170 mm
Frammenti. Piccole storie di psichiatria, narra, in oltre duecento brevissimi racconti, il manicomio, le sue violenze, la lotta di liberazione, la presa di coscienza di un medico e di un uomo, l’incontro decisivo con la figura umana e intellettuale di Franco Basaglia e con l’umanità sofferente. Buondonno racconta la storia del suo cambiamento personale e professionale ponendo al centro la domanda che per sempre lo ha interrogato: la lunga cecità verso la violenza e il sopruso da parte di lui medico (studioso e di sinistra), la potenza negativa del manicomio, che nella sua disumana assurdità tuttavia irretisce, soggioga, devia… quale meccanismo agisce? L’induzione dell’ambiente e dei pregiudizi dominanti e l’ambigua banalità del male sono alibi sufficienti? E se non lo fossero, cos’altro ci sarebbe da capire, da spiegare per evitare che si riproduca quel “vero e proprio contagio di violenza” che Buondonno – pur avendolo poi con passione e coscienza combattuto – si rammarica di aver subito e a lungo non contrastato? La zona dominante del libro, forse la sua mozione segreta, è il diagramma di una crisi, il riflesso di una progressiva presa di coscienza che drammaticamente svela sia il manicomio per quello che è (un ergastolo che punisce, che ammala e non cura) sia l’anacronismo di una disciplina psichiatrica nei cui micidiali tabù politici – come negli annosi protocolli clinici – si annida tutto il peggio di quanto fu detta l’autobiografia italiana. La storia di Ernesto Buondonno è la nostra storia, la storia di tutti, di chi ha lottato per il cambiamento, di chi ha cercato di ostacolarlo e di chi è rimasto alla finestra.
Ernesto Buondonno, psichiatra, libero docente (Nocera Inferiore 1925 – Fermo 2019). Ha lavorato a Napoli, Lecce, Palermo, Pistoia e Fermo. È stato militante di Psichiatria Democratica e del P.C.I.
ISBN 978-88-6153-873-3
Ernesto Buondonno Ernesto Buondonno
“Ho vissuto nei tristi e sconvolti luoghi della follia ed è incredibile l’insospettata spiritualità che ho incontrato in quei mondi. Vi sussistono sentimenti che, come semi, sopravvivono sepolti e fioriscono in infinite forme e colori meravigliosi. Può comprenderlo veramente solo chi, al di là della tecnica, ha imparato ad essere vicino a quelle anime.”
Euro 22,00 (I.i.)
170 mm
21 mm
Frammenti
67,5 mm
Frammenti Piccole storie di psichiatria
62,5 mm
Ernesto Buondonno
Frammenti Piccole storie di psichiatria
Un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità (Franco Basaglia, San Paolo, Brasile, 18 giugno 1979)
Indice
Introduzione di Maria Grazia Giannichedda................................ 9 Presentazione di Paolo Tranchina................................................... 13 Frammenti ................................................................................... 15 Appendice I ................................................................................... 297 Appendice II ................................................................................ 311 Appendice III ................................................................................ 317 Postfazione di Massimo Raffaeli..................................................... 321 Ringraziamenti ............................................................................ 325
Introduzione
La metamorfosi di uno psichiatra “Ho impiegato molto tempo per passare da un’astratta nozione di deontologia al concreto farmi carico delle reali necessità di chi soffre.” È stata “una metamorfosi lunga e non semplice” questa che Ernesto Buondonno fa intravedere con le tante “piccole storie” che ripercorrono cinquant’anni di lavoro da psichiatra, prima nei manicomi del dopoguerra poi in mezzo ai cambiamenti e alle lotte per la riforma, infine nei nuovi servizi che Buondonno ha diretto fino alla metà degli anni ’90. All’inizio, nei primi “frammenti”, vediamo Buondonno, giovane psichiatra in formazione amante dello studio e “impegnato in imprese politiche per cambiare la società e il mondo”, mentre entra in un manicomio per la prima volta. L’occasione per “vederlo dal di dentro” è una “esercitazione, che avrebbe dovuto arricchire di chissà quali osservazioni cliniche il nostro sapere” di studenti. Fu invece l’ingresso inatteso in “un luogo strano, sconosciuto, impensabile”. A settant’anni di distanza, Buondonno ricorda le sensazioni di quel giorno: “Mi sentivo stordito e stralunato”, “avvertivo un indescrivibile malessere”, “un vissuto di improvviso e sconvolgente straniamento”. E rileva: “Rimasi sconcertato ma incomprensibilmente impigliato e irretito”. Di quel luogo, il manicomio – che non è uno solo avendo lavorato in più di un manicomio, clinica universitaria e in cliniche private – il libro ci consegna molte immagini, scene, storie, sempre brevi, semplici, dirette, a volte tremende. Le immagini sono quelle che il pubblico dei non addetti ha poi imparato a conoscere con Morire di classe1, il libro curato da Franco e Franca Basaglia con le foto che Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin avevano scattato in alcuni manicomi italiani: cameroni, grate, camicie di forza, letti di ferro, cortili spogli, uomini e donne legati, o rannicchiati a terra, corpi seminudi o 1 Franco e Franca Basaglia (a cura di) Morire di classe, Einaudi, Torino 1969.
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dentro camicioni informi. Nelle scene, vediamo tutto un florilegio delle “normali assurdità” e “regole idiote” tipiche dell’istituzione totale: “gli specchi proibiti”, “le cartelle cliniche sottochiave”, “la coercizione preventiva”, l’incredibile “sgabuzzino delle merende” in cui si custodiva e si degradava il cibo lasciato dai familiari dei ricoverati, i giornali prima vietati poi ritagliati dalla censura del direttore “poiché le notizie di cronaca avrebbero potuto turbare i ricoverati”. A volte l’orrore e l’assurdo del manicomio appaiono interrotti da persone o anche solo da gesti: il tenente dei carabinieri che dirige una “caserma accogliente”, un “magistrato lungimirante” che evita la condanna all’internamento, infermiere, infermieri e ricoverati che sono rimasti capaci di generosità, intelligenza e affetto. Tutte queste storie senza data né luogo lasciano in principio perplesso il lettore, curioso di sapere dove e quando sono accadute, ma ben presto si capisce che non è questo il punto. Buondonno non vuole raccontare storie dei manicomi ma segue una particolare storia, quella della sua personale metamorfosi che ancora lo interroga. È questo l’aspetto originale del libro, la sua anima, ciò che lo rende diverso dalla memorialistica sui manicomi e sulla psichiatria. È a tratti struggente lo sguardo con cui quest’uomo anziano rivede se stesso da giovane e non si capacita della sua cecità. “Quelle entità non mi sembravano neanche persone ma strane forme biologiche, come quelle in formalina nell’istituto di anatomia patologica” ma, “ora che sto scrivendo, penso che non mi venne spontaneo guardare negli occhi di quelle forme per passare dalle maschere grottesche all’incontro di un qualche barlume di umanità nascosta.” Con una sorta di malinconica distanza, Buondonno ritorna continuamente a quel se stesso che guardava senza vedere, che studiava senza capire: “Scrivevo con zelo cartelle cliniche e approfondite annotazioni circa possibili diagnosi differenziali” e così, mentre “ero intento allo studio dei sintomi mi sfuggiva l’essenziale cognizione della sofferenza quotidiana di quelle persone”. Certi ricordi gli “pesano ancora fortemente nell’animo”, come la storia del vecchio contadino che vuole visitare, insieme con il nipote di cinque o sei anni, il figlio ricoverato. Sono arrivati da lontano ma fuori dall’orario di visita e perciò vengono costretti ad andar via, e il bambino non capisce e chiede perché non gli fanno vedere il suo papà. “Avrei dovuto disobbedire a regole idiote e non esserne succube e complice, ma non lo feci: lo sguardo di quel bambino mi resterà per sempre”.
FRAMMENTI
“In seguito le cose cambiarono e lottammo con determinazione e passione per abolire i manicomi”: sono gli anni di Psichiatria Democratica, Buondonno vi si impegna dall’inizio, nel manicomio di Fermo e poi in quello di Pistoia; e con “i nuovi compagni” – gli “infermieri ribelli”, i giovani medici appena assunti dalla nuova amministrazione provinciale – inizia una vita di lavoro diversa. I cambiamenti sono favoriti dagli scambi con i compagni del movimento che in Italia sta crescendo, Buondonno lo sottolinea ripetutamente ricordando le persone, le riunioni, i convegni, e in particolare le visite di Franco Basaglia a Fermo. Tuttavia non sono le storie degli “anni migliori” quelle su cui indugia di più. La memoria va continuamente a quello che rimane il suo rovello: la lunga cecità verso la violenza e il sopruso da parte di lui medico studioso e di sinistra, la potenza negativa del manicomio, che nella sua disumana assurdità tuttavia irretisce, soggioga, devia. Quale meccanismo agisce? “L’induzione dell’ambiente e dei pregiudizi dominanti e l’ambigua banalità del male sono alibi sufficienti?” E se non lo fossero, cos’altro ci sarebbe da capire, da spiegare per evitare che si riproduca quel “vero e proprio contagio di violenza” che Buondonno si rammarica di aver subito e a lungo non contrastato? È illuminante, e ci porta anche a ragionare sulla psichiatria e la medicina di oggi, il racconto di lui giovane che in un manicomio assiste “all’intervento di leucotomia trans-orbitaria su un internato schizofrenico” (...). “Stavo proprio di fianco al lettino operatorio e osservavo con attenzione la manualità tecnica del chirurgo. C’era chi affermava che si trattasse di un vero e proprio crimine, che non aveva efficacia terapeutica ma solo gravi effetti dannosi (…). Avrei dovuto obiettare, andarmene (…). Non ci pensai proprio. La mia attenzione era presa solo dall’aspetto tecnico dell’intervento.” È qui la radice della cecità e della violenza: il medico può non riconoscere l’umanità che ha in comune con il paziente, può non vedere la persona oltre il sintomo, la malattia, l’organo quando e in quanto sia totalmente identificato con la tecnica, con il sistema di tecniche di trattamento che lo rendono medico moderno, scienziato. Le determinazioni dell’istituzione (non necessariamente totale), il peso dei pregiudizi, le prassi consolidate, le dinamiche del gruppo, tutto questo viene dopo, e si radica su un terreno già preparato dal fatto che la cura è considerata un insieme di tecniche di trattamento “oggettive” e “scientificamente” fondate, che il medico deve apprendere e applicare per essere tale.
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“È possibile che anche ora, in luoghi non più chiamati manicomi, giovani medici e altri operatori non si pongano i problemi che io allora non mi posi e che si tolleri l’intollerabile?” Le memorie di Buondonno ci consegnano questa domanda, a cui sappiamo di dover rispondere che sì, anche oggi accade che si tolleri l’intollerabile nei sistemi di salute mentale e nei servizi sanitari, come peraltro in molti altri ambiti delle nostre società democratiche. Il fatto che questo continui ad accadere dopo che “abbiamo dimostrato” – come diceva Franco Basaglia – “che si può assistere la persona folle in un altro modo, e che dunque ora si sappia cosa si può fare”2, aggiunge forza alla domanda di Buondonno, e la rende ancora più necessaria e attuale. Maria Grazia Giannichedda
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2 Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina editore, Milano 2018, p.138.
Presentazione “È il racconto dell’Istituzione Negata”, ho pensato leggendo Frammenti. Piccole storie di psichiatria di Ernesto Buondonno, un prezioso regalo che l’autore fa a tutti, sani e malati, e subito mi sono chiesto: ho esagerato nel confronto? Il libro traccia l’intera vita di un anziano psichiatra che, guardandosi indietro, spinge avanti lo sguardo, con attenzione minuziosa e infaticabile, empatia radiosa, ricchezza di espressione, pensiero critico e autocritico, tagliente, morbida ironia. Dove non arriva la ragione, la sua affettività calda, materica, operativa, sopperisce creando alfabeti di rapporti, esitazioni, dubbi, tessendo imprevedibili trame di senso, amore, relazione. Indimenticabili le immagini degli infermieri “ribelli” con i quali Buondonno si allea, le sagome di direttori del passato, di pazienti tesi alla liberazione, a volare alto, verso il cielo, come le rondini che insieme hanno costruito per la festa di un primo maggio. La pratica diventa, nel testo, coacervo di opposti solidali, indifferenziati sentimenti, concreta progettualità, instabile, mutevole equilibrio tra liberazione e oppressione, dove tutto è sempre possibile, ma non è mai dato a priori. Le preoccupazioni di alcuni politici, i volti sorridenti dei bambini, le incertezze dei familiari, l’interesse di medici dell’ospedale civile sono il volto del territorio che si affaccia sul manicomio. Senza sapere cosa pensare ma sempre pronto a prendere posizione, a cercare di azzeccare la mossa giusta, l’altezza possibile, i limiti delle suscettibilità. Leggendo il libro ci si rende conto che la legge 180 ha vinto, ma da quante minuzie, dettagli è stata costituita? Quanti dubbi, incertezze, slanci rivoluzionari, rischi hanno attraversato i protagonisti? Che infinità di fattori ha contribuito a distruggere il manicomio? La storia di Ernesto Buondonno è la nostra storia, la storia di tutti, di chi ha lottato per il cambiamento, di chi ha cercato di ostacolarlo e di chi è rimasto alla finestra. E, sullo sfondo, la figura forte di Franco Basaglia, la sua presenza concreta e solidale, ma anche il suo fascino ideale, come una rondine che vola in alto nel cielo. Mi sembra proprio di non aver esagerato nel mio confronto. Paolo Tranchina 13
FRAMMENTI
Il primo manicomio Il primo manicomio che ho visto in vita mia dal di dentro fu quello nel quale entrai insieme ad altri studenti per esercitazioni di psichiatria. Il ricordo che ne ho, dopo circa settant’anni, è di un grandissimo androne con tanti letti e tanti ricoverati seminudi e con grandi camiciotti sporchi, la maggior parte costretti a letto, cioè legati mani e piedi ai ferri del giaciglio con strisce di ruvida e spessa tela grezza dette “fascette”, o con la camicia di forza. Alcuni erano in piedi legati per le mani o la cintola ai termosifoni, altri giacevano distesi o rannicchiati a terra, altri ancora giravano in circolo uno dietro l’altro in una lenta marcia senza meta trascinando i piedi nudi o le ciabatte, e ognuno seguiva passivamente quello davanti. … Con andatura pesante e cadenzata, intorno al cortile, noi sfilavamo. Parata di folli!… (Oscar Wilde, Ballata del carcere di Reading)
Erano tutti molto sudici, anche i letti, le mura e i termosifoni lo erano. Ogni cosa era sporca. Di quell’esercitazione, che avrebbe dovuto arricchire di chissà quale grande quantità di osservazioni cliniche il nostro sapere, non rammento che le urla e il fetore delle urine e delle feci, il caratteristico nauseante odore degli escrementi disseccati da tempo e la puzza di disinfettante. I pavimenti avevano l’ammorbante tanfo dell’acqua marcia, lo stesso cattivo odore che poi ho sentito in tutti i manicomi. La puzza di acqua stentinella, come ho sentito dire da qualche infermiere. La prima impressione fu di un pessimo giardino zoologico. Restai molto turbato. Anche gli altri, chi più chi meno, lo furono. Non riuscimmo a risalire, come il progetto dell’esercitazione prevedeva, dall’osservazione clinica a una qualche credibile ipotesi di diagnosi. Nulla assomigliava a quanto dalle lezioni avevo appreso della psichiatria.
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Le terapie che ricordo: bromuro, che col passare del tempo è rimasto poi in uso per lo più in ambito veterinario, qualche altro farmaco sedativo e le fascette di coercizione ai polsi e alle caviglie e le camicie di forza. Mi colpì subito già all’ingresso nel reparto che il capo infermiere, alla porta, ci contasse uno per uno, quando entrammo e quando uscimmo. Era però ben difficile che qualcuno di noi decidesse di restare lì o se si fosse sperduto non fosse riconoscibile come un alieno in quello strano mondo, così come era impossibile che qualche ricoverato potesse passare inosservato, stravolto con quei luridi panni addosso e scalzo o con gli zoccoli ai piedi. Chiesi allora perché ci contassero, e il capo infermiere rispose con tono rassegnato che era il regolamento. Evidentemente anche i guardiani erano coinvolti in una sorta di alienazione. Allora non me ne resi pienamente conto. Usciti, discutemmo un po’ di quello strano, sconosciuto, impensabile luogo. Mi sentivo stordito e stralunato, avvertivo un indescrivibile malessere come i prodromi dell’emicrania con senso di nausea e aure visive. Un vissuto d’improvviso e sconvolgente straniamento. Un incubo penoso ma fatalmente irresistibile, quasi un’inspiegabile malia. Rimasi sconcertato ma incomprensibilmente impigliato e irretito. Qualcuna delle persone legate al letto sembrava del tutto innocua, altri agitati urlavano e gesticolavano. Non mi venne da riflettere se tenere quei ricoverati in quella condizione fosse inevitabile, fosse necessario e terapeutico o invece inutile, dannoso e causa di altro male, e inducesse fatalmente ulteriore alienazione. Né mi balenò alla mente di chiedermi se tale modo di vita fosse quella di esseri umani, e se ciò fosse tollerabile. Era un’altra dimensione, lontana una galassia da quella delle persone malate che eravamo soliti osservare e studiare in clinica medica o chirurgica. Non vi era la razionalità tecnica dei laboratori di patologia generale e di chimica biologica dove avevo lavorato alcuni anni. Quelle entità non sembravano neanche persone ma strane forme biologiche, come quelle conservate in formalina nei contenitori di vetro negli scaffali dell’istituto di anatomia patologica. Anzi peggio, mancava ogni parametro oggettivo, ogni criterio di giu-
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dizio logico, e questa incomprensibilità mi spiazzava e mi dava un senso di vertigine. … trovarsi avanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni… (Luigi Pirandello, Enrico IV)
Ora che ne sto scrivendo penso che non mi venne spontaneo guardare negli occhi di quelle forme per passare dalle maschere grottesche all’incontro di un qualche barlume di umanità nascosta. Una naturale inconscia ricerca di comunicazione, come un treno che deraglia si scontrava con l’assurdo, accartocciandosi in grovigli di macerie. E tutti sembravano uguali in un rovinoso degrado. … Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati di aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete, e delle cure più necessarie alla vita. Li ho visti in balìa di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci. (Jean-Etienne Esquirol, Des maladies mentales, 1818)
Solo l’angoscia d’ineluttabile fatalità? … Gente avvilita, silenziosa, con la testa bassa, che passava i giorni gettata in un corridoio, se Voi iniziavate un’assemblea di reparto, un’assemblea di tutto l’ospedale, rialzavano la testa, incominciavano a parlare e, quando chiedevano la parola non è per dire una delle loro follie, ma per chiedere: “Ma perché non miglioriamo il vitto? Perché non cominciamo a uscire fuori?”. E questo lo facevano insieme. Ecco allora si creava una coscienza. Allora io vorrei fosse chiaro che la condizione di sofferenza che noi chiamiamo “malattia mentale”, “nevrosi”, o con altri termini brutti e di gergo, è una condizione, come tutte quelle umane, trasformabile, anzi, che dalla trasformazione trae modo di superamento di se stessa. (Sergio Piro, da un’intervista del maggio 1999 in un dibattito nel Liceo classico Giambattisa Vico di Napoli) 19
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Il reparto delle vecchine a letto
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Dopo la laurea feci un periodo di pratica in manicomio dove una giovane suora con pazienza e perizia mi insegnò a fare le iniezioni endovenose alle ricoverate agitate mentre si ribellavano e si dimenavano dopo aver inutilmente tentato di convincerle. Una volta, nel divincolarsi e contorcersi di una donna per non esser punta, finimmo a terra sotto il tavolo dove, con l’aiuto di lei, riuscii a fare l’iniezione prescritta. Fu osservandole dopo i primi giorni che presi a notare la differenza di espressione di volti che all’inizio mi sembravano tutti quasi uguali. Una volta lei mi accompagnò, mostrandomi così un altro triste aspetto della sofferenza, in un comparto di donne molto anziane permanentemente a letto. Esse non potevano trascorrere qualche ora in giardino, eppure per loro sarebbe stato possibile andarvi se solo aiutate a camminare o condotte su carrozzine, ma c’erano due rampe di scale da scendere e poi risalire. Nell’avvicendarsi dei turni delle infermiere quella suora era quasi l’unica persona che per la continuità della sua presenza aveva stabilito dei rapporti umani con quelle povere donne, ma era sola e non poteva fare di più, né era ascoltata in qualche sua richiesta dall’ordinamento gerarchico dell’istituzione. E le scale? Sarebbe bastato un ascensore o più facilmente dislocare diversamente i dormitori del reparto. Certamente sarebbe stato molto importante per le ricoverate prendere un po’ di sole e respirare l’aria del giardino e rivedere qualche albero e l’erba e i fiori. Avrebbero ripreso un po’ di colorito e ricordato qualcosa della propria vita passata. Ma questo l’ho pensato dopo, non allora. Fui in ciò apatico e inerte. È molto triste, ma è così. Eppure fuori dal manicomio ero impegnato anche in imprese politiche mosso da ideali per cambiare la società e il mondo. Lì ero fuori dal mondo, scrivevo con zelo cartelle cliniche e approfondite annotazioni circa possibili diagnosi differenziali come compito assegnatomi dal primario, e non mi posi proprio il problema delle vecchine e delle scale per andare in giardino. Ero intento sostanzialmente allo studio dei sintomi per fare le diagnosi, e poi ero preso in quel tempo anche da ricerche sull’e-
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spressione dei sentimenti nei primati e nell’uomo. Ero troppo assorto in queste cose e mi sfuggiva l’essenziale cognizione della sofferenza quotidiana di quelle persone. Stavo nel manicomio come in una neutrale parentesi di studio. Non mi resi conto che con la mia giornaliera presenza in quel reparto avrei potuto anche io, oltre alla giovane suora, trovare il tempo e il modo di essere più vicino sul piano umano a quelle donne e alla loro sofferenza e agire di conseguenza al di là di gocce, pillole, iniezioni e valutazioni cliniche. Non avremmo dovuto essere, io semplicemente un laureato in medicina che faceva pratica e ricerca, e loro solamente delle ricoverate, degli oggetti da studiare. Sarebbe stato sufficiente essere solo un po’ più attento alle elementari necessità della loro esistenza quotidiana che andava consumandosi così miseramente. Insomma un po’ di carità e di amore. Dov’era la mia anima? È possibile che anche ora, in luoghi non più chiamati manicomi, giovani medici e altri operatori non si pongano problemi che io allora non mi posi? E che si tolleri l’intollerabile? Dopo tanti anni, nel 2010, appresi che una donna disabile che non poteva discendere le scale di una casa senza ascensore, era rimasta per quindici anni senza mai uscire se non una volta l’anno. … Imparate ad avvicinarvi alla gente… Aggiungerei persino: rendetevi indispensabili. Ma fate in modo che questa simpatia non nasca nella mente – perché è facile con la mente – ma nel cuore, con l’amore verso le persone… (T. Fisher Unwin, Londra 1918 in Virginia Woolf, L’anima russa)
La leucotomia Sempre dopo poco tempo dalla laurea mi capitò di assistere in un manicomio ad un intervento di leucotomia trans-orbitaria (distruzione di strutture nervose del cervello penetrando all’interno del cranio con uno strumento chirurgico che perforava la volta dell’orbita) in uno schizofrenico. Stavo proprio di fianco al lettino operatorio e osservavo con attenzione la manualità tecnica del chirurgo.
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C’era chi affermava che si trattasse di un vero e proprio crimine, ancorché non ancora proibito dalla legge, poiché non aveva alcuna efficacia terapeutica ma solo irreversibili gravi effetti dannosi. Avrei dovuto obiettare qualcosa, ribellarmi, andarmene via. Non considerai che chi assiste ad una scelleratezza senza cercare di impedirla ne è complice. Non feci niente, non ci pensai proprio. La grave connivenza delle omissioni! La mia attenzione era presa solo dall’aspetto tecnico dell’intervento. Ero stato cieco su ogni aspetto umano della situazione. Che fare ora se non invitare e scongiurare i giovani a riflettere, sempre, sul forte potere di ottundimento della sensibilità e di obnubilamento delle capacità di giudizio critico, di vera e propria alienazione che le istituzioni totali e il loro terreno culturale esercitano su tutti? Un vero e proprio contagio di violenza. Una violenza talora non apparente, fredda e silenziosa. E la terribile crudeltà dell’indifferenza. L’induzione dell’ambiente e dei pregiudizi dominanti, e l’ambigua banalità del male sono forse alibi sufficienti?
I formaggini fradici e i campanelli
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In una clinica psichiatrica i formaggini dati per secondo piatto erano quasi fradici. I ricoverati si lamentarono con me che all’epoca incominciavo a svolgere l’attività volontaria di medico interno. Mi limitai a dire loro di protestare con il direttore. La monaca capo-sala, cui nulla sfuggiva, riferì a lui che ero io il sobillatore, egli allora per smascherarmi convocò tutti i sanitari e chiese quale fosse a loro parere la qualità del vitto somministrato ai ricoverati. Tutti fraintesero e ritenendo che egli volesse sapere il vero risposero in coro che il cibo era cattivo laddove, come fu subito chiaro, egli si attendeva che tutti dicessero il contrario e venisse smentito il fomentatore, difatti l’inquisitore si volse irritato con aria interrogativa alla monaca, la quale un po’ confusa replicò – ma è proprio lui che li istiga.
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Comunque non fui cacciato: io restai e i formaggini pure. Ritenevo di aver fatto il possibile, ma chi stabilisce i limiti del possibile? Nella stessa clinica mancavano nei dormitori campanelli di allarme per eventuali soccorsi di emergenza. Di notte vi era un solo infermiere per tre piani, ed era forse positivo che vi fosse un solo guardiano, o vigilante che dir si voglia, ma era negativo che, in caso di necessità non vi fosse modo di avvertire qualcuno, come invece avveniva in ogni ospedale o clinica non psichiatrica. Qualche ricoverato, specie tra quelli paganti, se ne lamentò. Mi limitai a fare delle richieste ma, rimasto inascoltato, la smisi di importunare. Ho impiegato molto tempo per passare da un’astratta nozione di deontologia al concreto farmi carico delle reali necessità quotidiane, anche minute, di chi soffre. Una metamorfosi lunga e non semplice.
L’incidente sul lavoro Sempre in quei tempi tanto lontani del mio tirocinio neuropsichiatrico, in una clinica fu ricoverato, per conto dell’Istituto degli infortuni sul lavoro, un operaio con disturbi psichici accusati dopo un trauma cranico riportato nel lavoro, e si richiedeva la certificazione di un eventuale nesso di causalità tra infortunio e malattia. Dal primario fu posta invece, per quei disturbi, la diagnosi di paralisi progressiva da infezione luetica antecedente al trauma. Senza adeguate motivazioni, senza dimostrare con certezza, o almeno con criterio di alta probabilità, l’inesistenza di un reale rapporto di causalità tra l’incidente e il danno, quindi in una situazione incerta. Senza inoltre tener conto che, in sede di infortunistica sul lavoro, si tende a invertire l’onere della prova e che nel dubbio prevale la tesi favorevole all’infortunato, egli escluse ogni rapporto tra l’incidente e i disturbi psichici riscontrati. Pertanto, pur senza alcuna provata dimostrazione dell’estraneità del trauma cranico subito, nessun risarcimento fu riconosciuto all’operaio. Alcuni di noi assistenti ritenemmo errato il parere medico-legale. Solo una giovane collega, Ornella Sepe, quando leggemmo e
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commentammo tra noi la conclusione nella cartella clinica, esclamò indignata che era una cosa ingiusta e intollerabile, ma noialtri fummo supini e muti spettatori, pur dissentendo clinicamente non contestammo, e tutto finì lì.
Dalla clinica al manicomio Da parte di taluni dello staff medico era frequente rivolgere, con tono punitivo e ricattatorio, l’intimazione ai ricoverati se date fastidio vi trasferiamo al manicomio! Non ci si rendeva conto della violenza e del danno psicologico di tale minaccia, di sempre incombente e terribile rappresaglia. Tale pauroso avvertimento punitivo, subdolo o brutalmente esplicito, mi è risultato poi presente in taluni reparti psichiatrici o in cliniche private, prima che fossero stati aboliti i manicomi, i quali restavano pertanto l’incivile e terribile soluzione finale per i malati fastidiosi o disubbidienti. Il ricatto era abituale forma di violenza psicologica. La tecnica del terrore.
Al terzo piano
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C’era il reparto dei parkinsoniani al terzo piano, o forse al quarto, dopo tanti anni non ricordo bene. Essi erano rinchiusi lì. Solo uno, meno anziano, usciva per andare a prendere il vitto in cucina o fare qualche piccola commissione. Lo ricordo, ne conoscevo anche il nome che ora non rammento più, era di mezza età, sdentato, più che parlare mugugnava, curvo con andatura dinoccolata, scendeva e saliva sempre per le scale di servizio, lasciava una scia di cattivo odore di sudore, urina e sudiciume. Per gli altri non c’era possibilità di andare fuori. Erano lungodegenti, all’ergastolo senza speranza di grazia o commutazione di pena. Non avevano un cortile per uscire almeno un po’ dalle mura, all’aria aperta. Per me, assegnato ad uno dei reparti dei primi piani, erano come entità sconosciute. Chi erano, come erano, come vivevano? Come mai non mi venne la curiosità e l’interesse umano di salire?
FRAMMENTI
Come potevo accontentarmi di vivere e lavorare per la gran parte della giornata e talora della notte nell’assurdità di mondi separati, non comunicanti, misteriosi, indifferenti l’uno all’altro? Una simile perniciosa separatezza ho poi riscontrato tra i reparti di tutti i manicomi, ed essa sussiste molto spesso anche oggi tra vari servizi e strutture di dipartimenti di salute mentale. A tale scollegamento non mi risulta sia possibile rimediare per via burocratica. Non è un coordinatore o un direttore che possa essere di per sé sufficiente a trasformare entità dissociate e non abituate al lavoro di gruppo in un unitario coordinato insieme di efficace cooperazione. Nella collaborazione taluni, invece di un’opportunità e di una risorsa con uno scambio di esperienza e di saperi, vedono una indebita intrusione, una perdita di prestigio e di dominio. E il manicomio così continua a esistere, in altra forma, nella testa di manager e di operatori.
La signorina e il cane Sempre in quei lontani anni, mi capitò per breve tempo di fare le guardie notturne in una clinica psichiatrica privata, una grande villa con un bel parco. In una camera era accolta una non più giovane signorina che soffriva di fobie di cui la prevalente riguardava i microbi. Usciva raramente dalla sua stanza per paura di contaminarsi, toccava solo oggetti da lei disinfettati e aveva, sparsi in vari punti del suo ambiente, delle bottigliette di alcool etilico con batuffoli di cotone – per pronto soccorso, diceva lei. Non starò qui a riportare tutti i suoi cerimoniali. Una sera la trovai in preda ad una grande angoscia. Nel giardino e per le scale e i locali della villa gironzolava spesso un grosso e bel cane dei proprietari della casa di cura. Era socievole e docilissimo, con il quale molti ricoverati erano soliti giocare. Quel pomeriggio alcune infermiere, per fare uno scherzo, avevano spinto il cane nella sua stanza. Per lei fu un grande spavento provocato non dalla paura dell’animale, che conosceva e sapeva molto mite, ma dalla fobia dei microbi ospiti del suo pelo, dai quali riteneva oramai irrimediabilmente invaso il suo ambiente. Lei impiegò qualche settimana per superare lo stress. Disinfettò
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Ernesto Buondonno
ogni oggetto, ogni mobile e il pavimento della sua camera e si rinchiuse ancora di più nelle sue paure. La violenza psicologica che aveva subito era stata veramente molto grande. Parlai con lei per tranquillizzarla, rimproverai le infermiere e feci loro rapporto, ma non accadde niente, né insistei perché accadesse. Mi acquietai al formale burocratico dovere compiuto di far rapporto. Né indugio ora nello stigmatizzare l’inquietante male del quietismo a spese di chi non può difendersi. Lo lascio al giudizio dell’improbabile lettore di questi frammenti. Si tratta, in ultima analisi, anche qui, della “banalità del male”, per citare Hannah Arendt. Un’altra cosa ricordo di quella clinica. Alcune persone di una certa età, tra le quali rammento ancora un’anziana levatrice ed un farmacista in pensione ricoverato insieme alla moglie, erano morfinomani che si ricoveravano reiteratamente per brevi periodi, taluni mi risultò da anni. Per disintossicarsi veramente o per avere le loro dosi di droga? Lo chiesi soltanto a me stesso, mi considerai insomma solo quello che ero, il medico di guardia notturna e non mi impicciai d’altro. Il primario segnava le cure e gli infermieri eseguivano. Fui lieto dopo un po’ di andarmene, cessava così il rischio di essere implicato. Evitare le compromissioni: tortuoso arabesco di ambiguità.
Elettroshock e shock insulinico
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In un reparto c’era una grande camerata, un enorme stanzone: da un lato e da quello di fronte vi erano due file di letti, oltre una sessantina, da una parte per gli elettroshock e dall’altra per gli shock insulinici. Fui addetto a praticare gli uni e gli altri nel mio primo incarico di assistente in quel manicomio. Si alternavano gruppi di ricoverati, circa sessanta quasi ogni giorno, destinati all’uno o all’altro di questi due tipi di trattamento. Venivano posti in letti non separati l’uno dall’altro da paraventi o tende, così che ognuno aveva modo di osservare ciò che accadeva ai compagni degenti a fianco e a quelli del gruppo di fronte. Qualcuno subiva passivamente l’elettroshock, ma i più erano fortemente spaventati e riluttanti e si ribellavano agli infermieri
FRAMMENTI
che li tenevano fermi. Era per essi una vera tortura, specialmente quando avevano assistito alle convulsioni di tipo epilettico degli altri sventurati accanto, provocate dalla scarica elettrica. A quell’epoca non si usava ancora il curaro per impedire le convulsioni. A volte tali convulsioni possono produrre fratture. Per impedire che nelle contrazioni dei muscoli masticatori gli infelici si mordessero la lingua, gli si introduceva in bocca un tubo di gomma ripiegato. Al centro del salone vi era un grande tavolo con le siringhe per le iniezioni endovenose di soluzione di glucosio, da praticare per risvegliare i pazienti che erano stati previamente mandati in fase iniziale di coma ipoglicemico mediante iniezioni intramuscolari di insulina ad alte dosi: lo shock insulinico. Sul tavolo vi erano anche ciotole di alluminio piene di latte molto zuccherato da far bere dopo l’iniezione endovenosa. Spesso anche questi pazienti presentavano crisi convulsive. Ero molto solerte esecutore degli ordini del primario, ma quel che è peggio era il ritenere che tutto ciò fosse veramente terapeutico, sottovalutando, anzi non valutando per niente, il forte vissuto di terrore di quei malcapitati. A distanza di tanti anni ho ancora negli occhi quelle scene e nelle orecchie gli scricchiolii delle articolazioni durante le convulsioni provocate a quelle sventurate persone.
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170 mm
Frammenti. Piccole storie di psichiatria, narra, in oltre duecento brevissimi racconti, il manicomio, le sue violenze, la lotta di liberazione, la presa di coscienza di un medico e di un uomo, l’incontro decisivo con la figura umana e intellettuale di Franco Basaglia e con l’umanità sofferente. Buondonno racconta la storia del suo cambiamento personale e professionale ponendo al centro la domanda che per sempre lo ha interrogato: la lunga cecità verso la violenza e il sopruso da parte di lui medico (studioso e di sinistra), la potenza negativa del manicomio, che nella sua disumana assurdità tuttavia irretisce, soggioga, devia… quale meccanismo agisce? L’induzione dell’ambiente e dei pregiudizi dominanti e l’ambigua banalità del male sono alibi sufficienti? E se non lo fossero, cos’altro ci sarebbe da capire, da spiegare per evitare che si riproduca quel “vero e proprio contagio di violenza” che Buondonno – pur avendolo poi con passione e coscienza combattuto – si rammarica di aver subito e a lungo non contrastato? La zona dominante del libro, forse la sua mozione segreta, è il diagramma di una crisi, il riflesso di una progressiva presa di coscienza che drammaticamente svela sia il manicomio per quello che è (un ergastolo che punisce, che ammala e non cura) sia l’anacronismo di una disciplina psichiatrica nei cui micidiali tabù politici – come negli annosi protocolli clinici – si annida tutto il peggio di quanto fu detta l’autobiografia italiana. La storia di Ernesto Buondonno è la nostra storia, la storia di tutti, di chi ha lottato per il cambiamento, di chi ha cercato di ostacolarlo e di chi è rimasto alla finestra.
Ernesto Buondonno, psichiatra, libero docente (Nocera Inferiore 1925 – Fermo 2019). Ha lavorato a Napoli, Lecce, Palermo, Pistoia e Fermo. È stato militante di Psichiatria Democratica e del P.C.I.
ISBN 978-88-6153-873-3
Ernesto Buondonno Ernesto Buondonno
“Ho vissuto nei tristi e sconvolti luoghi della follia ed è incredibile l’insospettata spiritualità che ho incontrato in quei mondi. Vi sussistono sentimenti che, come semi, sopravvivono sepolti e fioriscono in infinite forme e colori meravigliosi. Può comprenderlo veramente solo chi, al di là della tecnica, ha imparato ad essere vicino a quelle anime.”
Euro 22,00 (I.i.)
170 mm
21 mm
Frammenti
67,5 mm
Frammenti Piccole storie di psichiatria
62,5 mm