Come pesci in un acquario

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Paola Cosolo Marangon Mauro Pucci

COME PESCI IN UN ACQUARIO

Migliorare le relazioni nei gruppi educativi con il Consiglio di Cooperazione

A cura di Paola Cosolo Marangon Mauro Pucci

COME PESCI IN UN ACQUARIO

Migliorare le relazioni nei gruppi educativi con il Consiglio di Cooperazione

Indice

Introduzione

di Daniele Novara

............................................... 9 Un saluto dal Québec di Danielle Jasmin

............................................. 11 Come pesci in un acquario di Mauro Pucci

.................................................. 13 Che si fa con i pesci fuor d’acqua? di Davide Ceron

................................................ 15 I bambini sono come le spugne di Rossella Dimaggio

......................................... 17 Cosa trovi in questo libro di Mauro Pucci

.................................................. 19

prima di cominciare chiariamoci le idee su Freinet, empatia e conFlitto di Paola Cosolo Marangon

Un po’ di storia. Célestin Freinet e la Coopera zione Educativa

................................................ 23 Empatia e Consiglio di Cooperazione ............. 29 Il conflitto nel Consiglio di Cooperazione....... 35

il consiglio di cooperazione Fuori dalle scuole di Mauro Pucci

Come e perché condurre il CC in un Centro te rapeutico ........................................................... 45 Prima fase. Congratulazioni & Critiche .......... ..55 Seconda fase. Argomenti e Decisioni ................ 73 Il problema della verifica e della valutazione. Il CC è un Progetto educativo? ......................... 91 Il ruolo del Conduttore ...................................... 93 Schede per presentare il primo CC.................. 103 il consiglio di cooperazione nelle scuole

Dal Belgio un’esperienza di CC nelle scuole pri marie e secondarie di Martine Abrassart

...................................... 111

Dalla Svizzera l’esperienza del CC spalmato sull’intero Istituto di Fabio Grignola 125 Il ruolo dell’insegnante come Conduttore di Jessica Baj .................................................... 129

ancora due parole con danielle Jasmin

Mettiamo i puntini sulle i al Consiglio di Coope razione di Danielle Jasmin

.......................................... 135 Non potrei insegnare senza il Consiglio di Coo perazione Conversazioni con Danielle Jasmin di Mauro Pucci 143

Ringraziamenti ............................................... 147

Introduzione

Quando è uscito il libro di Danielle Jasmin nel 1994 nella Collana Partenze per educare alla pace (edizioni la meridiana) da me diretta, lo abbiamo salutato con favore. Riprendere in mano uno strumento come il Con siglio di Cooperazione (CC) ha significato rin novare l’attenzione sulla pedagogia cooperativa. Célestine Freinet è stato uno di quei maestri che ha portato il senso del lavoro concreto in clas se, ha fatto uscire la scuola dall’idea antica di apprendimento unidirezionale fatto di cattedre e punizioni, maestri sulla pedana e allievi che ascoltavano senza poter mettere nulla di pro prio. La pedagogia attiva è stata la base per un rinnovamento didattico, ha contribuito a creare una consapevolezza sul tema della cooperazione e della collaborazione tra pari, per giungere a un apprendimento efficace e duraturo.

L’Istituto che dirigo, Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Pia cenza, ha utilizzato lo strumento del Consiglio di Cooperazione soprattutto nei progetti volti alla gestione del conflitto in contesto scolastico e più in particolare nella mediazione tra pari, interes

sante percorso portato avanti da Paola Cosolo Marangon, co-curatrice del presente manuale. Nel progetto Mediatori tra pari il CC aveva una parte importante, perché consentiva a ragazzi e ragazze di poter imparare a discutere, dialogare, prendere decisioni mettendo al centro la possibi lità di sostare nel conflitto senza denigrare l’altro e senza “farsi del male”. Imparare a stare nelle situazioni conflittuali consente di apprendere l’arte del litigio, formula essenziale per una pre venzione contro la violenza.

Mauro Pucci, educatore professionale e docente presso l’Università dell’Insubria di Varese, utiliz za da sempre il CC nel suo insegnamento univer sitario e lo ha sperimentato anche all’interno di ambiti sociali e nelle comunità terapeutiche, ne ha riscontrato l’efficacia e ha creato degli adatta menti per meglio utilizzarlo nelle varie situazio ni.

Dopo anni di applicazione e aggiustamenti, è uscito un manuale molto dettagliato che consen te a operatori sociali, insegnanti e coordinatori di comprendere quali siano i passi migliori per far funzionare il CC.

Il testo della Jasmin era pensato per la scuola, Pucci ha esteso il campo e con questo manua le – rivolto in primis ai potenziali educatori che frequentano le sue lezioni, poi a tutte le altre ca tegorie – ha attualizzato lo strumento e lo ha reso fruibile e accessibile per un “pronto utilizzo”. Come dire, “chiavi in mano” per imparare a ge stire controversie e conflittualità all’interno dei gruppi e delle situazioni difficili. Come sostengo da sempre, imparare a gestire i conflitti, imparare a litigare bene è una risor sa per sé e per gli altri. Buon lavoro, dunque, a quanti utilizzeranno il manuale, ne facciano un buon uso per consentire di diventare generatori di buone pratiche, generatori di pace.

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Un saluto dal Québec

Nel 1994 ho promosso il Consiglio di Coope razione. Non mi sarei mai aspettata che i cerchi creati da quel sasso gettato nell’acqua in Québec avrebbero poi raggiunto l’Europa. Ecco invece che, nel 2022 in Italia, esce Come pesci in un acquario – Come e perché condurre il Consiglio di Cooperazione per migliorare le rela zioni nei gruppi educativi. Dentro e fuori le scuole. È straordinario.

Ho letto questo libro con grande emozione. Mauro, Daniele, Paola, Martine e Fabio: ho vi sto che avete fatto crescere ed evolvere il Consi glio di Cooperazione. Ognuno di voi, a proprio modo, ha aggiunto una pietra all’edificio di una migliore convivenza.

Vivendo i fondamenti e i principi del Consiglio di Cooperazione con bambini, adolescenti o adulti, dimostrate chiaramente come insegnare loro a risolvere i conflitti e le situazioni diffici li esprimendo i propri sentimenti e bisogni, con rispetto e sincerità, e ascoltando il punto di vista dell’altro.

In Québec, gli amerindi ci hanno tramandato questo proverbio: Non si può capire un uomo o una donna senza aver camminato per due lune di fila nei suoi mocassini. A poco a poco, vivere il CC ci permette di cono scere gli altri membri del gruppo e di non giu dicarli. Si impara così che le persone non sono definite dal colore della pelle o dalle loro idee, né dal loro comportamento, dalla loro disabilità o dalla loro malattia e questo permette di svilup pare il rispetto e l’empatia. Quando si invitano le persone a riunirsi in cer chio si riconosce l’unicità di ciascuno, perché tutti vogliono essere accettati con le loro diffe renze, essere ascoltati, compresi, sostenuti. Que sto è quanto offrite loro. Invece di essere relegati nel ruolo di spettatori o vittime, incoraggiate i partecipanti a diventare attori responsabili, autonomi ed empatici nella risoluzione dei conflitti. Sollecitandoli anche a congratularsi a vicenda, a parlare di ciò che va bene, a proporre dei progetti, permettete loro di sviluppare l’autostima, la fiducia in se stessi e di sperimentare la solidarietà. Con questo manuale, che trasmette non solo il gusto ma anche il modo per proporre i principi umanistici del CC, immagino voi, Mauro, Danie le, Paola, Martine e Fabio, tutti insieme nella scia di Nelson Mandela e Desmond Tutu che hanno promosso il concetto di “Ubuntu”, che significa “Io sono ciò che sono grazie a ciò che siamo tutti”.

Siete lanterne che ci illuminano e ci offrono un mondo migliore in questi tempi difficili.

Con la mia immensa gratitudine Danielle Jasmin Montréal, giugno 2022

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Come pesci in un acquario

Non so nulla di biologia marina e del comporta mento dei pesci. Ma un’immagine mi fu subito chiara, nella penombra della luce azzurrognola dell’acquario: quei pesci assomigliavano molto a quelle persone che per un periodo di tempo della loro vita si trovano a dover forzatamente convi vere con chi non hanno scelto come compagni di viaggio. Prima neppure si conoscevano. Magari tra loro non vi è una particolare simpatia e affini tà. Pensavo agli studenti di una classe, a chi vive in una comunità residenziale, ai gruppi di lavoro, ai condomini di un palazzo. Situazioni dalle quali non si può uscire quando si vuole. Più guardavo i pesci e più pensavo che non sono i pesci a somigliare a quelle persone, ma sono quel le persone a trovarsi nella condizione di essere come pesci in un acquario. Costretti a stare insie me, senza possibilità di scampo.

Ma come fanno a stare insieme? Più li guardavo e più me lo chiedevo, incredulo.

Faceva un caldo insopportabile a Creta nell’ago sto del 2018 e alle due del pomeriggio entrai nel Cretaquarium di Gournes, più per cercare riparo dal sole che per un vero interesse. Una parete di vetro mi separava da squali di notevoli dimensio ni, cernie e altri pesci dalle bocche terrificanti che giravano in tondo mescolandosi armoniosamente con quelle che ai miei occhi potevano essere le loro facili prede.

Ma come fanno a stare nella stessa vasca? Non se li mangiano? Lo chiesi, più a gesti che altro, al custo de che stava nella sala, che mi rispose scuotendo il capo. Era un No secco. Con questa inappellabile risposta se ne andò come infastidito e mi lasciò con i miei dubbi.

Qual era il loro segreto? Come avevano fatto a trovare il loro equilibrio in quello spazio ristretto?

Da queste mie profonde riflessioni, favorite forse da un colpo di calore e dalla disidratazione, il col legamento al Consiglio di Cooperazione fu per me una conseguenza naturale e scontata.

Mi venne allora una seconda domanda, a cui dare una risposta sarebbe stato ancora più arduo: se ce l’hanno fatta i pesci a trovare un modo per con vivere che sia accettabile per tutti, ce la faranno anche le persone quando sono costrette a stare in una situazione simile? Verrebbe da rispondere come mi ha risposto il custode, ma siamo educa tori e per professione abbiamo una incrollabile fi ducia verso la capacità delle persone di cambiare in meglio le relazioni tra loro. A volte reiteriamo in questa, forse assurda e infondata, convinzione contro ogni evidenza.

Il Consiglio di Cooperazione mi apparve allora in quel momento come un acquario dentro il quale ci muoviamo con le nostre emozioni, i conflitti, i desideri, i sorrisi. Sì, ci sono anche i sorrisi. Come quello di chi mi vide strabuzzare gli occhi accecati dal sole quando mi rituffai fuori dal Cretaquarium nel caldo pomeriggio mediterraneo.

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Ancora oggi non so come facessero a stare insie me, ma se ce l’hanno fatta i pesci, forse c’è qualche speranza anche per noi.

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Cosolo Marangon e Mauro Pucci

Cosa trovi in questo libro

È quindi pensato per gli insegnanti, per gli edu catori e per tutti gli operatori sociali che lavorano in quegli ambiti.

Vi si possono trovare tutte le indicazioni utili e necessarie per capire cosa sia il CC, come avviarlo e condurlo, quali siano i suoi significati educativi. La tecnica di conduzione è spiegata nel dettaglio, senza tralasciare lo spirito che anima il CC.

Gli autori hanno riportato qui la loro lunga espe rienza di conduzione di CC:

Questo libro integra e non sostituisce il manua le scritto da Danielle Jasmin1 che rimane il testo fondamentale per chiunque voglia utilizzare il Consiglio di Cooperazione.

Questo libro, frutto di un lavoro cooperativo – e non poteva essere diversamente visto il tema – è rivolto a chi conduce dei gruppi educativi in am bito scolastico, dalla scuola dell’infanzia in poi, e anche fuori dalla scuola: nelle comunità residen ziali per minorenni e adulti, nei centri educativi, nelle strutture con persone che hanno un distur bo psichiatrico o una dipendenza da sostanze psi cotrope, nelle case rifugio per le donne vittime di violenza, nelle strutture per persone con disa bilità e in tutte le altre realtà dove un gruppo di persone si ritrova a condividere in modo stabile una parte della propria vita insieme a chi vi svolge un ruolo educativo.

1. D. Jasmin, Il Consiglio di cooperazione. Manuale per la gestione dei conflitti in classe, edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2002. Titolo originale: Le conseil de coopération. Un outil pédagogique pour l’organisation de la vie de classe et la gestion des conflits, Les Éditions de la Chenelière inc., Montréal (Québec – Canada), 1994.

Danielle Jasmin amplia alcuni concetti già espres si nel suo manuale e ci racconta ancora qualcosa della sua esperienza in Québec – Canada; Fabio Grignola dopo 25 anni di CC nella scuola di Agno in Svizzera, ci spiega come sono arrivati a fare un CC d’Istituto; Martine Abrassart come ha aiutato gli insegnanti in Belgio ad avviare il CC nelle loro classi, dando indicazioni pratiche e suggerimenti; Paola Cosolo Marangon ci ricorda che Freinet ha ispirato il CC e approfondisce due aspetti chiave correlati al CC: l’empatia e il conflitto relazionale.

Il mio contributo è legato alla mia esperienza ven tennale di educatore professionale nel Centro te rapeutico di Villa Argentina a Lugano in Svizzera (per persone dipendenti da sostanze psicoattive e con un disturbo psichiatrico): ho attinto a piene mani dal manuale di Danielle Jasmin, l’ho inte grato con la mia formazione post diploma presso il Cpp di Daniele Novara e ho così adattato il CC all’utenza di Villa Argentina, con risultati tanto incoraggianti che mi hanno indotto ad insegnare il CC ai miei studenti universitari a Varese. Lasciamo quindi qui un distillato delle nostre di verse esperienze educative e siamo tutti concor di nel mettere in guardia chi legge che avviare il Consiglio di Cooperazione è una scelta impegna

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tiva che richiede di aver ben compreso quali siano le sue valenze educative. Occorre condividerne lo spirito ed essere consapevolmente intenzionati ad attribuire ai partecipanti al CC parte del potere che in genere viene gestito da chi esercita la fun zione educativa. Questo è un nodo delicato che viene ampiamente affrontato in più parti del li bro.

Abbiamo anche visto che non ha alcun senso imporre a chi educa di fare il Consiglio di Co operazione: se non ne è pienamente convinto è controproducente. Così come risulta contraddit torio avviarlo in un ambiente educativo che non sia coerente con la sua impostazione pedagogica.

Il nostro auspicio è che possiate trovare nella no stra esperienza, condensata in queste pagine, la motivazione e l’entusiasmo necessari per avviare nei vostri gruppi educativi quello che per noi è stato un elemento di svolta nella nostra professio ne educativa: il Consiglio di Cooperazione.

Buon lavoro.

Mauro Pucci

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Cosolo Marangon e Mauro Pucci

Prima di cominciare chiariamoci le idee su freinet, emPatia e conflitto di Paola Cosolo Marangon

Empatia e Consiglio di Cooperazione

Lo strumento del CC è ottimo per educare all’a scolto empatico. Sovente si sente dire che i ragazzi non sanno ascoltare, che c’è la fretta di dire la pro pria. I comportamenti adulti non sono da meno, la frenesia che avvertiamo a livello di comunica zione on line, lo spazio sui social spesso investito da esternazioni non filtrate, l’impulso a parlare più che ad ascoltare fa parte della quotidianità. Queste situazioni sono diventate perlopiù “nor mali” o considerate tali da buona parte delle persone. Non rendersi conto che le parole pos sono ferire quando non sono “adatte”, non dare importanza a chi riceve il messaggio centrandosi unicamente sull’emittente, denota una carenza dal punto di vista della capacità empatica. Di frequente il mondo adulto punta il dito contro bambini e ragazzi apparentemente poco propensi ad ascoltare, senza rendersi conto che è un atteg giamento molto diffuso anche tra gli adulti stessi. Chi frequenta programmi televisivi avrà notato un sensibile cambiamento negli ultimi anni, come non ci fosse una regola del corretto dialogare. La

prepotenza ha preso il sopravvento e farsi ascol tare diventa una caratteristica a scapito della ca pacità di ascoltare a propria volta. Volendo fare le pulci alla questione potremmo dire che l’atteggiamento narcisistico prevale su quello empatico.

“Io” prende il sopravvento e quando “io sto bene”, chi se ne importa degli altri.

Non è solo una questione comunicativa, va da sé che riflette molto spesso la totalità della persona; un’eccessiva autocentratura fa perdere di vista l’altro, i suoi bisogni, le sue necessità, le sue ri chieste di aiuto.

La mancanza di approccio empatico rende diffi coltosa la comunicazione e la gestione di contro versie, la mancanza di approccio empatico non consente di capire l’altro, di mettersi nei suoi panni, di “indossare” le sue scarpe.

A questo proposito a Milano dal 21 al 28 ottobre 2021 è stata creata un’installazione promossa dal la Fondazione Empatia di Milano che, assieme a molte altre associazioni e grazie al patrocinio del Comune di Milano9, ha offerto alla città l’occa sione per mettersi proprio nelle scarpe dell’altro. Ideatrice della mostra/installazione è Clare Patey, direttrice dell’Empaty Museum di Londra. L’in stallazione prevede un’enorme scatola di scarpe al cui interno ci sono una trentina di altre sca tole che contengono per davvero scarpe di varie fogge e numeri, scarpe maschili e femminili; chi le indossa riceve anche un iPod con cui ascolta re la storia della persona a cui sono appartenute. Un modo molto interessante per “mettersi” nelle scarpe degli altri, nei panni degli altri come di ciamo di solito, capire i loro sentimenti, le loro prospettive. Molto efficace come strumento espe rienziale per aiutare a capire che l’empatia è qual cosa di diverso dalla simpatia, dalla compassione, dalla fratellanza ma parte dalla capacità proprio di decentrarsi e capire cosa prova l’altro.

9. www.fondazionempatiamilano.com

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Empatia, cos’è?

Faccio un passo indietro per esplorare in sintesi che cosa si intende per empatia. Empatia:

Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro. Con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfühlung10.

Questa la definizione data dal Vocabolario Trec cani, ma naturalmente la definizione non ci basta per averne una comprensione effettiva. L’empatia è stata concettualizzata in campo filo sofico ed anche dalla stessa psicoanalisi che, così attenta alle esperienze e agli scambi affettivi, ha dovuto farci i conti fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Heinz Kohut, psicoanalista svizze ro naturalizzato americano e molto attivo negli Usa, spostò l’asse della psicoanalisi dall’interpre tazione dei conflitti legati alle pulsioni all’empatia, ossia a questa particolare forma di conoscenza re lazionale degli altri, spesso definita nel linguaggio quotidiano comprensione o immedesimazione. Secondo Kohut11 l’empatia è un metodo di ascol to che consente di comprendere la vita interiore delle altre persone, è un’attitudine mentale ed emotiva presente nella vita quotidiana, anche se non in tutti, nei rapporti familiari e di amicizia ed anche negli incontri fra persone. Esplorando ulteriormente l’origine dell’empatia, Kohut la mette in relazione con la capacità di in trospezione, ossia si è in grado di comprendere e di immedesimarsi con gli altri solo se si è capaci di comprendere se stessi, le proprie motivazioni e le proprie emozioni, ossia se si è in contatto col proprio mondo interiore. Va distinta l’empatia

10. www.treccani.it/enciclopedia/empatia/ 11. H. Kohut, La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982.

dalla benevolenza o dalla simpatia perché si tratta di un processo più complesso, non sempre consa pevole – perlomeno inizialmente – e che conduce alla risonanza emotiva con l’altro, con la consape volezza che questa risonanza viene suscitata dai sentimenti dell’altra persona.

Ci si può chiedere come prenda origine l’empa tia e se questa si sviluppi fin dall’infanzia. Molti ricercatori dell’infanzia hanno documentato che la risonanza empatica ci accompagna fin dai pri mi giorni di vita nella relazione con la madre, che negli scambi col figlio si sintonizza e risuona con le sue espressioni, i suoi comportamenti e le sue emozioni iniziandolo al lessico delle emozioni. Il processo di immedesimazione che è alla base dell’empatia inizierebbe poche ore dopo la nasci ta secondo il ricercatore Andrew Meltzoff. Infatti il neonato è in grado di imitare le espressioni fac ciali dell’adulto di fronte a lui. Nella sua opera su La mente imitativa12, Andrew Meltzoff ha individuato le basi innate del sorgere di una “teoria della mente” nella capacità mani festata dai bambini molto piccoli di mettere in corrispondenza i “comportamenti” con gli “stati interni”. Tale predisposizione innata si manifesta attraverso il meccanismo dell’imitazione precoce. Un esempio particolarmente interessante di tale ipotesi è costituito dall’imitazione facciale. Consi derata per lungo tempo come un’acquisizione tar diva dello sviluppo socio-cognitivo rispetto all’i mitazione vocale e a quella dei movimenti della mano (Piaget la collocava all’età di un anno), più recenti studi di Meltzoff e dei suoi collaboratori hanno mostrato come l’imitazione dei movimenti facciali sia già presente a 12-21 giorni e come essa non possa essere confusa con i semplici riflessi. Come può un bambino che non ha mai visto il proprio volto riflesso in uno specchio appaiare

12. A. Meltzoff (a cura di), The Imitative Mind: Development, Evolution, and Brain Bases, Cambridge University Press, Reissue edizione (22 agosto 2011).

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Cosolo Marangon e Mauro Pucci

un’azione che vede nell’altro e un’azione propria che non può vedere? Secondo questi studiosi, la risposta sta nel fatto che il bambino mette in cor rispondenza il comportamento esteriore percepi to con una serie di impressioni corporali interne, oltre che con determinati piani motori e con le intenzioni che li muovono:

I nuovi risultati sull’imitazione implicano chia ramente che i piani motori e le intenzioni sono sin dall’inizio messi in corrispondenza con il comportamento degli altri. È come se i bambi ni, nel caso dei semplici desideri, riconoscano immediatamente che il comportamento degli altri implica desideri simili ai propri. Ciò giustifi cherebbe l’attribuzione al bambino di una sem plice psicologia del senso comune. Allo stesso modo, nel rintracciare il fondamento originario della psicologia del senso comune, riteniamo rilevante il fatto che il bambino piccolo colga la somiglianza tra una particolare sensazione pro priocettiva interna e il piano motorio necessario per produrre sia la sensazione che il comporta mento13.

La possibilità di sviluppare l’empatia, dunque, è di esordio molto precoce, poi il contesto in cui noi cresciamo, l’ambiente in cui siamo inseriti e la qualità delle relazioni aiutano a sviluppare o meno questa componente quasi innata. Negli ultimi anni le neuroscienze sostengono quello che l’osservazione degli studiosi sopra ci tati avevano già intuito o avvalorato attraverso le loro ricerche. Il fenomeno dei neuroni specchio14 scoperto da Rizzolatti e Sinigaglia va a conferma re la teoria empatica. Possiamo leggere da un in teressante articolo del prof. Bracco15:

13. A. Meltzoff, A. Gopnik, Il ruolo dell’imitazione nella comprensione sociale e nello sviluppo di una teoria della mente, in L. Camaioni (a cura di), Teorie della mente, p. 81, Laterza, Roma-Bari 2003.

14. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.

15. M. Bracco, Empatia e neuroni specchio. Una riflessione fenomenologica ed etica, in www.rivistacomprendre.org/, n. 15, anno 2005.

Alcune importanti ricerche avvenute in ambito neurologico hanno rivelato la presenza, prima nel cervello delle scimmie e successivamente in quello dell’uomo, di una specie molto partico lare di neuroni chiamati “neuroni specchio”, la cui caratteristica sarebbe quella di eccitarsi sia quando un soggetto compie una determinata azione, sia quando è un altro a compierla innanzi ai suoi occhi (Rizzolatti, 2006). Secondo alcuni scienziati, inoltre, questa scoperta potrebbe spiegare il fenomeno dell’empatia rivelandone una presunta base biologica, dal momento che le strutture neuronali coinvolte quando noi pro viamo determinate sensazioni ed emozioni sem brano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sen sazioni ed emozioni, consentendoci di cogliere il vissuto altrui solo a distanza, per così dire, e tut tavia in un’immediatezza e vivacità che fanno del vissuto empatico qualcosa di assolutamente diverso da un ragionamento per analogia. Per di più, tale meccanismo speculare sembra at tivarsi anche quando non siamo in condizione di assistere direttamente all’azione compiuta dall’altro, ma ne percepiamo solo i rumori o la semplice descrizione a voce che ci viene data (Kohler; Buccino, Tettamanti, 2005) 16

Un altro autore molto importante anche per il la voro legato al CC è senza dubbio Carl Rogers17 che, tra l’altro, ha evidenziato come questa sia im portante e necessaria nelle relazioni umane. Per lui l’empatia è la capacità di mettersi nei panni al trui soprattutto per quanto riguarda il sentire/per cepire il vissuto emozionale dell’altro. Immedesi marsi nelle emozioni (paura, amore, rabbia, ecc.) dell’altra persona senza giungere ad una completa identificazione, rimanendo adeguatamente pre sente a se stesso e riuscendo a gestire – nel con tempo – le reciproche sensazioni ed emozioni.

16. M. Tettamanti, G. Buccino, M.C. Saccuman et al., Listening to actionrelated sentences activates fronto-parietal motor circuits, Journal of Cogni tive Neuroscience, 17, 273-281, 2005.

17. C.R. Rogers e M. Kinget, Psicoterapia e relazioni umane, Bollati Bor inghieri, Torino 1970.

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Rogers utilizza l’empatia nella comunicazione (verbale e non verbale) per immergersi nel mon do soggettivo altrui, attraverso un’identificazione parziale, in un contesto di accettazione autentica e priva di giudizio. L’empatia, quindi, facilita la comprensione della sfera emozionale dell’altro che viene accettato sotto ogni aspetto ed ogni sentimento (espresso e non espresso) poiché ha una funzione di completa apertura verso l’inter locutore, senza riserve, senza pregiudizi ed allo scopo di ottenere un’evoluzione autentica nella relazione tra due persone. Siamo esseri empatici e possiamo vivere questa condizione ma, osservando ed osservandoci, pos siamo anche notare, come scritto nella premessa, che sta avvenendo una sorta di anestetizzazione empatica. Sembra che quella capacità, che ab biamo visto risulta essere innata, biologicamente presente, si sia un po’ addormentata. Questo è quello che ci viene da pensare quando facciamo fatica a stare dentro la pelle dell’altro o meglio a considerare quello che l’altro sta viven do e a tenerne conto.

Importanza del CC per uno sviluppo empatico

Attraverso la corretta modalità di utilizzo del CC si può diventare competenti nell’ascolto empati co, si possono sperimentare, sempre in un luogo protetto, le emozioni che prova l’altro imparando ad ascoltare per davvero, non solo con le orecchie ma con tutto se stessi. Riconoscere l’altro e considerare quello che si può vivere all’interno di una classe o di un grup po con la capacità di “stare” dentro le dinamiche con competenza, parte da alcune domande fon damentali che possono essere l’incipit di ogni CC.

Quali ruoli ci sono all’interno della mia classe? Dentro il mio gruppo?

Già il riconoscimento dei ruoli consente di prova re a vedere cosa significa rivestirne uno. I parteci panti al CC possono sperimentare di prima mano sia la possibilità di essere un leader che quella di essere un gregario. Attraverso dinamiche specifi che supportate dall’insegnante o dal Conduttore del CC che, lo ricordiamo, deve esserci, essere il regista e la persona adulta che svolge la funzione di autorità che pone in sicurezza tutto il percorso, si può attivare il “gioco delle parti” per aiutarsi reciprocamente nella comprensione del loro si gnificato.

Chi ha costruito quei ruoli?

Anche questa domanda può diventare fondante, difficilmente all’interno delle logiche del gruppo ci si rende conto che una determinata persona può agire in un determinato modo solo se esiste un consenso da parte del gruppo stesso.

Quale spinta induce una persona a giocare quel ruolo?

Qui l’approccio empatico la fa da padrone, ab biamo mai pensato che una persona può indossa re una maschera per sostenere una fatica a essere se stesso? Abbiamo mai pensato che indossare la giacca del prepotente (ad esempio) può svelare una grande fragilità e lo svelarsi potrebbe essere percepito come pericoloso per il riconoscimento nel gruppo?

Come possiamo costruire assieme un clima sereno in classe (nel gruppo) dove poter apprendere (convivere, progettare) insieme?

Anche questa domanda può diventare fondante nel momento in cui si riesce a comprendere che la parola di tutti, il pensiero di tutti, il desiderio di tutti è ugualmente importante, ugualmente inte ressante e tenuto in conto. Solo con il contributo

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Cosolo Marangon e Mauro Pucci

della totalità del gruppo si può pensare di passare ad altre fasi del percorso. Qui l’empatia è quella componente che, assieme all’astensione del giu dizio, ci consente di accogliere l’altro con le sue idee, ed estrapolare le idee per poterle commen tare, senza però mai intaccare la persona.

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Il conflitto nel Consiglio di Cooperazione

impostare i lavori di manutenzione del giardino. Il CC è servito per scegliere la suddivisione dei compiti ascoltando le istanze di tutti e giungendo a un equilibrio che partiva dai desideri e potenzialità di ognuno senza perdere di vista la responsabilità condivisa. In questi casi, conduttori del CC erano alternativamente la mamma o il papà. Se ben impostato, se le regole vengono accettate e condivise, quindi rispettate, il CC diventa un alleato importante per gestire gli ostacoli della comunicazione e della comprensione reciproca, ovvero i conflitti più comuni.

Ma per parlare di conflitto ritengo necessario dare dignità al termine.

È necessario fare un piccolo passaggio di tipo semantico per dare una definizione a questa parola che troppo spesso viene utilizzata a sproposito.

Lo strumento del Consiglio di Cooperazione è oltremodo valido per la gestione dei conflitti. A partire dal contesto in cui un CC viene utilizzato, risulta essere estremamente utile nella gestione delle contrarietà, delle controversie, delle parole che scappano causando non pochi guai.

Come esempio possiamo citare l’ambito scolastico. In una controversia tra alunni all’interno di una classe, il CC consente di trovare i tempi e i modi per analizzare e gestire il problema garantendo quello spazio-tempo adeguato dove le parti si sentono protette dal setting e al contempo sicure di non essere giudicate. C’è spazio per tutti e lo sguardo di ritorno del singolo e del gruppo garantisce l’esplicitazione scevra da incomprensioni o pregiudizi.

Lo stesso vale per l’ambito familiare, o per le comunità (religiose, terapeutiche, residenziali) che lo adottano.

A proposito di famiglie, ne ho conosciute un paio che, avendo più figli di età diverse, hanno adottato il CC per la scelta dei compiti da affidare a ognuno nel governo della casa, portare fuori i cani,

Dare una definizione ci consente di creare quel linguaggio comune e condiviso dove non ci si intoppa al primo passo che è proprio quello comunicativo.

Il conflitto che cos’è?

La lingua italiana non aiuta a fare le necessarie distinzioni. Per conflitto intendiamo guerra, violenza, scontri, lotte e quant’altro ci può passare per la testa.

Il vocabolo conflitto in italiano è una parola colta che riprende il latino conflictŭs derivato dal verbo conflīgĕre, composto di cum, con, e di un raro fligĕre, urtare, sbattere contro. Il prefisso cum stava a indicare che l’urto non era unilaterale, ma coinvolgeva almeno due parti: era cioè anche una lotta, un combattimento o un contrasto, tutti significati che aveva il termine latino e che ancora oggi conserva la nostra parola conflitto. Quando parliamo di conflitto ci riferiamo a una dinamica che si viene a creare tra due o più

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persone che si trovano ad avere una perturbazione nella relazione. Come dire: uno stop temporaneo dentro la logica comunicativa tra due individui. Per questo il conflitto non è nulla di straordinario ma fa parte della quotidianità di ognuno.

In ambito scolastico immaginiamo le miriadi di volte in cui possono esserci dissapori, incomprensioni, silenzi mal digeriti o parole in eccesso, non solo tra gli alunni ovviamente. Se penso alle esperienze di formazione con insegnanti non c’è team che non conosca la conflittualità. Se penso alla vita della classe non c’è giorno dove non avvengano conflitti.

Fa parte della normalità delle cose, il fatto è che spesso non siamo sufficientemente alfabetizzati al conflitto.

Anche la vita in comunità educativa o religiosa è densa di conflitti, è nell’ordine delle cose che ciò accada ma spesso la fatica a so-stare®, a saperci stare al suo interno, crea dei mostri che si trasformano in non detti, in fughe dalla relazione, in dolore.

Alfabetizzare al conflitto

Ognuno di noi di fronte a una situazione perturbata reagisce a partire da quelle che sono le sue abitudini, il suo carattere, le sue possibilità. Spesso però non ci si dà il tempo per considerare quello che sta accadendo e allora anche la gestione del conflitto diventa molto difficile e si preferisce prendere delle scorciatoie per non entrare nella situazione. È pur vero che il conflitto, proprio perché demonizzato dall’idea che si tratti di qualcosa di dannoso e pericoloso, viene evitato anche quando potrebbe essere affrontato. Ho parlato di alfabetizzazione al conflitto perché anche a litigare si impara e lo si fa già da piccoli. Daniele Novara, fondatore del CPP (Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione

dei conflitti) ce lo insegna non solo attraverso i suoi libri, ma anche attraverso il suo metodo che ha lo scopo proprio di imparare a litigare bene. Ma andando per gradi, proviamo a vedere quali sono le modalità che abitualmente vengono messe in atto in situazioni conflittuali. Innanzitutto proviamo a chiederci perché, anche nella quotidianità, non si riesce ad affrontare il conflitto con la dovuta serenità. Tutto arriva dalla nostra infanzia, da come abbiamo imparato a gestire le contrarietà. I nostri genitori sono stati capaci di litigare bene? Ce lo hanno insegnato? Oppure il loro stile era quello di rifiutare il dialogo, il confronto, l’esplicitazione delle opinioni reciproche? Un’alfabetizzazione al conflitto consente di stare dentro una cornice dove si parte dalla possibilità di guardarsi negli occhi e di affrontare la diversità con curiosità e accettazione.

La parola magica: diversità

Il diverso fa spesso paura, non è contemplato nelle nostre abitudini, è un qualcosa di non noto che viene guardato spesso con sospetto. Non occorre lavorare di fantasia per riconoscere questo fatto, lo possiamo declinare in mille modi:

• pensiamo a quando ci propongono un cibo sconosciuto;

• pensiamo a quando ci troviamo di fronte a persone che parlano un’altra lingua o sono di un altro colore;

• pensiamo a chi ha idee politiche diverse dalle nostre.

La diversità spaventa. La diversità è uno degli elementi fondanti del conflitto. Il CC consente prima di tutto di fare i conti con la diversità di ognuno.

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Si parte con il grande concetto di astensione dal giudizio.

Il giudizio, si sa, è automaticamente conflittuale: chi giudica si pone a un livello nettamente superiore all’altro; chi è giudicato si pone a un livello nettamente inferiore all’altro.

Con l’esperienza del CC, o meglio all’interno dell’esperienza, il concetto di giudizio non è di casa. Meglio, il giudizio sull’altro, sulla persona, non ci sta proprio. Se mi trovo in un gruppo e mi viene chiesto di esprimere un’idea e magari immagino che quella mia opinione possa non piacere agli altri perché hanno una scarsa considerazione su di me, difficilmente la esplicito ma, all’interno di un contenitore protetto quale il CC, dove le regole sono chiare e condivise, allora posso osare perché non rischio di essere giudicato come persona. La mia idea potrà non piacere ma non verrò toccato come individuo.

Questo aspetto – che solitamente risulta essere altamente conflittuale all’interno dei gruppi, nelle prese di posizione per raggiungere deter minati obiettivi, nelle discussioni su temi impor tanti – è assolutamente blindato all’interno di un CC e il conflitto viene gestito proprio grazie alla possibilità di sperimentare il non giudizio.

Conflitto non fa rima con violenza

Torno un attimo indietro, all’inizio dicevo che la lingua italiana utilizza il termine conflitto per dire tante cose. Il vocabolario stesso, se andiamo a consultarlo, ci mette una gran confusione in testa. Prendo ad esempio uno dei più noti, l’Istituto Treccani.

Conflitto:

1. Combattimento, guerra, scontro di eserciti. 2. Urto, contrasto, opposizione di interessi.

I termini conflitto e violenza molto di sovente vengono scambiati, confusi, utilizzati come si nonimi. Siamo abituati tutti a sentir parlare di conflitti come sinonimo di guerra che non ci fac ciamo più caso. Questa componente confusiva fa sì che guardiamo ogni conflitto con sospetto e ci mettiamo in atteggiamento di difesa. La maggior parte delle persone tende a sfuggire il conflitto proprio perché ha paura di rompere qualcosa, di perdere qualcosa, di non saper gestire le situazioni. Nel conflitto la componente più importante è senza dubbio quella legata ai suoi aspetti emo tivi, per questo si ha paura del conflitto.

Una distinzione legittima fra conflitto e violenza Daniele Novara18 Violenza Conflitto

Danneggiamento intenzionale dell’avversario di creare un danno irreversibile.

Contrasto, divergenza, opposizione, resistenza critica senza componenti di dannosità irreversibile.

Volontà di risolvere il problema (conflitto) eliminando chi porta il problema stesso.

Intenzione di mantenere il rapporto in vista di possibili cambiamenti.

Area dell’eliminazione relazionale (distruzione).

Area della relazione possibile, anche se faticosa e problematica.

18. D. Novara, La grammatica dei conflitti, Edizioni Sonda, Milano 2011.

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Il conflitto sta dentro la relazione, ci consente di confrontarci, di parlare, di litigare, di fare re sistenza. Nel conflitto ci stanno tutte quelle situ azioni faticose, talvolta dolorose che però hanno ben presente il desiderio di rispettare l’altro, di tenerlo dentro la relazione.

La violenza è una componente che ha la carat teristica di confondere i piani, sovrapponendo la persona al problema. Se nel conflitto la perdona rimane semplicemente portatrice di idee, com portamenti, difficoltà, nel caso della violenza la persona viene identificata con il problema, per tanto per risolvere un conflitto si elimina la per sona. Questo è un atteggiamento che fa la differ enza.

Nelle generazioni di giovani è facile scivolare in comportamenti a matrice violenta perché, se non si riesce a fare la corretta distinzione tra conflitto e violenza, si può considerare anche la rabbia come una manifestazione violenta. Questo aspetto spesso giustifica anche la violenza propriamente detta.

Lavorare sulle emozioni

La rabbia fa paura, la rabbia esplode e fa esplodere, la rabbia ti fa dire: non ce la posso fare. Spacco tutto. Ti incenerisco, ti distruggo, ti tolgo dalla faccia della terra. Spesso adolescenti e bambini si esprimono in questo modo, in realtà sono i primi a spaventarsi della loro stessa rabbia.

La rabbia è contenuta nel conflitto, la rabbia può essere conosciuta e accettata come una forma espressiva che non va silenziata ma che può trovare una giusta collocazione.

La rabbia è un’emozione. Ha origine interiore e personale e carattere estemporaneo, espulsivo di tensioni legate a un senso di inadeguatezza, frust razione, dolore, fatica, indignazione. A differenza

del conflitto, che ha un forte impianto relazionale, la rabbia prescinde da questo tipo di struttura: è un’esperienza aconflittuale, un’occlusione del rapporto stesso. È una misura difensiva di con servazione di sé e preclude la relazione.

La rabbia non va confusa con la violenza, che è un’azione intenzionale volta a recar danno, ma rischia di scivolarci, senza passare per il conflitto, nei suoi tratti di attacco, minaccia, esplosione. Essa differisce anche dall’aggressività, che è una reazione difensiva di fronte a pericoli esterni o percepiti come tali.

La rabbia è simile alla lamentela come ester nazione narcisistica, egocentrica, che si limita all’autocompiacimento e non cerca la relazione. Siamo quindi consapevoli che non vanno confuse rabbia, conflitto, violenza, aggressività. Sono tutti termini che volgarmente vengono mescolati, ma quando si affronta una tematica come la gestione del conflitto, vanno compresi nella loro corretta accezione.

I bambini aggressivi sono violenti?

La parola aggressività torna molto spesso quando si parla di gestione del conflitto, la persona che aggredisce viene spesso catalogata come violenta. Non dobbiamo dimenticare che l’aggressività è una predisposizione del comportamento, una caratteristica congenita o genetica che rende più rapido l’apprendimento di un comportamento. Ambiente e contesto creano il terreno fertile per sviluppare questa predisposizione. Le persone che si comportano in maniera aggressiva spesso non possiedono altri strumenti per gestire le frustrazioni che si trovano a vivere.

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A questo proposito mi piace ricordare un pedia tra italiano, Marcello Bernardi19, molto attento allo sviluppo dei bambini e delle bambine che proprio davanti al grande tema dell’aggressività ha scritto:

L’aggressività è parte integrante della personali tà umana, è un impulso che appartiene a tutti, senza eccezione alcuna. Ma esiste un’aggressivi tà utile, anzi indispensabile, che chiamerò “pro duttiva”, e che non può essere soppressa né lo deve, ed esiste un’aggressività “distruttiva” che invece deve essere eliminata, e che è prodotta essenzialmente dall’adattamento acritico al si stema dominante. È l’adattamento quindi che va combattuto con ogni mezzo, dato che esso costituisce la causa principale, credo l’unica, del la malattia sociale.

La necessaria distinzione tra conflitto e violenza ci porta a dire che è il contesto quello che può determinare comportamenti densi di aggressività, dal momento che può aiutare a sviluppare quelle predisposizioni insite in ognuno di noi. Altresì il contesto può aiutarci a imparare ad accogliere il conflitto come un compito, come una risorsa rigenerante per le nostre relazioni. Si può imparare a gestire il conflitto, si può imparare a so-stare® nel conflitto. Con il termine so-stare® Daniele Novara propone la capacità di saper gestire se stessi all’interno di una relazione conflittuale e allo stesso tempo imparare a sostare dentro questa situazione senza mettere la fretta di voler risolvere al più presto. Affrettarsi nel voler raggiungere la soluzione impedisce di esplorare e sperimentare tutte le variabili che il saper stare nel conflitto produce.

19. M. Bernardi (Rovereto, 18 giugno 1922 – Milano, 8 gennaio 2001). Medico pediatra, è stato docente di Puericultura all’Università di Pavia e di Auxologia all’Università di Brescia. Seguace delle teorie di Winnicott, è stato il referente italiano di quella pedagogia radicale rappresentata negli USA da Ivan Illich (il cui motto era descolarizzare la società) e da Paulo Freire e, storicamente, da Godwin in Inghilterra, da Leone Tolstoj in Russia e da Francisco Ferrer in Spagna, da don Milani in Italia.

Dunque, da un’alfabetizzazione al conflitto alla riflessione sull’importanza della corretta comunicazione al suo interno, si può presto capire come il CC possa essere quello strumento importantissimo atto a creare competenze in questo senso.

Incapacità a comunicare. È questo il nodo cruciale, quello che fa la differenza. Come comunichiamo quando siamo in conflitto? Spesso la situazione scappa di mano, non si riesce a moderare le parole e, come si diceva prima, si tende a fare danni anche inconsapevolmente. Oppure ci si ritira rinunciando a stare dentro una dimensione conflittuale. Spesso, inoltre, con l’idea dell’armonia, si tende a lasciar correre per la buona pace famigliare o lavorativa. Ogni individuo ha un suo particolare modo di affrontare il conflitto e di rimando un suo particolare modo di comunicare il suo essere arrabbiato piuttosto che il suo sentirsi in disagio. Questo “modo” particolare e individuale deriva, per la maggior parte dei casi, da un imprinting ricevuto nell’età infantile, a partire dai modelli di gestione del conflitto visti fin da piccolissimi. Se uno innesca automatismi evitanti piuttosto che fortemente aggressivi, lo deve in buona parte al suo imprinting educativo. In poche parole, da dove deriva l’atteggiamento preciso di gestione di una situazione? Molto dipende da quello che si è visto fare o che ci è stato fatto. Si parla di veri e propri stili educativi nella gestione del conflitto.

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Saper comunicare è alla base della gestione competente del conflitto

Proviamo a scorrerli brevemente:

Stile dimissivo Stile autoritario Stile negoziale/ collaborativo

Si presenta come un movimento di fuga e di rinuncia. Spesso sfocia nell’arrendevolezza, se non nella debolezza e nella sconfitta. Determina una rinuncia alla relazione e alle sue fatiche.

Questo stile è sotto il segno della vittoria a ogni costo: “O con le buone o con le cattive”, “gli adulti hanno sempre ragione”... Si tratta di uno stile ereditato dal passato che, se ha rinunciato alla violenza fisica, utilizza i ricatti e le minacce di abbandono affettivo.

È uno stile che si manifesta in tanti modi diversi, tutti accomunati dalla opzione relazionale, che prevede flessibilità e capacità di adeguamento, pur mantenendo la fermezza necessaria che lo differenzia dallo stile dimissivo. È centrato sul benessere reciproco.

Si tratta di corretta ed efficace comunicazione! Ed ecco che subentra l’importanza di uno strumento come il CC.

Per utilizzare il CC si passa dalla definizione di conflitto e dallo specificare che la diversità è una risorsa, la diversità è una ricchezza e ognuno di noi in quanto essere umano è diverso dagli altri. Facendo queste premesse, ponendo come base il rispetto della persona, il rispetto delle idee, si può arrivare a provare a gestire le controversie senza per questo intaccare la dignità dell’altro.

Gestire i conflitti con il CC

Ognuno di questi stili può essere prevalente nella nostra modalità di gestione della conflit tualità. L’attivazione di questi stili non sempre è consapevole; proprio perché ce li portiamo ad dosso dall’infanzia, possono costituire veri e pro pri automatismi, partire cioè senza che noi ce l’aspettiamo. L’evidenza appare nel momento in cui ci troviamo in netta difficoltà, in quelle situazioni di vero e proprio “allagamento emozionale” come spesso accade in momenti conflittuali. Come reagiamo? O meglio, la nostra è un’azione cons apevole o non piuttosto una reazione?

La differenza sta proprio qui: nella capacità di non rispondere ad uno stimolo con una reazione. Ad uno stimolo dato dovrebbe corrispondere una scelta consapevole, una risposta ponderata.

La caratteristica del CC è quella di creare uno spazio delimitato dove si pone la questione che sta a cuore. Può essere una questione personale o riguardante tutto il gruppo, la classe, la comunità. I partecipanti al grande cerchio, prossemica caratteristica per svolgere il Consiglio, si mettono nell’ottica non giudicante e questo, come abbiamo visto, diventa una conditio sine qua non per partecipare allo svolgimento del Consiglio stesso. Attivando la comunicazione attiva dove la parola dell’altro è importante tanto quanto la mia, dove l’ascolto dell’altro è fondamentale per poter essere a nostra volta ascoltati, si pone al centro ideale del cerchio il tema da affrontare. Ognuno può esprimersi alla ricerca di ipotesi realistiche e il più possibile efficaci per sbrogliare i nodi che vengono presentati.

Si fa un’azione per tentativi ed errori, il conflitto viene esplorato, viene oggettivato e ognuno può esprimere sia il suo sentire nei confronti di quanto proposto sia, in un secondo momento, proporre le possibili piste di soluzione.

Si va, dicevo, per tentativi ed errori perché la gestione della conflittualità prevede un’adesione piena da parte dei partecipanti e la possibilità, il desiderio di mettersi in gioco.

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Si attiva una modalità maieutica dove le risorse di ciascuno diventano patrimonio del gruppo. Ognuno è parimenti importante, ognuno può provare a pensare a piste da seguire, ognuno può proporre ed essere in grado di aiutare e al contempo essere aiutato.

Gestire il conflitto significa aprire in prima bat tuta orizzonti nuovi per esplorare l’accaduto. Lo sguardo di terze persone può aprire nuove pros pettive, può aiutare a cogliere aspetti che pos sono rivelarsi inediti, può aiutare ad uscire da un loop emotivo e vagliare strade non viste.

La forza del CC sta proprio nella possibilità di provare a mettere in pratica la soluzione proposta. Si ha un tempo per sperimentare, se non dovesse funzionare nessuno si spaventa, si prova un’altra pista, si valuta che cosa è andato a buon fine e che cosa invece è stato di intoppo. Nell’esplicitazione di tutti i passaggi la parte emotiva viene accolta profondamente; nessuno rimane solo con il suo problema, nessuno si sente incompetente a risolvere le questioni. Il gruppo garantisce da un lato nuove e inedite risorse e dall’altro la possibilità di sbagliare. L’assenza di giudizio consegna maggiore coraggio a sperimentare, a esprimere quelle parti di sé che solitamente vengono tenute celate per paura.

La grande risorsa del gruppo consente il confronto, lo scambio di opinioni, una modalità di gestione che, pur ponendo le basi sul versante degli apprendimenti cooperativi, permette al singolo in prima persona di valorizzare se stesso e gli altri.

Il conflitto, viene sottolineato all’interno dello strumento, è un’occasione di crescita e di svilup po di abilità e capacità.

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Si rimane sempre affascinati osservando un acquario: un microcosmo in cui diversi organismi concorrono a creare bellezza per gli occhi di un bambino, di un anziano. Un microcosmo che richiede prendersi cura delle creature che lo popolano.

L’immagine dell’acquario fornisce al nostro sguardo e alla nostra riflessione la bellezza e il fascino dell’elemento, uniti alla complessità che ne regola la vita e che si regge su un equilibrio che può sfociare in conflitto, lotta per la sopravvivenza, se non riceve la necessaria attenzione e manutenzione: metafora evidente delle relazioni umane nei vari contesti di vita e di gruppo. Il Consiglio di Cooperazione è il gesto di cura proposto: per rinnovare l’attenzione sulla pedagogia cooperativa e creare consapevolezza sul tema della cooperazione e della collaborazione tra pari. Questo manuale ha il pregio di aver portato oltre le mura scolastiche uno straordinario strumento educativo: giovani educatori, oltre ai più navigati, vi potranno trovare tutto quello che serve per sperimentare questo metodo, ma anche tutti coloro che vogliano approcciarsi alla risoluzione dei problemi nel rispetto reciproco, nella consapevolezza che le competenze sociali e relazionali, la capacità di conoscere se stessi e di ascoltare l’altro, sono alla base della convivenza pacifica e democratica. Se ce l’hanno fatta i pesci a trovare un modo per convivere che sia accettabile per tutti, ce la faranno anche le persone quando sono costrette a stare con chi non hanno scelto come compagni di viaggio? Si può, con un’incrollabile fiducia verso la capacità delle persone di cambiare in meglio le relazioni tra loro.

Paola Cosolo Marangon è formatrice e consulente educativa, fa parte dello staff del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Piacenza (CPP). Giornalista di settore, è vicedirettrice della rivista “Conflitti. Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica”. Insegnante Yoga è autrice di molti testi pedagogici e di narrativa. Ricordiamo tra tutti Fai della natura la tua maestra (Erickson, 2018), La casa lungo la ferrovia (Edizioni Europa, 2019), Storia di Rosa (Forum, 2020), E non mi chiami signora bella! (edizioni la meridiana, 2021).

Mauro Pucci, 1957, educatore professionale, lavora in Svizzera. Dal 2013 insegna Fun zioni educative e strumenti nel Corso integrato di Metodi e Tecniche agli studenti del terzo anno del Corso di Laurea in Educazione professionale dell’Università degli Studi dell’Insubria a Varese, dove vive. Con il CPP ha approfondito la sua formazione nella gestione dei conflitti e ha scritto diversi articoli per la rivista “Conflitti. Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica”. È socio ANEP.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro 16,50 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-936-5

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