DAD Dove Andiamo Da soli? Una straordinaria esperienza di didattica a distanza

Page 1

ISBN 978-88-6153-817-7

Euro 14,50 (I.i.)

Tonino Stornaiuolo

nel 1986 ed è un maestro di scuola primaria, educatore e teatrante. Maestro presso la scuola “Dalla parte dei bambini” ed educatore responsabile d’area al “Centro Territoriale Mammut”, ha preso parte, tra gli altri, ai progetti “Arrevuoto” e “Punta Corsara”. In teatro, con il gruppo Punta Corsara, ha vinto i premi “Ubu under 35” nel 2012 e “Premio Hystrio” nel 2010. È redattore delle riviste “L’ A. Pe” e “Il Barrito dei Piccoli”. Nei giorni del secondo lockdown ha creato la DAB (Didattica Ai Balconi) andando in giro per le strade di Napoli sotto le case dei suoi alunni.

TONINO STORNAIUOLO

DAD

Dove Andiamo Da soli? Una straordinaria

DAD - DOVE ANDIAMO DA SOLI?

Tonino Stornaiuolo, è nato a Napoli

A marzo 2020 la Scuola, finita in un computer, anzi nei tanti computer dai quali bambini e bambine hanno cominciato a collegarsi per fare lezione con i loro insegnanti, si è azzerata nei suoi modi e nei suoi tempi. Eppure si è salvata: come da sempre accade, ciò è stato possibile quando un insegnante ha sognato e fatto scuola con i suoi alunni inventando modi e tempi diversi. Questo libro racconta la straordinaria esperienza delle classi IV della scuola “Dalla parte dei bambini” di Napoli, in cui un insegnante ha abbattuto i muri virtuali della rete e quelli reali della scuola portando la didattica su un altro livello: quello dell’immaginazione. Se la necessità di restare e fare scuola da casa impediva a tutti di spostarsi, restava però possibile sognare e immaginare di viaggiare con la fantasia. Solo così la DAD, per questi alunni, non ha significato Didattica A Distanza, ma, al contrario, la conferma che in ogni Dove è bello non Andare Da soli, perché l’avventura e la scoperta sono esperienze da condividere e fare insieme.

esperienza di didattica a distanza


Tonino Stornaiuolo

DAD

Dove Andiamo Da soli?

Prefazione di Marco Martinelli Introduzione di Giovanni Zoppoli


INDICE

Prefazione di Marco Martinelli

9

Introduzione di Giovanni Zoppoli 13 Dove andiamo da soli? Vediamo cosa ci aspetta Un atipico giornale murale Vacanze di Pasqua La famiglia è parte della scuola E la didattica e i programmi? E se andassimo sulla Luna?

17 23 29 35 43 47 49

Ringraziamenti 101



PREFAZIONE di Marco Martinelli

Fin dall’inizio, fin dai primi giorni, Tonino era l’uomo-squadra. Che poi uomo non lo era ancora, era un ragazzino come tutti gli altri, in mezzo a quel centinaio di adolescenti di Arrevuoto. Si provava la Pace di Aristofane: era il 2005, era appena finita la guerra per bande, tra i Di Lauro e gli Spagnoli, e Scampia era un territorio insanguinato, un morto ogni due giorni, gli elicotteri sopra le Vele. Chiamato dal Teatro Mercadante di Napoli per provare lì il metodo della non-scuola, che così tanti frutti aveva dato nella pacifica Ravenna, affiancato da sapienti guide indigene come Maurizio Braucci e i Chi rom e... chi no, mi trovai in mezzo a un battaglione di bambini e bambine, ragazzine e ragazzini, tutti scatenati, tutti con una rabbia vitale dentro di sé, a contrastare la morte, l’assurdità della loro condizione, lo sgomento di una vita senza apparente futuro. I primi tempi furono assai difficili: la mia fede era incrollabile, ma più che altro la mia voce, nel trambusto, faticavo anch’io a sentirla. Mi rassicurava il fatto che quel terremoto di corpi, di urla, era soltanto l’emergere di una lava profonda: se il vulcano eruttava, c’erano mille ragioni a spiegarlo. E non era certo responsabilità di quei cuccioli d’uomo. Quella lava bruciava, sembrava in grado di stroncare i migliori propositi, ma si mostrava anche di una tenerezza infinita: ovviamente non bisognava assumere la posa del regista, ma, secondo i dettami della non-scuola, lasciarsi andare all’incontro con l’altro, disarmato, creatura tra le creature, farsi attraversare dalla bellezza di un incontro non preordinato, sorprendente. 9


Non importa quanti anni hai più di loro, quanta esperienza del palco: potrai essere la loro guida se ti lascerai guidare dai loro sbandamenti. Se con pazienza saprai ascoltarli, fino allo sfinimento: così eviterai la fine. E in quel tuo stare lì, sorridente, testardo, a cercare un nuovo inizio, li sorprenderai a tua volta. In quel ribollire di energie, Tonino era il mio capitan Zanetti. Ovvio che avrebbe preferito un altro paragone: entrambi amanti del calcio, non amiamo certo la stessa squadra. Interista e nerazzurro il sottoscritto, napoletano viscerale quindi azzurro integrale Tonino, tanto da – sospetto – chiamare Azzurra la sua splendida bambina. L’azzurro del cielo, è il colore che condividiamo da allora. Javier Zanetti è stato una bandiera dell’Inter, un uomo-squadra appunto: uno di quei giocatori che sono amati anche dai tifosi avversari, tanto sono capaci di incarnare i valori fondamentali dello sport: lealtà, sguardo diritto, abnegazione, tenacia, correndo fino allo sfinimento, sentire e far sentire che si vince e si perde insieme. Che non ci sono scorciatoie. Che il calcio non è per i furbetti. Che non per fare una battuta, Albert Camus lo definiva “una scuola di vita”. Fin dal primo giorno di prove al Gridas, Tonino incarnava quel sentimento irriducibile. Con mitezza. Fin dal primo giorno ho capito che potevo affidarmi a lui, che avrebbe saputo farsi medium della rabbia di tanti suoi compagni, e trasformarla in meraviglia scenica. Che sia diventato maestro, che come maestro abbia saputo far tesoro della nostra esperienza teatrale, di quel rovesciamento di gerarchie che il progetto di Arrevuoto custodiva nel suo titolo, era un destino scritto, scritto nella sua pazienza impaziente, paziente verso i suoi piccoli, impaziente verso le storture del mondo, verso le tante pestilenze che ci affliggono – e il coronavirus non è che l’ultima arrivata – che ci sconfortano, che ci piegano le gambe talvolta, affaticandoci oltre modo, ma non la schiena, non la nostra volontà di camminare eretti, e testimoniarla con le nostre azioni. E questo appunto sono le dense pagine che 10


Tonino ha raccolto in questo libro: una testimonianza. Testimoniano che ancora si può dare senso al fare scuola, memori delle lezioni di don Milani e Freire, ricche come sono della capacità di Tonino Stornaiuolo di farsi medium, un tempo sulla scena, oggi in classe, canale creativo della lava incandescente, dionisiaca, incarnata dalle sue piccole guide, da lui sapientemente guidate: sfogliatelo, è un libro corale, consapevole che il coro – se ben interpretato – non annulla, ma esalta il singolo, basta un’occhiata per vedere quante voci raccoglie, quante parole, quanti volti e profili, quante vite: Mariano e Davide e Sofia e Giada e tanti altri nomi, e ogni nome è un romanzo. Ma essere medium, mediatore, non significa essere passivi, accogliendo e semplicemente sommando quello che i bambini ci donano: leggetelo, è un libro che racconta le diverse “invenzioni” della guida Tonino, la sua capacità di prendere e trasformare la ricchezza dei suoi piccoli, i loro sogni, i desideri, le paure, perché per essere uomo-squadra bisogna prima di tutto saper tenere la palla tra i piedi. E, quando è il momento, saperla scagliare oltre le nuvole.

11


INTRODUZIONE di Giovanni Zoppoli

Ognuno ha le sue fissazioni. In questo momento mi accorgo che la mia attenzione è molto spesso catturata da quei piccoli esserini chiamati “ape”. Tra i motivi della fascinazione il fatto che da molti anni gli scienziati si arrovellino sul come possa volare un corpo che secondo le leggi della fisica non sarebbe idoneo a farlo. Ogni tanto qualche nuova teoria cerca di addurre spiegazioni convincenti, ma sempre lei, l’ape, continua a volare fregandosene di qualsiasi legge dei superbi umani. “Un bambino appena nato sa nuotare benissimo, eppure non ha mai studiato le leggi della fisica, né ha avuto il tempo di prendere lezioni da un istruttore di nuoto” soleva ricordarci Mario Mastropaolo, psicoterapeuta e docente universitario. La vita di un maestro (ma probabilmente lo è anche quella di ogni altro essere umano) è fatta di questi “misteri”, è densa di stati di eccezionalità che si distanziano dalla “norma”, è costellata di episodi che non corrispondono e non potranno mai corrispondere a quelli che leggiamo su un manuale di psicologia o su un libro di scienze, essendo il mondo dei maestri abitato da comportamenti che con quello che la gente e i media usano definire “normale” non hanno molto a che vedere. È forse anche per una sorta di istinto di sopravvivenza che i maestri finiscono troppo spesso per adattarsi alla visione prevalente e per “vedere normale” anche loro, anche a costo di contraddire quanto i loro stessi sensi (i cinque di dotazione più il sesto tanto discusso) gli 13


suggerirebbero. Ed è allora che probabilmente un maestro finisce di essere maestro: nel momento in cui decide che è troppo, che è arrivato il momento di mettere a tacere emozioni e imprevedibilità: è là che si esaurisce progressivamente la sua linfa vitale, estinguendosi la sua funzione in quella di mero attuatore di programmi e direttive da protocollo. Tonino maestro lo è diventato perché da ragazzo ha fatto un altro tipo di scelta. In realtà per me costituisce lui stesso un mistero. Insieme abbiamo avuto a che fare con i gruppi più diversi, da quelli composti dagli abitanti bambini delle Vele di Scampia, dei campi rom e di altre periferie italiane, ai bambini della città “borghese”, con adulti (docenti, genitori e altre categorie affini)… in aula, in auditorium e palestre (con un’acustica che più terribile non si può), nei parchi pubblici, nei teatri, in ville ottocentesche e castelli medioevali, per strada e nelle piazze del Sud, del Centro e del Nord Italia, addirittura in DAD… e con gruppi composti da cinque come da 300 bambini, ma sempre, immancabilmente, con uno stesso effetto: persone incantate, calamitate ad ascoltare le peripezie di Giove, Ulisse, Chirone, Demetra, Persefone e degli dèi che ci hanno accompagnato in questi tanti e ricchissimi anni insieme. La meraviglia e l’attenzione che hanno accompagnato tanta varietà umana in queste narrazioni per me è un mistero. Intendiamoci, Tonino ha studiato e faticato parecchio per diventare il narratore che è e come racconterà lui stesso in questo libro, ha avuto la capacità e la fortuna di potersi affidare a quanto di meglio c’è oggi rispetto al mondo del teatro. Ma a fare la differenza c’è quel qualcosa in più che non deriva da meriti e da fortune umane, ma che ha a che fare con doti che si hanno o non si hanno. Suo merito in questo caso è di aver avuto il coraggio di rischiare, di essere disposto a sacrificare la “ragione” per permettere a queste doti di fare il proprio lavoro nel mondo. Tonino, come tutti noi che siamo suoi compagni, ha avuto un’altra fortuna – o merito, come dir si voglia – quella di aver capito che da soli è molto difficile, se non impossibile, 14


continuare a rimanere in contatto con l’anormalità del quotidiano, ovvero con la realtà. Anche in questo caso c’era da fare una scelta: assecondare la propria grandiosità, l’impeto narcisistico che spinge ciascuno di noi a dire “sono io il vate”, “questo l’ho fatto io”, “questo l’ho pensato io”, con la conseguente perenne ricerca di like (reali o virtuali), di approvazione e riconoscimento “personali,” oppure nuotare nella direzione del gruppo. Gruppo di pari di cui sentirsi parte, comunità di donne e uomini che hanno problemi, tensioni, pensieri con cui completarsi, con cui sentirsi davvero in compagnia e non più soli, folli (ma follinsieme, che è meraviglioso), sconosciuti, in lotta rancorosa contro i mulini a vento. Gruppo di cui fanno parte anche tutti quelli che non ci sono più (qualcosa di simile a quella che alcuni autori chiamavano la “convivialità dei vivi e dei morti”) o che sono in un’altra parte del mondo e che magari non abbiamo conosciuto e non conosceremo mai personalmente. A loro come a noi sono venuti a far visita pensieri e idee che hanno preso forma e struttura e sono riuscite a farsi azione, possibilità effettive di crescita e cambiamento per territori e individui di ogni dove e di ogni tempo. Pensieri e idee che un tempo andarono a far visita ad altri e che sempre continueranno ad impollinare chi trova il coraggio di mostrare il proprio fiore; idee e pensieri a cui rinunciare quindi di appropriarsi e sventolare come propria esclusiva. Il gruppo di cui sentirsi parte finisce per essere così immancabilmente l’umanità (termine riduttivo, perché il vero gruppo di cui sentirsi parte sappiamo tutti che comprende ogni altro essere di questo cosmo: altri animali, piante e così via). Consapevolezza che fa da sfondo a tutti gli altri gruppi, fino a quello più stretto, composto dalle persone con cui stiamo cercando di far prendere forma a quelle idee e a quei pensieri. Roberto Papetti, altro nostro importante maestro, diceva che a chi pratica il nostro mestiere tocca imparare a “bottinare” nel miglior modo possibile. Bottinare è vocabolo che ha una qualche assonanza con “rubare”, ma che si 15


differenzia in maniera sostanziale da quel significato perché risponde all’imperativo morale di dare riconoscimento a “colui” e a “coloro” da cui abbiamo preso quelle ispirazioni. È la nostra ape a fornirci ancora una volta la metafora più eloquente (metafora tra l’altro che resta una delle più utilizzate nel campo del sapere e dell’educazione): il mestiere di maestro è un po’ come il suo, andare a prendere il polline (e accidentalmente ad impollinare) perché attraverso la nostra digestione quel polline diventi “miele”, nettare degli “dei”. Inutile dilungarsi sul fatto che nel caso del nostro insetto la vita dell’alveare costituisce la motivazione e il fine ultimo dell’intero processo. Nel libro di Tonino Stornaiuolo troverete molte tracce di chi ha fatto queste scelte e dei frutti che hanno portato. Prova ulteriore di quanto unica vera modalità per dare attuazione a normative, manuali teorici, pontificazioni di pedagogisti e di cattedratici di grido, sia sperimentare in prima persona determinate modalità di vita, nella scoperta permanente di quanto impareggiabilmente potente e ricco di doni possa essere il lavoro cooperativo e la libera ricerca. Sono felice che dopo tanti anni, ora più che mai, continui a far parte assieme a Tonino di un gruppo che guarda all’ape per imparare a volare, pur sapendo che l’ape non potrebbe volare e che men che meno potremmo riuscirci noi umani. Eppure in tanti momenti, e tra questi le narrazioni mitiche di Tonino, noi abbiamo volato.

16


DOVE ANDIAMO DA SOLI?

Mercoledì 4 marzo Eravamo tornati da qualche giorno, dopo la settimana in cui si erano fermate le attività didattiche causa emergenza Covid. Erano pochi i bambini, l’aria di paura e tensione che al Nord Italia incombeva pesante, iniziava ad arrivare anche da noi, in Corso Vittorio Emanuele, trasportata dal vento, si avvicinava a passo svelto, avrà forse preso il treno o l’autostrada, si dice che non abbia pagato né casello né biglietto e scendendo infine dalle scale della Pedamentina e del Petraio, è arrivata a scuola. La si sentiva forte nell’odore di Amuchina nelle aule, dagli spray igienizzanti che i bambini avevano affiancato alle loro borracce sui banchi, dalle parole dei genitori tranquille e rassicuranti ma con gli occhi spaventati. La giornata trascorreva come le altre, il mercoledì è il giorno in cui esco prima, alle 13.00. Alle 10.00 andiamo in giardino con i bambini per fare merenda, giocare e lasciare un po’ andare le prime lezioni mattutine per accogliere le successive. C’è un fermento insolito tra i corridoi e per le scale mentre scendiamo, colleghi e personale della scuola sono tutti più agitati e cercano le ultime notizie. Non capisco bene cosa stia accadendo, provo a chiedere una volta arrivati in giardino, ma non ho neanche il tempo di parlare con la mia collega e amica Rossella, che Davide, Lucia ed Eleonora mi tirano e mi portano da parte perché devono raccontarmi una cosa molto importante. Rientriamo in classe dopo un po’, i tre mi avevano raccontato di fidanzamenti e matrimo17


ni in classe. Adoro il modo in cui vivono l’amore i bambini: si fidanzano ogni giorno, si “sposano” tre volte a settimana con grandi feste nel giardino della scuola, si regalano fiori, si scrivono infiniti bigliettini, piangono tanto quando si lasciano e si siedono vicini quando fanno pace. E tutto questo lo fanno nella più totale semplicità, spensieratezza e autenticità, quella che poi perdiamo negli anni. Mentre eravamo immersi in uno dei nostri cerchi e ci confrontavamo su perché all’interno della stessa fascia climatica ci siano poi situazioni completamente diverse, tra i corridoi il fermento aumentava sempre più, continuavano a passare e spassare persone. Si fa ora di pranzo, accompagno i bambini giù in mensa e recupero il mio zaino dalla classe per tornare a casa. Nei corridoi mi ferma Sandra, una dello staff di segreteria della scuola e mi dice che pare sia certo che la scuola chiuda già dal giorno dopo per almeno 15 giorni. Il fermento che sentivo era questo: giornali, tv, siti d’informazione avevano praticamente detto all’unanimità che il governo aveva ormai deciso, mancava solo l’annuncio ufficiale. Incontro la mia collega di matematica Stella, ci confrontiamo sulla situazione e decidiamo di dare ai bambini quaderni e libri da portare a casa, perché 15 giorni sarebbero stati tanti lontani da scuola. Nel frattempo i bambini escono dalla mensa e vanno in giardino, io li attendo in classe e cerco di recuperare più materiale possibile. Quando ritornano in aula sono sorpresi di vedermi lì, del resto la mia giornata sarebbe dovuta finire da un’ora. Gli chiedo di prendersi tutti i libri e i quaderni, non posso ancora dirgli il motivo perché di certo non c’è ancora nulla ed infatti loro mi guardano senza capire. “Perché portarsi tutti i libri e i quaderni a casa? Non ci hai mai dato tutti questi compiti! Ma tu assegni solo per il fine settimana. Ma ci stai facendo uno dei tuoi scherzi?” Provo ad inventarmi varie cose sul momento, ma sono tutte vaghe e poco credibili, ed infatti loro che mi conoscono bene mi dicono che c’è qualcosa che non gli posso dire. 18


Li saluto e vado via, inizio il mio piccolo viaggio quotidiano casa-lavoro, lavoro-casa. Chiaiano-Corso Vittorio Emanuele andata e ritorno. Prendo la funicolare e arrivo al Vomero. La notizia della chiusura delle scuole ha allarmato ancora di più le persone. Anche i ragazzi, che solitamente avrebbero esultato come un goal di Mertens alla notizia, discutono tra loro animatamente. Prendo la metro, passa come sempre con qualche minuto di ritardo, nei vagoni molte persone indossano la mascherina, da un po’ la gente aveva iniziato ad usarla. Arriviamo alla fermata dei Colli Aminei, due fermate da casa mia. La metro arriva in stazione e si ferma per un po’, la gente inizia ad agitarsi. Dopo cinque/sei minuti di attesa annunciano che la circolazione è temporaneamente sospesa su tutta la tratta. Alcune persone si agitano ancor di più, corrono e scappano fuori dalla metro. La paura ha preso oramai possesso della gente. Esco dalla stazione e mi tocca tornare a piedi a casa. Circa 30 minuti di cammino in cui ascolto musica, inizio a pensare a cosa fare nei prossimi 15 giorni con i bambini senza scuola. Non sarebbero stati poi 15 giorni. Non avrei preso la metro, né visto bambini e aule per i successivi 3 mesi. Giovedì 5 e venerdì 6 marzo Il giorno dopo siamo tutti a casa, tra gli speciali dei tg, le notizie da Codogno, la ricerca del “paziente 1” e mia figlia Azzurra che dalla saggezza dei suoi 3 anni mi chiede costantemente di andare a scuola “Papà ma oggi non piove, non è allerta meteo, perché allora non mi porti a scuola? E perché non andate neanche tu e mamma?”. Giochiamo ai mattoncini e tra una torre e l’altra che cadono e si ricostruiscono, io e Claudia la mia compagna, proviamo a spiegargli che in giro per le strade si sta aggirando un virus, che è come una piccola pallina che vuole colpire le persone, che dobbiamo essere bravi a non farci beccare altrimenti potremmo avere 19


una febbre molto grande. Lei sembra crederci, seppur ci dice che siamo stupidi a non uscire, basta che quando arriva la “pallina rossa”, così lei ha deciso di chiamarla, ci spostiamo e la evitiamo. Sorridiamo e continuiamo a giocare con i mattoncini colorati. Nel frattempo iniziano una lunga serie di telefonate tra colleghi, direzione, segreteria e genitori. Decidiamo che già il giorno dopo, il venerdì, ci saremmo visti, a piccoli gruppi e distanziati, per capire come affrontare i giorni che ci attendevano, percependo già chiaramente che non sarebbero stati solo 15. La mattina dopo ci ritroviamo tutti alla “Foqus”, una delle sedi della nostra scuola “Dalla parte dei bambini”, un antico palazzo meraviglioso nel cuore dei Quartieri Spagnoli, con una enorme corte all’aperto dove possiamo incontraci tutti senza essere troppo vicini. Ci diamo delle linee guida generali per tutti, poi ogni modulo si riunisce in sottogruppo e decide come portare avanti il proprio lavoro. È difficile programmare in una situazione del genere, non sappiamo neanche da dove cominciare. La nostra scuola si basa sulla pedagogia della scuola attiva, ha riferimenti fondamentali in Freinet, Dewey, Freire, don Milani, nel MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) ed in tutte quelle pratiche del fare, dello sperimentare insieme e del costruire sapere comune. Come possiamo noi, che per scelta non usiamo la lavagna LIM, che lavoriamo sul contatto e non sulla distanza, che ci sediamo in cerchio per terra o andiamo in giro per la città, proporre agli alunni una didattica a distanza tra pc e connessioni remote? Capiamo che ci aspettano davvero giorni difficili, riordiniamo un po’ di idee e decidiamo di partire già dal lunedì successivo facendo dei piccoli video registrati e inviati ai bambini e di organizzarci in gruppi per telefonare a tutti almeno una volta al giorno. Ci salutiamo sapendo che ci saremmo visti chissà dopo quanto, consapevoli che la distanza non avrebbe per niente aiutato il nostro modo di lavorare, che avremmo lavorato 20


molto di più e probabilmente con meno risultati. Ma la situazione ci imponeva questo. Il Covid-19 ci aveva imposto di stare lontani, di non toccarsi con gli altri, di non darsi la mano per superare il guado del fiume. Avevamo davanti qualcosa di ignoto che non ci piaceva, che non avevamo scelto, che ci ha totalmente spiazzati. E allora dovevamo partire da lì. Da quello spiazzamento che proviamo a creare ai bambini in classe, da quello spiazzamento che spesso i bambini creano a noi e ci portano in lezioni sconosciute e non preparate che poi diventano le più belle e coinvolgenti per i maestri e le maestre. Negli ultimi anni ho spesso sentito questa parola ripetere tante volte. Bisogna creare spiazzamento nei bambini e lasciare spazio per farsi spiazzare. E questa parola mi riporta subito alla mia passione calcistica, quanto è importante spiazzare il portiere per essere certi di far goal. Penso sempre all’immagine del calcio di rigore: per segnare devi cercare di spiazzare il portiere, per quanto lui ti conosca e ti abbia studiato, devi trovare il modo di spiazzarlo. E i portieri bravi, così come i bambini che ne sanno sempre più di noi, sono difficili da spiazzare con una certa facilità. Colui che tira il rigore e che deve spiazzare, non deve però essere sempre e solo il maestro o la maestra, ma bisogna che il rigore lo calcino tutti, anche gli alunni, mettendoci noi in porta pronti ad essere spiazzati. Rende il gioco più avvincente. Adoro e mi diverto tantissimo quando succede a me. Sono gli incontri in classe più belli quelli. Quelle volte in cui ti sei magari preparato una lezione per te perfetta, bellissima, con tanto di cose varie portate da casa. E poi arrivi in classe e appena parti con le suggestioni per portare i bambini al punto che vuoi, loro se ne escono con cose che tu non avevi previsto, la lezione prende un’altra strada, a me sconosciuta, in cui per lunghi tratti sono loro a guidare e io li seguo con gli occhi svegli e con la voglia di conoscere e sapere dove mi stanno portando. Che poi spesso non lo sanno neanche loro. Ci addentriamo in strade oscure a 21


tutti, da cui poi ne usciamo sempre con un sapere comune potentissimo, in cui ridiamo tanto, ci fermiamo a ragionare a lungo su alcune parole, ci confrontiamo duramente su argomenti su cui siamo in disaccordo. Sono i momenti per me tra i più elevati del mio fare scuola. Quelli in cui siamo tutti maestri e tutti apprendisti. Ci scambiamo di ruolo continuamente come in un gioco di teatro, anch’esso tanto caro al nostro modo di fare scuola. E per nostro intendo il gruppo classe, un “nostro” dove siamo tutti dentro. Mi piace non parlare mai di “io e loro”, mi sforzo tantissimo nel non dire “i miei bambini, la mia classe” seppur spesso esce naturale. Provo sempre a usare un “noi” che ci comprenda tutti. Tanti piccoli “io” che formano l’essere la forza del “noi”. “Noi” ci divertiamo, giochiamo, proviamo ad imparare l’uno dall’altro. Apprendisti e maestri in un continuo scambio di ruolo. Perché come mi ripete spesso uno dei miei più grandi maestri da cui tanto ho preso e continuo a prendere, Giovanni Zoppoli, “Non esistono grandi maestri, ma superbi apprendisti”.

22


VEDIAMO COSA CI ASPETTA

Lunedì 9 marzo Nell’ultimo incontro avuto con il mio modulo ci eravamo dati alcune indicazioni generali, dicendoci di provare a iniziare e poi capire man mano dove ci portava il percorso. Avevamo deciso di iniziare con le telefonate, ognuno di noi chiamava circa dieci bambini al giorno, così che tutti sarebbero stati raggiunti telefonicamente e ogni giorno ci scambiavamo il gruppo da chiamare per poter parlare con tutti. Nelle telefonate dei giorni iniziali sentivo bambini felici perché la scuola era chiusa, ma allo stesso tempo la maggior parte di loro mi raccontava di essere preoccupata perché non riusciva a capire bene cosa stesse accadendo, sapevano solo che non si poteva uscire e che i loro genitori non erano affatto tranquilli. Discutevamo in quelle telefonate di come andavano le loro giornate, mi raccontavano piccoli aneddoti casalinghi e mi chiedevano sempre io che stessi facendo. Alcune chiamate duravano pochissimi minuti, si percepiva che erano in difficoltà oppure presi da altro e volevano subito staccare, altre duravano anche mezz’ora piena. Nel frattempo, avendo i nostri numeri di telefono, i bambini potevano contattarci in qualsiasi momento anche su WhatsApp, dove arrivavano audio continui e videochiamate a qualsiasi ora. Per loro sembrava importante poterci vedere anche solo attraverso un video e mostrarci le loro case, avere quella intimità apparente, perché attraverso un video è solo apparente e piatta, che in classe abbiamo costruito profondamente in questi quattro anni grazie ai nostri rac23


conti condivisi del lunedì, dove abbiamo la prassi di iniziare la settimana con un cerchio dove ognuno ci racconta qualsiasi cosa gli vada di condividere con il gruppo, e soprattutto quell’intimità e complicità che nasce con profonde radici nella settimana in cui partiamo per il campo scuola. Ogni anno, nel mese di maggio, partiamo per cinque giorni, maestri e bambini. Una settimana che i bambini aspettano ogni anno come il momento più bello e vissuto, le notti con loro, i canti intorno al fuoco, le narrazioni serali e le lunghe passeggiate nei boschi. Anche per me, proprio come per i bambini, è quello il momento più intenso ed emotivo dell’anno, il momento in cui non ci sono programmi, compiti, libri, lavagne, maestre e alunni, ma solo adulti e bambini che condividono insieme 24 ore al giorno per cinque giorni intorno ad un tema stabilito. Quest’anno la pandemia ci ha tolto anche quello, ed è stata la cosa più dura. Insieme alle telefonate avevamo anche deciso che ognuno di noi, nella propria area didattica, nel mio caso l’area antropologica (storia e geografia), avrebbe preparato dei piccoli video didattici, in cui si sarebbe cercato in qualche modo di continuare il percorso sospeso in classe. Nei video che mandavo, mi piaceva sempre iniziare leggendogli una poesia di Gianni Rodari, per ogni video una poesia diversa. E poi non comparivo sempre io, spesso era un pupazzo di asino a dare loro spiegazioni, a ricordare loro che io sono il “maestro asino” come si divertono a chiamarmi in classe i bambini perché tendo sempre a dire che io non so nulla, che devono essere loro a scoprire cose e a darmi lezioni, perché sono un asino e sono anche felice di esserlo, perché in quanto tale avrò sempre da imparare. La prima settimana scorre così. A fine settimana ci sentiamo tra colleghi e decidiamo di fare un altro passo, provare a fare delle videochiamate con Skype e tentare di fare lezione così, mettendo almeno un’interattività tra noi e i bambini che ancora mancava. Ci organizziamo e partiamo già dal24


la settimana seguente, lunedì 16. Dividiamo i bambini in piccoli gruppi da otto/nove in modo tale che, essendo in pochi, possiamo dare il giusto tempo e spazio a tutti e poter capire questo nuovo strumento come gestirlo al meglio. Incontri della durata di 40 minuti. Ad ogni gruppo assegniamo il nome di uno dei pittori incontrati tra mostre e lezioni in questi quattro anni, ed ecco che escono fuori Klimt, Van Gogh, Escher e Mirò. L’inizio non è molto incoraggiante. I bambini, divertiti e incuriositi dal vederci live e dall’utilizzo di questo nuovo mezzo, tendono a parlarsi uno sull’altro, si sentono continui rumori dalle case tra aspirapolveri, porte, mamme e papà che parlano, fratelli e sorelle urlanti, poi scoprono che si può cacciare dalla videochiamata chiunque ed ecco che giocano a mandare via più compagni possibili. Cerchiamo di spiegargli al meglio l’utilizzo, ma a loro risulta ancora difficile. Del resto come dargli torto? Cosa può mai significare fare lezione da casa propria, con tutto ciò che hanno intorno da poter fare? Che senso ha vedersi da un pc e distanti, se fino a pochi giorni fa abbiamo sempre parlato di gruppo, cerchio, comunità, cooperazione e che solo stando tutti dentro alle cose, ognuno a suo tempo e modo, si può crescere tutti esponenzialmente e diversamente arricchendosi del sapere e della parole di tutti? Perché stare davanti ad uno schermo per tanto tempo quando a scuola, per scelta, non abbiamo neanche la lavagna LIM? Sono tutte domande che loro si sono posti, e che non c’è nessun’altra risposta se non quella di dargli ragione, tutti i giri di parole, le pseudo spiegazioni, i possibili risvolti positivi sono solo bugie che loro capiscono e rischi anche di non farli credere più in te maestro e nel lavoro, perché in quella sincerità c’è tutto il patto che ogni anno si fa quando comincia la scuola. La seconda settimana fila via quindi tra telefonate, video, videochiamate e incontri Skype. Come ogni fine settimana mi sento con i miei colleghi e facciamo un punto. Decidiamo che forse Skype non può andare bene per noi, troppe 25


cose che non tornano. Colleghi di altre classi ci consigliano un altro programma: Zoom. Passiamo il fine settimana a capire come funziona, cosa si può fare e cosa no, ed il lunedì 23 siamo pronti a partire con Zoom. In questi nuovi incontri la situazione migliora, qualcuno dice perché la visuale è migliore, qualcuno perché non si possono cacciare, altri suppongono che sia una questione di font, io invece penso con grande convinzione che i bambini, passate ormai due settimane, abbiano capito che la cosa si prolungherà, che ora è il momento di divertirsi giocando a studiare proprio come facevamo in classe, che hanno preso coscienza e sono pronti, più di noi, a ripartire, ad essere protagonisti attivi come lo sono sempre stati, dei superbi RicercAttori. Una parola inventata da loro qualche anno fa, eravamo ad inizio terza. L’ho fatta mia più che mai perché la trovo perfetta e geniale. Già dalla prima gli chiedevo sempre di portarci racconti, storie, tracce e prove di giornate belle vissute, scoperte uniche che il gruppo doveva sapere. Insomma, gli dicevo che dovevano essere dei ricercatori. Trovare, scovare, indagare, mettere in dubbio, portare testimonianze dirette e accreditate, essere un po’ sognatori avventurieri e un po’ ricercatori universitari. Quando in terza sia in storia che in geografia iniziavamo ad apprendere nozioni più profonde, vere e proprie conoscenze di epoche passate e di nascita della Terra, era anche il momento per loro di assimilare le informazioni e poterle poi esporre agli altri. Anche lì, dirgli di studiare, ripetere, imparare non mi è mai piaciuto. Tutti verbi che non ho mai usato in classe, che cerco costantemente di evitare. Negli anni hanno preso una forma spaventosa queste parole. Si portano un carico di ansia, pensieri, paure queste parole che per un bambino sono difficili da tenere sotto controllo. Per non citarne poi altre ancora più devastanti come interrogazione, compito in classe, test, verifica. Al solo nominare quelle parole i bambini cambiano espressione. Quando mi è capitato di vederli in situazioni dove maestri e maestre usano questi termini, han26


no facce tesissime, tremano sperando che non venga detto il loro nome per andare alla lavagna a scrivere o dire ciò che hanno imparato. Ho visto bambini sapere di tutto fino al secondo prima di andare alla lavagna, per poi sparire dietro un mutismo assordante. Ho sempre voluto fortemente evitare questa situazione nelle classi, memore anche del mio stato d’agitazione quando accadevano a me alle elementari queste cose. Dopo varie idee e pensieri, ecco che viene fuori il mio bagaglio teatrale, quei 10 anni passati a fare spettacoli, laboratori, formazioni e infiniti viaggi, mi tornano sempre utili. Il gioco-teatro lo utilizzo sempre, dalla prima. Con i bambini ho sempre giocato con questa possibilità per me infinita, divertente e paritaria. Tutti i laboratori che ho fatto e che ancora mi diverto a fare usando il teatro, me li porto anche nella didattica. Ed ecco allora che quando in terza ci serve che le informazioni dobbiamo apprenderle e poi esporle, mi invento che da quel momento in poi diventeremo tutti attori di una compagnia teatrale. E, proprio come fanno gli attori, loro dovranno leggere appunti e ricerche, trarne il senso che credono più giusto e poi recitarlo a tutti i compagni di classe. Può sembrare un’interrogazione come la fanno tutti, ma non è così. Il gioco di essere degli attori, di recitare l’homo erectus, quello di Neanderthal, i Fenici, gli Egizi, la fauna, la flora di mari e montagne, paesaggi naturali e artificiali, li mette in una condizione di sentirsi liberi da pesi, poter dire liberamente la propria scegliendo anche il modo di dirlo, il luogo e se servono aiuti. C’è chi si alza in piedi sulla sedia, chi resta seduto al posto, chi si alza e si aggira per la classe come un maestro o maestra che spiega la lezione, chi coinvolge amici o me e chi porta approfondimenti per dare più notizie anche agli altri. Da questo gioco di essere attori un giorno Francesco, sempre preciso, attento e che ci tiene ad avere l’ultima parola, mi dice: “Scusa Tonino, tu dici dalla prima che siamo 27


dei ricercatori, ora diventiamo pure degli attori. Ma allora quante cose siamo? Forse siamo dei RicercAttori”. Quel giorno Francesco ci ha fatto un lezione e ha donato a tutti noi il senso del nostro lavoro di classe. Ha coniato un neologismo che sintetizza l’essenza di ciò che come gruppo classe (io ed i bambini siamo un gruppo unico), pensiamo e portiamo avanti. Da quel giorno, quando una volta a settimana gli assegno consegne per casa, gli scrivo “leggi e recita”. Uso ormai sempre questa parola con loro, trovo che sia perfetta e racchiude per me la passione del lavoro con i bambini e il teatro. Quel gioco serissimo che è vivere tante vite, sapere mille storie, incontrare diversi personaggi e compagni di viaggio, ma alla fine essere sempre noi stessi, seppur cambiati dai doni che ci hanno fatto gli incontri.

28


ISBN 978-88-6153-817-7

Euro 14,50 (I.i.)

Tonino Stornaiuolo

nel 1986 ed è un maestro di scuola primaria, educatore e teatrante. Maestro presso la scuola “Dalla parte dei bambini” ed educatore responsabile d’area al “Centro Territoriale Mammut”, ha preso parte, tra gli altri, ai progetti “Arrevuoto” e “Punta Corsara”. In teatro, con il gruppo Punta Corsara, ha vinto i premi “Ubu under 35” nel 2012 e “Premio Hystrio” nel 2010. È redattore delle riviste “L’ A. Pe” e “Il Barrito dei Piccoli”. Nei giorni del secondo lockdown ha creato la DAB (Didattica Ai Balconi) andando in giro per le strade di Napoli sotto le case dei suoi alunni.

TONINO STORNAIUOLO

DAD

Dove Andiamo Da soli? Una straordinaria

DAD - DOVE ANDIAMO DA SOLI?

Tonino Stornaiuolo, è nato a Napoli

A marzo 2020 la Scuola, finita in un computer, anzi nei tanti computer dai quali bambini e bambine hanno cominciato a collegarsi per fare lezione con i loro insegnanti, si è azzerata nei suoi modi e nei suoi tempi. Eppure si è salvata: come da sempre accade, ciò è stato possibile quando un insegnante ha sognato e fatto scuola con i suoi alunni inventando modi e tempi diversi. Questo libro racconta la straordinaria esperienza delle classi IV della scuola “Dalla parte dei bambini” di Napoli, in cui un insegnante ha abbattuto i muri virtuali della rete e quelli reali della scuola portando la didattica su un altro livello: quello dell’immaginazione. Se la necessità di restare e fare scuola da casa impediva a tutti di spostarsi, restava però possibile sognare e immaginare di viaggiare con la fantasia. Solo così la DAD, per questi alunni, non ha significato Didattica A Distanza, ma, al contrario, la conferma che in ogni Dove è bello non Andare Da soli, perché l’avventura e la scoperta sono esperienze da condividere e fare insieme.

esperienza di didattica a distanza


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.