Rosso di sera. Quando c'era Berlinguer

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Gianni Solino

sposato e padre di tre figli, dirige il settore ambiente alla Provincia di Caserta ed è direttore del Museo Campano di Capua. Fin da ragazzo si è interessato dei movimenti pacifisti e anticamorra, e continua ad impegnarsi nell’associazionismo, in modo particolare con “Libera”, “Comitato don Peppe Diana” e “Scuola di Pace don Peppe Diana”. È stato per oltre dieci anni sindacalista provinciale della CGIL. Con la meridiana ha già pubblicato Ragazzi della terra di nessuno (2008), La Buona Terra (2011) e Il Cratere (2018).

Si può perdere negli anni il ricordo dei tempi in cui si è lottato con passione e forza per ideali rivoluzionari? In cui la vita era scandita da eventi entrati poi nella storia di tutti? Forse sarebbe il caso di ricordare un po’ meglio quella storia. Non solo dal punto di vista generale, quello cioè della Storia con la maiuscola, quanto piuttosto della storia piccola, minuta, delle tante piccole storie di tante persone, militanti, città e territori che tutti insieme compongono poi la Storia con la maiuscola. È quello che fa Gianni Solino in queste pagine, perché spesso è proprio in quel passaggio dalla minuscola, dalle tante minuscole, alla maiuscola, che si perde qualcosa, magari proprio il senso del tutto.

ISBN 978-88-6153-923-5

Euro 15,50 (I.i.)

GIANNI SOLINO

ROSSO DI SERA QUANDO C’ERA BERLINGUER

ROSSO DI SERA

Gianni Solino, nato a Villa di Briano (CE),



Gianni Solino

Rosso di sera Quando c’era Berlinguer


INDICE Prologo Volantini Eskimo Comunista La maturità In campeggio Il terremoto Lo strappo Segretario Lavoro Comune Il Congresso Ciao Enrico Il Dottore La lista Via Gallinelle La svolta

9 13 23 33 41 49 61 69 81 93 103 119 127 135 143 153 161



Prologo

Certo che nei giorni di festa queste chat di WhatsApp diventano insopportabili. Migliaia di messaggi, foto, gif, video a volte lunghissimi, sempre gli stessi a raffica, per farti gli auguri. Le persone più impensabili e improbabili ti augurano il meglio del meglio con frasi e immagini copiate e incollate a come capita. È una corsa ad esserci, una specie di gara a chi manda e riceve più messaggi, tanto che alla fine non puoi che arrenderti. Ti adegui e ti metti anche tu a mandare auguri a destra e a manca in maniera compulsiva. Oppure ti ritiri. Sempre più spesso scelgo la seconda opzione e quindi non rispondo e non mando nessun messaggio, magari giusto qualche telefonata a chi proprio hai voglia di sentire e di scambiare qualche chiacchiera “naturale”, cioè con la voce. Qualche giorno prima di Capodanno si erano già scatenate le prime batterie di messaggi, uno di questi, pensate, mi augurava un “buon ultimo sabato dell’anno”. Fra i tanti, arriva un video di quattro minuti e più, di quelli che in genere non apri nemmeno perché quattro minuti sono davvero tanti e perché già sai che sicuramente sarà uno di quei pallosi mattoni natalizi che ti vogliono far commuovere e convincere che in fondo gli uomini sono buoni, o almeno dicono di esserlo, e così pacificare la tua e l’altrui coscienza da ogni inquietudine. Ci clicco sopra ma è pesante e fatica a caricarsi, perciò torno indietro e mi dico che tanto non vale la pena guardarlo. Pochi secondi dopo su un’altra delle innumerevoli chat cui partecipo spesso in maniera masochista, arriva un altro video, anzi è lo stesso di prima, che continua ad arrivare anche su altre chat perché Carmela, una 9


mia amica, ha deciso che tutti lo devono vedere. Mi tocca aprirlo, costi quel che costi. Un uomo senza volto imbraccia una chitarra acustica e fa partire una leggera melodia. Si vedono solo le mani arpeggiare sullo strumento mentre le note sembrano ricordarti qualcosa che ancora non sai bene. Stai per staccare perché i primi secondi sono già passati inutilmente, cioè a dire ancora non hai capito dove si va a parare e perciò meglio rinunciare perché “il tempo è davvero prezioso”, specie se non stai facendo nulla. Proprio mentre stai per staccare, una nota fra le altre lascia le corde della chitarra e tocca qualche corda arrugginita ma forse ancora vibrante proprio nel fondo della tua anima. Il cervello a quel punto fa il suo lavoro e, mentre lascia affiorare dalla memoria il ricordo di quelle note, stabilisce i giusti collegamenti e ti porta di peso in un altro tempo, forse in un’altra dimensione. Alle note ormai familiari cominciano ad aggiungersi le prime parole ed il video si allarga ad altre persone, parecchie, tutte in piedi tranne il chitarrista, credo in una sala di incisione perché hanno tutti le cuffie e sono circondati dal parquet, sotto i piedi e alle pareti, forse anche al soffitto che non è inquadrato. La canzone è davvero familiare e si presenta come una ventata di aria nuova, anzi di aria vecchia che per te è come nuova, perché contiene quegli odori balsamici della tua gioventù ma anche della tua passione che pensavi ormai andata, insieme ai tuoi anni e a tante delusioni. Sono gli Inti Illimani e stanno cantando “El pueblo”, e quasi non credi alle tue orecchie e ai tuoi occhi nel vedere le facce di quegli straordinari artisti così invecchiate ma riconoscibili. De pie, cantar que vamos a triunfar Avanzan ya banderas de unidad, y tu vendrás marchando junto a mí y así verás tu canto y tu bandera al florecer la luz de un rojo amanecer anuncia ya la vida que vendrá. 10


Resisti ai primi versi, lasci scorrere quasi l’intera prima strofa, poi non puoi che cominciare a cantare rispondendo ad un richiamo ancestrale. Mentre gioiosamente ti aggiungi al coro schiarendoti la voce, le parole rimangono strozzate nella tua gola e gli occhi si inumidiscono. Devi essere proprio invecchiato, te lo dicono sempre i tuoi figli, se invece di cantare una canzone che hai amato in una tua vita precedente ti metti quasi a piangere. E così rimani a pensare. Quand’è che il rosso ha smesso di essere il colore principale della tua vita? E quella passione per la politica come strumento di cambiamento collettivo, dove è andata a finire? Non sei stato tu a cambiare, a smettere di provare quello che provavi, di pensare quello che pensavi, di ardere di passione, soffrire e gioire per cose d’altri tempi. È il mondo che è cambiato. Come un mantra ti ripeti quello che tu e milioni di persone vi siete detti e ripetuti in questi lunghi anni, così da attenuare almeno in parte quel senso di frustrazione che il solo ricordo dei tempi andati ti lascia appiccicato addosso come una colla che imbratta le dita e la faccia. Ma come sono “andati” quei tempi? Sono davvero andati? Non è che è stata troppo frettolosa questa “archiviazione” di massa? È una storia scritta e raccontata molte volte ma c’è sempre un qualcosa che non torna, che forse non è stato scritto e raccontato come avrebbe dovuto esserlo. Forse perché è la storia di una sconfitta e, si sa, la storia non assume mai il punto di vista dei vinti? Ma poi, è davvero tutta da buttare quella storia, quelle passioni non sono servite a niente, quelle canzoni le abbiamo cantate al vento? Forse sarebbe il caso di ricordare un po’ meglio quella storia. Non solo dal punto di vista generale, quello cioè della Storia con la maiuscola, quanto piuttosto della storia piccola, minuta, delle piccole storie di tante persone, militanti, città e territori che tutti insieme compongono poi la 11


Storia con la maiuscola. Spesso è in quel passaggio dalla minuscola, dalle tante minuscole, alla maiuscola, che si perde qualcosa, magari proprio il senso del tutto. Sono tempi questi che non consentono di soffermarsi a riflettere e chi si ferma rischia di essere travolto da quanti corrono in maniera forsennata verso il futuro più come fuga dal presente che come raggiungimento di una meta anche solo immaginata. D’altra parte siamo stati, tanti di noi ed io di sicuro, fieri sostenitori della necessità di marciare “In direzione ostinata e contraria”, non vi pare?

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Volantini

Come spesso alla mattina, mio padre mi lasciava di buon’ora all’incrocio fra via Cilea e Via Ettore Corcioni, che ormai era diventata una delle strade più “in” di Aversa. Lui se ne andava al lavoro a Caserta mentre io mi incamminavo lentamente verso la mia scuola, il liceo classico Domenico Cirillo, dove conducevo svogliatamente i miei anni dell’adolescenza, dedito più allo scherzo che allo studio, come tanti della mia età. Non riuscivo quasi mai a cogliere il senso e l’utilità di quello che i professori si sforzavano di ficcarmi nella testa, mentre contemplavo la ragazzina del primo banco senza avere il coraggio di rivolgerle la parola, meno che mai di sedermici vicino. Tranquillo, non avrebbe mai scoperto che il mio cuore si metteva a correre quando incrociavo il suo sguardo. Per me era così inarrivabile da ogni punto di vista che non ci pensavo nemmeno a provare a raggiungerla, e così mi consolavo ripetendo nella mia mente il ritornello dell’ultimo successo degli Homo sapiens, “Bella da morire”, di cui rivedevo in mente il video con la ragazza mollemente adagiata su di un fianco. Non erano ancora le otto e perciò solo pochi ragazzi bighellonavano nei pressi del cancello. Da lontano fissavo l’incedere lento di una persona avvolta in una specie di giubbotto col cappuccio, sotto il braccio teneva un pacco, non uno scatolo, più un involto, mentre in tasca portava un giornale piegato in quattro che fuoriusciva per più della metà. Arrivato davanti al cancello, cioè a pochi metri da me, questa persona, diciamo più un giovane uomo, scartocciò 13


l’involucro che aveva portato fin lì e tirò fuori un pacco di fogli che poi sentii chiamare volantini, cominciando a distribuirli uno ad uno a chiunque passava. A me non lo aveva dato, forse perché ero ancora piccolo? Mi misi ad osservare quella specie di cerimonia della consegna dei volantini e, sempre più incuriosito, ma anche un po’ offeso pensai a come prenderne uno anche io. Feci finta di allontanarmi girando in largo e subito dopo immettendomi in quella che ormai era diventata la fila di ingresso che passava proprio davanti a quello strano giovane. Quando fu il mio turno, senza alcuna esitazione, presi anch’io il mio bel foglio svolazzante, contento di essere riuscito nell’impresa. Non è che avessi chissà quale voglia di leggere tutte quelle parole scritte a macchina fitte fitte, così mi limitai al titolo e alla firma finale, a quel tempo a me sconosciuta: Fgci Caserta. Chissà chi o cosa fosse. Nelle settimane che seguirono, più volte vennero distribuiti volantini della Federazione giovanile comunista italiana di Caserta, ma anche di altre organizzazioni che man mano imparavo a riconoscere, anche perché fra di noi si cominciava a discutere di quello che i volantini dicevano, così come di quello che stava accadendo nel nostro Paese. Erano gli anni della cosiddetta “avanzata comunista”, fra la conquista di tantissime città e regioni alle amministrative del ’75 ed il “pericoloso” avvicinamento alla DC nelle politiche del ’76. L’Italia sembrava avviarsi verso un cambiamento ormai inarrestabile ed i giovani ne erano gli alfieri principali. Una nuova modernizzazione, dopo quella degli anni Sessanta, ma questa volta all’insegna del rinnovamento politico in cui gli operai, insieme agli intellettuali, erano le punte avanzate. Ottimismo a piene mani che non considerava quello che già stava accadendo ma che non aveva ancora raggiunto il livello di guardia. Non ci rendevamo conto di stare precipitando nei cosiddetti “anni di piombo” che avrebbero completamente deviato la storia italiana dal suo binario. Ma la storia è quella che si studia a scuola cento 14


anni dopo che è successa, quella che stai vivendo più banalmente si chiama cronaca. Gli anni del ginnasio erano votati al divertimento e a null’altro, anche se i professori facevano di tutto per rovinarmelo. Fino ad allora avevo vissuto di rendita, sempre il primo della classe pur senza impegnarmi granché, ma le scuole di Aversa erano di molto al di sopra dei nostri standard. Infatti, fin dai primi giorni, mi fu chiaro che non sarei stato per niente in lizza per lo “scudetto”, quanto piuttosto che avrei dovuto lottare per la “salvezza”. Non ci ero abituato ma non per questo rinunciavo alle risate e alla goliardia di quei tempi, e subito diventai un catalizzatore di scherzi e di baruffe. Ero un tipo piuttosto mingherlino ma il fatto di parlare un certo dialetto e, soprattutto, di avere un compagno di bisbocce divertentissimo ma anche un peso massimo, mi teneva al riparo da eventuali bulli di città. Per un periodo ci divertivamo tantissimo ad “osservare” un nostro compagno di classe, molto sui generis. Non era molto assiduo in verità, anche se puntualmente arrivava accompagnato dal suo papà con una vecchia 850 verde. Lo salutava con un bacio sulla guancia e si incamminava verso la scuola mentre il padre immagino si recasse al lavoro. Appena la macchina si allontanava, lui cambiava direzione e scompariva. Quando poi effettivamente entrava in classe, si arrabattava a fornire le più strane giustificazioni per le sue prolungate assenze. Praticamente quasi nessuno di noi lo conosceva. Una volta era morta una zia, un’altra volta la nonna, ma quando si trovò a dover giustificare un periodo di assenze continuative di una decina di giorni, alla fatidica domanda del professore Giuliano, col suo tono un po’ canzonatorio, rispose letteralmente “professore, sono morti dei parenti”, facendo scoppiare di risate tutti quanti noi ed anche il prof. faticava a trattenersi. Studiavo spesso con un mio compagno di classe di un anno più grande di me. Era ripetente e perciò già conosce15


va l’alfabeto greco e tante altre cosette che per me erano al contempo affascinanti e un po’ preoccupanti. In compenso imparai molto bene a giocare a poker, dato che dedicavamo molto più tempo a questo piuttosto che ai libri. Non giocavamo “a soldi”, ma “a giornaletti”, cioè vincevamo o perdevamo i fumetti, dei quali eravamo avidi lettori. Verso la fine dell’anno si tenne il tradizionale “Mac P”, che per noi matricole era qualcosa di incredibile, solo che quella volta fu ancora più incredibile perché nel bel mezzo della musica e dei balli si sentirono urla e schiamazzi provenienti dal cancello di ingresso. Un gruppo di ragazzi di altre scuole, come di consueto, provava a imbucarsi ed anche a forzare il blocco che veniva loro opposto. Fra di loro non c’erano solo studenti ma balordi di ogni risma, tanto che sentii sussurrare il nome di Sandokan, che non era l’eroe salgariano ma quello che sarebbe poi diventato il capo del clan dei casalesi, allora solamente un violento che si allenava a spaccare teste e infilzare “delicatamente” quegli sventurati che si fossero trovati sul suo cammino. Per fortuna che arrivarono a salvarci un paio di volanti della polizia e così potemmo tutti andar via alla chetichella. Grazie alla prof. di filosofia del primo anno di liceo, cominciai a leggere un giornale nuovo e assai promettente, si chiamava “Repubblica”, e avrebbe dato filo da torcere a tutti gli altri giornali assai più antichi e blasonati. In questo modo si provava a far entrare la cronaca nella storia, nella consapevolezza che è proprio così che si svolge quest’ultima, fino a che qualcuno non la raccoglie e la racconta in maniera documentata magari dentro a un libro che poi va a finire sui banchi di scuola. Senza saperlo, stavamo vivendo il ’77, che un po’ somigliava al ’68 ma un bel po’ se ne discostava. I grandi, primi fra tutti i professori, si facevano ancora più grandi rivendicando appunto di “aver fatto il ’68”, mentre noi non facevamo niente, i soliti giovani dediti solo al divertimento, proprio mentre in tanti stavamo per fare scelte di impegno molto forti. È davvero curioso come 16


questa accusa ai giovani di tutte le epoche, di non essere interessati a nulla, si ripeta sempre uguale e sempre falsa, rimbalzando fra le generazioni. In estate arrivò da noi il primo film della saga di Guerre stellari, e fu strabiliante. Dovetti andare a vederlo ad Aversa, naturalmente, perché tutte le sale della mia zona erano ormai irrimediabilmente perdute con il porno, condannando alla cecità tanti ragazzini. In quei mesi su Rai 2 proponevano un programma nuovo che riscosse molto successo fra i giovani. Odeon, tutto quanto fa spettacolo, era il nome di quel rotocalco, che insieme a tante novità di costume, cultura e spettacolo faceva vedere tante belle gambe di ragazze, che poi sarebbero diventate quasi obbligatorie nella televisione degli anni che seguirono. Aveva una sigla così ritmata, nei suoni come nelle immagini, che fra il gruppetto di più scalmanati della mia classe diventò un tormentone. Ogni volta che qualcuna delle nostre compagne, o la prof. di filosofia, mostrava le gambe, partiva una specie di ticchettio con le dita sui banchi che simulava il ritmo di quella sigla televisiva. E giù risate a crepapelle, mentre tutti gli altri non capivano il perché e rimanevano inebetiti. Anche nei momenti più pesanti, e ve ne furono, al liceo mi sono sempre divertito e non c’è stato mai un giorno che avessi preferito restare a casa. Aversa non era così lontana dal resto del mondo e dai luoghi dove le Brigate Rosse o le altre formazioni terroristiche uccidevano tante persone e con loro le speranze di quel cambiamento promesso. Eravamo in classe quella mattina del 16 marzo 1978, la notizia del rapimento dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e dell’uccisione dei cinque uomini della sua scorta, ci colpì come un pugno in pieno volto. Mio cugino Michele faceva il poliziotto e prestava servizio proprio a Roma, così mi immedesimai moltissimo nei familiari di quei tutori dell’ordine trucidati, di cui sento il dovere di ricordare i nomi sottraendoli per un momento all’oblio, proprio come fa 17


Libera con le vittime innocenti delle mafie, ogni 21 marzo in tante piazze e scuole d’Italia: Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Domenico Ricci. Di colpo ci trovammo, io e i miei compagni, catapultati in un turbine di eventi che stravolsero l’ordine delle cose solite. Ricordo le assemblee e le manifestazioni con migliaia di studenti che si schieravano contro il terrorismo, contro quelle incomprensibili crudeltà verso degli innocenti quali ai nostri occhi erano i poliziotti e i carabinieri uccisi che invece i terroristi chiamavano nemici del popolo. In quelle manifestazioni, però, non capivo perché ci fossero dei contestatori, gruppi di giovani un po’ più grandi di noi che invece di gridare come facevamo noi contro le brigate rosse, gridavano contro i poliziotti e contro di noi. A volte si verificavano scontri fisici fra i nostri cortei e quei gruppuscoli che sentivo chiamare “autonomi”, che quasi sempre con le dita facevano il segno della pistola, la P38, arma preferita dai gruppi armati. Quei lunghi 55 giorni segnarono molto il percorso della mia formazione, così come credo quello di migliaia di altri giovani che furono risucchiati in un vortice di discussioni, riunioni, cortei, fino al terribile epilogo del 9 maggio 1978. Quel corpo inerme nel cofano di quella Renault 4 rossa in via Caetani a Roma divenne un simbolo di quell’epoca, un’immagine alla quale l’Italia sarebbe rimasta incollata per lungo tempo. In quello stesso momento a Cinisi, sperduto paesino della provincia di Palermo, si consumava un delitto altrettanto inquietante, anche se allora non venne percepito in tutta la sua portata. Peppino Impastato, poco più che un ragazzo ma con un percorso di lotta alla mafia assai significativo, veniva “suicidato” dagli sgherri di Tano Badalamenti. Ma l’uccisione di quella che sarebbe diventata una delle icone dell’antimafia italiana venne del tutto oscurata, come era ovvio, dal delitto Moro. Fino a quel momento avevo vissuto tutto in maniera superficiale. Non c’era stato niente o quasi che avesse davvero 18


attirato la mia attenzione, men che meno reso necessario il mio impegno, la mia partecipazione. Dopo quel momento cambiò tutto e non ci sarebbe stato più niente che mi avrebbe visto indifferente. Come se, all’improvviso, avessi imparato una nuova lingua che mi permetteva di capire tante cose prima incomprensibili, o meglio ancora illeggibili, gli eventi che si susseguivano incessanti in Italia e nel mondo trovavano in me un’attenzione prima inesistente, una sorta di pietra d’inciampo costituita da questa mia inusitata sensibilità. E così mi trovai, nemmeno ricordo come, a distribuire anche io quei volantini che chiamavano gli studenti ad opporsi alla barbarie terroristica e al rischio ancora più grave di una svolta autoritaria che la violenza terroristica stava per innescare. Avevo conosciuto alcuni di quei ragazzi più grandi che scoprii essere dirigenti provinciali della gioventù comunista e che mostravano ai miei occhi grandi capacità dialettiche perché in qualunque discussione riuscivano sempre ad avere la meglio. Solo che erano esterni alla mia scuola, a quei tempi di orientamento abbastanza moderato se non reazionario. Il fatto che io e qualche altro amico della mia classe portassimo quei volantini ci esponeva agli attacchi degli altri studenti che ci sfidavano a confrontarci pubblicamente, cioè in assemblea generale. Avevo partecipato qualche volta alle assemblee, sempre come spettatore, ma ora si avvicinava per me il battesimo di fuoco e non mi sentivo per niente pronto. L’italiano, tanto per dire, era la mia seconda lingua, e tutto quello che pensavo dovevo tradurlo dal dialetto. Una fatica indicibile che a farla davanti a centinaia di persone diventava impossibile. Il rischio di non riuscire a superare la prova era più che probabile, anche perché parlare in pubblico, al microfono, era impresa tutt’altro che semplice. Passai i giorni più brutti della mia vita, con l’ansia che mi stringeva lo stomaco in un morso dolorosissimo. Volevo scappare, scomparire, ma la mia dignità me lo impediva, mi ero spinto troppo avanti per 19


fermarmi. Forse perché capivano il mio stato d’animo, o perché non si fidavano delle mie abilità oratorie e temevano che non avessi saputo rappresentare bene le “posizioni” che avrei dovuto sostenere, sta di fatto che alcuni di quei ragazzi più grandi che distribuivano i volantini si offrirono di partecipare all’assemblea che di lì a poco mi avrebbe fatto a pezzi. Alcuni miei compagni di classe più coraggiosi vennero a darmi man forte, rischiando di essere etichettati come comunisti, cosa che per le loro famiglie era più che un’offesa, direi uno scandalo. Sentivo il cuore battere all’impazzata, solo che lo sentivo nello stomaco e ne ero paralizzato. Quando fu il mio momento riuscii a malapena a sbiascicare un paio di frasi fra le urla dei contendenti che erano piuttosto esagitati. Venni provvidenzialmente interrotto, senza lamentarmene, quando finalmente prese il microfono uno dei miei supporter esterni, si chiamava Ruggiero, un rosso coi baffi che non si fermava mai di parlare e che a un certo punto riuscì a calmare l’assemblea strappando addirittura applausi a quel pubblico per niente simpatizzante. Ma ormai la mia iniziazione era avvenuta e da quel giorno riuscii sempre di più e meglio a parlare in pubblico, affinando le mie “doti” oratorie. Allora non lo capivo, anzi nemmeno lo immaginavo, che quella iniziazione avrebbe cambiato profondamente la mia vita deviando e poi orientando in maniera decisa il mio percorso di crescita e formazione. Da lì in avanti il mio “impegno” divenne come dire strutturato, nel senso che partecipavo stabilmente ad incontri non solo a scuola ma anche all’esterno, presso sedi sindacali o politiche. Cominciavo ad avere un ruolo di primo piano nel movimento studentesco della mia scuola, che man mano si intrecciava a quello che tutte le altre scuole aversane stavano mettendo su, con epicentro al liceo scientifico, che allora stava in un edificio antico del tutto fatiscente nel centro storico. Questa cosa, naturalmente, accresceva la mia autostima, bisognosa di sostegno, e faceva crescere anche il mio 20


ruolo sociale, fra gli amici, a scuola, con i docenti e anche con il preside. Una mattina arrivai in grave ritardo, tanto da dover richiedere di entrare alla seconda ora. Fuori dalla porta di ingresso c’era un gruppetto di ritardatari mentre il preside, l’indimenticato professor Federico Santulli, se ne stava appostato in attesa di ascoltare le scuse di ciascuno e, di sicuro, di rispedirle al mittente sbarrando l’ingresso, magari imponendoci di venire il giorno dopo accompagnati. Mentre ciascuno dei malcapitati metteva a dura prova inventiva e faccia tosta, ed il Boss stava già per prenderli metaforicamente a pedate, sopraggiunsi io tutto trafelato e già rassegnato al peggio. “Solino” – mi apostrofò il preside – cosa ti è successo?” “Devi fare il compito?” e così ammiccando mi accompagnava, o meglio mi spingeva dentro sbarrando la strada a tutti gli altri. “Sì, ma anche loro devono fare il compito con me, preside, mica lo posso fare io da solo?” risposi di getto. Un attimo di incertezza, poi la straordinaria intelligenza di quell’uomo fece scattare il semaforo verde per tutti, e questa cosa contribuì ancora di più al riconoscimento del mio ruolo di leader. La mattina quando arrivavo, tantissimi mi chiedevano speranzosi se non dovessimo fare sciopero, se non avessimo qualcosa da rivendicare, un’assemblea da improvvisare, tutto quanto potesse servire a tenere lontani i professori ed i libri, con mio grande divertimento. Ma “da grandi poteri discendono grandi responsabilità” e come corollario del mio essere diventato “qualcuno” fui costretto ad evitare al minimo indispensabile le mie assenze, le divertentissime mattinate “marinare”, e ancor peggio, a mettermi a studiare, senza esagerare ovviamente, ma di sicuro più di prima. Con la crescita dell’impegno anche i miei gusti musicali si evolvevano e alla “disco”, che oramai la faceva da padrone fra i ragazzi, preferivo ascoltare De Andrè, che per me fu come una rivelazione, la scoperta di un nuovo mondo. Non so come venni in possesso di una cassetta con una sua 21


raccolta, se ricordo bene doveva essere Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirata all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. La ascoltavo ogni volta che potevo, imparavo a memoria le parole, le cantavo in continuazione, ne trascrivevo i testi. Ero rapito dalle atmosfere che solo lui sapeva creare, dalla profondità di quella voce e di quelle parole, ed anche quello fu un incontro estremamente significativo per la mia vita. Mentre la maggior parte dei miei amici ascoltava i Bee Gees e ballava con Tony Manero, io restavo ad ascoltare in silenzio quel diluvio di parole difficili eppure così coinvolgenti, che sembravano dare un senso a tante domande e a tante risposte che non arrivavano.

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Gianni Solino

sposato e padre di tre figli, dirige il settore ambiente alla Provincia di Caserta ed è direttore del Museo Campano di Capua. Fin da ragazzo si è interessato dei movimenti pacifisti e anticamorra, e continua ad impegnarsi nell’associazionismo, in modo particolare con “Libera”, “Comitato don Peppe Diana” e “Scuola di Pace don Peppe Diana”. È stato per oltre dieci anni sindacalista provinciale della CGIL. Con la meridiana ha già pubblicato Ragazzi della terra di nessuno (2008), La Buona Terra (2011) e Il Cratere (2018).

Si può perdere negli anni il ricordo dei tempi in cui si è lottato con passione e forza per ideali rivoluzionari? In cui la vita era scandita da eventi entrati poi nella storia di tutti? Forse sarebbe il caso di ricordare un po’ meglio quella storia. Non solo dal punto di vista generale, quello cioè della Storia con la maiuscola, quanto piuttosto della storia piccola, minuta, delle tante piccole storie di tante persone, militanti, città e territori che tutti insieme compongono poi la Storia con la maiuscola. È quello che fa Gianni Solino in queste pagine, perché spesso è proprio in quel passaggio dalla minuscola, dalle tante minuscole, alla maiuscola, che si perde qualcosa, magari proprio il senso del tutto.

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