Lo schiaffo di don Milani. Il mito educativo di Barbiana

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ISBN 978-88-6153-799-6

Euro 15,00 (I.i.)

Piergiorgio Reggio

è pedagogista e formatore. Obiettore di coscienza al servizio militare, da giovane si impegna nei movimenti nonviolenti, nelle scuole popolari per adulti e nelle esperienze educative extrascolastiche. È stato operatore della formazione professionale, consulente di progetti educativi e formativi con giovani sottoposti a provvedimenti giudiziari, persone migranti, lavoratori. Abilitato all’insegnamento di pedagogia e storia della pedagogia, dal 2001 insegna presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano e Brescia, occupandosi di tematiche di pedagogia sociale ed interculturale e di educazione degli adulti. È vice-presidente dell’Istituto Paulo Freire Italia, che ha contribuito a fondare, e, dal 2014 fino al 2020, è stato presidente della Fondazione Franco Demarchi di Trento.

Cosa è accaduto dopo Barbiana? È tutto finito con la chiusura, poco dopo la morte del Priore, della scuola? A questa domanda – che può sembrare per certi versi cinica – Piergiorgio Reggio tenta di rispondere con questo testo. Non una biografia del sacerdote e dell’educatore ma una rilettura della sua eredità, avendo in mente educatori ed educatrici, operatori sociali, insegnanti ma anche genitori e giovani incontrati in decenni di attività sociale, educativa e formativa. Non sono pagine rivolte a professionisti dell’istruzione e dell’educazione, ma a tutti coloro che intendono vivere relazioni significative di apprendimento. Lo schiaffo di don Milani, sferzante e irato, è rivolto al conformismo delle mode assunte acriticamente, di un’educazione senza interrogativi, imposta e accettata, di adeguamento alla mentalità corrente. Oggi, come cinquanta anni fa, il mito di Barbiana consiste nel concepire l’educazione come elemento concreto della quotidianità. C’è ancora bisogno di reinventare l’esperienza di don Milani in forme adeguate alle circostanze attuali, perché è proprio vero, come lasciò scritto lo stesso don Lorenzo, che “essere fedeli ad un morto è la peggiore infedeltà”. Don Milani divide ancora oggi, come cinquant’anni fa. Andando alla radice delle contraddizioni, egli obbliga a schierarsi. Anche se sono cambiati (e cambieranno ancora) le forme, i modi, i nomi dell’esclusione, resta sempre la necessità di prendere parte e di fare la propria parte per esprimere la propria umanità nel mondo.

LO SCHIAFFO DI DON MILANI

Piergiorgio Reggio

PIERGIORGIO REGGIO

LO SCHIAFFO DI DON MILANI

Il mito educativo di Barbiana


Piergiorgio Reggio

Lo schiaffo di don Milani Il mito educativo di Barbiana


INDICE

Abbreviazioni bibliografiche

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Introduzione. Tornare a Barbiana

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1. Lo schiaffo di don Milani e il mito dell’educazione come giustizia sociale

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2. Dov’è Barbiana? Il luogo, i luoghi

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3. La relazione, le relazioni

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4. La lingua, le lingue

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5. La politica

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6. Come insegnare, come imparare. La didattica, le didattiche

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7. Per un’educazione milaniana oggi

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Bibliografia 135



Introduzione Tornare a Barbiana

Questa nuova edizione de Lo schiaffo di don Milani compare, grazie all’interesse delle edizioni la meridiana, a sei anni di distanza dalla prima pubblicazione del volume. In questi anni l’interesse per l’opera di don Milani è cresciuto in modo significativo. A ciò hanno contribuito alcuni eventi. Numerose sono state le pubblicazioni relative all’esperienza milaniana; tra tutte, particolarmente importante è stata l’edizione critica dell’opera omnia di don Milani, apparsa nel 2017, che ha raccolto, con un apparato critico scrupoloso, i vari testi redatti dal priore di Barbiana2. Un momento simbolicamente rilevante è stato, inoltre, lo stesso anno – nel cinquantesimo anniversario della morte di don Milani – la visita di papa Francesco a Barbiana. Con l’omaggio della visita papale è stato risarcito pubblicamente il debito che la Chiesa italiana aveva accumulato nei decenni. Sempre a papa Francesco si deve, nel 2014, dopo 56 anni, la revoca del provvedimento del Sant’Uffizio che impediva la diffusione di Esperienze pastorali. Nelle parole di papa Francesco a Barbiana abbiamo ritrovato la centralità – nell’esperienza umana ed educativa di don Milani – della “parola”, quale elemento irrinunciabile di umanizzazione: Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo inseMilani L., Tutte le opere, a cura di F. Ruozzi, A. Canfora, V. Oldano, 2 voll., Mondadori, Milano 2017. 2

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gna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella piena umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità3.

La parola che umanizza si acquisisce con l’educazione e la politica; essa esprime la nostra coscienza del rapporto che abbiamo con il mondo. Così, ancora papa Francesco, ha espresso il compito fondamentale dell’educazione, che consiste nello sviluppo della coscienza critica: […] Da insegnare ci sono tante cose, ma quella essenziale è la crescita di una coscienza libera, capace di confrontarsi con la realtà e di orientarsi in essa guidata dall’amore, dalla voglia di compromettersi con gli altri, di farsi carico delle loro fatiche e ferite, di rifuggire da ogni egoismo per servire il bene comune. Troviamo scritto in Lettera a una professoressa: “Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia. Questo è un appello alla responsabilità”4.

Uno schiaffo al conformismo pedagogico Questo non è un altro libro su don Milani. Non ce n’era bisogno dopo tanti testi – alcuni anche assai significativi – scritti sull’esperienza che, dalle montagne toscane del MuDiscorso commemorativo del santo padre. Visita alla tomba di don Lorenzo Milani, 20 giugno 2017; cfr.: https://tinyurl.com/yxgtx9dl 4 Ibidem. 3

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gello, ha inciso profondamente nella storia dell’educazione, della società e della cultura italiane negli scorsi decenni. Il pensiero e l’azione educativa di don Lorenzo Milani sono stati indagati e spesso accesamente dibattuti; intorno alla sua figura sono nate polemiche che hanno attraversato la scuola, la società e la Chiesa. L’eco dell’esperienza di Barbiana è risuonato in molti Paesi del mondo; ad essa si richiamano ancora oggi insegnanti ed educatori impegnati – nel Nord e nel Sud del mondo – nell’affrontare situazioni di ingiustizia. Non un libro su don Milani, quindi, ma su di noi che da Barbiana ricevemmo uno schiaffo violento e provocatore. Venne preso a sberle il nostro conformismo educativo e sociale. Venne messa in discussione l’idea che il successo a scuola dipenda dal merito, dalle doti personali e dall’impegno. Lettera a una professoressa ci urlò in faccia che la selezione a scuola serve a mantenere una società ingiusta, dove chi sa comanda e impedisce agli altri di sapere. I grafici che in quel libro i ragazzi di Barbiana proposero avevano forma di piramide: in alto pochi, istruiti e figli di istruiti, in basso molti e non istruiti. Era la piramide dell’esclusione e dell’ingiustizia, in educazione come nella società. Eppure lo schiaffo di don Milani smosse molte coscienze, in particolare di giovani, e liberò energie creative. A dispetto del suo titolo, la Lettera era stata scritta – come è detto chiaramente in epigrafe – ai genitori, perché si organizzassero in un “sindacato di babbi e mamme” per affermare il diritto al sapere, come condizione essenziale di cittadinanza. In tanti accogliemmo l’invito di don Milani. Nacquero esperienze educative spontanee, critiche e creative, spesso in contrapposizione con le rigidità dell’istituzione scolastica. Certamente il clima culturale della fine degli anni Sessanta e inizi degli anni Settanta – con i propri slanci e le proprie contraddizioni – favorì tale emergere dell’educazione in forme nuove, fortemente compromessa con l’impegno sociale e politico. Eppure l’onda della provocazione ha superato quella fase 13


e territori nuovi sono stati frequentati, in questi decenni, dall’educazione che ha compreso la lezione di Barbiana. I principi affermati da don Milani e dai suoi ragazzi hanno ispirato esperienze di educazione di strada con giovani e adulti esclusi dalla scuola e dalla società, di insegnamento della lingua a migranti, di lotta contro le illegalità e le mafie, di partecipazione sociale e costruzione di diritti effettivi. Il tutto nacque da uno schiaffo. In esso erano contenute le energie che si sono successivamente espresse in modo creativo e originale. Ad esso occorre oggi tornare, in epoca generalmente considerata di crisi, nella quale sembrano non siano più presenti la speranza educativa e la convinzione che un altro mondo sia possibile. Tornare a Barbiana è un viaggio non nostalgico ma alle radici del senso dell’educare, che è necessario oggi riscoprire. Tornare lì significa far vivere l’idea generatrice che educare può non essere un atto di discriminazione e riproduzione delle ingiustizie sociali ma, al contrario, un atto di giustizia, che permette a tutti di imparare per essere cittadini, cioè “sovrani e non sudditi”. Questa idea semplice ma nel contempo ardua da realizzare costituisce la fonte generatrice di nuove visioni dell’educare e del vivere sociale. Essa va coltivata e tramandata perché possa generare il nuovo. Per fare ciò occorre considerarla come un vero e proprio mito educativo. Il mito contiene verità, è un simbolo “riposante in se stesso”, come ha scritto lo studioso Furio Jesi5. Posso immaginare alcune immediate critiche e obiezioni a questo invito a considerare Barbiana in modo mitico. Si può ritenere che al mito ci si affidi in modo acritico, poiché esso presenta verità che hanno la pretesa di essere assolute. E ciò sarebbe esattamente contrario alle intenzioni di don Milani, che cercò in ogni modo di sviluppare coscienza critica nei propri ragazzi e nella società dell’epoca. La verità che non vogliamo perdere – perché ha generato tante esperienze educative liberanti e altre ne 5

Jesi F., Il mito, Isedi, Milano 1973. 14


può generare – è che l’educazione – nelle sue varie forme e luoghi – può essere un atto di giustizia. Non è opportuno ripetere don Milani ma è necessario, piuttosto, reinventare ciò che a Barbiana accadde, in modo che l’aspirazione a un’educazione giusta (cioè che non fa parti uguali tra diseguali) diventi sempre più reale. Il cuore del mito – cioè, l’educazione come giustizia – richiede di essere conosciuto, mantenuto vivo e tramandato. Nei momenti di passaggio generazionale il mito richiede di essere narrato, vivificato, il suo messaggio reinventato. È quello che ho cercato di fare, non con la pretesa di esporre una verità, ma con il desiderio di confrontarci con essa, con il tema della giustizia, generatore di pratiche educative liberanti. Nella rilettura critica dell’esperienza educativa di don Milani utilizzo idee e visioni di vari importanti autori in campo pedagogico; in particolare propongo un confronto con la prospettiva educativa di Paulo Freire che, nel Nord-Est del Brasile prima e in altri Paesi del Sud del mondo successivamente, negli stessi anni di Barbiana, condusse esperienze educative di “coscientizzazione”. Le specificità e le differenze tra i contesti sociali e culturali nei quali le esperienze di don Milani e di Freire si realizzarono sono evidenti così come le affinità tra le concezioni educative e i modi di agire concretamente per sviluppare giustizia attraverso l’educazione. La lettura in parallelo tra queste esperienze, credo, permetta una comprensione più approfondita dell’educazione proposta da don Milani.

Alcuni temi educativi cruciali Tra i diversi temi che il libro affronta, alcuni risultano importanti per una lettura critica e attualizzante dell’esperienza di don Milani. Innanzitutto invito a porre attenzione a come – nel fare 15


scuola a Barbiana – si ritrovi un’esplicita centralità attribuita all’apprendimento e al soggetto che impara, considerati come prioritari rispetto al processo di insegnamento. Ciò può apparire paradossale in chi è stato esplicitamente maestro e ha dato un’impronta certamente carismatica al proprio atto di insegnare. In realtà, nell’esperienza milaniana, tutto (spazi, tempi, persone, argomenti, mezzi e strumenti) ruota attorno al ragazzo che impara. È lo scolaro (come chiaramente esprime il mosaico a lui dedicato e realizzato dai ragazzi della scuola nella chiesa di Barbiana) ad essere al centro dei processi di insegnamento e di apprendimento. In riferimento a lui, alle sue caratteristiche, propensioni e risorse ruotano la scuola e l’azione del maestro. La centratura sull’apprendimento (learning) è di estrema attualità anche oggi per chi si occupa di innovazione dei processi formativi. Un secondo elemento centrale della proposta educativa milaniana consiste in quello che definirei il suo sostanziale “antipedagogismo”. Si tratta del rifiuto del discorso pedagogico quando esso prescinde, dimentica la pratica concreta. L’educatore autentico – a Barbiana all’epoca, come oggi a scuola e nella società – fa pedagogia quando riflette quotidianamente sul proprio agire, sui piccoli grandi fatti della vita quotidiana, sulle preoccupazioni per i bambini, le bambine, i giovani, le giovani. Come sostiene Paulo Freire, egli sviluppa una vera e propria prassi pedagogica, fatta di dubbi, interrogazioni, ricerca… a partire e restando in connessione con i fatti concreti dell’agire educativo. La dimensione della vita concreta e quotidiana è centrale nell’esperienza di Barbiana; essa viene intesa non solo come ambiente di apprendimento ma come oggetto stesso dell’imparare. È una scuola di vita nel senso che quotidianamente insegna come vivere, a partire dalla considerazione critica dei fatti che accadono, in presenza o a distanza, nel luogo di vita come nel mondo. È un’educazione a stare “col mondo”, non solo “nel mondo”, utilizzando ancora un’espressione di Freire. In base a questi tratti peculiari è 16


coerente ritenere esperienziale l’agire educativo proposto da don Milani, se per esperienza intendiamo la capacità di trasformare i fatti della vita (tutti) in apprendimenti. La scuola di Barbiana non educa idealmente alla vita ma è vita essa stessa. In questo emerge la grande vicinanza anche con il credo pedagogico di John Dewey, e la sua scuola-laboratorio: che non prepara alla vita futura, ma è vita di ragazzi e ragazze già cittadini e cittadine. Mentre il sistema scolastico italiano ha cercato faticosamente, in questi decenni, di aprirsi alla società, al mondo, alla vita egli traccia un percorso per certi versi opposto: la scuola si fa vita e, come tale, non cerca più di raggiungere il mondo ma permette a questo di diventare scuola. Per fare ciò, egli ha suscitato profonde trasformazioni del paradigma educativo. In primo luogo, ha messo in gioco il proprio mondo di adulto, di insegnante e di sacerdote. Si è totalmente coinvolto nella relazione educativa, abbattendo i confini tra dimensione privata, personale e dimensione collettiva. Addirittura vivendo come colpa il coltivare interessi culturali a livello personale (la musica, i libri…). Il maestro educa al mondo mettendo a disposizione il proprio mondo. Così facendo, egli non scompare come funzione educativa ma stabilisce un’asimmetria dovuta dal porgere – nella relazione educativa – se stesso (con le proprie conoscenze, convinzioni, emozioni e sentimenti, azioni) come campo di apprendimento per i ragazzi. Questa asimmetria genera desiderio di imparare. Essa è costituita dalla differenza di sapere, dalla ricchezza di parole possedute, dalla padronanza del modo di insegnare ma, soprattutto, dalla capacità di mettersi in gioco personalmente. Ciò invita l’allievo a fare altrettanto, a non nascondersi dietro il ruolo (passivizzante) di chi deve puramente recepire e riprodurre una conoscenza erogata da altri. Questo atteggiamento educativo, non il potere della conoscenza e del ruolo, istituisce il maestro in quanto tale. In questa prospettiva emerge con evidenza il tema del 17


potere nella relazione educativa, il riconoscimento di questa dimensione come costitutiva della relazione di insegnamento e di apprendimento e la sua gestione in una prospettiva generativa, liberante. Il maestro, presente ad ogni momento della vita quotidiana degli allievi, rappresenta la possibilità concreta, per gli allievi, di confrontarsi con la conoscenza come problema e con la vita come fonte di conoscenza. L’urgenza di tornare a Barbiana Chi aveva vent’anni nel 1967 o nei successivi anni Settanta lesse la questione dell’esclusione in educazione in modo assai diverso da chi ha vent’anni oggi. Tra i primi vi sono molti ai quali Lettera a una professoressa cambiò la vita, giovani che presero decisioni personali e professionali cercando di realizzare le provocazioni che il mito di Barbiana proponeva. In loro non mi pare di avere quasi mai colto delusione, cinismo, rassegnazione e rimpianto. Volevano cambiare il mondo e molti di loro vi sono riusciti. Hanno certamente cambiato il proprio mondo. Per queste persone “tornare a Barbiana” non consiste nell’indulgere alla nostalgia (innanzitutto della propria giovinezza) ma nel risignificare oggi le scelte compiute nel corso di questi anni, nel riscrivere una storia perché possa essere conosciuta e tramandata. Non la vicenda di don Milani e dei suoi ragazzi, che solo ad essi appartiene, ma la propria storia di giovani prima e adulti poi, che hanno provato a reinventare Barbiana nelle proprie realtà storiche, culturali e sociali. Chi ha, invece, vent’anni oggi si avvicina a un’esperienza non solo irripetibile ma anche difficilmente confrontabile con la realtà attuale. I decenni trascorsi hanno modificato profondamente condizioni e abitudini di vita, mentalità e valori, comportamenti e conoscenze dei giovani come degli adulti, in tutte le parti del mondo. Se don Milani, Paulo Freire e Danilo Dolci si trovarono ad affrontare il problema del 18


mutismo, del silenzio degli oppressi privi di istruzione, gli educatori di oggi incontrano altre forme di mutismo e di oppressione delle coscienze. Accanto a chi, ancora oggi, non ha la parola perché privato di opportunità e risorse – materiali, sociali, relazionali – vi sono molti – anche tra i giovanissimi – che non pronunciano parole perché impossibilitati a entrare in contatto col mondo esterno e con il proprio mondo interiore. La parola può essere pronunciata solo in rapporto al mondo e se aprirsi a esso non è possibile – talvolta nemmeno desiderabile – le parole si riducono, si impoveriscono, diventano vuote o assenti. Nessuna tecnica della comunicazione può risolvere la difficoltà di porre in relazione il proprio mondo interiore con quello esterno, in un dialogo che li modifica entrambi. In questo senso, la necessità di sviluppare una coscienza critica nei confronti della realtà risulta quanto mai attuale. Sono cambiate certamente le condizioni, le questioni che la richiedono; sono modificati i modi con i quali la coscienza critica si sviluppa, ma resta la sua imprescindibile necessità per affrontare le contraddizioni e i processi di esclusione della contemporaneità. La coscienza critica si sviluppa unicamente attraverso un processo educativo e relazionale. Diventiamo consapevoli affrontando con gli altri il mondo e cercando di modificarlo: “Nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione, con la mediazione del mondo”6. Reinventare don Milani La questione della giustizia in educazione mi pare costituisca, ancora oggi, un tema “generatore” delle pratiche educative e di convivenza sociale. Sono cambiati processi e dinamiche di esclusione, a scuola come nella società, ma Freire P., La pedagogia degli oppressi, Gruppo Abele, Torino 2012, p. 69. L’espressione originale di Freire è mediatizados pelo mundo, che sta ad indicare proprio il ruolo attivo del mondo nella costruzione della coscienza. 6

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l’ingiustizia permane e costituisce una contraddizione rilevante. Oggi essa si manifesta in un mondo globalizzato dove la standardizzazione e l’omologazione dei modi di vivere e pensare sono norma. La peculiare lettura dei rapporti di classe formulata da don Milani, anche in questo vicino a Freire, distingue tra oppressori e oppressi e si dimostra oggi più che mai attuale. Non credo sia una lettura riduttiva ma piuttosto rispondente alla realtà. Se le classi sociali sono state scompaginate nelle proprie forme tradizionali, permane una disparità enorme e inaccettabile tra ridotte élite mondiali privilegiate, che detengono la gran parte delle risorse, e fasce sempre più ampie della popolazione escluse da condizioni di cittadinanza reale e relegate a ruolo di consumatori consenzienti. Dopo più di cinquant’anni inevitabilmente anche la scuola italiana è cambiata. Essa è diventata di massa, accessibile ad ampie fasce della popolazione. Eppure il livello di istruzione dei genitori costituisce ancora, nel nostro Paese, un fattore determinante delle opportunità di successo sociale. La scuola – periodicamente riformata – è, se possibile affermarlo, più in crisi rispetto al passato. L’insegnante è più fragile; il suo status sociale è stato significativamente messo in discussione. Molti insegnanti si interrogano a fondo circa il significato del proprio ruolo professionale, cercano alternative, tentano di stabilire alleanze. Altrettanto profondamente è cambiato il mondo educativo esterno alla scuola. Le esperienze di doposcuola, di educazione territoriale spesso cercano di superare le barriere che le separano dall’ambiente scolastico; educatori e operatori sociali lavorano con insegnanti, alunni e genitori. Questi ultimi vivono spesso disorientamento e impotenza, così come i giovani manifestano sentimenti di rabbia, frustrazione, impotenza, distrazione, ma esprimono anche energie creative, impegno, pensieri e azioni potenzialmente generativi di novità. La complessità delle problematiche sconsiglia semplifica20


zioni superficiali ma – nelle esperienze di successo che ho potuto conoscere – ho riscontrato sempre la presenza di forme varie di “alleanza” tra adulti consapevoli e quanti vogliono diventarlo. Si tratta di alleanze tra mondi diversi – delle generazioni, della scuola, dell’impegno sociale, del lavoro e delle professioni, dell’università – oggi spesso separati da rigide barriere. L’esperienza educativa di don Milani è radicale, provoca al prendere posizione in maniera decisa e coerente. Vi sono oggi visioni dello sviluppo, della convivenza sociale e dell’educazione contrapposte e non conciliabili, se non occultando la realtà. Concepire la conoscenza come patrimonio privato è diverso dal ritenerla un bene comune alla collettività; la competizione neoliberista è opposta alla coesione sociale costruita a partire dalla lotta per i diritti di chi è escluso. Si tratta di prendere parte, con chiarezza. Ritorno, in conclusione, all’immagine di papa Francesco a Barbiana. Abbiamo provato commozione ed entusiasmo vedendolo raccolto in preghiera, da solo, dinanzi alla tomba di don Lorenzo Milani. La sensazione di assistere a un gesto atteso, giusto e di speranza, oltre che di risarcimento. Provai una commozione altrettanto intensa, alcuni anni fa, a Buenos Aires nella sede delle Madres de Plaza de Mayo, quando mi mostrarono una copia di Carta a una profesora, stampata e letta clandestinamente durante la dittatura. In questi più di cinquant’anni, tante “Barbiane” sono nate in vari luoghi, laddove le condizioni di ingiustizia reclamavano educazione, politica e condivisione. Oggi a noi il compito non di celebrare ma di reinventare don Milani, di fare scuola, partecipazione sociale, vita ecclesiale in modo critico, problematizzante e generatore di cambiamento. Contro ogni conformismo e ogni rassegnazione, cercando libertà e giustizia. Per come ne siamo capaci, imparando tutti i giorni. È importante anche riconoscere i cambiamenti intervenuti nella scuola e nella società italiana, che permettono forse oggi di leggere con maggiore capacità di ascolto la voce 21


profetica di don Milani. Come notava Romano Prodi, nella sua prefazione all’edizione del 2017 di questo volume: Cinquant’anni fa non eravamo preparati a provocazioni così forti, che non riguardavano soltanto la critica alle ingiustizie materiali ma toccavano la natura più profonda della vita delle persone, a cominciare dagli aspetti culturali, intesi nel senso più ampio e diretto del termine. Don Lorenzo lo poteva fare non solo per la sua straordinaria intelligenza e sensibilità ma perché la raffinatezza dell’educazione fornitagli dalla famiglia, unita alle sue uniche doti personali, lo rendeva capace di vedere più lontano rispetto alla società in cui viveva.

Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di reinventare l’esperienza di don Milani in forme adeguate alle circostanze attuali, perché è proprio vero, come lasciò scritto lo stesso don Lorenzo, che “essere fedeli ad un morto è la peggiore infedeltà”. Don Milani divide ancora oggi, come cinquant’anni fa. Andando alla radice delle contraddizioni, egli obbliga a schierarsi. Perché oppressi e oppressori, potenti ed esclusi esistono ancora oggi. Sono cambiate (e cambieranno ancora) le forme, i modi, i nomi dell’esclusione, resta sempre la necessità di prendere parte e di fare la propria parte. Come ho cercato di scrivere Nello scrivere ho cercato di ricordare i principi guida enunciati in Lettera a una professoressa: “Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti” (LP 20). Ho cercato di dire cosa ho (abbiamo) capito facendo educazione in questi anni, provocati dallo schiaffo di don Milani. Ho cercato di disegnare il profilo di un’educazione che sia forma di giustizia e che si possa fare tutti i giorni, a scuola come nella società. Sapere a chi si scrive. Ho scritto avendo in mente edu22


catori ed educatrici, operatori sociali, insegnanti ma anche genitori e giovani che ho conosciuto in questi decenni di attività sociale, educativa e formativa. Il libro è scritto non solo per i professionisti dell’istruzione e dell’educazione ma per tutti coloro – adulti e giovani – che possono vivere relazioni significative di apprendimento. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Ho riletto più volte i testi di don Milani e dei ragazzi di Barbiana che mi avevano accompagnato da molti anni. Ogni rilettura è stata occasione per nuovi interrogativi e scoperte. Ho letto anche diversi saggi – tra i molti pubblicati – sull’esperienza educativa di don Milani e sulla sua vicenda umana. Dalla prima bellissima biografia di Neera Fallaci sino al testo delicato e vivo delle memorie di Adele Corradi, la maestra che fu più presente a Barbiana e che ebbi la fortuna di conoscere proprio lì quando, da giovane, all’inizio degli anni Ottanta, partecipai ai campi estivi degli insegnanti nonviolenti. Poi ho abbandonato commenti critici e studi per stare unicamente dinanzi ai testi originali, in particolare: Esperienze pastorali, Lettera a una professoressa, L’obbedienza non è più una virtù, le Lettere e le Lettere alla mamma. Il filo rosso che ho trovato in questi testi è il mito della giustizia in educazione come fulcro di tutta l’esperienza milaniana. Intorno a esso ho cercato di tessere la trama di un racconto pedagogico nel quale si incontrano i diversi temi educativi che ho già ricordato: il luogo, la lingua, le relazioni, la politica, la didattica. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non è stato facile. È stato però avvincente cercare di esprimermi come fece don Milani, cioè usando “la parola come se fosse la prima volta”. Una ricerca di essenzialità ed autenticità faticosa ma assai preziosa. Nell’ultima delle lettere pubblicate, egli scrive: “Quello che sembra lo stile personalissimo di don Milani 23


è solo lo stare per mesi su una frase sola togliendo via via tutto quello che si può togliere. Tutti sanno scrivere così purché lo vogliano. È solo un problema di non pigrizia” (L 274). È una fatica che ho apprezzato di avere fatto. Forse la strada è ancora lunga per essere soddisfatti del risultato ma sono contento di avere iniziato a percorrerla. Più volte ho tagliato frasi non chiare o ridondanti; eliminato aggettivi in eccesso, cercato la concretezza. Ho cercato di scrivere per farmi capire da tutti quelli ai quali il libro è rivolto e che ho ricordato sopra. Spero che, capendo, essi possano criticare, discutere, esprimere opinioni e visioni proprie. Non porsi limiti di tempo. Questo principio, in coscienza, posso dire di averlo pienamente rispettato. Ho impiegato circa due anni per scrivere questo libro ma molti di più per pensare al testo, immaginarlo, idearlo. Per molti anni ho pensato di non poter scrivere su don Milani e su Barbiana. Quell’esperienza, infatti, era stata per me, come per molti altri della mia generazione, talmente influente sulla mia storia personale e professionale da rendere difficile il distacco necessario per la scrittura. Poi ha prevalso il desiderio di far vivere ciò che credo di aver compreso, di trasmettere il dono ricevuto: la passione per l’educare concreto e vivo. Nel primo capitolo del libro, “Lo schiaffo di don Milani e il mito dell’educazione come giustizia sociale”, introduco gli elementi costitutivi del mito e cerco di rileggere in cosa sia consistito lo schiaffo che abbiamo ricevuto dall’esperienza di Barbiana. I capitoli successivi narrano una storia, ricostruita non cronologicamente ma seguendo la trama dei temi che l’esperienza umana ed educativa di don Milani ha toccato: il luogo e l’ambiente dell’educazione, la relazione educativa, la lingua per esprimersi e contare nel mondo, la politica e la didattica, cioè i modi per insegnare e imparare. Infine, nell’ultimo capitolo, “Per un’educazione milania24


na oggi”, cerco di individuare e discutere alcuni riferimenti di fondo che possiamo assumere oggi per continuare a far vivere originalmente lo spirito di Barbiana. Si tratta di strategie, atteggiamenti e modalità per essere maestri davvero, cioè capaci continuamente di imparare. Lo schiaffo di don Milani, come ho detto, non è una biografia del sacerdote ed educatore ma una rilettura della sua eredità. Spero però che il libro possa essere letto anche da chi non ha una conoscenza della sua storia personale e delle esperienze educative che egli condusse, a San Donato e a Barbiana. Oltre a rimandare ai tanti autorevoli testi che hanno ricostruito tale vicenda, propongo una sintesi dei principali eventi della sua vita. Per fare ciò ho scelto di utilizzare le parole di chi gli fu più vicino: la mamma e i ragazzi di Barbiana.

I fatti di una vita. Cenni biografici di don Lorenzo Milani La mamma di don Milani, Alice Milani Comparetti, introducendo la raccolta delle lettere che il figlio le scrisse dal 1943 al 1967, così ne racconta la vita sino all’ingresso in seminario: Lorenzo Milani, nato il 27 maggio 1923 a Firenze, frequentò la scuola elementare di via Spiga a Milano, dove la famiglia si era trasferita. Venne battezzato all’età di sette-otto anni. Fece il ginnasio e il liceo classico al Berchet sempre a Milano, saltando però la seconda liceo per insofferenza della scuola e presentandosi all’esame per la terza. Il suo professore d’italiano che era nella commissione gli disse che era stato sfacciato a presentarsi alla terza e che tutti i professori erano d’accordo per bocciarlo, ma che il tema era geniale e non avevano potuto non ammetterlo. Dopo l’esame di maturità fece pratica di pittura con un pittore tedesco residente a Firenze, Hans Johann 25


Staude, e al principio del ’42 si iscrisse a Brera. Trasferitasi la famiglia nell’ottobre ’42 a Firenze per ragioni belliche, si dedicò dapprima alla pittura e poi per lunghi mesi a uno studio sulla liturgia. In questo periodo incontrò don Raffaele Bensi, che fu da allora il suo direttore spirituale e amico fino al suo ultimo giorno. Nel novembre 1943 entrò nel Seminario maggiore di Firenze, il Cestello, che sta sulla riva sinistra dell’Arno (LM 9).

Rispetto a questa ricostruzione biografica della mamma, i ragazzi di Barbiana – a loro volta introducendo le lettere di don Lorenzo che avevano raccolto negli anni – aggiungono solo che egli “era figlio di Albano Milani e di Alice Weiss, quest’ultima di origine israelita” (LM 9). Essi proseguono la narrazione dei fatti della vita di Lorenzo Milani scrivendo che il 13 luglio 1947 fu ordinato prete e mandato a San Donato di Calenzano (Firenze), cappellano del vecchio preposto don Daniele Pugi. A San Donato don Lorenzo fondò una scuola popolare per giovani operai e contadini. Alla morte di don Pugi, il 14 novembre 1954, fu nominato priore di Sant’Andrea a Barbiana, una piccola parrocchia di montagna, dove l’anno successivo fondò una scuola per i ragazzi del popolo che avevano finito le elementari (L 7).

Nelle parole scritte dai ragazzi di Barbiana non si trova cenno alle ragioni dell’allontanamento da San Donato deciso dalla curia di Firenze dopo le prese di posizione di don Lorenzo contro l’atteggiamento antisindacale di alcuni imprenditori toscani. La sofferenza che don Lorenzo patì in seguito a questo allontanamento si trasformò però in una nuova passione educativa che generò la scuola di Barbiana. Così prosegue il racconto degli allievi di don Lorenzo: Nel maggio 1958 finì di scrivere Esperienze pastorali, iniziato otto anni prima a San Donato. Nel dicembre dello stesso anno il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perché ritenuto “inopportuno”. Nel dicembre 1960 don Lorenzo fu colpito dai primi sinto26


mi del male che sette anni dopo lo portò alla morte. Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta a un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà”. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Al processo, che si svolse a Roma, non poté essere presente a causa della sua grave malattia. Inviò allora ai giudici un’autodifesa scritta. Il 15 febbraio 1966 il processo in prima istanza si concluse con l’assoluzione. Ma su ricorso del pubblico ministero, il 28 ottobre 1968 (quando don Lorenzo era morto da tempo) la corte d’appello, modificando la sentenza di primo grado, condannava lo scritto. Nel luglio 1966 i ragazzi della scuola di Barbiana, sotto la guida di don Lorenzo, iniziarono la stesura di Lettera a una professoressa, che fu pubblicata nel maggio 1967. Don Lorenzo morì a Firenze un mese dopo, il 26 giugno (L 7-8).

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1. Lo schiaffo di don Milani e il mito dell’educazione come giustizia sociale

La vicenda personale di don Lorenzo Milani e le esperienze educative che egli ha vissuto – a San Donato di Calenzano prima e a Barbiana poi – si svilupparono in un clima culturale e sociale che da esse venne profondamente provocato. L’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso è un Paese che vive prima la faticosa ricostruzione del dopoguerra, quindi il boom economico e lo sviluppo industriale nelle aree urbane del Nord, l’emigrazione interna, la guerra fredda e la contrapposizione politica tra cattolici e comunisti, il passaggio antropologico dalla società contadina a quella industriale e dei consumi. Antiche certezze si vanno progressivamente crepando e cambiamenti radicali si stanno preparando. Nella Chiesa cattolica gli anni Cinquanta si concludono con l’elezione di papa Giovanni XXIII e il decennio successivo si apre con lo storico evento del Concilio. Nella società italiana emergono soggetti nuovi: il movimento operaio e quello delle donne, i movimenti internazionalisti e degli studenti, che condivideranno – nel ’68 – lo spirito di contestazione diffuso in tante parti del mondo. A livello internazionale nasce nel ’57 la Comunità europea, numerosi sono i conflitti (non solo Corea e Vietnam), inarrestabile è il processo di decolonizzazione, in particolare in Africa. Nei vent’anni successivi alla seconda guerra mondiale l’Italia come l’Europa si costruiscono intorno a valori e riferimenti culturali che devono sostenere la rinascita di società crollate in macerie e che avevano conosciuto dolorosamen29


te la propria tragica capacità di distruzione e di autodistruzione. I valori del lavoro, della libertà e della democrazia, dell’autorità generazionale ma anche del successo personale e del benessere attraverso i beni e i consumi vengono assunti come pilastri del vivere comune. Il tutto avviene rapidamente, troppo rapidamente perché le coscienze possano elaborare i drammi della prima metà del secolo e assumere criticamente nuovi riferimenti. Nuove modalità di vita si impongono, apparentemente senza incontrare resistenze e soddisfacendo un comprensibile desiderio di agio e spensieratezza. Eppure contraddizioni profonde covano sotto la cenere della seduzione indiscussa esercitata dalle mode e dal consumismo, che si vanno rapidamente imponendo. Sono contraddizioni sociali, economiche, etiche, culturali, politiche e anche educative. Voci critiche – si pensi alle provocazioni di Pasolini – si leveranno a mettere in guardia dalle conseguenze problematiche delle profonde trasformazioni (antropologiche e delle coscienze) in atto. Nell’apparente solidità del conformismo di un’epoca che pretendeva certezze si formano però alcune crepe. È la storia che si ripete: ogni epoca costruisce certezze – più o meno fondate e condivise – che sono, in realtà, sottoposte a lacerazioni e contraddizioni. Le azioni e le parole di don Milani e delle sue scuole aprirono alcune crepe nelle convinzioni sociali dominanti dell’epoca. Attraverso quelle crepe filtrò una luce che fece vedere in modo diverso la realtà della scuola, della società, del rapporto tra cittadini e istituzioni. Quello di don Milani fu uno schiaffo, sferzante e irato, al conformismo delle mode assunte acriticamente. La moda richiede la sospensione della coscienza critica, dell’interrogarsi sul perché delle cose del mondo. Il conformismo venne preso a sberle dalla parola pronunciata senza compromessi da don Milani. La mentalità corrente portava (e tuttora porta) ad accettare senza obiezioni il tifo sportivo, il bar e la ricreazione in oratorio, il formalismo della prati30


ca religiosa, l’informazione manipolatoria dei quotidiani, il programma scolastico, il parere del segretario della sezione del partito come del parroco. Un aspetto della mentalità conformista scosso dalla provocazione di Barbiana è la convinzione dell’ineluttabilità di alcune condizioni personali e sociali. Le distinzioni, e conseguenti discriminazioni, tra persone in base al grado di istruzione posseduto, così come la marginalità sociale dei montanari, sono accettate come indiscutibili e immodificabili. Così è sempre stato e così sarà per sempre. La coscienza non si fa critica dinanzi a tali situazioni e l’educazione insegna a rispettare queste realtà come non trasformabili. La lezione di Barbiana dice, da un lato, che le ingiustizie hanno cause sociali, culturali e politiche chiaramente individuabili e, dall’altro, che esse sono però modificabili. L’istruzione scolastica viene denunciata da don Milani come fattore di riproduzione delle ingiustizie sociali ma, nel tempo stesso, viene indicata come l’unica strada per criticare e superare quelle ingiustizie. Da Barbiana viene gridato che il sapere e l’educazione devono essere di tutti, proprio per attuare concrete condizioni di giustizia. Lo schiaffo di don Milani al conformismo educativo e culturale diffuso ha permesso che l’idea dell’istruzione e della scuola come forme di giustizia fossero riconosciute e praticate. Tante iniziative educative nacquero, dopo la conclusione dell’esperienza di Barbiana, per far vivere questa idea. Ancora oggi la scuola e l’educazione – in tante realtà del mondo – si confrontano con la questione della giustizia. Purtroppo ancora troppo spesso il sapere viene usato per confermare discriminazioni esistenti o produrne di nuove, ma significative sono anche le situazioni nelle quali l’educazione crea giustizia. L’educazione come pratica della giustizia costituisce un’idea che necessita ancora oggi di essere coltivata e tramandata, perché possa continuare a generare nuove esperienze. Essa può essere vista come un mito tuttora vivo e da far vivere. A più di cinquant’anni dalla scomparsa di don Mila31


ni e dalla fine dell’esperienza di Barbiana, coltivare il mito dell’educazione “giusta” e che produce giustizia costituisce un modo per far vivere un’idea preziosa, senza la quale i conformismi delle varie epoche si riproducono in forme nuove e dinanzi a problemi differenti. Le ingiustizie subite da analfabeti, operai e montanari nella provincia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta si trasformano in quelle che vivono oggi i giovani nati qui da genitori migranti o arrivati da soli fuggendo da guerre e carestie. Il mito educativo di Barbiana dice che l’istruzione e la scuola non servono unicamente a escludere, selezionare, creare disuguaglianze ma, al contrario, che solo attraverso il sapere è possibile ridurre le ingiustizie. Il mito racconta una storia e la fa diventare sacra. Secondo Mircea Eliade, grande studioso del mito, esso “riferisce un avvenimento che ha avuto luogo nel Tempo primordiale, il tempo favoloso delle ‘origini’ […]. Il mito quindi è sempre la narrazione di una ‘creazione’: riferisce come una cosa è stata prodotta, ha cominciato ad essere”7. Il mito di Barbiana ci riporta alle origini dell’atto di educare, racconta della creazione di un modo diverso, alternativo di fare scuola, di imparare e di insegnare. In esso è contenuta l’idea che il sapere può servire non solo per avere successo individuale, a discapito degli altri, ma per contribuire a fare il mondo meno ingiusto di come è. Come ogni mito, anche quello di Barbiana possiede un fulcro dal quale scaturiscono l’energia, la potenza interpretativa e di azione che ogni mito racchiude. Il fulcro del mito, in questo caso, è la conversione radicale dell’educazione da strumento per discriminare, assegnare le persone a ruoli sociali predefiniti, selezionare… a fattore di sviluppo dell’autonomia personale, della promozione sociale e della costruzione di una società più giusta.

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Eliade M., Aspects du mythe, Gallimard, Paris 1963. 32


ISBN 978-88-6153-799-6

Euro 15,00 (I.i.)

Piergiorgio Reggio

è pedagogista e formatore. Obiettore di coscienza al servizio militare, da giovane si impegna nei movimenti nonviolenti, nelle scuole popolari per adulti e nelle esperienze educative extrascolastiche. È stato operatore della formazione professionale, consulente di progetti educativi e formativi con giovani sottoposti a provvedimenti giudiziari, persone migranti, lavoratori. Abilitato all’insegnamento di pedagogia e storia della pedagogia, dal 2001 insegna presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano e Brescia, occupandosi di tematiche di pedagogia sociale ed interculturale e di educazione degli adulti. È vice-presidente dell’Istituto Paulo Freire Italia, che ha contribuito a fondare, e, dal 2014 fino al 2020, è stato presidente della Fondazione Franco Demarchi di Trento.

Cosa è accaduto dopo Barbiana? È tutto finito con la chiusura, poco dopo la morte del Priore, della scuola? A questa domanda – che può sembrare per certi versi cinica – Piergiorgio Reggio tenta di rispondere con questo testo. Non una biografia del sacerdote e dell’educatore ma una rilettura della sua eredità, avendo in mente educatori ed educatrici, operatori sociali, insegnanti ma anche genitori e giovani incontrati in decenni di attività sociale, educativa e formativa. Non sono pagine rivolte a professionisti dell’istruzione e dell’educazione, ma a tutti coloro che intendono vivere relazioni significative di apprendimento. Lo schiaffo di don Milani, sferzante e irato, è rivolto al conformismo delle mode assunte acriticamente, di un’educazione senza interrogativi, imposta e accettata, di adeguamento alla mentalità corrente. Oggi, come cinquanta anni fa, il mito di Barbiana consiste nel concepire l’educazione come elemento concreto della quotidianità. C’è ancora bisogno di reinventare l’esperienza di don Milani in forme adeguate alle circostanze attuali, perché è proprio vero, come lasciò scritto lo stesso don Lorenzo, che “essere fedeli ad un morto è la peggiore infedeltà”. Don Milani divide ancora oggi, come cinquant’anni fa. Andando alla radice delle contraddizioni, egli obbliga a schierarsi. Anche se sono cambiati (e cambieranno ancora) le forme, i modi, i nomi dell’esclusione, resta sempre la necessità di prendere parte e di fare la propria parte per esprimere la propria umanità nel mondo.

LO SCHIAFFO DI DON MILANI

Piergiorgio Reggio

PIERGIORGIO REGGIO

LO SCHIAFFO DI DON MILANI

Il mito educativo di Barbiana


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