Era una sfida audace. Una stagione da raccontare

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ISBN ISBN978-88-6153-711-8 978-88-6153-822-1

www.lameridiana.it

EuroEuro 14,50 (I.i.)(I.i.) 15,50 788861 537118 538221 9 9788861

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Giuseppe Daconto

a cura di Francesco Minervini

PENSIERI SOSTENIBILI AI PIEDI DI UN BAOBAB

straordinaria ingiustizia (2018); Oltre Capaci. Rocco Dicillo agente di scorta di Giovanni Falcone (2019); Ostinate e ribelli. Porzia, Lucia e Lella. L’antimafia sociale a Bari Vecchia (2021). Per la meridiana ha pubblicato Non la picchiare così. Sola contro la mafia (2015) e ha collaborato con la pubblicazione del volume Non a caso (2017).

ERA UNA SFIDA AUDACE

nazzo (Bari), vive a Roma. Laureato in Economia all’Università Aldo Moro di Bari e alla Federico Caffè di Roma 3, si dedica anche allo scoutismo cattolico e al volontariato politico, tra la Puglia e Roma. Attualmente è economista presso Fondosviluppo, il fondo mutualistico di Confcooperative, all’interno del Centro Studi. Si occupa principalmente di economia cooperativa, sviluppo e politiche della coesione. Nel 2018, l’amore lo porta alcuni mesi in Senegal: da questa esperienza nasce il libro.

edizioni la meridiana

Giuseppe Daconto, originario di Giovi-

Non si tratta di un taccuino di viaggio, di un regiornalistico, di fucina un racconto romanzato La Casaportage per la Pace di Molfetta: di utopie, luogo d’in-di incontri. Non è un saggio di politica o di economia contro dove giovani squattrinati, studenti o neolaureati, sperisull’Africa, sulla sua cultura,appassionata né un libro svimentavano in gruppo la progettualità delsullo cambiasostenibile. è unrete po’ditutto questo. Queste mento eluppo raccoglievano ideeMa in una persone, riflessioni, pagine sono un melting pot di emozioni e riflessioni esperienze concrete. che Forse. l’autore fa scoprendo che in quel pezzo di mondo, Un sogno? rappresentato cartoline baobab,con come nel noSicuramente l’impegnonelle dei singoli neldai confronto il gruppo stro, come inpersonalità tutti i sud della c’è ancoraattente tanto al da contribuì a costruire adulteterra, ed equilibrate, bene della fare,collettività. tanto da costruire, tanto da migliorare. Memoria: ricca che porta con séconsiderazioni il sorriso e, ancora oggi, In quella filigrana il libro contiene che essensostienezialmente il senso del passaggio alle nuove generazioni che riguardano noi europei, racchiuse in deuna vono sapere cosa nacque in due minuscole prese in predomanda provocatoria: non è chestanze, ci stiamo “africastito all’nizzando”? ormai svuotato convento dei Cappuccini di Molfetta; in quelle stanze furono lanciati germi dipongono una rivoluzione sociale e Se è vero che quei iluoghi domande strinculturale di cui il paese provinciale e il territorio hanno goduto genti sul futuro, proprio dal confronto tra noi e loro, per molto tempo. Senegal e Italia, sicuramente nemmeno troppo lontani e pur sempre dello stesso pianeta, sorge un dubbio: verso dove stiamo andando? Francesco Minervini è un docente di lettere classiche. Dopo la colEd con ecco che guardare un pezzetto laborazione il Darficlet di Genova, eha raccontare pubblicato contributi sciendell’Africa, il Senegal, può servire a parametrare metifici su riviste nazionali e internazionali di cultura classica. Ha anche glio svariate il nostro futuro, come umanità, al suo attivo pubblicazioni su riviste di area. senza distinzioni di sorta, partendo alcune immagini come Per la Stilo ha pubblicato InCantoda classico (2010); Il grido eforti l’impegno. La storia“chiavistelli spezzata di Michele Fazio (2011); Sono solo pupazziporzione (2014); metaforici” per entrare in questa La scuola un animale politico (2013); Finalmente diècontinente e rapportarla al nostro. urlo. Storia di una

GIUSEPPE DACONTO a cura di Francesco Minervini

P EUNA NS IERI ERA SFIDA AUDACE SOSTENIBILI UNA STAGIONE DA RACCONTARE AI PIEDI DI UN BAOBAB

CASA PER LA PACE - MOLFETTA CENTRO DI DOCUMENTAZIONE

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A cura di Francesco Minervini

Era una

sfida audace Una stagione da raccontare Prefazione di Luigi Bettazzi

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Indice

Prefazione di Luigi Bettazzi 7 Introduzione di Franca Carlucci 11 Che senso ha?

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Una casa per la pace

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“Jinde alla terre”

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Obiettare coi soldi e resistere nonviolenti

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Il servizio contro la guerra delle coscienze

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Il potere è cosa nostra

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Giocando giocando

71

Pensiero stupendo

81

Una meridiana per tutti

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Ho visto una formica

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Per concludere

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Postfazione di Antonia Chiara Scardicchio 109 Ringraziamenti 115

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Prefazione di † Luigi Bettazzi

Se io sono andato fuori a parlare di pace è perché qui mi sono sentito sollevare dal vostro entusiasmo. […] Se sono andato fuori a parlare di freedom, libertà, è perché qui ho visto il bisogno dei poveri e di quelli che si trovano in difficoltà. La spesa è stata fatta bene con voi. Non abbiate mai paura di essere carichi di utopie, di quelle idealità purissime, specie quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia e della solidarietà... Tutti temi che si stringono in quella unica parola: freedom, libertà don Tonino Bello, registrazione dal balcone del suo Episcopio, 18 marzo 1993

Molfetta ha un grande passato, fin dall’antichità: siamo certi che avrà pure un grande futuro, anche grazie a mons. Antonio Bello, il don Tonino che fu suo vescovo dal 10 agosto 1982 (giorno della sua nomina) al 20 aprile 1993 (giorno della sua morte). Ma non è solo per quello che lui è stato o ha fatto, ma anche per quello che ha saputo suscitare nel cuore della sua popolazione, soprattutto dei giovani. La mia ammirazione, gratitudine e affetto sono cresciuti nel leggere questo scritto, che testimonia la nascita di un’iniziativa nata dal cuore di giovani molfettesi “obiettori di coscienza”, incoraggiati ed accompagnati dal vescovo Tonino Bello, già avviato a diventare Presidente della sezione 7

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italiana di Pax Christi – Movimento cattolico internazionale per la pace. Era stato proprio questo Movimento (insieme ad altre associazioni di varie ispirazioni) a stimolare il Governo per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza (la legge del 12 dicembre 1972 fu approvata dal Governo Andreotti), cioè della situazione di chi, in tempi di obbligo per la leva militare non voleva far parte dell’esercito, accettando invece di compiere un servizio civile (ben più lungo e penalizzante rispetto al militare), espressione di nonviolenza. I giovani molfettesi – all’inizio erano due – via via moltiplicatisi, istituirono nel 1983, in due stanze disadorne del Convento dei Cappuccini (ottenute dall’insistenza di don Tonino) la Casa per la Pace, che diventò quel Centro di riflessioni, iniziative culturali, mostre, attività sociali che hanno via via coinvolto e fermentato non solo la città e la Diocesi (inclusa la nascita della casa editrice La meridiana) ma che si sono estese nella Puglia (per esempio la campagna contro i poligoni di tiro nella Murgia), in Italia (contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, in Sicilia) e nel mondo (contro l’apartheid in Sudafrica o contro la deforestazione dell’Amazzonia). Ho accettato di scrivere queste righe non solo per la stima e la gratitudine per don Tonino, la Casa per la Pace e per Molfetta, dove sono ritornato molte volte fino a quei giorni sofferti e luminosi dell’aprile 1993, quando con lui celebrai l’ultima Messa – lui sul letto – e dicemmo l’ultima preghiera (io leggevo i titoli del suo libro sulla Madonna e lui rispondeva “prega per me”); ho accettato anche per sottolineare questo prodigio nato nel cuore di giovani. Oggi la cultura del telefonino, mentre ci porta immediatamente in tutto il mondo, rischia di chiuderci nell’individualismo del nostro “io” e di renderci tutti più passivi e più indifferenti, in attesa solo di soddisfazioni personali, romantiche o di carriera. Dovremmo incoraggiare soprattutto nei giovani questa apertura ai grandi ideali, alla nonviolenza, alla solidarietà 8

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verso gli altri, proprio a cominciare dai più poveri, i più oppressi, gli emarginati. Oggi lo fa papa Francesco con i suoi scritti (fino ai Fratelli tutti, che ci sollecita ad una universale “amicizia sociale”, che include tenerezza e gentilezza), allora lo faceva don Tonino Bello, e l’ha fatto, fin dall’inizio e per tanti anni, la Casa per la Pace. Nell’esprimere il nostro ringraziamento, rivolgiamo il nostro augurio affettuoso alla Casa per la Pace di Molfetta, per un avvenire lungo ed attivo grazie alla capacità di essere sempre più fermento di intelligenza, solidarietà, nonviolenza… e di pace.

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Introduzione di Franca Carlucci

Era una sfida audace. Partita dall’ambizione di legare la cultura alla vita. La cultura della Pace alla obiezione di coscienza. La coscientizzazione all’intervento concreto in realtà marginali e di base. Perché è questo il potenziale della nonviolenza: la cultura diviene fermento di trasformazione non in un futuro indefinito e lontano, ma qui e ora, nella misura e nei modi in cui ci sono possibilità. Gli interlocutori divengono quindi sia gli strati di piccoli intellettuali che affollano impotenti e immobili la città, sia gli strati emarginati con cui collaborare per sperimentare una prassi di pace concretamente liberatrice Dalla relazione introduttiva all’assemblea dei soci della Casa per la Pace, 16 marzo 1985

Era il 1983, dopo più di vent’anni negli scout con impegni a vari livelli e alle prese con i percorsi educativi dei capi dell’Associazione, Guglielmo Minervini mi chiese di assumere l’incarico di presidente della nascente Casa per la Pace. Non ci pensai due volte, disposta com’ero a rendermi utile in qualcosa che avvertivo come veramente nuovo, che intuivo come necessario. Lo avevo già capito durante un incontro nella locale sede scout di via Tattoli con Jean Goss, di cui subito lessi la storia e la vita ritrovandomi a vivere uno dei primi incontri con i grandi testimoni della nonviolenza. 11

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Quella proposta di presidenza mi ha portato a prendere coscienza di tante cose, in fondo anche in quel caso mi sono lasciata portare: innanzitutto fui “portata” a Rossano Calabro presso la comunità di Gianni Novello, dove capii di avere molto da imparare sui temi del pacifismo, della nonviolenza, dell’obiezione alle spese militari. Fui “portata” a lavorare nel centro storico, dove tornavo alle origini di una mia precedente esperienza: giorno dopo giorno, con l’apertura quotidiana della sede anche ad opera di altri obiettori al servizio militare, si è avviata una crescita inarrestabile. Fui “portata” anche a creare una biblioteca che di anno in anno con l’aiuto volontario ed economico di tanti ha raggiunto un rilevante numero di libri su diversi temi, diventando anche spazio per tesi di laurea. I momenti di formazione in circle time per conoscere i grandi della nonviolenza, i protagonisti della stagione pacifista con le loro esperienze, vissuti e prassi, erano momenti pretesi per essere consapevoli di quanto si voleva condividere: ovvero la voglia di coinvolgere il territorio perché usufruisse della ricchezza culturale che ruotava attorno a noi. Si voleva perentoriamente dare alla città una comunità, un luogo in cui aver voglia di essere protagonisti del proprio cambiamento. La Casa per la Pace ci ha cambiati, ha creato un movimento laico in cui ciascuno poteva confrontarsi, interrogarsi e impegnarsi. I soci e soprattutto gli amici sono stati innumerevoli e lì hanno trovato stimoli per impegnarsi anche altrove portando con sé formazione, accoglienza, ascolto e impegno. In questo cammino intenso non si è mai pensato a lasciar tracce che fossero foto o diari in cui raccogliere pensieri dei tanti relatori e compagni di strada. E sono stati molti! Avevamo voglia solo di autenticità e impegno. La cronologia e i documenti che sono stati raccolti del lavoro svolto, ci raccontano di un periodo più che decennale vissuto pienamente, di cui si sono tratti i frutti: tra tutti, 12

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la nascita della casa editrice La meridiana e il movimento politico Il Percorso. Mi chiedo se un’altra Casa per la Pace sarebbe possibile, soprattutto necessaria: necessaria sì, accanto ad altre realtà laiche ma soprattutto ad una Chiesa che cammina per strada andando incontro ai bisogni, con giovani e non, per sognare, lottare e costruire insieme una realtà autentica, solidale e giusta. Possibile? Non so, perché la Casa per la Pace è nata e ha dato i suoi frutti perché don Tonino ne è stato lo Spirito Santo che ci ha soffiato sopra.

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Che

senso ha ?

Che senso ha ripercorrere una stagione ormai lontana che ha visto protagoniste forze cariche di entusiasmi e piene di speranza e cambiamento? Che senso ha, quando il presente reca tutta l’aria di un tempo cambiato con tinte profondamente più scariche d’ingenuità, quando le sfide del presente e dei suoi temi urgenti – dei migranti, dell’ambiente, delle periferie, della criminalità, delle marginalità diffuse e dimenticate – sembra essere andato in tutt’altra direzione? Che senso ha soprattutto ricordare un’esperienza nata negli anni ’80, fermentata sull’humus di un territorio tanto felicemente fecondato da un vescovo nuovo e diverso, don Tonino Bello, che vide protagonisti giovani in cerca di futuro e che volevano cambiare il mondo? Quel mondo è cambiato? Sì. Il punto è che il senso a questa risposta è dato, oltre che dalla memoria, dallo sguardo stupito di chi si volta indietro e scopre le strategie di cambiamento e le mete raggiunte, prova di un metabolismo sociale che concretamente ha attivato nuovi percorsi, alcuni dei quali felicemente riusciti. Se lo scopo era quello di lanciare sul territorio – a 360 gradi – nuovi fermenti, che nelle singole personalità con i loro peculiari percorsi e scelte di vita avrebbero poi movimentato idee e prodotto novità positive, quello scopo è stato raggiunto ed è possibile ancora svilupparlo nella miriade di testimonianze che qui sono offerte in parte e che rimandano alle tante storie, ai tanti nomi di chi è passato dalla Casa. 15

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In realtà il senso di questo lavoro è dato dal bisogno di rispolverare e spiegare termini che ora, ahimè, non si usano più e invece dovrebbero ritornare potenti perché ce n’è bisogno: obiettore di coscienza, educazione alla pace, difesa popolare nonviolenta... L’errore se mai è stato quello di lasciar diventare quei termini di nicchia o addirittura seppellirli, sull’onda di tempi nuovi che ora si rivelano bisognosi di una riflessione così pragmatica, così curata. Il senso è dato semplicemente dalla memoria. Ma non da quella puramente evocativa e celebrativa da cui qui – diciamolo – si prendono subito le distanze: bensì da quella memoria ricca, che porta il sorriso e che ancora oggi sostiene il senso del passaggio alle nuove generazioni, che devono sapere cosa nacque in due minuscole stanze, prese in prestito all’ormai svuotato Convento dei Cappuccini di Molfetta. In quelle stanze furono lanciati i germi di una rivoluzione sociale e culturale di cui il paese provinciale e il territorio hanno goduto per molto tempo. E forse ne godono ancora, ma non tocca qui dirlo.

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Una

casa per la pace

Di fronte ad una violenza così strutturata, può sorgere il pessimismo di chi si sente assolutamente inerme a cambiare la società: ma la società è fatta dalla gente e solo se un popolo riscopre le sue radici può vincere il potere Guglielmo Minervini e Franco De Palo, dal progetto di servizio civile, ottobre 1983

Ci sono un paio di obiettori che faticheranno per tanto tempo a spiegare che non sono scappati dal servizio di leva militare, ma che hanno rifiutato di farlo per un servizio allo Stato italiano più impegnativo e più lungo. C’è un gruppo di ventenni “compagni” che si sono già da qualche anno costituiti in un “Collettivo nonviolento” perché innamorati di nuove prassi alternative che producano sistemi di pace: lavorano infervorati da ideali ma cercano uno sbocco concreto e operativo. C’è un gruppo di persone che provengono dall’esperienza antica del locale scautismo e dal mondo dell’Azione Cattolica, che ha voglia di esperienze più prorompenti. Altre persone le accompagnano, alcune laiche altre più vicine al mondo ecclesiale: hanno in comune il fermento che muove dentro e che cerca di “fare”. C’è un vescovo che è appena arrivato e di cui basta solo fare il nome: Antonio Bello, per tutti e per sempre don Tonino. Per l’esattezza non è ancora il vescovo fa17

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moso e conosciuto di qualche anno dopo, ma un giovane quarantenne che si è trovato a fare il pastore di una Chiesa addormentata partendo dal Sud e giungendo in una cittadina di provincia borghese e benestante, che fatica ad inquadrarlo in quei tempi improbabili eppure incubatori di novità. C’è la spinta di una nuova esperienza associativa (per il territorio) che si chiama Pax Christi, che in quegli anni compare a Molfetta e per tanto tempo animerà, nascosta, la storia e l’aggregazione del nostro racconto. Nessuno conosce questo nome, ma tutti capiscono subito che Pax non sta per quiescenza, calma, riposo. Anzi, tutt’altro. Ci sono parole nuove che cominciano a girare: obiezione, pace, educazione, difesa popolare nonviolenta... ma di che si tratta? A cosa servono? Chè, il mondo bisogna cambiarlo adesso? C’è complessivamente un’aria di partenza, semplice e piena di forza, che si muove e che sembra esplodere da un momento all’altro. C’è una speranza e un’utopia che hanno bisogno di forma e di concretezza, di un punto da cui iniziare. C’è un’energia di cambiamento che impone di uscire per strada. E che uscì. L’intitolazione fu più stramba che mai. I molfettesi sonnolenti e stabilmente borghesi che alla fine del 1983 videro nascere nei due locali concessi dall’Ordine presso il Convento dei Cappuccini per faticosa intermediazione del vescovo, temettero subito qualcosa di diverso e quasi sovversivo. Non bastavano i primi eclatanti gesti controcorrente di questo giovane vescovo nuovo, diciamolo pure un po’ strano, che però almeno vinceva in simpatia e ammaliava con il carisma della sua voce e della sua oratoria. Don Tonino Bello a Molfetta aveva trovato qualcosa: aveva un nugolo di giovani provenienti da svariate esperienze, tutte buone, 18

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di associazionismo locale di stampo prevalentemente cattolico, che erano pronti ad accendere la miccia. E lui, chi lo ha conosciuto e lo conosce ancora oggi lo sa, non aspettava altro. Occorreva dare voce alla forte urgenza [...] di trovare un’alternativa valida a livello esistenziale e collettiva alla cultura della violenza che ha alienato ogni senso della nostra Storia1. Si ha, decisa, la consapevolezza che oggi l’alternativa passa per la ricerca di un modello di sviluppo e di vita radicalmente diverso [...] che sia dolce tecnologicamente verso l’uomo e la natura, in cui i valori d’uso abbiano completa priorità rispetto a quelli di consumo2.

La Casa per la Pace nel 1983 nasce come centro di documentazione e di educazione alla pace. Già questo è un programma che suona enorme e si direbbe quanto meno teorico, quasi fanfarone. Ma a Molfetta e dintorni in quegli anni le biblioteche sono poco frequentate e sostanzialmente sole nella loro polvere. Figuriamoci una biblioteca così diversa e di settore, mai sperimentata prima. Poi ospita obiettori di coscienza: all’inizio sono solo due che danno il via all’esperienza, poi ne verrà un terzo e poi tanti altri. Già, obiettori di coscienza. Allora come oggi il termine era in disuso. Era gente che non faceva il servizio militare bensì sceglieva il servizio alternativo, che per “punizione” durava di più (venti mesi a fronte dei normali dodici) ed era molto attenzionato dai vertici del Ministero della Difesa che vedeva in questi giovani terreno troppo sovversivo. La legge che riconosceva il servizio di leva alternativo, ovvero l’obiezione di coscienza (sì, di coscienza) al servizio militare era stata promulgata nel 1972 grazie al lavoro di Pietro Pinna, primo obiettore italiano già nel 1948,

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Cfr. art. 2 dello Statuto della Casa per la Pace. Cfr. ibidem. 19

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ma a Molfetta di obiettori non se ne erano mai visti3, e i primi due che ruppero il ghiaccio nel 1983 con la Casa per la Pace fecero molta fatica a spiegare a tutti – dirigenti militari compresi, che si presero la briga di controllarli molto da vicino – cosa e perché obiettavano: con loro, manco a dirlo, si schierò subito il don Tonino vescovo appena arrivato e l’aiuto si concretizzò. Ne nacque l’idea della Casa per la Pace, recuperata in due, precisamente due, locali malandati del vecchio convento in fase di dismissione dei frati Cappuccini. Gli obiettivi di attività erano chiari: seminari, biblioteca, scuola popolare per il recupero degli “espulsi” sociali, doposcuola in luoghi di denutrizione e deprivazione culturale e tanto altro ancora. L’attività della Casa si organizza sin da subito e si rivolge agli insoddisfatti, a tutti gli irrequieti che vivono con fede la speranza che questa cultura di violenza e di emarginazione ha, nonostante tutti i pronostici pessimisti, i giorni contati4.

Parte un’attività frenetica che vive di tanti altri giovani e volontari che senza essere obiettori si aggregano voracemente e velocemente. È un’attività organizzata per campagne, che vede operative sei commissioni riguardanti l’educazione, l’emarginazione, l’obiezione di coscienza, la qualità della vita, i rapporti Nord-Sud del mondo, la scuola. È bene ricordare qui almeno alcuni incontri di quegli anni, ovvero compagni di strada che arrivano a Molfetta per conferenze non troppo passive e seminari, e che stravolgono la tranquillità di una provincia quieta e intorpidita: sono Per esattezza a Molfetta c’erano già stati tre giovani di formazione salesiana che avevano scelto l’obiezione di coscienza ma avevano operato fuori del territorio cittadino e provinciale, in altre zone. 4 Dalla relazione introduttiva all’assemblea dei soci, 16 marzo 1985. 3

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Giovanni Franzoni, Tonino Drago, Etta Ragusa, Hedy Vaccaro, Giorgio Nebbia, Alex Langer, Alex Zanotelli, David Turoldo, Luigi Bettazzi, Luigi Ciotti, Danilo Dolci. I temi sono i più vari, come dicono i curiosi slogan intitolativi che qui si riportano: “Potere e fascino dell’indifferenza”, “Il nucleare e la Puglia”, “Il Sud colpito dalla violenza”, “Pace: quale modello di sviluppo”. La Casa per la Pace rinuncia subito ad una definizione di sé: in un contesto come quello in cui nasce, attento agli specialismi funzionali, sceglie di essere associazione e movimento, impegno politico e sociale, assistenza e promozione culturale. Pensa subito a far politica restando nel sociale, affermando come suo obiettivo primario “la diffusione e la promozione di una cultura di pace, intesa come nuova cultura della nonviolenza e della educazione alla soluzione positiva dei conflitti”5. Va da sé che i primi obiettivi che la nuova esperienza si propone di perseguire sono quelli d’inserirsi in un modo originale ed incisivo nel dialogo interno alla realtà cittadina e territoriale, ed esprimere temi nuovi e fortemente positivi per una società in cambiamento e formazione. Accanto alle attività culturali prendono le mosse attività permanenti come la creazione di una biblioteca intesa come sussidio per la ricerca sui temi della pace, provvista di titoli che diventeranno pietre miliari nella bibliografia di area e che saranno l’anima portante della storia di questa Casa6. Ne nascerà una storia lunghissima fatta di tante campagne: per la denuclearizzazione del Comune di Molfetta, contro il poligono di tiro sulla Murgia, per l’obiezione fiscale alle spese militari, per i referendum abrogativi della caccia e contro le centrali nucleari; saranno organizzati con Cfr. ibidem. Tutta la biblioteca della Casa per la Pace è attualmente conservata presso la sede-museo della Fondazione don Tonino Bello in Alessano (Le). 5 6

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vegni e seminari che vedranno alternarsi a Molfetta nomi che hanno segnato la storia del movimento pacifista italiano (Nando Dalla Chiesa, Alex Zanotelli, Raniero La Valle, ecc.), verrà lanciata la promozione delle giornate mondiali per la pace e tanto altro ancora... Occorre tra gli altri ricordare due eventi importanti ed emblematici: l’organizzazione già nell’aprile del 1985 di una mostra intitolata “Immagini di pace” che vede coinvolti i grossi nomi dell’intellettualità artistica locale, a dimostrazione che le immagini di pace (sono, N.d.C.) dipinti, ferraglie, striscioni, attrezzi dell’utopia: dilatano la realtà dal già verso il non ancora e nelle viscere di questa terra, dove il cuore e la ragione provano le strette più atroci, la visione si chiama pace7.

Inoltre è bene ricordare la prima mostra tenuta a Molfetta sul tema “Mafia oggi” nel gennaio 1985, prima in ogni senso, per tema e per profondità di trattazione: in collaborazione con la Casa per la Pace nell’organizzazione della mostra, c’è il neonato Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo. La rete creata e l’affinità d’intenti non sono casuali. In quei primi anni il giro si allarga perché crea entusiasmi, la gente nuova si aggrega, dagli intellettuali ai nuovi spiriti, che poi saranno... bollenti! Ed è dolcissimo ancora oggi sfogliare il libro d’iscrizione dei soci alla Casa per la Pace e leggere (al rigo 57) il nome di Antonio Bello, professione: vescovo. Ciò che sottende il lavoro ventennale che ha guidato la Casa per la Pace è la convinzione che uomini di pace non lo si è per automatismi spontanei, ma lo si diventa. È giunto il tempo di spiegare che le dinamiche militari “non costitui Dalla brochure promozionale della mostra “Immagini di Pace” dell’aprile 1985. 7

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scono più l’apparato di difesa delle classi dominanti, ma il crocevia d’interessi economici funzionali a molti centri di potere che condizionano tutta la società”8. In questo percorso continuo di spiegazione e insieme di formazione, c’è il seme e il fiore di una speranza difficile che bisogna far nascere... Una Casa per la Pace che si vorrebbe penetri dappertutto nelle torri arroccate della cultura scolastica, nelle stanze banali della discoteca alienante, nelle case asettiche della gente perbene, nelle calde e spesso sterili riunioni dei circoli impegnati, insomma ovunque gli spazi della speranza aprono al vento del Cambiamento9.

Da una testimonianza di Franco De Palo10 In fondo la nostra storia è stata tutta sulla strada: sin da quando abbiamo avuto quella strampalata idea di creare un centro di documentazione che non fosse una retorica “Casa della Pace” ma una “Casa per la Pace”. E di strada, di cammini e sentieri, ne abbiamo percorsi tanti, e non metaforicamente. Lo scautismo ha fatto incrociare me e Guglielmo Minervini lungo la strada, esattamente quella che conduce dalla stazione di Bari alla sede dei Comboniani. Era la fine degli anni ’70, avevamo sedici o diciassette anni e partecipavamo a un weekend formativo sui temi del pacifismo e dell’ecologia. Una strada percorsa casualmente insieme, che non ci ha divisi più, me e Guglielmo. Eravamo insieme anche ad un convegno sulla nonviolenza tenutosi a Bari il 2 novembre del 1980, organizzato da un gruppo scout presso la chiesa del Redentore. Tra i relatori c’erano Jean Goss, apostolo della nonvio Dal primo progetto di servizio civile presentato per la costituzione e l’avvio della Casa per la Pace nell’ottobre del 1983. 9 Cfr. ibidem. 10 Obiettore di coscienza nel 1983 presso la Casa per la Pace. 8

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lenza ed esponente del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione) insieme a sua moglie Hildegard Goss-Mayr, Madre Teresa di Calcutta e Gianni Novello, della comunità monastica di Santa Maria delle Grazie di Rossano Calabro, una delle prime fraternità nonviolente in linea con i principi di Pax Christi: con Gianni il cammino sarebbe stato lunghissimo, anche quella è una strada che abbiamo percorso. Va detto che era già operativa in quegli anni un’esperienza molto particolare e tutta molfettese: il Collettivo Nonviolento. In quello scantinato di piazza Vittorio Emanuele dove aveva sede, io fui il primo giovinazzese, dunque fuori porta, ad essere accolto, insieme però a tanta gente che veniva dall’associazionismo cattolico, ma anche dal mondo di “fuori”, quello della gente “ferma sulla soglia” come diceva don Tonino. Erano le “periferie esistenziali”, continuamente in ricerca, e anch’io mi sentivo tale. Con quell’attività del Collettivo si consolidò l’idea dell’obiezione di coscienza: erano passati quasi dieci anni dalla legge sull’obiezione di coscienza del 1972 e di obiettori in giro se ne vedevano ancora pochi, pochissimi. Nel 1981 scegliemmo Pax Christi come movimento con il quale condividere la nostra scelta di obiezione e al contempo di vicinanza a tutti coloro che facevano fatica, che si sentivano sconfitti e che non avevano alcuna speranza da coltivare. Una risposta nonviolenta ad un mondo più volte violento, sia sul piano locale che nazionale. Insomma era tempo di offrire una nuova “luce, soltanto luce che trasforma tutto il mondo… (Dippold, l’ottico)11”. Le storie delle persone che via via abbiamo incontrato con i loro bisogni e la loro condizione di ultimi sono state la base per arrivare ad una riflessione più globale, una sorta di metodo che coinvolgeva territorio e realtà, applicando una prassi di nonviolenza non staccata dalle persone, perché il recupero stesso degli ultimi è già un lavoro di pace. La convinzione maturata insieme a Guglielmo che la carità e la pace devono essere valori evangelici espressi in totale libertà ed equità, senza barricate, rendeva temi come il disarmo e la lotta alla E. Lee Masters, Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2014.

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povertà modelli ed esempi di prassi evangelica, possibili e praticabili. Per questo era necessario aprire le porte delle chiese all’esterno. Poi, nel 1982 è arrivato don Tonino, un vescovo che già nell’omelia d’ingresso in diocesi citava Gramsci. Con l’aiuto di don Nicola Gaudio, parroco del Duomo, avevamo cominciato il lavoro di conoscenza del quartiere del centro storico a cui rivolgere il nostro intervento. Ci mancava una base operativa: l’incontro con don Tonino fu la chiave di volta di tutta la nostra esperienza di obiettori e di tutti gli amici della Casa per la Pace. Su suggerimento del parroco, un po’ perplessi, andammo in episcopio per presentare il progetto al vescovo. Don Tonino in persona ci aprì la porta. Ci ascoltò e ci folgorò con uno dei suoi giochi di parole: “Volete praticare l’obiezione di coscienza, ma avete la coscienza dell’obiezione?”. A me in crisi con la fede, le due ore passate ad ascoltarlo furono un vento che soffiò come brezza. L’invito ad andare incontro a “quelli che non hanno il soffio dello spirito” divenne realtà immediata. Qualche telefonata, un giro sulla sua cinquecento e la richiesta ai frati cappuccini di un paio di stanze in comodato: in poco tempo ci ritrovammo a lavorare per il recupero della vecchia distilleria del convento, in stato di abbandono, eppure recuperata con l’aiuto di tutti, parenti, amici, conoscenti. Fondamentali furono gli aiuti economici di don Tonino e l’indennità mensile che ci arrivava dal Ministero della Difesa: già, i soldi del Ministero degli eserciti e della protezione armata servirono a mettere in piedi la Casa per la Pace con tutto il suo corredo di libri e di documenti pacifisti! Il progetto era semplice, ovvero coniugare la cultura dell’obiezione con un centro di documentazione e biblioteca e praticare azioni di recupero dove il diritto veniva represso o negato. Partirono subito il progetto di alfabetizzazione delle donne del centro storico sul modello dello stesso lavoro attivato qualche anno prima da don Cesare Sommariva nel quartiere di Monte Stella a Milano, a sua volta ispirato alle stesse progettazioni messe in atto in America Latina secondo la pedagogia degli oppressi di Freire. Partì anche il lavoro di assisten25

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za ai minori in disagio e tanta altra roba. Nonviolenza e pace, insieme, indissolubilmente, ovvero riflessione e servizio. Per tutti, con tutti. Potevamo restare a casa, alloggiati con una migliore comodità: invece scegliemmo come obiettori di vivere in questo centro di aggregazione, spogliandoci di tutto e creando una comunità di obiettori al servizio del territorio sostenuto da un lavoro di continua formazione. La pace comincia nella condivisione: e in quei giorni, in quei mesi condividemmo tutto, prima noi due poi con il terzo obiettore Antonio Campo, poi con il quarto, il quinto e via dicendo. Non dovevamo essere privilegiati rispetto a chi faceva il servizio di leva nelle caserme, per cui inventammo una modalità di convivenza e condivisione completa che si snodava lungo tutta la giornata, direi quasi monastica: dalla mattina presto, quando alle cinque si viveva un momento di lettura prima personale e poi condivisa di testi e spunti di riflessione, poi la colazione, poi la vita. Alle sette e mezzo del mattino si andava su da don Tonino in episcopio per il programma giornaliero: ritmi serratissimi tra il centro di ascolto, l’assistenza a chi veniva in curia per chiedere aiuto a don Tonino, il “dopo-la-scuola” con i ragazzi di Molfetta Vecchia, la Caritas di cui io curavo la parte più funzionale e pratica, Guglielmo la parte più documentativa e teorica. Tante ore per strada con ogni clima, a Molfetta Vecchia. Infine la sera, dopo le frequenti ospitate di don Tonino, si usciva con lui, a piedi o con la sua auto. Tante le serate trascorse per strada, in stazione, sul porto ad incontrare i volti di coloro che vivevano storie di periferie esistenziali. Giuseppe, Gennaro, Antonio, Marta erano volti da accogliere ed accarezzare, che ci interrogavano sulle cause di tanta marginalità, abbandono e indifferenza sociale. Storie che don Tonino ha raccontato nelle bellissime lettere raccolte nel volume Alla finestra la speranza. A questa umanità invisibile ha dato una dignità. Le loro storie raccontate da una prospettiva “altra” hanno sollecitato le coscienze assopite di tanti giovani e non, suscitando una sensibilità e una operosità mai riscontrate in diocesi. Fu subito gioia, fu subito fiducia: don Tonino stesso è stato il primo a fidarsi di noi, pur giovani e senza espe26

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rienza ma con tanta voglia di fare, ha scommesso sulla nostra promessa e non ci ha mai fatto sentire soli, lui insieme a molti altri. Dopo due anni terminò il servizio civile, ma non il nostro impegno. Molfetta ha ospitato nel 1985 il momento conclusivo della Route Internazionale di Pax Christi, di cui in quello stesso anno don Tonino divenne presidente nazionale. Cinquecento giovani di tutta l’Europa, ospitati in case e strutture della diocesi, scoprivano l’ospitalità della gente del Sud, la bellezza e le contraddizioni del territorio pugliese, confrontandosi sui temi della nonviolenza. C’era già lì il germe, anzi l’esigenza di promuovere la cultura di pace attraverso una casa editrice: La meridiana. Alla città la Casa per la Pace ha offerto incontri con persone del calibro di Alex Zanotelli, Danilo Dolci, Alex Langer, Nando dalla Chiesa, Giovanni Moro, David Turoldo, Giorgio Nebbia, Luigi Bettazzi, Cesare Sommariva, Luigi Ciotti. Quella stessa città ha vissuto dell’opera instancabile di tanti a cui oggi si illumina il volto per il senso che hanno cercato e trovato in quegli anni su quella strada. Di quella esperienza è rimasto tanto, nella Chiesa, nella società civile, nel contesto socioculturale. Le conseguenze di quella scommessa, che metteva insieme il dentro e il fuori della Chiesa, sono visibili ancora oggi nei tanti volti che lì hanno germinato. Una laicità della fede su cui continuare a impegnarsi sotto la spinta delle proposte profetiche di papa Francesco. Per me e Guglielmo sono stati anni di incontri, riflessioni, impegno socioculturale, formazione. Unici e irripetibili. Anni che hanno segnato profondamente la nostra vita personale e professionale. In ambito culturale e politico Guglielmo: ha lavorato come instancabile animatore della casa editrice, con progetti editoriali di approfondimento sui temi della pace, dell’accoglienza, della partecipazione, dell’ambientalismo, dell’educazione. In politica ha interpretato l’insegnamento di don Tonino che diceva: “Il cristiano che fa politica deve avere non solo la compassione delle mani e del cuore, ma anche la compassione del cervello […]. Paga di persona il prezzo di una solidarietà che 27

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diventa passione per l’uomo”. Prima sindaco, poi consigliere e assessore regionale, sempre dalla parte di chi faceva più fatica, sperimentando nuove strade per una politica generativa al servizio del bene comune. In ambito sociale per me: con il mio lavoro di operatore sociale e l’impegno a tempo pieno nel volontariato. Le tante esperienze vissute durante il periodo dell’obiezione di coscienza sono state ispiratrici quando mi sono occupato di detenuti, tossicodipendenti, minori a rischio, immigrati e rifugiati. O quando abbiamo accolto in diocesi gli albanesi prima e i profughi della guerra nella ex Jugoslavia o quando abbiamo inviato aiuti umanitari in Bosnia. Un impegno con cui tener fede alla lezione di don Tonino, che è un grido d’amore: Charitas sine modo.

Da una testimonianza di Pina Pisani, frammenti di ricordi pensando a Guglielmo Minervini, compagno di percorso di pace e non solo “Non fare storie, scrivi e descrivi come puoi un’esperienza di violenza, purché sia vera!”: era la tua richiesta, Guglielmo, a noi tutti della Casa per la Pace, per la pubblicazione del primo numero di “Mosaico di pace”; l’autorevolezza della richiesta, sia pure accompagnata dal sorriso, non lasciava spazio a rifiuti e non ce ne furono. Ci siamo conosciuti nell’aiuto alla prima famiglia alla quale don Tonino offrì una casa, tu e il De Palo (’u Frengh) immersi nei lavori più umili ma gioiosi collaboratori di un vescovo amico. Per età ci separava una generazione ma l’adulto eri tu, per la ricchezza di creatività operativa. La diversità di esperienze e vissuti non ci ha impedito di essere amici, di volerci bene. Nell’impegno con don Tonino ha fatto convergenza il meglio di ciascuno di noi; da lui preceduti, è stato naturale essere suoi collaboratori nel servizio alle persone, che privilegiava specie se poveri. La Casa per la Pace era la sede dove alle tematiche discusse seguivano mostre, incontri cittadini con persona28

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lità della cultura e/o testimoni di vissuti eccezionali. Io con Franco De Palo mi occupavo di volontariato, convegni e formazione. Ogni attività arricchiva la personale ricerca di senso e la crescita umana e spirituale. Come non pensare con tenerezza all’approfondimento biblico settimanale, di sera tardi, nella cappella del palazzo vescovile dove solo casualmente era presente don Tonino. Fra le molte realtà della nostra riflessione, ci inquietava l’accoglienza negata soprattutto a bambini e ragazzi inseriti in istituti. In attesa del centro di accoglienza, tenacemente voluto da don Tonino, alla Casa per la Pace accogliemmo una persona in difficoltà, che ci vide uniti e operosi. Frammenti di ricordi. Tu e tua moglie siete stati tra i primi affidatari a Molfetta, fino a quando l’elezione a sindaco ti catapultò nell’impegno politico. Aprire la tua casa a un bambino forse si raccordava con uno dei tuoi sogni rimasto nel cassetto. Ci conoscevamo da poco, ma già amici, quando mi chiedesti la mia condivisione per un’esperienza di vita comunitaria, aperta all’affido: ti risposi di sì, ma il sogno non si realizzò. La tua mente vulcanica ti permetteva di spaziare e realizzare esperienze culturali eccezionali, inedite. Tu sindaco, assessore regionale, io impegnata nell’affido abbiamo percorso strade diverse, ma all’insegna del servizio come ti auguravo ad ogni successo elettorale. Accompagnano i tanti ricordi le tue parole di risposta ai miei auguri per il tuo compleanno del 2016, “… che la vita va avanti, passo dopo passo, fra stupore e mistero”. Arrivederci Guglielmo.

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ISBN ISBN978-88-6153-711-8 978-88-6153-822-1

www.lameridiana.it

EuroEuro 14,50 (I.i.)(I.i.) 15,50 788861 537118 538221 9 9788861

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Giuseppe Daconto

a cura di Francesco Minervini

PENSIERI SOSTENIBILI AI PIEDI DI UN BAOBAB

straordinaria ingiustizia (2018); Oltre Capaci. Rocco Dicillo agente di scorta di Giovanni Falcone (2019); Ostinate e ribelli. Porzia, Lucia e Lella. L’antimafia sociale a Bari Vecchia (2021). Per la meridiana ha pubblicato Non la picchiare così. Sola contro la mafia (2015) e ha collaborato con la pubblicazione del volume Non a caso (2017).

ERA UNA SFIDA AUDACE

nazzo (Bari), vive a Roma. Laureato in Economia all’Università Aldo Moro di Bari e alla Federico Caffè di Roma 3, si dedica anche allo scoutismo cattolico e al volontariato politico, tra la Puglia e Roma. Attualmente è economista presso Fondosviluppo, il fondo mutualistico di Confcooperative, all’interno del Centro Studi. Si occupa principalmente di economia cooperativa, sviluppo e politiche della coesione. Nel 2018, l’amore lo porta alcuni mesi in Senegal: da questa esperienza nasce il libro.

edizioni la meridiana

Giuseppe Daconto, originario di Giovi-

Non si tratta di un taccuino di viaggio, di un regiornalistico, di fucina un racconto romanzato La Casaportage per la Pace di Molfetta: di utopie, luogo d’in-di incontri. Non è un saggio di politica o di economia contro dove giovani squattrinati, studenti o neolaureati, sperisull’Africa, sulla sua cultura,appassionata né un libro svimentavano in gruppo la progettualità delsullo cambiasostenibile. è unrete po’ditutto questo. Queste mento eluppo raccoglievano ideeMa in una persone, riflessioni, pagine sono un melting pot di emozioni e riflessioni esperienze concrete. che Forse. l’autore fa scoprendo che in quel pezzo di mondo, Un sogno? rappresentato cartoline baobab,con come nel noSicuramente l’impegnonelle dei singoli neldai confronto il gruppo stro, come inpersonalità tutti i sud della c’è ancoraattente tanto al da contribuì a costruire adulteterra, ed equilibrate, bene della fare,collettività. tanto da costruire, tanto da migliorare. Memoria: ricca che porta con séconsiderazioni il sorriso e, ancora oggi, In quella filigrana il libro contiene che essensostienezialmente il senso del passaggio alle nuove generazioni che riguardano noi europei, racchiuse in deuna vono sapere cosa nacque in due minuscole prese in predomanda provocatoria: non è chestanze, ci stiamo “africastito all’nizzando”? ormai svuotato convento dei Cappuccini di Molfetta; in quelle stanze furono lanciati germi dipongono una rivoluzione sociale e Se è vero che quei iluoghi domande strinculturale di cui il paese provinciale e il territorio hanno goduto genti sul futuro, proprio dal confronto tra noi e loro, per molto tempo. Senegal e Italia, sicuramente nemmeno troppo lontani e pur sempre dello stesso pianeta, sorge un dubbio: verso dove stiamo andando? Francesco Minervini è un docente di lettere classiche. Dopo la colEd con ecco che guardare un pezzetto laborazione il Darficlet di Genova, eha raccontare pubblicato contributi sciendell’Africa, il Senegal, può servire a parametrare metifici su riviste nazionali e internazionali di cultura classica. Ha anche glio svariate il nostro futuro, come umanità, al suo attivo pubblicazioni su riviste di area. senza distinzioni di sorta, partendo alcune immagini come Per la Stilo ha pubblicato InCantoda classico (2010); Il grido eforti l’impegno. La storia“chiavistelli spezzata di Michele Fazio (2011); Sono solo pupazziporzione (2014); metaforici” per entrare in questa La scuola un animale politico (2013); Finalmente diècontinente e rapportarla al nostro. urlo. Storia di una

GIUSEPPE DACONTO a cura di Francesco Minervini

P EUNA NS IERI ERA SFIDA AUDACE SOSTENIBILI UNA STAGIONE DA RACCONTARE AI PIEDI DI UN BAOBAB

CASA PER LA PACE - MOLFETTA CENTRO DI DOCUMENTAZIONE

edizioni la meridiana 29/03/21 09:48


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