Genitori felici

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Crescere felici con i propri figli

GENITORI FELICI

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GENITORI FELICI

Crescere felici con i propri figli

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Lidia Piatti

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GENITORI FELICI GENITORI FELICI

La felicità… bah!!! Pagine e pagine, anzi volumi e volumi scritti da filosofi, psicologi, scienziati, teologi… eppure dimentichiamo che, in fondo, tutti i genitori si pongono domande a partire dalla comune aspirazione alla felicità per sé e per i loro figli. E le risposte non le ritrovano riflettendo sui massimi sistemi, ma solo all’interno della loro vita quotidiana, sperimentando, ad un certo punto, una pienezza della relazione educativa. Queste pagine sono rivolte ai genitori che si ripropongono di vivere la propria funzione con gioia. A coloro che, pur tra alti e bassi, comunque si appassionano al compito di rigenerare continuamente se stessi insieme ai loro figli. Ai genitori che non vedono il loro mandato come un dovere gravoso e non lo vivono come un’abitudine. Piuttosto, lo sentono come una “chiamata” da parte della vita, a cui rispondere con entusiasmo, perché sentono la gratuità della presenza dei figli nella loro vita… E se anche si fossero ritrovati un giorno ad essere genitori per caso, in seguito hanno scelto di esserlo per davvero. Questo libro, inconsueto ma indispensabile, accattivante ma denso, è rivolto a tutti quelli che sono alla ricerca non solo della felicità dei loro figli, ma anche del modo migliore per essere genitori, rimanendo se stessi e con la gioia di esserlo.

Lidia Piatti

Crescere felici con i propri figli

Lidia Piatti, è counsellor secondo l’Approccio Centrato sulla Persona e formatrice del Metodo Gordon. L’attività di formazione e conduzione di gruppi di genitori, insegnanti, operatori sociali sulle diverse tematiche educative la vede impegnata sul territorio da vent'anni. Svolge attività di consulenza psicopedagogica sia in studio che presso enti pubblici e privati. Nelle scuole progetta e realizza interventi con i gruppi classe e gestisce “sportelli di ascolto”. Collabora dall’85 con la comunità terapeutica Arca di Como. È stata responsabile dell’èquipe psicopedagogica della coop. soc. Prospettive. È madre “con passione” di due figli, oggi giovani adulti. Con la meridiana ha pubblicato Emozioni in gioco. Carte per educare alle competenze emotive (2008).

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

ISBN 978-88-89197-86-2

Euro 13,00 (I.i.)

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Lidia Piatti GENITORI FELICI Crescere felici con i propri figli

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Indice

Prefazione........................................................ 9 La ricerca della felicità ....................................16 Autostima e fiducia ....................................... 29 L’intelligenza del cuore ................................. 48 Educare alla sofferenza e al limite ................ 62 La visione positiva del futuro ....................... 75 Bibliografia .................................................... 81



Prefazione

“E vissero felici e contenti…” Così solitamente si concludevano le fiabe popolari. E chi non ha sognato, almeno una volta anche da adulto, che questo finale si avverasse per sé e per i propri figli? Di tanti genitori che ho incontrato nelle scuole, nei corsi di formazione, nei colloqui individuali, non ne ho trovato nessuno che, almeno a parole, non dichiarasse di volere la felicità del figlio e non si adoperasse per fare tutto quello che era in suo potere per fare di lui, prima un bambino, poi un adulto felice. Prendendo atto di questo desiderio, ho creduto utile proporre ai genitori dei percorsi sulla felicità, per confrontarsi sull’idea e sull’esperienza che ognuno di noi se ne è fatta, per interrogarsi se e in che misura i genitori possono incidere sulla felicità dei figli, cosa significhi nella realtà di oggi “volere il bene” dei figli e, soprattutto, attraverso quali strategie educative, quali prassi, è possibile tentare di avvicinarsi all’obiettivo. Una parte delle riflessioni che ne sono nate sono confluite in questo testo che si propone non tanto come manuale per garantire e garantirsi la felicità, obiettivo ovviamente impossibile, ma come indicazione di “piste” da percorrere gradualmente insieme ai figli. Genitori e figli insieme, dunque, nella convinzione che non si può dare ciò che non si ha, né pretenderlo dai figli o augurarselo per loro se i genitori stessi non sono interessati e non si impegnano a cercare di raggiungerlo. Ecco alcune premesse da tenere presenti durante tutta la lettura: • per raggiungere una meta non c’è un’unica strada; • nessun genitore può delegare ad altri la fatica di trovare quale sia la sua; • nessuna affermazione contenuta in questo testo è da intendersi in modo assoluto; • nessuno è “esperto di felicità” (neppure chi scrive!), né tanto meno può esserlo di quella altrui. Stiamo solo cercando insieme, imparando da chi la felicità l’ha conosciuta, chi l’ha appena intravista, chi l’ha perduta, chi la GENITORI FELICI

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cerca per nuove strade. Lavorare nell’ambito del disagio giovanile offre un’occasione in più di riflessione e suggerisce qualche indicazione per orientare se stessi e i figli verso quella che chiamiamo “felicità”, così come, progettare e realizzare interventi di promozione del benessere, stimola la ricerca e la verifica sul campo di nuove vie che favoriscano il benessere dei bambini e dei ragazzi, in famiglia e a scuola. Prima madre: “Al parco, stamattina, qualcuno mi diceva che mio figlio ha un’aria così felice!”. Seconda mamma: “Effettivamente ha un viso sereno, sembra contento!”. Prima madre: “Forse è così. Per ora, almeno. Poi chissà… Non sarà sempre così... Tutti sono contenti da piccoli. Non appena crescono, però…”. Seconda mamma: “Anche quell’altra signora ha un bimbo in braccio all’incirca dell’età del tuo (18 mesi). Ma il suo non sembra affatto felice!”. Prima mamma: “È vero, forse non tutti i bambini sono felici”. Colgo al volo questo scambio di battute tra giovani mamme. Mi colpisce la coincidenza e m’introduco nella conversazione che mi intriga alquanto in questo momento e dico: “Sto scrivendo un libro per genitori interessati alla felicità dei figli e alla loro”. Prima madre: “Davvero?!” (dall’espressione deduco che non le pare vero!). Rivolta all’altra madre: “Senti, senti… Uscirà un libro sulla felicità, dei bambini e dei genitori…”. Rivolgendosi a me, chiede: “Come si chiama lei? Mi dica il titolo del libro, che lo acquisterò senz’altro!”. Io, sorridendo: “Si fida così, sulla parola…?”. Insospettita, vuole assicurarsi, tra lo scherzoso e il serio: “Ma lei ce l’ha una bella mappa con tutte le indicazioni giuste che portano di sicuro alla felicità?”. Io: “Eh sì, sarebbe bello trovare qualcuno che abbia le indicazioni precise precise da dare… e sia in grado di guidare altri lungo una strada, magari comoda e sicura, che vada dritta alla meta… Ma siete davvero sicure che sia possibile?”. La seconda madre: “Già, forse non c’è nessuna mappa… (Dopo un attimo) E poi, si può davvero essere felici? E lei cosa intende per felicità?”. 10

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I dubbi si accavallano, le domande si rincorrono, senza attendere una risposta, finché arriva quella che mi sembra la “domanda-test”, la prova del nove: “Scusi, ma… i suoi figli sono felici?”. Mi viene spontaneo ribattere: “Perché non mi chiede se anch’io sono felice?!”.

Questo scambio di battute, realmente avvenuto nel periodo in cui elaboravo le mie riflessioni sul tema, nella sua immediatezza e semplicità, mi pare vada a toccare una parte almeno dei temi intorno ai quali si è sviluppata la mia ricerca sulla felicità. Certamente filosofi, psicologi, scienziati, teologi si interrogano, studiano, scrivono intorno ad un argomento che da secoli stimola alla ricerca e al confronto… ma anche le mamme (e i papà naturalmente), dal loro punto di vista, si pongono domande e cercano risposte alla comune aspirazione alla felicità per sé e per i loro figli. E le risposte le possono solo trovare e calare all’interno della loro vita quotidiana. Forse ad alcuni di loro piacerebbe anche leggere pagine sui massimi sistemi, ma non ne hanno il tempo, né le energie, presi come sono a fare i genitori dei loro figli e ad essere nella pratica il più possibile quelle persone che vorrebbero essere nelle intenzioni. È a questi genitori che si rivolgono le pagine che seguono, come pure a tutti quelli che, pur tra alti e bassi, comunque si appassionano al loro compito, che è quello di rigenerare continuamente se stessi insieme ai loro figli. Quelli che non vedono il loro mandato come un dovere gravoso e non lo vivono come un’abitudine. Piuttosto, lo sentono come una “chiamata” da parte della vita, a cui rispondere con entusiasmo e gioia, perché sentono la gratuità della presenza dei figli nella loro esistenza… E se anche si fossero ritrovati un giorno ad essere genitori per caso, in seguito hanno scelto di esserlo per davvero. Mi rivolgo a tutti quelli che sono alla ricerca non solo della felicità loro e dei loro figli, ma anche del modo migliore in cui poter fare i genitori, rimanendo se stessi e con la gioia di esserlo.


A quelli che, semplicemente, stanno cercando l’occasione per aumentare un poco il grado della loro consapevolezza, per esprimere meglio le risorse che già sentono di avere, per verificare ciò che già stanno facendo, per imparare qualcosa di nuovo, se possibile.

Guida alla lettura In questo periodo della mia vita ho la fortuna di godere di condizioni generali (quali l’età, la salute e, non ultimo, l’essere alleggerita dalla responsabilità di accudire figli piccoli) che mi permettono di prendermi del tempo per assaporare quanto la vita personale e professionale mi hanno offerto e continuano ad offrirmi, per rielaborare le esperienze vissute, per approfondire, anche attraverso l’esperienza di altri, e offrire quindi ad altri genitori alcuni spunti di riflessione di confronto ed anche qualche indicazione pratica. Si tratta di “tracce”, di itinerari percorribili e già percorsi: non sono autostrade comode e facili, né scorciatoie. Richiedono impegno, determinazione, puntano in una direzione precisa e orientano alla meta. Nel parlare di felicità ho tenuto conto naturalmente delle ricerche e degli studi fatti in particolar modo negli ultimi anni, ma soprattutto ho cercato di tenere presenti i bisogni, i vissuti, gli interrogativi, i dubbi e le testimonianze raccolte da tanti genitori e tanti bambini/ragazzi incontrati nella mia vita. Riassumiamo i concetti chiave nei seguenti punti: • La nostra attenzione in questo testo si focalizza sulla famiglia, microcosmo di una

• •

comunità più ampia che rimane tuttavia sullo sfondo. Non c’è una definizione unica di felicità, né un unico percorso per raggiungerla. Ognuno ha la sua idea di felicità e può trovare la sua strada. Insieme ci si può aiutare, come compagni di viaggio. Di felicità, almeno di quella possibile in questa realtà terrena, possiamo parlare solo in termini di qualcosa di relativo, parziale e discontinuo. Facciamo quindi riferimento ad un concetto di felicità intesa come serenità di fondo, come gioia di vivere, come ricerca di significato, come evoluzione. Un punto fermo: l’esperienza della felicità ci appare intrinsecamente legata a quella dell’amore (per noi stessi e per gli altri, l’amore dato e ricevuto). L’ansia di raggiungere a tutti i costi la felicità ce ne allontana. Dopo tutto, lasciarsi andare a vivere è preferibile e più vantaggioso! La felicità e le strade per raggiungerla saranno ancora altro rispetto a tutto quello che ci saremo detti…

La strada come metafora dell’educare La metafora della strada e del cammino si presta bene ad esemplificare il compito dell’educare (e dell’educarsi reciprocamente). Mi piace, cioè, pensare all’avventura dell’essere genitori come a un cammino in cui padri e madri si muovono e avanzano insieme ai figli, incontrandosi e accompagnandosi di tanto in tanto con altri genitori, viandanti come loro. GENITORI FELICI

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Una volta stabilita la meta, è sufficiente non perdere di vista il punto di arrivo, tenere d’occhio i punti di riferimento e fissare in modo non rigido le tappe intermedie. Incoraggiandosi a vicenda e condividendo le difficoltà del cammino, i due genitori accompagnano i figli lungo la strada, adeguano il ritmo, distribuiscono il carico secondo l’età, i ruoli, la responsabilità, alimentano i corpi ma anche gli animi, si concedono il riposo e soprattutto coltivano il piacere dello stare insieme e del procedere. E quando si perde la strada, sono i genitori stessi ad orientare e a decidere la direzione, magari consultando le carte geografiche, chiedendo indicazioni agli esperti del luogo o a chi ha già percorso quel tratto di strada... A volte si rende necessario sorreggere in braccio chi ha mosso solo i primi passi, a volte prendere i figli per mano e guidarli, a volte sostenerli con le parole, a volte incoraggiarli a camminare con le proprie gambe. Genitori abbastanza attenti e sensibili sanno capire quando è il momento di sostare per far riprendere il fiato, quando fermarsi ad aspettare chi rimane indietro, quando precedere chi si attarda o sospingere con delicatezza o con forza chi si arresta. Rialzano e consolano il figlio che è caduto e si è fatto male, lo spronano a proseguire, indicandogli la meta e facendogli pregustare quanto essa sia appetibile e desiderabile, lo rassicurano sui pericoli e le difficoltà che potrà incontrare, offrendogli la certezza di poter contare sempre su papà e mamma in caso di bisogno. Gli insegnano anche a guardarsi indietro, ogni tanto, per provare la soddisfazione per il cammino già fatto e per alimentare la fiducia nelle sue forze… Lo aiutano a scoprire, ad utilizzare e misurare le sue capacità, fino ad incontrarsi con i limiti personali e a non averne paura. Tutto questo finché il figlio avrà imparato a camminare con le sue gambe, sarà adeguatamente dotato degli strumenti e dell’attrezzatura necessaria per far fronte all’impegno, agli imprevisti e alle prove del cammino e sembrerà 12

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ragionevolmente capace di utilizzarli… A quel punto avrà in mano la bussola della sua vita, potrà proseguire da solo e potrà decidere a sua volta quali mete darsi, al di là del punto raggiunto con i genitori.

Che cos’è la felicità? Alcune domande affiorano non appena ci accostiamo all’argomento: cosa intendiamo quando parliamo di felicità? Quale felicità è possibile per noi e per i nostri figli? Fin dove arriva il nostro potere, come genitori, di rendere i figli più o meno felici? Tenteremo di tracciare alcune risposte. Come esseri umani tendiamo naturalmente a ricercare la felicità. Dal momento però che parliamo appunto come esseri finiti, abbiamo della felicità un’esperienza e un concetto necessariamente limitati al nostro orizzonte umano e personale. Se la ricerca accomuna tutti, non c’è tuttavia un unico modo di concepirla e definirla, né un’unica strada per raggiungerla. Ognuno di noi se ne è fatta un’idea, per averla “assaporata” in qualche circostanza, più spesso per averla immaginata o sognata. In realtà, ognuno può arrivare semplicemente ad averne una certa consapevolezza e a dire che “essere felice, per me, in questo momento della mia vita, significa questo…”. Sappiamo anche, se abbiamo maturato una visione abbastanza realistica della vita, che non è possibile godere di una felicità in senso assoluto, piena, totale, ininterrotta. L’assoluto non è alla nostra portata (almeno su questa terra!).


La felicità in pillole “Uno stato di benessere caratterizzato da una relativa permanenza, da emozioni prevalentemente piacevoli, che possono variare da una semplice contentezza ad una gioia di vivere intensa e profonda, e un naturale desiderio che questo stato permanga nel tempo” (CavalliSforza, 1998). Stato di pieno appagamento. Stato perfetto dell’anima. Estasi. Per alcuni è “avere tutto, possedere”, per altri “essere” nel senso più pieno del termine. Per altri è il semplice intervallo tra due dolori: “La sospensione della pena” di Leopardi. Per gli spot pubblicitari la felicità sembra stia nell’avere quella cucina, quella crema, quell’auto… Per la gente comune è star bene, sentirsi bene. “La felicità spesso è associata al sentimento di gioia che si prova nei momenti di divertimento oppure nell’eccitazione dell’innamoramento. Ma la vera felicità è molto di più di queste sensazioni piacevoli: è la serenità che ci pervade quando siamo veramente in pace con noi stessi. È l’appagamento spirituale che proviamo quando sentiamo di essere in armonia con gli altri, con la natura, con il mondo intero”. È quel senso di sicurezza che ci rende tranquilli quando non abbiamo problemi economici. È la spinta che deriva dal perseguire obiettivi importanti e la soddisfazione che proviamo nel raggiungerli”1.

In questo contesto preferiamo usare il termine “felicità” per indicare uno stato di benessere di fondo, di armonia con se stessi e con la realtà circostante. Tale stato di benessere (fisico e psicologico) presuppone che i bisogni fondamentali trovino un’adeguata soddisfazione. In realtà pensiamo che non si tratti di una questione così semplicemente liquidabile: ad esempio saper affrontare le perdite e i limiti, una delle piste proposte (vedi il capitolo Educare alla sofferenza e al limite), significa riuscire ad essere abbastanza sereni anche in mancanza di qualcosa di importante, pur non avendo soddisfatto adeguatamente i bisogni fondamentali. Significa non vincolare necessariamente la feli-

1. Descalzo in Giusti, Perfetti, 2004, p. 36.

cità o il senso della vita al fatto che i nostri bisogni siano soddisfatti… Le cose umane, almeno così mi sembra, non sono così determinate. La persona umana attinge a risorse invisibili. La vita sorprende con occasioni inaspettate e sovverte ragionamenti e previsioni. La felicità a volte non ha spiegazioni, la si prova e questo è tutto. Diciamo, in qualche caso, che è indicibile.

I genitori hanno il potere di rendere felici i figli? A maggior ragione riconosciamo che non rientra del tutto nelle nostre possibilità rendere felice qualcun altro, almeno in modo continuativo e completo. Neppure quando questo altro è un figlio! Infatti, pur con tutto l’amore di cui i genitori sono capaci nei confronti dei figli, con tutto il desiderio di felicità che nutrono per loro e i sogni che coltivano, dobbiamo riconoscere in più occasioni la loro (e nostra) impotenza! O meglio, prendere atto che dispongono di un potere limitato. Non è neanche vero, infatti, che i genitori non possano fare nulla per la felicità dei loro figli. Creare condizioni favorevoli alla felicità nel presente e nel futuro, gettare le fondamenta del benessere fisico e psicologico dei figli dipende anche da loro. Anzi, quanto più i figli sono piccoli, tanto maggiore è il potere di papà e mamma di influenzare positivamente il loro sviluppo. Grande è quindi il potere di chi educa, per quanto parziale esso sia e non del tutto determinante! GENITORI FELICI

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È la bellezza dell’essere genitori, condizione potenzialmente carica di soddisfazione e capace di arricchire di significato la vita. Ma è anche una responsabilità seria, che richiede impegno e “sacrificio”. Una parola scomoda quest’ultima, relegata oggi tra quelle tabù, ma da recuperare, riteniamo, in quanto intrecciata indissolubilmente con quell’altra sulla quale stiamo ragionando, “felicità”, appunto.

senterà anche un criterio di scelta dei comportamenti da adottare volta per volta nelle diverse situazioni che si presenteranno. Così la coppia o il singolo genitore ritrova all’interno di sé (e non all’esterno) i punti di riferimento in base ai quali agire.

Vivere in prima persona Obiettivi educativi e felicità L’operazione da compiere, preliminare ad ogni altro discorso, è quella di interrogarsi sulle finalità del proprio agire e di condividere, possibilmente all’interno della coppia, quali siano le mete, gli obiettivi, dell’azione educativa in famiglia. I genitori hanno il diritto e il dovere di dare la loro risposta a questo interrogativo, a mio parere ineludibile, e lo faranno in base ai valori che guidano la loro vita, tenendo conto delle loro storie personali, dei limiti esterni e interni e delle risorse di cui dispongono. Il discorso delle mete naturalmente si interseca con la declinazione che la coppia fa del termine felicità: se ritiene, ad esempio, che essere persone autonome in età adulta sia una delle condizioni (necessaria ma non sufficiente) per aumentare le probabilità di essere felice, è probabile che l’acquisizione graduale dell’autonomia da parte dei figli sia una delle mete che la coppia terrà presente nel crescere i figli. E se favorire l’autonomia, tenendo conto dell’età e delle diverse variabili di contesto, è uno dei compiti educativi che la coppia si dà, rappre14

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“Le parole insegnano, gli esempi trascinano. Solo i fatti danno credibilità alle parole”. (S. Agostino) Dal momento che, come tutti sanno, non si può dare ciò che non si possiede e nessun valore può essere trasmesso se non è vissuto da chi vorrebbe trasmetterlo, è evidente che i genitori trarranno più frutto dalla lettura del testo e dal loro intervento educativo se, prima ancora di cercare di far fare ai figli, tenteranno di fare loro stessi. È solo vivendo in prima persona ciò che consideriamo un valore e facendolo respirare in famiglia che noi accresciamo le probabilità che i nostri figli se ne innamorino e lo facciano proprio. In nessun altro ambito come in quello educativo, infatti, conta non tanto ciò che si dice, quanto ciò che si vive e si fa nella vita quotidiana. I nostri figli ci guardano vivere e imparano da noi, dalle nostre azioni, più che dalle “prediche”, dai rimproveri, dai lamenti, dalle suppliche e dagli ordini, ecc., per quanto ricorrenti essi siano. Imparano imitando comportamenti, gesti, sguardi, parole, toni, silenzi… Nulla è più potente del modello che offriamo per testimoniare modi di essere e valori.


Ma è anche vero che è educandoli che noi arricchiamo noi stessi e cresciamo con loro. Un motivo in più per essere grati ai figli, che “avendoci resi genitori” ci hanno coinvolto in questa avventura dell’educare educandoci!

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La ricerca della felicità

“La felicità nasce dall'infelicità. L'infelicità si nasconde in seno alla felicità”. (Lao Tseu) Ragionare tra sé di felicità, parlarne con il partner, con i figli, con altri genitori, significa già mettersi sulle sue tracce e volgere lo sguardo verso la meta. Questo primo capitolo è dedicato proprio ad una riflessione sulla felicità, quella personale dei genitori e quella che vorrebbero per i figli, e sul come tentare di avvicinarla. Abbiamo provato ad immaginare quale potrebbe essere il dialogo che un genitore intrattiene con se stesso nel momento in cui si apre alla riflessione sulla felicità in relazione ai figli: le speranze, le attese, gli interrogativi, i dubbi che lo attraversano e gli atteggiamenti che intende assumere coerentemente con gli obiettivi di felicità che si è posto. Vorrei tanto che mio figlio fosse felice. Magari più di quanto sia riuscito ad esserlo io. So che la possibilità che avrà da adulto di vivere in modo sereno, sentendosi, almeno per la maggior parte del tempo, in armonia con se stesso e con gli altri, gustando le piccole-grandi gioie che la vita può offrire, dipende, almeno in parte, da noi genitori. È come se, mentre lui cresce, noi andassimo preparando un bagaglio da dargli in dote. 16

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Sento tutta la bellezza e la responsabilità del mio ruolo e questo un po’ mi fa felice, un po’ mi spaventa. Ma so anche che una parte di responsabilità sarà nelle sue mani. Dipenderà anche da lui essere più o meno felice. Oltre che da quel pizzico di imprevedibilità, ingrediente essenziale che insaporisce la vita umana. Fintanto che sarà bambino, renderlo felice ci sarà relativamente facile (se tutto andrà mediamente bene). Sarà “sufficiente” soddisfare, al meglio delle nostre possibilità, i suoi bisogni materiali e affettivi. Ci capiterà allora di sentirci gratificati da nostro figlio, “potenti”, efficaci e soddisfatti di noi stessi. Basterà contemplare la sua espressione beata dopo la poppata o lasciarci contagiare dalla gioia che sprizza dal suo corpo nel momento in cui giochiamo con lui… Non appena sarà diventato più grandicello, però, ci scopriremo un po’ meno in grado di influire sui suoi stati d’animo. Non basterà più, per farlo contento, sfamarlo, coccolarlo, leggergli un libro, elogiarlo, passare insieme del tempo… Entreranno in gioco altri fattori, meno riconducibili alle nostre azioni. A quel punto io, incarnato nel mio ruolo di madre/padre, riuscirò ad accettare che la felicità di mio figlio non dipenda più tanto da me? Riuscirò a tollerare che “la mia creatura” sia a volte felice, a volte anche infelice? Resisterò alla tentazione di ritenermi l’unico responsabile del suo benessere o del suo malessere? Saprò mettere un limite al mio desiderio di farlo “star meglio ad ogni costo” e alla mia ansia nel darmi da fare per “aggiustare le cose” e “rimediare” al posto suo, quando qualcosa andrà storto? Inoltre, dato che una vita felice non è affatto scontata, quali messaggi realmente importanti per nostro figlio possiamo comunicare nel corso della nostra vita insieme, perché si assuma la parte di responsabilità che gli compete nel costruire la sua felicità futura? Il messaggio che vorremmo lui ricevesse è innanzitutto questo: “Noi siamo contenti se tu cerchi di essere felice. Crediamo infatti che sia tuo diritto e dovere cercare di vivere in modo sano, armonico, piacevole, piuttosto che triste e doloroso”. Poniamo, per un momento, di essere riusciti a comunicargli, con i fatti prima ancora che con le parole, questa sorta di “permesso”, un’autorizzazione al diritto di cercare la felicità. Il nostro dialogo interiore potrebbe continuare così: “Ti


illuderò, figlio mio/figlia mia, che la felicità sia lì a portata di mano, quasi che sia sufficiente allungare il braccio per afferrarla e farla tua per sempre? Ti lascerò credere che sia un tuo diritto, acquisito con l’atto di nascita, e dunque che ti spetti automaticamente? Non lo farò: proprio perché ti voglio bene, non voglio ingannarti. La felicità non ti verrà data gratuitamente. Né per sempre. Forse non sarà mai piena. Non potrai semplicemente attendere che altri te la procurino, né pretenderla, ma neanche farla dipendere troppo da avvenimenti esterni. Sarai soprattutto tu l’artefice della tua felicità. Essa sarà il frutto, almeno in parte, di un tuo desiderio, di una tua decisione e di un tuo impegno paziente. Anche se nemmeno così te la potrai garantire. Noi cercheremo di farti partecipe della nostra gioia di vivere, ti inviteremo a fare qualche “assaggio” della nostra felicità. Come meglio sapremo, ti indicheremo qualche traccia di una via, che tuttavia sarà solo la nostra personale via”. In fondo, ci sembrerebbe già un ottimo risultato se nostro figlio, durante la sua crescita, arrivasse a dire: “Desidero essere felice, per quanto sia possibile nella realtà. Riconosco questo come un mio bisogno legittimo. Sono disposto a lavorare per conquistare la mia felicità e a difenderla qualora fosse necessario. Non voglio essere felice a spese di altri, ma possibilmente condividere insieme ad altri la felicità che riuscirò a cogliere e a costruire, perché questo avrà l’effetto di moltiplicarla”.

Con ciò non stiamo certamente esaltando il bisogno e “il diritto” alla felicità come l’unico, l’assoluto, quello prioritario su tutti gli altri… Al contrario, lo consideriamo un punto di partenza: la ricerca del piacere muove l’individuo fin dal suo nascere e ne garantisce la sopravvivenza. È un desiderio che lo accompagna tutta la vita, una meta forse mai del tutto raggiunta in modo stabile nella realtà umana. Un punto di arrivo, forse. Per i genitori, è un obiettivo sul quale focalizzare l’attenzione e orientare l’impegno educativo. “Essere felice” non deve e non può essere trasmesso come un ordine di papà e mamma (e

come potrebbero dare l’ingiunzione di essere felici?) né può essere “preteso” dai genitori, magari per compensare la loro infelicità. Non è neppure un ricatto (che suonerebbe pressappoco così: “Tu devi essere felice per forza, altrimenti papà e mamma si sentono dei falliti”). Guai se i figli dovessero rendersi conto che mamma e papà dipendono per la loro personale felicità da quella dei figli! Che responsabilità tremenda sarebbe per loro! Se è vero che ogni individuo, crescendo, deve assumersi la responsabilità, per quanto gli compete, del proprio star bene o star male, ancora più lo è per i genitori che, in quanto adulti, hanno il dovere di separare ciò che provano (sia il senso di soddisfazione personale, la gratificazione, sia la frustrazione derivante dal successo o dall’insuccesso del raggiungimento dei loro obiettivi) da quelli che sono gli stati d’animo, i comportamenti, le vicende della vita dei figli. Infatti, per quanto importanti essi siano, i figli sono esseri distinti la cui vita inevitabilmente influenza quella dei genitori ma non la determina. Intendo dire che non la condiziona al punto che la responsabilità di come i genitori si sentono ricade sui figli.

La felicità dei genitori Se vi state inoltrando nella lettura di questo testo e vi siete sentiti sollecitati oppure anche solo incuriositi dall’interrogativo di fondo (“È possibile crescere felici, insieme, genitori e figli?”), probabilmente è segno che non siete il tipo di genitori a cui sta a cuore esclusivamente la felicità dei vostri figli, magari a scapito della vostra (modello oblativo-sacrificale), e neppure GENITORI FELICI

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siete di quelli che pensano unicamente al vostro benessere, ignorando quello dei figli (modello egocentrico). Se così foste, infatti, non vi porreste neppure l’interrogativo se i vostri figli sono felici, se e come la loro felicità possa espandersi e farsi più profonda in sinergia con la vostra. Diceva un giovane papà che partecipava ad un percorso per genitori incentrato sulla ricerca della felicità in famiglia: “Sono venuto a questi incontri perché sicuramente mi interessa il fatto che i miei figli stiano bene, ma altrettanto vorrei star bene io con loro. Sono interessato tanto al mio come al loro benessere”. Proprio così: nessuno dovrebbe uscire penalizzato in famiglia da questa ricerca di felicità che è un bisogno legittimo di tutti i suoi componenti, pur nella differenza di ruoli e nell’asimmetria del rapporto genitori-figli. Un genitore che “sta bene nella sua pelle” ed è contento della sua vita ha buone probabilità di essere una persona che espande gioia, distribuisce amore e immette semi di felicità nei suoi familiari. Da dove cominciare, dunque? Un buon inizio per i genitori potrebbe essere quello di chiedersi se sono felici e quanto tengono alla loro felicità. Quanta energia, ad esempio, sono disposti ad investire e quanto tempo ad utilizzare per cercare di vivere meglio? Capita spesso, infatti, che si impieghino molte energie per realizzare obiettivi esterni a sé (progredire nella carriera, acquisire determinati status symbol, assicurarsi una rendita…), ma non altrettante per cercare di raggiungere una maggiore felicità interiore. Questa, sebbene tragga indubbi vantaggi dal raggiungimento di alcuni obiettivi materiali (vedere soddisfatti i bisogni fondamentali di sopravvivenza fisica, la sicurezza economica), risulta essere il prodotto complesso di diversi fattori. Qualcuno forse non si pone neppure il problema, perché non crede sia possibile godere della felicità. Qualcun altro non crede di poter 18

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influire positivamente sulla propria felicità. Oggi, invece, anche le neuroscienze hanno dimostrato che è possibile contribuire ad accrescere il livello di felicità personale, agendo ad esempio su pensieri e stati d’animo.Verità che secoli di saggezza orientale avevano peraltro già scoperto. Dunque si può fare qualcosa, anzi molto! Da qui in poi ognuno si prenda la sua responsabilità riguardo almeno ad una parte di felicità o di infelicità: queste, infatti, non sono date in sorte dal destino, in maniera automatica e definitiva. Se fosse così, saremmo autorizzati a sentirci più o meno fortunati/sfortunati e a rassegnarci in una fatalistica passività. Questa “nuova” consapevolezza invece stimola e rafforza la fiducia nella possibilità di diventare più recettivi alla felicità e di sostenere il paziente, ma anche gratificante, lavoro per rendere più frequenti e intense le occasioni di piacere, di benessere e di gioia. Vi sono altre insidie, tuttavia, che potrebbero ostacolare il genitore che intende prendersi cura della sua felicità. Condizionamenti educativi e culturali, malintesi precetti morali possono influire negativamente sui genitori tanto da essere vissuti come fossero in contrasto con l’aspirazione di ogni essere umano ad essere felice (indipendentemente dal fatto che tale obiettivo sia facilmente e pienamente raggiungibile nella realtà). Dal momento che la risposta è tutt’altro che scontata, non è quindi inutile chiedersi questo: Consideriamo la ricerca della felicità personale un obiettivo legittimo? Ci sentiamo autorizzati a perseguirla? Quello che qui sosteniamo è che la scelta da parte dei genitori di “lavorare” per la propria felicità personale e per quella della coppia non solo è psicologicamente sana, ma anche eticamente auspicabile. In primo luogo perché sarebbe un vero peccato (questo sì!), uno spreco di ricchezza, rinunciare a stare meglio, quando possibile. Vivere in modo più gioioso porta ad apprezzare di più la


vita stessa e dispone più facilmente ad amare gli altri. In secondo luogo, la felicità dei figli è troppo intrecciata, almeno inizialmente, a quella dei loro genitori perché questi possano permettersi di disinteressarsene. E lo è nei due sensi: non solo lo stato d’animo di fondo dei genitori influenza quello dei figli, ma anche quello dei figli ha le sue ricadute e le sue ripercussioni su quello dei genitori. Ciò detto, data l’influenza che luoghi comuni e credenze esercitano nel distogliere da una sana ricerca della felicità, cominciamo con il prenderne in considerazione alcuni.

Luoghi comuni Passiamo in rassegna alcune delle convinzioni più diffuse nella nostra cultura, quelle che abbiamo, per così dire, assorbito senza quasi accorgercene, magari male interpretando i nostri “maestri”, e che continuano in misura diversa a condizionarci. Almeno finché non ne diventiamo consapevoli e non le sottoponiamo ad una riflessione critica. Analizzandole una per una, proviamo anche a vedere le cose da un altro punto di vista. I luoghi comuni sono qui presentati, per esigenze di sintesi e di efficacia, in forma un po’ estremizzata, quasi come slogan; siamo consapevoli tuttavia che ogni affermazione contiene un frammento di verità e meriterebbe di essere discussa, insieme alla sua opposta, più a fondo. Alcune di esse infine vengono approfondite in altri passi del testo. • “Siamo al mondo per soffrire”. Non è vero: di sicuro la sofferenza è parte della vita, ma

lo sono anche la gioia e il piacere. Dipende anche da noi scegliere su cosa posare lo sguardo e focalizzare l’attenzione. • “Nella vita non si può mai essere contenti!”. Non è vero. Possiamo “darci il permesso” di esserlo in qualsiasi momento. Dipende più da noi, che da autorizzazioni esterne. • “Come si può essere felici, dal momento che tutto finisce?”, “Come posso lasciarmi andare a godere, se una disgrazia può colpirmi da un momento con l’altro?” o addirittura: “Perché investire nella ricerca della felicità, dal momento che alla fine c’è la morte ad attenderci?”. È vero che la morte è ineluttabile e, più in generale, che il limite segna ogni realtà umana, ma potremmo anche dire: “Proprio perché una disgrazia è sempre possibile, è importante vivere la felicità attuale e anche cercare di essere felici il più possibile”. L’esperienza del limite dà ancora più significato alla felicità, così come apprezziamo di più la luce del giorno, proprio in contrasto con il buio della notte. • “Sono abbastanza contento ma… Facciamo gli scongiuri!”, “Sono felice? Sì, ma… non diciamolo a voce alta!”. Riconoscere di vivere un periodo di serenità sembra quasi una colpa da nascondere, un valore da sminuire o un’eventualità a cui è difficile dare credito. Si teme quasi che l’ammetterla aumenti il rischio di perderla. Si attribuisce così alle parole un potere che non hanno, quello di compromettere ciò che stanno ad indicare e si attribuisce al “passare sotto silenzio” un potere scaramantico, di protezione. • Riconoscersi e mostrarsi felici è pericoloso perché qualcuno potrebbe invidiarti e tramare per “punirti” (l’invidia degli uomini o quella degli dei nell’antica Grecia!). Certo tollerare la differenza (“io ora sono felice, qualcun altro no”) e tollerare l’eventuale GENITORI FELICI

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invidia di qualcuno (che non ha, o crede di non avere, quello che tu hai in quel momento) può anche non essere facile, ma non è un buon motivo per astenersi dal mostrare la propria gioia e dal farne partecipi altre persone. • “Sorprenderti” ad essere felice (oppure anche solo a ridere) non va bene. “Vergognati! Pensa a tutti coloro che soffrono…” ti rimprovera una voce interna! Ora, dobbiamo riconoscere che, in realtà, ai sofferenti non verrà risparmiata neppure una lacrima solo per il fatto che qualcun altro ha spento la sua gioia. A dare ascolto a questa ingiunzione, infatti, alla fine tutti sarebbero più tristi e nessuno avrebbe un sorriso da regalare agli altri. • “Chi troppo osa, verrà punito”. Secondo questo luogo comune, vietarsi di essere felici, di apprezzare quello che si è e godere di ciò che si ha… equivarrebbe quasi a stipulare una polizza di assicurazione contro i rischi. Ma non è vero che ci garantiamo contro le disgrazie e gli insuccessi, se ci imponiamo di vivere solo parzialmente i doni di cui disponiamo, se soffochiamo i nostri slanci, se censuriamo le nostre aspirazioni a “volare alto”! • “La felicità va sempre meritata”. Sottinteso: “attraverso l’infelicità”. Ma chi l’ha detto che, se ci condanniamo ad una vita infelice, se ci mostriamo tristi, “guadagneremo più punti” e avremo diritto ad un premio più grande o a maggior quantità di amore da parte degli altri? • Esiste il detto “mors tua, vita mea” come a dire “la tua vita (la realizzazione di te stesso, la tua felicità) si oppone alla mia”. Anzi la nega. Se sei felice tu, non posso esserlo io. E viceversa. Le due realtà sarebbero in contraddizione e in alternativa. Credo che possiamo tranquillamente mettere in dubbio queste affermazioni, almeno nella maggio20

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ranza dei casi. Non è affatto detto ad esempio che se i genitori “negano se stessi” e rinunciano a perseguire il loro bene, mettendo sistematicamente tra parentesi i loro bisogni, questo porti significativi vantaggi alla realizzazione e alla felicità dei figli, né crediamo che la felicità dei figli vada necessariamente contro quella dei genitori. È piuttosto vero il contrario: cioè le cose in famiglia funzionano tanto meglio, quanto più ognuno dei suoi membri sta bene con se stesso. Perciò potremmo così riformulare l’affermazione iniziale: “Vita mea, vita tua, vita nostra”. • “Cercare la propria felicità è segno di egoismo. Chi non si sacrifica per gli altri, chi cerca una realizzazione personale nel rapporto, non ama veramente” (questa e altre simili affermazioni trovano spazio nel paragrafo Felicità e altruismo a p. 24). La felicità dei genitori fa bene ai figli Ai figli non può fare altro che bene constatare che mamma e papà “tengono” al loro benessere fisico e psicologico e se ne occupano (almeno tanto quanto si occupano di quello dei loro cari). Mamma e papà sanno come fare per divertirsi, per godere momenti piacevoli, conoscono quali sono le attività che li ricaricano e le cercano attivamente, si concedono del tempo per pensare, per riposare, per parlare, per sognare… Mantengono delle relazioni “nutrienti” con familiari, ma anche con amici e con altri genitori. Cercano di rigenerarsi nel rapporto con la natura. Curano la salute fisica, evitando di assumere comportamenti dannosi, cercano un’alimentazione sana, ecc. Ogni genitore rappresenta un modello per suo figlio e, avendo cura di sé, volendo bene a se stesso, gli invia questo messaggio–permesso fondamentale: “È bene volere il proprio bene: papà e mamma lo fanno, quindi sono autorizzato a fare altrettanto anch’io”. E ancora: “I miei genitori sono contenti se anch’io mi occupo del mio benessere e della mia salute. Mi sento incoraggiato e spronato a pren-


dermi cura di me. Del resto loro per primi si sono presi cura di me fin dalla mia nascita e continuano ad occuparsi di me anche ora. Segno inequivocabile che sono importante per loro, ho valore. Quindi sono persona degna di cura, di attenzione e di rispetto, da parte di tutti, a cominciare da me stesso/a”. Inoltre i genitori, quando si prendono cura di se stessi, inevitabilmente pongono qualche limite alla loro disponibilità nei confronti dei figli. Quando ad esempio un padre o una madre sente di non avere l’energia sufficiente per fare fronte alla richiesta del figlio di giocare insieme e gli dice: “In questo momento sono troppo stanco, ho bisogno di riposare. Giocherò con te dopo pranzo, quando mi sarò ripreso”, così facendo, favorisce nel figlio la consapevolezza del fatto che i genitori, come tutti gli esseri umani, vivono una vita propria, hanno bisogni e desideri loro e non sempre vogliono o possono soddisfare immediatamente i desideri e i bisogni dei figli. Il rispetto di sé da parte del genitore facilita nel figlio l’esperienza di essere altro da lui, separato e non confuso con lui (per approfondire vedi il paragrafo Il dolore: un’occasione di crescita a p. 66).

Il percorso verso la felicità Cercare le occasioni che fanno star bene Vivere, è innegabile, comporta fare l’esperienza del dolore, con il quale è indispensabile imparare a convivere, attribuendogli per quanto possibile un senso. Ma vivere porta con sé anche l’esperienza del piacere, del benessere e della gioia dei quali è massimamente importante imparare a godere. Infatti la possibilità di gustare la gioia di tanto

in tanto, di ricrearsi, appassiona alla vita, motiva all’azione, sostiene nello svolgere i diversi compiti legati al ruolo di genitori, compensa i momenti di frustrazione e di dolore e rende più forti nell’affrontare le difficoltà. Una prima tappa del percorso, a livello personale, potrebbe consistere dunque nello scoprire e coltivare passioni, interessi, hobby, nel darsi il tempo per gustare momenti di relax, di gioco, di riso, investire tempo ed energie per relazioni significative e nutrienti. I genitori dunque si autorizzino a scoprire che cosa piace loro, quali sono le loro fonti di ricarica, in quali circostanze si trovano a loro agio, con chi si sentono bene, quali attività funzionano nel loro caso come autocura, in quali situazioni si sentono sereni, leggeri, soddisfatti. Analogamente potrebbero interrogarsi su cosa invece li fa star male, quali situazioni o comportamenti di altre persone procurano loro fastidio, disagio, sofferenza per imparare, quando possibile, ad evitarle e a limitarle e, quando non è possibile fare altro, a sopportarle senza farsene troppo condizionare. Lo scopo di questa ricerca personale? Conoscere le attività, le situazioni, le persone che soggettivamente sono occasione di sensazioni e sentimenti positivi permette ai genitori di goderne con maggiore consapevolezza al momento presente e di impegnarsi attivamente nel cercarle anche in futuro, quindi di intensificarne la frequenza e moltiplicarne gli effetti positivi. La proposta di ricerca è valida anche per la coppia e può essere estesa alla famiglia nel suo complesso: quando genitori e figli apprezzano in modo particolare lo stare insieme? Cosa rende caldo, piacevole, intenso il clima familiare? Cosa fare insieme quando c’è bisogno di ricaricare le pile? Cosa progettare per le vacanze, per i giorni di festa perché siano momenti piacevoli e di svago per tutti? Tra l’altro, tali momenti vanno a costituire una sorta di deposito e riserva di ricordi felici alle quali genitori e figli potranno attingere anche in futuro. GENITORI FELICI

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Autostima e fiducia

“Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso” (E. Roosevelt)

Perché parlare di autostima? Partire da se stessi per essere felici, trovare al proprio interno, piuttosto che all’esterno, le chiavi che aprono le porte sui segreti della felicità significa, per cominciare, avere un buon rapporto con se stessi, considerarsi persona dotata di dignità e di valore, accettarsi e amarsi. I sentimenti che proviamo e coltiviamo nei nostri riguardi, l’opinione che abbiamo di noi stessi, costituiscono la base dell’autostima e influenzano molto la nostra vita, il nostro benessere fisico e psichico, le nostre relazioni con gli altri. Chi ha un buon livello di autostima infatti ha più fiducia in se stesso, tende a sentirsi il più delle volte adeguato nelle diverse circostanze ed è più contento di sé, degli altri e della vita rispetto a chi invece non nutre sentimenti positivi nei propri confronti e si valuta in modo non realistico. Ognuno di noi nel suo intimo può vacillare nella certezza di avere valore, ma chi ha una bassa autostima ondeggia frequentemente tra senso di adeguatezza e senso di inadeguatezza. È più soggetto ai giudizi degli altri, più vulnera-

bile alle critiche, è affamato di riconoscimenti dall’esterno, ha più paura di sbagliare, affronta meno rischi, in diverse occasioni rinuncia a realizzare le sue potenzialità e finisce quindi anche col raccogliere meno successo e soddisfazioni. Cade inoltre più facilmente nella sensazione di esser “sbagliato” e di sentirsi in colpa. È diffidente nei confronti degli altri ed è meno disponibile a stringere relazioni. Crede di non essere degno di stima e di amore, di non contare, di non godere di rispetto e finisce col creare le condizioni perché tutto questo si avveri. Si comporta cioè in modo che proprio ciò che teme diventi realtà e questo conferma e rinforza il suo senso di insicurezza che, a sua volta, va ad influire sul concetto di sé e il senso di autoefficacia. Avere fiducia in se stessi, tenersi in giusta considerazione, godere di una sicurezza interiore in modo abbastanza stabile sono condizioni che possono veramente fare la differenza nella vita. Ecco perché ci occupiamo, quasi all’inizio del nostro viaggio, dell’autostima come una delle “piste” praticabili in direzione della felicità, quella dei genitori o quella dei figli. Se si considera, infatti, che la famiglia è il primo e più importante spazio relazionale nel quale le persone “imparano” chi sono e come essere, allora si comprende come sia anche lo spazio privilegiato per la costruzione e lo sviluppo dell’autostima. “Quanto vorrei, io che sono sua mamma/suo papà, riuscire a dotare mio figlio/mia figlia di quel sano amore per se stesso che gli permette di realizzarsi al meglio, senza troppi blocchi e paure. Ma come infondergli il senso del proprio valore, senza che si senta per forza inferiore o superiore a qualcuno? Come far nascere in lui il rispetto di sé, senza farne un individuo egoista, impegnato ad affermarsi a costo anche di schiacciare gli altri? Io so che, se si sentirà accolto, amato, rispettato innanzitutto in famiglia, sarà portato a provare i medesimi sentimenti nei confronti di altre persone e ad instaurare relazioni positive con loro. Cerco di immaginarmi quali siano le tappe intermedie: arrivare a conoscere se stesso, nel modo più autentico possibile, nei suoi limiti e nelle sue risorse; scoprire le affinità GENITORI FELICI

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che lo avvicinano agli altri, ma anche le caratteristiche sue proprie che lo distinguono e fanno di lui un essere assolutamente unico e originale; imparare a guardarsi con benevolenza e comprensione, accettando ciò che non può cambiare, ma impegnandosi a modificare in meglio ciò che invece è nelle sue possibilità cambiare. So che gli occhi con cui imparerà a guardarsi saranno i miei occhi, quelli con cui io l’ho guardato fin da piccolo: sarà uno sguardo di accoglienza, di apprezzamento, di incoraggiamento o uno sguardo severo, esigente, fortemente critico? Me lo chiedo e intanto camminiamo insieme, giorno dopo giorno, e ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo che intercorrono fra noi diventano i tanti mattoncini con i quali lui va costruendo impercettibilmente la sua identità. All’inizio fragile e incerta, nel tempo diventerà abbastanza forte e sicura? Non conosco la risposta. So per certo che la sua identità sarà influenzata da una serie infinita di circostanze ed esperienze, più o meno favorevoli, che gli capiteranno. Ma sono consapevole che io avrò un peso in tutto questo. Giocherò la mia parte e vorrei farlo in modo consapevole. La posta in gioco è alta, ma ho fiducia: in me, nella nostra famiglia e anche in chi ci sta intorno. Cerco di avere fiducia soprattutto nelle sue risorse, quelle che già si vedono e quelle che affiorano appena, e sarò contento/a se riuscirò a trasmettergli un po’ della mia fiducia, così che diventi anche la sua. Sarà anche grazie a me se un giorno mio figlio sarà un giovane abbastanza sicuro di sé da valutare secondo i suoi criteri di riferimento, da fare le sue scelte (anche diverse dalle mie), così libero da prendere le distanze da noi (in senso fisico e non), così fiducioso in se stesso da trovare la sua strada e seguirla, indipendentemente dal fatto che sia anche la strada dei suoi genitori. Quel giorno sarò fiero/a di avere contribuito alla nascita e al consolidarsi della sua autostima. E tutto questo avrà per me il sapore della felicità”.

Che cos’è l’autostima2 L’autostima è l’atteggiamento che ciascuno di noi ha nei confronti di se stesso e comprende: • l’aspetto cognitivo: ossia le opinioni che ognuno ha di sé e che riguardano il suo aspetto fisico, le sue emozioni, la sua vita affettiva e sociale, le sue conoscenze, la sua professione, la sua moralità, il raggiungimento degli obiettivi prefissati, in altre parole la sua autorealizzazione; • l’aspetto emotivo ossia cosa la persona prova nei propri confronti, come ad esempio: affetto, indifferenza, ostilità; • l’aspetto comportamentale ovvero come la persona si comporta nei suoi riguardi: se ha rispetto di sé, se soddisfa i suoi bisogni, se sa creare delle condizioni soddisfacenti per se stessa, se cura la sua salute, ecc. L’autostima non va confusa con un atteggiamento di superiorità, infatti può essere posta al centro di un continuum alle cui estremità sono collocate le due manifestazioni estreme (vedi fig. 1).

Sopravvalutazione di sé La persona vede solo i suoi pregi

Autostima La persona vede sia i suoi pregi sia i suoi difetti Sottovalutazione di sé La persona vede solo i suoi difetti fig.1

[…] La persona che ha un sano amore per se stessa ammette con serenità sia i suoi pregi che i suoi limiti, cercando di migliorare. La frase chiave di una persona che si stima potrebbe essere: “Amo me stessa per quello che sono, ma posso migliorare”.

2. Strocchi, 2002, p. 11.

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Identikit della persona con una buona autostima3 La persona che ha un livello di autostima buono, né basso né troppo alto, ma fondato su una sufficiente conoscenza della realtà di se stessa, ha più probabilità di altre di poter affrontare e superare le prove, di tollerare la frustrazione, di reggere gli attacchi esterni e interni. Vive con maggiore libertà e gusto la vita, perché non è troppo condizionata dal giudizio degli altri e non dipende in misura eccessiva dai riconoscimenti delle diverse “autorità” che si succedono nella sua vita. Non si sente schiacciata dai sensi di colpa (non si attribuisce la responsabilità per ogni errore o situazione) e non dà neppure sempre la colpa all’esterno, non attribuisce ad altri il potere che invece le spetta (come ad esempio quello di dire chi è, se sta bene o se sta male, cosa le dà piacere e cosa dispiacere o il potere di scegliere e decidere, ecc.). Non vive costantemente nell’ansia o nella paura (di entrare in relazione con gli altri, di non essere all’altezza della situazione, di sbagliare), nell’indecisione del cosa fare, come fare, oppure nella tristezza e nella delusione per il fatto di non essere riuscita a realizzare desideri o raggiungere obiettivi. Non si sente né inferiore né superiore agli altri, ma riconosce dignità e valore a se stessa come ad ogni altra persona. Con gli altri è disposta a confrontarsi, riconoscendo le differenze, senza pretendere di convincere gli altri ad essere uguale a sé, ma senza necessariamente sacrificare se stessa per essere d’accordo con gli altri. La persona che si stima, ha fiducia in se stessa e si sente sicura e a proprio agio nella maggior parte delle situazioni. Vive in maniera sciolta, immediata, autentica. Entra in relazione con gli altri con naturalezza. Sa riconoscere i suoi bisogni, è la prima a rispettarli e li fa rispettare. È in contatto con ciò che prova, sia con le emozioni positive sia negative, le accetta e, quando è il caso, le esprime. Allo stesso modo riconosce i bisogni e i sentimenti delle altre persone, il loro punto di vista, anche diverso dal proprio, sa rispettarli e tenerne conto, senza avvertire questo come un rischio, quasi come fosse un attentato alla propria identità. Vive essenzialmente nel presente, senza farsi condizionare troppo dal passato, né preoccuparsi eccessivamente del futuro. Ha i suoi valori e i suoi criteri di riferimento che la orientano nelle scelte della vita e dei comportamenti da assumere giorno per giorno. Dal momento che impara dall’esperienza, è disposta anche a rivedere le sue posizioni e i suoi principi, qualora si rivelino inadeguati rispetto alla conoscenza che ha in quel momento della realtà (sia la propria interna, sia quella esterna). È flessibile e capace di adattarsi al cambiamento. Può concedersi di non essere perfetta e di sbagliare. Non ha difficoltà a riconoscere i propri errori, a chiedere scusa, a sorridere dei propri difetti. Perché sa di essere una persona, comunque, degna di stima, di rispetto e di amore. Alla base di tutto ciò, infatti, ha la certezza di poter essere amata, così come è (non da tutti, ovviamente, e non in senso assoluto!). Sa che è possibile voler bene ad una persona come lei, non perché “se lo merita” o perché si è conformata ad essere quello che altri vorrebbero che fosse, ma perché sente di valere per quello che è. Questa sicurezza le appartiene profondamente, grazie al fatto che ha potuto fare l’esperienza nella vita, almeno con qualcuno, almeno una volta, di essere accettata e amata senza condizioni, gratuitamente. Ed è qui che entrano significativamente in gioco i genitori, in qualità di adulti naturalmente preposti ad accompagnare i bambini nella fase più delicata della loro vita (i primi anni dopo la nascita). È a loro (o a chi ne fa le veci) che è data la possibilità di fare il regalo più grande che un bambino possa ricevere nella sua vita: la consapevolezza di essere amato incondizionatamente, di essere accolto così com’è, e la conseguente, relativa, sicurezza interiore. A loro soprattutto compete il compito, a loro spettano l’onore e l’onere di gettare le fondamenta nel bambino per una buona stima di sé (il più possibile realistica) e un sentimento di sé positivo. 3. Una persona così fatta non esiste. È puramente ideale, quindi bisogna evitare confronti e autovalutazioni troppo severe.

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Crescere felici con i propri figli

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Lidia Piatti

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GENITORI FELICI GENITORI FELICI

La felicità… bah!!! Pagine e pagine, anzi volumi e volumi scritti da filosofi, psicologi, scienziati, teologi… eppure dimentichiamo che, in fondo, tutti i genitori si pongono domande a partire dalla comune aspirazione alla felicità per sé e per i loro figli. E le risposte non le ritrovano riflettendo sui massimi sistemi, ma solo all’interno della loro vita quotidiana, sperimentando, ad un certo punto, una pienezza della relazione educativa. Queste pagine sono rivolte ai genitori che si ripropongono di vivere la propria funzione con gioia. A coloro che, pur tra alti e bassi, comunque si appassionano al compito di rigenerare continuamente se stessi insieme ai loro figli. Ai genitori che non vedono il loro mandato come un dovere gravoso e non lo vivono come un’abitudine. Piuttosto, lo sentono come una “chiamata” da parte della vita, a cui rispondere con entusiasmo, perché sentono la gratuità della presenza dei figli nella loro vita… E se anche si fossero ritrovati un giorno ad essere genitori per caso, in seguito hanno scelto di esserlo per davvero. Questo libro, inconsueto ma indispensabile, accattivante ma denso, è rivolto a tutti quelli che sono alla ricerca non solo della felicità dei loro figli, ma anche del modo migliore per essere genitori, rimanendo se stessi e con la gioia di esserlo.

Lidia Piatti

Crescere felici con i propri figli

Lidia Piatti, è counsellor secondo l’Approccio Centrato sulla Persona e formatrice del Metodo Gordon. L’attività di formazione e conduzione di gruppi di genitori, insegnanti, operatori sociali sulle diverse tematiche educative la vede impegnata sul territorio da vent'anni. Svolge attività di consulenza psicopedagogica sia in studio che presso enti pubblici e privati. Nelle scuole progetta e realizza interventi con i gruppi classe e gestisce “sportelli di ascolto”. Collabora dall’85 con la comunità terapeutica Arca di Como. È stata responsabile dell’èquipe psicopedagogica della coop. soc. Prospettive. È madre “con passione” di due figli, oggi giovani adulti. Con la meridiana ha pubblicato Emozioni in gioco. Carte per educare alle competenze emotive (2008).

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

ISBN 978-88-89197-86-2

Euro 13,00 (I.i.)

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