12,5 mm dorsoo
Marìca Catalano
125 mm IV Copertina
Marìca Catalano è nata a Bari nel 1969, dove risiede tuttora. È laureata in Lettere moderne, ama viaggiare, visitare musei e città d’arte. A causa dell’asfissia che ha subito al momento della nascita ha la tetraparesi distonica, che non le ha impedito di conquistarsi la vita. Intraprendente e determinata, è convinta che si può volare ed amare oltre l’handicap.
125 mm Copertina
MARÌCA CATALANO
SONO MARÌCA
Tra un padre sognatore e una madre che vive come punizione e limite l’handicap delle figlie, si dipana il racconto che Marìca condivide con chi vorrà leggerlo, per raccontare una vita che facendo i conti con ciò che fisicamente è, ha superato limiti e barriere, per vivere da protagonista e non da comparsa.
ISBN 978-88-6153-422-3
Euro 16,00 (I.i.)
SONO MARÌCA DISABILE SPERICOLATA
95 mm (93 carta + 2 mm x piega) Aletta
DISABILE SPERICOLATA
95 mm (93 carta + 2 mm x piega) Aletta
Marìca Catalano
Sono marìca disabile spericolata
edizioni la meridiana
Indice
Introduzione
9
La mia nascita
13
L’importanza di fare ginnastica
15
All’asilo
17
L’arrivo di Serena
19
La famiglia “felice”
23
Papà Alfredo
27
La conquista dell’autonomia
37
La scuola media
39
Feste di compleanno… al veleno
41
Un brutto vizio
43
Gli anni della scuola superiore
49
Il bacio di Omar Sharif
53
La corazza
55
L’università
57
Un professore fuoriclasse
59
Amicizie pericolose
65
Il risveglio
67
Vietato vivere
69
Un grande amore impossibile
75
Mamma Ada e il suo “John Wayne”
85
Viaggio a Recanati
89
Franca
93
L’esperienza di lavoro in Regione
97
“LeZZanZare”
101
Danza acrobatica
107
Valentina e il buddismo
111
La scelta fatale di mia madre
117
Serena
121
Il trasloco
129
Sbloccata
131
Amore, trulli e allegria
133
Io e le badanti
137
Un fidanzato pretenzioso
139
Per sempre Serena
145
Fine anno a Roma
151
Il Disability Pride
153
Il mio giudice preferito
155
Affari di famiglia
161
Gli amici salentini
171
La famiglia barese
173
Le vicine di casa
183
La mamma è assolta
185
Introduzione
Il mio nome è Marìca, con l’accento sulla i. Molti sbagliano la pronuncia del mio nome, ecco perché mi piace precisarlo dall’inizio. Mi chiamo Marìca quindi, e sono una persona con un handicap. Anche questo mi piace precisarlo subito. I miei cugini Renato e Maria mi hanno esortata più volte a scrivere la storia della mia vita perché in effetti un po’ di cose mi sono successe, oppure le ho fatte accadere a dispetto del mio handicap. Quindi se io ho scritto di me e tu leggi di me è un po’ per responsabilità loro. Io gli sono grata per l’insistenza e l’accompagnamento nella scrittura del testo… spero che, alla fine, tu possa ritenerlo degno della loro insistenza. Cominciamo allora. Ho sempre desiderato assaporare la vita, fare le esperienze che fanno tutti, lasciarmi prendere dalle emozioni, innamorarmi, perché non volevo – e non voglio – essere spettatrice della mia esistenza, ma vivere pienamente. Spesso sento dire che noi disabili siamo speciali. A me il significato di questa frase non è molto chiaro. In cosa saremmo speciali? Noi disabili siamo persone e in quanto tali abbiamo difetti e debolezze come tutti. Anche noi a 9
volte possiamo essere opportunisti e deludere qualcuno. Forse, definendoci “speciali”, si tende a immaginarci come “angioletti”, e quindi esenti da desideri e sentimenti, come il sesso, che sono comuni a tutti. L’handicap complica molto l’esistenza umana: questa è la verità. Da sempre ho il “vizio” di vivere come se non avessi la tetraparesi distonica che mi hanno regalato per errore in ospedale al momento della nascita. Nel grembo materno ero sana e se avessero fatto il taglio cesareo, la mia vita non sarebbe stata segnata dalle difficoltà con cui deve vivere una donna che ha problemi motori. Per me l’handicap è soltanto la caratteristica di una persona: è come essere biondi, avere gli occhi neri, oppure un neo sul collo. L’handicap è solo un qualcosa che fa parte di un essere umano e lo caratterizza: nient’altro che questo. Queste sono idee che mi ha trasmesso mio padre Alfredo, che mi ha cresciuta come se io non avessi un handicap: è stato un padre singolare e fuori dalle regole, che – a una figlia che in piedi non aveva un equilibrio stabile – insegnava a ballare. Amava la musica, perché con il suo linguaggio trasmette emozioni bellissime e profonde. Alfredo era un giovane papà che ha sempre amato molto la vita anche quando da questa riceveva grossi dispiaceri e duri colpi; una persona solare che aveva conservato dentro di sé l’animo di un bambino. Quando avevo sette anni, in occasione del Natale, papà regalò a me e a mia sorella Serena un trenino elettrico, ma era lui che si divertiva molto a farlo correre sulla pista che aveva allestito nella nostra camera: era un gran giocherellone. Mio padre mi ha trasmesso un grande amore per la natura. Aveva curiosità e stupore verso ogni cosa: per l’incanto di un cielo stellato, per i colori di un tramonto; 10
andavamo insieme a passeggiare nei boschi e lì sull’erba camminavo da sola, non avevo paura di cadere e di farmi male perché la morbidezza del prato mi rassicurava. Più che dal mio precario equilibrio, la mia paura di cadere e di farmi male derivava dall’ansia che mi trasmetteva mia madre Ada: questa sua apprensione costante mi ha impedito di vincere la paura e di riuscire a camminare da sola. Ho vissuto un’infanzia da favola con un padre spericolato che, quando avevo nove anni, mi insegnava a mettere in moto la macchina. Mio padre era come Leonardo da Vinci, perché cercava di escogitare sempre nuovi modi per stimolarmi, inventando sempre qualche situazione nuova in cui coinvolgermi; lo faceva sperando che io potessi acquisire sicurezza in me stessa per riuscire a deambulare autonomamente. Con mio cugino Napoleone (detto Leo), mio padre condivideva la passione per l’aeromodellismo. Insieme avevano costruito un aereo che era comandato attraverso un filo. La domenica andavamo nella zona industriale per provare a farlo volare; l’aereo volava rasoterra e anche un po’ più su, ma papà e mio cugino erano come due bambini entusiasti e fieri del loro modellino. Mio padre sperava che vedere l’aereo volare mi avrebbe fatto venire la voglia di camminare, o magari addirittura di correre: lui era un sognatore, e il suo sogno è sempre stato vedermi camminare da sola. I suoi incoraggiamenti però erano messi a dura prova dalle paure di mia madre. E tra un padre sognatore e una madre che vive come punizione e limite l’handicap delle figlie si dipana il racconto che condivido con chi vorrà leggerlo, per raccontare una vita, la mia, che facendo i conti con ciò che fisicamente sono, ha superato limiti e barriere, per vivere questa vita da protagonista e non da comparsa: è la cosa che auspico per tutte le persone che hanno un handicap.
11
La mia nascita
Sono nata in una notte fredda e nevosa di dicembre; quella notte il ginecologo che seguiva mia madre aveva fatto nascere molti bambini: era stanco, e siccome le condizioni di salute della gestante erano buone, andò a riposare. Mia madre ebbe un parto tremendo che le causò molta sofferenza: se avessero effettuato il taglio cesareo, io non avrei avuto nessun handicap. Essendo nata asfittica a causa delle lesioni alle cellule motorie che mi avevano procurato un forcipe e una ventosa usati su di me senza nessuna precauzione, fu necessario tenermi nell’incubatrice per molti giorni; ormai però il danno era stato fatto e aveva generato una disabilità motoria. Ai miei genitori fu detto che l’unica conseguenza di quel parto tribolato sarebbe stata che avrei camminato più tardi rispetto agli altri bambini: in ospedale cercarono di minimizzare le difficoltà che mi avevano causato. I miei genitori avrebbero voluto denunciare l’èquipe dell’Ospedale “Di Venere” per l’errore commesso, ma alla fine preferirono non impelagarsi in costi per avviare cause legali e utilizzarono il denaro per farmi fare la ginnastica di cui avevo bisogno. Anche mio cugino Renato, un ragazzo sedicenne era ricoverato nello stesso ospedale in cui io nacqui. 13
Papà Alfredo e mio cugino Renato venivano spesso a trovarmi quando ero nell’incubatrice; alla luce degli eventi che si sarebbero verificati molti anni dopo nel corso della mia vita, la presenza di mio cugino fin dai miei primi giorni di vita accanto a mio padre assume il significato di un presagio: al momento della mia nascita erano accanto a me due uomini che sarebbero stati fondamentali nella mia esistenza, entrambi avrebbero avuto il ruolo di padre in due periodi diversi della mia vita e a distanza di molti anni. Renato è il cugino che ho visto molto raramente quando ero bambina. Di lui ho solo un ricordo d’infanzia: ero sul divano a casa dei suoi genitori e lui, in piedi accanto a me, mi cantava una canzone dissacrante sui preti facendomi morire dal ridere. Lui è sempre stato un tipo controcorrente e contestatore, attivista del partito comunista. Dopo molti anni, quando ero ventenne, ci siamo rivisti e abbiamo scoperto di avere in comune l’interesse per il teatro e per i viaggi nelle città d’arte e abbiamo ripreso a frequentarci.
14
L’importanza di fare ginnastica
La mia prima fisioterapista, Iolanda, mi conobbe quando avevo nove mesi. Con me è stata severa e determinata quando era opportuno, però se alla fine della terapia ero stata brava me lo diceva! Se papà era a casa, libero dal lavoro, osservava i movimenti che mi faceva fare la terapista, ma senza farsi vedere da me per evitare che io potessi perdere la concentrazione. Nei giorni in cui la terapista non veniva, mio padre la sostituiva anche fin troppo bene, dato che era molto più esigente e più severo di lei. Durante i miei primi anni di vita non riuscivo a stare seduta su una sedia senza braccioli o su uno sgabello, perché non avevo ancora un equilibrio che mi consentisse di farlo. Poi facendo molta terapia ci sono riuscita. All’età di tre anni Iolanda cercava di farmi camminare da sola nel corridoio di casa standomi vicina; quando mia madre se ne accorgeva interveniva subito dicendole di smettere: “Basta, si stanca, può cadere e farsi male!”. Per questo motivo Iolanda chiudeva spesso le porte del corridoio, perché sperava di evitare le incursioni di mia madre. Mi è sempre piaciuto camminare; oggi se qualcuno mi tiene per mano riesco a farlo. Con mio padre facevo lunghe passeggiate e camminavo meglio poiché ero allenata. 15
Da quando papà non c’è più ho perso l’opportunità di fare tantissime cose che facevo con lui: insieme andavamo in piscina, in palestra, al cinema, a passeggio, in viaggio. Papà è stato il mio migliore fisioterapista, era il più motivato: mi ha fatto capire quanto è importante per me fare sempre ginnastica per mantenermi agile nei movimenti. Papà diceva che io sono come un atleta che deve stare sempre in allenamento, ed è proprio vero, perché quando non faccio ginnastica per qualche giorno, il mio fisico ne risente. Quando ero bambina fare ginnastica non mi piaceva, lo consideravo un “supplizio” perché non capivo che era necessaria e che il mio fisico ne traeva grande beneficio; quando sono diventata adulta, ho compreso il valore della terapia che mio padre mi faceva fare; tuttora continuo a fare ginnastica e non posso farne a meno.
16
La famiglia “felice”
A otto anni chiesi come regalo di Natale la casa di Barbie, perché spesso mi era capitato di vederne la pubblicità in televisione. Agli occhi di ogni bambina quella casa appariva bellissima, perché era a tre piani, aveva l’ascensore, il prato e la piscina, e tutto questo la rendeva molto desiderabile. Avevo già la bambola di Barbie, il suo fidanzato Ken e Skipper che era la sorella più piccola della famosa bambola, perciò se avessi avuto anche la casa di Barbie avrei potuto completare i miei giochi. Quella fu l’unica volta in cui espressi un desiderio così forte per un determinato giocattolo, perché di solito i miei genitori andavano al negozio e sceglievano i giocattoli per me e per mia sorella Serena; fino ad allora erano sempre riusciti a intuire e soddisfare i nostri desideri. Quella volta sotto l’albero ero sicura di trovare la casa di Barbie ma, invece, dai pacchi natalizi saltò fuori “la famiglia felice”, composta da padre, madre e figlioletto, un regalo a cui io non ero mai stata interessata. Quando chiesi a mia madre perché mi avessero fatto quel regalo, ignorando il mio esplicito desiderio della casa di Barbie, lei mi rispose che quelle bambole rappresentavano la nostra famiglia e, secondo la sua opinione, erano felici come noi. 23
Quella di mia madre era solo un’illusione a cui voleva che credessi anch’io, ma nella realtà della nostra famiglia c’erano momenti segnati da incomprensioni, tensioni e discussioni che non avevano niente di felice. Non si deve pensare che i miei genitori non andassero d’accordo, anzi erano una coppia molto unita, però non eravamo una famiglia da idillio come quelle dei film, bensì una famiglia come tante che era costretta ogni giorno a fare i conti con i problemi quotidiani a cui si aggiungevano quelli di due figlie disabili. Mia madre mi aveva fatto quel regalo perché lei si identificava nel giocattolo della “famiglia felice”, di questo voleva assolutamente convincere se stessa; io invece, come tutte le bambine della mia età, mi identificavo nella bambola Barbie che è la donna elegante e raffinata che ogni bambina sogna di diventare. Invece la “famiglia felice”, composta da due genitori e un bambino “perfetto” perché senza handicap, era il sogno irrealizzabile di mia madre. Dopo ogni litigio con mio padre, mia madre me ne attribuiva sempre la “colpa”, sentenziando che ogni tensione, ogni incomprensione tra loro era causata dal mio rifiuto di fare la ginnastica e dalla mia difficoltà nel camminare da sola. Ricordo che ascoltavo mortificata i duri rimproveri di mia madre, e mi sentivo in colpa perché riusciva a farmi credere che io fossi l’unico motivo delle liti con mio padre. Ogni domenica i miei genitori discutevano animatamente, perché papà avrebbe desiderato uscire per fare una passeggiata e invece per mia madre era più importante fare le pulizie di casa, dato che durante la settimana era impegnata a lavorare in ufficio. Penso che mio padre e mia madre non si siano mai resi conto di quanto io soffrissi e stessi male sentendoli litigare; 24
in quei momenti non ho mai avuto il coraggio di intervenire perché entrambi – mia madre specialmente – erano aggressivi e nervosi; a me non hanno mai chiesto se preferissi uscire o rimanere a casa. Soltanto in seguito alla morte di mio padre, mia madre, ripensando a quelle domeniche sprecate a litigare, mi ha detto di essersi pentita di non essere uscita con mio padre, dato che ormai non ne avrebbe più avuto la possibilità. La complicata realtà dell’handicap non si può nascondere a se stessi né ai propri familiari, non si può mascherarla dietro false illusioni, sognando una famiglia e una realtà differenti dal vero, ma questa era l’impresa che mia madre continuava a inseguire disperatamente e fuori da ogni logica. La famiglia “felice” in realtà era soltanto un’utopia, un’illusione a cui mia madre si ostinava a voler credere ad ogni costo.
25
La conquista dell’autonomia
Ho combattuto molto con mia madre per riuscire a conquistare l’autonomia, almeno nelle piccole cose che riesco a fare. Per esempio io sono in grado di mettere il dentifricio sullo spazzolino; all’inizio non è stato facile, ma ho imparato grazie a Iolanda che mi ha fatto scoprire che potevo farlo. Quando mia madre mi vedeva compiere questa operazione reagiva in maniera spropositata, urlava dicendo: “Ma cosa stai facendo? Fermati! Quando vuoi prendere qualcosa, devi chiedere a me”. Il suo nervosismo incontrollabile mi spaventava, alterava i miei movimenti che, quando lei non mi gridava contro, io riuscivo a coordinare. A causa delle urla di mia madre Ada io strizzavo il tubetto e il dentifricio usciva in grande quantità, così lei mi diceva: “Vedi? Tu non sei in grado di fare niente… tu sei solo una incapace!”. Ma io non desistevo e quando ero sicura che non poteva intervenire facevo da sola.
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Marìca Catalano
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Marìca Catalano è nata a Bari nel 1969, dove risiede tuttora. È laureata in Lettere moderne, ama viaggiare, visitare musei e città d’arte. A causa dell’asfissia che ha subito al momento della nascita ha la tetraparesi distonica, che non le ha impedito di conquistarsi la vita. Intraprendente e determinata, è convinta che si può volare ed amare oltre l’handicap.
125 mm Copertina
MARÌCA CATALANO
SONO MARÌCA
Tra un padre sognatore e una madre che vive come punizione e limite l’handicap delle figlie, si dipana il racconto che Marìca condivide con chi vorrà leggerlo, per raccontare una vita che facendo i conti con ciò che fisicamente è, ha superato limiti e barriere, per vivere da protagonista e non da comparsa.
ISBN 978-88-6153-422-3
Euro 16,00 (I.i.)
SONO MARÌCA DISABILE SPERICOLATA
95 mm (93 carta + 2 mm x piega) Aletta
DISABILE SPERICOLATA
95 mm (93 carta + 2 mm x piega) Aletta