Un nido per amico. Come educatori e genitori possono aiutare i bambini a diventare se stessi

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Grazia UN NIDO Honegger Fresco PER AMICO Come educatori e genitori possono aiutare i bambini a diventare se stessi

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Indice

Introduzione.................................................... 7 Parte Prima UN BAMBINO E LE SUE RICHIESTE L’originalità di ogni essere umano ................. 12 Al Nido nei primi mesi .................................. 17 La conquista dei movimenti........................... 23 La conquista della parola............................... 30 Parte Seconda IL BAMBINO HA DIRITTO A CURE, RELAZIONI E LUOGHI DI QUALITÀ

La cura sociale e le relazioni .......................... 38 Benessere, appagamento, personalizzazione.... 43 Compartecipazione e alleanza nella crescita del bambino ............................. 54 Organizzare l’ambiente in funzione dello sviluppo.............................. 62 Aiuti al linguaggio nel secondo e terzo anno................................ 71 Parte Terza BAMBINI, ADULTI E VITA DI GRUPPO: VIVERE LA QUOTIDIANITÀ CON LEGGEREZZA

Il gruppo al lavoro.......................................... 78 Quale programmazione?................................ 87 Appendice ...................................................... 99 Suggerimenti bibliografici.............................102


Introduzione

La conoscenza del bambino piccolo è ancora tutta da costruire

Il primo periodo di vita riguarda direttamente ciascuno di noi, fa parte della nostra storia personale più profonda, eppure (o forse proprio per questo) può apparire il più ovvio e il meno interessante. Non è un caso che ovunque, perfino se mediocre, un professore universitario sia più valorizzato di un’educatrice di bambini molto piccoli, apprezzamento che si traduce in denaro, tempo libero, facilitazioni, prestigio. Nonostante il carico di responsabilità di chi si occupa dei primi anni di vita di un bambino sia molto alto, così come delicato il suo compito, resta purtroppo sottovalutato sotto il profilo sociale perché considerato ovvio nella sua specificità femminile (le educatrici sono solitamente donne!). Un mestiere che richiede una raffinata e approfondita professionalità e la capacità di vedere l’enorme ricchezza esistente in ogni neonato, in ogni piccolo bambino. Da quello stato di apparente e immota incapacità propria degli inizi, è lui stesso che nei primi due anni di vita mette le basi all’individuo che diventerà e lo fa grazie alle cure, alle attenzioni che riceve. Non si sceglie, quindi, un tale impegno educativo solo perché “piacciono i bambini”, ma lo si fa nella consapevolezza che ci si andrà ad occupare della crescita di singole persone e del loro futuro benessere, con forti ricadute sul sociale. UN NIDO PER AMICO

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Il compito di un educatore della prima infanzia è quello di saper vedere in tutti i suoi aspetti la peculiarità della crescita iniziale, senza la quale si rischia di perdere di vista l’esistenza umana. Oggi sul bambino piccolo si scrivono fiumi di parole: esistono migliaia di ricerche in tutto il mondo, testi di pedagogia rivolti ai genitori o di psicologia per addetti ai lavori; si dice molto, eppure ancora non c’è un vero riscontro nella pratica educativa. Sempre più invadenti le mode che lo “tirano” verso l’età successiva, nel tentativo assurdo di accelerare, di saltare le tappe. Termini come “stimolo”, “stimolare” o “stimolazione”, che riportano all’idea di un essere “vuoto”, “creato” dall’adulto, sono diventati parole d’uso comune nel modo di trattare il bambino, alla stregua di un meccanismo che deve funzionare bene e a tempo, in sintonia con una realtà sociale, in cui denaro/potere e sport/competizione/spettacolo dettano le leggi di comportamento. Troppo spesso l’essere umano viene paragonato – secondo una visione meccanicistica originata anche da un certo modo di intendere la medicina – ad una sorta di macchina, le cui funzioni fisiologiche sono guidate dal computer cerebrale. C’è qualcosa di vero in questa immagine, eppure l’essere umano è ben complesso ed è rischioso pensare al corpo come ad un insieme di parti ricambiabili, alla malattia come disfunzione di un organo, alla gravidanza e al parto come stati potenzialmente patologici, alla maternità come deposizione – artificiale o no – di spermatozoi in un utero “in affitto”, da controllare di continuo con esami medici ed ecografici. Il modo attuale di considerare il vivente conduce facilmente a concetti di omologazione se non, addirittura, di clonazione: l’ideale sarebbe forse avere (o produrre?) individui uguali, quindi più facilmente dominabili? Si sa che la scuola di tipo tradizionale – pubblica o privata che sia, sempre molto direttiva – è la più diffusa: non a caso vuole classi omogenee e bistratta sia gli svantaggiati che i geniali, sottovalutando le diversità biologiche e psicologiche proprie di ogni essere umano. Viene da chie8

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dersi: non è anche questa una oscura e pesante forma di razzismo? Noi per i bambini piccoli vogliamo altro. Maria Montessori (1870-1952), scienziata ricca di lungimirante umanesimo, ha sempre ribadito, e con forte anticipazione, l’unicità dell’essere umano, il rispetto dovuto all’originalità di ciascuno e quindi l’importanza di favorire l’indipendenza e la libertà di pensiero. Da quando cominciare? Lei lo ha detto con chiarezza: “Dalla nascita!”, aiutando ogni nuovo nato a seguire i propri ritmi autoregolativi, le proprie esigenze profonde. “Il bambino come uomo che lavora, come vittima che soffre, come compagno migliore di noi, che ci sostiene nel cammino della vita, è una figura ancora sconosciuta. Su di essa esiste una pagina bianca nella storia dell’umanità. È questa pagina bianca che noi vogliamo incominciare a riempire”1. La realtà è che, ancora nel 2007, non possiamo dire di averla scritta. La cultura del bambino piccolo è ancora in gran parte da scoprire, da costruire, da far conoscere. Tuttora si oscilla tra il modello igienico-sanitario e il modello scolastico, entrambi autoritari. Non sappiamo che cosa sia lo sviluppo al naturale di ogni bambino che nasce nella nostra “Supernatura”2, sempre più artificiosa e perfino virtuale, falsamente vicina e priva di contatti autentici. Il rispetto di ogni essere umano al suo inizio è ben lontano dall’essere realizzato. Il neonato, come il bambino del primo e del secondo anno di vita, è tuttora poco riconosciuto come persona che sente e che comunica, soprattutto nella pratica educativa. “È al bambino dei primi anni che dobbiamo rivolgerci”. Maria Montessori lo ha detto più

1. Cfr. Montessori, 2000, p. 7. Questo breve testo fu pubblicato per la prima volta in tedesco a Vienna nel 1923 con il titolo Das Kind in der Familie. 2. Termine coniato dalla Montessori per indicare il mondo che la cultura occidentale nel corso dei secoli ha costruito “al di sopra” della natura, a spese della biosfera e di altri gruppi umani. Cfr. Montessori, 1993, p. 11; Id., 1999, p. 15.


volte nel corso delle sue esperienze, in particolare lo ha ribadito nei corsi indiani e in quelli tenuti a Perugia e a Roma tra il 1950 e il 1951, quando, verso la fine della sua vita si sentiva rafforzata nelle sue intuizioni da ciò che stava accadendo nella “Scuola Assistenti all’Infanzia Montessori” (AIM), da lei fortemente voluta e realizzata a Roma, a partire dal 1947-1948, con la collaborazione della sua allieva Adele Costa Gnocchi (1883-1967)3. Erano anni – in un’Italia appena uscita dal fascismo e dalla terribile seconda guerra mondiale – di grande fervore culturale e di speranza: quella scuola in ascolto dei neonati ha segnato in profondità la vita di molte sue allieve alla ricerca di nuovi criteri di formazione umana. Ancora una volta controcorrente, Montessori aveva affermato, già decenni prima, che enfatizzare gli aspetti fisiologici del bambino nei primi anni, minimizzando quelli sensoriali e psichici, significa di fatto negarlo. Attraverso Costa Gnocchi le assistenti, che si occupavano dei neonati e dei bambini più piccoli, realizzarono in concreto i modi per favorire la loro integrità e complessità. E se per esigenze specifiche di studio si prendeva in esame ora il corpo, ora l’intelletto, lo sviluppo motorio o i sensi, la persona intera si ricomponeva di continuo sotto i loro occhi, grazie all’osservazione che le allenava a cogliere segnali anche minimi di risposte sensoriali, di bisogni, di capacità relazionali. Dieci anni più tardi, quando la Scuola AIM divenuta statale, Adele Costa Gnocchi fondò a Roma il Centro Nascita Montessori per approfondire ulteriormente lo studio del bambino, affidandone la direzione a Elena Gianini Belotti, una delle sue allieve, che con grande competenza mantenne tale impegno fino al 1980. Come dalle esperienze di Maria Montessori al San Lorenzo con i bambini da 3 a 6 anni

3. Chi volesse sapere di più su questo grande impegno formativo può leggere Honegger Fresco, 2001.

quando aveva saputo vedere quello che era sotto gli occhi di tutti e che nessuno notava, così quelle giovani donne scoprirono nei piccoli da 0 a 3 anni facoltà biopsichiche, presenti fin dagli inizi della vita, ma che “gli addetti ai lavori” sembravano incapaci di vedere. Dalla seconda metà del Novecento a oggi lo studio del bambino piccolo è progredito enormemente al punto che, ben prima della nascita, risultano chiari i segni delle sue esigenze. Lo rivelano i cosiddetti “grandi immaturi”– i neonati di soli 500, 600 grammi – quando sono seguiti con una umanizzazione pari alla raffinatissima competenza tecnico-scientifica, indispensabile a salvarli. In taluni centri4 l’attenzione, sempre più delicata, alle esigenze sensoriali primarie e la forte valorizzazione della presenza materna portano ad una riduzione al minimo di pratiche invasive, con risultati notevolissimi sul piano dello sviluppo e del legame genitori-bambino. Il libro che presentiamo nasce dall’esigenza di far conoscere meglio le idee-guida Montessori in difesa dello sviluppo dei più piccoli e di diffonderle maggiormente. Va ricordato che negli Stati Uniti il progetto di Adele Costa Gnocchi è conosciuto da oltre vent’anni, grazie all’impegno intelligente di un gruppo di donne: dapprima Rita Brandimarte Messineo, anche lei allieva diretta di Costa Gnocchi nella Scuola AIM di Roma, Pamela Wise, Virginia Varga di Dayton (Ohio), oggi molto nota negli USA per la formazione degli educatori per i bambini 0-3 anni e Carole Wolfe Korngold che, creando a New York nel 1976 il Center for Montessori Teacher Education/New York (CMTE/NY), ha voluto espandere la formazione Montessori dai primi anni fino alle soglie dell’adolescenza in numerose regioni americane. Le proposte qui evidenziate sono frutto del

4. Ad esempio i reparti di maternità centrati sul bambino e sulla coppia genitoriale come nell’ospedale di Cittiglio (VA) del “S. Gerardo” di Monza oppure in quelli di terapia intensiva nel “S. Chiara” di Trento, e ancora a Varese, a Napoli, a Trieste, ecc.

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lavoro pluriennale di molte persone – in particolare Anna Maria Batti, Rita Carusi, Anna Di Palermo, Maria Pia Fini, Maria Rosa Muzzarelli, Sandra Scassellati e io stessa – appartenenti al Centro Nascita Montessori, continuatrici del lavoro di Costa Gnocchi con ruoli diversi. Le vaste e dirette esperienze con i bambini e con le educatrici del Centro, di continuo discusse e verificate in circostanze e in zone diverse, sono garanzia della qualità di una tale visione educativa, la stessa che, in forme analoghe da circa vent’anni, è stata adottata dal gruppo dei formatori dell’Associazione “Percorsi per Crescere” di Varese – oggi Cooperativa ONLUS. Anch’essi – sulla stessa linea di ricerca centrata sui bisogni del bambino – hanno attuato non poche azioni di cambiamento in Nidi, pubblici e privati, del Nord Italia. Di questo gruppo ringrazio in particolare Mariangela Gianni5 per il grande aiuto datomi nel dire “tanto in poco”, attingendo generosamente alla sua esperienza e alla sua lucida, appassionata capacità di far crescere gli adulti in questo delicatissimo lavoro. Il presente testo è destinato agli educatori e ai genitori, con l’intento di dar voce ad un agire comune, basato sull’attenzione alla relazione con l’altro – il bambino, ma non solo – nel convincimento che solo il rispetto autentico della persona, di ogni persona, possa produrre quel fecondo mutamento dell’intervento educativo che da lunghi tempi ormai auspichiamo.

5. Già coordinatrice del Nido comunale di Caronno Pertusella (VA), è oggi funzionaria in tale comune nel settore Servizi educativi, Istruzione e Sport.

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PARTE Un bambino PRIMA e le sue richieste


L’originalità di ogni essere umano

La difficoltà maggiore per capire la realtà dei bambini più piccoli è dovuta al fatto che gli infanti – vocabolo di origine latina che significa “senza parola” – non sanno esprimere verbalmente le loro esigenze (anche se una madre sa perfettamente mettersi in comunicazione con il suo bambino). Il pregiudizio più diffuso che ne segue è che un lattante o un piccino di un anno o poco più sono esseri incomprensibili e potenzialmente capricciosi. In questo nostro percorso cercheremo di vedere i segnali della loro capacità comunicativa, in apparenza misteriosi, di fatto diversi da bambino a bambino, ma ben riconoscibili, che emergono tanto più quanto l’ambiente li favorisce. Esamineremo anche l’irripetibilità, la non rinviabilità delle esperienze infantili (un bambino non ascoltato, non seguito con rispetto, diventa “difficile”, piange spesso, dorme male...). La psicologia dinamica dello sviluppo ribadisce oggi qualcosa che le montessoriane del gruppo romano sapevano già sulla base delle osservazioni e dell’esperienza: “Ciascuno alla nascita è unico e ha un proprio stile”6. Le cosiddette tappe evolutive inaugurate da

6. Sono parole di Luigia Camaioni, già docente all’Università “La Sapienza” di Roma. Vedi il suo ottimo testo divulgativo L’infanzia, 1997.

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Piaget e da altri ricercatori, prese troppo alla lettera, hanno portato a focalizzare l’interesse su ciò che il bambino sa fare (e se non sa, tutti si allarmano!), trascurando invece come lo fa. Nel primo caso si elencano competenze o incompetenze, abilità e deficienze; nel secondo si riconosce il fatto che ogni individuo arriva a sviluppare dall’interno le proprie capacità, seguendo un percorso e un ritmo del tutto personali. Questo significa che, invece di parlare di bambini precoci o lenti, capaci o incapaci rispetto a certi standard, si deve constatare che essi manifestano le loro abilità in modo personale e unico, diverso ciascuno nella parola, nel movimento, nelle relazioni famigliari o sociali. Sappiamo anche da ricerche etologiche che tali conquiste progressive avvengono sulla base di speciali sensibilità interne limitate nel tempo, osservate da Maria Montessori e da lei chiamate “periodi sensitivi”. Sono essi che, nella molteplicità delle percezioni ambientali, guidano il bambino: l’interesse a sperimentare il movimento, il linguaggio, l’ordine (ovvero la stabilità e la ricorrenza delle percezioni) ha stretta corrispondenza con quanto avviene all’interno della persona, da cui lo sviluppo individuale si muove e si organizza7. Come dalle forze originarie e “totipotenti” dell’uovo fecondato si sviluppa, nella protezione dell’utero materno, prima l’embrione, poi il feto, così dal neonato – nuovo a tutto, ma ricco di straordinarie quanto invisibili potenzialità – si sviluppa, a spese dell’ambiente, un bambino che pone le basi al suo vivere indipendente dalla madre. Nel giro di due anni conquista il linguaggio, la posizione eretta, le prime abilità manuali; la capacità di distinguere il noto dall’ignoto e di intessere le prime relazioni affettive e lo realizza in modo personalissimo sulla base del proprio corredo genetico, delle relazioni con i genitori, delle

7. Oggi si usa piuttosto il termine “periodo sensibile” o “critico” o anche “finestra”: il concetto richiama al fenomeno secondo cui nel corso dello sviluppo – animali o umani – manifestano sensibilità temporanee, biologicamente finalizzate a determinate acquisizioni. Una volta raggiunte queste, la sensibilità scompare.


prime esperienze di sicurezza e di protezione, a partire dal latte materno. Scrive Maria Montessori: Il neonato intraprende un lavoro formativo che, nel campo psichico, ricorda quello avvenuto per il corpo nel periodo embrionale [...]. Questo periodo post-natale, che si può definire il “periodo formativo”, è un periodo di vita embriologica costruttiva che rende il bambino un Embrione Spirituale. Così l’umanità ha due periodi embrionali: uno prenatale simile a quello degli animali, e uno postnatale esclusivo dell’uomo8.

È bellissima questa immagine di embrione spirituale che, con meravigliato rispetto, pone attenzione al silenzio, ai gesti minimi, agli accenni di sorriso, alle varietà di pianto di un neonato e che corrisponde ad un periodo di circa tre mesi, caratterizzato da lunghi sonni leggeri e brevi periodi di veglia. Davvero non succede nulla in quel periodo? Davvero è poco interessante? È possibile immaginare un primo parallelo tra il periodo embrionale (che dura tre mesi) nel quale, a partire dall’uovo fecondato, si “abbozzano” tutti gli organi, e i primi tre mesi postnatali in cui si organizzano le prime strutture psichiche, e un secondo parallelo tra il periodo fetale (i sei mesi successivi) in cui gli organi aumentano e si perfezionano e la fase tra il terzo e il nono mese dopo la nascita in cui il bambino mette le basi alle sue capacità esplorative e relazionali. Altri hanno parlato di endogestazione nell’utero materno e di esogestazione dopo la nascita. Nove mesi prima e nove mesi dopo, quando il bambino comincia attivamente a spostarsi dalla madre (se gliene viene data la possibilità), pronuncia i primi suoni intenzionali e riconosce persone, luoghi e situazioni9. Un già lungo percorso che è principalmente opera sua, tanto meglio se ascoltato e protetto.

8. Cfr. il capitolo “L’embrione spirituale”, in Montessori, 1999 cap. VII, p. 61. 9. Cfr. le opere di Montagu, 1975; Braibanti, 1993.

Le delicate percezioni dei neonati Se l’originalità e la condizione olistica (unitaria, globale) dell’essere umano devono essere la guida per un diverso modo di prendersi cura della primissima infanzia, è solo guardando con molta attenzione a come ogni bambino si manifesta con proprie reazioni sensoriali all’ambiente e ai primi contatti con la madre che possiamo trovare adeguate indicazioni. I neonati che in una nursery ospedaliera sembrano tutti uguali, hanno invece reazioni differenti al modo di essere trasportati, toccati, lavati, alle voci e ai rumori, agli odori, ai colori. Nelle esperienze condotte a Roma nella Scuola AIM dal 1948 in poi si sono raccolti esempi clamorosi di reazioni dei primi giorni che indicano come il bisogno di continuità nelle impressioni sensoriali sia precoce. Eccone alcuni relativi alla prima settimana di vita o poco oltre: Il bambino che, tornato a casa dopo l’ospedale, rifiuta il seno materno solo perché la madre si è messa un profumo che i primi giorni non aveva, si attacca di nuovo quando la madre ne toglie ogni traccia con una doccia e il cambio degli abiti. La bambina che piange ogni volta che viene messa nella culla coperta di un velo azzurro e si tranquillizza sul letto dei genitori: nei giorni precedenti nel reparto maternità il lettino non aveva alcun velo. Il bambino che piange quando nella stanza sente parlare una persona con voce bassa e sonora, diversa dalle altre sentite fino a quel momento. Il bambino, separato dalla madre nella nursery e svegliato a orari rigidi, si attacca malvolentieri e succhia poco al punto che il medico stabilisce di dargli una parte di latte artificiale. Portato a casa dopo cinque giorni, la madre decide di non svegliarlo più e di seguire il suo ritmo di sonnoveglia: ogni pianto finisce e l’allattamento torna a essere esclusivamente materno.

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La bambina di dodici giorni che appare serena nell’acqua del bagnetto, momento felice che si ripete già da qualche giorno, dopo la caduta del moncone ombelicale. L’ostetrica che, su richiesta della famiglia la lava, le pratica lì stesso alle orecchie i fori per mettere in futuro gli orecchini: la piccola urla forte, ma la donna sostiene ridendo che “tanto non sente niente: è troppo piccola per provare dolore”. Il risultato è che nei giorni successivi, appena messa nell’acqua, urla terrorizzata. La memoria di tale associazione (bagnodolore) è tale che per anni manifesterà in vari modi un rapporto difficile con l’acqua. La neonata che portata a casa dopo cinque giorni trascorsi nella nursery piange a lungo e di frequente: il suggerimento della pediatra è di provare a tenere accesa per qualche tempo a medio volume la radio con voci e suoni. La bambina effettivamente si calma, avendo in qualche modo ritrovato l’ambiente sonoro del Nido ospedaliero, cui si era già abituata.

Sono molti a pensare che i neonati siano insensibili al dolore fisico prodotto, per esempio, da una ferita, al punto che per decenni ha dominato l’abitudine di operare i piccoli senza anestesia. Oggi finalmente numerose ricerche dimostrano il contrario10 ed è accertato che la sensazione dolorosa si fissa nella memoria biologica del bambino, pronta a riemergere nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza11. Ci sono neonati considerati “capricciosi” fin dai primi giorni, in realtà irritabili perché bistrattati o svegliati fuori del loro tempo; altri detti “facili”, che piangono poco, solo perché i genitori si sono messi in sintonia con loro e li seguono. Le cose vanno bene quando i ritmi di risveglio forzato decisi dall’ospedale, per caso, coincidono con i suoi. Già nel primo mese i neonati manifestano

10. Cfr. le indagini realizzate nella Washington University School of Medicine di Sainte Louise da Franz Lang Porter e pubblicate su “Paediatrics”, presso il Boston Medical Center (USA) e nell’ospedale Poissy, in Francia. Quest’ultimo con uno studio uscito in “British Medical Journal”, 1999. 11. Michel Odent, celebre ostetrico francese, ha raccolto presso il Primal Health Research Centre di Londra, da lui fondato, una vasta documentazione circa le conseguenze a lungo termine di una nascita violenta sul comportamento umano.

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dolore, disorientamento come pure il piacere di ritrovare cose note: il viso materno, la lampada, la pianta... “Macché – si dice – a questa età vedono poco o nulla”. È vero, non vedono lontano, ma vedono bene il volto materno, quando sono in braccio, specie nel corso della poppata. E i grandi occhi del neonato calamitano lo sguardo di lei. Mentre succhia, il piccolo fissa quella forma ovale o rotonda con occhi che lo guardano e con un’attraente bocca che gli parla. È così che memorizza il viso umano, il più importante punto di riferimento, l’immagine-guida che farà da battistrada a tutte le altre. E poi ci sono le braccia, le mani: il modo con cui viene toccato, cambiato, accarezzato. È sui primi contatti, sui primi gesti che lo portano, lo spostano, lo mettono nella culla che il neonato avvia la consapevolezza di sé. Come insegna il grande Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, è fondamentale il ruolo che l’ambiente, persone incluse, gioca nel determinare la realtà interna di un individuo nuovo a tutto quale è il neonato. Un ambiente che deve essere, egli dice, sufficientemente buono nel senso di assicurare fiducia, sicurezza, continuità, tre aspetti che nel bambino si costruiscono come vissuti profondi attraverso la percezione ripetuta del fare degli adulti che hanno cura di lui, in definitiva grazie al contatto di calda pelle, alla continuità delle sensazioni e delle esperienze. Noi occidentali, per le idee correnti, per la fretta con cui viviamo, diventiamo sempre più avari di tali risposte naturalmente affettive: il risultato è che, lungo tutta la vita, il figlio serberà un’acuta nostalgia del calore che gli è mancato e ne porterà i segni. Molti sostengono che “prima si abitua e meglio è”, quindi fin dai primi giorni luce forte, esposizione continua alla televisione, passaggio per tante mani, alterazione dei ritmi individuali per eccesso di stimolazione, risulta uno stato di eccitazione invasiva e disturbante, i cui risultati si osservano nel tempo lungo (mancanza di attenzione prolungata, facilità al pianto, disturbi del sonno, paure…).


Fin dalla nascita comunica le sue esigenze Ogni bambino, a suo modo, informa – chi sa intenderlo – su ciò che gli piace nelle relazioni attive con l’ambiente. Non è una bambola inerte, indifferente: a seconda di ciò che sente, a contatto con le mani dell’adulto, può contrarsi o distendersi, sussultare o rannicchiarsi. Se lo si lava in modo cauto e delicato, parlandogli di ciò che gli si fa, difficilmente oppone resistenza quando si devono pulire parti del suo corpo. Allo stesso modo è in grado di respingere il capezzolo o l’alimento che non gli piace, tirando fuori la lingua. Prima ancora di piangere, mostra, con espressioni del viso, movimenti degli occhi, inarcamento del corpo, se gradisce o meno ciò che gli stiamo facendo oppure partecipa tranquillamente alle cure e si mostra compagno attivo nell’interazione. Una delle prime cose che sa dire, senza parole, è “no”, girando la testa in un chiaro gesto di rifiuto. Molto presto manifesta con la tranquillità e i primi sorrisi il piacere di ritrovare ciò che già conosce, ma al tempo stesso ha bisogno di essere rispettato nella sua capacità di autoregolazione. Sotto questo profilo l’allattamento al seno consente una corrispondenza ideale tra madre e figlio. È noto a tutti che la persona che cura stabilmente un bambino è quella che sa interpretarne meglio le richieste e i desideri, non diversamente da quanto accade nei rapporti con un animale domestico; eppure molti adulti, sensibilissimi al linguaggio di un cane o di un gatto, hanno difficoltà a entrare in sintonia con un bambino di pochi mesi o di uno o due anni che “ancora” non parla. Anche i famigliari a volte osservano poco i suoi segnali e hanno scarso ascolto verso quello che Arnold Gesell (grande studioso americano dello sviluppo infantile, contemporaneo della Montessori) chiamava l’orologio biologico proprio di ciascun bambino. Troppo forte è la tentazione di sostituirsi – per usare un termine

montessoriano – alla sua sapienza innata, per esempio riguardo alla quantità di cibo e ai tempi di sonno-veglia scanditi dalla digestione, ma anche dagli interessi crescenti. È così che si mettono in atto latte artificiale a orari prestabiliti, poppatoi predeterminati come quantità, pesature prima e dopo la poppata o più tardi imboccare a forza, indurre al sonno, svegliare per comodità nostra, tutte modalità che generano disagi, disturbi a livello profondo, perfino somatizzazioni e in seguito anche una forte dipendenza da abitudini alimentari poco equilibrate.

“Il centro e la periferia” Un altro pregiudizio diffuso nelle famiglie e nelle istituzioni è che l’interazione tra madre e bambino sia a senso unico. Sarebbe solo la madre a curare, a proteggere, a insegnare e invece le nostre osservazioni ci hanno ripetutamente dimostrato che si tratta di una relazione circolare in cui la donna condiziona il figlio e questi condiziona la madre, promuovendo in lei capacità creative e nuove sensibilità (si nasce come genitori insieme al bambino!). Dai primi giorni di vita il bambino manifesta la capacità di comunicare e di rispondere: se mai siamo noi adulti, che privilegiamo la parola, a essere in difficoltà perché lui può usare – e a lungo – solo un linguaggio non verbale, tramite lo sguardo e ciò che guarda, tramite la postura, il sorriso e le sue varianti, i movimenti, i primi suoni vocalici, il pianto nelle sue innumerevoli sfumature. Nella straordinaria circolarità del dialogo senza parole che si instaura tra madre e figlio, il picUN NIDO PER AMICO

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colo affina i suoi messaggi, lei accresce progressivamente il livello di comprensione e la qualità delle risposte, anche se non potrà mai penetrare a fondo nel segreto della sua persona. Uno scritto assai efficace della Montessori su Il centro e la periferia12 ci guida nell’incontro con l’infanzia, denunciando come inutilmente invasiva l’abitudine di voler indagare a ogni costo sul mondo interno del bambino:

gli vengono trasmesse da un altro; egli dispone di una capacità senso-motoria irresistibile per prenderle egli stesso ed è solo così che la sua mente si sviluppa. Il nostro lavoro assume dunque un grande valore, gli oggetti che offriamo alla (sua) periferia assumono notevole peso formativo. Invece di far capire una cosa con spiegazioni, noi la “materializziamo”: è come se la stendessimo su una vasta superficie, perché il bambino possa lavorare su di essa.

Nessuno è d’accordo con noi quando diciamo che non solo è difficile penetrare il mistero della sua intelligenza, ma che dobbiamo rinunziare a volerlo esplorare a ogni costo: ciò che passa nella psiche del bambino costituisce il suo segreto e noi dobbiamo rispettarlo.

Le parole della Montessori – soprattutto se riferite al bambino dei primi mesi o dei primi due anni – ci aiutano a superare la difficoltà che a volte sentiamo di fronte alle sue manifestazioni. Non dovremo più chiederci: “Perché vuole questo? Perché è così diverso da me, da come me lo aspettavo? Perché non fa quello che gli dico? Chi è questo (mio) figlietto?”. Chi sia, è il suo segreto. Il poeta indiano Tagore esprime così il suo desiderio di conoscenza: “Vorrei poter conquistare un quieto angolo del cuore del mio bambino e contemplarlo nel suo vero mondo”13. “Vorrei”, ma non si può, perché quel mondo è segreto, è il segreto dei segreti, come lo è, per ciascuno di noi, il nostro agli altri, anche a quelli che più ci sono cari. Però possiamo fare tanto per avvicinarci, per spianare la strada al bambino di cui ci occupiamo come genitori o come educatori, entrando in contatto con la sua “periferia” di desideri, di mute richieste, di interessi, poiché – dice ancora il poeta – “Ogni cosa che sembra muta e incapace di muoversi, s’avanza lentamente verso la sua finestra con vassoi carichi di lucenti giocattoli”14. È l’inesauribile senso di meraviglia che ogni bambino manifesta.

Ecco il principio del nostro metodo educativo sul quale molti che non hanno compreso le cose sono in disaccordo con noi, perché pensano che un segreto da rispettare significhi porre ostacoli alla conoscenza. Secondo noi, è invece una questione di rispetto: è essenziale imparare a rispettare questo intimo segreto del bambino. Esistono due realtà diverse: il centro e la periferia. Il centro appartiene all’individuo stesso: non dobbiamo preoccuparci di ciò che avviene nel centro; invece la periferia che pone l’individuo a contatto con il mondo esterno attraverso i sensi e la risposta del movimento, questa sì che è accessibile. La periferia la possiamo raggiungere, come quando vediamo il bambino reagire attraverso le attività. Dunque basiamoci su questo: volgiamoci non al centro, ma alla (sua) periferia, a quello che emerge: il bambino lavora nella realtà, accoglie sensazioni e si esprime; il suo lavoro mentale consiste appunto nel cogliere le impressioni e nell’esprimersi senza sosta, come il ritmo continuo delle onde che non si arresta mai o come il battito del cuore. Di tutta questa straordinaria vita, unica e indivisibile, noi vediamo solo la parte periferica: è questa dunque che possiamo aiutare; è per essa che prepariamo l’ambiente, gli oggetti. Al bambino non interessa capire le cose quando

12. Tratto da “Il Quaderno Montessori”, 1993, n. 39, p. 117.

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13. Tratto da Tagore, 1915. 14. Ivi, Il mondo del bambino.


PARTE Il bambino ha diritto SECONDA a cure, relazioni e luoghi di qualitĂ


La cura sociale e le relazioni

sentire a ciascuno l’espressione delle proprie potenzialità. In ogni caso il Nido non deve essere una scuola, sia pure annacquata o ridotta al minimo. Il modello non è questo. Scrive Maria Montessori: Se una persona avesse una scimmia e per osservarla la mettesse in una cassa vuota dalle pareti di vetro, non potrebbe certo conoscere le qualità di destrezza e di abilità caratteristiche della sua specie. Ben diverso sarebbe se la osservasse in un bosco. Se si vogliono conoscere e scoprire le capacità che sono nel bambino bisogna collocarlo in un ambiente corrispondente alle sue esigenze vitali e lasciarlo libero di agire33.

Come accogliere un piccolo bambino La cura sociale del bambino è un fenomeno recente che si collega al nuovo peso assunto dal lavoro femminile fuori di casa, al movimento delle donne, ad una diversa configurazione della coppia e dei ruoli parentali. Il bambino in ogni caso non sceglie di andare al Nido, non sa nulla delle decisioni dei suoi genitori, non le capisce ed è nostro compito assicurargli un’esperienza che non lo faccia soffrire e che anzi diventi per lui fattore di crescita. Gli elementi che entrano in gioco sono diversi: a) L’ambiente che va realizzato come “habitat” naturale o ecosistema32. In concreto questo equivale a: • luogo di vita adattabile alla persona e nel quale ogni elemento giochi a favore della sicurezza individuale, del senso di protezione ma anche dell’indipendenza crescente; • spazio articolato e preparato in modo da con-

32. Nel senso indicato da Bronfenbrenner, 1986.

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È un principio magnificamente realizzato nelle Case dei bambini (3-6 anni) e nelle scuole elementari Montessori. Nei Nidi in genere si tende molto a guidare i bambini, a “far fare loro cose”, ritenendoli incapaci di decidere, di fermare l’attenzione. In effetti in un gruppo, anche piccolo, l’attenzione è più labile, con facili interruzioni, mentre già a pochi mesi un bambino può soffermarsi a lungo su un’attività semplice, se da lui stesso scelta e volontariamente ripetuta 34. L’ambiente deve dunque tenere conto del “bisogno/diritto” dei piccoli di essere protetti nella loro concentrazione individuale, criterio basilare su cui studiare l’organizzazione degli spazi dei bambini secondo le loro esigenze più profonde nelle varie età, pur tenendo conto del Nido come luogo di lavoro degli adulti, con i tempi di riunione e i turni di lavoro: il benessere fisico-psichico dei bambini è comunque il criterio prioritario.

33. Tratto da Maria Montessori e il suo metodo di educazione, opuscolo a cura dell’Opera Montessori, Tip. Squarcia 1929, p. 18. 34. Non mancano oggi luoghi che incoraggiano al massimo il ruolo-guida dell’adulto, affinché si rivolga al singolo o al gruppo, commentando con parole interpretative ogni azione infantile, di fatto dirigendo ogni iniziativa. Si ignora il fatto che il bambino piccolo ha limitata resistenza a operare in gruppo e che ha bisogno a lungo di maneggiare oggetti a suo modo, ripetendo in maniera del tutto personale le proprie azioni.


b) Qualità umana e professionale degli adulti del Nido: si richiede loro di realizzare forme e modi dell’educazione indiretta, la sola che senza infingimenti riconosca concretamente le capacità autoformative dell’essere umano. Un cammino assai complesso per ognuno di noi che viene di solito da esperienze negative, nelle quali ha subito, ha dovuto negare capacità e interessi, si è annoiato e a scuola per sopravvivere si è allenato alla competizione e alle piccole furbizie... A causa di questo l’adulto ha spesso una mentalità deformata: non conosce libertà interiore né forse sa favorirla. Può tuttavia creare le condizioni affinché il bambino costruisca la propria. Per giungere a questo, Montessori vede la formazione degli educatori in un’ottica di permanente ricerca. Al tempo stesso chiede loro un atteggiamento scientifico, fondato sull’osservazione come occhio affettuoso e obiettivo insieme, per aiutare senza essere invasivi. c) Qualità degli oggetti che mettiamo a disposizione dei bambini: anche questi vanno studiati in base ai percorsi di vita e alle abilità progressive dei piccoli frequentanti. Devono assicurare la riuscita dell’azione, favorire la ripetizione e la concentrazione spontanee, come pure lo scambio tra bambini; essere usati da loro senza aiuto e dati in varianti progressive. Occorre quindi avere una buona provvista di oggetti, tenuti sempre in ordine perché siano pronti all’occorrenza. d) Qualità degli arredi in funzione della motricità e delle scelte progressive dei bambini nei vari momenti della giornata: tavoli piccoli e leggeri, con sedie su misura; scansie su cui disporre gli oggetti di gioco (in basso); tappeti, cuscini…

Ambientamento come prima accoglienza Nella prima parte abbiamo visto come sia fondamentale basarsi sugli aspetti relazionali per consentire a ogni bambino di vivere al meglio il fatto di essere lontano da casa, affidato a mani estranee. Perché non subisca uno strappo doloroso, non viva con sofferenze e con rischi per la sua salute mentale tale distacco, occorre, non solo per i primi mesi di vita ma lungo tutta la prima infanzia, un’analisi molto accurata dei fattori che possono favorirlo: a) L’educatrice di riferimento per quel bambino (e altri quattro o sette/otto a seconda dell’età). Tra questo adulto e il piccolo che viene accolto nasce una relazione speciale, uno a uno, una sorta di “stella polare” per orientarsi nella costellazione del Nido. È l’educatrice che fa da tramite tra la famiglia e le novità con cui dovrà a poco a poco familiarizzare. A lei sono affidate in modo prioritario le cure corporee. b) Il numero dei bambini in ambientamento con i loro genitori: con gli ambientamenti individuali – non è un caso vadano sparendo – si rischia di avere tutto l’anno ingresso di bambini nuovi. Da tempo si va invece sperimentando, su larga scala e con ottimi risultati, l’ambientamento contemporaneo di tre, quattro bambini, con più educatrici presenti. A volte si arriva a cinque, ma non sempre è consigliabile, soprattutto se gli spazi sono limitati, dato che sono presenti anche i relativi genitori. In taluni Nidi si attua un primo ingresso in settembre, per esempio di due o tre bambini, cui si aggiungono altri in gennaio, situazione non sempre positiva se si tratta dei più piccoli. In ogni caso l’ambientamento in gruppo, realizzato con le dovute cautele e i tempi rispettosi dei singoli bambini, facilita la conoscenza tra i piccoli, riduce la loro dipendenza dai genitori e la fatica delle educatrici; favorisce la relazione UN NIDO PER AMICO

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tra queste e le famiglie; in genere rende più stabile la situazione. Inoltre la presenza contemporanea di più genitori permette loro di confrontarsi e di rassicurarsi: si sostengono vicendevolmente, si parlano e subito intessono legami amichevoli. Per facilitare le cose le educatrici preparano a volte per i genitori piccole attività da realizzarsi ad un tavolo nella stessa stanza in cui sono i bambini in ambientamento: foderare libri, preparare ritagli, ricamare il nome del figlio sulla busta del tovagliolo, attaccare una fettuccia all’asciugamano o dietro al collo del paltoncino perché il bambino stesso possa appenderli più facilmente. Oppure, se preferiscono, i famigliari si portano da casa qualcosa: un libro o un giornale da leggere o altro ancora. Avere un’attività da svolgere mentre il bambino sperimenta le novità, tanto meglio se in comune con altri, favorisce lo scambio tra genitori e acquieta l’ansia inevitabile. c) I tempi da prevedere: indicativamente tre settimane. La terza consente alla madre di lasciare il figlio con maggiore tranquillità, venendolo a prendere un po’ prima rispetto all’orario definitivo. Mentre la separazione si stabilizza, il bambino è aiutato a sostenere l’assenza materna tramite giochi e canti significativi per quella situazione, tramite la calma a due nelle cure igieniche. Quando siano da ambientare in un gruppo preesistente alcuni bambini – per esempio quattro su quattro già frequentanti dalla stagione precedente – l’ideale sarebbe separare in principio i due gruppi: o entrano prima i nuovi e la settimana seguente gli altri (prassi in genere non accettata dalle Amministrazioni) oppure si organizza un ri-ambientamento di una settimana per i “vecchi”, mentre i nuovi seguono un orario limitato tra la chiusura dell’ingresso (es. 9,30) e il pasto (11,30). Nella seconda settimana i nuovi più piccoli restano a pranzo imboccati dalle mamme, mentre i più grandi (dai diciotto mesi in poi) siedono a tavola con gli altri. Intanto le loro madri si assentano per una mezz’ora circa: un 40

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bambino che ormai gioca da solo, forse accetta di sedere a tavola, allunga le mani verso i cibi, mostra di poter sostenere la breve separazione, che sarebbe invece per lui inaccettabile se durante il pasto la madre restasse lì, inattiva, a guardarlo. Lo vivrebbe come un... tradimento! Nella terza settimana infine viene a prenderlo subito dopo il sonno. Nel caso invece il piccino sia molto inquieto e facile al pianto, va ancora a casa per qualche giorno. Se la madre non può più fermarsi oltre le tre settimane, una sola educatrice – quella di riferimento iniziale – lo segue, gli sta sempre vicino, se ne occupa a tempo pieno, dato che in ogni caso il bambino torna a casa prima del pasto o subito dopo. Lo stesso vale per il sonno: l’educatrice allunga eccezionalmente l’orario di lavoro per dar modo al bambino, di fronte alle tante novità che esso presenta, di familiarizzare con la collega che poi la sostituirà. Il sonno va introdotto quando il bambino sostiene già la separazione, gioca e mangia con piacere: il genitore dapprima va a prenderlo subito dopo il risveglio, dopo alcuni giorni si potrà giungere all’orario completo, se è proprio indispensabile per il lavoro materno. Soprattutto nei primi due anni, quanto più lungo è il periodo lontano da casa, tanto più il piccolo può risentirne: non dimentichiamolo e lavoriamo con le famiglie perché se ne rendano conto. d) Strategie da adottare per facilitare l’ambientamento anche ai genitori. Non si finisce mai di prevedere i modi migliori per persuadere le famiglie della delicatezza di un piccolo bambino: dobbiamo chiedere loro di rendersi disponibili per la durata necessaria ad una buona accoglienza, non sempre prevedibile, ma certo non inferiore alle due settimane. In ogni caso dovrebbero essere informate di questo fin dal primo contatto che in molti casi avviene negli uffici comunali. (È il Nido che si deve attivare perché l’informazione passi, magari attraverso un piccolo foglio, a rinforzo di un messaggio dato a voce.) Può essere difficile aiutare


una madre a risolvere i problemi legati alla precarietà del posto di lavoro o anche alla difficoltà nel continuare a occuparsi in solitudine del figlio, ma già offrire un’occasione di sfogo in un incontro individuale o di un piccolo gruppo può essere per lei un modo per sentirsi più sollevata. Altro aspetto è convincere i genitori a non portare troppo presto il piccolo al Nido – ad esempio al terzo mese – tanto più che oggi ci sono norme che lo consentono, incluso il congedo del padre35. In molte famiglie credendo di far bene si anticipa per questo lo svezzamento, già disastroso per il bambino, ma tanto peggio se esso coincide con l’ingresso al Nido: l’interessato non può reggere due cambiamenti di tal peso nello stesso tempo. Se le informazioni corressero in modo sano nella collettività in cui si vive, si saprebbe che le decisioni degli adulti devono sempre tenere presente questo tipo di esigenza, tanto maggiore quanto più un bambino è nato da poco. Così non dovrebbero coincidere ambientamento e trasloco, ambientamento e divisione dei genitori, ambientamento in prossimità di vacanze estive… Il bambino non è una valigia da mettere qua e là quando va bene a noi! Saggia precauzione è ricordare ai genitori nuovi che i tempi dell’ambientamento possono essere anche lunghi e non facili, oltre le previsioni. Alcuni Nidi scelgono di programmarli da un mercoledì ad un altro: dato che per un bambino il lunedì, dopo due giorni a casa, può significare un ricominciare da capo, non è opportuno introdurre un cambiamento (come il prolungamento di orario o l’assenza del genitore) proprio nel giorno del rientro, “faticoso” di per sé per i piccoli come per gli adulti. L’essenziale è comunque che il genitore – anche quello taciturno, timido o diffidente – si senta accolto, accettato nei suoi silenzi, confortato da parole

35. Cfr. Appendice.

che giorno per giorno lo informano sulla lettura da dare a come il bambino reagisce sotto i suoi occhi in un ambiente per lui così nuovo. e) Lo spazio fisico destinato all’ambientamento dei bambini nuovi: per i più grandi può essere opportuno prevederlo all’esterno del luogo in cui ci sono già bambini ambientati, specialmente se questo è limitato. È bene attrezzarlo con giochi opportunamente studiati, poco mobilio ma accogliente e gradevole, prevedendo il posto in cui i genitori si mettono, dopo averli preparati almeno in un incontro precedente, a parlare a voce bassa (e anche l’educatrice lo farà), a restare seduti tranquilli, a non intervenire mai sugli altri bambini e il meno possibile anche con il proprio. Preparare uno spazio adatto aiuta a sostenere in concreto alcune delle difficoltà delle persone coinvolte e quindi è un atto che va visto anche nei suoi risvolti emotivi. Viceversa i piccoli vanno ambientati nello stesso spazio in cui poi vivranno, per evitare loro un ulteriore cambiamento e dato che sono così rassicuranti per loro i punti di riferimento sensoriali. Solo in un secondo tempo si amplierà per loro lo spazio del Nido. Di conseguenza il luogo dell’ambientamento sarà anche quello della separazione, secondo tempi ovviamente individuali. Da parte dell’educatrice è imoprtante saper valutare le emozioni del bambino quando vede andar via la madre o la vede tornare, assistere al pianto di altri bambini e così via. f) “Ciao, mamma. Ho capito che tornerai!”. Il momento giusto per separarsi per un tempo lungo è quando il bambino ha raggiunto questa certezza, e questo può farlo solo in una situazione “protetta”, attraverso un adulto di cui si fida, che non cambia per molti giorni di seguito, che lo aiuta a trasformare la tristezza della perdita in qualcosa di accettabile. Dire che occorrono dieci giorni o due settimane è del tutto approssimativo: compito dell’educatrice che accoglie regolarmente il bambino non UN NIDO PER AMICO

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è quello di distoglierlo, di “non farlo pensare”36, ma di consentirgli di venire a contatto con i suoi stati d’animo anche negativi per poterli rielaborare. Le strategie possono essere diverse: le parole, il canto, i giochi cantati, gli oggetti adatti all’ambientamento, ecc. (giochi del cucù – sparire e riapparire – famiglie di pupazzetti e di animali; esperienze con l’acqua, brevi attività di riordino, un libro opportunamente scelto in base alle reazioni del bambino sono esempi di attività che sul piano simbolico possono acquietare in profondità le paure di perdita che un bambino prova). Anche le proposte vanno viste non come mezzi di “distrazione”, ma come occasioni che aiutano a sentirsi bene, allo scopo di acquistare fiducia. È dunque essenziale il ruolo dell’educatrice di riferimento, cui per gradi il genitore affida il bambino, che si avvicina a lui a piccoli passi e che egli individua come “speciale” tra tutte le persone del Nido. È all’interno di questa relazione stabile che le proposte di gioco diventano vive, accettabili, piacevoli e finalmente da lui scelte, volute. La nostra ambizione dovrebbe essere quella di condurre l’ambientamento di ogni bambino in modo tale che non pianga per nulla o quasi, non perché glielo impediamo o perché siamo bravi a consolare, ma perché la gradualità del cambiamento è tale da non suscitare in lui vissuti drammatici ed emozioni negative se non in misura assai ridotta. In definitiva l’ambientamento dovrebbe condurre ad una separazione attiva, agita serenamente da tutti e tre i protagonisti: bambino, genitori, educatrice di riferimento.

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g) Le educatrici coinvolte. Anche per loro la situazione nei confronti di un bambino di cui non conoscono le reazioni è “nuova”. Occorre

prevedere quali compiti si assumono: per esempio due seguono i bambini nuovi, una terza si occupa dei genitori, li sostiene, offre loro un caffè37, e così via. All’interno di queste considerazioni – anche nell’ambientamento a gruppi – il punto nodale resta la persona di riferimento, come risposta primaria al bisogno di continuità e di orientamento (periodo sensitivo dell’ordine). È lei che accoglie tutte le mattine madre e bambino durante il periodo iniziale e che resta anche in futuro il loro punto di appoggio più significativo. Garantisce a entrambi un costante riconoscimento – sensoriale, affettivo, verbale – in una situazione mutevole per tutti i protagonisti in essa impegnati. Di qui, seguendo i tempi del bambino, sarà lei stessa ad aiutarlo a conoscere la seconda e la terza educatrice del gruppo. Occorrono tempo e raffinata capacità di osservazione per sentire la grande fatica che il bambino vive anche durante il migliore degli ambientamenti, per cogliere ogni segnale di disagio e porvi subito rimedio, anziché lasciarlo piangere a lungo, da solo o no, nei suoi disperati tentativi di ricongiungersi alla madre. L’idea che “Tanto si abitua” è espressione di sottile sadismo, di indifferenza che il bambino paga pesantemente. Per questo conviene avviare brevissime separazioni nella seconda settimana, da allungare a poco a poco, dicendo sempre la verità (mai sparire di nascosto). L’educatrice di riferimento porrà grande attenzione alla distanza di sicurezza che ogni bambino esige con proprie modalità, prima di lasciarsi avvicinare da persone nuove e quindi anche da lei. Svilupperà l’arte di offrire a distanza; di sorridere senza invadere; di accogliere e ascoltare le emozioni in modo che sia il bambino ad andare verso i giochi, verso i compagni o verso di lei e non viceversa.

36. Da riflessioni di Carlo Alberti, già Presidente dell’Associazione “Percorsi per Crescere” di Varese, esperto nella formazione di educatori della prima infanzia (vedi Pennisi, 1994).

37. Questo nel caso si riesca a realizzare un ambientamento scaglionato: prima i bambini nuovi, la settimana seguente quelli degli anni precedenti. Questo consente agli inizi la totale disponibilità del personale a sostegno di chi conduce l’ambientamento.

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