Un intreccio di storie legate da un filo sottile, teso dalla sorte che si diverte a sbeffeggiare i protagonisti movimentando le loro vite in modo bizzarro e imprevisto. Una gatta dispettosa fa cadere e rompere la creazione di un professore enigmista, segnando inesorabilmente l’inizio di una serie di vicende.
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Marco Maestro è nato in Toscana nel 1928. Laureatosi a Firenze prima in Fisica e poi in Chimica, ha insegnato nelle facoltà scientifiche delle Università di Pisa e Bari e collaborato in stage di ricerca nelle Università della Svizzera e della Palestina. Ha diretto per anni il Centro Interdipartimentale di ricerche sulla pace dell’Università di Bari. È da molti anni membro dell’USPID (Unione Scienziati per il Disarmo) ed ha a lungo organizzato scuole estive di pace con la partecipazione di studenti palestinesi, israeliani, etiopi ed eritrei. Ora, in pensione, è tornato nella sua Toscana. Con la meridiana ha pubblicato Ballata dei tempi lontani (2009). Dopo Sette racconti (Edizioni ETS, 2021), ancora una volta, Marco Maestro propone curiosi racconti che invitano il lettore ad ironiche riflessioni.
ISBN 978-88-6153-900-6
€ 16,00 (I.i.)
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Marco Maestro
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edizioni la meridiana
Indice
Ricordo di un’apocalisse finlandese....................................... 7 Eccesso di zelo...................................................................... 15 Doppio gioco........................................................................ 37 Ecuador................................................................................ 75 Ma quello che sta facendo?................................................ 121
Ricordo di un’apocalisse finlandese 1 Un’ultima occhiata, un po’ stanca ma anche in qualche modo compiaciuta, al piccolo schermo e si apprestò a uscire; avrebbe cioè messo in atto la semplice manovra, ormai divenuta automatica (ma che un tempo aveva nascosto qualche trappola pericolosa) che portava all’“ora puoi spegnere”. Ma questa non era una fine come tutte le altre dei cinque anni precedenti; era proprio “LA FINE”. Il grande, e anche assurdo (se ne rendeva benissimo conto; era uomo dotato di un discreto grado di autoironia) lavoro che lo aveva “fatto per più anni macro” (ma quando mai era stato grasso?) era finito. Beh! Insomma non era proprio il terzo famosissimo Stelle. Piuttosto, casomai, per un certo gusto allo scherzo (serioso, del resto, come si addiceva ad un abbastanza vecchio e posato professore), le ultime mosse si potevano paragonare al ghirigoro barocco che chiude le oltre duemila pagine del Giuseppe e i suoi Fratelli. Insomma, a farla breve, Silvi quella mattina di un sabato di fine ottobre – fuori però faceva ancora un bel caldo – aveva terminato il suo grandioso gioco enciclopedico e poliglotta al quale aveva dedicato un’enorme massa di tempo e di sforzi. In prevalenza, scrupoloso com’era, si trattava del tempo cosiddetto libero; ma, specie nei periodi di fiacca, quando non incombevano né esami, né concorsi, né le cento astruserie della burocrazia universitaria, anche di un bel po’ di ore passate nel suo studiolo presso la facoltà, nella quale era arrivato quasi trent’anni prima e che tra non molto avrebbe “festeggiato” (molti altri avrebbero festeggiato davvero, lui un po’ meno) il suo passaggio fuori ruolo. Ma poi era molto facile mettersi a posto la coscienza: cosa c’è di meglio per un glottologo (al fine di propagandare la passione per le lingue, per questa straordinaria e rutilante manifestazione 7
dello spirito umano) che non il dedicarsi, appunto, a creare un gioco informatico in cui il giovane, l’intellettuale, o in generale ogni spirito curioso si sarebbe potuto cimentare con mille quesiti, scherzi, giochi di lingua e di parola, talora vera e propria enigmistica, insomma con frammenti e schegge di cultura letteraria e filologica, in diecine e diecine di lingue diverse? Un ultimo controllo e... via! Poi ci sarebbe stata la fase molto meno eccitante e divertente della brevettazione o pubblicazione. Cosa molto diversa dalla pubblicizzazione. A quest’ultima (ossia alle molte chiacchierate e presentazioni a un pubblico vario, selezionato o generico) pensava con compiacimento preventivo. Ma in fondo, anche alla prospettiva di un po’ di soldi aggiuntivi allo stipendio (del quale comunque non si lamentava perché era uomo abbastanza all’antica, di esigenze modeste) guardava tutt’altro che con disprezzo. Sì, col suo Aleph (ogni tanto, per vezzo, lo chiamava così: a proposito, a un vero nome non aveva ancora pensato: chissà, forse per scaramanzia) lui aveva soprattutto giocato. Ma un qualche ritorno economico delle oltre tremila ore di lavoro di programmazione (regolarmente appuntate su un quaderno) era pienamente giustificato. Prima di chiudere, e di prepararsi un buon caffè di mezza mattina e poi magari uscire, avrebbe in effetti dovuto anche ricostituire una copia su un bel gruppo di dischetti: operazione non lunghissima, ma noiosa. Ma la riserva era esaurita (appuntarselo sull’agenda!). Questo pensiero però gli portò con sé un ricordo stizzoso: cinque giorni prima, un qualche balordo gli aveva rubato la borsa nella quale portava appunto la serie di dieci dischetti. È vero, lui l’aveva lasciata un momento per distrazione su un banco di un negozio, vicino alla città vecchia... ma insomma, proprio a quella si dovevano attaccare! Che città (ma forse meglio: che tempi) di merda! Lasciamo perdere. Silena, la sua bella gatta nera dagli occhi verdi, era di nuovo in calore e tentava di stropicciarsi sulla punta delle sue scarpe; un po’ la scacciò, poi le fece due carezze distratte e lei gli 8
saltò prima su una coscia e poi sul tavolo di lavoro; lui alzò gli occhi e la fissò un momento, attratto come sempre dall’espressione che, ancora dopo qualche anno di compagnia, non riusciva a decifrare, ma forse non c’era proprio nulla da decifrare. In quel momento avvennero due fatti: sentì suonare il campanello e si ricordò che in un angolino del gioco mancava ancora un minuscolo tassello: una frase, una frase qualsiasi. Ma... in finlandese! Perdinci, come poteva essersene dimenticato! Eh già, il cantuccio ugro-finnico era un po’ “periferico”. E ora dove se la procurava? In città non era il caso di pensarci perché all’università cattedre del settore non ce n’erano; e nemmeno lettori. In casa, grammatiche o vocabolari no! Niente! Beh! Avrebbe scritto a qualche collega, o la prossima volta che si recava a Roma... Però era contrariato. Più che per il fatto in sé, per aver dimenticato il particolare. Andò ad aprire lasciando il computer acceso; dopo due minuti sarebbero apparsi pescetti colorati e stelline filanti. Erano due uomini, uno intorno ai trenta, l’altro sopra i quaranta, sembrava. Già osservandoli dal pianerottolo mentre salivano la rampa di scale li individuò subito: erano Testimoni di Geova. Silvi ne fu abbastanza scocciato, ma da persona civile e gentile li fece passare un momento e ascoltò la presentazione di un fascicolo, adorno di disegni multicolori di impronta naïve, ma soprattutto (in maniera addirittura sfacciata e indisponente) americana; si trattava di una raffigurazione del futuro Paradiso Terrestre. Offrì duemila lire e li congedò. Loro ringraziarono con il fare insieme umile ma, contraddittoriamente, anche intimamente fiero che era loro solito. Oltre al succitato fascicolo, ne lasciarono per omaggio un secondo che non avevano presentato. Silvi li poggiò sul tavolo del cucinotto mentre riempiva la macchinetta, e sbirciandolo rimase sorpreso. Si trattava di un testo assai diverso dai soliti; intanto non c’erano figure. Ma poi anche il contenuto: era la riproduzione di una pagina dei Vangeli in una trentina di lingue diverse, 9
alcune addirittura veramente rare e scritte in alfabeti molto particolari: il laotiano, il coreano. “Stai a vedere che...” Ma certo! C’era anche il finlandese. Era una pagina dell’Apocalisse. Scelse una bella frase: Eikä surua, eikä parkua, eikä kipua ole enää oleva. Entiset ovat kadonneet (non più cordoglio, né grido, né pena. Le cose precedenti sono passate). Ancora sorridendo staccò la macchinetta e si riempì la tazzina. Ma rimase bloccato prima di potersela portare alla bocca: dallo studio un tonfo metallico. Vi si precipitò: il computer portatile era per terra ai piedi del tavolo accosto allo sgabello, il cavo si era staccato. La rea del disastro lo fissava dal davanzale della finestra, a “distanza di sicurezza”. Fu solo qualche ora dopo, in seguito alla visita del tecnico urgentemente convocato, e poi definitivamente qualche giorno dopo, che la rovina apparve in tutta la sua grandezza. Nella caduta il blocchetto esterno della memoria suppletiva, l’“estensione”, che conteneva il gioco, si era acciaccato e deteriorato irrimediabilmente. Il suo lavoro era perduto.
2 Gli undici anni restanti della sua vita (morì sulla soglia degli ottanta) si divisero in due parti nettamente distinte: una di quattro e l’altra di sette. In tutta la prima parte riuscì a tenere in qualche modo lontano da sé il pensiero dell’incidente. Ovviamente, specie nelle prime settimane, quando per un momento aveva sperato di poter ricostruire il complicato edificio sulla base della memoria e degli sparsi appunti, veniva preso a tratti da una sorta di ansia febbrile che dava poi luogo a scoramento; ma se ne liberò abbastanza presto. In questo era stato aiutato anche dal fatto che aveva parlato a poche persone del progetto e quindi le occasioni di meste o velatamente ironiche condoglianze da parte di amici e colleghi furono molto poche. Un’eccezione era 10
stato il rapporto con suo figlio Giulio, la sola persona con la quale conviveva, che però aveva presto capito che era meglio favorire un rapido processo di superamento. Ma forse neanche lui si era reso conto che alla base dell’oblio cercato, più che una fuga dall’amarezza e dalla delusione, c’era come un rifiuto di ripensare... come dire? Alla lezione di vita che poteva venire dall’episodio.
3 Quasi esattamente quattro anni dopo (era ormai fuori ruolo, ma frequentava ancora l’istituto, dove anzi, ormai libero dai più pesanti impegni didattici e burocratici, poteva condurre in pace qualche ricerca interessante), ancora un sabato mattina si trovava nello studio della sua abitazione. Ora era divenuta più piccola perché aveva diviso l’appartamento precedente di sua proprietà affittandone la metà, mentre suo figlio, ormai trentenne ma ancora scapolo, era passato ad abitare in un altro mini nello stesso edificio due piani più in alto, anche questo acquistato. Lui vi aveva impegnato una buona parte dei soldi della liquidazione, ma anche il figlio, che aveva già un impiego non disprezzabile in una compagnia di assicurazioni, aveva contribuito con i suoi primi risparmi. Il rapporto con Giulio, ogni volta che gli accadeva di rifletterci, il professore lo considerava tra i maggiori successi della sua vita. La sua storia familiare era stata in effetti abbastanza anomala. Si era sposato piuttosto tardi (ed era forse per questo che, malgrado gli capitasse abbastanza spesso di desiderare di poter conoscere dei nipoti, non sollevava mai con il figlio la questione del matrimonio. Tanto lui lo sapeva benissimo che gli avrebbe fatto piacere; l’importante era scegliere bene) e il bimbo era nato ancora dopo un’attesa abbastanza lunga. Quando aveva otto anni, lui si era separato dalla moglie e poi avevano divorziato. 11
Il ragazzo era stato affidato alla madre, e nel complesso tutta la vicenda si era svolta in maniera abbastanza civile e pacifica. Ma alcuni anni dopo, quando la sua ex moglie aveva deciso di risposarsi e di trasferirsi in un’altra città, il ragazzo ormai quattordicenne aveva scelto di tornare a vivere col padre. Che, invece, era rimasto single. Da allora le necessità affettive del professore (quelle in senso proprio o letterale; le altre, quelle del senso traslato, beh anche quelle in un modo o nell’altro, tutti comunque discretissimi, le aveva tacitate; non era più tanto giovane) erano state soddisfatte dal rapporto col figlio. Nei primi tempi c’era stata qualche apprensione, ma poi si era instaurato un sano e simpatico cameratismo facilitato dal carattere tutto sommato semplice e aperto del giovane, dotato per giunta di una notevole intelligenza; forse, per i gusti del padre, un po’ troppo volta a interessi materiali, al successo sociale rapido; ma l’alternativa opposta non sarebbe certo stata entusiasmante. Ora negli ultimi tempi, Silvi sentiva nel figlio quasi un tono protettivo, che all’inizio lo aveva sconcertato; ma un po’ lo commuoveva. Quella mattina, alle 8:00, il professore era stato svegliato da una telefonata. Giulio chiamava dall’estero, e precisamente da Tallinn, dove si era recato per una breve visita di lavoro. “Come è andata?” “Beh, sai questa è gente un po’ strana, poi ti racconto... Da voi che tempo fa? Un bel caldo? Qui piove, c’è un vento della malora. Fa un freddo boia. L’aereo parte tra mezz’ora, dovrei essere a casa per la mezza; sì, c’è una sosta a Francoforte... ma no, non venire... tanto c’è il pulmino... Va bè, fa’ come vuoi. Arrivederci! A proposito: ti ho trovato quella cosa sui cavalieri teutonici, ciao”. Un’ora dopo, aveva il televisore acceso e stava per uscire. L’annuncio: “Ci comunicano in questo momento che l’aereo in partenza da Tallinn per Francoforte, è precipitato sulla pista, forse per un errore di manovra ed è andato completamente distrutto... Daremo più tardi altri particolari”. 12
“Non sembra ci siano superstiti... anzi, no, in questo momento ci dicono che si è salvata una hostess e tra i passeggeri una donna gravemente ferita con due bambini piccoli, che invece sono quasi illesi.”
4 Le ore e i giorni successivi, con il macabro riconoscimento, con le luttuose e talora umilianti formalità, furono i più terribili della lunga vita di Silvi; si può dire che una pena ostinata e corrosiva non lo abbandonò più fino alla morte. Ma un aspetto della sua tragica vicenda gli apparve subito inquietante. Col passare degli anni, forse, riuscì lentamente ad abbozzare una spiegazione. Il che, per un intellettuale come lui, era pur sempre sintomo di un avvio di superamento del trauma. Il primo pensiero per così dire indipendente dopo l’annuncio televisivo (gli altri, del resto, non erano pensieri: erano urla nel cuore e nel cervello) era stata la memoria nitidissima e ordinata, quasi come un film, dell’episodio di quattro anni prima: la distruzione del suo gioco.
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Un intreccio di storie legate da un filo sottile, teso dalla sorte che si diverte a sbeffeggiare i protagonisti movimentando le loro vite in modo bizzarro e imprevisto. Una gatta dispettosa fa cadere e rompere la creazione di un professore enigmista, segnando inesorabilmente l’inizio di una serie di vicende.
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Marco Maestro è nato in Toscana nel 1928. Laureatosi a Firenze prima in Fisica e poi in Chimica, ha insegnato nelle facoltà scientifiche delle Università di Pisa e Bari e collaborato in stage di ricerca nelle Università della Svizzera e della Palestina. Ha diretto per anni il Centro Interdipartimentale di ricerche sulla pace dell’Università di Bari. È da molti anni membro dell’USPID (Unione Scienziati per il Disarmo) ed ha a lungo organizzato scuole estive di pace con la partecipazione di studenti palestinesi, israeliani, etiopi ed eritrei. Ora, in pensione, è tornato nella sua Toscana. Con la meridiana ha pubblicato Ballata dei tempi lontani (2009). Dopo Sette racconti (Edizioni ETS, 2021), ancora una volta, Marco Maestro propone curiosi racconti che invitano il lettore ad ironiche riflessioni.
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