L'educatTore. Manuale di formazione teatrale per educatori

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Raffaele Mantegazza Raffaele Mantegazza

L’EDUCA L’EDUCATTTORE TORE

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L’EDUCA TTORE L’EDUCA TTORE

Raffaele Raffaele Raffaele Mantegazza Mantegazza Mantegazza insegna insegna insegna pedagogia pedagogia pedagogia interculturale interculturale interculturale e edella e della della cooperazione cooperazione cooperazione presso presso presso lala la Facoltà Facoltà Facoltà didi di Scienze Scienze Scienze della della della Formazione Formazione Formazione dell’Università dell’Università dell’Università didi di Milano Milano Milano Bicocca. Bicocca. Bicocca. Cura Cura Cura dada da anni anni anniun un unprogetto progetto progettodidi diricerca ricerca ricercadenominato denominato denominato“Pedagogia “Pedagogia “Pedagogiadella della dellaresistenza”. resistenza”. resistenza”. Con Con Conlala lameridiana meridiana meridianahaha hapubblicato pubblicato pubblicatoSana Sana Sanae erobusta e robusta robustacostituzione. costituzione. costituzione.Percorsi Percorsi Percorsieducativi educativi educativinella nella nella Costituzione Costituzione Costituzione Italiana Italiana Italiana (2005). (2005). (2005).

Raffaele Raffaele Mantegazza Mantegazza

InIn In copertina copertina copertina disegno disegno disegno didi di Silvio Silvio Silvio Boselli Boselli Boselli

ISBN 978-88-6153-843-6

Euro Euro Euro12,00 12,00 12,00(I.i.) (I.i.) (I.i.)

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Raffaele Mantegazza

L’EDUCA TTORE Manuale di formazione teatrale per educatori

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Indice

Leali apparenze. Teatro ed educazione: quali connessioni? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .9 Parte Prima LA SCENA Il “dentro” e il “fuori”. Lo spazio dell’educazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .12 Il “prima” e il “dopo”. Il tempo dell’educazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 Parte Seconda L’ATTORE Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 Il corpo in costume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 Il corpo in scena. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Parte Terza IL REGISTA Compiti di regia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 Oltre la regia, oltre l’educazione . . . . . . . . . . 65 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67



Leali apparenze. Teatro ed educazione: quali connessioni? Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso che con un po’ di trucco e con la mimica puoi diventare un altro ma due occhi che ti guardano così vicini e veri fan scordare le parole, confondono pensieri così diventa tutto piccolo, anche le notti là in America ti guardi e vedi la tua vita come la scia di un’elica Lucio Dalla, Caruso

Educare attraverso il teatro. È possibile farlo non soltanto quando si gestisce una compagnia teatrale o una scuola per attori o per mimi. Ed è possibile intendere il teatro non solo come strumento educativo ma come vero e proprio dispositivo che si sovrappone a quello educativo, come anima dell’educazione stessa. È allora possibile non tanto usare il teatro come possibilità educativa ma più radicalmente come lente, visore, decodificatore dell’esperienza educativa. L’educazione si scopre così isomorfa rispetto alla dimensione teatrale; è propria dell’educazione una dimensione di finzione e di costituzione di “mondi all’interno del mondo”, che l’esperienza teatrale utilizza per fini estetici. Il problema allora non è tanto quello di fare teatro in educazione, ma semmai di fare dell’educazione un teatro, di studiare il dispositivo pedagogico come theatrum educationis in tutte le sue dimensioni.

Il teatro è l’apparenza che diventa seconda realtà; a teatro si gode del regno dell’apparenza, del regno della finzione e lo si fa attraverso una sospensione della referenza alla realtà. Si deve credere di essere (anche) in un altro posto e un altro tempo, di non essere più (solo) in via Carcano a Milano alle 22.30, per potersi immergere nelle magie del teatro. Occorre credere ai fantasmi per godere di Amleto? Sì e no: non è certo necessario credere ai fantasmi nel nostro mondo ma è del tutto necessario credervi nel mondo di Amleto. Questa doppia referenza, questo doppio statuto di realtà è tipico del teatro come di tutta l’esperienza estetica, ed è garantito dalla presenza di un dispositivo teatrale fatto di spazi (le quinte, la scena, le poltroncine), tempi (gli atti, ma anche il tempo del dramma: l’Inghilterra del Seicento, l’Antica Grecia...), codici (il linguaggio verbale e non verbale degli attori, il testo del dramma nelle sue tante edizioni e tutta la critica che esso ha suscitato, la sceneggiatura), corpi (degli attori, dei personaggi, degli spettatori), oggetti (con la differenza radicale tra una sedia sulla scena e una sedia identica nel parterre). Riconoscere gli elementi del dispositivo teatrale significa capire che si sta assistendo a una rappresentazione fittizia e poterne godere. Anche l’educazione è una struttura di finzione. Come l’attività onirica, come l’arte, come il teatro l’esperienza educativa modifica le cose, le rende altre da quello che sono e attraverso queste nuove identità degli oggetti, attraverso la loro strutturazione in nuovi setting, costituisce determinati soggetti. Educare significa allora rendere possibile una determinata esperienza, una esperienza che non è possibile altrove, non si dà automaticamente nel campo della materialità esistenziale. Il che significa che lo stesso teatro può essere un luogo nel quale fare educazione, ma allora non è più lo stesso teatro; il dispositivo nel quale Dario Fo recita non è lo stesso rispetto al dispositivo nel quale egli insegna a recitare ai ragazzi, anche se apparentemente non vi è nulla di mutato; è cambiata la finalità intenzionale del dispositivo stesso, e dunque saranno anche cambiati elementi microscopici o addirittura invisibili. La forza L’EDUCA TTORE

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inerziale degli elementi invisibili del dispositivo non può essere sottovalutata. Le categorie di finzione e di performance possono entrare allora di diritto nel campo semantico dell’educazione (purché si intenda la performance unicamente come performance educativa, e non la si pieghi alle logiche di efficienza ed efficacia che non è detto siano sempre formative). Educare allora significa recitare bene, e soprattutto imparare e insegnare a recitare: se si recita, infatti, occorre farlo bene, con professionalità e attenzione; e se ognuno sceglie il personaggio, anzi la miriade di personaggi da interpretare nelle mille scene della vita, occorre scegliere la parte che più ci piace, che più ci eccita: un aspetto dell’educazione è anche scegliere con cura le nostre parti, imparare le nostre battute, e provare e riprovare il costume e il trucco più adatti; forse dopo la caduta del sipario c’è il nulla, ma finché c’è buio in sala, recitare la propria parte, scegliendo di cambiarla quando ci pare e di improvvisare le battute, può essere emozionante. Il cerchio magico dell’educazione provvede ai soggetti che vi entrano (non solo agli educandi) una nuova identità: ma per depotenziare l’educazione, per non farla scivolare nel delirio di onnipotenza potenzialmente totalitario1, occorre sottolineare il carattere fittizio del diventare un altro, il suo valere solo e soltanto all’interno del dispositivo pedagogico. Lo scolaro, il discente, il discepolo imparano ad essere un altro qui e ora, nel qui e ora della scena educativa: e perché ciò accada è necessaria l’épochè, la sospensione del giudizio sul mondo esterno. A questo serve la ritualità dell’educazione: che lavora con un po’ di trucco e con la mimica per potersi smarcare dal mondo esterno, per potersi affrancare dalla sua troppo pressante urgenza. E per questo occorre predisporre spazi e tempi specifici per educare: non si educa ovunque come non si recita ovunque, nel senso che uno spazio qualunque per diventare spazio educativo/teatrale deve sottostare a determinate regole e andare incontro a

1. Cfr. Mantegazza, 2006.

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una metamorfosi. L’educazione è un incontro di maschere. Il che significa soprattutto che l’educazione non è la vita: due occhi che ti guardano così vicini e veri hanno senso solo se gli occhi sono dietro una maschera o trasformati dall’henné, velati e trasfigurati dal gioco di ruoli che è tipico dell’attività educativa. Altrimenti non riusciremmo né a educare né a vivere, e assisteremmo allo sfondamento della finzione nella vita, come nella Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen alla desolazione della vita che si fa finzione come in Breath di Samuel Beckett. In questo libro, pensato come manuale di formazione e di autoformazione per educatori ed educatrici, parleremo allora dell’educazione come teatro, ne studieremo le maschere, i ruoli, i materiali di scena. Convinti come siamo che è proprio questo smarcamento dell’educazione dalla vita che ci permette di fare della vita il pre-testo dell’educazione. Come nella memoria anche nell’educazione diventa tutto piccolo perché quando educhiamo non stiamo parlando della vita, ma della vita rimemorata, inventata, giocata e recitata: una vita che vediamo sfumare da lontano, che vediamo allontanarsi da noi, come la scia di un’elica. Ma se è vita, allora è e deve essere anche morte, creaturalità, fine: ma sì, è la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto; solo nell’educazione e nel teatro è possibile fare della morte un pretesto per giocare a una nuova vita. Solo educando e recitando è possibile provare a morire: o meglio, imparare a morire per finta come unico baluardo per lenire l’angoscia del morire davvero. Arcore, inizi di autunno 2005


PARTE La scena PRIMA


Il “dentro” e il “fuori”. Lo spazio dell’educazione

Confini e limiti Si analizzi il seguente caso limite cercando di rispondere alla domanda finale: Marco ha undici anni, è alla fine della quinta elementare ed è quello che si definisce “un caso”. È un bambino iperaggressivo, senza regole, senza una vera famiglia alle spalle, va male in tutte le materie e le maestre sono letteralmente disperate perché non sanno più come fare per cercare di insegnargli qualcosa. Alla riunione di fine anno con gli/le insegnanti delle medie le maestre comunicano che hanno intenzione di promuovere Marco nonostante il bambino non abbia raggiunto gli obiettivi minimi per poter concludere le elementari e affermano che in tutta la loro carriera non hanno mai visto un caso così grave. L’insegnante di lettere delle medie però non si perde d’animo, elabora un progetto individualizzato per il bambino e già dai primi mesi di scuola media il ragazzino sembra molto migliorato. Conclude la prima classe con risultati sorprendenti e altrettanto sorprendenti sono gli 12

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anni successivi, al punto che il ragazzo arriva alla fine della terza media con un “ottimo” oggettivamente conquistato, una inattesa capacità di socializzare e di contenere l’aggressività, insomma una serie di successi educativi straordinari. Il professore di lettere accompagna il ragazzo alla riunione preliminare con gli insegnanti della scuola superiore che il ragazzo ha scelto, e dopo l’esame di terza media lo saluta. Nel mese di novembre, appena iniziato l’anno scolastico successivo, si viene a sapere che il giovane ha abbandonato la scuola, vive in strada come una specie di borderline e non gli importa più nulla degli insegnanti, dello studio e della cultura. Qual è, da 0 a 10, il livello di responsabilità pedagogica dell’insegnante di lettere delle medie a proposito della fine che questo ragazzo ha fatto? (dove 0 significa che l’insegnante non ha alcuna responsabilità, 10 che ne ha al massimo grado).

Non c’è ovviamente una risposta “esatta” per questo caso limite. Ma la risposta che ogni educatore/trice dà, apre un interessante squarcio sulla sua concezione dello spazio educativo, sul teatro dell’educazione e la sua scena, il tutto inteso sia in senso reale che metaforico. Questo caso infatti ci permette di riflettere sulla dialettica dentro/fuori che è tipica di ogni istituzione: dove comincia il teatro? Dove finisce? Dove la vita sfuma o stacca di netto con il campo dell’educazione? Ci sembra che le risposte possano essere raggruppate in due categorie polarizzate: Le risposte vicine allo 0 ci mostrano una immagine di educatore come professionista che si fa carico dei suoi educandi visti come fruitori di un servizio e unicamente entro determinate coordinate spazio-temporali; di conseguenza lo spazio educativo è inteso come spazio limitato, che delimita in modo preciso l’attività educativa e la responsabilità professionale e l’educazione è presa in carico del soggetto da educare limitatamente al contesto educativo. Il possibile rischio di questa posizione sta nel fatto che se manca una connessione con gli altri servizi educativi si rischia di perdere di vista la complessità del soggetto. Le risposte vicine al 10 mostrano un’idea di educatore come persona che si fa carico in tutto e per tutto degli educandi visti a loro volta come per-


sone; qui lo spazio educativo è uno spazio illimitato, che non conosce barriere all’esplicitarsi dell’attività educativa, e l’educazione è presa in carico dell’altra persona a 360° e senza limiti. Il rischio qui è il delirio di onnipotenza del formatore e la possibile crisi per la propria constatata impotenza di fronte al mondo. Il teatro dell’educazione sceglie ovviamente la risposta “0”. A parere di chi scrive intendere l’educazione come teatro significa riconoscere che l’insegnante del caso limite ha fatto tutto il suo dovere. Ha infatti preso in carico l’educando nell’unico spazio educativo possibile, ha recitato il suo ruolo di educatore nell’unica scena possibile, quella della scuola. Ha ben recitato, nel solo spazio possibile per la sua recitazione. Uscire da questa scena non solo non era auspicabile ma non era nemmeno possibile: significava uscire dal proprio ruolo, dal ruolo che definisce la propria professionalità pedagogica, invadere altre scene e altri ruoli. La maschera dell’educando e quella dell’educatore si confrontano sulla scena educativa e non possono farlo altrove perché altrove non sono un educatore e un educando ma un adulto e un ragazzo, come tutti gli altri e in mezzo a tutti gli altri. Il che ovviamente non significa che non vi siano responsabilità educative ma non sul piano squisitamente professionale che è quello che in questo libro ci interessa. Il fatto che l’insegnante in questione abbia responsabilità educative indirette e generali come adulto è innegabile ma non può essere scambiato con la responsabilità educativa diretta e professionale che gli spetta in quanto insegnante. Ogni attore è anche un essere umano ma recita in quanto attore, ovvero in quanto essere umano che sceglie un determinato ruolo e si limita a questo giocandosi entro i confini che esso definisce: così l’educatore è anche essere umano, ma educa in quanto definito e limitato dal contesto educativo che si è scelto o si è costruito. Ogni elemento esterno può essere trattato all’interno della scena educativa ma solo a condizione di essere da questa ridefinito; così come la sedia che viene portata al centro della scena teatrale non è (più) (solo) una sedia esattamente come la pipa di Magritte. Il potere dell’e-

ducatore è limitato (per fortuna!) all’ambito educativo: che può non coincidere del tutto con i limiti architettonici del servizio (la gita al mare per i disabili è uno spazio simbolicamente interno al servizio e al dispositivo educativo anche se è esterna architettonicamente) ma che deve essere ben conscio dei suoi limiti. Il caso che segue evidenzia come gli educandi stessi siano a volte ben consapevoli dell’importanza della delimitazione dello spazio educativo: Siete insegnanti in una scuola elementare. Mentre entrate a scuola alla mattina vedete in una strada adiacente all’edificio scolastico due alunni di una vostra quinta classe che stanno picchiando un bambino di terza. Intervenite a difendere il bambino sgridando gli aggressori ma i due ragazzi più grandi vi dicono che fuori dalla scuola loro possono fare quello che vogliono. Che cosa fate?

È evidente che l’insegnante che interviene a separare i ragazzini che si picchiano lo fa in quanto adulto, così come dovrebbe farlo ogni adulto decente, maestro, idraulico o autista di tram. Ma è anche evidente che la risposta provocatoria dei ragazzini non è affatto peregrina: se tu mi sgridi come adulto, allora può anche andare, ma se mi richiami in quanto mio/a insegnante sei del tutto fuori ruolo e fuori scena. Alcune risposte possibili alla domanda finale, da noi raccolte presso insegnanti ed educatori, sono le seguenti: • inizierei in classe un percorso educativo sulla nonviolenza • farei fare a tutti i ragazzi e le ragazze della quinta un gioco cooperativo insieme ai bambini e alle bambine della terza classe • farei analizzare ai bambini una storia/un video/una canzone che tratti del bullismo • coinvolgerei in classe i due aggressori in un gioco di ruolo nel quale uno dei due o entrambi recitano la parte della vittima di una prepotenza o di un sopruso. In tutti questi casi la positività dell’intervento formativo sta nel “portare dentro” la scena definita e delimitata dell’educazione, che altrimenti resteL’EDUCA TTORE

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rebbe fuori. Dal fuori al dentro: il percorso è esattamente contrario a quello di certo missionarismo pedagogico che invece vuole continuamente uscire dai limiti del proprio ruolo e invadere spazi e scene altre e altrui: si vedano i seguenti casi che esemplificano la scorrettezza e il rischio delle invasioni di ruolo, degli sconfinamenti di scena: Paola, 13 anni, è particolarmente affezionata al suo allenatore di pallavolo, di 27 anni. Ha un rapporto molto aperto con lui e spesso gli confida i suoi segreti. Un giorno dopo l’allenamento gli chiede di parlargli: in un bar gli confida di essere incinta di un ragazzo di 19 anni, di avere paura di parlarne ai suoi genitori e soprattutto di dirlo al ragazzo e chiede all’allenatore di aiutarla presenziando al suo prossimo incontro con il futuro padre. L’allenatore accetta: durante l’incontro, nel quale Paola informa il fidanzato del fatto di aspettare un bambino, questi reagisce molto male, insultando ripetutamente la ragazza. Fidanzato e allenatore iniziano a discutere e arrivano anche a mettersi le mani addosso. Il servizio nel quale lavora Anna, 30 anni, è destinato ai minori abusati in attesa di affido che per qualche tempo frequentano un centro diurno dove possono rilassarsi, studiare, giocare, ecc. Dopo qualche mese di frequentazione del centro i ragazzi trovano una famiglia affidataria e non partecipano più alle attività (anche perché spesso si trasferiscono lontano). Anna si affeziona molto ai ragazzi e ha sempre paura che i progetti individuali siano troppo brevi e non incisivi così dà sempre il suo numero di telefono ai ragazzi chiedendo loro di chiamarla “tutte le volte che ne hanno bisogno”. Matteo, 14 anni, dopo avere trovato una famiglia affidataria inizia a chiamare Anna più volte al giorno, finché le continue e lunghissime telefonate del ragazzo diventano ingestibili per l’educatrice che letteralmente non ne può più.

Che cosa altro avrebbero potuto fare i protagonisti di queste storie al momento dell’insorgere della criticità? Come avrebbero potuto impostare diversamente le relazioni educative e comunque, cosa potrebbero cambiare dopo queste esperienze? Una delle critiche che possono essere avanzate al caso limite presentato sopra e alla nostra scelta di non attribuire alcuna responsabilità pedagogica all’insegnante, è che questi non sarebbe stato in 14

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grado di prevedere che il ragazzo avrebbe incontrato difficoltà nella sua carriera futura. Insomma, il professore di lettere non avrebbe dato al ragazzo insegnamenti e metodologie permanenti, replicabili in contesti differenti da quelli della scuola, giocabili in altri contesti e su altre scene. Può essere: ma si ricordi che qualunque processo di valutazione di un percorso formativo ha senso solamente all’interno dei limiti e dei confini di tale percorso e non può essere effettuato al di fuori. Questo significa che una valutazione o una verifica efficaci devono prevedere la simulazione di situazioni reali all’interno dello spazio fittizio delimitato dal progetto educativo, e solo in questo spazio possono inferire eventuali conclusioni sul possibile comportamento esterno del soggetto. Lo si vede bene nell’esercizio che segue: Si prevedano strumenti di verifica interni al dispositivo educativo per le seguenti situazioni formative: Verificare

Per

Quando

La capacità di Uno studente di La settimana farsi comprenun corso prima di dere in inglese annuale di partire per a Londra inglese Londra Un disabile che La capacità di frequenta un farsi da mancorso di prepagiare da solo a razione alimencasa propria tare La capacità di ridurre la propria aggressività nei confronti delle altre persone

L’ultimo giorno di corso

Un gruppo di adolescenti che La partita di frequentano un calcio di chiucentro di aggresura delle gazione in un attività quartiere cosidannuali detto a rischio

Concepire lo spazio dell’educazione come spazio limitato, come spazio del limite responsabilizza l’educatore/trice anziché deresponsabilizzarlo/a: se ho compreso fino in fondo che non sono un superuomo e che il mio compito educativo si gioca all’interno delle coordinate del servizio o del progetto, allora da un lato mi sarò liberato di tutte le perniciose fantasie missionaristiche ma


dall’altro sarò ancora più convinto che la responsabilità di ciò che accade dentro lo spazio del servizio/progetto è mia e dei miei colleghi e non è scaricabile sul mondo “cattivo”, il quale entra nella mia scena educativa solamente al prezzo di esserne ridefinito. È allora possibile leggere i confini e i limiti del proprio progetto/servizio in modo positivo. Si disegni il servizio nel quale si lavora seguendo le regole sotto indicate: • il servizio deve essere collocato nel reale contesto (urbano, di quartiere, ecc.) nel quale si trova • lo spazio del foglio deve essere occupato per il 50% dal servizio e per il 50% dal “fuori” facendo attenzione a non usare gli stessi colori • si può intendere come “spazio del servizio” anche uno spazio esterno che però in qualche modo viene rifunzionalizzato al progetto educativo (la panchina del parco sulla quale ci si ritrova ogni sera per la valutazione della giornata). È interessante in questo caso notare come svolgono questo compito coloro che lavorano in servizi non identificabili con una struttura architettonica fissa (assistenza domiciliare ai minori, educativa di strada, ecc.).

Si proceda poi con una o più delle seguenti attività: Si colorino con tinte più scure le zone del servizio che sono “più dentro”, ovvero maggiormente al riparo da invasioni, disturbi, contaminazioni esterne, si scelgano tinte più chiare per le zone via via di confine con il mondo esterno (ci si renderà probabilmente conto in questo modo che sono le seconde zone ad essere maggiormente difficili da presidiare ma al tempo stesso ad essere quelle a più alta significatività pedagogica).

Oppure: Si colorino gli spazi interni del servizio associandoli ai sentimenti che vi provano gli utenti o i destinatari, per esempio: • rosso per la rabbia • giallo per la gioia • nero per la paura

• grigio per la noia Si confronti poi la modalità di espressione di questi sentimenti all’interno del servizio/progetto con quelle che possono darsi fuori dallo stesso. Che differenza c’è tra gioire o provare paura dentro il nostro servizio e nella vita reale?

Infine: Si disegni il mondo come sarebbe se il proprio servizio scomparisse. Quando abbiamo chiesto a molti educatori ed educatrici di svolgere quest’ultimo compito abbiamo ottenuto le seguenti categorie di disegni: • scenario apocalittico: La fine del mondo, la catastrofe, la morte di tutto quanto di positivo aveva saputo fare il servizio; i disabili vengono ghettizzati, gli anziani restano da soli, i bambini vivono il loro disagio senza essere ascoltati • scenario sostitutivo: un altro servizio prende il posto di quello scomparso, di solito facendo le stesse cose in modo meno efficace • scenario pacificato: la società si vede restituire la responsabilità della cura e dell’integrazione, dell’educazione dei bambini e della memoria degli anziani: l’educazione in senso professionalizzato lascia campo all’educazione come pratica diffusa in una società democratica. A nostro parere questo è lo scenario auspicabile per il futuro, e lo si può pensare solamente se si è interiorizzata l’idea della limitatezza spaziale della scena educativa e di ciò che vi accade2.

Entrate e uscite Dove finisce l’educazione inizia la vita, e viceversa. Ma dove si dà fisicamente e materialmente questo confine, e come si presenta? È utile per gli 2. Cfr. Mantegazza, 2006.

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educatori e le educatrici riflettere sugli elementi di soglia propri del contesto nel quale operano, sulle entrate e sulle uscite, sulle porte, gli ingressi, i vestiboli, le anticamere reali e metaforiche che portano “dentro”/“fuori” rispetto al servizio o al progetto educativo. Dentro e fuori Un esercizio utile per un’equipe di educatori/trici che voglia riflettere sulla demarcazione concreta e fisica dello spazio educativo. Si tracci una riga per terra: a sinistra della riga siamo nello spazio del “fuori”, a destra nello spazio del “dentro”. La riga fa da demarcazione tra i due ambiti, è la soglia che permette di entrare o di uscire. Si considerino per esempio i seguenti ambiti: • il carcere • il campo di calcio • la caserma • l’ospedale • la chiesa (la moschea, la sinagoga) • la banca. Ogni partecipante ha a disposizione due brevi archi di 5 minuti per muoversi prima nello spazio del “fuori”; poi in quello del “dentro”, cercando di mostrare le differenze di comportamento, abbigliamento, gestualità, linguaggio, posizioni reciproche delle persone, ecc. Si consideri poi la riga come demarcazione tra il “fuori” e il “dentro” del servizio educativo nel quale si lavori: ogni partecipante deve ora recitare la parte di un utente/educando/a mentre: • parla • gesticola • litiga • chiede un permesso • contesta l’autorità • dorme • mangia prima nello spazio del “fuori”, poi in quello del “dentro”. Il confronto tra i due spazi permette di essere consapevoli di come lo spazio interno al servizio ridefinisca corporalmente, fisicamente i soggetti che vi entrano. È possibile anche che la riga di demarcazione si allarghi, venendo a coincidere

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con una fetta di pavimento. In questo caso si può riflettere sull’esistenza (o meno) di spazi di soglia, di accoglienza, di polmonatura tra il “fuori” e il “dentro” (come lo spogliatoio per il campo di calcio per esempio) e sulla importanza di questi spazi per ammorbidire il brusco passaggio tra due modalità differenti di recitare il proprio corpo e il proprio ruolo.

Ovviamente ci si potrebbe anche accorgere che in realtà tra il “dentro” e il “fuori” non c’è molta differenza; che gli utenti/educandi/e mangiano, bevono, parlano, ridono “dentro” come “fuori”: e questo secondo la nostra interpretazione e definizione degli ambiti educativi è molto grave, perché vanifica la presa simbolica e fisica del contesto educativo sugli educandi, presa che si dà proprio in una sorta di supplemento (fittizio) di identità che il “dentro” aggiunge o meglio sostituisce all’identità “fuori”. Per percepire quanto il servizio/progetto cambi gli utenti, quanta identità suppletiva e sostitutiva esso conferisca loro, è utile realizzare la seguente attività. La carta d’identità Si scelga un utente del servizio e si realizzi, da soli o in equipe, una carta di identità. Si devono realizzare due carte di identità: una del soggetto al suo primo giorno di ingresso nel servizio, una dello stesso soggetto il giorno delle dimissioni, dell’uscita dal servizio, della fine del progetto. Ci sono due possibilità: a) la carta di identità riguarda un soggetto che è già stato dimesso o per il quale il progetto educativo è terminato b) la carta di identità riguarda un soggetto ancora presente all’interno del servizio/progetto, un soggetto sul quale il lavoro educativo è ancora in fieri. In questo secondo caso allora la carta di identità in uscita rappresenta il progetto educativo stesso, ovvero rappresenterà “che cosa si vuole fare” di questa persona, qual è il sogno educativo che si cercherà di realizzare con essa. Come si sarà compreso la cosa che maggiormente interessa è il disegno: occorre evidenziare simbolicamente, come parti del corpo, atteggiamenti, comportamenti, modi di gesticolare e di muoversi/sedere/camminare, i cambiamenti che il


progetto educativo apporterà o ha apportato sulla persona. Il tutto si presta ovviamente ad essere drammatizzato, recitando per esempio la parte del soggetto nei due contesti del “prima” e del “dopo”. Esempio di carta di identità: CARTA DI IDENTITÀ DELL’UTENTE Nome e cognome ___________________________

Foto (realizzare un disegno che rappresenti realisticamente il soggetto)

Abitudini:_______________________________________________________________________ ____________________________________________ _______ Pregi:______________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ Difetti:_____________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ Attitudini:_______________________________________________________________________

Qui la dimensione spaziale del “dentro/fuori” incrocia quella temporale del “prima/dopo”. L’entrata e l’uscita da un servizio/progetto educativo sono anche porte sul tempo: si entra in un modo e poi si esce in un altro: tra l’entrata e l’uscita c’è il tempo del lavoro educativo subito. “Fuori” c’è dunque il mondo della vita in attesa: e l’uscita di un soggetto dall’educazione è anche un momento di sua restituzione alla vita, come ben sanno le maestre che il pomeriggio restituiscono letteralmente e fisicamente i bambini e le bambine ai genitori. E li/le restituiscono cambiati/e, altrimenti non valeva la pena lasciarli/e per ore alla scuola materna o elementare, altrimenti i servizi educativi sarebbero dei puri depo-

siti, dei parcheggi. Ciò che differenzia il servizio educativo dal parcheggio è che quando ritiro l’auto la voglio trovare esattamente dove e come l’ho lasciata, quando passo a prendere il figlio a scuola lo voglio trovare diverso e in un altro punto del suo processo evolutivo. Altrimenti tanto valeva tenerlo a casa o portarlo con me al lavoro! È allora importante essere coscienti del percorso che un utente compie all’interno del servizio/progetto (quello che Goffman definirebbe la sua carriera istituzionale) con attenzione specifica ai due momenti dell’accoglienza e dell’addio, e delle relative elaborazioni dei vissuti di speranza, paura, timore, ecc. che sono connessi ai momenti suddetti. Le porte di un servizio educativo si aprono sempre da una parte sola, soprattutto la porta che dà sull’uscita; questo significa che possono esserci dimissioni “temporanee”, momenti di alternanza tra “dentro” e “fuori”, momenti di ritorno all’interno della struttura, ma occorre comunque che sia chiaro il momento finale e definitivo dell’abbandono del servizio/progetto, il momento di non ritorno in senso letterale, il momento nel quale si è del tutto “fuori”. E occorre anche rendere desiderabile quel momento; perché è ovvio che gli utenti devono stare bene all’interno del servizio/progetto ma è anche necessario che vogliano uscirne e che trovino in questo abbandono definitivo elementi di positività: perché i ragazzi di quinta elementare dovrebbero avere voglia di andare alle scuole medie? Se la scuola elementare non è in grado di elaborare il lutto per la perdita di un mondo che ha mantenuto al suo interno i bambini e le bambine per 5 anni e di presentare come desiderabile il passaggio successivo, allora essa manterrà i bambini e le bambine in una situazione di dipendenza, tipica degli spazi nei quali le porte verso l’esterno non si aprono mai e soprattutto mai si richiudono alle spalle di chi le attraversa.

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Ampiezze e angustie Che lo spazio non sia mai neutro rispetto alle attività che vi si svolgono è abbastanza ovvio; e che l’educatore/trice debba cercare di riconoscere gli effetti che la percezione dello spazio ha sugli educandi fa parte della sua professionalità; ma questo significa anche fare i conti con il modo in cui la dimensione spaziale opera sugli educatori stessi. Come lo spazio ci definisce e definisce le nostre azioni? Iniziamo a proporre alcuni esercizi di riscaldamento e di consapevolezza sulla percezione dello spazio. Le camminate I partecipanti camminano normalmente in uno spazio sufficientemente ampio da non intralciarsi a vicenda. Il conduttore dà gli ordini e tutti devono modificare le loro camminate; per esempio il conduttore dirà: “Camminate come se...” • foste alti tre metri • foste alti un metro • vi facesse male un piede • vi facessero male tutti e due i piedi • foste zoppi • il pavimento scottasse. Si può poi riflettere su quale camminata risulta più difficile e su come varia la nostra percezione della stanza nella quale ci troviamo a seconda del modo in cui la attraversiamo. Le figure nello spazio Come il precedente, ora però il gruppo deve coordinarsi e muoversi nello spazio occupando i buchi, creando figure geometriche attraverso la vicinanza e lontananza tra i corpi. Per esempio il conduttore dirà: • formate un triangolo • formate due cerchi e un quadrato • formate la diagonale sinistra/destra. Ogni volta che si sciolgono le figure geometriche così formate, le persone devono continuare a muoversi nello spazio riempiendo gli eventuali buchi, realizzando cioè una distribuzione il più

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possibile uniforme dei corpi nella stanza. Qui la riflessione riguarda la connessione e la correlazione tra il mio corpo e il tuo e le variazioni della percezione dello spazio in correlazione con i corpi altrui. La bomba Prima fase. Il conduttore chiede ad ognuno dei partecipanti di scegliere in segreto uno dei compagni. La persona scelta è la “bomba” personale di chi l’ha scelta; il che significa che quando il conduttore annuncerà che le bombe sono esplose, se io mi troverò a meno di un metro dalla mia bomba (la distanza dipende ovviamente dalla grandezza della stanza) sarò morto. Il gioco inizia e tutti i partecipanti devono continuare a muoversi (è vietato fermarsi) finché il conduttore non farà esplodere le bombe. Seconda fase. Si dica ad ogni partecipante di scegliere un altro compagno segreto. Ora la bomba è aumentata di potenziale e distrugge tutto nell’arco di parecchi metri, ma il secondo compagno scelto è lo scudo che può comunque proteggere. Occorre dunque tenere lo scudo tra sé e la bomba per salvarsi indipendentemente dalla distanza. Si proceda come nella prima fase. Terza fase. Si scelga un terzo compagno. Ora gli scudi per funzionare hanno bisogno dell’innesto, che è appunto il terzo compagno. Per non morire quando la bomba esplode io ho bisogno di avere lo scudo tra me e la mia bomba e di posare il mio braccio sulla spalla dell’innesto. Si proceda come nelle prime due fasi. Al di là dell’aspetto ludico di sicura comicità qui si riflette non solo sulla distribuzione dei corpi negli spazi ma anche e soprattutto sulle dimensioni del toccarsi, rincorrersi, sfiorarsi, così importanti in campo educativo.

Già in questi primi esercizi mettiamo a tema la percezione dello spazio e già introduciamo il tema dello spazio educativo, delle sue angustie e delle sue ampiezze. Dimensioni fondamentali nel lavoro educativo e nello spazio artificiale e finzionale che questo prevede e provvede; giocare lo spazio, sapersi muovere tra l’ampio e lo stretto, tra le radure di un’educazione che perde di vista l’orizzonte e le ristrettezze di una educazione che fatica a muoversi fisicamente, è una competenza fondamentale dell’educatore/trice. Sapere


quando il troppo spazio fa perdere la percezione della propria identità e quando invece il poco spazio opprime è la condizione di partenza per la realizzazione di un buon progetto educativo. Ce lo ricorda la prossemica, scienza inventata dallo studioso statunitense Edward Hall, che suddivide lo spazio sociale e le relazioni che all’interno di esso si danno tra gli individui in 4 categorie: • distanza intima (0-45 cm): corrisponde al massimo coinvolgimento fisico, laddove i corpi si toccano e spesso si fondono: è la distanza che caratterizza i rapporti intimi, il conforto, la protezione, l’amplesso, ma anche la lotta fisica; • distanza personale: è la distanza che permette ancora il contatto fisico con un minimo sforzo da parte degli interlocutori (45-75 cm), o che si estende appena oltre il cerchio che è possibile tracciare con un braccio teso (75-120 cm); • distanza sociale (1,20-3,65 m): non è più possibile il contatto fisico con l’altro, e la cosa è spesso sottolineata dalla presenza di sportelli, scrivanie, ecc.; • distanza pubblica (3,65-7 m e oltre): è la distanza che separa un oratore dal proprio pubblico. In quali tra questi 4 spazi collochereste le seguenti attività? • rimprovero nei confronti di un soggetto che ha infranto le regole del servizio • presentazione del servizio o del progetto alla cittadinanza • raccolta dei dati anagrafici per l’inserimento di un nuovo utente • consolazione di un soggetto che sta piangendo disperatamente. Ovviamente non vi sono risposte giuste a priori ma la mappa delle risposte degli educatori e delle educatrici di un servizio può essere indicativa del-

l’orientamento pedagogico dello spazio in quello stesso servizio. Che cosa si fa Che cosa non si fa Distanza intima Distanza personale Distanza sociale Distanza pubblica E come spesso accade è poi istruttivo e interessante provare a giocare con queste dimensioni dello spazio per ottenere un effetto di spaesamento e di de-naturalizzazione degli spazi educativi e rendersi ulteriormente conto di quanto ampiezze e angustie dello spazio determinano il nostro agire educativo: si immagini di dover realizzare (di essere ovviamente obbligati a farlo!) le azioni seguenti negli spazi assegnati: Distanza intima

Discussione in equipe di un caso problematico

Distanza personale

Presentazione del programma delle attività della giornata a tutti gli utenti

Distanza sociale

Raccolta delle confidenze di un utente Consolazione di un soggetto che sta piangendo disperatamente

Distanza pubblica

Le angustie e le ampiezze degli spazi educativi non sono ovviamente sempre programmabili: lo spazio educativo ha a che fare con lo spazio fisico e geografico. Ritagliare uno spazio educativamente rilevante all’interno dello spazio naturalegeografico è cosa difficile ma è comunque ciò che qualunque educatore/trice fa ogni giorno. Gli spazi del nido, dei centri di aggregazione L’EDUCA TTORE

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(C.A.G.), della scuola non sono spazi educativi in se stessi: lo diventano se sono abitati da una intenzionalità pedagogica materialistica ed empirica, una intenzionalità che trasforma le ristrettezze o le ampiezze dello spazio naturale, geografico o sociale in potenzialità spaziali di tipo pedagogico; come nel seguente esercizio nel quale si richiede di trasformare in possibilità i vincoli che lo spazio ci pone (sapendo in partenza che non è sempre possibile farlo e che c’è uno zoccolo duro al di sotto del quale non è possibile educare: ma sapendo anche quanto spesso i vincoli – aggirabili o utilizzabili – dello spazio dato vengano presi a pretesto dagli educatori per giustificare una errata o mancante azione formativa): Descrivere e recitare sinteticamente una giornata “normale” in un servizio educativo • con i bagni intasati • con il riscaldamento rotto a dicembre a Milano • senza aria condizionata e con le finestre che non si possono aprire a luglio a Palermo • durante una gita in montagna nella quale si è stati sorpresi da una bufera di neve e ci si è rifugiati in una caverna.

O come nella seguente esercitazione nella quale si mette a tema la rifunzionalizzazione pedagogica dello spazio, non per dire che si può educare dovunque ma per sottolineare come molti spazi di per se stessi alieni a una funzione educativa possano essere a questa piegati, modificando così la loro funzione e diventando altri da se stessi (come la strada nell’educativa di strada non è più “strada” ma “strada educante”: e questo richiede alcuni interventi anche strutturali: per esempio che la polizia non intervenga contro il ragazzino che sta facendo un graffito). Si ha a propria disposizione un pomeriggio dalle ore 14 alle ore 19 per spiegare a un gruppo di 15 ragazzi e ragazze di 14 anni la storia della Seconda Guerra Mondiale, del nazismo e della Resistenza; lo si deve fare però rimanendo all’interno dei seguenti spazi (che possono essere utilizzati in parte o del tutto, in ogni loro angolo):

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• lo stadio di S. Siro • una discarica di rifiuti • un vecchio cimitero abbandonato • un centro commerciale chiuso.

Crepe e nascondigli C’è però un “fuori” che abita l’interno dello spazio educativo e che a nostro parere deve rimanere ben al riparo dall’intenzionalità educativa ed educante. Si tratta dello spazio dei cosiddetti “buchi bianchi”. Il buco bianco è un frammento di spazio-tempo essenziale per la resistenza del soggetto, uno spazio di crepa, di falda, di soglia che si incunea nelle incrinature presenti tra gli oggetti e nell’anima stessa degli oggetti; spaziotempo interstiziale, spazio-tempo del disimpegno individuale dall’assedio degli oggetti, spaziotempo di ridefinizione di frammenti di quel Sé violentato dalle istanze di dominio, spazio-tempo di riappropriazione di tutti i significati delle cose che sono stati cancellati dal trascorrere dei secoli. Il fondo della cartella nel quale il bambino nasconde i soldatini come il muro della cella sul quale il deportato scrive messaggi d’amore o di lotta, sono frammenti interstiziali in uno spaziotempo del dominio che crediamo omogeneo ma che in una prospettiva resistenziale possiamo colonizzare con i “nostri” buchi bianchi. Il soggetto si vede così restituito un frammento di attività che non fa a meno, in un delirio di astratta onnipotenza, dei saldi edifici del mondo ma che anzi cerca di abitarli e di farli propri inserendosi nelle loro crepe e nei loro interstizi. Si tratta a volte di spazi minimali, sottratti allo sguardo disattento degli educatori. Il tic A un utente/educando è stata imposta una regola che egli/ella non condivide ma alla quale


è costretto/a ad obbedire. Il suo corpo però riesce a trovare, attraverso un lapsus, un tic, un atto mancato, il modo di distanziarsi dalla regola, di lasciare trasparire per quanto possibile la propria ribellione. A partire da una serie di regole, dapprima reali e poi inventate, si reciti la parte del soggetto che trova nel tic corporeo la procedura di resistenza a uno spazio educativo troppo opprimente.

Spesso un intero mondo comportamentale del soggetto viene precluso alla vista dell’educatore e lo spazio interiore nel quale questo mondo si cela è un vero e proprio spazio resistenziale. La porta magica Si simuli una situazione di normale vita all’interno del servizio; gli utenti si comportano seguendo le regole del servizio e tutto sembra andare “nel migliore del modi”. Ma c’è una porta magica in mezzo alla sala: quando una persona la attraversa inizia a comportarsi non secondo le regole del servizio ma secondo le proprie regole personali, ovvero così come si comporterebbe se le regole del servizio non fossero da lui/lei state interiorizzate. Uno alla volta tutti i soggetti passano attraverso la porta: che situazione si è venuta a creare? E quali mondi interiori sono stati spalancati alla vista? Come vivevano e dove si trovavano quando i soggetti apparentemente seguivano le regole del servizio?

Gli spazi ciechi Si pensi a un utilizzo alternativo e “proibito” dei seguenti spazi in differenti servizi (una comunità per minori, un centro socio-educativo, un centro per tossicodipendenti, ecc.): • l’angolo cieco dietro la porta di ingresso • un armadietto inutilizzato e arrugginito nello sgabuzzino • l’angolo sotto l’acquaio non visibile da una altezza normale • una buca scavata nel giardino del servizio e coperta da una trave di legno.

Ovviamente il lavoro sui buchi bianchi e sulle crepe e gli interstizi di resistenza non va inteso come un contributo alla loro scoperta o peggio alla loro rifunzionalizzazione agli scopi e agli obiettivi del servizio; ci piacerebbe solo che gli educatori fossero consapevoli della esistenza di questi spazi del disimpegno e imparassero ad accettarli e soprattutto a tollerare la loro provvidenziale miopia o cecità nei loro confronti.

Lo specchio e le situazioni Situazione simile alla precedente ma pensata nella dimensione sincronica: un soggetto (potrebbe anche essere l’interpretazione di un preciso utente con nome e cognome) compie un’azione seguendo le procedure e la routine proprie del servizio e di fronte a lui/lei il suo alter-altera/ego si comporta come il soggetto si comporterebbe seguendo i propri valori, ideali, ecc.

A volte invece si tratta di veri e propri spazi fisici, radicati nelle istituzioni, ma utilizzabili dal soggetto per un proprio disimpegno da queste; abbiamo in questo caso gli interstizi resistenziali, spazi e tempi di sopravvivenza e opposizione per un soggetto che si incunea nelle pieghe del reale e vi si ri-definisce: la crepa che qui si produce all’interno dell’istituzione è qui schiettamente di tipo resistenziale. L’EDUCA TTORE

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Raffaele Mantegazza Raffaele Mantegazza

L’EDUCA L’EDUCATTTORE TORE

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L’EDUCA TTORE L’EDUCA TTORE

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ISBN 978-88-6153-843-6

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