Pio Castagna Alfredo Panerai
APPRENDERE ATTRAVERSO LA NONVIOLENZA
Vivere, educare, insegnare nella società di oggi
Vivere, educare, insegnare nella società di oggi
ATTRAVERSO LA NONVIOLENZA
Percorsi e attività di mediazione e comunicazione interculturale
Vivere, educare, insegnare nella società di oggi
Prefazione di Elvira Zaccagnino
Però, e questo ci preme dirlo, se da un lato a parlare di pace oggi si è più numerosi, a saper fare la pace si è sempre di meno. O meno bravi. O meno capaci.
L’intuizione di quegli anni, e cioè che bisognasse sperimentarsi, cimentarsi, apprendere metodi per diventare uomini e donne di pace, facendo scelte di stile di vita ma anche di azioni quotidiane che non generassero conflittualità sul piano delle relazioni personali e gradualmente sociali, va oggi recuperata.
Diamo alle stampe questo libro e lo affidiamo alla lettura e all’uso dei lettori con una premessa che parte da una constatazione.
Gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso –quello che era stato segnato nella sua prima metà da due conflitti mondiali, le leggi razziali, i campi di sterminio e la scoperta, la costruzione e l’uso dell’atomica, ma aveva, nella sua seconda metà, svoltato immaginando un tempo di pace – sono stati gli anni nei quali l’idea, le teorie e le pratiche per educare alla pace hanno trovato una fertile produzione editoriale e la nascita di movimenti e gruppi di ricerca e di educazione alla pace.
Grazie al lavoro di obiezione alla guerra e all’uso delle armi, grazie al lavoro di movimenti impegnati a rendere popolari – nel senso di meno elitarie – teorie e pratiche nonviolente, è stato particolarmente praticato in quegli anni il tema che bisognasse imparare a fare la pace utilizzando il gioco e le attività di gruppo, sperimentandosi in contesti di gruppo.
Chi ha vissuto quegli anni ricorda l’effervescenza di movimenti, attività laboratoriali, ricerche sul campo, libri, kit didattici, percorsi che coinvolgevano insegnanti ed educatori. Un terreno fertile e ben seminato che ha prodotto sul piano culturale una più ampia base di sensibilità sul tema della pace, dell’obiezione di coscienza, del no alla guerra e alle armi.
Quando abbiamo ricevuto questa proposta editoriale abbiamo colto proprio quella intuizione e l’abbiamo vista, pagina dopo pagina, arricchita di tutto ciò che un tempo aveva generato e attivato processi e pratiche educative. Sfogliandola nella sua prima versione abbiamo avvertito già l’urgenza di darle forma editoriale. Poi è arrivata la guerra nel cuore dell’Europa e l’escalation che l’ha fatta crescere nei mesi nell’opinione pubblica e nel dibattito politico come giusta e da sostenere con finanziamenti e risorse, nuove armi e contingenti militari. Abbiamo visto affacciarsi e accomodarsi nei dibattiti televisivi l’idea che le bombe atomiche potessero essere anche possibili nello scenario belligerante, e abbiamo intuito che sul come fare la pace la confusione fosse un elemento comune dei potenti e della gente comune.
Ecco allora che questo libro ci sembra urgente proprio perché ci dice come e cosa fare per educarci alla pace.
Come farlo partendo dalla scuola, dai gruppi, dai movimenti, dalle famiglie, dalle comunità ecclesiali e no.
Fare la pace educandoci alla pace.
Ci sono nel libro delle premesse teoriche che avvallano proprio l’impianto teorico dell’educare alla pace e ci sono i giochi, le attività, i percorsi formativi per imparare.
Un libro da usare. Diremmo con urgenza. Perché imparare giocando a fare la pace è il modo con il quale si impara la pace.
Questo libro è un laboratorio di apprendimento, ne abbiamo bisogno per arrivare alla pace e per farla crescere.
Buona lettura e soprattutto buona pratica.
Elvira Zaccagninozione di una società più giusta e meno violenta: gli insegnanti e gli educatori. Molto grande è infatti anche l’esperienza degli autori nell’organizzazione e conduzione di corsi di formazione per docenti, laboratori per alunni, percorsi di supervisione e accompagnamento di sperimentazioni didattiche.
Che cos’è la nonviolenza?
I suoi metodi possono essere utilmente applicati nella vita di tutti i giorni per apportarvi dei cambiamenti? Può essere un utile strumento in ambito educativo?
Come si può mettere in un libro ciò che è soprattutto alta idealità e, insieme, stile di vita da interpretare soggettivamente?
Siamo consapevoli dell’esistenza di un’abbondante letteratura sulla nonviolenza per cui il rischio sarebbe stato quello di produrre un’opera troppo simile ad altre. Ciò che ci ha spinto, invece, a rompere ogni indugio circa la sua stesura, è stato il desiderio di coniugare la teoria con la pratica della nonviolenza. Potrebbe sembrare una banalità, ma è quanto vogliamo farvi comprendere dalla lettura di queste note introduttive.
Proveniamo da anni di promozione di laboratori, seminari, stage, a volte semplici conferenze sulla nonviolenza, svolti qua e là per l’Italia. Abbiamo constatato la ricchezza e la poliedricità di tante persone impegnate oppure desiderose di prodigarsi più approfonditamente in questo ambito, tutte facenti parte del quasi invisibile e variegato popolo della pace. Spesso siamo anche andati incontro a coloro che non necessariamente si definiscono pacifisti, ma che svolgono un ruolo così importante per la forma-
Ci siamo accorti in questi anni che gli uni e gli altri – i “pacifisti” e gli insegnanti – possono trarre un grande vantaggio dall’apprendimento della nonviolenza: non tanto dallo studio della dottrina e delle gesta di alcuni personaggi classici cui pure ci ispiriamo (Gandhi, Aldo Capitini, Lorenzo Milani, Tonino Bello, Danilo Dolci, Johan Galtung), ma dallo sperimentare una prassi e dal calarsi in uno spirito capaci di cambiare nel profondo il proprio modo di essere e di operare.
La nonviolenza che noi proponiamo nei nostri corsi non è infatti pura ideologia, né consolante spiritualismo o utopica teoria per “specialisti” della pace: è un’attitudine a vivere – nel proprio contesto di vita, di lavoro, di impegno sociale – una costante tensione verso il cambiamento nella direzione della giustizia e nel rispetto di ciascuno.
Pertanto, sia gli insegnanti che le persone impegnate nei gruppi eco-pacifisti possono trovare (e di fatto molte di quelle che hanno partecipato ai nostri corsi hanno trovato) nel nostro approccio alla nonviolenza un formidabile strumento per operare nei loro campi che – sottolineiamo ancora – sono entrambi orientati al cambiamento. Così, le nostre proposte formative sono prima di tutto un’esperienza, grazie alla quale il singolo partecipante o il gruppo può cominciare a incamminarsi nella direzione della nonviolenza nei propri contesti di vita e di impegno. Tuttavia i nostri corsisti ci fanno sempre alla fine di ogni nostro intervento una domanda: in quale dispensa, libro o manuale si può trovare ciò che noi abbiamo proposto loro?
Noi siamo convinti che risposte scritte avrebbero potuto soffocare da una parte lo spirito di ricerca
e dall’altra avrebbero potuto sancire la rinuncia all’elaborazione personale; dal nostro punto di vista infatti la nonviolenza comporta contenimento al massimo della delega (a persone magari autorevoli) e spazio invece alla creatività, all’assertività e alla responsabilità in prima persona. D’altra parte ci siamo resi conto che noi stessi talvolta facciamo uso di libri o altro materiale reperibile online e qualche volta nell’organizzazione dei nostri corsi ci ispiriamo a esercizi contenuti in alcuni testi: il fatto dunque di attingere anche a materiale scritto da altri non significa di per sé rinunciare a responsabilità personale e creatività; anzi può dare a queste un trampolino di lancio più solido.
In primo luogo, dunque, il volume che avete tra le mani serve a noi formatori per avere sott’occhio, tutti raccolti in un unico libro, i principali riferimenti teorico-scientifici che ci guidano e un’antologia di esercizi da poter usare nei nostri corsi.
In secondo luogo, ai nostri corsisti – che tanto ce lo chiedono – potrebbe fare comodo rileggere alcuni spunti che li aiuterebbero a richiamare quanto vissuto nel corso di formazione; mentre le tecniche e gli esercizi qui pubblicati potrebbero aiutarli a calare nella loro prassi quotidiana l’attitudine nonviolenta personale che stanno costruendo e, se sono insegnanti, formatori o educatori, riproporre ad altri un’esperienza educativa simile.
Inoltre, scrivere questo libro significa per noi anche dare il nostro contributo per la crescita della nonviolenza in Italia: consideriamo infatti la nonviolenza e la sua applicazione come un cantiere in continua ricerca e sperimentazione; nelle commistioni oggi esistenti tra la nonviolenza e le moderne branche della psicologia sociale quali la biosistemica e la bioenergetica, con il Teatro dell’Oppresso e nell’attenzione a nuove problematiche sociali (migrazioni di massa, cyberbullismo, femminicidi) si può trovare l’originalità del testo che avete tra le mani.
Non è un trattato, ma un manuale che può aiutare persone, gruppi, associazioni e soprattutto insegnanti, educatori e formatori a ricaricare le proprie batterie, a riscoprire motivazioni, ad avere stimoli concreti e a ritrovare entusiasmo nel sentirsi agenti sociali del cambiamento. Nel nostro piccolo anche noi, come M.L. King, abbiamo un sogno: far leva sulla nonviolenza come strumento per eccellenza di cambiamento sociale. Questo sarà possibile nella misura in cui abbiamo la volontà di cambiare, l’energia per farlo e gli strumenti per realizzarlo. Ecco allora, a nostro avviso, l’altro elemento di originalità del testo che avete tra le mani: la nonviolenza non è considerata tanto un oggetto quanto uno strumento; questo non è tanto un libro sulla nonviolenza, ma il libro della nonviolenza, un libro in cui scoprire come la nonviolenza può essere usata per la trasformazione sociale (oltre che di noi stessi).
Il manuale consta di tre parti. Una prima in cui, pur percorrendo sentieri in parte tracciati da altri circa l’importanza e l’urgenza della formazione alla nonviolenza, si vuole però accentuare l’aspetto dell’incidenza della stessa sul piano del pensiero, del modo di sentire, di comportarsi, di relazionarsi e delle scelte di ogni persona.
È innegabile tuttavia che, a fronte dell’importanza della nonviolenza e dei benefici che apporta sulla qualità della vita, si assista nella società ad un tasso di violenza molto spinto. Il ricorso alle guerre è molto frequente e in forme anche diverse da quelle classiche; i fatti di cronaca nera sono sotto gli occhi di tutti e assumono forme anche nuove rispetto a qualche decennio fa; mentre permangono le violenze strutturali legate alle disegualianze economiche. Questo è il quadro e non vogliamo vendere illusioni, ma nemmeno rassegnarci alla mentalità diffusa secondo cui “da quando il mondo esiste, la violenza c’è sempre stata”.
A questa mentalità vogliamo contrapporre l’attualità della nonviolenza, con particolare attenzione alla sua applicazione nelle singole situazioni di vita. Proporre la nonviolenza di fronte all’enormità dei problemi presentati, sollecita facilmente il sorrisino dello scettico, pronto ad accusare i paladini della nonviolenza di ingenuità: è un’accusa che a nostro avviso va smontata soprattutto chiarendo che cosa bisogna intendere con nonviolenza. A questo scopo è dedicata la prima parte del manuale.
Dopo un breve richiamo ai principi di base della nonviolenza, affronteremo l’importanza del corpo e della dimensione energetica perché, per riscontrare l’efficacia della nonviolenza, non basterà aver chiaro in mente tutto il suo quadro teorico e la conoscenza di tutte le tipologie di gestione nonviolenta dei conflitti, se poi non si fa esperienza del proprio conflitto interiore, fatto di gestione delle emozioni, del proprio corpo e della mente.
Sotto questo profilo va adeguatamente considerato il ruolo della comunicazione, formidabile competenza nella gestione dei conflitti e anche canale per dare voce alle emozioni nell’affrontare l’altro, soprattutto quando questo è fonte di problemi per noi. Un consapevole utilizzo di alcune tecniche comunicative consente inoltre di sviluppare assertività: la capacità cioè di affermare i propri bisogni, le proprie richieste rispettando quelle altrui.
Come fare per diffondere il più possibile questi princìpi, queste attitudini, queste attenzioni alla dimensione energetica e corporea, questa competenza nella comunicazione assertiva? In una parola: come far sperimentare e apprendere la nonviolenza?
Nella seconda parte del libro proponiamo tre modalità attraverso cui educare alla nonviolenza, che corrispondono anche a tre modalità nonviolente con cui fare formazione: il Consiglio di Cooperazione (per gli insegnanti e per tutti gli educatori di gruppi giovanili), la didattica labo-
ratoriale e partecipativa (per gli insegnanti), il training nonviolento (per formatori).
La prima di queste modalità, il Consiglio di Cooperazione, è anch’essa stata sperimentata con successo in moltissime realtà scolastiche, ma può essere utilizzata in tutti i contesti in cui l’educatore ha a che fare con un gruppo abbastanza stabile (scout, catechismo, centri giovanili, ecc.). Si tratta di una riunione di tutti i bambini del gruppo con l’adulto (insegnante, educatore, catechista) strutturata in modo da coinvolgere tutti contemporaneamente. È un luogo in cui si apprende ad analizzare, a comprendere i punti di vista degli altri, a pianificare, a decidere, a proporre soluzioni, a valutare. È un luogo in cui ogni bambino viene riconosciuto nel suo valore, con le sue forze e le sue debolezze e accettato con la sua personalità e la sua cultura.
La seconda modalità proposta (la didattica laboratoriale) parte dal presupposto che non sia indispensabile parlare esplicitamente di nonviolenza per avvicinare le persone ad essa: è possibile infatti vivere un’esperienza nonviolenta, impratichirsi delle sue tecniche semplicemente frequentando una scuola, attività che tutti i bambini e i ragazzi fanno. Provare a dare una curvatura nonviolenta alla propria azione didattica quotidiana significa pertanto compiere un’azione educativa importantissima in quanto capace di coinvolgere una fascia enorme di popolazione, tra cui ragazzi che non frequenterebbero mai un corso specifico sulla nonviolenza (corsi specifici per i quali, tra l’altro – gli insegnanti lo sanno bene – non c’è mai abbastanza tempo).
L’ultimo ambito di applicazione di una possibile educazione alla nonviolenza è dato dal training nonviolento per il quale, dopo aver fatto un po’ il punto su ciò che esso rappresenta oggi, saranno presi in esame i nostri tentativi di adattamento e di integrazione di questa metodologia “classica” con gli approcci formativi provenienti dalla comunicazione ecologica, dalla biosistemica e dal Teatro dell’Oppresso cui si è già fatto cenno.
La terza parte del libro, infine, rappresenta un prontuario di giochi, esercizi, strumenti pratici (tra cui esempi di training) che possono aiutare l’insegnante, l’educatore, il formatore, il coordinatore di un’associazione a creare percorsi formativi alla nonviolenza o semplicemente ad aiutare il gruppo con cui sta interagendo a riconnettersi alla dimensione energetica della persona e ad impostare il lavoro in un contesto dinamico, efficace e di rispetto reciproco. Alcuni di questi esercizi sono stati ideati da noi, altri sono rielaborazioni di esercizi classici, altri ancora sono stati riproposti in maniera quasi identica alla formulazione originaria prodotta da altri autori: i testi da cui sono tratti sono tuttavia oggi pressoché irreperibili, pensiamo dunque di fare cosa utile riproporli ora, accostandoli a esercizi e giochi nuovi.
Possiamo allora rispondere alle domande iniziali: la nonviolenza è una forza, un’attitudine al cambiamento nella direzione della giustizia e nel rispetto di tutti, è anche un metodo che può portare grandi cambiamenti nella vita di ognuno e in particolare può portare grossi vantaggi a chi lavora in ambito educativo o comunque ha a che fare con gruppi; proprio per questo – ed è la risposta alla terza delle domande iniziali – ha senso produrre un libro sulla nonviolenza non come modello da ricopiare ma, piuttosto, come strumento in mano ad un artista che, creativamente, elaborerà e concretizzerà la propria visione ideale.
gli scontri interreligiosi e tra gruppi di diversa origine vengono sempre giocati in una logica di potenza che prevede a tutti i costi un unico vincitore, lasciando così spazio a forme di conflitto molto cruente. A nostro avviso la nonviolenza può costituire sul piano del pensiero e soprattutto della prassi, un’alternativa ai problemi ricordati, perché dà lo spazio al pensare critico che può sfociare in processi di liberazione. Siamo convinti che la fioritura della nonviolenza nelle relazioni interpersonali, nei processi comunitari e istituzionali riaprirebbe lo spazio del pensiero trasformativo.
Ci troviamo oggi in una situazione preoccupante nel senso che, a livelli diversi, assistiamo ad un ritorno della violenza di una gravità inaudita e su larga scala. È un fenomeno visibile facilmente sul piano internazionale, dove l’affermarsi di gruppi terroristici e l’incremento del fenomeno migratorio hanno dato origine a paure e tensioni che al momento sembrano avere come unico effetto una richiesta, avanzata da più parti, di più repressione, di più forza militare e di meno tolleranza.
Ma anche a livello di singoli Stati si registra un aumento di tensioni sociali, con l’affermarsi di una cultura nichilista della violenza: pensiamo –solo per fare due esempi – al ripetersi di omicidi nei confronti degli afroamericani o al moltiplicarsi di casi di omofobia, spesso espressa in forme esplicitamente violente.
Inoltre sul piano politico, sia a livello di linguaggi sia a livello dei rapporti tra i partiti (o tra le correnti degli stessi!), assistiamo a scenari esecrabili: l’insulto è all’ordine del giorno, la menzogna usata come strumento di lotta. Una lotta dove il più delle volte l’obiettivo non sembra essere l’affermarsi di un certo orientamento politico, quanto l’annientamento dell’avversario. Ci pare allora doveroso farci la domanda se la nonviolenza abbia diritto di cittadinanza nella politica.
I macro-conflitti indotti dalla logica neoliberista, le contese per lo sfruttamento delle risorse,
Riteniamo che la nonviolenza abbia da giocarsi buona parte delle sue carte nella prospettiva educativa. Siamo convinti cioè che, se i conflitti è inevitabile che ci siano, è possibile imparare a gestirli in maniera nuova e che le persone che maggiormente subiscono gli effetti di tali conflitti possano acquisire consapevolezza e capacità tali da poter riequilibrare la situazione nel senso della giustizia. Per questa trasformazione gioca un ruolo centrale l’educazione.
Qui ci viene incontro la pratica educativa di Paulo Freire1, noto pedagogista brasiliano del secolo scorso. Un aspetto originale della sua proposta è rappresentato dall’impostazione data al rapporto tra educazione e politica che affronta concretamente la questione del potere. Per Freire educare ed educarsi non è immediatamente agire politico, ma lo diventa se educazione e politica sono saldate dal processo di coscientizzazione. Attraverso lo sviluppo di una coscienza critica la persona, l’individuo con il suo gruppo sociale di riferimento, può intraprendere azioni significative sul piano socio-politico. Pur riconoscendo l’inadeguatezza e le responsabilità dell’educazione tradizionale nell’avere contribuito a sostenere regimi politici oppressivi, noi (come Freire) pensiamo che sia possibile educare non solo opprimendo, ma an-
che liberando. L’educazione come pratica della libertà ha come presupposto una grande fiducia nell’uomo.
A partire da questa fiducia si può puntare a un accrescimento della funzione sociale dell’educazione stessa, capace di produrre società e politica nuove. Quando Freire propone l’educazione come pratica di libertà, non fa che connettere direttamente l’azione educativa con il processo di liberazione, consistente nello sviluppo della potenzialità personale e collettiva di esercitare il potere.
A nostro avviso l’uso del potere prefigura il tipo di società che vogliamo realizzare. È chiaro che il suo esercizio verticistico-piramidale sottende un modello di società autoritario; se invece il suo esercizio è di tipo orizzontale, diviene strumento al servizio della collettività, per esercitare i suoi diritti, per vedere soddisfatti i suoi bisogni e realizzate le sue aspirazioni, con la naturale conseguenza di un rispetto dei propri doveri. E quando un popolo si vedrà riconosciuto in tutto ciò, vuol dire che in quella società c’è profumo di democrazia. Ma la nonviolenza esige che quando parliamo di democrazia si sia estremamente chiari, onde evitare equivoci o fare confusione.
Oggi possiamo dire, nel mondo occidentale, di vivere in democrazia, ma del tipo “rappresentativo” in cui, cioè, il cittadino delega con il voto il proprio potere a chi lo rappresenterà e le decisioni saranno prese da questi delegati con il sistema a maggioranza. È un metodo molto comune di decidere, infatti molti gruppi, organizzazioni, parlamenti e altre istituzioni ne fanno uso. Solo che questo modello implica grosse battaglie per il potere: il perdere o il vincere sono della massima importanza. Il metodo di prendere decisioni “a maggioranza” permette che qualche persona
abbia più potere di altre, perché ha maggiori conoscenze, maggiore esperienza, sa parlare meglio, interviene di più, riesce ad esprimersi in pubblico molto bene o comunque perché viene considerata più autorevole per vari motivi. Ciò può essere facilmente osservato nei gruppi in cui quotidianamente ci troviamo a stare: sul lavoro o nelle nostre associazioni avviene che spesso formalmente sia chiesto a tutti di contribuire alla decisione, ma il più delle volte il carisma o il ruolo di una persona è tale che essa si impone di fatto, e chi magari la pensa diversamente non ha il coraggio o l’opportunità di esprimere compiutamente la propria posizione. A queste persone leader è stato delegato molto potere. In questa situazione possiamo affermare senza ombra di dubbio che la democrazia rischia di diventare molto formale e di facciata. Diciamo che l’esercizio del potere effettuato dal singolo o da un gruppo ristretto sia inversamente proporzionale all’esercizio della democrazia. Maggior potere ha il singolo o quel dato gruppo a discapito della totalità, minore democrazia è sviluppata e viceversa.
Ma come possiamo risolvere questo problema, ossia l’applicazione quanto più letterale possibile del termine democrazia? Secondo noi il problema lo aveva risolto già Aldo Capitini2 con un apparente gioco lessicale sulla parola “potere”, che a nostro avviso costituisce un’autentica rivoluzione politica, ossia concepire il potere come verbo e non come sostantivo, come azione e non come un oggetto o uno strumento in mano a qualcuno. Il potere come “essere” e la valorizzazione della persona in quanto tale, come integrazione tra mente, corpo, emozioni e talenti che ne consegue e non il potere come “avere”; quindi si tratta di un potere “di” (fare, essere, comunicare, ecc.) e non il potere “su”. Così intesa la democrazia inesorabilmente si trasforma in “omnicrazia”, cioè nel potere di tutti: nessuno può stare senza gli
altri. In questo caso, il potere è partecipato e non delegato.
Se tutti quanti fossimo in grado di esercitare quel “potere di tutti”, molte cose potrebbero andare meglio. Solo che c’è bisogno di riappropriarci del potere, come voce del verbo potere (io posso, tu puoi, noi possiamo) e per farlo c’è bisogno di molto allenamento, perché siamo poco abituati al suo esercizio diretto. Infatti nei nostri laboratori formativi spesso affermiamo che, se i militari sono pagati per allenarsi ad un potere armato e violento finalizzato alla guerra, così i nonviolenti sono anch’essi chiamati ad esercitarsi all’uso nonviolento del potere.
D’altronde da sempre, salvo rarissime eccezioni, chi ci governa non ha interesse a condividere il potere ricevuto dagli elettori ed escogita espedienti di tipo repressivo come l’uso della polizia per sedare manifestazioni di dissenso o di tipo persuasivo, attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, con lo scopo di uniformare tutti al pensiero unico dominante oppure con marchingegni un po’ più subdoli, attraverso la promozione di una cultura di distrazione, che produce ossessione per lo sport, per gli aggeggi elettronici o per divertimenti alienanti. In un modo o nell’altro l’importante riguarda il fatto che il popolo non acceda al potere partecipativo.
Alla base della rivoluzione politica c’è bisogno di una rivoluzione culturale e quindi di mentalità. Se il potere è anche voce del verbo “essere”, si può dedurre come questa pratica di riappropriazione del potere vada declinata nella persona nel suo insieme sistemico di mente, corpo ed emozione.
In conclusione vogliamo affermare che la nonviolenza rappresenta un buon antidoto all’oppressione sociale che induce malessere (perché impedisce la realizzazione della persona) ostacola la soddisfazione dei bisogni, ed è la negazione dei diritti. La nonviolenza mira a sovvertire questo stato di cose, perché ci mette nelle
condizioni di trovare idee ed energia per cambiare. La nonviolenza – in una parola – è capace di ridarci potere.
Non sempre ci capita di dire ciò che pensiamo realmente o di comportarci in conseguenza di quello che diciamo; oppure a volte pensiamo di sentire determinate cose, ma di non essere in grado di dare voce a quelle emozioni, per paura di essere fraintesi o di ferire l’altro o perché non se ne ha coraggio o ancora perché, per puro calcolo di convenienza, preferiamo tacere. Pensiamo che frequentemente capiti di trovarsi in uno di questi casi. Il fatto che ciò avvenga frequentemente per molte persone non significa necessariamente che ciò sia da considerarsi “naturale” e, ancora meno, opportuno.
Intanto queste differenze tra pensiero, parola, emozioni e comportamenti non si conciliano con la visione unitaria che la nonviolenza ha della persona. Queste varie parti contribuiscono ad un “unicum” dell’individuo. Il superamento della difformità tra il modo di pensare, di esprimersi o di comportarsi è possibile con esplorazione e rimozione delle cause alla base di queste discrasie. La conseguente coerenza riteniamo potrà rendere credibile quella persona; nei capitoli successivi vedremo come adeguate esercitazioni potrebbero giovare a questo obiettivo.
Da un punto di vista strettamente etico, la nonviolenza non consente la bipolarità nella persona
tra il suo pensare e il suo dire e i comportamenti conseguenti. È proprio la nonviolenza a indurre un lavoro interiore, alla ricerca del primato dell’“essere” sul “fare” (inteso come fine a se stesso) e sull’“avere” e questa ricerca ci aiuterà a rafforzare il processo di discernimento e di ancoraggio al bene. Inoltre, la persona che dice cose che non sente rischia alla lunga di perdere equilibrio e benessere. La comunicazione non è fatta solo di parole, come ben sappiamo, ma anche di toni di voce, sguardi, espressioni facciali e di quelle sfumature non verbali che rendono un messaggio chiaro o ambiguo, efficace o inutile. La coerenza tra aspetti verbali e non verbali è di fondamentale importanza anche per la salute mentale. Quando diciamo cose che non sentiamo, il corpo ci tradisce, la voce è incerta, lo sguardo distante o velato, i muscoli rigidi e il respiro bloccato. Nella nostra società l’abitudine a bloccare le emozioni, soprattutto quelle negative perché “non sta bene”, ci induce a riflettere sul fatto che ci troviamo sempre e comunque di fronte a grossi problemi comunicativi. La nonviolenza, intesa come espressione dell’essere, in questo caso può facilitare la connessione tra parola ed emozione e quindi il benessere della persona. Per fare tutto questo lavoro introspettivo ed interattivo, che richiede sforzo, fatica, ricerca e costanza, ci viene incontro Gandhi quando, a proposito della coerenza tra mezzi e fini, riteneva che fra questi ci fosse quell’inviolabile nesso come tra il seme e l’albero. Con ciò si vuole asserire che per la nonviolenza non è accettabile, ad esempio, che un insegnante in classe, in presenza di un litigio tra alunni, imponga la pace usando parole minacciose o in una famiglia un membro invochi l’armonia dall’altro, continuando a denigrarlo oppure uno Stato dichiari di volere la pace con un altro Stato, ammassando però truppe al suo confine.
Insomma, se si vuole la pace bisogna usare mezzi di pace.
Per raggiungere questo scopo c’è bisogno di un metodo appropriato. Riferendosi agli esempi di poco sopra, vuol dire che l’insegnante, avendo assistito a quel litigio, ascolti le ragioni dei contendenti e medi tra di loro, per cercare la soluzione più condivisa possibile. Nel caso della famiglia si cerchi un linguaggio quanto più rispettoso, pur non rinunciando alle proprie idee e ai propri bisogni. Nell’ultimo caso, invece che ammassare truppe, andrebbe intavolata una trattativa per cercare di conciliare i vari interessi in campo. Pur ammettendo che gli esempi riportati meritano ciascuno gli approfondimenti del caso, in questo momento a noi preme sottolineare l’importanza di armonizzare lo scopo che si pone di raggiungere la nonviolenza, cioè l’abbassamento del tasso di violenza oggi presente nella società, attraverso l’uso responsabile del potere, l’educazione alla partecipazione, il miglioramento dei rapporti interpersonali (fini) con l’utilizzo di tecniche e di strumenti (mezzi) che favoriscano nella persona e nelle persone lo sviluppo dell’autostima, della fiducia in sé e negli altri, dell’assertività.
L’assertività è quella capacità di esprimere se stessi pienamente, di valorizzare le proprie potenzialità e i propri talenti, di provare a realizzare ciò che si crede vero e giusto. L’assertivo non invade, non aggredisce, non domina; è cooperativo, disponibile all’ascolto empatico, è capace di vivere in gruppo. La persona assertiva è in grado di essere coerente tra ciò che sente e pensa: se sente “sì” dice “sì”, se pensa “no” dice “no” e se non ha una visione chiara e non riesce a farsi un’idea altrettanto chiara sugli eventi, semplicemente l’ammette e ciò per sgombrare il campo da deliri di onnipotenza a cui purtroppo oggi assistiamo, e che sono causa di tanta inutile contrapposizione.
Augusto Boal3, l’autore del Teatro dell’Oppresso, intende la persona come possibilità esistenziali del soggetto; egli nota come all’unità dell’“io”, rappresentata dalla cosiddetta personalità, possano contrapporsi le vite castrate dalla morale familiare e sociale, dall’influenza del contesto o quelle “addormentate”, abuliche, rassegnate, pigre, con bassa autostima. Tutto il contrario, insomma, della persona assertiva cui si è fatto cenno. Circa l’unità dell’“io” come fonte di benessere per la persona, alcuni psicoanalisti, come Musatti4 e Moreno5, hanno affermato che per risvegliare i talenti nascosti sia opportuno effettuare esercizi di espressione corporea e, comunque, interattivi, grazie ai quali sollecitare un “risveglio” che arricchisca l’“io” di elementi diversi e quindi di aspetti latenti della nostra persona. Con queste esercitazioni interattive è possibile integrare nel nostro vissuto elementi del vissuto dell’altro, accrescendo le possibilità di empatia con il diverso. Questo contrasta, indubbiamente, con il meccanismo della “de-umanizzazione”, indicato da Erich Fromm6 come uno dei fattori scatenanti la violenza sull’altro.
Lo sviluppo dell’autostima, della fiducia negli altri e dell’assertività sono possibili nella misura in cui insegnanti, educatori ed educatrici, formatori e formatrici, facilitatori e facilitatrici abbiano chiaro in mente che, per essere strumenti di questo sviluppo, non si possono limitare ad essere persone di buona volontà. È bene che assumano un appropriato metodo con cui rendere efficace la nonviolenza, traghettandola dai semplici enunciati di principio, all’assunzione di tecniche e strumenti che inducano nella persona maggiore energia e maggiore giocosità.
È nostro auspicio infatti che la “filosofia” del gioco possa contaminare i nostri comportamenti. Il gioco può diventare un mezzo con cui entrare in relazione con gli altri; il gioco ci permette di interagire, a differenza dell’esercizio ginnico/meccanico che, pur comportando movimento corporeo come il gioco, non richiede la presenza degli altri o se la prevede lo fa solo a fini competitivi. La relazione con gli altri mette in discussione i nostri sentimenti, le nostre emozioni e i nostri vissuti; il gioco destruttura anche le nostre abitudini di tipo motorio e di tipo percettivo, le nostre sensazioni e i nostri stereotipi. Inoltre esso mira all’unione di tutti i sensi (sinestesia) tra di loro per cui l’attivazione di uno, comporta la messa in gioco di tutti gli altri: noi respiriamo, cantiamo e così via con il corpo intero e non solo con un organo. In definitiva il gioco contribuisce a ciò che è stato già detto all’inizio di questo capitolo, ossia all’accrescimento della visione unitaria della persona.
A questo punto si tratta di comprendere se, in assenza di gioco, le rigidità muscolari che si sente di avere, fatte di meccanizzazione dei movimenti, di atrofie e ipertrofie (non fosse altro perché ogni giorno facciamo sempre le stesse cose), non abbiano un’influenza sui nostri comportamenti, sul nostro linguaggio e quindi sulla nostra personalità. Può, cioè, quella rigidità muscolare determinare una personalità autoritaria, propensa al dominio, in una parola “violenta”?
Secondo la “scuola di Palo Alto”, in particolare secondo Watzlavick7, sembrerebbe di sì. Lo stesso Stanislasvkij8, in campo teatrale a suo tempo era giunto ad una simile conclusione: esiste un’interconnessione tra apparato fisico e psichico della persona; un dato movimento o una data postura corporea, cioè, può indurre un dato pen-
siero o un dato stato d’animo o emozione e viceversa: una certa emozione, per esempio la paura, può causare una rigidità di pensiero, di comportamento e muscolare. Potremmo quindi nuovamente chiederci se, ad esempio, l’emozione della paura mal gestita che determina queste rigidità, non possa essere causa di intolleranze relazionali, atteggiamenti discriminatori e razzisti.
Il conformismo sociale e l’obbedienza all’autorità9, individuati come alcuni dei principali meccanismi generatori della violenza, possono essere rimossi mediante il gioco, ben preparato e calibrato? Se il gioco può sviluppare la fluidificazione di energia e di emozioni fino a giungere alla destrutturazione dei processi logico/verbali, allora potrebbe conseguire che il contatto con i propri sentimenti faciliti identificazione ed empatia con l’altro, grazie ad una migliore gestione della paura.
In definitiva il gioco, se orientato all’accrescimento della fiducia, può contribuire alla realizzazione del primo tassello con cui contenere la paura entro binari accettabili, perché l’essere in relazione con gli altri contribuisce a sgomberare il nostro cervello da pensieri cattivi e ossessivi, causati da quella emozione.
Bioenergeticamente parlando, il gioco facilita la fluidificazione dell’energia attraverso tutto il corpo. Questa fluidificazione facilita l’espressione completa delle emozioni e la persona può considerarsi attiva, diversamente la considereremmo “c-attiva”. È un gioco di parole per dire che quando si è attivi si tende, per quanto detto, al benessere e all’armonia. Per dirla con Pat Patfoort, ci troveremmo nella condizione interrelazionale di iso-violenza, ossia in un equilibrio in cui una persona non fa violenza a nessuno e nemmeno la subisce; invece, quando non si è attivi, energeticamente parlando, ci si incattivisce. Forse può chiarire l’esempio di quell’animale che, privato della libertà, viene
chiuso in gabbia: lo definiamo “in cattività”; per gli animali quanto per le persone, l’inibizione all’azione, secondo la teoria di Henri Laborit10, produce stress. Lo stress esprime la sofferenza per un impulso soffocato, per un movimento bloccato, per un’emozione non espressa, per una parola non detta. Infatti a livello emotivo l’inibizione produce paura mentre a livello corporeo è espressa molte volte con un nodo alla gola o altre rigidità muscolari o di stomaco. Ciò succede frequentemente, perché il nostro modello culturale perpetua l’idea che si debba reprimere impulsi ed emozioni per apparire persone educate. Invece la ricerca di Laborit mostra che il funzionamento prolungato del sistema di inibizione dell’azione crea alterazioni organiche, causa malattie psicosomatiche e disturbi dell’emotività.
Nessuno di noi può sentirsi immune da questi effetti visto che facciamo quotidianamente esperienza dello stress. Quando siamo in questa condizione, siamo potenzialmente delle bombe ad orologeria; infatti, accumulando ed accumulando inibizioni, prima o poi esse scoppieranno con un’energia incontrollabile, fino al punto da poter facilmente sconfinare negli episodi di cronaca nera a cui purtroppo oggi assistiamo11.
Abbiamo cercato di mostrare che il gioco, la psicomotricità, l’espressione corporea, la bioenergetica e la biosistemica, persino la musicoterapia e la danzaterapia, per citare alcuni approcci, possono dotare l’insegnante, l’educatrice, il formatore, l’animatrice e il facilitatore di un
10. Laborit, 1990.
11. Non si vuole qui sostenere che tutti gli episodi di violenza di cui quotidianamente abbiamo notizia abbiano causa unicamente in blocchi emotivi, certamente esistono anche delle cause di tipo sociale e strutturale, si vuole tuttavia sottolineare l’importanza di una dimensione troppo spesso trascurata.
metodo con cui rendere più efficace l’apprendimento della nonviolenza. Scopo che non riguarda solo la sfera cognitiva, ma anche quella affettiva, emotiva e motivazionale. È importante capire la nonviolenza non solo con la testa ma, sperimentandosi, comprenderla con i sensi, con l’intuizione e con l’empatia, in una parola con tutta la persona attraverso un atteggiamento maieutico, dialogico, non interpretativo e non indottrinante.
dell’età o del numero dei partecipanti, giacché molti degli esercizi proposti con qualche piccola modifica sono suscettibili di essere svolti da tipologie e numero di persone diverse.
Un capitolo riguardante gli schemi di agende-tipo per lo sviluppo di training, prevalentemente di formazione alla nonviolenza, precede quello sullo strumentario dei giochi.
In questa sezione sono riportati strumenti, esercizi, giochi con cui mettere in pratica tutto quanto finora è stato esposto in materia di nonviolenza, con l’intento di offrire spunti ai lettori, perché possano avere qualche utile attrezzo per attivare percorsi formativi nel proprio ambito di impegno.
Alcuni di questi esercizi o giochi sono interamente frutto della nostra esperienza e della nostra creatività; altri sono nostre rielaborazioni di strumenti originariamente proposti da altri formatori; altri ancora, infine, sono da noi ripresi quasi pedissequamente da altri autori. Ci è sembrato tuttavia utile riportare anche questi ultimi, sia per ragioni di completezza, sia perché la maggior parte di essi fa parte di un repertorio ormai dimenticato dai più o sono pubblicati su libri oggi difficili da reperire.
Inoltre bisogna considerare che i giochi possono essere considerati come delle cornici e come tali possono assumere applicazioni e, dunque, significati diversi, perché diverso è il contesto nel quale sono proposti.
Noi per comodità li abbiamo organizzati per temi e riportati nell’ultimo capitolo di questa terza parte. Da quanto appena detto si capisce che la distinzione tra un tema e l’altro non è da intendersi in maniera rigida, così come l’indicazione
Premessa: in questa sezione sono compresi tutti quei giochi-esercizi, aventi lo scopo della conoscenza di se stessi, oltre che degli altri, al fine di creare un buon clima di apprendimento cooperativo, in linea con un assunto di fondo della nonviolenza: la coerenza tra mezzi (con cui apprendere) e fini (che è il contenuto dell’apprendimento stesso).
1
Quattro notizie su di me, anzi cinque
Età destinatari: da 18 anni in su.
Numero partecipanti: almeno 6 persone.
Scopo: avere una discreta panoramica delle notizie personali da fornire agli altri.
Descrizione
Il gioco consiste nello scrivere al centro del foglio il proprio nome e poi riempire gli spazi intorno, rispondendo a 5 richieste: da dove vengo (anche nel senso della realtà che frequento o del mio ambito di lavoro/impegno), una cosa che piace (del mio lavoro o di ciò che abitudinariamente faccio), una cosa che vorrei cambiare di me, una cosa che piace di me, un sogno da realizzare. Segue esposizione di tutti i fogli e presentazione breve di quanto scritto, a seconda del tempo a disposizione o delle esigenze del trainer.
Variante: si possono aggiungere o fare altre richieste, a seconda delle notizie che si vogliono conoscere. 2 Saluto a due mani
Età destinatari: da 10 anni in su (valido anche per adulti).
Numero partecipanti: da 12 persone in su.
Scopo: rompere il ghiaccio e vincere la pigrizia, soprattutto agli inizi di un’attività formativa, quando ancora non ci si conosce.
Descrizione
Tutti sono in piedi; il trainer, seguito successivamente da tutti gli altri, inizia a dare la mano al primo che capita e si scambia i nomi con lui, ma non può lasciare la mano, se prima non aggancia la mano di un altro con cui ancora scambiarsi i nomi e così via finché tutti hanno salutato tutti; tutti i partecipanti compiono queste azioni contemporaneamente creando un divertente clima che facilita lo svolgimento delle attività che si andranno successivamente ad affrontare.
3 Vi parlo di me per un minuto
Età destinatari: da 12 anni in su (valido anche per adulti).
Numero partecipanti: da 6 persone in su.
Scopo: aiutare i prolissi ad essere sintetici e gli introversi ad esprimersi.
Descrizione
Si sta in cerchio con il trainer che scandisce il tempo per ciascuno. Ognuno ha a disposizione un minuto per presentarsi, ma chi termina prima è invitato dal trainer ad aggiungere ancora qualcosa di sé, fino al raggiungimento della scadenza, ma a chi deborda, è tolta la parola.
Età destinatari: da 8 anni in su (valido anche per adulti).
Numero partecipanti: almeno 10 persone.
Scopo : creare un buon clima di gruppo, scambiarsi alcune informazioni (sia pur superficiali) tra i partecipanti, dare subito un segnale sul metodo interattivo della formazione che si va ad affrontare.
Descrizione
Tutti sono seduti in cerchio, ad eccezione di uno che sta al centro in piedi con l’obiettivo di sedersi e per farlo usa lo stratagemma di fare alzare dalla sedia quelle persone coinvolte in ciò che affermerà. Ad esempio potrà dire: “Il grande vento soffia su tutti quelli che hanno gli occhiali”. In tal caso si alzeranno tutti quelli che hanno gli occhiali e colui che aveva posto la domanda cercherà di soffiare il posto ad uno di loro. Le affermazioni possono riguardare un capo di abbigliamento, una caratteristica fisica o familiare o un comportamento e così via. Non possono scambiarsi di posto le persone sedute una accanto all’altra. Chi non riesce a sedersi rimane al centro e sarà lui a pronunciare le successive affermazioni sul “grande vento”.
Dopo vari tentativi falliti di potersi sedere, chi sta in piedi può anche dire “rivoluzione!”. In questo caso tutti si alzeranno per cambiare posto, senza poterlo cambiare con il vicino.
Premessa: in questa categoria rientrano tutti quegli esercizi che aiutano il corpo a de-meccanizzarsi, a liberare l’energia compressa. Esercizi grazie a cui il partecipante potrà scoprire di essere protagonista attivo dell’apprendimento e ricavare un benessere psicofisico. Imparare a ripetere alcuni di questi esercizi può rivelarsi anche una competenza non trascurabile nella gestione nonviolenta dei conflitti. Infine preme sottolineare che gli esercizi rientranti in questa categoria, trovano una loro naturale applicazione agli inizi di ogni sessione formativa, all’inizio di un’attività o quando nel gruppo in formazione comincia a serpeggiare stanchezza oppure ogni qualvolta il clima della discussione o dell’analisi rischia di appesantire il processo di apprendimento e generare stanchezza, noia e sfiducia.
Età destinatari: da 8 anni in su (adatto anche per adulti).
Numero partecipanti: almeno 12 persone.
Scopo: scaricare tensioni, a seguito di un’attività che ha richiesto l’assorbimento di molta energia mentale ed emotiva; creare un buon clima di gruppo.
Descrizione
Ci si dispone in gruppetti di tre persone: colui che si trova in mezzo al terzetto è l’“inquilino”, le altre due, una a destra e una sinistra di esso, formano le pareti della “casa”. Una persona è esterna ai gruppi ed ha l’obiettivo di inserirsi in una delle componenti della “casa”, dopo aver enunciato precisi comandi. Se per esempio viene pronunciata la frase “parete destra”, tutte le “pareti destre” delle varie case devono scambiarsi di posto. Proprio in questo momento chi ha dato il comando deve approfittare per collocarsi in una delle pareti che nel frattempo si stanno ricomponendo. Similmente se sono interpellate le pareti sinistre o gli inquilini. Alla pronuncia della parola “terremoto”, tutte le “case” si scioglieranno per ricomporsi con altre persone in altri spazi. Chi al termine di ogni “chiamata” rimane fuori dalle case, conduce il gioco per il turno successivo pronunciando un nuovo comando. Si continua finché il trainer ritiene di aver raggiunto il fine per cui si è svolto questo gioco.
Età destinatari: da 18 anni in su.
Numero partecipanti: da 6 a 20 persone.
Scopo: l’attività comporta un duplice scopo per il protagonista:
1) fargli rivivere le emozioni della situazione presa in esame;
2) sperimentare nella realtà le strategie, le più appropriate emerse dai suggerimenti ricevuti.
Descrizione
Il conduttore chiede ai partecipanti di segnalare episodi della propria vita ritenuti non soddisfacenti dal punto di vista relazionale e comunicativo, o comunque da un punto di vista confacente al corso/ laboratorio che si sta svolgendo. Una volta scelto tra i casi proposti quello che si vuole esaminare, il trainer chiama accanto a sé il protagonista, chiedendo di scegliere tra i presenti quelli che, a suo dire, si possono prestare alla realizzazione della simulazione. Distribuendo ruoli e, di volta in volta, vestendo i panni di ciascun personaggio, evidenzierà ciò che più interessa essere riprodotto in simulazione dal prescelto. Esaurita la fase di rappresentazione, servita a far rivivere emotivamente quanto prima descritto verbalmente dal protagonista, rassicuratisi che la simulazione abbia corrisposto agli intendimenti del protagonista, il conduttore invita chi avesse un’idea diversa circa la strategia usata dal protagonista, ad affiancarsi allo stesso in empatia parziale corporea con la mano sulla spalla dello stesso, a significare il reciproco coinvolgimento emotivo e prova ad agire la propria strategia. Per ogni sostituzione il conduttore chiede a tutti quale apporto migliorativo v’è stato. Esaurite le rappresentazioni, si forma un cerchio in piedi, tutti in abbraccio ed a turno, in identificazione con il protagonista, si pronuncia il proprio nome dicendo: “sono… e posso…”. Una volta pronunciato il proprio nome, si aggiunge al “posso…” un suggerimento come sostegno psicologico al protagonista o un impegno da assumersi.
Alla fine il trainer invita il protagonista ad assumersi un impegno tra quelli suggeriti attraverso il rituale “sono… e posso…” scegliendo, tra le identificazioni, quella o quelle che possono avere maggiore valore per se stesso.
La nonviolenza qui proposta è un’attitudine a vivere – nel proprio contesto di vita, lavoro, impegno sociale – una costante tensione verso il cambiamento, nella convinzione che se è inevitabile che ci siano i conflitti, è anche possibile imparare a gestirli in maniera nuova e consentire (a chi maggiormente colpito dagli effetti di tali conflitti) di acquisire consapevolezza e capacità tali da saper riequilibrare la situazione, verso la giustizia e il rispetto di ciascuno. In questa direzione gioca un ruolo centrale l’educazione.
I metodi della nonviolenza possono essere utilmente applicati nella vita di tutti i giorni per apportarvi dei cambiamenti? Può la nonviolenza essere un utile strumento in ambito educativo?
Da questi interrogativi nasce il desiderio di coniugare la teoria con la pratica della nonviolenza; infatti, i percorsi formativi proposti (con giochi e attività) diventano prima di tutto un’esperienza, grazie alla quale il singolo partecipante o il gruppo può incamminarsi sulla strada della nonviolenza nei propri contesti di vita e di impegno.
Si tratta di un manuale che può aiutare le persone, i gruppi, le associazioni, ma soprattutto insegnanti, educatori e formatori, a riscoprire motivazioni, avere stimoli concreti e ritrovare entusiasmo nel sentirsi agenti sociali del cambiamento.
Un libro da “usare”, con urgenza. Perché imparare giocando a fare la pace è il modo con il quale si impara la pace.
Alfredo Panerai, insegnante, (ex) attivista per la giustizia sociale, impegnatissimo padre di famiglia, da tanti anni è attivo anche come formatore ai metodi partecipativi e nonviolenti in educazione. Ha svolto anche professionalmente il ruolo di facilitatore di gruppi di lavoro e di supervisore all’interno di associazioni e comunità. Ha collaborato con Pax Christi, Save the Children, Associazione Papa Giovanni XXIII, CGIL e le università di Firenze e Pisa. Ha prodotto già diverse pubblicazioni sui temi dell’educazione alla pace e della sociologia dei processi culturali.
Pio Castagna, licenziato alla Scuola Biosistemica di Jerome Liss con diploma di facilitatore di gruppo nel campo della comunicazione ecologica e nelle relazioni di aiuto, consulente formativo nel campo dell’educazione alla pace e alla nonviolenza in ambito scolastico, associativo e per animatori di gruppo, conduttore di Teatro dell’Oppresso. Approdato a Pax Christi ai tempi della presidenza di don Tonino Bello, maestro di vita e testimone di pace, è sensibile e attento agli aspetti educativi della pace tramite la nonviolenza.
ISBN 978-88-6153-948-8
In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
Euro 18,50 (I.i.)
9 788861 539488