Press play on sport. Esperienze di accessibilità sportiva per persone con disabilità

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Massimiliano Rubbi

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Massimiliano Rubbi Lo sport non è un “di più”, ma dovrebbe essere parte della vita e del benessere. Questa stessa sfida si apre oggi per lo sport per disabili rispetto alla società nel suo complesso.

Press Play on Sport

Massimiliano Rubbi giornalista, si occupa dal 2004 di comunicazione nell’ambito di enti pubblici. Dal 2001 al 2018 ha collaborato con la rivista HPAccaparlante, scrivendo di disabilità e lavoro, welfare, cultura, politiche europee. Lo sport è una delle sue passioni.

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Press Play on Sport ESPERIENZE DI ACCESSIBILITÀ SPORTIVA PER PERSONE CON DISABILITÀ

I libri di accaParlante si occupano di accessibilità non solo fisica, ma anche alla comunicazione, alla conoscenza, alla cultura, al fare e saper fare, alla relazione con la diversità. La collana, naturale evoluzione della rivista “HP-Accaparlante” del Centro Documentazione Handicap di Bologna, propone approfondimenti di taglio divulgativo ed esperienziale ed è uno strumento necessario per educatori, operatori sociali e insegnanti. Per chi ha che fare direttamente o indirettamente con la disabilità, ma anche per chi pensa di non averne bisogno. Perché il lavoro culturale da fare è convincerci insieme che la disabilità non riguarda solo una categoria di cittadini ma è questione che riguarda la comunità tutta.

ISBN 978-88-6153-818-4

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i libri di acca arlante Euro 14,50 (I.i.)

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Massimiliano Rubbi

Press Play on Sport Esperienze di accessibilità sportiva per persone con disabilità

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INDICE

Introduzione 7 Supercrip e no Lo sport a quattro dimensioni In pratica Segna per noi

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Conclusioni 85 Bibliografia 89

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INTRODUZIONE

Negli ultimi anni protagoniste e protagonisti dello sport paralimpico hanno acquisito in Italia una visibilità pubblica senza precedenti. Bebe Vio, Alex Zanardi, Giusy Versace, Nicole Orlando, Martina Caironi hanno visto la propria popolarità crescere in parallelo con i propri successi sportivi: hanno condotto trasmissioni televisive, sono stati ospiti fissi in talk show e le loro biografie hanno popolato gli scaffali di librerie e grande distribuzione. Tuttavia in Italia la pratica sportiva tra le persone con disabilità appare (ancora) significativamente meno diffusa rispetto al complesso della popolazione. Secondo i dati Istat aggiornati al 2016-17 malgrado il concetto di sport per tutti sia ormai largamente condiviso, le persone con limitazioni gravi che praticano sport (con continuità o saltuariamente) sono ancora solo il 9,1%. La quota di sportivi aumenta significativamente quando le limitazioni sono meno gravi (raggiungendo il 20,5%). Presso la popolazione senza alcuna limitazione corrisponde al 36,6%1.

Secondo il giornalista Stefano Caredda le eccellenze si stanno tirando dietro il movimento di base perché atleti come Alex Zanardi e Bebe Vio sono un punto di riferimento per le persone disabili, rendono evidente ciò che si può fare2.

Esiste però anche il rischio che figure di così grande talento e notorietà finiscano per monopolizzare l’immagina1 2

Istat, 2019, pp. 102-103.   Cit. in Notari, Pasotti, 2016, p. 18. 7

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rio relativo allo sport per disabili, oscurando involontariamente il tessuto di sport per tutti e diritto di tutti. Anche le parole usate in questo ambito sembrano concorrere a valorizzare i soli livelli di vertice. In italiano non viene utilizzato il termine inglese “parasport” e alla locuzione “sport per disabili” si affianca sempre più quella di “sport paralimpico”, data la crescente rilevanza della manifestazione quadriennale abbinata ai Giochi olimpici. Ma nessuno penserebbe di chiamare “sport olimpico” i tiri a canestro con gli amici nel campetto sotto casa, e diventa fuorviante chiamare “sport paralimpico” le attività di base dello sport adattato, per non parlare dello sport integrato o di altre pratiche sportive di squadra in cui persone con e senza disabilità giocano fianco a fianco. Questo libro cerca di descrivere alcune esperienze legate a sport adattati e integrati alla pratica di persone con disabilità, inquadrate dalla prospettiva dell’accessibilità da parte delle stesse. Sempre da questo punto di vista vengono poi esaminati alcuni servizi e adattamenti che consentono alle persone con diversi tipi di disabilità di assistere a eventi sportivi come spettatori, tracciando consapevolmente un collegamento diretto tra la pratica e la fruizione dello sport. Ciò anche per riaffermare che lo sport per tutti non si contrappone necessariamente a quello professionistico, e il pieno dispiegamento delle potenzialità del primo non richiede, come vuole una retorica diffusa, il drastico ridimensionamento del secondo. Più ragionevole appare lottare affinché i canali tra i vari livelli rimangano effettivamente aperti, in modo che ogni praticante amatoriale possa giocare a un livello adeguato alle proprie capacità, misurate volta per volta proprio nel confronto sportivo. Per preservare la “biodiversità sportiva” occorre allora garantire un equilibrio tra, ed entro, le strutture che le differenti discipline sportive si sono date, e un equilibrio più generale tra la competizione e lo svago. 8

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Le riflessioni più ampie che le esperienze descritte richiamano, e che le precedono nel testo, possono suggerire connessioni ad altri ambiti del mondo della disabilità e non solo. Alcune caratteristiche dello sport sono al contempo potenzialità e limiti intrinseci del suo valore educativo, anche rispetto al vicinissimo ambito delle “attività motorie” e a quello ugualmente vicino, per chi assiste a un evento sportivo, dello “spettacolo”: tutte distinzioni che sono state recentemente evidenziate, così come quella tra sport agonistico e di base, dalle misure adottate per il contenimento della diffusione del coronavirus in diverse fasi da marzo 2020 a oggi. Le caratteristiche composite dell’esperienza sportiva lasciano infine ipotizzare alcune sue linee di evoluzione nel “mondo dopo la pandemia”. Tutto questo senza una pretesa di esaustività delle riflessioni e di rappresentatività delle esperienze: auspicando, anzi, che a riprendere questo argomento siano nuovi e migliori volumi da collocare nelle nostre biblioteche personali.

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SUPERCRIP E NO

“Ironman”, “immensa”, “leggenda”, “mito”, “simbolo di tenacia e coraggio”, “inarrivabile”, “eroe contemporaneo”, “campionessa nello sport più bello e difficile, la vita”, “guerriero senza tempo”. Così la stampa italiana descrive, solo in alcuni casi riportando parole altrui, atlete e atleti paralimpici, che hanno guadagnato la ribalta pubblica negli ultimi anni; non tutte queste frasi potrebbero essere facilmente riferite a campioni e campionesse dello sport mainstream. Difficile quindi ritenere che la visibilità pubblica dei campioni paralimpici sia correlata solo all’eccezionalità dei loro risultati sportivi, e non anche alle condizioni di eccezione, legate alla loro disabilità, in cui li hanno conseguiti. Nel mondo anglosassone è da tempo diffuso il concetto di supercrip, recentemente introdotto nel dibattito italiano come “superdisabile”3, ma la cui traduzione letterale è il più brutale “superstorpio”. In quella che è probabilmente la prima ricorrenza del termine, Colin Barnes definisce il “super cripple” come uno stereotipo in cui “alla persona disabile sono attribuite abilità sovrumane quasi magiche”4. Anche se l’esempio principale cui fa riferimento Barnes è cinematografico (il personaggio interpretato da Daniel Day-Lewis nel film Il mio piede sinistro), ben presto l’etichetta sociale di supercrip è stata attribuita ad atleti di élite del mondo paralimpico, e sull’ambito sportivo si sono concentrate le analisi critiche di questa rappresentazione. In questo stereotipo la disabilità è ritratta come un ostacolo che 3 4

Ferrazzoli, Gorini, Pieri, 2019.   Barnes, 1992, p. 10. 11

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la persona deve superare con un grande sforzo individuale, lasciando in ombra ciò che la società fa o non fa per creare condizioni di inclusione. Il supercrip glorificato che compie azioni straordinarie – scalare una montagna, navigare sull’oceano, ecc. – affascina i media e innesca due intuizioni: (a) la disabilità non è costruita socialmente, ma equivale a una menomazione fisica che può e deve essere superata da una risoluta dedizione; (b) automaticamente, tutte le persone disabili che non riescono ad avere buone prestazioni nei loro sforzi quotidiani appaiono carenti di forza di volontà e autodisciplina. In altre parole, i supercrip eclissano i loro simili che vengono quindi giudicati negativamente5.

Questa “teoria critica del supercrip” evidenzia anche che tale rappresentazione si attaglia molto più facilmente a chi ha menomazioni fisiche evidenti, rispetto ad altri tipi di disabilità meno visibili. Con lo sviluppo delle tecnologie assistive dedicate allo sport di élite, i “superpoteri” rischiano di diventare appannaggio di “atleti altamente funzionali che hanno subito il processo di cyborgificazione” e che, innestando ausili sui propri corpi “mancanti”, dimostrano la capacità di superare la propria menomazione e di mostrare qualità para-abili, al fine di avere successo secondo standard “normali”6.

Chi interpreta in modo positivo, o almeno più sfumato, la nozione di supercrip e il ruolo pubblico di atlete e atleti che la incarnano, si concentra sulla sua funzione di “ispirazione” per le persone con disabilità che stanno cercando la propria realizzazione. Un caso attestato di “ispirazione sportiva” è quello testimoniato da Monica Graziana Contrafatto che, mentre si 5 6

Kama, 2004, p. 449.   Silva, Howe, 2018, p. 400. 12

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trovava in ospedale dopo l’amputazione di una gamba in Afghanistan, dove era in missione militare, vide in televisione Martina Caironi vincere i 100 metri alle Paralimpiadi di Londra 2012 e decise di iniziare ad allenarsi nella velocità (che non aveva mai praticato)7, classificandosi quattro anni più tardi, a Rio 2016, terza nella stessa finale in cui Caironi guadagnava il suo secondo oro paralimpico. In ogni caso, ed è un’altra risposta alle critiche sui supercrip, queste figure hanno il merito di far uscire la disabilità dalla condizione di “invisibilità” in cui essa è in genere relegata, e di farlo all’insegna di tratti vincenti del tutto opposti a quelli pietistici con cui essa è stata a lungo descritta. Amit Kama sostiene che il supercrip “glorificato” si distingue da un supercrip “ordinario”, che è una persona disabile che riesce a svolgere compiti banali e scontati come se fossero grandi traguardi. Mentre questi risultati di routine attestano i doni inconsueti della persona disabile, l’apoteosi di tali successi minori indica che in realtà non ci si attende affatto che tutte le persone disabili li raggiungano8.

La qualifica di “superdisabile” pertiene insomma alla modalità di osservazione non meno che al soggetto osservato, e nella costruzione dell’atleta con disabilità come personaggio pubblico (anche al di là dei suoi atteggiamenti e delle sue intenzioni) rimane un’ambiguità di fondo tra le due nature di “fonte di ispirazione”, avendo tracciato un solco che altre e altri nella sua condizione possono percorrere, e di “eroe”, la cui irripetibile traiettoria è attestata dai risultati sportivi migliori di quelli degli avversari. In questa costruzione discorsiva, in aggiunta, è implicito che le persone disabili partono sempre da una posizione più bassa rispetto ai loro simili non disabili. Per eccel7 8

Degl’Innocenti, 2019.  Kama, op. cit., p. 449. 13

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lere devono superare gli ostacoli che tutte le persone con disabilità devono affrontare9.

Di conseguenza, la loro affermazione non ha a che vedere soltanto con l’affinamento di una competenza tecnica, ma anche con doti di ordine morale, le quali possono essere considerate come qualità da guadagnarsi, in una prospettiva “ispirazionale”, oppure come caratteristiche innate da ammirare, in una prospettiva “eroica”. Per questo le star paralimpiche, molto più dei fuoriclasse dello sport mainstream, possono costituire un esempio per chi “rincorre il proprio sogno” anche in ambiti che non hanno nulla a che vedere con lo sport, come mostrano i titoli di molti dei loro libri autobiografici: • Con la testa e con il cuore si va ovunque (Giusy Versace, 2013); • Vietato dire non ce la faccio (Nicole Orlando, 2016); • Non sai quanto sei forte (Monica Contrafatto, 2018); • Se sembra impossibile allora si può fare. Realizziamo i nostri sogni, affrontando col sorriso ostacoli e paure (Bebe Vio, 2019). Per il pubblico, con disabilità e non, le imprese degli atleti paralimpici non sono solo dimostrazioni di eccellenza sportiva, ma evidenziano anche la dignità degli atleti e la loro forza di volontà per superare le difficoltà e le sfide nella vita10.

Il caso Pistorius A confermare la doppia ambivalenza ispirazione/ammirazione e sport/vita insita nella figura del supercrip è la 9

Ivi, p. 453.   Bartsch, Oliver et. al., 2018, p. 529.

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vicenda di quello che ne è forse il più famoso, e certamente il più controverso, rappresentante: Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano che a partire dal 2004 ha dominato il campo paralimpico della velocità nella sua categoria, ottenendo alle Olimpiadi 2012 la possibilità di concorrere con i normodotati dopo una lunga contesa davanti ai tribunali sportivi; e che oggi sta scontando in carcere una condanna a 13 anni e 6 mesi per l’omicidio volontario della fidanzata, Reeva Steenkamp, avvenuto il 14 febbraio 2013. La notizia dell’arresto di Pistorius causò all’epoca dei fatti un vero e proprio shock, determinato dal passaggio nell’immaginario collettivo “da eroe a mostro”11 nel volgere di una notte, diversamente da quanto accadde 25 anni prima al pugile argentino Carlos Monzón, che nella stessa notte di San Valentino uccise la moglie Alicia Muñiz. Incolpare in generale la “mitologia senza fine dell’atleta, […] nozione per cui essi rappresentano qualcosa di speciale oltre il campo di gioco”12, sottovaluta la differenza tra la costruzione dei due personaggi pubblici (per i quali elementi biografici non troppo dissimili furono portati alla ribalta in un caso e mantenuti sotto la superficie di una facciata esemplare nell’altro), ma soprattutto il fatto che prima dell’arresto Pistorius era “non solo uno dei più famosi atleti al mondo ma anche forse quello più capace di dare ispirazione”13, e che “per molti, era un esempio di ciò che si può ottenere attraverso un potente mix di determinazione, positività e abilità”14. Questo “modello di comportamento” incarnato da Pistorius, di cui si dichiarava consapevole, difficilmente può essere scisso dal suo ritratto pubblico di “uomo che ha già superato molte difficoltà”15. Il trauma causato dall’arresto e dalla condanna definitiva   Colledani, 2013.   Bissinger, 2013. 13   Sokolove, 2014. 14   Whiteman, 2014. 15   Ibidem. 11 12

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di Pistorius si può allora spiegare con una deflagrazione nel cuore della doppia ambivalenza prima descritta: non viene bruscamente interrotta solo una brillantissima carriera, ma anche il percorso emblematico tracciato per altre e altri; a cadere non è solo “l’uomo più veloce senza gambe” (Pistorius era già arrivato secondo in alcune gare tra 2011 e 2012), ma un simbolo più generale di affermazione di se stessi contro le avversità, in grado di parlare anche a mondi lontani da quello delle gare. Quando Claudio Arrigoni scrive che la tragedia di Reeva umanizza Oscar Pistorius. Non cancella quello che ha fatto nel riconoscimento dello sport paralimpico, delle persone con disabilità, dei loro diritti. Saper scindere questi aspetti e umanizzare il simbolo: non è facile, ma è la strada giusta. Lo dobbiamo alle persone, milioni, che guardavano a lui16,

cerca giustamente di salvaguardare l’esempio costituito da Pistorius: il “se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi” non scalfito da quanto accaduto fuori dal campo, ma in quel riferimento a tutte le “persone con disabilità” riconosce nei fatti che il “superdisabile”, almeno oggi, costituisce un esempio per una categoria più che per una professione. Limitandosi a considerare il solo aspetto agonistico, il “solco sportivo” lasciato dalla carriera di un grande atleta paralimpico/a è reale solo quando altre e altri possono effettivamente percorrerlo con maggiore facilità di quanto avverrebbe se esso non fosse mai stato tracciato, ossia quando la persona con disabilità può effettivamente accedere alla pratica di uno sport e, attraverso le regole della selezione sportiva, arrivare al livello di élite. Il successo dei supercampioni paralimpici può contribuire allo sviluppo di strutture e opportunità per la pratica sportiva amatoriale delle persone con disabilità, con gli   Arrigoni, 2013.

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adattamenti e i supporti necessari – e per ragioni legate al numero di atleti e alle loro classificazioni, la selezione per arrivare ai massimi livelli agonistici risulta spesso meno severa e più rapida che per le discipline dei normodotati17. Tuttavia, al contrario, può essere la crescente rilevanza della tecnologia assistiva in molte discipline paralimpiche, spesso centrale nell’immagine dei supercrip sportivi, a generare nuove barriere.

Howe, Silva, 2018.

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LO SPORT A QUATTRO DIMENSIONI

Per identificare i tratti distintivi dell’esperienza sportiva ai suoi diversi livelli, si può partire da due definizioni. Secondo l’Enciclopedia Treccani, lo sport è: attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza, praticati nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (accompagnandosi o differenziandosi, così, dal gioco in senso proprio), sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa. Pratica e larga diffusione di numerosi s. (come il calcio, il ciclismo, il pugilato) su basi professionistiche collegano il termine s. al suo significato etimologico (attraverso l’ingl. sport dal fr. ant. desport “diporto”) in relazione non tanto all’attività svolta dagli atleti quanto al divertimento che ne traggono gli spettatori, appassionandosi in vario modo allo svolgimento e all’esito delle gare18.

Secondo l’articolo 2 della Carta europea dello Sport, approvata dal Consiglio d’Europa nel 1992: si intende per “sport” qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli19.   Cfr. voce “Sport” in “EnciclopediaTreccani.it”.   Consiglio d’Europa, 1992.

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Incrociando queste due definizioni si possono individuare quattro dimensioni costitutive dell’esperienza sportiva. In primo luogo lo sport è una attività fisica, che coinvolge il corpo in un esercizio distinto dalle pratiche della quotidianità e contribuisce a preservarne la salute complessiva. Dalla pratica sportiva è poi inscindibile un aspetto sociale, che per le discipline di squadra si traduce con una certa immediatezza in relazioni interpersonali decisive sul campo e spesso rilevanti anche al suo esterno, ma che può essere rintracciato anche negli sport individuali, nei quali il misurarsi, entro un quadro di regole, con l’altro e con se stessi contribuisce a costruire il sé con una potenza raramente riscontrata in altre attività, riflettendosi sulla socializzazione. L’elemento di sfida ci introduce a una terza dimensione, quella dell’“agonismo” e della “competizione”, elementi ancor più distintivi dello sport rispetto ad altre pratiche sociali nelle quali il confronto non esiste o non ha la stessa rilevanza. Infine, come attestato dall’etimologia, sport è divertimento, collegato al gioco e opposto alla necessità e alla razionalità dell’ambito lavorativo – e questa dimensione, seguendo la definizione Treccani, lo collega direttamente alla posizione degli spettatori oltre che degli atleti in gara. Idea di fondo di questo libro è che la qualità dell’esperienza sportiva, specie nello “sport per tutti”, sia determinata dall’equilibrio di queste quattro dimensioni, un equilibrio che decide anche il suo valore educativo: quando una di esse prende il sopravvento sulle altre, o viceversa dalle altre viene oscurata, nascono i problemi. Nello sport per disabili le quattro dimensioni assumono connotazioni peculiari: il legame con il corpo assume sovente il carattere della “terapia”, mentre il rapporto con gli altri si declina come “inclusione sociale”. Ad esempio, così il Consiglio d’Europa presenta sul proprio sito web le 20

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azioni dell’Accordo parziale allargato sullo sport (Epas) in questo ambito: La sfida è notevole: consentire a chiunque – sia normodotato che disabile – di beneficiare dei vantaggi del praticare sport. Per quelli con disabilità motorie, intellettive, mentali o sensoriali, praticare sport copre non solo le intenzioni terapeutiche e mediche generalmente definite come trattamento, ma anche gli aspetti sociali ed educativi20.

Anche le dimensioni della competizione e dello svago si innestano nello sport per persone con disabilità con connotazioni proprie: Antonio Maglio, promotore dei primi Giochi paralimpici a Roma nel 1960, quattro decenni fa affermava che nel concetto di sport per invalidi sono compresi due principi attivi, distinti ma inscindibili: lo sport inteso come attività fisica; lo sport inteso come attività agonistica. Il primo irrobustisce i muscoli, il secondo il carattere21.

Nella stessa pubblicazione del 1981, Roberto Marson, primo presidente della FISHa – Federazione Italiana Sport Handicappati, introduceva invece il momento psicologico-ricreativo tra le tre finalità nello “sport degli handicappati”, accanto a quello curativo e alla funzione di reintegrazione sociale, e lo descriveva come contenuto di divertimento che agisce come movente per recuperare quell’interesse alle attività motorie e a desiderare quella esperienza di svago così profondamente sentita da chi è stato per lungo tempo in letto o in un gesso22.

Un parziale parallelo può essere poi stabilito tra le quat  Cfr.: tinyurl.com/y45aetv7.   Maglio, 1981, p. 55. 22   Marson, 1981, p. 58. 20 21

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tro dimensioni dello sport e i modelli della disabilità che si sono affermati nella riflessione degli ultimi decenni. La dimensione fisico-terapeutica ha evidenti correlazioni con il modello medico della disabilità, secondo cui “la disabilità è compresa come ‘causata’ da parti del corpo che sono mancanti o non funzionano ‘a dovere’”23 e la riabilitazione tende al ripristino del massimo livello funzionale possibile. Alla dimensione sociale corrisponde invece, non tanto il modello sociale nato in opposizione a quello medico, quanto il successivo modello socio-relazionale secondo cui la disabilità si costruisce entro relazioni sociali, che non escludono la rilevanza del dato biologico ma possono determinarne gli effetti nel senso dell’inclusione o in quello opposto dell’oppressione. In maniera meno evidente, la dimensione agonistica, soprattutto nel senso della “sfida con se stessi”, e quella ludica si possono collegare al contrasto al modello tragico della disabilità, che la vede come una condizione irredimibile, e anche al modello affermativo, con il suo obiettivo di stabilire un’identità positiva nella condizione di disabilità e non nonostante essa. È utile avere presenti questi paralleli soprattutto per evitare che, anche inconsciamente, la gerarchia cronologica dei modelli si rifletta in una gerarchizzazione delle dimensioni sportive. In particolare, se il modello medico della disabilità è ormai obsoleto non per questo la dimensione fisica e al limite terapeutica dello sport per disabili va rifiutata, anzi rimane il suo equilibrio con le altre a produrre un’esperienza sportiva soddisfacente. Detto ciò, bisogna rilevare che nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità – Crpd24, approvata nel 2006, lo sport non è considerato entro la rubrica “salute” dell’art. 25, bensì nell’art. 30, che tratta di “partecipazione alla vita culturale e ricreativa, agli   Smith, Bundon, 2018, p. 16.   Onu, 2006.

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svaghi e allo sport”, con una connessione primaria alla dimensione del divertimento e un significativo distacco dello sport dalle sole finalità riabilitative. Il riferimento all’art. 30 della Crpd è importante anche sotto altri due aspetti. In primo luogo, gli stati aderenti sono invitati prima a “incoraggiare e promuovere la partecipazione più estesa possibile delle persone con disabilità alle attività sportive ordinarie a tutti i livelli” (punto 5a), e solo in seguito ad assicurare l’accesso ad “attività sportive e ricreative specifiche per le persone con disabilità” (punto 5b), delineando una preferenza per le attività inclusive su quelle adattate. Inoltre, come già nel titolo dell’articolo, l’impegno a “garantire che le persone con disabilità abbiano accesso a luoghi che ospitano attività sportive, ricreative e turistiche” (punto 5c) ricuce la differenza tra le pratiche “attive” e “passive” legate allo sport, quando larga parte del discorso pubblico tende invece a collocare le prime sopra le seconde. Agonismo e prolimpismo Tra le quattro dimensioni indicate, a creare apparentemente più problemi è quella competitiva. Il perseguimento della vittoria con ogni mezzo più o meno lecito è considerato una “contaminazione” che dal livello professionistico invade sempre più quello amatoriale. Agli eroi olimpici si sono sostituiti i campioni. Alla sana competizione, la dittatura della vittoria ad ogni costo […] I giovani atleti che frequentano le palestre o le società sportive, non sembrano più divertirsi o svagarsi. Perché i ragazzi, come è naturale, imitano i loro campioni25.

Anche nel rapporto tra sport e disabilità si evidenzia la “dissonanza sempre più evidente tra il principio di ‘selezio  Pensieri, 2011, p. 29.

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ne-esclusione’ veicolato dalla struttura classica dello sport (anche dello sport per disabili) e l’emergenza culturale del nuovo paradigma dell’inclusione”26, arrivando a volte a mettere in dubbio la possibilità stessa di un valore educativo dello sport come lo conosciamo e proponendo di sostituirlo con pratiche motorie ludiche non competitive. Se si riconosce che la dimensione agonistica è costitutiva dell’esperienza sportiva, queste critiche vanno ricontestualizzate: a dover essere eliminata non è la competizione, ma il suo prendere il sopravvento sugli altri aspetti, a partire da quello ludico. Come scrive Luca Grion il problema dello sport non è l’agonismo, che ne rappresenta anzi l’anima. Il vero problema è l’eccesso di agonismo, l’esasperazione della vittoria come unico fattore determinante a cui tutto il resto può essere sacrificato. L’agonismo, nello sport, è come il sale nella minestra: la sua assenza rende insipido il gioco competitivo; l’eccesso lo rovina27.

Anche il “credo olimpico” ufficiale definito da de Coubertin nel 1908 – a differenza del più celebre “l’importante non è vincere ma partecipare” – dà un rilievo centrale e positivo alla competizione: l’importante nella vita non è il trionfo, ma il combattimento; l’essenziale non è avere vinto, ma avere combattuto bene28.

Non per questo occorre cadere in una retorica di segno opposto, ritenendo che il valore educativo dello sport sia di per sé superiore a quello di tante altre attività sociali. Tale valore si collega in particolare alla logica della vittoria e della sconfitta stabilite sul campo in base a un sistema di regole: questa logica è intrinsecamente veicolo di esclusione?   Valet, 2008, p. 45.   Grion, 2016, p. 3. 28   Cfr.: www.olympic.org/the-olympic-motto. 26 27

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Nel 1996 Peter Donnelly contrapponeva “olimpismo” e “professionismo”, per descrivere la loro fusione nel “prolimpismo” come ideologia dominante nello sport recente, proponendo un modello basato sulla doppia dicotomia tra “esclusività” e “inclusività” e tra “processo” e “risultato”. Partendo da quest’ultima il processo enfatizza il modo in cui viene praticato uno sport e le esperienze dei giocatori, mentre il risultato implica un’enfasi ostinata sull’esito29,

ed è su questo che storicamente l’ideale olimpico si è differenziato dal professionismo sportivo, per cedere a quest’ultimo negli ultimi decenni. Se per “processo” si intende lo sforzo di battere se stessi e migliorarsi e per “risultato” l’essere riconosciuto migliore degli altri concorrenti, questa dicotomia ricalca quella tra “orientamento al compito” e “orientamento all’ego” proposta dalla Achievement Goal Theory in campo psicologico-motivazionale: un orientamento al compito si verifica quando gli atleti definiscono il successo come lavorare duro, dimostrare un miglioramento personale e imparare. Un orientamento all’ego è evidente quando gli atleti si considerano di successo perché hanno vinto e si sono comportati meglio degli altri atleti30.

Tornando però alla prima dicotomia di Donnelly l’esclusività riguarda l’esclusione di persone dal coinvolgimento nello sport, in primo luogo sulla base della competenza, ma anche sulla base di caratteristiche sociali come la razza o l’etnia, il genere o la classe sociale. L’inclusività è, naturalmente, il contrario31.

La “esclusività” non è quindi insita nel meccanismo competitivo che innalza i vincitori al di sopra degli sconfit  Donnelly, 1996, p. 27.   Martin, 2017, p. 172. 31  Donnelly, op. cit., p. 27. 29 30

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ti, ma attiene alla possibilità effettiva di inserirsi in questo meccanismo. Nel momento in cui la “monocultura del prolimpismo” si impone come combinazione esclusività/risultato, Donnelly vede aprirsi nuove opportunità per lo sport di base: ora che le Olimpiadi hanno cessato di essere un’alternativa allo sport professionistico, non costituiscono più una sfida a vari aspetti dello “Sport per tutti” e di ulteriori alternative che possono ora più pienamente occupare lo spazio disponibile32.

Opportunità, ma anche rischi, perché lo sport per disabili può tendere a collocarsi proprio all’intersezione tra esclusività e processo lasciata libera dalle Olimpiadi, valorizzando la lunga strada che le sue eccellenze hanno dovuto percorrere, in quanto disabili, per arrivare “sul tetto del mondo”, ma trascurando il diritto alla partecipazione a ogni livello. Andrew Parsons, presidente del Comitato paralimpico internazionale, ha presentato così al pubblico i prossimi Giochi (prima del loro rinvio a causa della pandemia): a volte si presume erroneamente che il parasport non sia uno sport di alto livello, ma posso assicurarvi che lo è, e gli atleti paralimpici lo dimostreranno a Tokyo 2020. Ci sono poche persone su questa Terra che possono correre 100 metri in 10,5 secondi, tuttavia abbiamo atleti che possono farlo ai quali manca un braccio o una gamba, o che hanno una disabilità visiva33.

Il confronto con i massimi risultati dello sport mainstream svalorizza la prestazione di chi per correre 100 metri impiega ben più di 10,5 secondi, tanto a livello di base quanto a quello di vertice per le disabilità più gravi per cui tale risultato è irraggiungibile, quando invece   Ivi, p. 37.   Ipc, 2019.

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data la posizione marginale degli atleti con elevate esigenze di supporto e la tendenza ad escluderli dai Giochi paralimpici, occorre prestare particolare attenzione all’espansione e alla promozione di opportunità per questi atleti34.

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Silva, Howe, 2018, p. 404. 27

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Massimiliano Rubbi

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Massimiliano Rubbi Lo sport non è un “di più”, ma dovrebbe essere parte della vita e del benessere. Questa stessa sfida si apre oggi per lo sport per disabili rispetto alla società nel suo complesso.

Press Play on Sport

Massimiliano Rubbi giornalista, si occupa dal 2004 di comunicazione nell’ambito di enti pubblici. Dal 2001 al 2018 ha collaborato con la rivista HPAccaparlante, scrivendo di disabilità e lavoro, welfare, cultura, politiche europee. Lo sport è una delle sue passioni.

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