PASSAGGI
“Case e parchi e condomini e strade di questa città non solo antica, di questa città cambiata da un tempo di incontri e scontri e di chiusure e slanci, di abbracci impossibili e di possibili, auspicabili, domani.”
collana
N. Capovilla – B. Tusset
Nandino Capovilla Betta Tusset TANTA VITA
Nandino Capovilla è parroco a Marghera (Venezia). Dal 2009 al 2013 è stato coordinatore nazionale di Pax Christi Italia. Ha pubblicato Un parroco all’inferno. Abuna Manuel tra le macerie di Gaza (2010); ha curato il volume di Michel Sabbah Voce che grida dal deserto (2008) e, con le Sorelle povere di Santa Chiara, Dio scommette su di noi. Pregare con don Tonino Bello (2013).
edizioni la meridiana
Tanta Vita Storie meticce da una città plurale
Betta Tusset, laureata in lettere moderne, è attiva nel mondo del volontariato sociale; dal 2018 al 2020 ha coordinato nella sua città un progetto di inclusione sociale, abitativa e lavorativa per persone migranti in situazioni di vulnerabilità. È autrice del romanzo breve Chiuditi Cerchio (2002). la meridiana
Insieme hanno pubblicato numerosi testi sul conflitto israelo-palestinese e su storie di donne e uomini alla ricerca di una vita migliore.
ISBN 978-88-6153-841-2
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Euro 16,50 (I.i.)
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Nandino Capovilla – Betta Tusset
Tanta vita
Storie meticce da una città plurale Presentazione di Gianfranco Bonesso
edizioni la meridiana
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Indice
Introduzione 9 Presentazione di Gianfranco Bonesso 11 Andrea 17 Maria e Giovanni 26 Salvatore 35 Emilia 45 Amadou 50 Alessandra 58 Nandino 64 Gabriella 72 Alpha 78 Patrizia 86 Badji 97 Betta 107 Sonja 114 Elia 122 Glossario dell’amicizia sociale 129
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Introduzione
Volti giovani e vecchi di donne e uomini dai nomi strani e nostrani, dai gesti ribelli e pacati e tristi, frutto di sogni e silenzi e arresti. Scampoli di vita intrecciata sui fili del voglio e ci penso e non sono. Case e parchi e condomini e strade di questa città non solo antica, di questa nostra città cambiata da un tempo di incontri e scontri e di chiusure e slanci, di abbracci impossibili e di possibili, auspicabili, domani. Desideri e risate e imbarazzi e pianti, profumi di cibi mescolati a canti e a preghiere per i vivi e per i morti. Sospiri e speranze e fatiche e vittorie vissuti insieme in/con/su/tra le soglie della vita. Con l’impegno e lo stupore con il cuore e con la testa con i ricordi e gli affanni e le passioni tutte e tutti noi siamo e stiamo. Qui e ora. Betta e Nandino
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Presentazione
Avventurarsi nel libro di Betta e Nandino significa cogliere fin dall’Introduzione il desiderio di considerarlo un contributo al “piacere” del pensare e del cercare: non una lezione quindi, non un modello, non una statistica o un’indagine sociologica. I lettori troveranno quattordici storie molto diverse: una pluralità di soggetti e di vicende esistenziali. Tutte le storie portano con sé, sottotraccia, alcune questioni e parole chiave con cui Nandino si confronterà con l’enciclica Fratelli tutti, delineando un possibile Glossario dell’amicizia sociale. Proviamo a vedere, quindi, che cosa accomuna queste storie e come tracciare alcuni percorsi per attraversarle meglio. Innanzitutto una unità di tempo, il primo anno della pandemia, che enfatizza le speranze, le emozioni e costringe a riflettere maggiormente su di sé, a partire da una condizione che riduce le relazioni sociali “in presenza”. È in questa contemporaneità che i due autori si muovono, con attenzione e rispetto, per raccogliere le storie. Il tempo, i tempi hanno un’importanza forte: quali sono per le persone le strategie di fronte alle sfide della modernità? Quanto pesano presente, passato, futuro nelle vite attuali? Un primo effetto di questa raccolta è la sensazione straordinaria della sincronicità: tutto avviene nello stesso momento, in luoghi molto vicini; questo mosaico vuole essere la rappresentazione del “qui e ora”, con i sentimenti pulsanti della vita, sottotraccia. Tanta vita, appunto. E poi, altro elemento comune, una unità di luogo: quella di una città straordinaria per la sua storia, che contiene – dentro i suoi confini – eccezionali differenze ambientali e architettoniche, che è circondata da periferie post-industriali e residenziali ma anche dai paesi della campagna veneta, “la pianura infini11
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ta, dove non ci sono salite e discese, solo cavalcavia”, come dice Giovanni. Ma è nello stesso tempo una città “ordinaria” in cui si vivono le potenzialità e le criticità delle altre città del nord Italia. Gli scorci e i luoghi reali fanno da scenario ai racconti: sono i davanzali degli edifici a torre che danno sulla ferrovia, sull’orto urbano autogestito, sul viottolo che porta ai condomini. Sono le distese d’acqua dove, in una delle storie, Salvatore si ferma a catturare il primo sole per un autoscatto da postare. Tutti luoghi così diversi e così vicini, dove si costruiscono le “comunità”. È anche la dimensione del luogo che avvicina, che rende comuni gli orizzonti e possibili le relazioni. Comunità grandi, che ne racchiudono altre più piccole, percepibili nella strada che va dall’abitazione alla chiesa, alla scuola. Comunità di paese, dove la piazza rappresenta l’arena dove tutto si dipana e passa. Lo spazio umanizzato rende possibili i rapporti di vicinato, coltivabili e trasformabili in vere relazioni di prossimità, come nel racconto di Maria e Giovanni. Nandino e Betta provano a farci sentire il “respiro” di tutte queste esistenze vicine: anziani, giovani, preti, mamme, scout, immigrati, disabili perché, come dice Elia: “Il bello di appartenere ad un luogo è sentirne il respiro, è contribuire a renderlo una membrana porosa e non impermeabile”. Tanta vita quindi. Tre volte ripetuta con questo abbinamento di parole così possenti. Alpha, nella sua storia, si riferisce alla pluralità di trasformazioni e di eventi che lo hanno portato dall’Africa, allo scarto tra il qui e lì, tra allora e ora: “Sono così diverse queste due realtà, quella di allora e questa di adesso. In mezzo, tanta vita”. Betta sottolinea la ricchezza del “tanta” riferendosi alla molteplicità, alle novità e alle possibilità: “Mi appassionavo e mi interessavo al mondo, ai diritti di tutti e tutte e alla tanta vita che mi stava intorno”. La “tanta vita” di Elia, “cigno nero tra cigni bianchi”, rimanda alle esperienze vitali degli altri: “Tutte le persone che si sono dimostrate limpide, aperte e libere nei miei confronti sono quelle che si sono immerse in tanta vita”. Lui sente che da lì, dall’esperienza aperta e plurale, viene maggior comprensione verso questa sua esperienza di amore ancora discriminato. 12
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Eccoci quindi alle storie: quattordici, comprese quelle degli autori, che hanno voluto contribuire al mosaico delle differenze mostrando le loro stesse esperienze. Sette storie di donne, sei di uomini, una di coppia il cui dialogo era talmente intrecciato da potersi rappresentare solo in questa dimensione duale. Narrazioni, non trascrizioni asettiche e traduzioni letterali: piuttosto il frutto dell’incontro tra i protagonisti narratori e i due raccoglitori di storie. La memoria di un dialogo resa attraverso parole appuntate sul quaderno. Ai due autori il compito dello stimolo a raccontare attraverso la proposta dei temi e la creazione di un clima di confidenza, libertà e rispetto. Ma anche il compito di rileggere il testo finale con il protagonista, finché non si arriverà ad una rappresentazione pienamente condivisa. Betta si assume la responsabilità di trasferire l’oralità di quel momento in un segno, in uno scritto. Vengono rappresentati anche il fluire del pensiero, che sarà riportato in corsivo, e perfino le contraddizioni con cui si esprime il protagonista. Vengono restituiti anche l’atmosfera di quel momento e i dettagli irripetibili: la stanza del colloquio, gli oggetti e i cibi per l’ospite, la vista dalla finestra, il particolare silenzio della piazza, il colore della giornata e lo sguardo del protagonista, le casualità del momento, l’arrivo di un amico inatteso, l’appuntamento incombente con la parrucchiera, la preparazione delle arancine di riso.
Le aree sensibili Il lettore si chiederà come sono scaturite le storie, perché quei testimoni su quei temi. Nandino e Betta, nella loro ricerca della complessità, hanno scelto fra le possibili modalità di raccolta delle diversità alcune “aree sensibili della vita sociale e individuale”. Ed è su queste aree, attingendo alle reti di conoscenze, che hanno scelto i protagonisti. Le aree sensibili possono richiamare temi forti come l’umanizzazione e il senso da dare alla morte; oppure la possibilità di vivere liberamente le relazioni d’amore, quindi an13
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che l’amore e il desiderio di persone dello stesso sesso. Altri temi riportano i grandi fenomeni sociali contemporanei, che nei loro vissuti individuali acquistano la forza di esperienze umane uniche: la migrazione per esempio, sia che avvenga da altri continenti o dal meridione italiano, con tutte le varianti nel ricostruire un progetto di vita e mantenere i legami con le radici. Il lettore troverà storie che narrano il solco tra generazioni, giocato anche nei conflitti interiori nel seguire il proprio progetto di vita che talvolta non coincide con quello delle generazioni precedenti. Al centro di molte narrazioni le modalità di vivere la famiglia e il rapporto con i figli: un tema che ruota intorno all’identità al femminile, talvolta fino ad arrivare alle radici della subordinazione, magari segnata da lontane storie familiari. Non manca la rappresentazione del vissuto della disabilità con tutto il disagio, la tensione e la ricerca di equilibrio che questa comporta, specie nel rifare i conti su cosa sia davvero “normalità”. Tra i temi selezionati anche la capacità di accoglienza e i modi della convivialità, il legame con la terra generatrice come spazio sociale e bene comune, l’uso del tempo, il senso di prendersi cura e il significato di comunità. Betta e Nandino hanno deciso, con convinzione, di non cercare sequenze di esistenza ideali: non modelli esemplari, quindi, ma piuttosto esempi di storie vissute, con tutte le loro incertezze e contraddizioni; la dedizione al figlio può diventare unica ragione di vita, la fedeltà alle origini può essere vista anche come una gabbia per la nuova consapevolezza a cui si è arrivati. Certo le storie, che il sottotitolo definisce meticce, possono mostrare anche le strategie di fronteggiamento delle criticità. Così Andrea nel voler vivere qui la sua cultura colombiana: “Ma io posso regalare uno sguardo altro, il mio, a questa società eurocentrica. E, tipo, decidere che oggi si cena alle 21.30”. Oppure si sottolinea un cambiamento a cui si è arrivati sentendone anche il piacere e non solo il “dover fare” della regola: “Io sono cambiato, sono diventato anche puntuale e mi piace” (Amadou). 14
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Ogni storia riporta una sorta di conclusione narrativa: una riflessione finale, una sfida, un’immagine, un salto nelle radici familiari, un’illuminazione, un cespuglietto di violaciocche inattese, un programma di incontro familiare, un vestito ritrovato, una candidatura a “zia elettiva”. Gli epiloghi tutti diversi, tutti legati al ritmo della vita e alle riflessioni che la storia ha portato, in qualche modo richiamano anche le sorprese che la vita può concedere e le sfide che può offrire.
Dalle storie al Glossario di amicizia sociale Dalle storie narrate parte un secondo percorso, che supera le vicende dei singoli. Attraverso parole chiave rintracciate nelle narrazioni Nandino, con attenzione, cerca risonanze nell’enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”. Quattordici storie, quattordici parole chiave scelte per interrogare l’enciclica. Se le storie fotografano la contemporaneità variegata, si cerca in questo secondo percorso di capire se e quanto si possa ricomporre la complessità, trovando qui sintesi, percorsi etici, ma anche passaggi più incerti, domande che rimangono aperte come la questione del rapporto tra le donne e la Chiesa, o l’amore tra persone dello stesso sesso. Quindi, dall’esperienza al testo meditato, una ricerca di corrispondenze, di senso e significato. Più che di trasversalità, possiamo parlare di dialogo tra testi. Attraverso le parole chiave si ritorna alle aree sensibili, ricostruendo nel Glossario un pensiero di convivenza, di giustizia, di cosmopolitismo, di accoglienza, di cui i testimoni narratori ci hanno parlato prima, in diretta dalle loro vite. Qui si può ritrovare, più esplicita, la dimensione collettiva, sociale appunto, oltre a quella individuale che spicca nelle narrazioni. Il passaggio da aree sensibili a parole chiave che diventa glossario ragionato è un passaggio di senso, un “poter essere” e un “poter fare” che si misura anche con alcune voci particolarmente complesse come sottomissione, protocollo, ospitalità, rispetto, vincoli d’amore, comunità plurali. Il Glossario rappresenta 15
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quello che le storie potevano far solo intuire: il proposito di una “amicizia sociale” che in qualche modo è una rappresentazione della stessa esperienza concreta del dialogo tra i due autori e i protagonisti delle storie: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto (Fratelli tutti)”. Gianfranco Bonesso
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Andrea
ovvero del protocollo
Affacciata al balcone del suo appartamento, guarda e pensa, pensa e guarda: la ferrovia, le alte torri intorno al suo condominio, l’azzurro incerto del cielo e il grigio dell’asfalto. Lì sotto, in un pomeriggio di inizio autunno, al tempo del Covid-19. Le vie del quartiere, dove la vita scorre e corre rapida nelle vene degli abitanti che lo popolano e i pochi negozi, che tanto l’Alì fa per tutto. “Il quartiere più multietnico della città”, dicono: e lei pensa che sì, è così, vedendo incamminarsi i ragazzini cinesi al parchetto, per fare qualche tiro a canestro in quel quadrato adibito ad area giochi a fianco dell’orto. Più tardi scenderanno le mamme bangla vestite a festa, con i bambini; ancora più tardi sfrecceranno sul marciapiede le biciclette dei loro mariti, in andata o ritorno dal turno in fabbrica, quella immensa delle navi da costruire. Italiani e rumeni li distingue poco, per via dei colori che si confondono. E intanto lei è arrampicata lì, all’ottavo piano. Lei che, pur provenendo da una città di due milioni e mezzo di abitanti, non ha mai vissuto in un appartamento, perché il suo quartiere “caleño” è fatto di case singole con un cortile intorno. Respira forte: note salmastre arrivano dalla laguna poco distante e si confondono con il profumo di curry speziato della cucina del piano di sotto – forse Sonja sta preparando il biryani – mescolato a quello del ragù di Cristina. Sospira e in silenzio ascolta: ancora una volta mancano i suoni, in questa cavolo di città. Sorride, pensando che le sue amiche – e Fabio – la prenderebbero in giro per questo: mancano i suoni in questa città? In questo caos di incroci, strade e condomini tutti attaccati che li puoi rinchiudere in uno sguardo? Mancano. Mancano i clacson che strombazzano, la musica che risuona di finestra in finestra, i 17
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campanelli che irrompono nelle abitazioni, le voci che chiamano e cantano e ridono forte. Mancano i suoni e i rumori di Cali, la sua città caotica, popolosa, bellissima e violenta, manifesto di una Colombia ferita, ribelle e vitale. Sono trascorsi nove anni da quando Andrea è arrivata in Italia con Fabio e Samuel, che allora aveva sette anni, e non si è ancora abituata a quello che per lei qui è il silenzio vuoto di vita. Prima di arrivare in questa casa ha abitato in un paesino vicino: pensava che questo l’avrebbe facilitata nel conoscere gente, nel farsi delle amiche, anche se poi Fabio non era stato il suo “passaporto” per le relazioni amicali, come lei aveva sperato. Aveva dovuto fare da sola. “Vai al parco e troverai le altre mamme”, le diceva la maestra di Samuel. “Parla.” Ma lei andava al parco e nessuno le rivolgeva uno sguardo di invito. E come facevo a parlare, se non conoscevo i codici. Qui c’è il protocollo, quello che mi indica come mi devo vestire se voglio essere una signora.
Ha anche pensato, a volte, di provare a vestirsi “da italiana”, con accessori eleganti, con trucco e parrucco, ma per cosa, per andare a prendere i bambini a scuola? L’idea di bellezza femminile non appartiene solo agli italiani. Lo fanno in maniera carina, lo so. Sanno che qui l’apparenza conta. E io sono diversa, mi sento diversa, inadeguata. La mia fascia sui capelli mi distingue dalle altre. E a me va anche bene… perché io le vedo a scuola le altre mamme straniere, e c’è chi le considera confinate in un recinto invisibile fatto di sorrisi di circostanza, di stupore senza curiosità, di assuefazione al loro stare in disparte, tra loro e basta. Credono che tutte le donne migranti stiano zitte e timide, ma io no. Mi ricordo, alla festa dell’asparago, come mi guardavano quelle che poi sono diventate mie amiche: non sapevano 18
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come comportarsi con me, cosa farsene dei miei abbracci improvvisi. Potrei provare a cambiare il mio modo di presentarmi, ma non sarei più io. Io sono questa. E il mondo non è l’Italia.
Al suo Paese Andrea aveva una vita libera e piena: amiche, amici, l’università, le feste, le lotte. L’Europa non era un sogno, per quella giovane ventenne che ora, a trentasei anni, imbastisce bilanci provvisori con sguardo lucido e critico, affacciata su una città che sente sua e anche no. Continua a credere all’importanza di fare le cose insieme, di associarsi, soprattutto tra donne, di impegnarsi come cittadina per il bene comune. Cavolo, perché non ho aspettato a partire? Ad un certo punto della mia vita ho creduto che l’Europa sarebbe stata la mia libertà moltiplicata. Credevo che avrei avuto una vita di relazioni intense, ancora più piene di quelle che avevo in Colombia.
E invece. Andrea pensa a qualche giorno prima quando, insieme ad alcuni amici, è andata in un locale della città d’acqua. Le avevano detto “ti piacerà, è come te, fanno cucina etnica”. Ma lei non cerca l’etnico, non vuole scomparire in un altro protocollo, incasellarsi “tra i suoi simili”, in questo caso “alternativi” nel vestire e nel gustare cibi esotici ai loro palati. Quello è etno-chic. Ad un certo punto se n’è andata di corsa, tra lo sconcerto degli altri e lo sguardo sconsolato di Fabio. Sono gabbie, gabbie e ghetti, come fanno tutti a non accorgersene?
Per qualche tempo lei e Fabio hanno cercato di capire dove costruire il futuro insieme. Ma lui, che era andato a Cali per lavorare, non ci riusciva. Ad un passo dalla tesi è partita per amore. La sua famiglia d’origine è stabile economicamente, come lo possono essere le famiglie in un Paese in cui la vita è dura, impoverito da un colonialismo che ha devastato comuni19
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tà, ambiente ed economia. Ora lei si ritrova in questo appartamento con Fabio e i tre figli (nel frattempo sono arrivati anche Nesta e Noa, ora di sette e otto anni). E niente lavoro da sette mesi. Non l’ha detto ai suoi, sono loro ad essere in difficoltà economica a causa della pandemia, con l’impossibilità di tornare a trovare la famiglia come ha fatto solo una volta, dopo sette anni e solo perché la mamma le ha inviato i biglietti aerei. Ed è stata lei a venire qui per tre mesi, dopo che sono nati i bambini, perché li voleva conoscere. E pensare che all’inizio aveva ipotizzato che sarebbe andata in Colombia ogni anno, in vacanza. Ma al mio Paese, nella mia stessa situazione tanta gente sarebbe in difficoltà ancora più grandi. Invece qui ho comunque una vita degna: ho sempre una casa, i miei figli vanno a scuola e allora non posso neanche lamentarmi più di tanto. Però.
La luce del cielo si sta smorzando, comincia a fare umido. Stringe attorno al seno il golfino scuro, incrociando le mani sotto la gola piena. Qui ci si abbraccia poco, ci si tocca poco. Ci mancava anche il Covid, poi. Dicono il clima diverso, che da noi fa caldo e allora ci viene da abbracciarci.
Dà un ultimo sguardo a questo panorama che ormai è il suo, butta l’occhio nel caso compaia Samuel in fondo alla strada e rientra in casa. Ci sarebbe la cena da preparare. Mai piaciuto cucinare, né in Colombia né in Italia. I piatti colombiani, oh, ne è golosa. I buñuelos che preparava la nonna, una delizia. “Tipo frittelle?”, chiedono i bambini quando ne fa il nome. Tipo. Ma preparare lei da mangiare… perché dovrebbe piacerle per forza? Si è trovata a dover fare anche quello quando, dopo l’unico lavoro gratificante come mediatrice culturale nelle scuole, ha dovuto ripiegare sul lavoro-cliché per le donne migranti: pulire le case delle persone anziane e accudirle. Che choc, a pensarci. 20
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Ci sarebbero prima i piatti di ieri sera da lavare. E sistemare la casa, mettere un po’ in ordine. Se sua suocera suonasse all’improvviso alla porta, sicuramente farebbe un colpo: la sua casa è sempre lucida e perfetta. Qui c’è casino perenne. Decide di iniziare dai piatti. Va in camera, prende il suo smartphone, fa partire a tutto volume un bolero cubano e piange. Piange, insapona e ricorda. Fabio è rientrato e le ha detto di abbassare il volume. Ancora non l’ha capito? Come quella volta, quando era arrivata da poco e lei stava passando la scopa e ballava, con la musica al massimo. “Sono le quindici, fai piano Andrea, la gente dorme.” Al pomeriggio? La gente dorme e la disturbo perché faccio le pulizie e cerco di divertirmi con un po’ di musica? Altro che dormire, qui siete tutti morti prima di morire.
Ma qui non è come lì. Qui ci sono le regole. C’è il protocollo, anche per le pulizie. Si ricorda di quella volta, delle lacrime che le avevano ingorgato lo sguardo e bloccato i passi di danza, del senso di solitudine che aveva provato. Poi la musica la riporta ad altra musica, alla “musica decembrina” che suo padre e tutte le famiglie del quartiere ascoltavano a finestre spalancate per un mese intero, in attesa della Festa. Il pensiero allora rimbalza al suo primo Natale qui in Italia, in casa della suocera, con Samuel bimbo, spaesato come lei, e Noa nato da un mese. Gentilissima, sua suocera. Gentilissimi tutti, ma silenti. Educati e perfetti. La casa ordinata, incerata e disseminata di addobbi natalizi; la tavola sontuosa, sormontata da una tovaglia bianca, apprettata e linda; il centrotavola profumato e tanti bicchieri, posate, piatti e piattini; i segnaposto a marcare la seduta di ciascuno. I segnaposto? Ma se siamo sempre gli stessi, e veniamo qui ogni sabato sera a mangiare la pizza! Oggi abbiamo bisogno del nome?
“Dove sono gli altri?”, aveva sussurrato a Fabio, appena si erano seduti, ognuno di fronte al proprio nome. “Gli altri chi?” 21
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“Gli altri, non è una festa?” “Ma certo che è festa: è Natale, Andrea! Dai, mangia e divertiti.” Per loro era quella la festa, ecco: tutti seduti, in silenzio o a chiacchierare composti. Solo loro e tutta la sera a mangiare. Pesce. Buonissimo eh. Tutto buonissimo. Ma anche quella volta le era venuto da piangere: dove era la vita, lì? Aveva cercato di trattenere le lacrime, per rispetto di sua suocera, del lavoro che aveva fatto, di tutti loro… e poi non voleva fare la depressa. Dove erano i vicini, gli amici da invitare, con cui scambiarsi il cibo? Soprattutto non c’era la musica. Nel suo quartiere, a Cali, alla sera di Natale ogni casa metteva la musica a tutto volume, si faceva baldoria, si lasciavano i cancelli aperti per andare in visita e ospitare amici e vicini, donandosi a vicenda terrine colme di natillas. C’era tanta gente che si salutava allegra per le strade, musica e fuochi d’artificio: una festa. Andrea ripone le stoviglie sullo scolapiatti, sorridendo suo malgrado. In quella prima serata natalizia italiana, aveva desiderato andare a dormire presto. Poi, cercando di reagire alla sua tristezza, aveva chiesto di mettere della musica. Pensando di accontentarla, avevano acceso il televisore: trasmettevano un vecchio film natalizio in bianco e nero. Da lì ho capito che è proprio una questione di protocollo, di un modo differente di relazionarsi e darsi e seguire delle regole condivise di socialità. Anche gli appuntamenti con gli amici… quando ero ragazza, in Colombia, non ci si metteva d’accordo prima, si andava a casa di uno o dell’altra e si suonava direttamente alla porta di casa. Ma quando ero in Colombia non mi sentivo così colombiana come, a volte, mi sento qui. Mi sentivo un po’ superiore, non pensavo a rivendicare le nostre tradizioni. Ora un po’ mi mancano.
“Ti ricordi di quando, davanti ai tuoi parenti, ti facevo una carezza e tu ti imbarazzavi?”, chiede improvvisamente a Fabio, raggiungendolo sul divano con una ciotola di patatine. 22
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“Come no, ma ora non faccio più così, ti conosco, lo so che sei fisica, sei così tu, vieni da un popolo aperto.” E Fabio ride, guardando la sua donna inquieta, sempre intenta a interrogarsi e cercare un posto dove sentirsi bene. Ma lei si incupisce. “Non sono la persona aperta e rivoluzionaria che credevo di essere in Colombia. Lo sai che stamattina una persona mi ha dato della razzista?” “Della razzista? A te?” “Sì. Ha detto che sono razzista verso gli italiani, perché ce l’avevo con quelli che calpestano i diritti degli altri, e intanto sono dei privilegiati. Tipo, non sono tollerante verso i leghisti, forse dovrei, perché magari neanche si accorgono di essere dei prepotenti. Magari, se cambio io, cambiano anche loro. Forse. Mah.” “Mmh. Tu cambiare?” “Beh guarda, per esempio. Sai che ora non riuscirei a sopportare che sempre, sempre le mie amiche venissero in casa senza avvisarmi prima e a qualsiasi ora? Forse mi sono abituata a certe cose. A volte ho bisogno di chiudere la porta di casa nostra e stare un po’ da sola. Sarà l’età. Questa è una cosa che ho imparato ad apprezzare qui, ha anche i suoi vantaggi.” “Ma va? Allora l’hai capita. Stai diventando italiana!” “Anche il rumore, sai… Mi sa che se tornassi per un po’ in Colombia, come tre anni fa, sarei contenta del casino per le strade. Ma proprio ogni giorno no, credo. Comunque. Aspetta, ma cosa hai detto! Io, italiana?” “Sei italiana, stai diventando italiana”, le ha detto Fabio e le dicono molte persone, ora. In fondo i tratti somatici non la identificano poi così nettamente come “forestiera”, qui. Ma cos’è essere italiana oggi? Come si misura l’italianità? Quando sono tornata in Colombia, nel 2017, la mia testa era ferma a quando ero partita. Ma io ero cambiata, nel frattempo. Ed erano cambiati tutti gli altri. Le mie amiche avevano fatto esperienze diverse dalle mie. E poi… incredibile: mi mancava il senso del rispetto delle cose degli altri. Mi man23
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cava perfino il cibo italiano. Qui mi manca il caos, ancora mi manca.
“Puoi chiedere a tua mamma se ci porta un po’ di fegato alla veneziana, la prossima volta che viene? Non lo vuole mai fare, perché dice che la dirimpettaia si lamenta della puzza di cipolle. Però è buono. Magari anche con la polenta. Dai, vai a chiamare i bambini al parchetto. Li ho lasciati con Chiara, che è venuta a vedere un po’ come va l’orto di quartiere, ma ora è quasi buio.” Ora che è di nuovo sola in casa, potrebbe riaccendere la musica, ma non ne ha più tanta voglia. Ci sto bene per forza, qui. Che altro potrei fare? Devo all’Italia il gusto della bellezza, della bellezza profonda, la possibilità di godere di una cultura che è accessibile a molti, se non a tutti.
Perché la cultura allontana dalla violenza, dona la capacità di percepire le sfumature. Il suo popolo, invece, ha la vita stravolta da soprusi e prepotenze: il governo neoliberista, sostenuto dai paramilitari, non permette di vedere il mondo con altri occhi. E si impara ad odiare, non a gustare il mondo. L’Italia dà la possibilità di diventare e restare umani, se si vuole. Andrea spera che i suoi tre figli possano apprezzare questa possibilità, piano piano, crescendo. E spera che le lotte e gli ideali per cui si è battuta e si batte al di qua e al di là delle sponde oceaniche diventino anche i loro. Due giorni fa, in Colombia, hanno ucciso un docente di storia che apparteneva alla resistenza, bruciando libri sopra il suo corpo senza vita. Il suo Paese è anche questo. Qui in Italia, almeno, difendere l’acqua, l’ambiente, i diritti di tutte e tutti non porta ad essere uccisi, cioè… non con la stessa facilità. Però si arrabbia, si arrabbia sempre quando le sue amiche italiane, anche quelle che sente più vicine a lei, non vivono con la sua stessa trepidazione le battaglie femministe che sono ancora da compiere. Perché l’Italia è ancora e molto un Paese misogino, maschilista e provinciale. E molte donne non lo avvertono, non difendono con grinta i diritti che le loro nonne e madri hanno 24
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conquistato tra sofferenze e fatiche. Dicono “non serve più, non abbiamo bisogno”. Sono italiana, ha detto Fabio? Mi sento un ibrido, ora. Sono diversa, e questo mi fa star male. Noi diversi dovremmo farci vedere per quello che siamo; solo così la nostra diversità può naturalizzarsi. Bisogna fare resistenza all’omologazione, anche a quella estetica. Sono stufa di inseguire il fenotipo italiano, di cercare l’eleganza in una pettinatura o in un tacco. Voglio rispettare me stessa. Non voglio cambiare la persona resistente e battagliera che sono. Non lo farò mai. Al mio Paese devo la capacità di essere critica ed empatica. Io. Sono. Latinoamericana. E anticolonialista.
Ecco lo scatto dell’ascensore, oltre la porta. Samuel e i suoi crucci stanno tornando. Cosa fare per lui e con lui, come vivere insieme questa differenza, che soprattutto loro due percepiscono forte? Mentre sente il suo passo finto-strascicato avvicinarsi alla porta, Andrea ha un sussulto, una piccola chiarezza: si può essere e rimanere differenti e proprio per questo fare la differenza, regalandola. Non è colpa di Fabio se è europeo, se è un privilegiato. Ma io posso regalare uno sguardo altro, il mio, a questa società eurocentrica. E, tipo, decidere che oggi si cena alle 21.30.
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“Case e parchi e condomini e strade di questa città non solo antica, di questa città cambiata da un tempo di incontri e scontri e di chiusure e slanci, di abbracci impossibili e di possibili, auspicabili, domani.”
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N. Capovilla – B. Tusset
Nandino Capovilla Betta Tusset TANTA VITA
Nandino Capovilla è parroco a Marghera (Venezia). Dal 2009 al 2013 è stato coordinatore nazionale di Pax Christi Italia. Ha pubblicato Un parroco all’inferno. Abuna Manuel tra le macerie di Gaza (2010); ha curato il volume di Michel Sabbah Voce che grida dal deserto (2008) e, con le Sorelle povere di Santa Chiara, Dio scommette su di noi. Pregare con don Tonino Bello (2013).
edizioni la meridiana
Tanta Vita Storie meticce da una città plurale
Betta Tusset, laureata in lettere moderne, è attiva nel mondo del volontariato sociale; dal 2018 al 2020 ha coordinato nella sua città un progetto di inclusione sociale, abitativa e lavorativa per persone migranti in situazioni di vulnerabilità. È autrice del romanzo breve Chiuditi Cerchio (2002). la meridiana
Insieme hanno pubblicato numerosi testi sul conflitto israelo-palestinese e su storie di donne e uomini alla ricerca di una vita migliore.
ISBN 978-88-6153-841-2
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9 788861 538412
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