ISBN ISBN978-88-6153-711-8 978-88-6153-780-4
www.lameridiana.it
EuroEuro 14,00 (I.i.)(I.i.) 15,50 788861 537118 537804 9 9788861
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Giuseppe Daconto
PENSIERI SOSTENIBILI AI PIEDI DI UN BAOBAB
a cura di Lucio D’Abbicco
della coesione. Nel 2018, l’amore lo porta alcuni mesi in Senegal: da questa esperienza nasce il libro.
IL VASO ROTTO E I FIORI
nazzo (Bari), vive a Roma. Laureato Lucio D’ Abbicco , esperto di processi forma-in Economia all’Università AldoScuola MoroSecondadi Bari e tivi, è docente di Lettere nella alla Federico Caffè Autore di Roma si dedica anche ria di Primo Grado. di 3, saggi e articoli su allo scoutismo cattolico e al volontariato questioni educative, da anni si occupa in partipolitico, tra la Puglia e Roma. Attualmente è colare di media education. economista presso Fondosviluppo, il fondo Con la meridiana ha pubblicato Video-form-amutualistico di Confcooperative, all’interno zioni. GiochiStudi. ed esercizi con e principalmente intorno al videodi del Centro Si occupa (2006). economia cooperativa, sviluppo e politiche
edizioni la meridiana
Giuseppe Daconto, originario di Giovi-
Non si tratta di un taccuino di viaggio, di un reun ha racconto romanzato Questoportage è un librogiornalistico, corale perché di dentro la comunità di perso-di è un della saggiomalattia di politica o di Signorile, economia ne che,incontri. grazie all’Non esperienza di Enrico sull’Africa, sulla sua cultura, né un libro sullo svisi è ritrovata. luppo sostenibile. Ma è un po’ tutto questo. Queste Non sono pagine di dolore o di struggente nostalgia di chi non pagine sono un melting pot di emozioni e riflessioni c’è. Sono chefa fanno memoria delle dei chepagine l’autore scoprendo che in quelscoperte pezzo difatte, mondo, processirappresentato avviati, della nelle bellezza che nasce ogni qual volta non si cartoline dai baobab, come nel noattraversano le storie che viviamo ingannando noi stessi e gli stro, come in tutti i sud della terra, c’è ancora tanto da altri, ma contanto lealtà da checostruire, è la cosa che rende l’amicizia philia. fare, tanto da migliorare. Sono pagine che hanno uncontiene valore metaforico ora che In filigrana il libro considerazioni checominessennoi europei, racchiuse in una cerannozialmente a passare riguardano di mano in mano: tra gli amici di Enrico ei domanda provocatoria: è che ci stiamo “africalettori che non hanno conosciutonon Enrico. Escononizzando”? in un anno in cui ognuno di noi sta facendo i conti con Se veroesperienza che quei di luoghi pongono domande strinla malattia ècome comunità. Negarla comunitariagenti sul futuro, proprio dal confronto tra noi e loro, mente significa negare la vita. Attraversarla insieme, condiviSenegal e Italia, sicuramente nemmeno troppo lontani dendo le emozioni, le paure, le gioie che pure ci sono, i dubbi, è e pur sempre dello stesso pianeta, sorge un dubbio: l’esperienza che rende ogni sofferenza utile. verso dove stiamo andando? Ed ecco che guardare e raccontare un pezzetto dell’Africa, il Senegal, può servire a parametrare meglio il nostro futuro, come umanità, senza distinzioni di sorta, partendo da alcune immagini forti come “chiavistelli metaforici” per entrare in questa porzione di continente e rapportarla al nostro.
GIUSEPPE DACONTO a cura di Lucio D’Abbicco
P NS IERI IL E VASO ROTTO E I FIORI SOSTENIBILI CON-VIVERE LA MALATTIA LA VITA DI AI(E) GENERARE PIEDI UN BAOBAB
edizioni la meridiana 22/09/20 14:24
a cura di Lucio D’Abbicco
Il vaso rotto e i fiori
Con-vivere la malattia (e) generare la vita
edizioni la meridiana
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Indice
Nota del curatore
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Introduzione di Elvira Zaccagnino 13 Prefazione 15 Epilogo inevitabile ma in realtà è un Prologo 19 Il sogno, la malattia, la vita. Insieme
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Epilogo 67 Postfazione di fra Massimiliano Re 71 Ringraziamenti 73
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Nota
del curatore
Questo libro racconta la vicenda di Enrico Signorile durante i sette anni della sua malattia oncologica. Enrico Signorile è una persona normale come tanti e proprio per questo speciale come ognuno. L’unicità della sua storia di vita è emersa in quei sette anni, non solo per una non comune capacità di resilienza (aveva ricevuto una diagnosi infausta con una previsione di sopravvivenza di pochi mesi), ma anche per la rete di relazioni umane che si sono straordinariamente intensificate e consolidate durante la malattia. Ne è prova il presente scritto che nasce sulla scorta delle testimonianze di alcune fra le tante persone che gli hanno voluto bene (hanno contribuito in settanta!). Il libro è concepito come una sorta di dialogo a distanza fra Enrico e le persone che scrivono di/a lui; nel testo, dunque, si alternano la voce narrante (di Enrico) e quelle degli amici, graficamente distinte da differenti caratteri tipografici per evidenziare tale alternanza. Gli episodi narrati non sono riportati secondo un rigido ordine cronologico, bensì seguendo in qualche modo il flusso delle emozioni e delle suggestioni suscitato dagli stessi ricordi.
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Introduzione di Elvira Zaccagnino
Nel corso di questi anni di attività editoriale, molte sono le proposte arrivate scritte o in prima persona da chi ha attraversato il cancro e ce l’ha fatta o di quanti erano accanto a chi dalla malattia non è venuto fuori. Non è mai facile scegliere se editare o meno un testo che pulsa della vita attraversata dalla malattia delle persone. Viverla o essere accanto a chi la vive è sempre un viaggio alla scoperta di se stessi e degli altri. E anche leggere quelle storie è un viaggio. In questi anni ho imparato a capire, leggendo le diverse proposte, che la malattia che tiene sospesa la vita può essere una occasione per perdersi o ritrovarsi, per ritrovare gli altri o fare in modo che grazie al tuo percorso gli altri ritrovino se stessi. Nel testo che pubblichiamo ci ho visto anche altro. O meglio questo testo mi ha permesso di vedere altro: si può generare in virtù della malattia una occasione di comunità. Cucire o ricucire relazioni che partono dalla consapevolezza che la strada dell’uno è fatta sempre e comunque con gli altri. Che il dolore, la perdita, la consapevolezza del morire può essere un dono e un pretesto per accendere qua e là piccoli fuochi che tengono viva non la speranza di farcela ma di far bene il bene. Io ci ho visto questo nelle pagine corali dedicate a Enrico: una comunità; perché lui, consapevole in ogni momento della malattia e della vita da vivere pienamente nella e con la malattia, si è fatto strumento per legare le persone. Non a lui. Ma alla vita che solo insieme si può generare. 13
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Non sono pagine di dolore o di struggente nostalgia di chi non c’è, quelle che seguono. Sono pagine che fanno memoria delle scoperte fatte, dei processi avviati, della bellezza che nasce ogni qual volta non si attraversano le storie che viviamo ingannando noi stessi e gli altri, ma con lealtà che è la cosa che rende l’amicizia philia. Sono pagine che hanno un valore metaforico ora che cominceranno a passare di mano in mano: tra gli amici di Enrico e i lettori che, come me, non hanno conosciuto Enrico. Escono in un anno in cui ognuno di noi sta facendo i conti con la malattia come esperienza di comunità. Negarla comunitariamente significa negare la vita. Attraversarla insieme, condividendo le emozioni, le paure, le gioie che pure ci sono, i dubbi, è l’esperienza che rende ogni sofferenza utile. Dar spazio al dolore significa – ci dice questo libro – trasformarlo in occasione di incontro tra le persone e la loro umanità, senza la quale non facciamo bene il nostro essere comunità. Fare i conti con la morte, la propria, e declinare la generosità che il nostro esserci sia ponte per gli altri: mi sembra sia questa la traccia lasciata da Enrico. Perché ognuno di noi lascia tracce. Anche quando la parola “malato” si cuce addosso ai nostri giorni. Ma c’è bisogno che queste tracce siano viste, seguite, capite, interpretate. Da chi? Dalla comunità. Per prima la comunità dei familiari e degli amici. Poi da tutti gli altri. Ecco: questo libro, a me, in quest’anno in cui tutti stiamo attraversando la consapevolezza della morte, fa venire voglia di cercare e costruire comunità capaci di leggere le storie di ognuno e trovare le tracce di umanità che siamo. Tracce che solo, forse, la morte ci impone di guardare, vedere, toccare con mano e far emergere come sigillo di futuro. Le sole tracce che ci aprono all’eternità.
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Prefazione
Senti, Enrico, volevo dirti alcune cose. Mi rendo conto che non avevo capito nulla della tua malattia. O meglio: avevo capito tutto sin dal momento dell’annuncio, nella sua tremenda gravità: tumore maligno, raro, rarissimo, con metastasi al fegato. E, come tutti immagino, mi ero rassegnato a perderti presto (anche se questo non l’ho mai dichiarato perché sempre ci si aggrappa alla speranza, per quanto essa possa sembrare irragionevole). Poi è successo qualcosa: la vita è continuata. È continuata la tua vita, quasi come se nulla fosse: lavoravi, ti dedicavi alla famiglia, incontravi gli amici, partecipavi a feste, giocavi a calcetto, viaggiavi… Certo nel frattempo combattevi la battaglia insieme a tua moglie, Mariella, sempre insieme a lei. Ma sei stato così bravo a combattere come se nulla fosse, che alla fine io non ho visto più la malattia e ho sperato che l’avresti domata, che saresti andato avanti – come eri solito ripetere. E in effetti sei andato avanti per sette anni, in barba a tutte le previsioni. Senti, Enrico, mi rendo conto di non avere capito la persona straordinaria che eri e che hai dimostrato di essere proprio durante la malattia; è come se nel tunnel che sei stato costretto ad attraversare, tu sia venuto pienamente alla luce e abbia illuminato quel buio che altrimenti avrebbe portato alla disperazione chi stava intorno a te. Non te. Così mi rendo conto di aver perso qualcosa. Perché durante gli anni della malattia la consuetudine di vecchia data (ci conosciamo da oltre trent’anni!), che avevo con te e Ma15
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riella, ha confuso l’ordine delle priorità. È accaduto come succede a volte con i familiari: l’affetto c’è, ma rimane sullo sfondo, lo si dà per scontato, si guarda altrove – ma così si perdono occasioni per coltivarlo e ravvivarlo… Vedevo che eri sempre circondato da amici – ironizzavo sul fatto che, per potervi incontrare, ci si dovesse prenotare con largo anticipo perché il vostro “carnet degli impegni” era sempre pieno… E, così, mi sono fatto un po’ da parte, non ti sono stato vicino come avrei dovuto per farti sentire il calore della mia amicizia. Ecco perché quando Mariella mi ha chiesto di aiutarla a scrivere un libro sulla tua vicenda sono rimasto prima spiazzato, poi profondamente emozionato. Ho capito che questa sarebbe stata un’occasione per ritrovarti e stare vicino a te come non sono stato in questi anni. E come altri, invece, hanno avuto il privilegio e il piacere di stare: lo si comprende dal tono delle loro testimonianze intorno alle quali è nato questo scritto. Io non avrei saputo dire di più, dire di meglio: il libro si fonda su quelle testimonianze, è una libera rielaborazione e intessitura di quelle; è propriamente un libro corale che io ho cercato di orchestrare. Ho immaginato che la voce narrante fosse la tua – mi sono preso questa “libertà letteraria”: ho provato a immaginare, con molta umiltà, quali potessero essere i tuoi pensieri durante l’ultimo ricovero (9-14 febbraio 2019). In virtù di ciò, mi sono sentito particolarmente vicino a te: a te vivo, presente nei ricordi di Mariella, di Rahel (Lalla), di Zeudi (Zezzè), nelle parole dei tanti amici. Ti ho visto sui campi di calcetto, vestito “all’hawaiana”, all’uscita di scuola per prendere Zeudi, ad affiancare Rahel nella pratica della guida, a intrattenerti amabilmente con gli amici nella tua casa rinnovata, sempre positivo, sempre sorridente. Senti, Enrico: è vero, non sei più fisicamente accanto a noi. Ma mi sono convinto, grazie all’intimità con te recuperata in questa circostanza, che proprio attraverso il tuo modo di affrontare la malattia hai dimostrato che la vita è 16
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piĂš potente. Tanto potente che continua a palpitare anche quando i nostri cuori esausti cessano il loro battito. Non sei piĂš accanto a noi, Enrico, ma sei potentemente dentro di noi. E noi, confortati dal tuo sorriso, con te andiamo avanti! Lucio
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Epilogo inevitabile, ma in realtà è un P rologo
“Si può fare!” È la frase pronunciata dal dottor Frankenstein quando realizza che l’impossibile è possibile: sconfiggere la morte. Negli ultimi anni questa frase l’hai fatta tua e ci hai fatto credere che fosse vera. Ce l’hai fatto credere grazie alla serenità e alla forza con le quali hai affrontato le difficoltà e alla tua voglia di vivere. Per noi sei diventato Iron Man. Ora, dopo trent’anni di amicizia per noi è difficile. È difficile accettare quello che è successo. È difficile trovare le parole senza cadere nella retorica perché quando si parla di belle persone la retorica è inevitabile. È raro trovare delle persone di cui tutti parlano bene e tu sei una di quelle: pacato ed elegante, sempre (o quasi). È difficile pensare a te e non sorridere ricordando i momenti passati insieme o rivedendoti in balia delle tue donne, del tuo gineceo: tua moglie, le tue figlie, il cane… pure il pesce rosso dev’essere stato femmina. È difficile non piangere. Isabel Allende ha scritto: “Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”. Se è così, il dottor Frankenstein aveva ragione: “Si può fare!”. Mario
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Il
sogno , la malattia , la vita . Insieme
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È la notte che precede la TAC che sentenzierà la gravità della malattia di Enrico (19 maggio 2012): le metastasi al fegato. Mariella fa un sogno: sogna un leone nel pieno della sua vigoria. Il leone ruggisce. Mariella si risveglia con uno straordinario carico di energia: è pronta per affrontare la battaglia che si annuncia.
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Policlinico di Bari, fra il 9 e il 13 febbraio 2019 Finalmente un po’ di pace. Forse questa maschera che mi hanno applicato comincia a fare bene il suo lavoro – mi sento tanto un personaggio di Star Wars con questa maschera, una sorta di Dart Fener, buono però… Forse finalmente mi sto ossigenando dopo essermi tormentato perché mi mancava il respiro, rantolavo. Ho scambiato uno sguardo di soddisfazione con le ragazze che mi hanno accompagnato in ospedale, come a dire: “Avete visto? Ce l’ho fatta di nuovo…”. Oppure no. Oppure sto lentamente scivolando in uno stato di incoscienza totale. Forse è davvero arrivata la fine… Quante volte ho provato questa sensazione, ma poi ogni volta una ripresa – contro le aspettative di tutti e le previsioni dei medici. Mi hanno chiamato “il lottatore”, “il combattente”, “Iron Man”; per mia moglie sono “il leone” (e la criniera bionda che mi ritrovo avvalora questa immagine). È vero: lo sono stato. Per sette anni non ho ceduto a questo male. Ma forse adesso è arrivata la fine. Oppure no. Non lo so… Sento confusamente le voci di Mariella, delle ragazze e degli amici che si stringono intorno al mio letto: quanti saranno? Di certo non pochi. Come sempre, come tutte le altre volte che sono stato ricoverato, nei tanti ospedali e reparti dove sono stato ricoverato: policlinico, oncologico… Non sono mai stato lasciato solo, ho avuto sempre tanti sinceri sostenitori in questa lotta: più la ragnatela del male si sviluppava dentro di me più si rinsaldava la rete di relazioni intorno a me, si accresceva in maniera straordinaria. Vita, vita, vita! Quanta vita mi ha portato questo male. Assurdo a dirsi, no? Eppure è stato così. E quanto affetto, quanti affetti. È stata proprio un’amica che, involontariamente, mi ha fatto cominciare questo viaggio – sì, grazie alla sua atten24
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zione professionale – ché altrimenti il viaggio sarebbe di sicuro terminato molto prima. Quel bozzo da cui tutto è partito me lo portavo dietro – letteralmente – già da tempo senza poter immaginare cosa racchiudesse. Poi, finalmente, nell’estate 2011, quell’amica mi aprì gli occhi. Mariella aveva organizzato un tour in Andalusia con un bel gruppo di amici e di quasi-amici (che non avrebbero tardato a diventarlo a pieno titolo). Mia moglie ha sempre avuto un’inclinazione speciale a circondarsi di compagnia e a metterne su delle più varie; e a me è sempre piaciuta questa sua attitudine. Quindici bellissimi giorni di vacanza: Siviglia, Granada, Cordoba, Gibilterra, Malaga… Era tutto perfetto: i luoghi, il clima, il cibo. Un giorno, ai bordi della piscina dell’albergo che ci ospitava, mentre ci rinfrancavamo amabilmente dalle scarpinate dei giorni precedenti, tra un tuffo e una chiacchiera, quell’amica – un medico – notò il bozzo che avevo sulla spalla, ormai da un paio di anni: non ci avevo mai dato troppo peso, pensavo si trattasse di un lipoma, non avevo altri sintomi di alcun genere; mi ero informato, sapevo che si trattava di una cosa benigna, perciò rimandavo continuamente gli eventuali approfondimenti. Semplicemente usavo un po’ di Voltaren per lenire il dolore: era Zezzè ad applicarmelo con le sue manine delicate (l’appuntamento con il massaggio di Zeudi alla spalla è continuato per anni, anche se non c’era più il bozzo). L’amica chiese di osservarlo, lo tastò ed espresse con discrezione le sue perplessità, mi consigliò di farlo esaminare. Ma il contesto era troppo piacevole perché quel suo consiglio turbasse l’atmosfera; la vacanza continuò serena e in allegria. Al rientro non mancai di seguire il suo consiglio. E allora cominciò quest’altro viaggio… Nella primavera del 2012 scopriamo che il lipoma non era un lipoma: comincia allora quella serie mai più finita di nomi sempre più oscuri, sempre più sinistri, complicazioni dopo complicazioni… Ma io volevo vivere! Perciò ho 25
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lasciato a Mariella la gestione della mia “cartella clinica”: sapevo che lo avrebbe fatto benissimo; e io ho vissuto, con tenacia, con passione. Che strano! Il mio appuntamento con la fine si è manifestato proprio nelle stagioni maggiormente piene di vita: l’estate, la primavera, ci sto pensando adesso; forse si è trattato di un segno di ciò che sarebbe stato. Luglio 2012. Pochi mesi dopo la specializzazione. Sono medico da 6 anni e ormai ho una esperienza consolidata nei reparti di oncologia. Da poco lavoro all’Istituto tumori di Bari. L’ho già intuito, ma l’incontro con Michele Guida, il suo esempio e ciò che mi insegna e trasmette, mi fanno capire cosa significa, fino in fondo, fare l’oncologo medico. È una professione che richiede passione, umanità, conoscenze, spirito di ricerca. Nel lavoro quotidiano si uniscono e si completano da un lato la cura del paziente dall’altro un costante impegno di aggiornamento scientifico. Ed è una sfida ancor più ardua quando si sceglie di occuparsi di tumori rari, in cui la rarità per prima, spesso, ha portato a una diagnosi tardiva e incerta, a una assenza di trattamenti consolidati, a una scarsa attenzione del mondo scientifico a promuovere ricerche in grado di alimentare le speranze di cura. Con il senno di poi, rivivendo nella memoria quei giorni, credo che Enrico avesse chiaro tutto ciò. Dovevo fare il suo ricovero, il primo, dopo le prime visite ambulatoriali che aveva già fatto con Michele Guida. Il ricovero per iniziare la terapia. Il caldo e l’atmosfera sospesa come è sempre a luglio a Bari. Lessi la cartella ambulatoriale con attenzione e andai a cercarmi questo nuovo paziente per fargli le domande che servivano per fare una anamnesi completa. Ci tenevo, in quel periodo, a fare le cose il più possibile per bene. Ci sarebbe stato l’occhio vigile ed indagatore di Michele a scrutare possibili inesattezze per correggere e insegnarmi. Ma la prima difficoltà era trovare il paziente. Ricordo quasi un inseguimento, che nella memoria sembra quasi di corsa, perché Enrico non era certo il tipo di paziente che rassegnato si adagia sul letto e attende arrendevole 26
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l’arrivo del medico. Si era ricoverato, ma aveva deciso di passare poco tempo nella stanza n. 16 del reparto di oncologia. Alla prima occasione sgattaiolava fuori nella sala di attesa o forse al bar. Lo si riusciva a vedere solo quando c’era Mariella. Il rapporto medico-paziente aveva deciso di delegarlo a lei. Era un investimento oculato perché nessuno come Mariella era capace di ricavare tutte le informazioni necessarie, a fare tutte le domande pertinenti e anche a definire tutte le possibili prospettive terapeutiche. Rimase a letto soltanto durante l’infusione. Ricordo bene i suoi occhi, che in quei giorni sfuggivano ai miei sguardi, il sorriso e la voglia di sdrammatizzare, i timori per quella cosa così inaspettata e misteriosa che era la chemioterapia. Forse il pregiudizio culturale per quella terapia, da cui si aspettava vomito, malessere e perdita di capelli. I capelli, sì, purtroppo li avrebbe persi, ma per il resto superò bene quel periodo e dopo sei infusioni con cadenza tri-settimanale finì lì quella prima esperienza. E i capelli ricrebbero più folti. Da allora ha continuato a sdrammatizzare, sospetto che lo facesse soprattutto per Mariella: ogni volta era un “tutto bene”, “nessun problema”. Finiva a parlare del suo lavoro, più che della sua salute. Era chiaro che contava di più, così come contava di più la sua famiglia, le sue bambine. Pian piano nel suo percorso di cure, quel “talento” che avevo colto inizialmente, diventò sempre più la caratteristica contraddistintiva del suo rapporto con la malattia: non l’ha mai vissuta chiudendosi, isolandosi, ma facendone una comunione con gli altri, con Dio. Di questo ce ne informò Mariella, subito. Ricordo la sua testimonianza, commossa, durante un convegno dell’associazione Maria Ruggieri. Raccontava di come avesse scoperto la diagnosi, del percorso incerto e del suo viaggio a Milano e del ritorno a Bari, degli amici, della vita che, con forza, rivendicava di vivere con normalità. La normalità che, purtroppo, significò, dopo alcuni mesi dalla fine di quella prima chemioterapia, un aumento delle lesioni tumorali e l’avvio di una nuova terapia che lo accompagnò per alcuni anni. Una terapia in compresse, biologica. Un periodo lungo, in cui divennero routine o meglio rituali, gli esami, le TAC, gli incontri. Quello spirito di 27
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comunione si trasformò in aiuto e sostegno attraverso l’associazione. Non ho la presunzione di conoscere a fondo Enrico e Mariella. La mia è la prospettiva di un medico che ha assistito al suo percorso terapeutico. Spesso ho l’impressione che si abbia occasione, nei momenti difficili della vita, di confrontarsi con ciò che è più autentico. Ed allora si comprende come gli affetti che circondano un uomo nella sofferenza sono la cifra di come ha vissuto la propria vita. Fuori dall’ospedale, l’immagine che conservo è la messa nella comunità di “Casa Betania” a Terlizzi. Enrico e Mariella circondati dall’affetto di tanti, che poi ho rivisto nei giorni di novembre del 2018 quando tornò a ricoverarsi nel reparto di oncologia più di sei anni dopo la volta precedente. So per certo che dietro i sorrisi che non lesinava, vi fosse tanta sofferenza. So anche che ogni giorno lo viveva come un giorno guadagnato verso la speranza. È questo che a luglio del 2012 non conoscevo e che Enrico e Mariella mi hanno mostrato: la resilienza. Il loro coraggio e la loro forza hanno animato e sorretto tutti quelli che li hanno accompagnati, dai medici agli amici fino ai parenti. Annamaria Catino, che in tutti questi anni li ha seguiti e sostenuti da medico-oncologa-amica, mi ha continuato a ripetere nei giorni, tristi per tutti, del suo passaggio verso la casa del Signore, quasi incredula, di quanto amore e solidarietà avesse accompagnato Enrico nella sua agonia. Di quanta gratitudine e serenità vi fossero in quei momenti nelle preghiere e nelle parole dei tanti che erano con lui. Non ero sorpreso da ciò che mi raccontava; ad Annamaria ho soltanto confermato la mia gratitudine per la amicizia e il riferimento valoriale che Enrico e Mariella in questi anni mi hanno donato. Sabino
Ripercorrendo la mia storia da quel 2012, non vedo la malattia: vedo gli amici che ho incontrato, i medici, innanzitutto, che in buon numero sono presto diventati amici. Come la vicina del quinto piano della casa dei miei suoceri: un’oncologa; sembra incredibile, ma Mariella non aveva ancora stretto un rapporto con quella vicina! L’amicizia è nata grazie a me e “all’ospite” che mi porto dentro. 28
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Ho chiuso la porta dietro di me e ho cercato di ricacciare indietro il nodo in gola. Ancora una volta sotto scacco con una bestia che aveva attaccato quel giovane appena conosciuto, dal ciuffo bruno un po’ anni Settanta, istintivamente simpatico con la sua famiglia. Li sentivo vivere, voci e risate sotto il mio appartamento, specialmente quando ero al computer a studiare. Ho provato un senso di disperazione, ma già da allora sua moglie, con il suo fare a metà tra lo spaventato e il dilagante, mi ha bloccata e costretta a vedere un futuro con una luce, non per forza un disastro. Era sette-otto anni fa e in questi anni abbiamo conosciuto alti e bassi, sensazioni di tutti i tipi, anche a volte sconcertanti. Sì perché per un medico come me, e come altri amici medici, il destino di Enrico sembrava segnato e noi per primi abbiamo vissuto lo sconforto di non poterci illudere. Invece questi anni sono passati attraversando momenti di festa, di gioia: la Prima comunione di Zeudi, le cene con Rahel e le sue amiche, le serate a guardare le partite di calcio o in pizzeria. Da oncologo troppo spesso vedo e sento la paura, direi il terrore, assolutamente umano e di cui non ci si deve vergognare – perché non credo ai guerrieri ma molto di più al rispetto e al sostegno di chi circonda una persona che sta affrontando qualcosa che purtroppo stravolge le vite. Ho pensato più volte e ripensato a quanto mi sembrava difficile per Mariella, per le ragazze, per noi e per Enrico non vivere nella paura. Oggi però, da quando Enrico è andato via, e (cosa più importante e vera) lo si è lasciato andare, quando è stato il momento, senza accanirsi, ho molto chiaro quanto questi anni siano stati veri e intensi mentre vedeva crescere le sue figlie e godere di una famiglia che non lo ha mai fatto sentire un ammalato. Senza nascondergli mai niente. Anche quando c’era molta ansia, loro se ne sono fatti attraversare senza indietreggiare. Sono convinta che questo sia stato un elemento di grande forza e di esempio di serenità nell’affrontare la vita e le sue prove. Per tutti noi. Annamaria
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Giuseppe Daconto
PENSIERI SOSTENIBILI AI PIEDI DI UN BAOBAB
a cura di Lucio D’Abbicco
della coesione. Nel 2018, l’amore lo porta alcuni mesi in Senegal: da questa esperienza nasce il libro.
IL VASO ROTTO E I FIORI
nazzo (Bari), vive a Roma. Laureato Lucio D’ Abbicco , esperto di processi forma-in Economia all’Università AldoScuola MoroSecondadi Bari e tivi, è docente di Lettere nella alla Federico Caffè Autore di Roma si dedica anche ria di Primo Grado. di 3, saggi e articoli su allo scoutismo cattolico e al volontariato questioni educative, da anni si occupa in partipolitico, tra la Puglia e Roma. Attualmente è colare di media education. economista presso Fondosviluppo, il fondo Con la meridiana ha pubblicato Video-form-amutualistico di Confcooperative, all’interno zioni. GiochiStudi. ed esercizi con e principalmente intorno al videodi del Centro Si occupa (2006). economia cooperativa, sviluppo e politiche
edizioni la meridiana
Giuseppe Daconto, originario di Giovi-
Non si tratta di un taccuino di viaggio, di un reun ha racconto romanzato Questoportage è un librogiornalistico, corale perché di dentro la comunità di perso-di è un della saggiomalattia di politica o di Signorile, economia ne che,incontri. grazie all’Non esperienza di Enrico sull’Africa, sulla sua cultura, né un libro sullo svisi è ritrovata. luppo sostenibile. Ma è un po’ tutto questo. Queste Non sono pagine di dolore o di struggente nostalgia di chi non pagine sono un melting pot di emozioni e riflessioni c’è. Sono chefa fanno memoria delle dei chepagine l’autore scoprendo che in quelscoperte pezzo difatte, mondo, processirappresentato avviati, della nelle bellezza che nasce ogni qual volta non si cartoline dai baobab, come nel noattraversano le storie che viviamo ingannando noi stessi e gli stro, come in tutti i sud della terra, c’è ancora tanto da altri, ma contanto lealtà da checostruire, è la cosa che rende l’amicizia philia. fare, tanto da migliorare. Sono pagine che hanno uncontiene valore metaforico ora che In filigrana il libro considerazioni checominessennoi europei, racchiuse in una cerannozialmente a passare riguardano di mano in mano: tra gli amici di Enrico ei domanda provocatoria: è che ci stiamo “africalettori che non hanno conosciutonon Enrico. Escononizzando”? in un anno in cui ognuno di noi sta facendo i conti con Se veroesperienza che quei di luoghi pongono domande strinla malattia ècome comunità. Negarla comunitariagenti sul futuro, proprio dal confronto tra noi e loro, mente significa negare la vita. Attraversarla insieme, condiviSenegal e Italia, sicuramente nemmeno troppo lontani dendo le emozioni, le paure, le gioie che pure ci sono, i dubbi, è e pur sempre dello stesso pianeta, sorge un dubbio: l’esperienza che rende ogni sofferenza utile. verso dove stiamo andando? Ed ecco che guardare e raccontare un pezzetto dell’Africa, il Senegal, può servire a parametrare meglio il nostro futuro, come umanità, senza distinzioni di sorta, partendo da alcune immagini forti come “chiavistelli metaforici” per entrare in questa porzione di continente e rapportarla al nostro.
GIUSEPPE DACONTO a cura di Lucio D’Abbicco
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edizioni la meridiana 22/09/20 14:24