Chiara Colombo, pedagogista, formatrice, dottore di ricerca in sociologia, e Fiorenzo Ferrari, filosofo e insegnante di sostegno, sono stati tra i primi in Italia a realizzare progetti e a scrivere di filosofia con i bambini, ideando e sperimentando un originale approccio all’esperienza filosofica quale educazione interculturale attraverso corpo, intelligenze e pensiero. Vivono a Verbania, sul Lago Maggiore, con Riccardo, Federico e Sofia.
In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
Euro 14,50 (I.i.)
Chiara Colombo Fiorenzo Ferrari
PENSO DUNQUE SIAMO Percorsi e giochi di filosofia con i bambini
PENSO DUNQUE SIAMO
Molti pensano che la filosofia sia una disciplina adatta ad una ridotta fascia di studenti delle scuole superiori e delle università o a pochi appassionati molto motivati. In realtà sono numerosi i contesti in cui è esperienza concreta e fruibile da tutti, fin dall’infanzia. Ragionamento, immedesimazione, comunicazione: queste attitudini, necessarie per filosofare, sono competenze precoci, che i più piccoli sanno applicare nel loro dar vita al pensiero. Per i bambini, la filosofia non è da considerarsi “cosa da grandi” quanto “qualcosa di grande” che, se proposto in modo coerente, offre lo spazio per una sfida significativa sul piano personale e relazionale. Il pensiero bambino, contemporaneamente magico, concreto e razionale, è potente perché intreccia la vita pratica, le abitudini e la routine, con i liberi e generosi giochi del pensare e con la fantasia. Il contesto in cui gli autori collocano la filosofia è quello laboratoriale: in ogni percorso, partendo da un testo filosofico semplificato, i bambini sono chiamati ad immergersi nella domanda filosofica su piani differenti e attraverso l’attivazione delle intelligenze multiple di ciascuno. Insegnanti, operatori e genitori sono invitati a vivere la medesima esperienza dei loro bambini e ragazzi, filosofando con la testa e le mani all’interno delle stesse cornici e, richiesta talvolta ben più complicata, della stessa meraviglia.
C. Colombo - F. Ferrari
dorsetto 6,8 mm
ISBN ISBN 978-88-6153-697-5 978-88-6153-697-5
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788861 536975
edizioni la meridiana p a r t e n z e
Chiara Colombo Penso dunque Fiorenzo Ferrari Siamo Percorsi e giochi di filosofia con i bambini
edizioni la meridiana
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Indice
Parte Prima Un gioco di domande e risposte Dare corpo ai pensieri .................................... 11 Il sacco delle domande e delle risposte ......... 29 Il laboratorio di filosofia . ............................... 49 Parte Seconda Per sporcarsi le mani con i pensieri Piccoli consigli per un grande gioco . ............ 63 Percorsi filosofici aperti ................................. 71 Parte Terza Percorsi 1. Chi sono io? ............................................ 75 1a Campanella e la magia della vita 1b Conosci te stesso, Socrate! 1c I debiti dell’imperatore Marco Aurelio 2. Ragionare con istinto .............................. 81 2a Il dubbio di Renato Cartesio 2b Divertirsi: questione Spinoza 2c Platone sulla biga alata 3. Costruire legami ..................................... 88 3a L’amore di Platone 3b Somiglianze in famiglia Wittgenstein 3c Lo straniero di Montesquieu 4. Stare insieme agli altri ........................... 93 4a Specchiamoci con Niccolò Cusano 4b Aristotele è un animale 4c Platone e la giustizia 5. Tempo che passa, tempo che resta . ....... 99 5a La civetta di Hegel 5b Nietzsche! Nietzsche!! Nietzsche!!! 5c Siamo Aristotele in potenza o in atto 6. Con sguardo incantato ......................... 103 6a Il meraviglioso Aristotele 6b La caverna di Platone 6c Quell’artista di Heidegger Bibliografia ................................................... 109
Parte Un gioco Prima di domande e risposte
Dare corpo ai pensieri
È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la filosofia è, anche per le persone di ingegno, un nome vano e fantastico, che non serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica. Credo che siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi accessi. Si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato, terribile. Chi me l’ha camuffata sotto questa maschera, esangue e ripugnante? Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone. Essa non predica che festa e buon tempo. Una cera triste e sconsolata dimostra che non è qui la sua dimora. Michel de Montaigne
“Filosofia è farsi tante domande, pensare molte cose, giocare insieme e magari, ogni tanto, trovare qualche risposta.” Così Ivan, 8 anni, descriveva ai suoi compagni l’esperienza che aveva condiviso con una decina di piccoli filosofi come lui, in un doposcuola dell’hinterland milanese. Era la primavera del 2007 e si concludeva il nostro primo itinerario di filosofia, nato dal fortunato incontro, personale e professionale, tra un filoso-
fo e una pedagogista e dalla comune passione per l’ascolto e il dialogo con i più piccoli. Con estrema lucidità, il piccolo amico ha saputo fare sintesi del nostro modo di intendere l’esperienza filosofica: domande, giocare insieme… e qualche risposta. Negli anni il nostro lavoro è proceduto, principalmente nelle scuole e con qualche incursione nel territorio, tra istituzioni e privato sociale, in una logica di sperimentazione e ricerca, mantenendo sempre un forte aggancio con la riflessione e i riferimenti teorici propri delle discipline da cui muovevamo. In particolare, abbiamo sempre insistito sulla coessenzialità di pedagogia e filosofia e sulla loro capacità, lavorando in sinergia, di dare un contributo importante alla riflessività individuale, alla definizione identitaria, all’agire sociale e al cambiamento culturale. Se è evidente, infatti, che le due discipline siano sorelle che possono muoversi in piena autonomia reciproca, è altrettanto vero che sovente è nei crocevia, nelle commistioni e negli incontri, voluti o fortuiti che siano, che si accendono scintille inattese e potenti, e si aprono cammini impegnativi e intensi, è vero, ma anche capaci di portare più lontano rispetto a quelli intrapresi in solitudine. Penso dunque siamo è il frutto di questi anni di lavoro. Nasce dall’incontro con i grandi maestri di filosofia e pedagogia, dalla riflessione teorica e dallo studio. Ma insieme e, soprattutto, dall’incontro con bambini e bambine, ragazzi e ragazze e con i loro insegnanti, educatori e genitori. In un costante dialogo a più intelligenze, con sguardo sperimentale e apertura all’ignoto. Sia il quadro teorico proposto nella prima parte, sia le proposte operative della seconda sono frutto di questo dialogo e sperimentazione, che ancora proseguono e che hanno trovato casa in queste pagine nello spirito suggerito da Paulo Freire: “di una cosa qualsiasi testo ha bisogno: che il lettore o la lettrice si consegni ad esso in forma critica, via Penso dunque siamo
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via più curiosa”1. Ed è quanto anche questo libro si aspetta.
Qualcosa di grande Si può fare e non è mai troppo presto Che si possa, con la filosofia, “fare coi piccoli una cosa da grandi” è una certezza ormai assodata. Se, alla sua nascita, la filosofia era ritenuta praticabile solo in età matura2, attorno ai 40/50 anni – e ancora oggi molti pensano sia una disciplina adatta a una ridotta fascia di studenti delle scuole superiori e delle università e a pochi appassionati molto motivati – è possibile scorgere numerosi contesti in cui la filosofia è invece esperienza concreta e fruibile da tutti, anche prima dell’adolescenza e dell’età adulta. Questo lo sanno bene i bambini e i ragazzi con cui abbiamo la fortuna di lavorare: quando sentono per la prima volta la parola filosofia, avendo ancora le idee confuse su questo strano termine normalmente associato – dai pochi che lo conoscono – a qualcosa di difficile e adulto, provano a ipotizzare con noi l’età minima per iniziare a praticarla. Ne escono spesso età a caso, in una rincorsa di anni corrispondenti a quelli dei nonni, dei genitori e degli insegnanti. Bene che vada si abbassano all’età dei fratelli, cugini e amici di famiglia che frequentano le scuole superiori e l’università. Se poi, però, diciamo loro: “È vero, abbiamo sbagliato tutto: non dovevamo venire da voi oggi, ma all’assemblea dei genitori che ci sarà nei prossimi giorni!”, la curiosità li fa trepidare e chiedere qualche indizio in più. È sempre uno splendido momento quello in cui suggeriamo che, per noi, può fare filosofia chiunque sappia porre delle domande e immediatamente, dalla scuola dell’infanzia in avanti, ci rispondono che, no, non 1. Freire, 2004. 2. Platone 537 c; Aristotele VI (Z), 8, 1142 a
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abbiamo sbagliato perché loro le domande le sanno porre. Eccome! La concreta possibilità di proporre ai più piccoli qualcosa che in molti ritengono “da grandi” è confermata da numerosi esempi di pratica filosofica con i bambini. In varie sedi sono stati ampiamente descritti e analizzati gli esiti positivi di queste proposte3. A livello di ricerca, poi, i più recenti studi nell’ambito della psicologia dello sviluppo e delle neuroscienze4 hanno rivisitato, valorizzato e ampliato le teorie classiche sul pensiero infantile, riconducibili anzitutto agli imprescindibili lavori di Piaget, di Vygotskij e Bruner, mettendo sempre più in discussione le tesi di chi riterrebbe il ragionamento proprio della filosofia impraticabile per un bambino5. Ragionamento, immedesimazione, comunicazione, vale a dire le attitudini necessarie per poter filosofare, sono competenze precoci, che i più piccoli dimostrano di sapere applicare sin dalla prima infanzia, in maniera commisurata alle proprie esigenze e agli stimoli offerti dai caregiver di riferimento e dal contesto6. Sin dai primi anni di vita, i bambini possiedono una “conoscenza pienamente valida” che consente loro di muoversi nella realtà, forti di un sapere pratico che permette loro di conoscere e di scegliere cosa sia “giusto o bello” all’interno della situazione di vita e delle relazioni di cui sono parte. Essi sono in grado, insomma, di “dar vita al pensiero” con un movimento autonomo, capace di padroneggiare i concetti, i loro contenuti e il loro intreccio reciproco, animando “ciò che c’è già”, in maniera personale, concreta e contestualizzata7. Presupponendo tale competenza, è possibile precisare che, per bambini e bambine, la filosofia 3. Cfr. Unesco 2007; Cebas, Moriyón, 2011. 4. Si vedano, a titolo di esempio: Meltzoff, 2005; Vonèche, Braga Illa, 2007; Reddy, 2010; Glenberg, Gallese, 2011; Oliverio, 2017. 5. Cfr. Piaget, 1972, 1973; Vygotskij, 2008; Bruner, 1968, 2015. 6. Solter, 2000. 7. Martens, 2007, pp. 85-7.
non è da considerarsi “cosa da grandi” quanto “qualcosa di grande”: nel momento in cui viene proposta in maniera coerente con le loro attitudini, offre lo spazio per una sfida significativa sul piano personale e relazionale. Si tratta quindi, riecheggiando il maestro Janusz Korczak8, di accettare la fatica di frequentare i bambini, allungandosi sulla punta dei piedi per innalzarsi fino al loro sguardo e vivere assieme a loro una grande esperienza. Con molto rispetto per loro in quanto individui in sé e per sé: non adulti in miniatura o in fieri né soggetti mancanti di qualcosa, bensì bambini e null’altro che bambini, capaci di fare grandi cose proprio in quanto tali.
Pensiero bambino e pensiero adulto È importante non farsi sedurre dai miti sull’infanzia né da quelli, come precisato poc’anzi, che li ritengono piccoli adulti più o meno in via di completamento; tantomeno dalle idee romantiche che vedono l’infanzia come un mondo incontaminato e perduto che va avvicinato con ammirazione e nostalgia. I bambini che abbiamo in mente, se la realtà che hanno intorno glielo consente, hanno le ginocchia sbucciate, i vestiti sporchi e la cartella piena di mille oggetti e idee diverse. Hanno biografie, famiglie e appartenenze molteplici e spesso composite e molto diverse tra loro. Sanno essere immensamente adorabili e altrettanto insopportabili. Piangono e ridono, si lasciano condurre dalle idee altrui e si incaponiscono sulle loro priorità, si annoiano e si immergono nella curiosità. Stanno nel mondo insieme ai più grandi e ai più piccoli di loro, reagendo e interagendo di fronte a quello che la vita pone loro di fronte, provando a dire la loro e a tracciare la propria strada. Rispetto a questa interazione, pensando alle caratteristiche della mente e del pensiero che li ca8. Korczak, 2013.
ratterizzano, Alison Gopnik accosta infanzia e adultità non nel concetto di crescita, ma in quello di metamorfosi, per cui siamo tanti bruchi destinati a diventare farfalle, anche se potrebbe sembrare più verosimile l’immagine contraria: i bambini, vibranti farfalle piene di vitalità, arrancano lungo il percorso che porta all’età adulta, finendo con il diventare dei bruchi9.
Per la studiosa statunitense le caratteristiche specifiche dell’animale-uomo, per il quale vi è un lungo periodo della vita in cui il bisogno di cure è alto, lo rendono necessariamente caratterizzato da finalità e modalità di pensiero molto diverse a seconda della fase di vita in cui egli si trova. L’infanzia è il momento in cui l’individuo è impegnato sul fronte dell’imparare come funziona il mondo (pensiero causale) e su quello dell’immaginare come potrebbe funzionare altrimenti (pensiero controfattuale). Con l’età adulta la farfalla si trasforma in bruco e, grazie a processi mentali evoluti e complessi, sceglie il proprio campo di azione, smette di svolazzare e si dedica a mettere a frutto ciò che ha appreso e immaginato. In questo senso sono i compiti di bambini e adulti, più che i processi mentali, a essere differenti: [i bambini] irrealisti e per nulla pragmatici, occupano il dipartimento di ricerca e sviluppo della specie umana – praticamente, il reparto genio e sregolatezza. Noi adulti siamo la produzione e il marketing. A loro si devono le scoperte, a noi l’implementazione. A loro vengono in mente un milione di idee nuove, per lo più inutili; noi ne scegliamo tre o quattro, le migliori, e le mettiamo in pratica10.
Riteniamo che sia possibile una commistione: i bambini, anche a costo di una grande fatica che non li spaventa, dimostrano di saper finalizzare ragionamenti e idee per concretizzare i risultati per cui hanno interesse e gli adulti possono abban9. Gopnik, 2010, p. 22. 10. Ibidem.
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donarsi alla curiosità, all’inutile e alla scoperta. Pure loro, a volte, a costo di grande fatica, anche se forse si tratta di due fatiche diverse. Proprio in questa possibilità di commistione può trovare il suo spazio l’esperienza filosofica, come luogo in cui menti adulte e menti bambine, nel rispetto delle reciproche peculiarità, esplorano pensieri, domande e risposte, alla ricerca di significati che non sono pura astrazione, ma concreta espressione delle esperienze di tutti e di ciascuno. Concreta anche quando si ancora a quel tipo di ragionamento, il pensiero magico, che è peculiare della mente bambina, se pure rimane come eco, se non, a volte, come anelito e rifugio, anche nel pensare adulto. Lungi da essere un ostacolo, tale pensiero esprime infinite possibilità, mondi intrecciati anche quando diametralmente opposti, in cui la filosofia può rincorrere domande che si basano su dubbi o verità forse poco comprensibili o accettabili per un adulto abituato ad esercitare solo una parte delle proprie possibilità di ragionamento, ma non per questo prive di forza, potenzialità e coerenza. Poco importa se assieme a Kant o Aristotele entrano nel gioco della filosofia i folletti del bosco, la Befana o altri mondi fantastici. Quella sarà la base sicura da cui i bambini potranno partire, ben consapevoli della sua collocazione in un mondo che non è completamente reale, ma che non per questo è meno vivo, vivace e potente. Immerso in un eterno presente che rifugge l’idea di tempo come Kronos, scansione sequenziale che scandisce e incalza, il pensiero magico diviene risorsa per la filosofia perché perde di vista le urgenze del quotidiano e si espande in un tempo che è l’Aion, il tempo eterno, non a caso descritto da Eraclito come un bambino che gioca a dadi e come un regno di bimbo11. Superando la distinzione, presente sin dall’origine della nostra cultura, tra Kronos e Aion, il pensiero magico diventa Kairos, momento opportuno,
tempo speciale, privilegiato. Prezioso anche per la pratica della filosofia con i più piccoli. Dare legittimità al pensiero magico rende evidenti le affinità tra il parallelo fra filosofia bambina e filosofia adulta e quello fra farfalla e bruco della Gopnik: un’esperienza che può essere praticata da tutti, ma che metterà in campo attitudini, modi di pensare e campi di forze differenti a seconda dei soggetti che ne sono protagonisti. A chi ci chiede di “spiegare la filosofia ai bambini”, o di introdurre la filosofia così come la si intende comunemente pensando alla didattica scolastica o universitaria, rispondiamo che la cosa non ci interessa e che comunque non lo potremmo fare. Ci paragoniamo alle nostre montagne e precisiamo che ci sono numerosi sentieri che le percorrono e si arrampicano verso le cime. Tutti possono provare a incamminarsi tra mulattiere, erba e terra battuta, ma i percorsi, la fatica e le mete non sono tutti uguali. Soprattutto, conoscere la cartografia, la toponomastica e la storia delle valli è cosa complementare, ma ben diversa dall’esplorare i sentieri godendo dell’odore del bosco, dei suoni della natura e degli orizzonti da scoprire. Sono la fiducia nell’incontro, nelle risorse del bambino e una continua riflessione sull’infanzia, dunque, a rendere possibile la nostra pratica filosofica. E anche la sua realizzazione in un’ottica pedagogica, ossia, come auspicava Aldo Capitini, in un agire che mette in campo
11. Agamben, 2001, pp. 76-7.
12. Capitini, 1951, p. 4.
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un elemento di tensione che discrimina il passato e chiede un futuro e poggia quindi maggiormente su ciò che è liberante, trasformante, creativo12.
Perché se la filosofia, di per sé, può forse ritenere di operare senza prefiggersi finalità, la pedagogia che incontra la filosofia apre la domanda sul senso e sulla tensione, sulla possibile “insoddi-
sfazione per ciò che c’è” e sulle “vie del dover essere”13.
Un grande gioco Che cos’è fare filosofia Bambini e adulti possono collaborare nel rispondere a domande di volta in volta elaborate insieme o poste da qualcuno in autonomia, ma sempre a partire dall’osservazione e dall’ascolto del contesto, delle esperienze e delle aspettative di chi sta partecipando a quello che è a tutti gli effetti un grande gioco. L’adulto prende parte all’esperienza con la globalità della sua persona, come soggetto portatore di una storia, di valori in cui crede e di legami sociali. Il suo habitus, riprendendo Bourdieu14, è un dato di partenza che non è possibile negare, ma di cui, invece, egli deve avere coscienza e padronanza, proprio per evitare di imporlo ai suoi interlocutori o di farsi condizionare da esso senza rendersene conto. I bambini, di fronte a un adulto, sentono di poter condividere senza essere pienamente uguali: il bagaglio di conoscenze, le traiettorie di vita attraversate, le scelte che lo hanno portato ad essere lì con loro sono poco o per nulla sovrapponibili a quelli che li contraddistinguono. Questo non è necessariamente un limite o un problema, perché bambini e ragazzi hanno bisogno di interloquire con persone appassionate, che danno parole e corpo alle idee in cui credono, che possono essere per loro punti di riferimento. Ed è quello che auspicava il gruppo di allievi della scuola di Barbiana quando, proprio riguardo alla filosofia, dichiarava:
siero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremo di scuola convinti che la filosofia può riempire una vita15.
Per fare filosofia è necessario appassionarsi, prendere posizione, dichiarare, anzitutto a se stessi, l’obiettivo a cui si vuole tendere e i presupposti, anche teorici, da cui si muove. L’adulto ha così la possibilità di mediare la comunicazione tra generazioni, mettendo a disposizione dei più piccoli almeno una parte dell’immenso bagaglio di conoscenze e ideali che la società e la cultura possiedono, e di accompagnarli nell’esplorazione di questo bagaglio, così che le generazioni più giovani “non sorgano ignare e si vedano costrette a ricominciare”16. Il bagaglio della filosofia è un baule molto grande e pieno di scomparti. Può essere aperto e illustrato, con l’introduzione di storia, conoscenze e contenuti, muovendosi sul piano della didattica. Può essere lasciato chiuso e tenuto come termine di paragone dall’adulto che l’ha, almeno in parte, esplorato e che sceglie di concentrarsi sull’osservazione del pensiero bambino. Può essere aperto e messo un po’ sottosopra finché non si trova un concetto interessante con cui entrare in dialogo. In questo caso si prendono per mano i bambini nella ricerca del senso, nell’esplorazione delle domande e dei temi di ricerca che, da secoli, si rincorrono tra le parole e i pensieri dei maestri di filosofia e che, nel ben più breve arco di tempo della vita di un bambino o di un ragazzo, sovente appaiono in maniera spontanea e dirompente, a patto che sia lasciata aperta la possibilità di stupirsi e domandare.
tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia un pen13. Ivi, p. 5. 14. Bourdieu, 2001.
15. Scuola di Barbiana, 1969, p. 119. 16. Capitini, op. cit., p. 7.
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La sfida della totipotenza infantile Esiste un parallelo tra il divenire dell’uomo come specie (filogenesi) e le traiettorie di vita individuali (ontogenesi). Come osserva Giorgio Agamben17, sia il singolo animale-uomo sia l’intera umanità sono caratterizzati da un processo di crescita/evoluzione molto lento. Questo tempo così dilatato è ciò che ha permesso l’invenzione del linguaggio, non a caso tenacemente legato, nel suo emergere e svilupparsi, alla condizione infantile e del ragionamento. È una condizione che porta spesso gli adulti a rimuovere la coscienza di questa dimensione tipicamente umana, anche marcando una netta separazione dai più piccoli. Sovente, al di là del vezzeggiarsi e dilettarsi con loro, gli adulti guardano con precauzione e diffidenza i bambini, li confinano in una sfera speciale – la nursery e la scuola – dove devono essere attentamente sorvegliati e puntualmente educati per arginare la loro minacciosa totipotenza18 .
La pratica filosofica con i più piccoli, al contrario, trae linfa e si lascia incuriosire da questa totipotenza, godendo del piacere di osservare nei singoli bambini (ontogenesi) il guizzo creativo, la scintilla della domanda e il concretizzarsi della ricerca di risposta, specchiando questa osservazione nella lettura dei medesimi processi così come si sono svolti nella storia dell’umanità (filogenesi). L’adulto, inoltre, ha il compito di colmare i dislivelli. Inserendo la dimensione verticale all’interno di una pratica che è principalmente orizzontale, egli può approfondire, mettere in luce e accompagnare le dinamiche che caratterizzano le relazioni tra pari, moderando e mettendo a disposizione strumenti adatti a evitare svantaggi e prevaricazioni e a valorizzare il contributo di tutti al procedere dell’esperienza. L’adulto deve però essere capace di sottrarsi: non è la sua per17. Agamben, op cit. 18. Ivi, pp. 131-2.
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sonalità quella che deve emergere né tantomeno essere gratificata. Egli è uno dei tanti protagonisti dell’interazione e della ricerca: può e deve portare il proprio contributo, ma, con un approccio maieutico, di cui parleremo in maniera più approfondita in seguito, deve a poco a poco spostarsi sullo sfondo, lasciando ai veri protagonisti del gioco il ruolo di ideazione e regia. Recenti studi sui litigi fra bambini hanno dimostrato che i piccoli sono in grado di far fronte da soli anche a conflitti e divergenze e che l’intervento degli adulti è spesso un freno per la loro capacità di gestione autonoma delle relazioni19. Avvicinandosi a un gruppo di bambini e ragazzi, specialmente nel caso in cui essi già si conoscono e condividono esperienze, si deve tenere conto del fatto che, come la sociologia dell’infanzia ha ormai ampiamente riconosciuto e dimostrato, essi sono un gruppo sociale, capace di organizzazione autonoma, di confronto con la più ampia società e cultura di riferimento e di definizione di norme e valori con cui orientarsi. Non solo gli adulti, infatti, ma anche i bambini, a modo loro, sono dotati di capacità di agency, ossia delle competenze per agire socialmente, definire e sviluppare, attraverso pratiche riflessive, i propri interessi ultimi, che si sforzano di raggiungere elaborando un progetto20. Ciò consente loro di muoversi nei propri contesti e di osservare, elaborare inferenze e ipotesi, definire modelli di comportamento e compiere scelte: attraverso la partecipazione a routine sociali e culturali, i bambini mettono in atto processi di riproduzione interpretativa21, appropriandosi in maniera creativa delle informazioni messe a loro disposizione dal mondo adulto e producendo, tra pari, culture inedite. Un processo di negoziazione e produzione creativa che non può essere ignorato 19. Cfr. Novara, 2013; Di Chio, Novara, 2013. 20. Archer, 2003. 21. Corsaro, 2015.
da chi si affaccia al mondo dell’infanzia e che, al contrario, è possibile valorizzare proprio attraverso l’invito a porsi domande e ricercare risposte insieme. Il bambino dimostra dunque di avere competenze metacognitive, non solo in termini di capacità di problem solving e di riflessione sulla conoscenza, ma anche rispetto a dinamiche di natura affettiva e in particolare la capacità di attribuire a se stessi e agli altri un valore in relazione alla conoscenza stessa e alla propria capacità di apprendimento22.
Riconoscendo e mettendo in azione tali competenze, la filosofia può offrire spazi di sperimentazione inediti, nei quali il singolo e il gruppo possono esercitare, senza urgenze emotive e forzature, le personali abilità, confrontandole con quelle degli altri membri del gruppo e sviluppando strategie, abilità e sinergie. Sono i bambini a dare forma e direzione all’esperienza filosofica. È necessario credere a un educarsi insieme, dove non ci sono grandi che si mettono di fronte, o sovrastano i piccoli, piuttosto soggetti che crescono allungando lo sguardo e le mani verso ciò che essi stessi ritengono significativo. Come per l’Emilio di Rousseau è importante stare nel paradosso dell’educazione e attendere di raggiungere proprio quello che non si ha avuto fretta di ottenere. La filosofia, in una logica di pedagogia attiva, è dunque un contenitore, uno spazio, in cui a partire dalle personali esperienze, competenze e obiettivi, gli adulti si adoperano per preparare una serie di spunti e incentivi all’attività culturale, distribuiti in un ambiente espressamente preparato, per poi astenersi da ogni intervento troppo diretto e invadente23.
L’attenzione, dunque, anche nell’esperienza filosofica, non è a servire il bambino, piuttosto 22. Galanti, 2014, p. 20. 23. Montessori, 1991, p. 14.
ad “aiutarlo alla conquista di atti utili”24, garantendo indipendenza e libertà. Sarà lui, in questo modo, a superare la propria “pudica sensibilità” che lo lascia esprimere “solo quando l’adulto non interviene colle sue direttive fatte di verifiche, di consigli e di esortazioni”25. Perché ciò avvenga è necessario considerare la filosofia come uno spazio in cui educarsi insieme, in prospettiva orizzontale, ma anche verticale, pensando alla conoscenza e alle competenze non come riempimento di un vuoto, ma come ristrutturazione continua di un “pieno”, che si è cominciato a formare sin dall’inizio della vita e va dal vicino al lontano e dal semplice al complesso26 .
L’adulto, speculare al bambino nella relazione di tipo verticale, ha coscienza di questo pieno e si adopera per allargare lo spazio così che ciò che è presente a livello seminale possa crescere. Stimola le sue interazioni, fra pari e fra età diverse, favorendo la nascita di conversazioni capaci di contribuire alla costruzione sociale del pensiero, dei ruoli e delle norme27. Offre strumenti adatti a rispondere ai bisogni della mente assorbente del bambino28 e ad attivare le potenzialità presenti nei diversi periodi sensitivi29, in modo che non vengano lasciate cadere. Mette a disposizione ambienti, pensieri e domande che delineano la zona di sviluppo prossimale30 e lo scaffolding31, ossia lo spazio in cui è possibile l’esplorazione del nuovo, con l’aiuto e il sostegno del contesto e di soggetti, adulti o pari, maggiormente competenti.
24. Montessori, 1975, p. 50. 25. Montessori, op. cit., p. 105. 26. Lodi, 1983, p. 153. 27. Cfr. Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 2004. 28. Montessori, op. cit.. 29. Montessori, 1991. 30. Vygotskij, op. cit. 31. Wood, Bruner, Ross, 1976.
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Il laboratorio di filosofia
Le parti di noi che ci servono per fare filosofia: gli occhi, per guardare e ammirare, la mente, per pensare, il naso, per annusare, la voce, per dialogare, il cuore, per concepire, le mani, per gesticolare, le braccia, per fare andare le mani a prendere la roba i piedi, per camminare. Matteo e Sofia, 10 e 7 anni
La filosofia è una disciplina che ha una lunga storia, una struttura propria, specifici strumenti. Anche se è la madre di tutte le scienze e la sorella maggiore di ogni scienza umana, non le comprende pienamente né si esaurisce in esse. Come ogni ambito di sapere ha le sue regole, i suoi significati, i suoi contenitori. Al contempo la filosofia nasce come pensiero libero, open source, per riprendere una suggestione informatica. Necessita di spazi codificati in cui muoversi, ma è aperta al contributo di chiunque voglia aggiungersi al dialogo, in una logica di bene pubblico disponibile per tutti e patrimonio di tutti. Un bene che tutti possono contribuire a definire, mettere in discussione, far crescere. Amiamo le commistioni e, in una logica di Creative Commons, il riconoscimento del
lavoro intellettuale alle base delle idee, ma, insieme, l’importanza del lasciarle volare lontano, alla ricerca di orizzonti sempre nuovi120. Per scelta, non abbiamo voluto codificare un metodo. Proponiamo piuttosto un approccio strutturato, ma aperto alla destrutturazione, con alle spalle gli orizzonti teorici illustrati nei primi due capitoli di questo libro, con una precisa scansione di momenti, che danno la cornice a un’esperienza, ma non la possono vincolare; li definiamo: • l’ascolto; • l’attività; • il dialogo; • la verifica. Ci rifacciamo a Morin che intende il metodo come un’arte, una strategia di conoscenza. Un promemoria che raccoglie appunti preliminari. E dopotutto, qual era il metodo di Marx? Consisteva nell’invitare a percepire quegli antagonismi di classe che erano dissimulati sotto le apparenze di una società omogenea. E qual era il metodo di Freud? Consisteva nell’invitare a vedere l’inconscio che era nascosto sotto la coscienza, e a vedere il conflitto che si agita all’interno dell’io121.
Metodo, dunque, come invito, all’interno della complessità, a pensare senza mai chiudere i concetti, a spezzare le sfere chiuse, a ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, a sforzarci di comprendere la multidimensionalità, a pensare con la singolarità, con la località, con la temporalità. A tendere verso un sapere che è totalità integratrice, ma non totalitaria, perché “la totalità è la non verità”. Questo libro è dunque un invito alla sperimentazione personale di un approccio. Saranno gli incontri con il contesto, i protagonisti e la do120. Cfr. Colombo, Ferrari, 2018. 121. Morin, op. cit., p. 486.
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manda a definire i contenuti e l’equilibrio tra le parti, in termini di successione dei tempi, durata e intensità. Ma anche di priorità, strumenti e orizzonti a cui tendere.
Un metodo aperto Pensare la filosofia come laboratorio Per consentire un muoversi libero per le strade dell’esperienza filosofica è necessaria una struttura chiara, una cornice predisposta accuratamente. Ogni buon giocatore sa che il medesimo gioco può cambiare anche di molto a seconda dello spazio in cui viene costruito e delle persone che ne sono protagoniste. Il contesto in cui abbiamo scelto di collocare la filosofia con i bambini è quello laboratoriale: non pensiamo a una lezione o a un evento, bensì a un incontro in uno studio d’artista, in un’officina dove, come artigiani, ricercatori, inventori, ci mettiamo abiti comodi e ci rimbocchiamo le maniche per sperimentare, studiare, creare. I muri del laboratorio possono cambiare: in alcuni casi si tratta di spazi messi a diposizione da istituzioni ed enti come biblioteche, centri culturali pubblici o privati, associazioni, librerie. Molto più spesso, invece, abbiamo la fortuna di entrare nelle aule delle scuole e incontrare, tra banchi spostati negli angoli, cartelloni colorati e lavagne più o meno multimediali, bambini e bambine dalle diverse provenienze familiari, sociali e culturali, ma anche insegnanti, genitori e dirigenti. In relazione al contesto e al tempo e numero di incontri a disposizione cambia il livello di approfondimento dell’esperienza e, se nei laboratori singoli è possibile un semplice assaggio della filosofia, è nei percorsi collocati all’interno di un contesto maggiormente strutturato, come la pro50
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posta formativa della scuola, che il rimboccarsi le maniche ha la possibilità di massima sperimentazione. Ciò non toglie che anche un solo incontro consenta di perseguire gli obiettivi illustrati nella prima parte di questo testo: la proposta sarà in questo caso una sorta di carotaggio e permetterà, strato dopo strato, di attraversare i diversi piani dell’esperienza. Toccherà poi ai singoli, sulla base di quanto avranno sperimentato, rileggere gesti, immagini e pensieri e riportarli alla propria storia. Accade così che, dopo un laboratorio, una mamma contatti i maestri di filosofia per sorridere del fatto che suo figlio chiede alla sorella maggiore di non essere ridondante; o che il giocattolo costruito durante un’attività venga portato a casa e abbandonato per giorni in un angolo della stanza per poi essere ripreso in mano, smontato e rimontato insieme ai genitori perché a tavola si era tornati a parlare di che cos’è il gioco. Nel secondo caso, invece, ci sarà modo di spaziare maggiormente nei vari livelli dell’esperienza, accompagnando verso una progressiva attivazione del gruppo e un relativo ridursi del ruolo di mediazione dell’adulto, in un continuum di attivazione e riflessività, individuale e condivisa. Filosofare nelle scuole, ma anche in altri ambiti che prevedono continuità, permette infatti di integrare l’esperienza di filosofia con quella più generale del gruppo e del contesto di appartenenza. Quando poi gli insegnanti e gli adulti di riferimento si mettono in gioco con i loro bambini, la filosofia diventa laboratorio diffuso, e riecheggia in altre cornici. Avviene così che le mollette utilizzate per poter sempre chiamare per nome i piccoli compagni di filosofia diventino un semplice dono per accogliere con il loro nome gli alunni che iniziano la scuola in classe prima. O che, quando la maestra introduce il principio delle leve, torni in mente e venga nuovamente messo in scena il mito della biga alata di
Platone: le leve sono le braccia stiracchiate del bambino che impersona la biga, tirata di qua e di là da cavallo bianco e cavallo nero. Avviene che la maestra lasci le sedie in cerchio e parta da una domanda per introdurre il tempo condizionale. O che i bambini tornino a casa e facciano notare al nonno che “perché no!” non è una risposta.
A chi proporre il laboratorio? Non è mai troppo presto per affacciarsi a un laboratorio filosofico, pensato per chiunque sia interessato a domandare e incuriosito dallo stare con gli altri. È possibile proporre questa esperienza a partire dai 4 anni, ossia grossomodo dal momento in cui il desiderio innato di socializzazione diventa più marcato, il gusto del domandare inizia a intrecciarsi con il piacere della sperimentazione di un lessico e di strutture di linguaggio articolati. I piccolissimi filosofi sono un regalo prezioso per la pratica: con loro il pensiero è a tutti gli effetti allo stato nascente, l’apertura alla meraviglia è totale, la parola e il ragionamento sono concreti e si maneggiano, si assaggiano, si costruiscono in quella che è spesso una vera e propria coccola filosofica. Il gioco continua a 6, 10, 12 anni. E anche oltre, in un andirivieni tra astrazione e contatto con la materia che apre a stupori inattesi o sopiti e che accompagna la scoperta del mondo, con la sua struttura, le sue regole, il suo divenire e, specialmente con l’inizio della preadolescenza, alla (ri)scoperta del proprio io e del suo rapporto con l’altro. La filosofia è una vecchia valigia tenuta insieme con uno spago che bambini e ragazzi sono impazienti di aprire perché sanno che l’unica cosa certa lì dentro sono loro stessi, mentre il resto del contenuto non è mai uguale ed è sempre tutto da esplorare, montare e smontare, trasformare. Se non è mai troppo presto, non è neppure mai troppo tardi per mettere mani e piedi in un’officina di filosofia. Gli adulti hanno molto da im-
parare dai più piccoli e una formazione ad essi destinata può essere molto efficace se proposta nella forma del laboratorio filosofico invece di quella della classica conferenza. A insegnanti, operatori e genitori si può lanciare la sfida di vivere la medesima esperienza dei loro bambini e ragazzi, filosofando con la testa e le mani all’interno delle medesime cornici, con la stessa valigia e, richiesta talvolta ben più complicata, la stessa meraviglia. Mettersi nei panni dei bambini ha molte valenze. In primo luogo non significa diventare infantili, ma sperimentare, con le competenze, le esperienze e le capacità di pensiero proprie dell’adulto, quelle dimensioni del ragionamento e quelle intelligenze che normalmente, fatto salvo forse lo spazio privato della vita o il caso di personalità particolarmente poliedriche, non sono esplorate ed esplorabili nel quotidiano. Anche un adulto può filosofare in maniera più intensa e piena se accanto alle parole e alla logica mette il corpo, le emozioni, la materia e le relazioni. In secondo luogo, percorrere la medesima struttura laboratoriale dei bambini consente di comprendere meglio il portato della proposta, immedesimandosi in quello che è il lavoro dei piccoli, per condividere con loro, contemporaneamente o in tempi differiti, la difficoltà e la forza dell’esperienza, ma anche la tensione verso il fine e la potenza delle domande e della ricerca della risposta e dei suoi contenuti. I grandi si rendono conto che a volte ciò che sembra ovvio e semplice in realtà non lo è affatto e fanno propria anche la percezione della bellezza di un’attivazione globale della persona e di una condivisione non superficiale del lavoro all’interno di un gruppo. Ne nasce la percezione di una comune appartenenza, e di un muoversi insieme nel mondo, come ben sintetizzano le parole che, nella scuola con cui abbiamo lavorato più a lungo e intensamente, la scuola primaria “Vittorio Bachelet” di Verbania Trobaso, i bam-
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bini e i maestri hanno voluto inserire nel loro inno, proprio pensando alle attività di filosofia: le nostre idee, nate qui in tondo, liberi ci portano per le strade del mondo. Qui cominciano i nostri pensieri, noi grandi di domani, bambini di ieri.
La domanda e l’ascolto del testo Dove nasce la domanda? La domanda è l’incipit. Da una domanda si parte e ad essa si ritorna nei diversi passaggi dell’esperienza, seguendone l’evoluzione, mettendola spesso in discussione e indagandone i possibili itinerari di risposta. La domanda è gruppo, comunità: trova interesse diffuso tra i partecipanti al laboratorio e si fa innesco, motore di pensiero e azione, stimolo alla meraviglia, perché frutto di un esercizio di pensiero vitale più che di una decisone di maggioranza. Una domanda filosofica, agli occhi dei bambini, è un quesito a cui non sono in grado di rispondere in maniera immediata e per il quale non è possibile, secondo loro, ricevere una risposta tecnica data da un esperto. Costruendo una casa per dinosauri in cui giocare i bambini hanno in mente alcune caratteristiche degli animali preistorici, sanno bene a quale compagno chiedere informazioni più specifiche e sanno anche che lui, a sua volta, conosce le fonti a cui attingere le informazioni. Ma a volte sentono che questo non basta per costruire una vera casa per veri dinosauri nel loro vero gioco. Da questa percezione nasce la domanda. E il gruppo è lì a disposizione per la ricerca della risposta. In questo caso la domanda nasce dai bambini: da soli o insieme, elaborano interrogativi su cui l’adulto o il gruppo può invitare a fermarsi a riflettere, specificare, forma52
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lizzare in vista di un laboratorio filosofico in cui provare a individuare qualche risposta. Questo è chiaramente più semplice in un contesto strutturato, come la scuola, dove è possibile mettersi in atteggiamento di ascolto dei bambini, ma anche invitare loro stessi a tenere le antenne tese per registrare dubbi, curiosità, questioni aperte su cui sarebbe bello soffermarsi a filosofare. Oltre a raccoglierle con i bambini, gli adulti possono sollevare a loro volta domande che ritengono significative. In questo caso è necessaria una sottile capacità di osservazione del bambino e di riflessività sul proprio operare, perché le domande filosofiche, per essere produttive, devono essere genuine, legittime. L’adulto è invitato a porre quesiti allo stesso modo in cui li formulano i bambini, ossia a proporre loro domande per cui, come adulto, ha un autentico bisogno di risposta. Il laboratorio di filosofia non è luogo in cui verificare gli apprendimenti, né spazio per veicolare contenuti predefiniti. È piuttosto spazio libero di ricerca condivisa. E se l’adulto valuta opportuno domandare ai bambini e ai ragazzi che cosa distingue un dinosauro vero da un dinosauro di pezza è perché è curioso rispetto alle possibili risposte. Il che non significa porsi come tabula rasa, sarebbe impossibile, ma piuttosto – come abbiamo ripetuto più volte – come interlocutore disposto a mettere in discussione in primo luogo il proprio punto di vista. Torneremo sulla questione presentando lo spazio del dialogo. Basti ora sapere che la domanda è il punto di partenza e che con essa entreranno in interazione dieci, venti soggetti con le loro idee e i loro corpi. Dieci, venti interlocutori che entreranno in dialogo anche con un filosofo grazie all’incontro con le sue parole, così come sono presentate nella Parte Terza di questo volume.
L’ascolto del testo filosofico
La semplificazione del testo filosofico
In ciascun laboratorio la domanda di partenza viene sempre affrontata anche attraverso le parole di un maestro della filosofia che, per riprendere la riflessione su ontogenesi e filogenesi, ha a sua volta avuto a che fare con il medesimo interrogativo. La proposta dell’ascolto di un testo filosofico diviene caratterizzante per un laboratorio che, oltre a praticare la filosofia, vuole farla concretamente incontrare ai bambini. I filosofi, però, come vedremo più avanti, non sono lì per spiegare il loro punto di vista o il ruolo del proprio pensiero entro la storia della filosofia ma, alla pari di tutti gli altri, per lasciarsi trasportare dalla domanda. Sia che avvenga in apertura del laboratorio sia che sia collocato in altri tempi, il momento dell’ascolto del testo è definito in maniera precisa. Tutti i partecipanti sono disposti in semicerchio, con il corpo, gli occhi e la mente rivolti in direzione della persona che presta la voce e i movimenti al maestro della filosofia presente nel testo. Il luogo dell’ascolto, già presente nella struttura, oppure creato ad hoc, è il più possibile raccolto, distinto dal resto dello spazio a disposizione e reso accogliente dalla presenza di qualcosa di morbido e gradevole su cui appoggiarsi: essere comodi e a proprio agio, magari su cuscini portati da casa o su un tappeto, su cui anche in altri momenti si fa qualcosa di bello, è il modo migliore per prepararsi a un incontro. Chi legge ha il compito, attraverso l’uso della voce e del movimento, ma a volte anche di immagini, suoni, travestimenti, di dare corpo alle parole. Per questo non leggono i bambini, ma un adulto che già conosce il testo: leggere e ascoltare sono modalità diverse di affrontare uno scritto e nel caso del laboratorio quello che è importante è il piacere dell’incontro con un’altra persona, presente nella stanza tramite la voce prestata alle sue parole.
Il testo è proposto nella sua radicalità, senza che venga edulcorato, sintetizzato, predigerito. Sul piano dei contenuti si procede a semplificare muovendo dallo studio della letteratura primaria e secondaria e coinvolgendo talvolta altri esperti del filosofo in questione, a cui è chiesto di rivedere il testo ed esprimersi rispetto alla legittimità della semplificazione stessa. Ciò avviene sapendo che semplificare è un atto paradossale per la filosofia, perché, da una parte le domande sono quelle dell’umanità, condivise e accessibili a tutti, ma dall’altra il linguaggio utilizzato per rispondere è personale, appartiene al filosofo o alla sua scuola e volutamente distante dal linguaggio del senso comune oppure mira a risignificarlo. Sul piano linguistico il lavoro di semplificazione è svolto sulla base di criteri analoghi a quelli adottati per i testi da destinare a chi ha difficoltà a livello di comprensione della nostra lingua o la sta studiando come seconda lingua (L2). Perché il testo sia fruibile dai più piccoli, o comunque da chi non è avvezzo a letture filosofiche, è necessario procedere a una chiarificazione a livello di lessico e di struttura sintattica, senza modificare i contenuti, ma eventualmente aggiungendo esempi o specificazioni se l’opera è astratta, prevede dei sottintesi o necessita di una contestualizzazione. I termini difficili, peraltro, non sono necessariamente un problema. Sono evocativi e non devono fare paura: con il loro suono e la loro difficoltà di semplificazione, diventano piuttosto una risorsa quando vengono affidati con fiducia alla creatività dei bambini, che li maneggiano a loro modo, come faranno con tutto il resto dell’esperienza. Fatica nella comprensione, errori e fraintendimenti sono occasione per proseguire con il laboratorio, per capire qualcosa di più su se stessi e sugli altri, per dare libertà al pensiero e alle mani. Assieme alle parole più facili, i lemmi Penso dunque siamo
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specifici aprono a una prima elaborazione della domanda, che andrà poi a incastrarsi con le successive esperienze di dialogo, attività e verifica. Così l’Iperuranio platonico sarà parola ascoltata da tutti. Poi qualcuno racconterà di essere entrato nel “Sopracielo”, qualcuno nel “Supercielo” e qualcun altro nel “Peroragno”, ma tutti saranno riusciti a specchiarsi nelle loro idee proprio perché il mondo intermedio acceso da quella parola sarà stato esplorato, ascoltato e condiviso. Semplificare un testo è sempre rischioso, ma si tratta di un rischio che vale la pena correre allo scopo di proporre anche ai più piccoli l’incontro con i classici122. Rendere accessibili a tutti le opere che hanno segnato la storia del pensiero consente di mettere a disposizione un materiale fertile, denso di significato, incisivo proprio perché non rielaborato né adattato a specifiche destinazioni d’uso o tantomeno prodotto come copia di un originale più potente ma meno fruibile. Vale la pena correre questo rischio anche in nome della scelta di mettere i bambini alla regia del gioco filosofico: un classico problematizza, non è didascalico, non ha intenti moralistici. Ma soprattutto è aperto, quindi, a sua volta apre ad altre domande, imprevedibili in sede di progettazione. Le parole restano lì, con tutta la loro potenza e succede che, riflettendo sul dubbio cartesiano si possa anche parlare di cosa significa sognare o di cosa sia il numero oppure che, discutendo dello stile di vita degli abitanti dell’isola di Utopia di Thomas More, si possa anche riflettere su cosa significhi prendersi cura di una pianta da coltivare o di quanti siano i giochi possibili. All’interno del gruppo o per ciascuno dei singoli partecipanti, durante l’esperienza di laboratorio o in tempi successivi, i classici sono semi capaci di produrre gemme, fiori e frutti sempre nuovi e 122. Cfr. Lorenzoni, 2014.
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diversi, aperti a nuove domande e nuove esperienze di ricerca del senso.
L’attività Materiali semplici e concreti Non solo parola o pensiero. I protagonisti dei laboratori sono chiamati ad immergersi nella domanda filosofica attraverso l’attivazione personale, su piani differenti e tramite molteplici intelligenze. A prescindere dal momento del laboratorio in cui viene proposto, il tempo dell’attività è essenziale, mai residuale, per sviluppare l’esperienza e indagare pienamente la domanda: mettendo insieme menti al plurale e corporeità, questo momento è tempo di esplorazione per tutti, dove è anche possibile dare spazio e valore a chi, in contesti più legati a parola e ragionamento astratto, fatica a trovare la propria collocazione. Le idee hanno bisogno di un posto in cui essere posizionate e di materiali con cui possano prendere forma. Arrivano al laboratorio di filosofia dentro una valigia di cartone piena di colla e tamburi, teli di stoffa e palloni, creta e fili colorati, nastro adesivo e macchine fotografiche, colori e specchi. L’incrocio tra le suggestioni del testo filosofico e quelle evocate dalla domanda è il punto da cui è necessario partire per riempire la valigia, progettando attività nelle quali i bambini possano entrare in prima persona, adeguandosi alle regole e agli stimoli pensati dagli adulti, ma sempre chiamati a metterci del proprio. Così, mentre le mani modellano la creta, il corpo suda e le voci si alzano, le idee riecheggiano nelle singole menti e tra una mente e l’altra, si impastano, iniziano ad avere un odore, diventano più forti.
Le attività possibili sono innumerevoli e sono strettamente connesse alle caratteristiche di chi le propone e di chi le sperimenterà. Sono il luogo in cui trovano casa la domanda e l’inizio di risposta suggerito dal testo filosofico scelto, così come hanno echeggiato nella mente dell’adulto che ha pensato al laboratorio e che lo ha fatto con la mente aperta al filosofare bambino. Le proposte possono essere semplici, talvolta apparentemente ordinarie, e i materiali utilizzati sono comuni, poco o per nulla strutturati, legati al contesto in cui si sta svolgendo il laboratorio. Anche gli spazi sono quelli messi a disposizione dal contesto: aule, corridoi, giardini, soppalchi, talvolta utilizzati senza grossi cambiamenti, in altri casi adeguati alla domanda con rivisitazioni inedite. Essenzialità e concretezza consentono una strutturazione dell’attività snella, adattabile all’evoluzione dell’esperienza, ripetibile in ulteriori contesti, anche al di fuori della proposta di filosofia. L’adulto che introduce le attività deve essere attento e capace di cambiare rotta in corso d’opera e non dimenticarsi che, se è vero che il medesimo testo filosofico può suggerire un grande numero di attività diverse, è altrettanto vero che l’attività stessa, anche grazie alla sua struttura leggera, può aprire a una molteplicità di pensieri e idee. Si comprende così che, se la si descrive in maniera astratta, la paura appare banale, qualcosa di cui vergognarsi e di cui gli altri possono ridere, ma se la si disegna o la si mette in scena inizia a vibrare sotto la pelle e a far battere insieme il proprio cuore e quello dei compagni. La meraviglia, a 5 anni, è una parola vuota, ma illumina presto gli occhi di un bambino che, dal buio, vede comparire un vortice di stelle o la sua mamma in un luogo in cui mai si sarebbe aspettato di vederla. L’istinto è presto sopito tra i banchi di scuola e le loro regole, ma ci mette poco a balzare fuori in uno spazio aperto dove la consegna è che non c’è nessuna regola da rispettare.
Oltre al piano emozionale la richiesta di attivazione su compiti pratici fornisce corpo e materia ai concetti: costruire una casa con materiali di recupero fa toccare con mano il pensiero dello spazio, il senso della progettazione, l’importanza dell’equilibrio di pesi, forme e colori. Trovarsi di fronte a una tavolata di materiali differenti e poterne usare solo alcuni rende concreto il senso della scelta. Farsi sollevare dai compagni o trascinarli di peso in una direzione diversa da quella che stanno seguendo porta addosso ai corpi il significato dell’altro come risorsa e come limite.
Il gruppo come contenitore dell’azione Concetti ed emozioni, infine, sono concretizzati in un’esperienza condivisa, che funge da mediatore rispetto ai portati cognitivi ed emotivi di ciascuno. Anche quando l’attività è individuale, la valigia è aperta davanti a un gruppo rispetto al quale è necessario collocarsi, esponendosi in prima persona o rimanendo nelle retrovie, senza porsi in competizione o essere performativi, ma provando a dare il meglio di sé nel rispetto delle sensibilità, dei desideri e delle aspettative di tutti. La parola accoglienza supera il rischio della retorica quando un po’ di bambini si immedesimano in un bel gregge di bianche e morbide pecorelle e altri bambini inventano un animale fantastico pieno di qualità ospitato dalle pecorelle ma che, a un certo punto, inizia a riempire il loro pelo di fantastici escrementi. La conoscenza delle dinamiche che regolano i processi decisionali appare poco interessante finché non ci si trova a dover decidere da soli, senza l’aiuto di adulti, come sistemarsi per uno scatto fotografico in cui tutti siano d’accordo sulla messa in posa prescelta. Il significante e il significato non sono nulla per dieci bambini, finché non si mettono d’accordo per cambiare nome a tutti gli oggetti della stanza e iniziare a comunicare con il lessico di quel nuovo dizionario. Penso dunque siamo
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Il dialogo Nomi e regole nel cerchio Prima di tutti i materiali e prima della domanda di partenza, escono dalla valigia tante mollette quanti sono i presenti, ognuna con un nome. Le persone che partecipano all’attività sono l’ingrediente principale della filosofia ed è decisivo accoglierle sin da subito chiamandole per nome. Nei diversi angoli del laboratorio i nomi sulle mollette si incontrano, si mescolano, vengono messi da parte perché non servono oppure diventano strumenti per svolgere le attività. Poi viene un momento in cui tutti i nomi tornano al proprio posto, appesi alla maglietta: la geografia del laboratorio cambia, si forma un cerchio e inizia un dialogo fatto principalmente di parole e pensieri, ma ben appeso, come i panni al sole, al filo delle esperienze di ascolto e attività. Il dialogo avviene in un cerchio e i bambini, sedendosi, intuiscono con i loro corpi il perché della scelta, in molte pratiche educative, di prendere quella posizione. Osservando se stessi e gli altri, capiscono che la circonferenza è la figura geometrica più adatta ad attività di scambio, condivisione, incontro pacifico: tutti i punti sono equidistanti dal centro, la figura può iniziare a girare senza smontarsi finché i punti mantengono l’equilibrio tra forze centrifughe e centripete. In cerchio non ci sono gerarchie, non ci sono livelli, non ci sono posizioni di dominio: chi si mette in mezzo al cerchio rischia di bruciarsi, chi si allontana dalla distanza prevista dal suo raggio rischia di raffreddarsi, come succedeva ai nativi americani che si trovavano intorno al fuoco della sera. In cerchio ciascuno può vedere il volto di tutti gli altri, può prestare attenzione a tutti, può verificare di avere l’attenzione di tutti prima di intervenire.
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Poche regole ben chiare e alcune strategie comunicative – che illustreremo nei prossimi capitoli – costruiscono l’ossatura del dialogo e sono gli strumenti a disposizione del moderatore che inizialmente è l’esperto di filosofia o comunque un adulto di riferimento, ma che progressivamente non è più una figura nettamente definita, quanto piuttosto una funzione esercitata dai vari membri del gruppo. Pur senza ricevere una molletta è chiamato per nome anche il filosofo del testo. Come tutti i presenti egli è infatti un interlocutore, con cui è bello confrontarsi per trovarsi in accordo, oppure dissentire. Nel cerchio si siede una comunità di ricerca composita ed eterogenea, in alcuni casi appena costituita, in altri maggiormente strutturata, ma sempre accomunata dall’obiettivo di rispondere a un quesito filosofico. In un continuo gioco di scambio di equilibri sono i bambini a dipanare il filo dei ragionamenti e a mettere a tema la maggioranza delle questioni. Gli adulti sono chiamati a rimanere sullo sfondo, evitando di intervenire in maniera induttiva o di spostare il peso dei ragionamenti. Il loro ruolo è innanzitutto quello di osservazione del gruppo, di registrazione, rilancio e sintesi dei contenuti, e di monitoraggio degli stati d’animo dei singoli e dell’insieme dei presenti. Ciò non toglie che, in alcuni casi, essi possano esprimere il proprio punto di vista, collocandosi e prendendo posizione con la stessa fatica e lo stesso rischio che corrono i bambini e i ragazzi nell’esporsi in prima persona. Il cerchio del dialogo è un luogo in cui mettersi in ascolto. Le parole sono importanti, hanno un peso, una direzione, una storia. Proprio per questo hanno bisogno di uno spazio in cui sostare, prendere fiato, essere raccolte. Raccogliere le parole è una sfida impegnativa: comporta la capacità di attendere, lasciare andare, sostare nel silenzio. Implica l’accettare di non essere soli, di
non essere i detentori della verità, di riconoscere che anche gli altri hanno qualcosa da dire. Comporta un buon grado di apertura all’altro e la disponibilità a mettere da parte le proprie idee, a cambiarle, a rimetterle in campo dopo avere trovato in quelle degli altri spunti differenti su cui fermarsi a riflettere. Ma anche, perché no, a mantenerle, con rispetto verso chi la pensa diversamente. Dialogare nel cerchio può essere spiazzante, può rimescolare ruoli e atteggiamenti. Avviene spesso che, in gruppi come le classi, bambini normalmente loquaci o addirittura irruenti nei loro interventi rimangano silenziosi durante il dialogo. In alcuni casi perché vengono spiazzati dal dover condividere il ritmo degli scambi e non poter tenere da soli le fila del discorso; in altri casi perché scoprono il piacere di ascoltare le loro idee attraverso le parole dei compagni e di condividere con altri la fatica e la soddisfazione del ragionamento. Specularmente – in una posizione in cui si è tutti uguali, la parola viene data dai pari, e la responsabilità di ciò che si dice è condivisa – accade che alcuni bambini più timidi e impacciati si facciano coraggio e provino, forti del sostegno dei compagni e dell’ancoraggio all’esperienza, a elaborare riflessione e dare voce e parola a pensieri difficili da fare emergere in altri contesti di vita. Pace, mediazione delle differenze e democrazia diventano tangibili nel cerchio, tutti condividono l’onere del procedere e l’onore del raggiungere il risultato: non serve saper parlare bene, ma piuttosto saper prendere posizione; non serve sapere già tutto, ma piuttosto aprirsi alla possibilità di non sapere nulla; non serve dimostrare il proprio valore, ma piuttosto andare a cercare quello degli altri. Chiediamo l’umiltà di lasciar dire agli altri quello che si sarebbe voluto esprimere in prima persona, l’onestà di dire che non si è capito, la disponibilità nel parlare facendo attenzione a tenere tutti all’interno del discorso.
Senza paura delle parole complicate, chiediamo ai bambini di non essere ridondanti come i campanili che fanno “don, don, don…”, di avere il coraggio di affacciarsi su concetti perturbanti come le domande che mandano in confusione, di essere pertinenti come il sale nell’acqua della pasta.
Dare ritmo al dialogo Il dialogo è duplice. Da una parte è duro, ostile, incalzante: non ammette divagazioni, provocazioni, mancanza di coerenza, pena la perdita del senso. Dall’altra è semplice, accogliente, rilassato: è sviluppato con voce di bambini, con parole che appartengono alla storia di chi sta prendendo parte all’esperienza, si tratti di piccoli o grandi filosofi. Aspetta tutti, non lascia indietro nessuno, perché la risposta è un processo e non solo un prodotto. Non ha fretta di arrivare a un obiettivo, non nasce da fini didascalici, come quelli di un’ora di lezione a scuola, ma neppure da urgenze emotive, come il bisogno di ricomporre un litigio o di elaborare un’esperienza traumatica. Insegnamenti e aspettative, bisogni emotivi e relazioni, traumi, gioie ed entusiasmi non sono ingredienti del dialogo, ma elementi presenti sullo sfondo, guardati con la coda dell’occhio, racchiusi nelle mani. Si fanno parola solo quando i bambini si sentono pronti a chiamarli, e poi tornano nella cornice, in un andirivieni sereno e costruttivo. L’adulto si pone come attore e non spettatore, in quanto garante di un dialogo rispettoso di tutti e coerente con il senso che da esso si dipana. Prende per mano le parole e i bambini in modo che nessuno rimanga indietro in uno spazio oggettivamente più complesso da padroneggiare rispetto alle altre geografie del laboratorio. Aiuta a focalizzare l’attenzione e a capire se gli interventi contribuiscono al proseguire del domandare e del rispondere o stanno deviando Penso dunque siamo
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verso un nuovo focus. Aiuta a controllare ragione, pertinenza, significati delle parole. Chiede di decidere se ciò che è detto è chiaro, ha senso, è vero o falso. Fa sintesi e propone rilanci: adesioni, obiezioni, contro-obiezioni, esempi, contro-esempi. Accoglie le emozioni e chiama il gruppo a dare loro un nome e una collocazione, distinguendole dalle argomentazioni. Sul piano filosofico la presenza di un esperto, almeno in alcune occasioni, consente di ancorare anche il contributo dei bambini, e non solo le proposte di testo e attività definite in precedenza, ai contenuti disciplinari. Sempre in una logica di dialettica ontogenesi-filogenesi ricollega il dipanarsi dell’esperienza bambina a quello del domandare dell’umanità. Restituisce ai piccoli e agli adulti i contenuti emersi collocandoli nel quadro del pensiero dei classici, non per spiegarli o farli imparare, ma per proporli nuovamente come interlocutori e compagni di viaggio con cui andare d’accordo o litigare, ma sempre condividendo il piacere della domanda e della risposta. È scontato dire che la presenza di un filosofo nel gruppo, pur non indispensabile, dà valore aggiunto all’esperienza filosofica. Che cos’è dunque il dialogo? È un momento creativo, aperto, imprevedibile. Mai la stessa domanda e la stessa proposta laboratoriale conducono alle medesime riflessioni e conclusioni, ma i contenuti cambiano in base alle caratteristiche del gruppo, alle esperienze individuali, alle risonanze che si altalenano fra parole e pensieri. È esperienza: mette insieme orizzonti plurali, fa incontrare presente e passato, accoglie pensieri transitati negli oggetti, nella fantasia e nei corpi. Li chiama per nome come fa con le persone sedute nel cerchio e li rimette nelle loro mani. È processo, apertura. Nessuno ne esce con una verità in tasca. Dalla domanda nasce e in una domanda si chiude, ma non lascia sospesi nel vuoto. È come i bambini: si lascia portare dalla
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curiosità, si ferma a esplorare quello che incontra, e poi riparte verso nuove avventure.
La verifica Un momento di metacognizione A un certo punto l’incontro termina, il laboratorio spegne le luci, la valigia va chiusa. Le mollette tornano nella valigia alla ricerca di nuove domande e appese a nuove risposte. L’esperienza però non è ancora conclusa. C’è un ultimo tassello che la rende pienamente filosofica perché la sposta sul piano della riflessività, su un livello metacognitivo. La parola verifica può spaventare. Evoca valutazioni, giudizi, confronti. Invece è spazio di rielaborazione, crescita, miglioramento. Autoverifica per tutti, a partire dagli adulti. A coloro che hanno partecipato al laboratorio è chiesto un ulteriore sforzo di riflessione per provare a osservarsi dal di fuori, ripercorrendo l’intera attività e mettendo in evidenza quello che essa ha prodotto in loro e grazie a loro. I primi a doversi mettere in gioco sono gli adulti: loro hanno la responsabilità della proposta avanzata ai bambini e delle scelte “di regia” effettuate a monte e nel corso dell’esperienza. Anche loro hanno messo in gioco le proprie idee, le proprie intelligenze e i propri stati d’animo. È importante quindi che si mettano in discussione e si facciano carico della riflessione su di sé. Sono i bambini stessi a chiederlo: nel momento in cui c’è stata una condivisione di cammino hanno l’interesse e la curiosità rispetto allo sguardo dell’adulto. È giusto però che ai più piccoli arrivi non solo, e non tanto, una restituzione su come i grandi li hanno visti prender parte all’esperienza, ma anche il messaggio che gli adulti, tanto quanto loro, sono stati attivati in prima persona e hanno
osservato anzitutto il proprio modo di stare nel laboratorio. Anche qui è centrale l’orizzontalità e la circolarità tra bagagli di pensiero e di esperienza differenti, ma con la medesima dignità e responsabilità rispetto allo svolgersi dell’esperienza. La possibilità di fermarsi a ripercorrere il cammino compiuto durante l’incontro comporta livelli di attivazione differenti a seconda dei soggetti coinvolti e della loro capacità di astrazione, ma è sbagliato pensare che solo i grandi possano giudicare i piccoli e che i più piccoli non siano in grado di compiere il passaggio dell’autoverifica.
A ogni età il suo strumento Anche in questo caso è decisiva la trasposizione dei concetti sul piano della concretezza. I piccolissimi potranno così dare un volto al loro stato d’animo, con maschere sorridenti, tristi, annoiate o indifferenti e definire i contenuti del laboratorio salienti ai loro occhi, dichiarando cosa hanno apprezzato di più. In altri casi sarà il meteo a venire in aiuto e le mollette andranno a posizionarsi su sole, vento, pioggia e neve, a seconda di come i bambini avranno percepito la loro partecipazione all’esperienza. In altri casi ancora saranno i materiali prodotti o utilizzati nelle attività a fare da spunto per il monitoraggio. Al di là dello strumento, l’indeterminatezza delle immagini proposte e la loro evocatività sono risorsa preziosa, da non limitare con eccessive spiegazioni, ma piuttosto da potenziare con richieste di chiarimento che porteranno a far capire che la stessa neve per un bambino ha significato un ovattato senso di serenità, per un altro una sgradevole percezione di freddo e per un altro ancora una piacevole sensazione di gioia. Si può scegliere il sole perché nonostante la paura si è deciso di uscire dalla caverna di Platone, il temporale perché ci si sente grandi come i bestioni giganti di Vico e la pioggia perché si vogliono lavare via
i dubbi di Cartesio. Si può appoggiare la molletta sull’immagine dell’auriga di Platone perché il dialogo è stato coinvolgente e ci si è sentiti padroni della situazione, sul cavallo bianco perché si litiga spesso col compagno che si è posizionato sul cavallo nero, sul cavallo nero perché si ha il suo stesso colore di pelle e si è orgogliosi di avere la sua stessa determinazione. Con i più grandi, infine, è possibile compiere un ulteriore salto di astrazione e cogliere nel gesto di chiudere la valigia l’occasione per fare verifica: in un cestino verranno buttate le parti dell’esperienza che non hanno funzionato o i contenuti su cui si intende dissentire, mentre assieme ai nomi, ciascuno porterà nella valigia il bagaglio di concetti, stati d’animo, esperienze che desidera tenere con sé o che, comunque, hanno contribuito a un cambiamento, a una conferma, a una messa in discussione. Riempita di osservazioni, commenti e stati d’animo di tutti i protagonisti, adulti compresi, la valigia torna in mano ai più grandi. Chiuse le porte del laboratorio filosofico e aperti, per i bambini, nuovi e altri atelier di sperimentazione del mondo, agli adulti è affidato il compito di verificare l’intera esperienza, osservando se e quanto ha consentito il raggiungimento degli obiettivi, riflettendo sul modo in cui i protagonisti si sono sentiti parte dell’esperienza, ma soprattutto tornando a gustare la meraviglia dell’incontro con pensieri, parole e gesti sempre nuovi e speciali.
Penso dunque siamo
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Chiara Colombo, pedagogista, formatrice, dottore di ricerca in sociologia, e Fiorenzo Ferrari, filosofo e insegnante di sostegno, sono stati tra i primi in Italia a realizzare progetti e a scrivere di filosofia con i bambini, ideando e sperimentando un originale approccio all’esperienza filosofica quale educazione interculturale attraverso corpo, intelligenze e pensiero. Vivono a Verbania, sul Lago Maggiore, con Riccardo, Federico e Sofia.
In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
Euro 14,50 (I.i.)
Chiara Colombo Fiorenzo Ferrari
PENSO DUNQUE SIAMO Percorsi e giochi di filosofia con i bambini
PENSO DUNQUE SIAMO
Molti pensano che la filosofia sia una disciplina adatta ad una ridotta fascia di studenti delle scuole superiori e delle università o a pochi appassionati molto motivati. In realtà sono numerosi i contesti in cui è esperienza concreta e fruibile da tutti, fin dall’infanzia. Ragionamento, immedesimazione, comunicazione: queste attitudini, necessarie per filosofare, sono competenze precoci, che i più piccoli sanno applicare nel loro dar vita al pensiero. Per i bambini, la filosofia non è da considerarsi “cosa da grandi” quanto “qualcosa di grande” che, se proposto in modo coerente, offre lo spazio per una sfida significativa sul piano personale e relazionale. Il pensiero bambino, contemporaneamente magico, concreto e razionale, è potente perché intreccia la vita pratica, le abitudini e la routine, con i liberi e generosi giochi del pensare e con la fantasia. Il contesto in cui gli autori collocano la filosofia è quello laboratoriale: in ogni percorso, partendo da un testo filosofico semplificato, i bambini sono chiamati ad immergersi nella domanda filosofica su piani differenti e attraverso l’attivazione delle intelligenze multiple di ciascuno. Insegnanti, operatori e genitori sono invitati a vivere la medesima esperienza dei loro bambini e ragazzi, filosofando con la testa e le mani all’interno delle stesse cornici e, richiesta talvolta ben più complicata, della stessa meraviglia.
C. Colombo - F. Ferrari
dorsetto 6,8 mm
ISBN ISBN 978-88-6153-697-5 978-88-6153-697-5
9
788861 536975
edizioni la meridiana p a r t e n z e