ISBN 978-88-6153-814-6
Euro 18,50 (I.i.)
Elena Buccoliero
si occupa da tempo di violenza sia nei gruppi di adolescenti, sia nei contesti familiari. Negli anni, anche come giudice onorario presso il tribunale per i minorenni di Bologna (2008-19), si è impegnata a favore di bambini che vivono in famiglie difficili. Appassionata del narrare e dell’ascoltare, è autrice di diversi libri sugli adolescenti e conduce laboratori di scrittura con bambini e adulti. Fa parte del Movimento Nonviolento. Con la meridiana ha pubblicato Papà di sole e papà di tempesta (2015), una favola sulla violenza familiare, e sullo stesso tema ha curato Con voce bambina (2010).
Le storie raccolte in questo libro, tratte da articoli pubblicati da Elena Buccoliero sul blog on line di Azione Nonviolenta “Prima le donne e i bambini”, nascono dall’esperienza dell’autrice maturata durante il periodo di servizio come giudice onorario al tribunale per i minorenni di Bologna, dal suo impegno con insegnanti, adolescenti, tutori volontari per il Comune di Ferrara, dalla Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Sono affidate al lettore non con la presunzione che la visione dell’autrice sia esaustiva e offra un punto di vista oggettivo, ma come semplice stimolo a nuove riflessioni. Non smarrire la traccia dei pensieri è azione necessaria non solo per sé ma anche per altri quando la cronaca riconsegna eventi o singoli episodi analoghi. Il filo tematico che ordina i testi definisce capitoli che si reintrecciano di continuo. Nella raccolta si attraversano diverse “stanze” che affrontano temi quali la tutela dei bambini, la violenza sulle donne e quella assistita dai figli, la migrazione e l’intreccio tra culture, il Coronavirus con il suo impatto sferzante sulla vita di ognuno, gli adolescenti (il bullismo, la scuola, la giustizia penale minorile…). Ogni pagina è una finestra sul nostro mondo e sul mondo, alla ricerca di ciò che sa renderci umani e capaci di accogliere l’umanità dell’altro.
I SOGNI HANNO LA TESTA DURA
Elena Buccoliero, sociologa e counsellor,
ELENA BUCCOLIERO
I SOGNI HANNO LA TESTA DURA
Elena Buccoliero
I sogni hanno la testa dura
INDICE Introduzione 11 Difesa dell’infanzia Contraddizioni 17 Quello che la morte di Evan insegna 19 Natale, festa delle famiglie 22 Brindisi per Margherita 24 Giuseppe, Gabriel, Leonardo 28 Per crescere Karim bisognava farsi villaggio 30 Farsi villaggio con l’affiancamento familiare 34 Tre stupidaggini sulla tutela dei bambini 38 Con parole sommesse, interrogarsi sui bisogni dell’infanzia 41 Dati mancanti, travisati o inventati 44 Mute di cani 49 Unisci i puntini 51 Appunti da un nugolo di zanzare 53 Violenza sulle donne e violenza assistita Con tanta forza e un buon sistema di protezione 57 Perché la mediazione familiare non può essere obbligatoria 61 L’alienazione genitoriale, una trappola per i bambini 65 Separazioni complesse 69 Deborah liberata. Deborah distrutta. Deborah sola 73 Il buon vicinato, uno sforzo necessario 76 Papà di sole e papà di tempesta. E se poi i bambini parlano? 79 L’intervento insufficiente verso gli orfani di femminicidio 83 Graffi sulla neve 85 Ninna nanna di Nico 87 7
Grazie a tutte le mie sorelle 89 Migrazioni Erano tre sorelle, e tutte e tre d’amor 95 Miracle resiste e pensa al futuro 99 L’onda lunga della guerra che lambisce le nostre case 102 Il tappeto afgano 105 Laurent, 14 anni, e “Il treno dei bambini” 108 Decreto Sicurezza. Per i minorenni cambia poco, ma… 112 We lose our babies 115 Famiglie rom e sinti: una lente d’ingrandimento sulle nostre contraddizioni 117 Sì alla scuola, no al matrimonio combinato 120 In ostaggio Il cielo è di tutti gli occhi 2 agosto 1980
123 125 127
Lockdown A casa tutto bene? Una petizione per richiedere un #decretobambini Girastorie: un gioco di narrazione con i ragazzi fuori famiglia La didattica a distanza: insufficienze, limiti e belle sorprese Storie meravigliose sulle isole di Mizar e Alcor Se non ritornerete inutili come bambini… Gigetto con l’elmetto Beppina mascherina Allora immagina di essere un bambino o una bambina
133 136 139 142 149 153 157 159 161
Adolescenti a rischio Le occasioni perdute del non ascolto Puah, divisivo! Ma che c’è di male se ci differenziamo? Di bullismo si muore Scegliete sempre la vita Quello che i ragazzi insegnano Adolescenti che rischiano forte Noi, parti offese. Solidarietà in scena Non è un gioco... parlare di giustizia con gli adolescenti Filastrocca di un giudice minorile La responsabilità
169 172 175 178 180 183 185 188 191 193
Essere oggetto di parole d’odio 199 Con gli occhi di Benedetta
200
Introduzione
Scrivo un diario. Non lo facevo da ragazzina, ho iniziato pochi anni fa. Esce settimanalmente su www.azionenonviolenta.it, sito a cura del Movimento Nonviolento cui aderisco da qualche decennio. Il titolo del blog, “Prima le donne e i bambini1”, non esprime una priorità ma una scelta di campo, ciò di cui mi sono occupata maggiormente e, in fondo, ciò che più mi riguarda, per essere donna e per essere stata bambina. In un periodo di profondi mutamenti di dimensione planetaria e, per me, di inattesi stravolgimenti a livello professionale e personale mi sono ritrovata a leggere a ritroso quei testi come si sfogliano le istantanee del passato e ho ritrovato incontri, riflessioni, reazioni a eventi della Storia o della mia storia. Una scia di molliche da seguire per ritrovare la strada di casa. Il desiderio di preservarne alcune prima che i corvi del tempo le portino via. L’auspicio che quella tenue traccia possa suggerire, anche ad altri, cammini possibili per attraversare temi complessi. Parte degli articoli nasce dall’esperienza. Del periodo di servizio come giudice onorario – dal 2008 al 2019 al triComprendo l’esigenza di un linguaggio inclusivo e mi scuso fin d’ora con le tante amiche e i tanti amici che a questo pongono profonda attenzione. Io però aborro le barre a/o/e/i, sono allergica all’asterisco introdotto a forza come carattere della lingua italiana e prediligo le frasi asciutte, Perciò lo dico in premessa, e vale fino all’ultima pagina: quando scrivo bambini intendo “bambini e bambine”, salvo abbia una ragione per riferirmi soltanto ai maschi e allora lo preciso. Lo stesso per gli insegnanti, i ragazzi, ecc., con cui comprendo tutti: maschi e femmine, italiani e stranieri, mediamente o diversamente abili, portatori di qualsiasi altra differenza. 1
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bunale per i minorenni di Bologna – si trova traccia nei brandelli di udienza e nel modo di interpretare la cronaca sulla tutela dei bambini con uno sguardo, diciamo così, informato. Dell’impegno con insegnanti, adolescenti, tutori volontari per il Comune di Ferrara lungo quasi trent’anni, con qualche breve pausa, affiorano progetti che mi auguro possano essere proseguiti in altre città. Della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati si fa strada il desiderio di essere accanto alle vittime dei crimini più gravi unito al desiderio di immaginare progetti che accompagnino chi non ne ha esperienza, soprattutto se adolescente, a comprendere intimamente le conseguenze della violenza per ricercare modi altri di esprimere rabbia e frustrazione. E poi ci sono momenti di formazione, progetti di narrazione o sul bullismo a scuola, riflessioni da spettatrice o da lettrice per qualcosa di bello che ho incontrato. Disseminati tra le pagine, i volti: bravi docenti e operatori sociali con cui ho avuto la fortuna di collaborare, ragazzi o adulti che mi hanno raccontato di sé, e il felice incontro di questi anni con la compagnia del Teatro dell’Argine, complice di tante avventure. Ho la speranza che questi appunti non abbiano un rilievo esclusivamente personale ma stimolino nuove riflessioni, contribuiscano a trasmettere conoscenze e ad arricchire con nuovi strumenti il bagaglio di coloro che leggeranno queste pagine. Per trattenere l’emozione, o per arricchire il pensiero, nel blog sono solita associare a ogni testo un link. Rimanda a un frammento musicale o teatrale, qualche volta a un video più lungo e di approfondimento. Quei richiami sono stati conservati, possono essere inseriti su YouTube e condurranno al risultato voluto. Nella necessità della scelta ho accantonato articoli cui pure sono affezionata, vale a dire quelli con uno sguardo più ampio. Le mutilazioni genitali femminili, il turismo sessuale minorile, la resistenza delle donne in Israele e Pale12
stina, il Children Act in Afghanistan… e altro ancora sono comparsi nel blog settimanale e hanno valore per il Movimento Nonviolento e per me, ma non rientrano in questa raccolta. Avevo scritto basandomi prevalentemente su indagini in rete, chi è interessato troverà informazioni aggiornate come e meglio di me. Ho preferito conservare gli articoli dove mi sembrava di avere operato un’azione di filtro più incisiva e duratura. Nella raccolta si attraversano diverse stanze: la tutela dei bambini, la violenza sulle donne e quella assistita dai figli, la migrazione e l’intreccio tra culture, il coronavirus con il suo impatto sferzante sulla vita di ognuno, gli adolescenti (il bullismo, la scuola, la giustizia penale minorile…). L’attribuzione dei testi nelle diverse stanze, come sa chi ha provato a riordinare i libri di una vita su scaffali a tema, è imperfetta e in parte arbitraria. Diversi articoli potevano comparire a buon diritto in più di una sezione, ma ho cercato un accomodamento. In queste stanze ho vissuto a lungo ricevendo la storia di tante persone. Ho conosciuto violenze estreme e doni generosi, e ho rilevato contraddizioni tra il desiderio di liberazione e il bisogno di riconoscersi nella propria immagine riflessa. Non c’è niente di semplice, forse proprio per questo ho sentito il bisogno di raccontare, corteggiando quel succo di contraddizioni che più di tutto ci rende umani e capaci di accogliere l’umanità dell’altro. Il passaggio da una stanza all’altra è segnato da due filastrocche (ne ho scritte centinaia, per anni, uscivano settimanalmente su un altro sito amico, www.ubiminor.org con il titolo di “Filastrocche giudiziarie”). Le rime aprono a un corridoio, un nuovo testo, che partecipa del tema appena concluso e di quello che va ad aprirsi. Sono stati scelti, come ponti, articoli più personali, emotivi, evocativi. In chiusura ce ne sono due: una cicatrice e un balsamo. Entrambi hanno valore e dovevano essere celebrati. 13
Difesa dell’infanzia
Contraddizioni 20 novembre 2018 Per accompagnare: Sergio Endrigo, “Un signore di Scandicci”
È sera. Ripenso a che cosa ho imparato di nuovo oggi sulla vita dei bambini e dei ragazzi. In un incontro sulla violenza di genere incontro qualche decina di adolescenti. Più da vicino tredici, in uno dei quattro laboratori che procedono in parallelo. Lo scopo è immaginare insieme una campagna contro la violenza sulle donne. Li vedo presi, esigenti, coinvolti. Nessun cellulare sul tavolo, nessun bisogno di prendere le distanze. Trattano la questione in modo aperto, senza retorica, almeno a parole ben determinati a non far entrare la sopraffazione nelle loro relazioni d’amore. Protestano, però, se sugli uomini si vuol generalizzare e dimenticare la loro forza sincera. Nello spettacolo finale si esibisce una classe e sono di nuovo, e diversamente, bellissimi. Con i loro corpi normali, più o meno aggraziati, più o meno a tempo. Ognuno con l’emozione di recitare e danzare per altri. Protagonisti fieri, convinti del loro messaggio, è proprio bello vederli così. Poco dopo un’assistente sociale mi chiede consiglio per un fatto successo in una scuola media. Sembrava il solito parapiglia sulla disposizione dei banchi finché la ragazzina ha spiegato alla prof perché non vuole più stare accanto a lui. Quando gli viene voglia, anche a lezione, il compagno le prende la mano e se la infila nei pantaloni per farsi mastur17
bare. Quanto in là si sia spinto non sappiamo e non conta, la ragazzina si ribella non perché si sente vittima ma perché le fa schifo. La prof sconvolta si rivolge all’assistente sociale: “Sembrava una classe ideale… Come possiamo non aver colto niente…”, e a me di rimando l’operatrice per un consulto: “Cosa dobbiamo dire adesso ai ragazzi, ai genitori… Dobbiamo avvisare la Procura della Repubblica?”. “Non hanno ancora 14 anni, un processo non ci sarà, ma il reato c’è. La scuola, intanto, faccia il suo mestiere. Parlarne, sì. Punire, far capire. Tenere conto dei compagni, non prenderli per fessi, sapevano tutto prima di voi. Ci vuole anche un percorso sull’affettività e sessualità...” “No quello no. I genitori non vogliono, han detto: e se la psicologa del consultorio metta in testa ai bambini strane idee?”. La riunione pomeridiana riguarda l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati che alcune famiglie locali si propongono di seguire come tutori volontari, o adulti affiancanti, o accogliendoli nelle loro case. Gradini diversi di disponibilità e coinvolgimento in una relazione scelta e per nulla scontata, di arricchimento reciproco e di valore per tutta la comunità. Si evoca un’idea di genitorialità sociale, quotidiana, generosa, praticabile, sostenuta dalle istituzioni. Un’assunzione collettiva di responsabilità a protezione dei più giovani. “Sono sfinita”, mi dice passando la dirigente dei servizi educativi lasciando l’ufficio intorno alle otto di sera. “Un bambino di una scuola materna oggi è stato investito da un’auto”. Chiedo: “Gli ha fatto molto male?”. “Per fortuna no, ma l’automobilista non si è fermato e i genitori degli altri bambini sono scappati via per paura di testimoniare. Il papà del bimbo, che non è di qui, è arrabbiatissimo con noi italiani.” Oggi è il 20 novembre, anniversario della Convenzione ONU sui diritti dei bambini e degli adolescenti. 18
Violenza sulle donne e violenza assistita
Con tanta forza e un buon sistema di protezione
17 maggio 2020 Per accompagnare: Ermal Meta, “Vietato morire”
Quando la incontro, in videochiamata cioè nell’unico modo possibile, Basma ha un sorriso timido ma determinato. Accanto a lei, l’assistente sociale che la segue da tempo. La Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati, realtà unica in Italia che interviene economicamente per dare sollievo a chi subisce le violenze più gravi non soltanto in ambito familiare, le ha riconosciuto un piccolo fondo per lei e i bambini e ora abbiamo voglia di guardarci in faccia, di ringraziarci reciprocamente. Quella di Basma – non è il suo vero nome – è una storia a lieto fine. Poco più che ragazza, tre bambini, una totale dipendenza economica dal marito sposato per forza, un giorno scappa di casa e chiede aiuto. Non so se lo decide d’impulso o ci pensa da mesi, probabilmente tutte e due le cose. La caserma è a due passi dalla scuola dei suoi figli, mi viene spontaneo immaginare che, quando li accompagnava o tornava a prenderli, la guardasse come una possibilità. Ci vogliono determinate condizioni per coglierla, Basma ha già sopportato troppo ma non è ancora pronta, comunque la caserma fa parte della sua geografia e a furia di passarci davanti la considera un luogo amico, così una sera decide di entrare e di raccontare la sua storia. 57
I genitori danno Basma in sposa nel Paese d’origine a un’età in cui le coetanee italiane si dividono tra libri di scuola e primi esperimenti d’amore e nel giro di pochi anni è madre. Con i bambini segue il marito in Italia. Cambiano diverse città secondo le opportunità di lavoro di lui ma per lei è tutto uguale, il suo compito è stare in casa, occuparsi dei figli e obbedire. Io credo che il desiderio di autonomia e la capacità di resistenza siano insiti in lei sin dal principio, ed è straordinario come li ha covati un giorno dopo l’altro ed esercitati per piccoli passi. In tutti i posti dove vive, nonostante i divieti rigidissimi e le botte per ogni infrazione, fa amicizia con donne italiane e impara poco a poco la nostra lingua. Dopo l’ultimo trasferimento si iscrive a un corso di formazione ben decisa a trovare lavoro, i figli intanto non sono più così piccoli da avere continuamente bisogno di lei. Il marito carceriere non perde occasione di sottolineare come stanno le cose. Le violenze fisiche e sessuali sono all’ordine del giorno e quando non ha voglia di prenderla con la forza lo fa col ricatto, se mai vuole che lui faccia la spesa. Le botte toccano anche ai bambini, che oltre a vedere la mamma sottomessa vengono puniti duramente per qualsiasi marachella, e Basma quando si mette in mezzo per difenderli prende il resto. L’ultimo giorno è proprio così che succede. Il piccolo vuole giocare, il papà lo picchia, il bimbo insiste, il papà non smette, la mamma si interpone e lui non lo sopporta. “Solo perché vai a scuola, credi di avere dei diritti?”. La minaccia di morte, è armato. I bambini piangono terrorizzati, la figlia maggiore urla al padre che è cattivo e loro non vogliono più stare con lui. I figli devono avere ereditato il coraggio della madre. È allora che Basma scappa di casa e si rifugia in caserma. Anche se non ha un posto dove andare, anche se i suoi da lontano le ripetono che deve sopportare perché questo è il destino di una donna. Vorrebbe lavorare ma non ha ancora 58
la qualifica, cosa succederà adesso? Insieme ai figli si trasferisce per qualche mese in un appartamento a indirizzo segreto gestito da un centro antiviolenza. Non è facile, i bambini devono interrompere la scuola e lei il corso di formazione professionale per il timore molto concreto che lui possa avvicinarli nel modo peggiore. Per fortuna in associazione c’è un bel gruppo di donne e anche il servizio sociale è molto attivo, insieme l’aiutano ad affrontare le prime necessità familiari e ogni gesto è una iniezione di fiducia, le insegnano che non deve sentirsi in colpa, che ha fatto bene a scapparsene via e non è da sola, può farcela. Dopo la denuncia anche il tribunale si muove rapidamente, ordina a lui di andarsene di casa e di non avvicinarsi alla moglie e ai bambini per un anno. Rivedrà i figli solo alla presenza del servizio sociale, se e quando loro se la sentiranno, e dovrà contribuire economicamente. Ora Basma e i bambini possono riprendere la loro vita. Al momento di rientrare in casa il piccolo piange sulla soglia paralizzato dalla paura: ha visto le scarpe del papà, è segno che deve tornare. Ci vuole molta pazienza per rassicurarlo ma intanto Basma capisce qual è la prima cosa da fare e, con l’aiuto del gruppo, si mette all’opera per migliorare la casa. Ci vogliono segni tangibili per iniziare una vita nuova, e la solidarietà è contagiosa: chi le regala un tavolo, chi un divano, qualcosa trova in un mercatino. La solidarietà è anche reciproca, perché tutti hanno qualcosa da dare: Basma apre la sua casa a una donna conosciuta in protezione, vitto e alloggio in cambio di un aiuto con i figli. Non sono connazionali, ed è bellissimo che questo non abbia alcuna importanza. Attraverso il cellulare mi mostrano il salotto, lo ha ridipinto Basma durante la quarantena con un motivo molto particolare, in due colori, per dare luce alla casa. “Prima di andare alla polizia non avevo mai deciso niente nella mia vita”, racconta. Scegliere non è più proibito, è un piace59
re che si rinnova ogni giorno, una straordinaria apertura al possibile e, insieme, una responsabilità. “Quando vivevo con mio marito pensavo che non ce l’avrei mai fatta senza di lui. Grazie all’aiuto di tante persone ho capito che sono capace. I miei figli sono sereni adesso, e non ci manca niente”. Il corso di formazione è terminato ma è subentrata un’altra proposta: la mediazione culturale. La incoraggio con molto calore, Basma ormai parla bene l’italiano e il suo esempio può essere prezioso per tante donne del suo Paese, è la prova tangibile che un’alternativa alla violenza esiste. Ci vuole davvero tanta forza interiore e un buon sistema di protezione.
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Migrazioni
Erano tre sorelle, e tutte e tre d’amor 25 agosto 2019 Per accompagnare: Riccardo Tesi, “Tre sorelle”
“Erano tre sorelle e tutte e tre d’amor”, canta una ballata popolare. Così erano loro, e tutte minorenni. Amavano cantare, era uno dei problemi. E s’innamoravano: un altro problema. Per i genitori, persone colte e devote, possidenti in Pakistan e integrate in Italia con un lavoro molto ben avviato, era impensabile ritornare in patria ma ancor più lo era lasciarsi svergognare da quelle ragazzine senza onore né rispetto. Il progetto sulle figlie era che arrivassero al diploma, possibilmente anche alla laurea per assicurarsi un futuro e un lavoro prestigioso come medico o avvocato, disponibili però a chiudersi in casa quando fosse arrivato un fidanzato, poi un marito, scelto come si conviene da papà e mammà. E se lo studio era un obiettivo che le ragazze condividevano, il matrimonio combinato a loro proprio non andava giù. I compagni di scuola di sesso maschile erano un po’ belli un po’ brutti, un po’ in gamba un po’ no, ma in ogni caso reali e stimolanti più di qualsiasi cugino di sesto grado mai visto in faccia, residente in qualche remoto paesino pakistano. Il permesso di frequentare gli amici non arrivava mai, neppure quello di scendere in piazza senza la scorta di un uomo di famiglia per un gelato e un po’ di allegria, ma il permesso di sognare non va chiesto a nessuno. Rintanate nella loro camera cercavano musica in rete e si esercitavano 95
a cantare sognando il successo. Talentuose? Illuse? Non so. Fantasticavano, come dalle nostre parti un’adolescente può fare. Le liti in famiglia crescevano giorno dopo giorno. I genitori si cimentavano in quel tira e molla che spesso si usa con i figli adolescenti, un giorno la carota per non perdere il legame e il giorno dopo il bastone per raddrizzarli. Peccato che il bastone, in quella famiglia, non avesse niente di metaforico. Dai e dai, la più grande decise di confidarsi a scuola. Preoccupata l’insegnante fece ciò che doveva, cioè parlare con la dirigente scolastica, la quale a sua volta fece ciò che doveva, ovvero segnalare ai servizi sociali, e anche loro fecero ciò che dovevano, vale a dire riportare le dichiarazioni alla procura per i minorenni che espresse un ricorso al tribunale. Se tre ragazze rischiano un matrimonio forzato e vengono picchiate sistematicamente il compito dello Stato è proteggerle. Anche per loro la protezione scattò, non attraverso un allontanamento. Ci chiedevamo: allontanare chi? Le ragazze sono tre, una sola ha raccontato, il sospetto molto forte è che tutte siano coinvolte ma bisogna accertarlo… I membri del nucleo avevano buone risorse culturali e di consapevolezza, in più erano legati tra loro, non volevamo calcare troppo la mano. Optammo per un progetto educativo e di mediazione culturale per stimolare un chiarimento tra genitori e figlie. Insieme a questo stabilimmo per le ragazze il divieto di espatrio onde evitare che venissero riportate in Pakistan per sottrarle al controllo della giustizia. Nel tempo ci siamo chiesti se abbiamo fatto la scelta giusta. Stavamo offrendo un’opportunità senza provocare troppo dolore o stavamo indicando un obiettivo poco comprensibile e troppo ambizioso? In quel momento non era dato saperlo. Nel primo periodo i genitori si esibirono in una iperproduzione di sensi di colpa. Le fanciulle si trovaro96
no più che mai dilaniate dal personalissimo dilemma tra identità e appartenenza a una famiglia che dopotutto aveva assicurato loro, per molti aspetti, un’infanzia dorata, e in quel tormento rimasero schiacciate. Decisero di rientrare nel solco del progetto familiare e non perché ne abbracciassero il disegno, ma perché oltretutto i genitori avevano incominciato ad accusare problemi di salute forse reali, forse psicosomatici, forse ipocondriaci. Tutte e tre le cose sono possibili, anche insieme. So che dopo la prima udienza nella quale ciascuna fanciulla aveva riportato con dovizia di particolari tutto ciò che aveva subito e sofferto – ed era molto davvero, in gran parte dalla madre – pochi mesi dopo chiesero di tornare. Vennero a rinnegare le dichiarazioni precedenti, a giustificare le reazioni dei genitori, a colpevolizzarsi. (Come è facile immaginare, anche il giudizio delle tre adolescenti sulla segnalazione della scuola è cambiato di conseguenza, da ancora di salvezza a intrusione indebita, e questo è un rischio che con gli adolescenti si corre sempre, bisogna essere abbastanza forti per tenerlo in conto e fare ugualmente il proprio lavoro. Se qualche volta ne manca la forza possiamo sempre ricordarci di Farah, la ragazza veronese di origine pakistana portata in patria a forza e costretta ad abortire, o di Sana, uccisa a Brescia e seppellita in giardino per lavare la colpa di essere troppo occidentale). Tempo dopo il padre volò in Pakistan per una questione di famiglia e fece sapere che lì si era ammalato gravemente, tanto da necessitare un ricovero. Si presentarono a sorpresa, le tre ragazze, a supplicare il tribunale di annullare il divieto di espatrio, mangiate dal senso di colpa qualora il papà fosse morto all’improvviso senza il conforto delle figlie per le loro stupide confidenze da ragazzine. Il tribunale acconsentì e loro promisero di rientrare entro un mese per riprendere la scuola a cui tenevano molto ma il permesso all’espatrio non si può dare a tempo, o c’è o non c’è, e a quel punto c’era. Le ragazze partirono e a 97
distanza di molti mesi ancora a scuola non si erano viste. Il tribunale prese informazioni presso i servizi sociali: nessuno sapeva niente. Venne l’avvocato a dirci che i genitori avevano deciso di rimanere in patria fino a quando anche la figlia minore sarebbe divenuta maggiorenne, se questa era l’unica via per crescere le figlie secondo la tradizione. Come poi si siano mescolati, nelle ragazze, l’adesione e la ribellione, l’adattamento o il rimpianto, non era dato sapere. Questa storia ha lasciato l’amaro in bocca a tutti i giudici che se ne sono occupati. Le prime udienze avevano raccolto dichiarazioni gravi, convinte, documentate e coerenti, non abbiamo pensato fossero frutto di fantasia. La risposta istituzionale però, benché corretta nella forma e nella sostanza, non ha raggiunto il risultato sperato. O forse occorre prendere atto del limite: il tribunale ha svolto il suo compito, quello di aprire una strada. Le ragazze e i genitori non l’hanno percorsa. Il costo emotivo dev’essere sembrato tanto insopportabile da doversi fermare.
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Lockdown
A casa tutto bene? 18 marzo 2020 Per accompagnare: Niccolò Fabi, “Io sono l’altro”
E dunque, come si sta chiusi in casa? Beh, prima di tutto una casa bisogna avercela, come sanno bene le persone più marginali e quanti si impegnano accanto a loro. Multe e denunce ai senzatetto in diverse città italiane paiono un accanimento che non ha proprio nulla di terapeutico. Eppure in questi tempi inediti piace affratellarsi, sentirsi uniti. Siamo tutti sulla stessa barca, ci diciamo, ma tutti riguarda in realtà un insieme solo un po’ più ampio del consueto noi. Ha come base i nostri familiari, amici, colleghi e conoscenti ma ora accoglie – questo ci fa dire tutti – ignoti abbastanza simili nei quali per la prima volta ci riconosciamo. Un’espansione di quel fenomeno che sperimentavamo già, e portava a confidarsi intimamente con sconosciuti durante un ricovero ospedaliero, o in attesa di un esame universitario. Riguarda insomma nostri simili, persone come noi mediamente in difficoltà, con legami mediamente paragonabili a quelli che proteggiamo, mediamente come noi indaffarati a tenere insieme il quotidiano. Ma poi, anche quando una casa è certa, non è scontato sia un luogo sicuro per chi vi abita. Dal virus forse sì, ma a volte c’è un pericolo interno. Se già è difficile per una vittima di violenza – poniamo che sia una donna – rivolgersi alle 133
forze dell’ordine, a uno sportello d’ascolto o a un servizio del territorio, ora dev’essere veramente arduo. Una donna incerta se farsi refertare un occhio nero nell’ennesima lite domestica, molto di più tremerà oggi: perché lui è sempre presente e la controlla, per il rischio sanitario, per la consapevolezza di aggravare con una piccola emergenza un’altra già immensa. I centri antiviolenza non hanno interrotto il loro intervento, anche se per quanto possibile lo hanno riconvertito in relazioni a distanza. Un aggiornamento lo ricaviamo in rete sul sito della Rete D.I.Re., quella che da nord a sud riunisce centinaia di centri in tutta Italia. Una strada più impervia ancora mi appare quella dei bambini. Per loro chiedere aiuto in modo autonomo può essere impossibile se non c’è un adulto esterno al nucleo familiare che intravvede qualcosa che non va, e in queste settimane tutti i possibili sguardi esterni sono oscurati. Niente insegnanti, allenatori, educatori, animatori. Niente nonni e zii, o ridotti al minimo. I bambini sono affidati ai genitori e (quasi) basta, può essere bellissimo ma non sempre è vero. Stare in casa è vissuto con difficoltà anche da tante e tante persone che non devono fronteggiare una relazione violenta, e neppure rischiano di perdere il lavoro o la sicurezza economica, ma lo avvertono come limite alla propria libertà. È davvero un paradosso questo tempo, in cui stare soli diventa facile e logico quanto più teniamo alle nostre relazioni. E diciamo a noi stessi: scelgo di stare in casa non solo per proteggere me, ma per i miei genitori che sono anziani, per quell’amica che è appena uscita da una grave malattia ed è fragile, per gli operatori sanitari che hanno responsabilità immense e sarebbe un grosso guaio se dovessero anche solo fermarsi per due settimane di quarantena. Per una volta non possiamo sperare di far confluire tutto il male in un nemico esterno per rinforzarci nel solito noi contro di loro. Prima di rassegnarci ci abbiamo provato, non dobbiamo dimenticarlo, le ultime bottigliate le hanno 134
prese persone con tratti asiatici, da dovunque provenissero, come fossero individualmente responsabili della propagazione di un virus in questo mondo globale nel quale, come italiani, solo pochi giorni dopo abbiamo dato un contributo non indifferente. Ma ora scelgo di fermarmi perché mi rendo conto che il male posso propagarlo io, anche se non voglio, e forse – si discute sugli asintomatici – perfino se non lo so e non lo immagino neppure. Poiché questo viviamo, vigiliamo su noi stessi per non fare del male incominciando dalle persone a cui teniamo di più, dalle relazioni che sono la nostra casa, quelle che noi abitiamo e che vivono in noi, anche quando gli indirizzi postali non coincidono.
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Adolescenti a rischio
Le occasioni perdute del non ascolto 9 febbraio 2019 Per accompagnare: Francesco De Gregori, “Il ragazzo”
“Adesso va meglio, non faccio più tanto casino.” Bene. “L’ultima nota l’ho presa stamattina ma non era colpa mia.” Alessio ha da poco compiuto 14 anni. In questo breve tempo, fortunatamente ancora non imputabile, ha fatto in tempo a sommare parecchie denunce per furti, rapine, risse compiute insieme ai suoi amici che rappresentano per lui una seconda famiglia. Uno dei problemi è il mancato aggancio con la scuola. Che cosa è successo stamattina? “Alla fine dell’intervallo, invece di rientrare in classe, ho cercato la vicepreside perché avevo bisogno di parlare con lei. Siccome non c’era mi sono fermato vicino ai bidelli ad aspettarla. È arrivata la prof e ha cominciato a urlarmi contro, le ho risposto male, mi ha portato dalla preside e si è messa a urlare anche lei, lei: ‘Sono stufa di te e di tutti i tuoi amici’, allora io ho preso un libro che stava sulla cattedra e l’ho buttato per terra.” “Mah, se provo a mettermi nei tuoi panni penso che mi sentirei una vittima. Eri lì nell’atrio per una cosa del tutto legittima e non ti hanno dato neanche il tempo di spiegarlo.” “Sì, è così.” Per quanto irragionevole possa sembrare, riscontro ogni volta un acuto senso di giustizia calpestata in questi adolescenti “a rischio”. 169
“Proviamo a immaginare delle alternative. Prima di cominciare a urlare la prof avrebbe potuto chiederti: ‘Perché non sei in classe?’, tu lo avresti spiegato, e a quel punto avrebbe potuto dire: ‘Va bene, ma se tra dieci minuti la vicepreside non è arrivata rientra’. Oppure: ‘Stiamo spiegando un argomento importante, rientra, la cerchi dopo’.” “Beh, questo l’avrei accettato”. “Già. Ma se non ti ha dato neanche il tempo di parlare, ho idea che sia molto esasperata per tante cose successe in passato di cui magari sei responsabile.” “Effettivamente sì.” Io lo so e lui sa che lo so. Una sera con altri è entrato a scuola a far danni, di giorno spaventa i più piccoli “facendo il grosso”, si aggrega agli scalmanati della classe per impedire la lezione… ma non digerisce la condanna degli adulti. Nella somma di tutti i non ascolti matura la rabbia, l’opposizione, e insieme la ricerca di un luogo alieno nel quale rifugiarsi e da cui ripartire. Generalmente questo luogo è il gruppo, la compagnia. “Ci tengo ai miei amici, più che a qualsiasi altra cosa. L’ho già detto ai miei, lo dico anche qui, non chiedetemi di lasciare i miei amici perché non voglio. Ho capito però che non devo più fare tanto casino, anche con loro. Una volta abbiamo fatto un furto di biciclette, non ci hanno beccato e l’abbiamo rifatto. Era un motorino e ci hanno fermato, ci hanno dato ‘furto con scasso’ perché avevamo rotto l’accensione (è una cosa grave il furto con scasso), me mi hanno portato via i carabinieri sulla loro macchina con le manette ai polsi”. “Non so perché, ho l’impressione che tu me lo dica quasi con orgoglio.” “Mah… All’inizio forse sì, mi sentivo anche orgoglioso, però a ripensarci non è proprio una bella cosa. Cioè, è un rischio.” È proprio un bambino Alessio, un bambino funambolo su un filo molto sottile, a ogni passo potrebbe sbilanciarsi 170
e cadere giù. Intendiamoci è giovanissimo, non mi spingo a dire che tutto si gioca adesso, ma ho veramente paura che la seduzione di affermarsi per una strada sbagliata abbia la meglio, ad esempio, sul dispiacere che pure riconosce in faccia ai suoi genitori, con le loro vite di cinquantenni mediamente scompaginati e un po’ strapazzati dalla vita ma non eccessivamente autoritari e neppure troppo lassisti o distratti o incapaci. Alla fine Alessio mi stringe la mano e si sente adulto mentre mi ringrazia: “Parlando con lei ho capito cose che prima non avevo chiare. Ci vediamo ancora?”. La risposta deve essere negativa, un conto è interpretare una giustizia che ascolta e aiuta a ragionare, un altro è sviluppare un dialogo continuativo con un ragazzo la qual cosa spetta, semmai, agli educatori, agli insegnanti… e naturalmente ai genitori, anche se in certe fasi purtroppo sono i meno adatti. Lo ringrazio anche io con un sorriso: “Aspetto tue notizie”.
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ISBN 978-88-6153-814-6
Euro 18,50 (I.i.)
Elena Buccoliero
si occupa da tempo di violenza sia nei gruppi di adolescenti, sia nei contesti familiari. Negli anni, anche come giudice onorario presso il tribunale per i minorenni di Bologna (2008-19), si è impegnata a favore di bambini che vivono in famiglie difficili. Appassionata del narrare e dell’ascoltare, è autrice di diversi libri sugli adolescenti e conduce laboratori di scrittura con bambini e adulti. Fa parte del Movimento Nonviolento. Con la meridiana ha pubblicato Papà di sole e papà di tempesta (2015), una favola sulla violenza familiare, e sullo stesso tema ha curato Con voce bambina (2010).
Le storie raccolte in questo libro, tratte da articoli pubblicati da Elena Buccoliero sul blog on line di Azione Nonviolenta “Prima le donne e i bambini”, nascono dall’esperienza dell’autrice maturata durante il periodo di servizio come giudice onorario al tribunale per i minorenni di Bologna, dal suo impegno con insegnanti, adolescenti, tutori volontari per il Comune di Ferrara, dalla Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Sono affidate al lettore non con la presunzione che la visione dell’autrice sia esaustiva e offra un punto di vista oggettivo, ma come semplice stimolo a nuove riflessioni. Non smarrire la traccia dei pensieri è azione necessaria non solo per sé ma anche per altri quando la cronaca riconsegna eventi o singoli episodi analoghi. Il filo tematico che ordina i testi definisce capitoli che si reintrecciano di continuo. Nella raccolta si attraversano diverse “stanze” che affrontano temi quali la tutela dei bambini, la violenza sulle donne e quella assistita dai figli, la migrazione e l’intreccio tra culture, il Coronavirus con il suo impatto sferzante sulla vita di ognuno, gli adolescenti (il bullismo, la scuola, la giustizia penale minorile…). Ogni pagina è una finestra sul nostro mondo e sul mondo, alla ricerca di ciò che sa renderci umani e capaci di accogliere l’umanità dell’altro.
I SOGNI HANNO LA TESTA DURA
Elena Buccoliero, sociologa e counsellor,
ELENA BUCCOLIERO
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