi Gaetano Merlicco U.O. di Neurochirurgia - Azienda Ospedaliero Universitaria“ OO-RR” Ospedali Riuniti Foggia
Incidenza I meningiomi sono tumori prevalentemente benigni che originano dalle cellule del cappuccio aracnoideo. Tali cellule sono situate al livello delle granulazioni del Pacchioni e sono esposte al flusso vascolare venoso, spesso all’interno del seno durale. Si stima che i meningiomi rappresentino il 13-26% di tutti i tumori intracranici. La maggior parte dei meningiomi sono tumori benigni e corrispondono al grado I della classificazione WHO (Louis 2000). I meningiomi atipici (grado II WHO) vengono descritti nel 5-7% dei casi, mentre l’incidenza dei meningiomi maligni (grado III WHO) non supera gli 0,17 casi /100000 per anno. I meningiomi multipli si riscontrano in meno del 10% dei casi. Età e sesso I meningiomi mostrano un’incidenza crescente con l’età e sono più frequenti nella sesta e settima decade. Nell’adulto esiste una maggior incidenza nel sesso femminile con un rapporto femmina:maschio da 3:2 fino a 2:1. L’incidenza annuale dei meningiomi è stimata in 2-7 nuovi casi/100.000 abitanti/ anno per le donne e in 1-5 nuovi casi/100.000 abitanti/anno per gli uomini.
sati sulla popolazione, la sopravvivenza relativa a 5 anni è superiore all’80%, quella a 10 anni è compresa tra il 74 ed il 79% e quella a 15 anni è di circa il 70%. L’età avanzata al momento della diagnosi ed il sesso maschile rappresentano fattori prognostici sfavorevoli. I meningiomi maligni o atipici hanno una prognosi molto più sfavorevole rispetto al meningioma classico. La chirurgia è il trattamento di prima scelta anche se piccoli meningiomi asintomatici possono essere trattati in modo conservativo, soprattutto nei pazienti anziani. I pazienti sottoposti a resezione chirurgica radicale hanno una sopravvivenza maggiore ed un minor tasso di recidive rispetto a quelli sottoposti a resezioni parziali. La radioterapia adiuvante viene comunemente indicata nei meningiomi atipici ed in quelli maligni, nei casi sottoposti a chirurgia parziale e nelle recidive.
Fattori eziologici e fattori di rischio Sono stati individuati alcuni fattori di rischio per lo sviluppo di meningiomi quali la delezione che coinvolge il gene della neurofibromatosi di tipo 2; l’esposizione a radiazioni ionizzanti, i traumi cranici; non sembra del tutto chiaro il ruolo degli ormoni sessuali nella genesi dei meningiomi anche se esistono prove sempre più consistenti che il progesterone potrebbe almeno contribuire alla crescita dei meningiomi con recettori progestinici positivi.
Classificazione istologica dei meningiomi La maggior parte dei meningiomi sono neoplasie benigne a lenta crescita che derivano dalle cellule del cappuccio aracnoideo e sono identificati come meningiomi di grado I nella classificazione WHO. Alcuni sottotipi istologici sono associati ad un potenziale proliferativo più elevato e corrispondono ai gradi WHO II e III. Per la definizione di meningioma atipico è necessario il riscontro di un aumentato indice mitotico oppure di almeno tre dei seguenti aspetti: aumentata cellularità, cellule di piccole dimensioni con elevato rapporto nucleo:citoplasma, nucleoli evidenti, morfologia di crescita con aspetto ininterrotto o a foglio di carta e foci di necrosi spontanea o geografica. I meningiomi anaplastici si definiscono sulla base di aspetti istologici di franca malignità in quantità superiore rispetto a quanto si osserva nei meningiomi atipici.
Sopravvivenza e fattori prognostici La maggior parte dei meningiomi ha una buona prognosi a lungo termine. In casistiche raccolte da registri tumori ba-
Classificazione 1 Tumori delle meningi (Tumours of the Meninges); 1.1 Tumori meningoendoteliali (Tumours of Meningothelial
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16 Cells); 1.1.1 Meningioma: meningoteliale, transizionale, fibroso, psammomatoso (Meningioma, IDC-O 9530/0, WHO grade I); 1.1.1l Meningioma atipico (Atypical Meningioma, IDC-O 9539/1, WHO grade II); 1.1.1o Meningioma anaplastico (Anaplastic Meningioma, IDC-O 9530/3, WHO grade III). Sintomatologia L’interpretazione della sintomatologia dei meningiomi in funzione della loro localizzazione anatomica è stato uno degli argomenti più affascinanti che ha messo in risalto le potenzialità dell’esame clinico neurologico. Tuttavia, la diagnosi di meningioma in stadi più precoci è stata facilitata dalla possibilità di utilizzare le moderne tecniche di imaging e, conseguentemente, la sintomatologia conclamata associata alle varie localizzazioni viene osservata molto raramente. Poiché la localizzazione anatomica dei meningiomi va di pari passo con la localizzazione dei villi aracnoidei, i meningiomi possono insorgere in ogni distretto cranico, più frequentemente nell’area parasagittale, seguita dalla falce, dal seno cavernoso, dal tubercolo della sella (5-10%), dalla lamina cribrosa, dal foramen magnum e dalle zone torculari. I meningiomi spinali sono più spesso localizzati nel midollo toracico. L’iperostosi focale dell’osso adiacente al tumore è un riscontro non insolito e caratteristico nei meningiomi ed è quasi invariabilmente l’epifenomeno dell’invasione ossea da parte delle cellule neoplastiche. Questo fenomeno può tradursi in un rigonfiamento focale dell’osso coinvolto ed in un dolore localizzato. I meningiomi parasagittali rappresentano il gruppo più consistente di meningiomi (17-20%) e si verificano più frequentemente nel lobo frontale. Possono raggiungere dimensioni considerevoli prima di dare origine ad una sintomatologia che consiste prevalentemente in crisi di tipo jacksoniano degli arti inferiori o in cefalea. L’edema della papilla e l’emianopsia omonima sono aspetti tipici del meningioma avanzato in sede parasagittale anteriore. Nei meningiomi della falce, i segni clinici variano in funzione della zona di insorgenza. I meningiomi della falce anteriore spesso causano una storia di lunga durata di cefalee e di atrofia ottica, così come cambiamenti della personalità graduali con apatia e demenza. I pazienti affetti da meningiomi della base cranica frontale più spesso lamentano problemi visivi (54%), cefalea (48%), anosmia (40%), alterazioni mentali (34%) e crisi comiziali (20%). Il riscontro più rilevante nei meningiomi del tubercolo della sella è la perdita graduale ed insidiosa della vista in un occhio seguita da scotomi dell’occhio controlaterale. Sono anche state ripetutamente documentate perdite transitorie della vista durante la gravidanza con recupero dopo il parto. I meningiomi dell’ala laterale dello sfenoide spesso causano un esoftalmo unilaterale non dolente seguito dalla perdita della vista e dell’udito monolaterale. I tumori che deformano il lobo temporale spesso provocano crisi epilettiche. Nella maggior parte dei pazienti con meningioma soprasellare si riscontrano solo anomalie ormonali minori. I meningiomi della clinoide provocano un ampio corteo di alterazioni della vista, difetti dei nervi cranici ed esoftalmo. I meningiomi peritorculari esordiscono con sintomi neurologici provocati dalla compressione del lobo occipitale o del cervelletto, come la cefalea con dolore localizzato in sede occipitale, edema della papilla e difetti di campo omonimi così come atassia, dismetria, ipotonia e nistagmo. Le crisi epilettiche come sintomo d’esordio sono descritte nel 20-50% dei pazienti affetti da meningioma.
Tecniche di imaging Non esistono attualmente tecniche di screening universalmente accettate per il meningioma. La pratica clinica corrente prevede che ogni persona con un’insorgenza recente di crisi comiziali o con deficit neurologici focali potenzialmente associati alla presenza di una massa endocranica dovrebbe essere sottoposta ad una RM cerebrale. In ogni modalità di imaging, i meningiomi presentano aspetti caratteristici che consentono una diagnosi accurata e forniscono indizi per l’identificazione del sottotipo istologico. La maggior parte delle masse focali extra-assiali sono meningiomi. Nei radiogrammi standard i segni patognomonici sono l’iperostosi (circa 25%), l’approfondimento delle impronte vascolari e le calcificazioni psammomatose. Nelle immagini TC o RM, i meningiomi hanno un aspetto sessile o peduncolato, raramente a tappeto (a livello della base cranica) e di masse prevalentemente isodense associate alla superficie durale con una struttura chiazzata caratteristica, dovuta all’intensa vascolarizzazione. La presenza di una base durale o ‘coda durale’ indica il punto di ancoraggio alla dura. L’edema peritumorale può essere variabile. Stadiazione Poiché la maggior parte dei meningiomi sono benigni e le metastasi ad altri organi si verificano solo in una piccola minoranza di pazienti, non è necessario sottoporre la maggior parte dei pazienti ad ulteriori procedure di stadiazione dopo che è stata stabilita una diagnosi mediante RM craniale o spinale. L’arteriografia consente di visualizzare il supporto ematico arterioso al meningioma, l’apertura e lo stato dei seni durali e di individuare il punto di inserzione del meningioma. Gli esami di routine che vengono eseguiti prima dell’intervento chirurgico comprendono abitualmente un radiogramma
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APPROFONDIMENTI 17 anticomiziali hanno permesso di ottenere importanti progressi nella chirurgia dei meningiomi. Di primaria importanza è una scrupolosa pianificazione dell’accesso chirurgico ed un accurato posizionamento del paziente che consenta di ottenere un’esposizione ottimale. I meningiomi devono essere isolati molto attentamente dal parenchima cerebrale individuando il piano di clivaggio aracnoideo ed evitando qualsiasi pressione o trazione sulla corteccia e qualsiasi sanguinamento. Nel 1957, Simpson ha proposto uno schema di classificazione che viene tuttora utilizzato ed è stato adattato in base alle tecniche di immagine divenute in seguito disponibili (Simpson 1957).
del torace che consente di individuare l’eventuale ed eccezionale presenza di secondarismi polmonari. Il primo controllo mediante RM viene eseguito dopo 3 mesi dalla resezione. Successivamente, le indagini di follow up vengono eseguite ad intervalli semestrali per due anni e nei pazienti clinicamente stazionari, poi con cadenza annuale ed infine biennale. Nei pazienti con meningiomi atipici o maligni, i controlli mediante RM vengono eseguiti con frequenza trimestrale durante il primo anno e successivamente si seguono gli stessi criteri utilizzati nei tumori maligni. Prognosi La maggioranza dei meningiomi, circa l’80%, può essere curata con la chirurgia.McCarthy et al hanno pubblicato una revisione di oltre 9000 pazienti con meningioma,diagnosticati e trattati in 1000 ospedali statunitensi ed inclusi nel National Cancer Data Base. La sopravvivenza a 5 anni era il 69%; l’81% per i pazienti con età inferiore ai 65 anni ed il 56% per quelli più anziani. In base al grado istologico, la sopravvivenza a 5 anni era solamente il 70% nei pazienti con meningioma benigno, il 75% per i meningiomi atipici ed il 55% per quelli anaplastici. Chirurgia La chirurgia rappresenta l’opzione terapeutica standard. La sola resezione chirurgica è in grado di curare la maggioranza dei pazienti con meningioma. I progressi nel trattamento dei meningiomi riflettono i progressi in campo neurochirurgico. Tanto più è completa la resezione chirurgica, tanto meno probabilità di recidiva e tante più probabilità di guarigione esistono. Tutte le moderne tecniche di neurochirurgia, microneurochirurgia e chirurgia guidata dalle tecniche di immagine hanno permesso di rimuovere con successo tumori precedentemente considerati non resecabili quali i meningiomi del seno cavernoso, clivali e petroclivali e di altri con accessi difficoltosi e con stretta connessione con strutture vitali o con infiltrazione delle pareti dei seni o massiva infiltrazione della base cranica. Lo scopo principale della chirurgia è la rimozione completa del meningioma inclusiva dell’inserzione durale e dell’osso infiltrato. In ogni caso, la decisione di operare deve essere guidata dalla storia clinica del paziente, dalla gravità dei sintomi, dalla storia naturale del meningioma, dall’accessibilità del tumore e dalla stima del beneficio clinico potenzialmente perseguibile con la chirurgia. Le tecniche microchirurgiche e la disponibilità di farmaci antiedemigeni ed
Radicale: Grado/Stadio 1: resezione completa, inclusiva di dura ed osso; conseguentemente, una resezione parziale del seno non soddisfa il criterio in presenza di invasione del seno. Grado/Stadio 2: resezione completa con coagulazione apparentemente affidabile dell’inserzione durale Non-radicale: Grado/Stadio 3: resezione completa (del tumore solido), ma coagulazione durale o resezione ossea inadeguata, per esempio nel caso di invasione del seno o della base cranica. Grado/Stadio 4: resezione incompleta, residuo tumorale macroscopico visibile Grado/Stadio 5:biopsia. È stato proposto un grado 0 di Simpson che consisterebbe in una resezione di un margine durale di 2-4 cm attorno al tumore, allo scopo di ridurre le probabilità di recidiva.
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18 Embolizzazione preoperatoria del meningioma La rimozione chirurgica del meningioma richiede una separazione della neoplasia da tessuti altamente vascolarizzati come l’osso, la dura ed il parenchima cerebrale. Inoltre, molti meningiomi sono anche abbondantemente vascolarizzati. Perciò, l’embolizzazione preoperatoria con lo scopo di facilitare la rimozione mediante l’induzione di una necrosi centrale, la riduzione della vascolarizzazione e delle perdite vascolari, potrebbe contribuire a migliorare i risultati della chirurgia. Le arterie responsabili dell’apporto nutrizionale del meningioma hanno origine principalmente dalla carotide esterna soprattutto per quanto riguarda i meningiomi della convessità, ma possono anche essere di origine piale, soprattutto nei meningiomi della base cranica. La possibilità
di anastomosi pericolose che provochino deficit neurologici o necrosi extracraniche deve essere attentamente valutata prima di intraprendere qualsiasi procedura di devascolarizzazione della neoplasia. Gli scopi dell’approccio endovascolare consistono nel raggiungere i capillari tumorali, nel dearterializzare la regione conservando invece le strutture vascolari arteriose responsabili dell’irrorazione dei tessuti sani ed assicurando di non compromettere le possibilità di guarigione della ferita nel periodo postoperatorio. Radioterapia Il ruolo della radioterapia (RT) nel trattamento dei meningiomi è stato controverso per lungo tempo. Si ritiene che sia lo standard nei meningiomi atipici, maligni o recidivati. Era in passato opinione comune che la maggior parte dei
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19 meningiomi fossero radioresistenti. Tuttavia, le basse dosi comprese tra i 30 ed i 40 Gy abitualmente utilizzate negli studi più datati potrebbero aver contribuito agli scarsi risultati terapeutici osservati. Più recentemente, l’applicazione di tecniche moderne che utilizzano dosi giornaliere di 1.8 - 2.0 Gy ed una dose totale di 45 - 60 Gy (prevalentemente più di 54 Gy) si sono dimostrate efficaci in pazienti con meningiomi resecati in modo incompleto, ottenendo un miglioramento della sopravvivenza libera da recidiva a 5 anni fino al livello ottenuto con la resezione chirurgica completa. Le tecniche di trattamento basate sulla delimitazione tridimensionale del bersaglio e sulla radioterapia conformazionale a guida stereotassica (SCRT) hanno consentito di ridurre la quantità di tessuto sano irradiato rispetto alle tecniche convenzionali di irradiazione con due campi e potrebbero consentire di osservare una riduzione della tossicità a lungo termine. L’uso della radioterapia dopo la prima resezione di un meningioma benigno è tuttora controverso, ma viene correntemente impiegato nei casi di resezioni incomplete o nei casi di progressione tumorale. Analogamente, sebbene la radioterapia sia ampiamente utilizzata, mancano tuttora le linee guida per il trattamento dei tumori di grado II o III WHO o con mutazione NF2. Al momento della recidiva o nei casi di meningiomi anaplastici, la radioterapia esterna con una dose totale in genere di 54 Gy (45-70 Gy) si è dimostrata efficace e ritarda ulteriori recidive. Nuove e più sofisticate tecniche di radioterapia favoriscono il controllo della malattia in circa l’80-90% dei casi. Radioterapia stereotassica La radioterapia stereotassica deve essere considerata lo standard nei meningiomi atipici, maligni o recidivati. La radioterapia può essere somministrata in poche sedute usando un acceleratore lineare oppure in una singola frazione con intento radiochirurgico utilizzando la gamma knife o un acceleratore lineare. A causa della localizzazione della neoplasia la dose mediana erogata al margine tumorale è di 14 Gy. Con la radiochirurgia si ottiene una rapida caduta di dose attorno al margine del bersaglio (con gradienti di dose dell’ordine del 30% per mm). Ciò consente il trattamento di neoplasie site in stretta adiacenza di organi a rischio come le vie ottiche, che hanno tipicamente una soglia di tolleranza di dose inferiore rispetto alla dose terapeutica usata per il tumore. Poiché il supporto ematico dei meningiomi in genere deriva dalla dura, questa può essere compresa nel campo di trattamento ottenendo in questo modo un’ulteriore necrosi ed infarto tumorale. La radiochirurgia con gamma-knife è un’opzione molto attraente dal punto di vista dei pazienti dato che può essere eseguita in un singolo giorno ed il rischio di effetti collaterali è limitato. Le sequele neurologiche post-radiochirurgiche dopo il trattamento di meningiomi della base cranica consistono in edema con cefalea, peggioramento transitorio dei sintomi preesistenti, in genere responsivo a terapia steroidea, disfunzioni trigeminali e deficit transitori o permanenti del campo visivo. La radiochirurgia, come trattamento esclusivo di prima linea o dopo chirurgia incompleta, è dimostratamente sicura ed efficace, specialmente nelle sedi difficili da operare come nel caso dei meningiomi del seno cavernoso e petroclivali. Terapia medica Dopo ripetuti interventi chirurgici e radioterapici, il numero di
pazienti con meningioma recidivato, in progressione o sintomatico è piuttosto basso, ma questi pazienti costituiscono una reale sfida terapeutica. Chemioterapia Esistono poche pubblicazioni sul trattamento chemioterapico dei pazienti con meningioma. Gli effetti collaterali provocati dalla maggior parte dei farmaci citotossici non sembrano giustificabili per trattamenti di lunga durata. Ad oggi non è stato individuato un trattamento chemioterapico efficace. Sono stati effettuati alcuni tentativi di trattamento con antracicline e cisplatino senza ottenere alcuna risposta. Terapia antiangiogenetica Numerose evidenze in vitro sostengono l’ipotesi che l’interferone sia attivo nell’inibire la proliferazione di cellule di meningioma. L’effetto dell’interferone alfa su progressione e metabolismo dei meningiomi recidivati ed inoperabili è stato documentato in descrizioni di casi ed in piccole casistiche. L’effetto antitumorale dell’interferone si verifica prevalentemente tramite l’inibizione dell’angiogenesi. Sequele a lungo termine Deficit cognitivi e neurologici focali possono avere un impatto rilevante nei lungo-sopravviventi con tumori cerebrali, indipendentemente dall’istologia e dal grado della neoplasia. Perdita di memoria, apatia, difficoltà di concentrazione e cambiamenti di personalità possono rappresentare un problema rilevante anche in quei pazienti con perfomance status secondo Karnofsky di 100. La chirurgia nelle cosiddette aree silenti può provocare deficit cognitivi. Risultano meno chiari invece gli effetti della radioterapia sulle funzioni cognitive. E’ noto che la radioterapia possa causare una sindrome caratterizzata da sonnolenza nelle fasi precoci, ma può anche causare sequele tardive, in particolare una leucoencefalopatia caratterizzata da disfunzioni cognitive e radionecrosi. Tuttavia nei singoli pazienti è difficile distinguere gli effetti diretti del tumore sulle funzioni cognitive dagli effetti tardivi del trattamento. La radioterapia può anche danneggiare i nervi cranici, o indurre disfunzioni endocrine anche nel caso di neoplasie distanti dalla regione ipotalamo-ipofisaria Le crisi comiziali possono avere un impatto rilevante sulla qualità di vita anche nei pazienti con buon controllo della malattia. I nuovi farmaci antiepilettici possono avere minor effetti collaterali e dovrebbero essere presi in considerazione, specialmente in quei pazienti in trattamento con schemi polichemioterapici. Oltre ai deficit cognitivi è stato riportato un rischio di mortalità del 2.5% a 2 anni per dosi superiori a 50.4 Gy. Un rischio di radionecrosi superiore al 5% può verificarsi con dosi di 60 Gy somministrate su un terzo o di 50 Gy su due terzi del volume encefalico o di 50-53 Gy sul tronco encefalico. Un rischio analogo di provocare cecità si può osservare con dosi di 50 Gy sul chiasma ottico. Anche la chemioterapia può indurre sequele tardive come linfomi o leucemie o tumori solidi, fibrosi polmonare, insufficienza renale, infertilità e neurotossicità. Follow-up Non è possibile fornire linee guida per il follow-up. Queste dovrebbero essere adattate ad ogni singolo paziente tenendo conto del grado della neoplasia, dei precedenti trattamenti e delle opzioni terapeutiche ancora disponibili. Bibliografia a richiesta
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La vita umana, al nascere, nelle situazioni di confine Filippo M. Boscia Presidente SIBCE Dipartimento Materno-Infantile e di Fisiopatologia della Riproduzione Umana dell’Azienda Sanitaria Metropolitana di Bari
Che cosa significa vita umana, al nascere, nelle situazioni di confine? E’ un’esperienza sicuramente cruciale che interessa ostetrici, neonatologi, studiosi di bioetica e tutti gli operatori socio-sanitari chiamati ad intervenire. Ogni situazione di confine pone a diversi livelli numerosi problemi convergenti tra loro sia sotto il profilo della società, delle strutture, dell’organizzazione sanitaria, dei processi assistenziali in riferimento a cure giuste, appropriate, al consenso informato. Nella prima parte di questa relazione voglio riferirmi al problema del neonato altamente immaturo, cioè a quel problema di frontiera posto all’inizio della vita quando è incerto il confine tra vita e non-vita. Le decisioni che vengono prese in circostanze difficili come queste possono avere le caratteristiche della cosiddetta “bioetica tragica”, di fronte alla quale molti sono gli operatori che cinicamente preferirebbero non esserci. Sono situazioni nelle quali, dalle iniziali incertezze sui labili confini tra non-vita e vita, necessariamente si passa agli altrettanto incerti confini tra vita e non-vita. Sono situazioni che pongono problematiche di rilevanza medica, giuridica, etica del tutto simili a quelle che noi consideriamo per le persone in fase terminale affette da gravi e spesso irreversibili infermità, questioni che con efficace provocazione possono essere ricondotte all’alternativa eutanasia/ accanimento terapeutico. La definizione di neonato immaturo giustamente non si riscontra in nessuna normativa: una definizione medica o per legge si rivelerebbe inopportuna e illusoria nella sua consistenza concettuale proprio in considerazione della vertiginosa evoluzione delle tecnologie, che condiziona la relatività dell’agire o del non agire. Il neonato immaturo di oggi non coincide con quello di alcuni anni or sono e quello odierno verosimilmente non coinciderà con quello degli anni a venire. La sopravvivenza dei feti di età
gestazionale compresa tra le 23 e le 25 settimane oggi è una realtà non più rara per frequenza, sia a seguito di eventi spontanei e improvvisi, sia dopo interruzione volontaria di gravidanza, ottenuta entro il 180° giorno. Noi abbiamo vissuto due casi di feti abortiti: uno di questi entro il 170° giorno di gravidanza era portatore anche di malformazioni che non hanno impedito la sopravvivenza. Nel caso di sopravvivenza dopo l’interruzione volontaria di gravidanza, la situazione è ancora più complessa perché la legge 194/78, che consente l’interruzione di gravidanza sino al 6° mese, all’art. 6 prescrive di adottare tutte le procedure idonee a salvaguardare la vita del feto ove questo abbia possibilità di vita autonoma. Nell’ostetricia moderna la problematica è dominante e grave non solo nella citata situazione di interruzione volontaria di gravidanza, ma anche in presenza di patologia materna, ma ancora più in presenza di gravi patologie fetali quali la seria sofferenza fetale, il serio ritardo di crescita intrauterina del feto, le sindromi malformative, l’arresto di crescita intrauterina dopo la 20° settimana. Qui l’interrogativo va posto su un punto cruciale, se e quando si possa parlare di nascita, almeno nella piena accezione del termine, che si basa, secondo alcune definizioni, sull’esistenza di uno stato di vita da salvare. Il dialogo continuo che abbiamo come ostetrici con i neonatologi intensivisti è sui limiti temporanei della durata minima della gravidanza, atteso che le sopravvivenze ottimali sono ottenibili a partire dalla 23^ / 25^ settimana. Questo dialogo, assolutamente irrinunciabile serve a proporre nuove modalità di approccio ai problemi: Un consapevole e meditato atteggiamento su questa delicata questione, a mio avviso, potrà in futuro influire in maniera importante e positiva sugli esiti post-natali degli altamente prematuri e dei grandi pretermine, cioè di quei neonati che sono al di qua della maturità, (nel passato
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22 discutevamo di quelli che erano al di là della maturità!) e di conseguenza determinare nuove linee-guida di comportamento clinico al fine di un miglioramento degli esiti a distanza. Di pari passo questa tematica condiziona anche le procedure del consenso informato, perchè nell’informazione occorre valutare ed esplicitare le condizioni del feto e le sue patologie attuali e future, per giudicare meglio la possibilità e la qualità di sopravvivenza e, in caso positivo, per valutare meglio anche la qualità di vita del piccolo neonato. Ma va inoltre considerata anche la possibilità di interventi terapeutici sia in utero sia dopo l’espulsione e, nell’eventualità di malformazioni, deve essere anche tenuta presente la necessità di coinvolgimento del chirurgo neonatale. Quindi il problema del feto gravemente immaturo, o del gravemente malformato o del gravemente ammalato, impone, dal punto di vista clinico, di scegliere una linea di comportamento che tenga conto di diversi punti: quale sia l’età del feto per la quale sia da considerarsi inutile qualunque tentativo di terapia ostetrica e rianimatoria neonatale; quali siano i casi in cui è teoricamente possibile tentare la terapia intensiva; quali le modalità più appropriate per il parto, se spontaneo o cesareo. Vi è poi un ulteriore quesito, che è quello che da sempre ci angoscia maggiormente. Il medico in presenza di immediato pericolo in utero per un bambino di età gestazionale compresa tra 23 / 25 settimane e seguenti, deve o no soggiacere alla decisione dei genitori, che informati della possibilità di avere un figlio con grave handicap neurologico, o fisico, chiedano che non siano effettuati tentativi di alcun genere, chiedano cioè che il neonato muoia in utero? Io credo che il numero delle sopravvivenze potrebbe aumentare se si generalizzasse una mentalità positiva sia da parte dei genitori che degli ostetrici, e soprattutto se non scattasse negli operatori medici quella molla di medicina difensiva che purtroppo perniciosamente si sta diffondendo nella operatività e nella prassi medica e dovuta al fatto che la nostra generazione vive, e ancor più vivrà, nell’ossessione, nella frenesia delle assicurazioni, dei risarcimenti, ecc, e nel timore che qualsiasi ipotesi di torto, di maltrattamento, deve essere prontamente e certamente risarcita. Quello che noi abbiamo notato è che per molti vivere è un diritto e non un dono, per molti la qualità di vita è un diritto, e ovviamente in questi casi, a seconda degli eventi occorsi, della classe sociale di appartenenza, dell’età, ecc. c’è la pretesa di una tariffa, di un prezzo, di un risarcimento. Per molti il concetto di benessere ad ogni costo riduce e vanifica l’importanza del vivere. Di contro vi sono tantissimi casi nei quali vi è consapevolezza che vivere è un grandissimo dono da proteggere e custodire, anche utilizzando qualsiasi strumento: in questi ultimi casi quando il confine tra vita e non-vita è incerto pensare ad un eventuale esito infausto da più valore alla vita. Su questo particolare problema devo dire una cosa: ginecologi, ostetrici, neonatologi, neuro-pediatri e intensivisti si sono posti per tanto tempo una domanda e cioè se dall’aumento della sopravvivenza di neonati altamente immaturi per età gestazionale estremamente bassa (e non mi riferisco al peso, atteso che vi sono neonati dal peso molto basso ma che mostrano più maturità) che possono sopravvivere, possa derivare un aumento correlato della popolazione dei bambini handicappati. Su quest’ultima riflessione, e soprattutto in relazione all’attività neuro-fetale sono state compiute molte ricerche che hanno accertato che il repertorio neuro-fetale matura molto più precocemente rispetto a quello che noi pensiamo: oggi si ritiene, sempre più frequentemente, che i
danni neurologici riscontrati nei feti immaturi non siano solo dovuti a veri e propri danni neurologici ma in molti casi dipendano anche dalle alterazioni di tipo relazionale tra i genitori e questi neonati, disturbati dalle necessità di un’assistenza intensivistica e dal conseguente distacco dalla madre. Si è impostata una ricerca su queste relazioni e si è optato sul favorire la precocissima vicinanza dei genitori che ora sono ammessi in terapia intensiva. Ovviamente abbiamo notato che su molti di questi bambini il repertorio motorio è ottimale anche in epoche particolarmente basse di età gestazionale. Allora, se si vuole aprire un dibattito bioetico a questo proposito, bisogna lavorare molto proprio perché ogni problematica può essere carica di incertezza e ogni decisione pesare sulla professionalità e sulla coscienza del medico che è dibattuto tra una forte spinta a tutelare il diritto alla vita e il rischio di esiti incerti. Che cosa succede negli ambiti della realtà italiana, e direi anche europea? Certamente mancano esperienze omogenee sulle quali poggiare delle decisioni assistenziali. La medicina basata sull’evidenza non ci aiuta. In questo momento la prognosi neonatale è variabile a seconda anche dei centri clinici, della preparazione degli operatori. Questa realtà è quotidianamente vissuta nel Dipartimento Materno-Infantile, da me diretto, Centro di riferimento regionale per le gravidanze ad alto e altissimo rischio, ed è argomento prevalente costantemente dibattuto e rivisitato dall’équipe di medicina prenatale. Oggi di fatto è aumentata la sopravvivenza: la neonatologia può offrire ai nati prematuri un’adeguata stabilizzazione, un supporto efficace per l’immaturità polmonare. Una puntuale assistenza intensiva, la continuità diagnosticoterapeutica ostetrico-neonatologica, porta, attraverso un livello di collaborazione, ad una sopravvivenza via via maggiore per età gestazionali sempre più basse. Abbiamo registrato fino al 30% di sopravvivenza tra le 22 le 23 settimane e fino al 50% per le 25 settimane: di pari passo però è anche aumentato il contenzioso medico-legale perché in questi confini carichi di incertezza la problematica va riferita agli esiti invalidanti. Corre l’obbligo in questa nostra riunione odierna di esaminare alcuni ulteriori quesiti riferiti al tipo di esistenza in situazioni rischiose per il feto ad epoche gestazionali ritenute altamente premature. Le situazioni rischiose per la madre ovviamente devono essere obbligatoriamente trattate, ma noi ci riferiamo a quelle rischiose per la vita del feto, a madre integra e sana. Quindi quelle procedure obbligatorie nelle situazioni rischiose per la madre, sono o no altrettanto obbligatorie nelle situazioni rischiose per il feto altamente prematuro o immaturo? Qualcuno si chiede: il feto altamente prematuro o immaturo è un paziente? Lo è ancora prima del compimento del 6° mese? L’espletamento del parto è obbligatorio sempre in caso di imminente pericolo fetale? Qui ritorna la stessa domanda: il medico deve accettare la scelta e decisione dei genitori di non attuare alcun trattamento? La mia opinione è che il feto sia soggetto di tutela anche quando si trovi in condizione di alta prematurità. E questa è anche l’opinione del mondo scientifico, condivisa, credo anche dall’opinione giuridica corrente: il nato vivo, anche se non sicuramente viabile, deve essere tutelato con assistenza ordinaria (art. 7 della Legge 194). In estensione, e non solo per dovere professionale questo concetto dovrà applicarsi a tutti quei soggetti altamente prematuri al di qua del 6° mese. Va comunque denunziato che l’esigenza di preservare la vita del bambino nato in condizioni di estrema prematurità non è sempre da tutti attuata e certa-
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mente non è ancora una consolidata prassi se è vero, come è vero, che spesso, a 24-48 ore dal parto, neonati altamente prematuri si ritrovano negli obitori di strutture ospedaliere con movimenti vitali e attività cardiaca, seppure flebile, perché abbandonati ed esclusi da ogni assistenza anche compassionevole. Credo che dovremmo lavorare molto in questo campo per riaffermare questa accoglienza, che poi è espressione di una coerenza deontologica. In campo ostetrico ci troviamo in presenza di una responsabilità a doppio fattore per due beni, giuridicamente protetti, che sono in gioco e che possono anche trovarsi in contrasto fra di loro e cioè il bene del feto e quello della madre. Si tratta di una tematica con caratteristiche peculiari che può dar luogo a situazioni di drammatica conflittualità, con problemi di scelta da parte del sanitario e di consenso da parte del titolare del primo bene protetto, che è la donna, che agisce anche in una sorta di rappresentanza dell’altro bene, che è il bambino. Noi abbiamo risolto il problema attraverso la procedura di acquisizione del consenso personalizzato. La procedura di acquisizione del consenso diventa particolarmente delicata in questi casi soprattutto nel caso di specifiche indicazioni, anche per taglio cesareo prematuro, perché l’informativa in questi casi dovrà riguardare non solo i rischi della madre, ma anche quelli del nascituro: dovranno essere espressi tutti i rischi attuali e futuri; dovranno essere esplicitati tutti gli elementi per far comprendere parametri e indicatori di salute materna e fetale, sia riferiti al momento nascita sia alle epoche successive; Occorrerà prevedere anche i possibili effetti ipossici o di danno neurologico feto-
neonatale, ecc. Allora il compito dell’ostetrico nell’informare la madre dovrà necessariamente intersecarsi con le altre professionalità coinvolte sicché la reale informazione non sia soltanto svolta dal medico ostetrico, ma chiami in causa anche l’intensivista, il neuro-pediatra e tutte le figure professionali interagenti. Il compito si prevede arduo e difficile soprattutto in questo momento storico nel quale si intersecano in questo delicato campo fortissime spinte ideologiche che prepotentemente spesso orientano anche verso forme di eutanasia neonatale. Alcune richieste di genitori sono già state fatte alla nostra neonatologia: la problematica evidenziata ci sollecita a prevenire i momenti drammatici psicologici ed esistenziali degli stessi genitori nel caso di sopravvivenza di un figlio gravemente ammalato o con grave handicap. Sono situazioni non più tanto rare che si intersecano con il rifiuto all’accoglienza o la mancanza di consenso da parte della madre alle procedure assistenziali. Sono tutti problemi cruciali e moltissime sono le figure professionali coinvolte; moltissime poi le implicazioni legali, soprattutto in seguito a quella nota sentenza della Corte di Cassazione che ha fatto aumentare i contenziosi e le richieste risarcitorie. A titolo di esempio occorre sottolineare che nelle situazioni di emergenza bisognerà chiedersi quale sia la situazione di pericolo: è la morte del feto in utero? sono le sequele neurologiche del feto sopravvissuto dopo taglio cesareo? oppure sono i possibili danni riproduttivi per la madre che viene sottoposta a taglio cesareo, danni fisici o estetici etc.? Nelle situazioni di grande prematurità devono essere tenute presenti tantissimi elementi che sono fondamentali
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24 per l’acquisizione di un consenso veramente ben informato che è il risultato di un puntuale colloquio e di una personalizzata e precisa informazione della donna, della coppia, della famiglia. Certamente non è utilizzabile il modello prestampato, spesso allegato alla cartella clinica assolutamente incompleto e anodino e tanto spesso impugnabile nella sua essenza e validità. Un secondo aspetto riguarda i casi di neonati ricoverati in terapia intensiva dove praticamente tutti sanno bene che il piccolo essere sta lottando per la vita, e anche i genitori lo sanno: alle loro domande si cerca di rispondere rassicurandoli. Ma quei genitori non chiedono rassicurazioni edotte, ma hanno bisogno di essere ascoltati, hanno bisogno di un colloquio, di elaborare un ulteriore consenso informato attraverso continua condivisione e contatti con i sanitari sicchè il colloquio diventi strumento di interazione tra medici e genitori. Nella loro confusione e rabbia devono prendersela, ed è normale, con qualcuno, anche se il problema è di tipo genetico. Noi rispondiamo spesso con frasi fatte del tipo “stiamo facendo il possibile”,” stiamo facendo di tutto” e ciò certamente non basta! Personalmente mi attivo per altre soluzioni. Siamo in una società che deve fare ricerca e una ricerca può essere fatta anche nel migliorare la comunicazione. A titolo di esempio e per essere ben compreso nell’operatività/ricerca gestionale riferisco la storia di un bambino nato da una seconda gravidanza effettuata con taglio cesareo dopo dolorosa precedente esperienza di parto espletato in altro ospedale sprovvisto di unità di terapia intensiva neonatale ed esitato in modo infausto con exitus neonatale avvenuto in terza giornata: l’evento fu riferito ad insufficiente assistenza neonatale. Questa volta la donna si ricovera in un ospedale provvisto di terapia intensiva (T.I.N), il nostro. Il bambino ha un’insufficienza respiratoria acuta con ipotonia generalizzata. Il sospetto diagnostico è quello di una sindrome neurologica di Werdnig-Hoffman che può essere confermata da un esame genetico, eseguito solo dopo la nascita. Questo bambino ha bisogno di essere collegato ad un respiratore e due giorni dopo, prima di iniziare con la respirazione artificiale, abbiamo parlato con i genitori, nel momento in cui il sospetto diagnostico diventava sempre più consistente. In quel momento non ne avevamo l’assoluta certezza, e in queste circostanze ci siamo posti la domanda: quali sono le cure più appropriate da intraprendere? Stiamo facendo il giusto? Stiamo praticando accanimento terapeutico? Come coinvolgere i geni-
tori nel processo decisionale? Come informare? Come avere il consenso? Come intervenire e perché? Abbiamo scoperto di avere un grande aiuto nella cartella clinica informatizzata, istituita nel Dipartimento Materno-Infantile e T.I.N., uno strumento incredibilmente positivo perché consente ai genitori di leggere la cartella clinica: Noi li aiutiamo in questo percorso. Nel caso di questo bambino la cartella clinica, tramite la password, aveva avuto 234 accessi alla lettura da parte dei genitori o familiari, durante tutto il periodo del ricovero lungo 4 mesi. La cartella è stata letta dai familiari e dai consulenti in una realtà di limpidezza cristallina che ha consentito anche la valutazione del nostro operato. A distanza di un mese giunge il risultato dell’indagine genetica e il sospetto diventa diagnosi: è una patologia che non perdona, è una malattia per cui non ci sono cure. Ovviamente tutto quello che stiamo facendo da più di un mese non modifica il decorso della malattia. Se lo avessimo saputo prima non avremmo disposto la respirazione assistita per quel neonato. Comunque si è continuata l’assistenza, anche a livello domiciliare, così come voluto da questi genitori che hanno scelto a seguito questa via, dopo un continuo e costante dialogo. A noi quei genitori hanno lasciato diversi messaggi: hanno trascritto i loro pensieri nei quali dichiarano di pensare sì alla sofferenza di Giovanni, così si chiama il bimbo, ma anche di percepire la gioia di Giovanni di essere venuto al mondo, di vivere con loro, di crescere con loro fino a quando sarà possibile. Dichiarano di aver utilizzato lo spazio di espressione loro concesso non per dare suggerimenti, ma per ringraziare per aver offerto il servizio di visionare la cartella del figlio. Questo li ha aiutati perché a loro sembrava di partecipare alle cure insieme all’équipe medica e infermieristica, essendo aggiornati e coinvolti in tempo reale della situazione. I genitori e i familiari, pur nella dolorosa situazione, hanno apprezzato la semplicità di accesso e la chiarezza di trascrizione dei dati, hanno individuato il problema. In sintesi questa famiglia ha seguito da vicino il piccolo Giovanni in ogni momento delle sue giornate. Credo che questo contributo possa aiutare le Unità operative di ostetricia e di neonatologia a comprendere il mistero della vita e a far di tutto perché si imbocchi la strada della protezione e della difesa della vita, anche se irta di complicazioni e di eventi ad esito infausto. Nel nostro costante agire è contenuto l’obiettivo più importante del fare medicina oggi che è umanizzazione delle cure e del prendersi cura (care)!
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Un nuovo marker biologico nellE malattie croniche intestinali
la calprotectina Un metodo semplice, non invasivo che consente di evitare indagini endoscopiche inutili Michele Falcone Sabrina Dembech Azienda Ospedaliera Universitaria OO. RR.di Foggia - 1° Laboratorio Analisi Cliniche
Ai comuni indici di flogosi bioumorale: VES, PCR, Fibrinogeno e altre proteine, da alcuni anni arrivano continue pubblicazioni su una nuova proteina, più specifica per osservare l’infiammazione intestinale. Si tratta della CALPROTECTINA fecale (Calp). Il primo autore che studiò tale proteina è stato Fagerhol nel 1980. Tale nome deriva dalla proprietà di legare atomi di Calcio. E’ codificata dal gene q12-q21 presente sul cromosoma 1, costituita da due catene pesanti e da una catena leggera, il peso molecolare complessivo è di 36 kDa. Tale proteina può legare anche la zinco, ma la proprietà antimicrobica deriva dalla sua capacità di legare il calcio. La Calp è presente nelle cellule, nei tessuti e nel liquidi del corpo. Il citoplasma dei neutrofili ne è particolarmente ricco, costituisce il 5% delle proteine totali di tali cellule e il 50-60% delle proteine solubili presenti. E’ rilasciata dopo distruzione e morte dei neutrofili o anche dopo stimolazione. Anche se non ancora del tutto chiarito il meccanismo di rilascio, è stato osservato che fattori citotossici rendono la membrana cellulare permeabile, ma altri meccanismi sono in ricerca. L’importante è che in seguito al rilascio, la Calp aumenta nei liquidi biologici: plasma, liquor, liquido sinoviale, urine e feci. Questa peculiarità rende interessante il suo dosaggio nelle feci. Quel processo dinamico che porta nella flogosi i neutrofili a terminare la loro esistenza, migrando attraverso le pareti intestinali, fa si che il materiale fecale si arricchisca di Calp. Tale processo è in relazione al grado di flogosi, ma anche in assenza di malattia infiammatoria le feci hanno più Calp del plasma. Numerose pubblicazioni rivelano diverse funzioni di questa proteina. Ma quella maggiormente nota è l’attività antimicrobica svolta in particolar modo dai neutrofili contro i batteri che possono entrare nel proprio citoplasma. Nella pratica di laboratorio si sta sempre più utilizzando il dosaggio della Calp nelle feci per indagare sulle MICI (malattie infiammatorie croniche dell’intestino, Morbo di Crohn, Retto-
colite Ulcerosa). Le indagini sulle MICI prevedono metodi dispendiosi ed invasivi ed anche rischiosi per il paziente, come le indagini endoscopiche. Inoltre tali malattie alternano periodi di remissione ad altri di riacutizzazione e l’indagine endoscopica non può essere continuamente ripetuta. Quindi una ricerca di proteina nelle feci che riveli lo stato infiammatorio o no delle pareti intestinali è ottimale sia per il paziente che per il clinico. Inoltre Calp può rilevare stati subclinici di flogosi anche dopo attenta terapia. Ma Calp non è un sostituto delle indagini endoscopiche, si pone più come mezzo da anteporre ad una eventuale indagine endoscopica. Cioè a dire dopo dosaggio di Calp, si ha un serio sospetto dello stato infiammatorio o no della mucosa intestinale. Allora diventa importante, nel primo caso, proseguire nelle indagini con metodiche dispendiose ed invasive. Il metodo si basa su estrazione della Calp da campione fecale e sul successivo dosaggio con metodo immuenzimatico. Pochi milligrammi (mg) di feci vanno congelate, in questo modo la proteina conserva la sua stabilità. I mg vanno trattati con un liquido di estrazione, dopo opportuna miscelazione e centrifugazione, il sovranatante opportunamente diluito è utilizzato per la reazione immunoenzimatica, l’intero metodo richiede alcune ore di lavoro. I campioni di feci possono essere raccolti in qualsiasi ora del giorno, conservati in frigo e inviati in laboratorio. I numerosi lavori presenti in letteratura affermano che la più importante caratteristica di Calp è che rappresenta una diretta misura della attività infiammatoria della parete intestinale. Tale infiammazione è vista prima di altri consolidati indici infiammatori: VES e PCR. Gli studi confermano che un test di Calp elevato in pazienti con MICI derivi dall’accentuato turnover dei leucociti nelle pareti intestinali per notevole migrazione di essi. Un test negativo correla con una bassa probabilità di infiammazione della mucosa intestinale e quindi altre diagnosi devono essere ipotizzate. In caso di test positivo, la maggiore
DIAGNOSTICA
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27 ipotesi diagnostica è per MICI e quindi altre indagini, le endoscopie, possono essere intraprese come conferma. Se si pensa a quanti pazienti si rivolgono ai medici generici e specialistici per disturbi riguardanti l’intestino, dal colon irritabile alle alterazioni più o meno marcate dell’alvo, e a quanti di quanti verranno sottoposti ad endoscopia, forse in mono improprio, perché raramente può essere posta una diagnosi corretta con un semplice esame clinico, ecco la peculiarità di questo test che potrebbe fungere da filtro per scegliere i pazienti da inviare alle indagini endoscopiche. Inoltre la ricerca della Calp nelle feci può essere di monitoraggio nella terapia. Infatti molti studi hanno documentato come la scomparsa dei disturbi o malesseri riferiti dal paziente, non sempre correla con un reale benessere cellulare o delle pareti intestinali. I dati di Calp potrebbero indurre il medico a proseguire nelle terapie, fino al completo spegnimento del fenomeno flogistico. I primi operatori sanitari che hanno intuito la quale aiuto si potesse avere dal dosaggio della Calp nelle feci sono stati i pediatri. Questi medici affrontano quotidianamente nei propri ambulatori i piccoli pazienti che riportano diversi disturbi intestinali: diarrea, sangue nelle feci, dolori addominali e perdita di peso o non aumento. Non tutti possono avere patologie serie, tante volte, se non la maggior parte, sono fenomeni transitori e con una attenta igiene alimentare e pochi farmaci possono risolvere. Ma tante volte quegli stessi sintomi possono essere evocati dalle serie MICI. In questo caso le indagini endoscopiche rappresentano la procedura di riferimento per la diagnosi di Colite Ulcerosa e Morbo di Crohn. Questa indagine, anche se non priva di serie difficoltà per i piccoli pazienti, valuta lo stato di attività della malattia e l’efficacia della terapia. Il dosaggio di Calp proprio in queste due malattie trova la massima espressione. I dati pubblicati e le esperienze dei laboratori clinici ormai lo dimostrano. Anche presso i laboratori degli OO.RR. di Foggia questo esame è divenuto realtà, proprio per merito dei pediatri che per primi ne hanno capito la preziosa utilità. Dopo una loro esperienza pilota, attuata dal Dott. Gifuni del reparto di Pediatria, l’esame è realizzato presso il 1° Laboratorio Analisi Cliniche per renderlo fruibile a tutti i pazienti. I dosaggi riscontrati presso il laboratorio sono in
linea con le attese cliniche. Le richieste per adesso, ancora non molto numerose, sono soprattutto derivanti dai pediatri ospedalieri e del territorio, ma arrivano anche, per adulti, da medici specialisti e del nostro interland e da fuori regione. Per eseguire l’esame bisogna raccogliere più campioni ed è necessario esaminare contestualmente campioni standard a concentrazione nota e almeno due controlli, uno con valori normali e un altro con valori patologici. Le unità di lettura in D.O. (densità ottica) sono ripetibili tra differenti determinazioni e ciò determina un basso valore di variabilità analitica. Con l’ausilio di programmi informatici è possibile delineare la curva di calibrazione e interpolare le D.O. dei campioni e controlli. I dati finali vengono espressi in mg/Kg di feci ed i valori di riferimento per adesso sono così indicati dalla maggior parte dei laboratori: • bambini < 2 anni : < 100 mg/Kg di feci • bambini > 2 anni : < 90 “ • adulti : < 70 “ Bibliografia 1. A. Barassi, G.V. Melzi d’Eril, La Calprotectina nella malattia infiammatoria e nel cancro del colon. La Rivista Italiana della Medicina di Laboratorio, 2008; 4 pagg. 104-108. 2. G.C. Sturniolo, E. Dal Pont, R. D’Incà, Malattie infiammatorie dell’intestino: ruolo dei marker biologici; La Rivista Italiana della Medicina di Laboratorio, 2008; 4 pagg. 71-79. 3. Fagerhol MK, Dale I, AndersonJ, Release and quantitation of a leucoyte derived protein (L1). Scan J Haematol 1980;24:393-8. 4. Bjarnason I, Sherwood R, Fecal calprotectin: a significant step in noninvasive assessment of intestinal inflammation. J Pediatri Gastroenterol Nutr 2001;33:11-3. 5. Indicazione commerciale: La Ditta Eurospital s.p.a. Via Flavia 122, 34147 Trieste, tel. 040 89971, www.eurospital.com, commercializza il test Calprest: Test per la determinazione della Calprotectina nelle feci: marker diretto e non invasive di flogosi intestinale.
Matattie Infiammatorie Croniche Intestinali (M.I.C.I.) La malattia cronica intestinale (I.B.D – Infiammatory Bowel Desease) è a eziologia sconosciuta anche se la componente immunitaria è rilevante nella patogenesi della malattia. Si caratterizza per la tendenza familiare, la cronicità, con decorso intermittente, la presenza di manifestazioni extraintestinali e la risposta steroidea. Due sono le entità anatomo cliniche principali: Morbo di Crohn e Rettocolite ulcerosa. Caratteristiche
Morbo di Crohn
Rettocolite Ulcerosa
Sede della malattia
Segmentarietà
Progressione retto>colica
Tipo di flogosi
Granulomatoso-produttiva
Essudativa-emorragico
Distribuzione della flogosi
Discontinua e transmurale
Uniforme e mucosale
Risoluzione della flogosi
Non provata
Frequente
Fibrosi
Costante
Assente
Meccanismo immunitario
Ipersensibilità ritardata
Autoimmunità
Sintomo di esordio
Non definito
Sanguinamento
Soggetti a rischio
Fumatori di sigarette
Ex fumatori
Recidiva post-chirurgica
Costante
Assente
Incidenza
Aumento progressivo
Stabile
Età
Soggetti < 35 anni
Tutte le età
PILLOLE DI PRATICA CLINICA
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In caso di dispepsia al di sopra dei 45 anni è sempre indicato l’approfondimento diagnostico endoscopico? Si. La presenza di dispepsia nella popolazione generale è abbastanza elevata (20-40%). Sebbene molti pazienti non consultano il medico il 5% delle visite in medicina generale sono dovute a questa patologia. In considerazione delle molteplici cause sottostanti, di cui alcune gravi, è importante nei casi con età > 45 a. L.G. europee o 55 a. L.G. Americane, e o presenza di sintomi allarme (dimagrimento inspiegabile, emorragie, familiarità per neoplasie del tratto digestivo superiore, disfagia progressiva, odinofagia, vomito persistente, massa palpabile, anemia sideropenia inspiegabile) indagare a fondo con l’indagine endoscopica.
In caso di rilievo occasionale di stenosi carotidea del 40% è indicato l’intervento chirurgico? No. L’indagine utilizzata per rilevare una stenosi carotidea è l’ecocolordoppler che ha una sensibilità del 87-89% e una specificità del 92-97%. Una limitazione è la considerevole variabilità dell’interpretazione operatore dipendente. Valori al di sotto del 50% sono indicati come stenosi lievi e pertanto non è indicnon necessitano di l’intervento chirurgico ma solo il trattamento antiaggregante e il controllo periodico ecografico. Valori tra il 50-70” indicano una stenosi moderata e l’intervento è consigliato in caso particolari (ischemia recente, placca ulcerata, sintomi cerebrali, età non avanzata, pazienti non diabetici, sesso maschile); mentre valori superiori al 70% indicano stenosi severa e l’intervento chirurgico è indica viene proposto il più precocemente possibile dopo valutazione specialistica.
Di fronte a un paziente che presenta episodi ricorrenti di trombosi è indicata la ricerca di una eventuale trombofilia? Si. Le trombofilie vere e proprie possono dipendere da cause ereditarie, più frequenti (> 2% della popolazione) e acquisite, più raramente. Si ritiene che i pazienti che presentano TVP siano affetti da una trombofilia. Le più frequenti sono: Comuni (>2%): Mutazione G1691A del gene del fatt. 5 (Fatt. V Leiden); HR2 aplotipo del gene del Fatt. V.; Mutazione G20210A del gene della protrombina (Fatt. II); Mutazione C6 77T del gene della metilen-tetraidrofolato reduttasi (TVP negli omozigoti). Rare: (<0,5%): Deficit di antitrombina; Deficit di proteina S.; Disfibrinogenemia; Omocistinuria omozigote. La conferma di una trombofilia genetica consigliagiustifica un approfondimento genetico nei famigliari. Le altre condizioni cliniche in cui è indicata la ricerca di trombofilie sono: 1. TVP prossimale senza causa apparente < 50 anni; 2. Trombosi durante il trattamento estrogenico; 3. TVP massiva; 4. TVP in sedi inusuali (sede ascellare, craniche ecc.); 5. Aborti ripetuti, parto prematuro, eclampsia, TVP gravidiche, rottura della placenta, familiarità per aborti ripetuti (M. Tombesi).
Di fronte al rilievo occasionale di un aneurisma dell’aorta addominale di 4,5 cm è consigliabile intervenire chirurgicamente? No. Il rilievo di un aneurisma con valori inferiori a 5 cm di diametro consento una vigile attesa. Infatti il diametro di 4,5 cm indicano un aneurisma di dimensioni medie, pertanto il paziente può essere seguito con ecografie addominali periodiche semestrali. Il paziente portatore di aneurisma di queste dimensioni ha le medesime probabilità di morire per l’intervento chirurgico che per rottura di aneurisma. I provvedimenti che invece conviene mettere in atto sono: controllo dei valori pressori se iperteso, abolizione del fumo e controllo degli altri fattori di rischio cardiovascolare (dislipidemia, obesità ecc.).
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FORMAZIONE
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La formazione dei medici di famiglia negli altri Paesi a cura della redazione
L’obiettivo di una perfetta equiparazione dei medici di famiglia con specialisti ed ospedalieri è stato già conseguito da buona parte dei Paesi europei con sistemi sanitari assimilabili al nostro, che hanno attivato percorsi formativi differenti ma tutti sotto l’insegna delle Università. Le differenze tra il modello italiano e gli altri sistemi formativi dei Medici di Medicina Generale in Europa sono state analizzate dal professor Francesco Carelli, Italian Council Member dell’Euract (European Academy of Teachers in General Practice and Family Medicine), l’associazione che riunisce a livello europeo chi si occupa di formazione in medicina generale. Italia Dopo il normale corso di laurea per i medici di famiglia non è prevista alcuna formazione specialistica universitaria ma la frequentazione di corsi triennali gestiti dalle Regioni. Al termine dei tre anni l’aspirante medico di famiglia presenta una tesina, non equiparabile ad una tesi universitaria. Poi occorre accumulare punti professionali per accedere alle graduatorie. L’accesso ai corsi regionali è reso poi complesso dal fatto che, per ragioni economiche, gli stessi corsi sono stati avviati ogni tre anni, ossia al completamento del precedente corso. Come dire che se si perde il treno bisogna attendere ben 36 mesi per iniziare l’iter formativo. Iter che è completato comunque da due tirocini di sei mesi ciascuno presso gli studi medici di dottori di famiglia abilitati. Un percorso sicuramente meno complesso di quello che conduce alle altre specializzazioni mediche dopo ben 5 anni di formazione universitaria e tirocini in corsia. Gran Bretagna La formazione specialistica in Medicina generale è condotta dalle Università e dura ora 5 anni. Nel Regno Unito esiste infatti il Royal College of General Practitioners, al quale si accede con un severo esame nazionale, composto non solo da un test ma anche da colloqui attitudinali, seguiti dalla soluzione di casi clinici simulati. Il periodo di formazione specialistica avviene con il continuo interscambio didattico con altre specializzazioni mediche e sotto la guida di docenti universitari. Al termine dei cinque anni l’Università rilascia il diploma che equipara di fatto i medici di famiglia a tutti gli altri medici specializzati. Dopo il diploma si accede al dottorato di ricerca con tirocinio nello studio di un medico di medicina generale. Germania La formazione dura tre anni ma avviene all’interno di dipar-
timenti universitari di Medicina Generale, di solito presenti in piccole Università e gestiti da medici, sempre di medicina generale ma con curriculum all’altezza del ruolo. Al termine dei tre anni viene rilasciato un Diploma Universitario di specializzazione. Anche in Germania la formazione avviene mediante l’interscambio didattico con altri corsi di specializzazione medica per avere professionisti formati più a tutto campo. Francia Il percorso formativo varia da regione a regione ma in quasi tutte è stato istituito un Dipartimento Universitario in Medicina Generale. La durata dei corsi è di tre anni al termine dei quali viene conseguito il diploma universitario di specializzazione in MG. Olanda e Danimarca In entrambi i Paesi è prevista la formazione specialistica universitaria in Dipartimenti ad hoc con corsi della durata di 5 anni. Anche qui sono previsti interscambi didattici con altri corsi di specializzazione. Negli ultimi 18 mesi alla formazione in aula si somma quella del tirocinio. Spagna Il sistema più avanzato è quello catalano, al quale si stanno ispirando anche altre regioni e che prevede 5 anni di formazione specialistica universitaria con tirocinio finale e interscambi didattici con altri dipartimenti specialistici. Turchia Praticamente ogni Università turca possiede un Department of Family Medicine. Sono infatti 24 le sedi universitarie che sfornano medici di famiglia altamente specializzati.
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Mental coach come allenare la mente a raggiungere gli obiettivi prefissati a cura della Dalila Campanile, giornalista “Bisogna sfatare le credenze secondo cui chi ottiene quello che vuole è più fortunato o più dotato, tutti gli uomini possiedono delle risorse e con l’aiuto di un mental coach si può capire quello che davvero si vuole e costruire la strategia giusta per realizzarlo.”
Demotivazione e senso di insuccesso sono stati d’animo frequenti in questo periodo fra gli italiani: per eliminarli ma soprattutto per evitare di ricadere in questi atteggiamenti mentali negativi, possiamo applicare il mental coaching: una tecnica innovativa che agisce direttamente sul terreno in cui attecchiscono tali negatività, ovvero la nostra mente. Secondo uno studio condotto dal CENISPES (Centro Italiano di Studi Politici Economici e Sociali), circa il 50% dei lavoratori è demotivato. Da una parte si tende a credere che questo scenario così avvilente sia il risultato di una congiuntura economica e politica sfavorevole ma dall’altra, si evidenzia come i complici di questa situazione risultino essere anche nella passività e nella mancanza di idee chiare della maggior parte della popolazione: è in questo contesto che si inserisce la nuova figura professionale del mental coach ossia di colui che allena la mente delle persone e le aiuta a raggiungere i propri obiettivi. Di nascita recente, questo moderno specialista inizia ad essere adottato all’interno di team organizzati in particolar modo nelle squadre sportive, svolgendo princi-
palmente il ruolo di “motivatore”: con il passare del tempo tale figura è risultata essere piuttosto versatile a tal punto da progettare interventi per i singoli ed essere utilizzata in svariati ambiti come quello artistico. A tal proposito abbiamo intervistato un esperto del campo, il dott. Danilo Audiello - in arte Alexis Arts (nella foto) – arista di origini pugliesi conosciuto a livello internazionale per i suoi Guinness World Record (il 29 maggio 2009 Alexis entra nel Guinness dei primati realizzando l’evasione più veloce mai realizzata da una camicia di forza e da un paio di manette), che utilizza le tecniche del mental coaching sia per la sua preparazione personale che per quella del suo staff in vista di spettacoli altamente scenografici in cui si fondono spesso varie espressioni artistiche. “Bisogna premettere che la tecnica è efficace solo su chi desidera davvero cambiare e per farlo è disposto ad agire concretamente, ad esempio mettendo in pratica questo atteggiamento sia nella quotidianità che in vista di un obiettivo importante: personalmente uso questa tecnica quando preparo uno spettacolo, riuscendo ad ottenere così il fine che mi prefiggo” che il più delle volte è la perfetta riuscita di una esibizione di successo. Classe 1986, Alexis è un fantasista che, attraverso il filo conduttore dell’illusionismo, fonde in un’unica espressione artistica teatro, mimica, trasformismo, musica, danza classica, ombre cinesi, scherma e arti marziali. La sua esperienza – che ha avuto inizio da quando, all’età di 5 anni, si esibisce per la prima volta in un numero sull’illusionismo in uno spettacolo teatrale – lo ha portato a maturare persino doti nelle produzioni artistiche e scenografiche. Ed è proprio in queste situazioni che Alexis si ritrova a voler contagiare lo staff e gli altri collaboratori con il suo spirito orientato al raggiungimento di quello che poi dovrebbe essere un fine comune ossia l’ottimo esito di uno show. Alexis appare quindi un giovane che sa da sempre quello che vuole, lo affronta con il giusto atteggiamento mentale sfruttando le risorse in suo possesso: tre caratteristiche fondamentali che contraddistinguono il soggetto ideale per intraprendere un percorso di mental coaching che faccia approdare ad un sicuro suc-
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33 cesso. “Bisogna sfatare le credenze secondo cui chi ottiene quello che vuole è più fortunato o più dotato – continua Alexis – tutti gli uomini possiedono delle risorse e con l’aiuto di un mental coach si può capire quello che davvero si vuole e costruire la strategia giusta per realizzarlo.” Il primo passo del mental coach è quello di aprire la mente del soggetto facendogli valutare diverse prospettive ed aiutarlo a definire nei minimi dettagli degli obiettivi: anche Alexis valuta senza preconcetti tutti gli stimoli quotidiani, anche i più semplici, traendone persino spunto e ispirazione per i suoi spettacoli e poi pianifica i suoi nuovi traguardi non lasciando tempi morti ma sfruttando al massimo tutto l’arco della giornata. “Una volta che si è inquadrato ciò che si vuole – ci svela Alexis - bisogna pensare positivo traendo impulsi giornalieri che possano alimentare la propria autostima e soprattutto che ci motivino costantemente”. L’ottimismo è proprio il modo attraverso cui Alexis vive la sua realtà: se così non fosse non avrebbe potuto cimentarsi in molti dei progetti di impegno sociale che lo hanno visto partecipe, dove per coinvolgere i giovani, occorre davvero credere nella speranza di un futuro migliore. Alexis quindi, appare come un esempio positivo di un giovane che è riuscito a realizzarsi professionalmente senza abbandonare interessi diversi dal suo campo lavorativo ma, non meno importante, senza abbandonare gli studi: ha infatti conseguito la laurea in Economia cum lode in tempi record; tutto questo è il frutto di una costante motivazione e di una ferrea forza di volontà. “Di base c’è anche il fatto che mi sono sempre divertito in quello che faccio ma, a volte, solo questo non è sufficiente: è stato con il mental coaching che ho capito effettivamente che cosa fare e come farlo per raggiungere quello che volevo davvero.” La personalità eclettica di Alexis è anche prova del fatto che la sua voglia di apprendere, sperimentare e cimentarsi in nuove esperienze lo hanno forgiato a tal punto da fargli raggiungere i suoi obiettivi in determinati tempi: ma è anche noto che il grado di costanza è variabile in ogni essere umano
soprattutto in chi non è realmente motivato; un percorso - a livello puramente temporale - può avere una durata diversa per ogni individuo anche per via dell’influenza di fattori soggettivi. Tuttavia esiste un programma di mental coaching che permette il conseguimento di uno scopo in circa cinque mesi: si tratta della medesima tecnica di allenamento mentale strutturata in una maniera più intensa, idonea per tutti quelli che hanno voglia di cambiare e necessitano di farlo nel minor tempo possibile. Il percorso prevede la definizione dettagliata di un obiettivo desiderato ma anche l’introduzione di “sotto obiettivi” e “tappe di avvicinamento” che si incastrano in un piano realistico, misurabile e controllabile. Il mental coach entra in gioco per fornire i mezzi e gli strumenti con cui muoversi: il soggetto dovrà darsi delle priorità e stilare programmi (cose da fare, date ecc.) con reali azioni di intervento che verranno poi controllate dall’allenatore. Anche con questo programma, l’atteggiamento mentale positivo e la voglia di agire non devono mai mancare. Tali tecniche sono state sperimentate e testate su un campione piuttosto vasto: funzionano e il risultato a cui portano è una vera svolta nella vita del soggetto che si è sottoposto a queste ultime. Infine Alexis conclude: “Sono un fantasista - illusionista l’intento dei miei spettacoli è allietare attraverso il sorprendente, pertanto non credo nei poteri soprannaturali ma piuttosto in un patrimonio di abilità fuori dal comune e in fenomeni che, seppure apparentemente inspiegabili, abbiano comunque un fondamento scientifico.” D’altronde gli spettacoli su cui ha lavorato come “Aladin” dei Pooh, “Ben 10 live” per conto della Cartoon Network ed i suoi Guinness World Record sono l’esempio di come il mental coaching risulti essere la strada migliore per raggiungere i propri obiettivi con successo o per canalizzare stati di demotivazione in stati propositivi e vincenti. Per approfondire: www.AlexisArts.it - www.facebook.com/AlexisArts
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DIDATTICA
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La filmografia come strumento di apprendimento Una nuova modalità didattica per i futuri medici e operatori sanitari Giovanni B. D’Errico Coordinatore Corso Formazione Specifica in Medicina Generale - Foggia La rappresentazione filmica ha la finalità di consentire al discente di immedesimarsi nella situazione, di provare sentimenti, di riflettere su se stesso nei confronti della malattia per poter comprendere il vissuto emotivo del paziente che si ha di fronte.
In questi ultimi anni in ambito pedagogico è stato definito che il film rappresenta un valido strumento di formazione, di riflessione e di approfondimento, non solo per studenti che si avviano alle professioni sanitarie, ma anche per professionisti in formazione. Il film, per la facilità di coinvolgimento emotivo e l’immediatezza delle immagini, consente allo spettatore di inserirsi in un contesto complesso che potrà trovare nella pratica clinica e di confrontarsi e riflettere sulle situazioni che si vengono a creare nel corso della visione; essere spettatore vuol dire essere trasportato nella realtà raccontata dal film, essere coinvolto emotivamente, immedesimarsi negli attori, trasportarsi nei luoghi in cui si svolgono le vicende. L’esperienza filmica porta a riflettere sulle situazioni che si succedono, in particolare se queste riguardano la malattia, la cura e la morte, è uno strumento potente di apprendimento poichè aiuta il confronto e la riflessione con problemi reali, sollecita l’espressione di emozioni e la formulazione di nuovi punti di vista, aprendo prospettive inedite sulla realtà (Cattorini, 2006). Le immagini visive del film sono fortemente evocative e adatte ad ispirare un coinvolgimento emotivo: esprimendosi con immagini esso permette al telespettatore di immedesimarsi con i personaggi delle scene e, come attivatore di complessi e problematiche inconsce, favorisce una mobilizzazione dell’emotività (E. Torre). Per apprendere dall’esperienza del film è necessario che lo spettatore si immedesimi nella simulazione, provando alcune sensazioni dei personaggi rappresentati, che riesca a immedesimarsi nei loro panni, ne prenda le parti, provi a pensare che cosa farebbe se si trovasse in quella situazione (D’Incerti,
Santoro, Varchetta, 2000). Numerose sono le tematiche che possono essere affrontate con il percorso cinematografico: in particolare possono essere di aiuto per la formazione alla relazione medico-paziente, nei differenti ambiti di cura, per la formazione alla relazione d’aiuto, per la riflessione sull’etica medica. Il medico di famiglia in formazione necessita, per completare il suo bagaglio di conoscenze curriculare, l’acquisizione di competenze relazionali e la capacità di saper gestire le emozioni per poter svolgere con professionalità l’attività di medicina generale. Numerose sono le esperienze svolte nelle varie professioni sanitarie, sia durante il corso di studi che nelle prime fasi di avvio alla professione: in ambito infermieristico, è stato utilizzato per far acquisire competenze decisionali, ai fini di far fronte a problematiche clinico assistenziali ed etico relazionali (laurea infermieristica sede di Reggio Emilia); nel corso degli studi di medicina e chirurgia, per valutare negli studenti le reazioni e le differenti sensibilità di fronte alla malattia e di considerare eventuali strumenti formativi alternativi (Campus Biomedico Ospedale S. Andrea di Roma); nel corso di
Il cinema è in grado di sollecitare lo spettatore pesantemente sia sul piano formativo che emotivo. Consente di fare esperienza in una realtà che non appartiene allo spettatore, ma che può risultare significativa (Agosti)
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36 formazione specifica in medicina generale, come percorso didattico sperimentale per stimolare il futuro medico alla riflessione, all’attenzione della sfera emotiva, alla relazione medico paziente. (Scuola di Formazione di Trento); nel percorso per diventare fisioterapisti, per far acquisire una competenza emotiva in grado di gestire il quotidiano contatto e le reazioni emotive legate alla disabilità. (Ospedale S. Camillo di Alberoni - Venezia). Un percorso cinematografico con intento didattico è stato utilizzato anche negli Ospedali Riuniti di Bergamo per sviluppare strategie di team leader; nell’Università di Firenze – Facoltà di Medicina e Chirurgia per riflettere sulle pratiche professionali quotidiane adottate nella relazione con l’utente immigrato; nell’Università degli Studi di Torino per la formazione di infermieri tutor. Da non dimenticare che l’utilizzo del materiale filmico come mezzo didattico ha ricevuto, nei vari contesti, il massimo gradimento da parte dei discenti, i quali, dopo aver visionato i film con l’aiuto di un facilitatore tutor, sono stati in grado di risolvere e affrontare situazioni critiche e complesse molto più facilmente che in precedenza. Bibliografia 1. Alexander M: The doctor: a seminal video for cinemeducation. Family Medicine, 34(2): 92-94 (2002). 2. Agosti A: a cura di. Il cinema per la formazione. Milano: Franco Angeli (2003). 3. Beccastrini S: Filmiche storie di malati e di medici: medicina narrativa e uso formativo del cinema. 4. Benaglio C: Curare il corpo muto. Un percorso di medical humanities a partire dal film Parla con lei di Pedro. 5. Almodóvar. In Zannini L (a cura di) Il corpo-paziente. Da oggetto delle cure a soggetto della relazione terapeutica. Milano: Franco Angeli (2004). 6. Bert G: Cinema e medicina: un viaggio nell’immaginario. Bucci R (a cura di): Manuale di medical humanities. Roma: Zadig (2006).
7. Blasco PG: Literature and movies for medical students. Family Medicine 33(6): 426-428 (2001). 8. Cappa F: Introduzione, In Cappa F, Mancino E (a cura di): Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo. Milano: Mimesis (2005). 9. Cacciani A.Il film come strumento di didattica in “FOR”, 39, 1999. 10. Cortese C, Ghislieri C: Il cinema. In Boldizzoni D, Nacamulli R (a cura di): Oltre l’aula. Strategie di formazione nell’economia della conoscenza. Milano: Apogeo (2004). 11. Crellin JK, Briones AF: Movies in medical education. Academic Medicine 70(9): 745 (1995). 12. Fognini G, Duca PG, Casazza G: Medicinema: la formazione del medico e il contributo della decima musa. 13. Considerazioni su una sperimentazione didattica. In Medic, 13(1): 50-56 (2005). 14. Franza AM, Mottana P. Dissolvenze. Le immagini della formazione. Bologna: Clueb (1997). 15. Lepicard E, Fridman K. Medicine, cinema and culture: a workshop in medical humanities for clinical years. 16. Medical Education, 37:1025-1049 (2003). 17. Mottana P. Lo specchio di Andrei Tarkoskij. In Cappa F, Mancino E (a cura di): Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo, Milano: Mimesis (2005). 18. Massa R. La clinica della formazione. Milano: Franco Angeli (1992). 19. Malavasi, Polenghi S., Rivoltella P. C., Cinema, pratiche formative, educazione, Vita e Pensiero, Milano, 2005. 20. Rivoltella P. C., L’audiovisivo e la foPadova, 1998. 21. Quaglino G.P: Immagini della leadership”. In Cappa F, Mancino E (a cura di): Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo. Milano: Mimesis (2005). 22. Sierles FS: Using film as the basis of an American culture course for first-year psychiatry residents. Academic Psychiatry. 29(1): 100-104 (2005). 23. Zannini L: Medicina narrativa e medical humanities. Milano: Cortina.
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IL GRANDE COCOMERO Regia Interpreti Nazionalità Genere
Francesca Archibugi Lara Pranzoni, Anna Galiena, Alessia Fugardi, Sergio Castellitto Italia 1993 drammatico
a cura della redazione
Il titolo de Il grande cocomero è ripreso dal modo con cui Linus, uno dei Peanuts di Charles Schultz, chiama il mitico personaggio che dovrebbe rendersi visibile ai suoi occhi nella magica notte di Halloween. La vicenda del film è ispirata all’opera di quel bravo medico umanista, troppo presto scomparso, che fu Marco Lombardo Radice, classe 1948, militante sessantottino, romanziere di successo (scrisse, con Camilla Ravera il famoso “Porci con le ali”, libro simpaticamente sporcaccione), poi neuropsichiatra infantile all’Università di Roma. La postuma raccolta dei suoi scritti saggistici, intitolata “Una concretissima utopia”, contiene verità come questa: “Da un punto di vista umano e terapeutico ciò che conta veramente è la capacità di sentire correttamente la richiesta profonda del paziente e di rispondere ad essa”. Fu fondatore della Associazione per il sostegno e il trattamento dei minori con problemi psicologici e psichiatrici e morì, nel 1989, a soli quarantun anni. Uno di quei medici, insomma, che donano orgoglio alla professione e i cui scritti andrebbero consigliati, come manuale di riflessione per gli studenti, in qualunque Facoltà di Medicina che intenda formare medici umanisti e non semplicemente indottrinare banali iatrotecnici. Il film narra di una dodicenne, Valentina detta Pippi, figlia di due persone arricchite ma culturalmente ed emotivamente povere, che ha avuto una crisi convulsiva e viene perciò ricoverata, con iniziale diagnosi di epilessia, nel reparto di neuropsichiatria infantile diretto da Arturo (Sergio Castellitto), un giovane specialista che si è appena, e dolorosamente, separato dalla moglie. Egli prende in cura la ragazzina ed è colpito dai suoi atteggiamenti ombrosi, che soltanto marginalmente appaiono avere a che fare con una sofferenza di natura esclusivamente epilettica. Pippi è scontrosa e ce l’ha con tutti ma in particolare con i suoi genitori. Arturo decide di tentare una terapia analitica, non convenzionale, fondata sul legame amicale e sulla reciproca fiducia tra medico e paziente, ritenendo che soltanto in un simile scenario affettivo la malattia di Pippi possa essere compresa e curata. La ricerca dei sentimenti che curano e guariscono costa fatica, incertezza, travaglio interiore di natura professionale ma anche personale. Perciò i momenti cruciali della relazione tra i due personaggi, il medico e la bambina, sono, nella prima parte del film, quelli in cui si verificano delle crisi tra loro, quando emergono le incomprensioni, quando Arturo diventa sempre più dubitoso circa la bontà della strategia assisten-
ziale e terapeutica che sta seguendo. Ma pian piano Pippi, che nella sua malattia e nella sua scontrosità aveva trovato un rifugio e una corazza rispetto alla mancanza di comunicazione e d’amore dei suoi genitori, alfine si apre, chiede di rendersi utile in reparto e si mette ad assistere assiduamente e con notevole competenza relazionale una piccola cerebrolesa di sei anni. La sua morte provoca l’ultima crisi di Pippi ma alla fine ella ne uscirà diversa, più forte, più serena. Anche Arturo esce migliorato, meno incerto e più saldo, da questa esperienza e anche i genitori di Pippi si decidono alfine alla separazione, rinunciando a continuare a prendere la malattia della figlia quale alibi per restare assieme seppur di malavoglia. Insomma, il film mostra che una malattia non è mai – e tanto meno quando il paziente è un bambino – soltanto un problema del malato bensì, anche, del contesto e che la guarigione dell’uno dipende anche dalla guarigione dell’altro e viceversa. (da Stefano Beccastrini)
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UN MEDICO, UN UOMO (THE DOCTOR) Cast Regia Sceneggiatura
Adam Arkin, Wendy Crewson, Tony Fields, J.e. Freeman, Breon Gorman, Denis Heames, Gregor Hesse, William Hurt, Bruce Jarchow, Charlie Korsmo Randa Haines Robert Caswell
a cura della redazione Jack McKee (interpretato da William Hurt) fa il chirurgo in un ospedale di San Francisco. E’ molto abile ma, come non si stanca di ripetere ai suoi tirocinanti, ritiene che il suo compito sia “…entrare, aggiustare, andarsene…”, senza perdere tempo a chiacchierare con i pazienti. E’ il prototipo dei tanti medici ospedalieri americani per i quali “il contatto umano col paziente quasi scompare”. Il dottor Jack McKee è tratto dal libro autobiografico A Taste of my own Medicine del dottor Ed Rosenbaum. Infastidito da un ricorrente raschiare alla gola, egli si reca dalla dottoressa Abbott, una collega otorinolaringoiatra, per una vista. “Lei ha un tumore alla laringe – ella gli dice alquanto bruscamente – occorre una biopsia”. Il giorno dopo, McKee va in ospedale per farla, gli tocca aspettare a lungo (e pensa, irritato: “Cosa ci faccio qui, io, ad attendere come un comune mortale?”), rifiuta la carrozzella per recarsi in corsia (ma l’infermiere insiste: “Lei ora è un paziente e se cade in ospedale siamo noi i responsabili”), scopre con notevole contrarietà che non gli hanno assegnato una camera singola (“Io non divido la stanza con nessuno” sbraita inutilmente). Il suo compagno di stanza è un poliziotto che gli parla delle sue molte esperienze ospedaliere, dicendo male dei medici e provocando in lui una reazione contraddittoria: da una parte sarebbe spinto a difendere la categoria cui lui stesso appartiene, dall’altra si rende conto che – nella sua nuova condizione di malato – sta subendo gli stessi disagi che l’altro gli racconta (finisce anche col prendersi un clistere destinato, invece, al poliziotto). Comincia a vedere l’ospedale, insomma, con gli occhi del paziente. “Il tumore è maligno” gli annuncia, con la solita durezza, la dottoressa Abbott. Viene decisa la radioterapia, per la quale McKee viene inviato da un altro collega, il dottor Reed. Nuove attese, nuovi moduli da riempire, nuove irritazioni. Egli non sa e non vuole fare il malato (“Sono un dottore anch’io” dice a un certo punto, sentendosi però risponder “Non qui”). Conosce, incontrandola nella sala d’attesa di Reed, una ragazza di nome June: ha un tumore al cervello e fa anch’ella la radioterapia, ha perso i capelli, gli appare stranamente serena seppur cosciente della gravità del suo stato. Tra i due inizia un rapporto profondo, che aiuta lui a comprendere cosa significhi essere malato, nelle mani di medici che con i malati non riescono a dialogare. La malattia e June lo aiutano a cambiare radicalmente il suo stile professionale: se ne accorge un suo assistente quando, avendo usato l’espressione “il terminale della 17” per indicare
un paziente in fin di vita, si sente rispondere con durezza “Un malato non è un computer, quel signore che sta morendo nella stanza 17 ha un nome e un cognome e se usi ancora la parola ‘terminale’ per indicare un malato potrai subito dopo chiamare così la tua carriera qua dentro”. Nel frattempo, la radioterapia non dà i risultati sperati così che viene deciso l’intervento chirurgico. Egli cerca di interloquire con la dottoressa Abbott circa i tempi dell’operazione ma si sente rispondere “Il medico sono io e lei è mio paziente, quindi sono io che decido”. Allora si arrabbia ma l’altra sa soltanto commentare “Posso capire come si sente”, al che egli replica, urlando, che il problema consiste proprio nel fatto che lei non ha la più pallida idea di come i malati si sentano e le annuncia che, comunque, da quel momento ha un paziente di meno. Si rivolge così, per l’intervento, a un collega del suo ospedale, che aveva sempre irriso, in passato, per la sua cordialità con i malati. Tutto si risolve e Jack torna al lavoro però è diventato un altro medico. Per esempio, un giorno, dopo aver ordinato ai suoi tirocinanti di togliersi il camice e di indossare la camicia da notte tipica dei pazienti, li informa che, oltre ai nomi delle malattie, d’ora in poi dovranno imparare anche quelli dei malati, perché il loro essere malati li rende impauriti, imbarazzati, vulnerabili” e perciò bisognosi di attenzione, di aiuto, di ascolto. E affinché tale attenzione, aiuto, ascolto possa svilupparsi nei tirocinanti, e dunque futuri medici, egli li informa che “… nelle prossime 72 ore a ciascuno di voi sarà assegnata una malattia, dormirete nei letti dell’ospedale e subirete gli esami clinici di esso…Non sarete più dottori ma pazienti. Buona fortuna, domani verrò a visitarvi”. Dopo di che se ne va, passando dalla portineria ove gli viene consegnata una lettera. E’ di June, nel frattempo morta: “Caro Jack, voglio narrarti una storia. C’era una volta un contadino che aveva un campo e cercava di tenerne lontani gli uccelli. Ci riuscì ma alla fine si sentì solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri e si mise in mezzo al campo a braccia spalancate, per richiamarli. Essi, però, pensarono si trattasse di un nuovo spaventapasseri e restarono lontani. Allora egli comprese che era il caso di abbassare le braccia e gli uccelli tornarono. Ecco, anche tu devi fare così: impara ad abbassare le braccia”. E il dottor Jack imparò. Il film merita di essere visto da tutti gli studenti di medicina e dai medici in formazione per aiutarli a capire la bellezza del fare il medico con umiltà.
agenda
DICEMBRE 2010 Medicina di Famiglia
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NEXT MEETING I PROSSIMI EVENTI
Dicembre 2010 L’etica nella professione medica: i principi i valori, le regole e i doveri 18-12-2010 - 19-02-2011 - 16-04-2011. Bari, Ordine dei Medici e degli odontoiatri della provincia di Bari
Gennaio 2011
La medicina di famiglia tra impegni future e nuove tecnologie 18-20 febbraio 2011. Centro congressi lingotto (Torino). Organizzazione: Aimef – Associazione Italiana Medici di Famiglia
Gli incontri di neurologia del Miulli - II edizione 11-01-2011 - 10-05-2011 Sala Convegni Ospedale Generale Regionale “F. Miulli”-Acquaviva Delle Fonti (Bari)
Dal curare al prendersi cura dell’altro e di se. Il tempo dello spirito, del dialogo e della conoscenza 25-02-2011. Roma. Universita’ Cattolica S. CuorePoliclinico Universitario “A. Gemelli
Qualita della vita dignita nella morte il medico di famiglia e il malato terminale 15-01-2011 Sala Delle Riunioni Ordine Dei Medici Della Provincia Di Perugia. Organizzazione: Consulta Umbria Srl
Per non perdersi - buone pratiche a sostegno dell’anziano disorientato 25-02-2011. Fondazione Castellini – Onus. Melegnano (Milano)
Essere medico nel tempo del web 18-01-2011 Auditorium Ordine Dei Medici - Napoli. Ordine Dei Medici Chirurghi E Degli Odontoiatri Di Napoli
Malattia di alzheimer: aggiornamenti clinici e medico legali 25-02-2011 - 26-02-2011 Hotel Corte ValierLazise (Verona)
La patologia neoplastica del torace: gli stati generali dell’assistenza 21 e 22-01-2011 Foggia, Palazzo Dogana II Congresso regionale recenti acquisizioni nello scompenso cardiaco 28-01-2011 - 29-01-2011. Sheraton Nicolaus Hotel Bari
Febbraio 2011 Anziano fragile: anziano abbandonato? 1-02-2011 Auditorium Ordine Medici Napoli. Ordine Dei Medici Chirurghi E Degli Odontoiatri Di Napoli La gestione in mg del paziente iperteso con insufficienza renale 05-02-2011. Hotel Della Valle – Agrigento. Organizzazione: Omniacongress Endocrine therapy of breast cancer: do we know it all? 11-02-2011 Fondazione Irccs - Istituto Nazionale Dei Tumori. Organizzazione:Effetti Srl Percorsi riabilitativi neuromotori nell’ospedale don Uva 11-02-2011 - 12-02-2011 Foggia Hotel Vigna Nocelli Iv Congresso regionale Aaito: allergologia tra ospedale e territorio 11-02-2011 - 12-02-2011 Crotone. Organizzazione: Associazione Donatori Di Sangue Amici Di Padre Pio Malattie respiratorie: esperienza clinica e nuovi scenari terapeutici 11-02-2011 - 12-02-2011 Sala Convengni Resta - Cittadella Delle Imprese-Taranto. Meeting Planner srl.
Iii Giornata reumatologica salentina-artrosi, artrite ed osteoporosi 2011: il paziente con mal di schiena 25-02- 2011 - 26-02-2011. Hotel Montecallini-San Gregorio 4th international meeting on pulmonary rare diseases and orphan drugs 25-02-2011 - 26-02-2011. Milano Centro Congressi Palazzo Delle Stelline. Unita’ Operativa Di Pneumologia Milano (Lecce) Meeting Planner Srl Approccio diagnostico-terapeutico ed assistenziale in medicina 26-2-2011 San Severo (Foggia) Sala Conferenze “Prof. Fanelli”
Marzo 2011 Obesita, nutrizione e stili di vita: quali strategie 04-03-2011 - 05-03-2011Firenze Signa, Villa Castelletti. Organizzazione: 3P Solution Srl Gestione del dolore nel paziente complesso 12-03-2011. Sala Convegni Poseidon – Ercolano. Medicoop Vesevo Societa’ Cooperativa Assistenza domiciliare integrata: attuali e future strategie 25-03-2011 Siracusa. Istituto Formativo Disabili E Disadattati Sociali Miocardite: una delle piu importanti sfide diagnostiche in cardiologia 26-03-2011 Antica Cascina San Zago (Brescia). Organizzazione: Md Studio Congressi Snc
Novità editoriali
Medicina di Famiglia DICEMBRE 2010
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Manuale sulle cure palliative Per il medico di famiglia e tutti gli operatori sanitari che si dedicano alle cure palliative 600 pagine, 80 autori - 130 illustrazioni e foto a colori
Bari, via Papa XII 4/E - www.edicare.it - info@edicare.it
2011
Tristano Orlando Presidente Aimef Associazione Italiana Medici di Famiglia Presentazione di
Edicare Publishing
Novitià le a r o t i ed
Prefazione di
Giovanni Zaninetta Past Presidente SICP Società Italiana Cure Palliative
Dal 15 marzo 2010, data della definitiva approvazione in Parlamento della legge n. 38 riguardante “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, l’assistenza palliativa e la terapia del dolore avranno maggiori garanzie di essere erogate ad un pari livello di omogeneità, adeguatezza e qualità su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo prioritario è ottenere una piena consapevolezza della qualità attuale dell’assistenza palliativa nel nostro paese per costruire la rete del futuro. Un ambito sul quale sarà obbligatorio investire in modo tale da dare certezza del livello di qualità richiesto è quello formativo. Garantire la conoscenza, “il saper fare” e la condivisione delle esperienze acquisite in anni di attività nell’ambito delle cure palliative è l’espressione della volontà degli operatori del settore di assicurare quella tutela espressa come un obbligo indiscutibile dal citato art. 1 della legge. Proprio in quest’ambito di tutela si sviluppa una serie di iniziative formative e informative di cui il presente testo rappresenta un esempio significativo. La possibilità di penetrare capillarmente nel territorio per fornire al domicilio del paziente l’insieme degli interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali identificati dal piano di cura ha come presupposto l’obbligatorietà dell’elevato livello formativo degli operatori coinvolti; in tal modo è possibile assicurare ovunque identica qualità delle prestazioni erogate riuscendo ad ottenere soluzioni per le diverse problematiche emerse nei singoli casi trattati. Con queste finalità è strutturato il presente volume. In particolare nella parte finale, grazie all’utilizzo di un numero consistente di immagini fotografiche, viene messa a disposizione l’esperienza e la professionalità degli autori in modo tale da garantire un adeguato livello di assistenza ai pazienti e ai loro familiari evitando loro sofferenze inutili.
Dalla postfazione
Dott. Marco Spizzichino Dirigente responsabile del settore Cure palliative e terapia del dolore del Ministero della Salute