Rivista trimestrale - anno XCVIII
aprile/giugno 2008
La Responsabilità Intervista a Patrizia Pesenti Messaggio dalla Madonna del Sasso Le pagine dell’ordine francescano secolare
Sommario
Bentornato Messaggero
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a cura della redazione
La Responsabilità
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fra Callisto Caldelari
Responsabilità sociale e politica
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intervista a Patrizia Pesenti
Responsabilità nella socialità
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Dario Robbiani
Messaggio dalla Madonna del Sasso
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fra Agostino Del-Pietro
Le pagine dell’OFS
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fra Michele Ravetta e Gabriella Modonesi
L’ideale e la realtà
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fra Riccardo Quadri
Chi sono i religiosi Dieci minuti per te
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fra Andrea Schnöller
Leggere la Bibbia
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fra Callisto Caldelari
Uno studio sulla Chiesa svizzera
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Alberto Lepori
Messaggio ecumenico
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Gino Driussi
I santi e la medicina
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Mario Corti
Messaggi dai conventi… ...e dalle loro adiacenze Abbiamo letto... abbiamo visto…
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Note dall’amministrazione Compilando la polizza per l’abbonamento alla rivista non mancate di riportare l’esatto nominativo al quale è stata spedita. Ci aiuterete ad abbinare con certezza il pagamento al destinatario. Chi si abbona dall’Italia può effettuare il versamento sul conto corrente postale n. 88948575 intestato a Cerfoglia Claudio - Varese specificando nella causale ‘Abbonamento Messaggero’.
MESSAGGERO Rivista di cultura ed informazione religiosa fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano Comitato di Redazione fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Claudio Cerfoglia (segretariato) E-Mail redazione@messaggero.ch Hanno collaborato a questo numero Mario Corti fra Agostino Del-Pietro Gino Driussi Alberto Lepori Fernando Lepori Gabriella Modonesi fra Riccardo Quadri Dario Robbiani fra Andrea Schnöller Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch Abbonamenti 2008 Per la Svizzera: ordinario CHF 30.sostenitore da CHF 50.CCP 65-901-8 Per l’Italia: ordinario € 20,00 sostenitore da € 40,00 Conto Corrente Postale 88948575 intestato Cerfoglia Claudio - Varese causale “abbonamento Messaggero” E-Mail amministrazione@messaggero.ch Copertina Particolare della vetrata realizzata da fra Roberto nella cappella della Casa Anziani a Mezzovico Fotolito, stampa e spedizione Tipografia Rezzonico - Locarno
Bentornato Messaggero
I
l ritorno del Messaggero nelle case di parecchi abbonati è stato salutato con gioia. Parecchie sono state le manifestazioni di ringraziamento e di affetto per aver ridonato a molte famiglie ticinesi un foglio che entrava nelle loro case da parecchi anni. Qualcuno è giunto a ricordare come il Messaggero era l’unica rivista che veniva letta già dai nonni, passata ai genitori veniva sfogliata da grandi e piccini, e costituiva un alimento spirituale molto apprezzato. Il fatto che oltre seicento amici hanno già rinnovato l’abbonamento con il pagamento vuol dire che questa rinascita è stata salutata con un caldo benvenuto. Purtroppo con questo numero di abbonati non teniamo viva la rivista a lunga scadenza. Vorremmo che si moltiplicasse per tre, ma speriamo che al più presto almeno si raddoppi. Dato che le spese postali per l’estero sono altissime, a chi in Italia è stato spedito il primo numero viene inviato anche questo; poi, se non avremo un segno di consenso, dovremo ritenerli non interessati. Per facilitare loro il pagamento abbiamo aperto un conto corrente postale italiano presso il nostro segretariato. Come i nostri lettori avranno notato, il Messaggero dal primo ai prossimi numeri avrà uno schema abbastanza fisso. Vi è questa pagina redazionale; segue un tema di fondo che per i quattro numeri di quest’anno punterà su tematiche psicologiche-sociali sempre viste sotto l’aspetto religioso. In questo numero si parla della responsabilità e si prende soprattutto la famiglia come luogo dove viverla al massimo; due invitati, Patrizia Pesenti e Dario Robbiani, ci aiuteranno ad approfondire il tema. Seguiranno due pagine come messaggio della Madonna del Sasso per mantenere vivo lo scopo originario di questa rivista, nonché le pagine proprie dell’Ordine Francescano Secolare della Svizzera Italiana. Fra Riccardo Quadri continuerà a presentarci i vari aspetti della personalità di Francesco d’Assisi, con articoli scientificamente profondi ma nello stesso tempo da tutti abbordabili. Fra Andrea Schnöller ci aiuterà a vivere dieci minuti di riflessione e meditazione. Avremo due pagine stese da Alberto Lepori, una persona molto vicina alla vita della Chiesa. Gino Driussi, un appassionato di ecumenismo, ci aggiornerà sui passi di riavvicinamento fra le varie Chiese Cristiane. In questo numero riportiamo un messaggio dell’Assemblea Generale dei religiosi che ci aiuterà a conoscere queste sentinelle della Chiesa. Segue un contributo interessante di un medico nostro lettore su “I santi e la medicina”. Il numero si conclude con i messaggi dai conventi e dalle loro adiacenze che parlano dell’attività di Bigorio, dell’attività della “Biblioteca Salita dei Frati” e una presentazione del Centro Spazio Aperto. Questo è lo schema generale, ma non vuol dire che tutti i numeri del Messaggero saranno così fissi e seguiranno uno schema prestabilito. I vari apporti - eccetto forse il tema di fondo - potranno essere cambiati secondo le necessità che si presenteranno per mantenere un foglio aggiornato sulle varie problematiche che possano interessare i lettori.
Riprendendo il discorso iniziale sulla stima che circonda la nostra rivista e sul rincrescimento per la sospensione nel 2007, non dovuta alla mancanza di volontà di nessuno ma determinata soltanto da altri impegni dell’ex capo redattore, dobbiamo ribadire l’assoluta necessità di riportare a 2.000 il numero degli abbonati per garantire continuità ad una rivista in cui crediamo. Perché la nostra gioia è il sapere che il Messaggero servirà come alimento religioso e culturale per tutti coloro che hanno a cuore uno sviluppo. la redazione
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Messaggio tematico
La Responsabilità
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timologicamente la parola “responsabilità” proviene dal detto latino “res pondus” che significa assumere il peso delle cose. Inoltre ha la stessa radice di “risposta”. Ogni risposta presuppone una domanda che – sempre in latino – si chiama “vocatio” (vocazione-chiamata). Questa è la più impegnativa delle domande, perché ti chiede: chi sei, cosa rispondi a te stesso, al tuo prossimo, quale è la tua vocazione nella vita, cosa vuoi essere, diventare? Il tema è importante e per svolgerlo con una certa profondità ci facciamo aiutare dalla professoressa Silvia Vegetti Finzi.
Responsabilità e conseguenze A ben vedere non ad ogni azione ci poniamo il problema della responsabilità, se così fosse sarebbe una merce inflazionata. Vi è un atteggiamento di responsabilità costante che è proprio dell’adulto di fronte a un bambino, quindi spetta a noi proteggerlo da qualsiasi pericolo. Ma la responsabilità come giudizio morale viene evocata soltanto quando ci troviamo di fronte a scelte importanti, ad aut-aut, dove, in caso di decisione sbagliate, ci saranno conseguenze pesanti in termini di dolore, di sofferenza nostra e altrui. Dobbiamo dare al termine “responsabilità” la pregnanza che gli è propria, altrimenti rischiamo di diluirlo nella molteplicità per fortuna abitudinaria, di tante condotte. Credo che la responsabilità debba essere presente in qualsiasi agire in quanto dobbiamo sempre essere in grado di rispondere delle nostre azioni. Ma in senso stretto la responsabilità è un attributo della libertà, la condizione perché la libertà non si trasformi in arbitrio, in dominio del più forte. Così intesa la responsabilità è un limite. Oltre che alla responsabilità passiva, di non fare, vi è la responsabilità attiva, di prendersi cura di sé e degli altri. Un sentimento che nasce dal superamento dell’egoismo e dell’egocentrismo infantili, quando si capisce che la felicità non è una condizione solitaria, perché tutti gli uomini sono interconnessi tra di loro e l’azione che io compio può espandersi nello spazio e prolungarsi nel tempo ben al di là dei confini della mia individualità. Come dicevo, vi è responsabilità soltanto quando vi è un esercizio di libertà, quando siamo chiamati a scegliere, quando siamo posti di fronte a due o più alternative e ci prendiamo il carico di indicarne una. In questo caso possiamo imporre il nostro volere con autorità, oppure possiamo indurlo con la nostra capacità di convinzione, persuadendo gli altri ad assumere il nostro punto di vista, a seguirci lungo quella strada. Chi sceglie responsabilmente si fa
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carico di un rischio, si impegna a rispondere a eventuali conseguenze negative. Non si sa ancora se ci saranno, ci si augura che non ci siano ma, in ogni caso, il responsabile rimane per tutti un punto di riferimento.
La responsabilità in famiglia Uno dei principali ambiti dove si deve avere un profondo senso di responsabilità è certamente la famiglia. In questo nucleo, piccolo o grande che sia, ognuno deve coprire responsabilmente il proprio ruolo, di genitore, di figlio, di nonno ecc. Oggi purtroppo assistiamo alla deresponsabilizzazione dei ruoli familiari, anzi, troppe volte alla distruzione del nucleo familiare. Fortunatamente - scrive ancora Silvia Vegetti Finzi – in sua difesa convergono due vettori tra loro apparentemente molto lontani. Difendono la famiglia la Chiesa cattolica, la quale vede nel nucleo padre-madre-figli il modello di convivenza tra i sessi e le generazioni, nonché il modo migliore per crescere i figli. E la psicoanalisi, che è stata per molto tempo denunciata dalla Chiesa come pansessuale, come amorale. Invece in questo momento convergono, sullo stesso obiettivo, un atteggiamento confessionale ed uno laico nell’intento di difendere, come essenziale alla sopravvivenza dell’individuo e della società, la famiglia, in particolare quella nucleare. Il modo di procedere è tuttavia diverso. Mentre la cultura cattolica esplicita i valori positivi della famiglia, quella psicoanalitica si limita a sottolineare i danni e le incognite della sua distruzione. Da una parte troviamo l’esortazione, dall’altra la dissuasione, ma l’effetto è lo stesso. Per la Chiesa (che recepisce l’etica aristotelica), la famiglia è la cellula naturale della società, per la psicoanalisi rappresenta piuttosto la struttura simbolica dell’individuo e della comunità. Il secolare sondaggio dell’inconscio riconosce nella famiglia “l’architrave della nostra mente”. La Chiesa cattolica colloca il valore della famiglia nelle relazioni che connettono padre, madre e figlio, nell’amore reciproco che circola tra di loro. La psicoanalisi, invece, riconosce che rapporti passionali, di amore e di odio, legano tra di loro i membri della stessa famiglia, ma fissa il significato e il valore di questi rapporti soprattutto nella loro interdizione. I rapporti d’amore hanno un valore altissimo quale collante tra i membri della famiglia, soprattutto se partono non solo dal principio “non fare agli altri quello che non vorresti sia fatto a te”, ma dallo stesso principio letto in chiave positiva: “fa’ agli altri quello che vorresti sia fatto a te”.
Responsabilità nei propri ruoli familiari Perché nella famiglia tutto proceda spiritualmente e affettivamente in modo corretto è indispensabile che ogni membro eserciti responsabilmente il suo ruolo. Allora che dire di un padre che è sempre assente portando come scusa la responsabilità lavorativa? Che dire di una madre che gioca a fare l’amica della figlia, tutta contenta quando qualcuno dice: “Sa, pensavo che fosse lei la figlia tanto si mantiene giovane?” Sono solo due fra i tanti atteggiamenti d’irresponsabilità. Ma pensiamo anche alla responsabilità che viene accollata ai figli più grandi che devono curare quelli più piccoli perché, per svariati motivi, i genitori sono fisicamente o socialmente assenti. E’ giusto, lo si è sempre fatto, parecchie famiglie numerose poterono essere tali solo perché i figli maggiori davano concretamente aiuto nell’allevare i fratelli minori. Ma se l’impegno fosse troppo gravoso è possibile che questi figli crescano fin troppo responsabili, incapaci più tardi di saper godere i momenti belli della vita, mentre dei genitori, sul tipo di quelli sopra descritti, rimangono irresponsabili fino alla morte.
La responsabilità nella società Ho esemplificato sulla famiglia perché la ritengo la cellula della società. Se questa si ammala, le altre cellule che costituiscono il tessuto sociale non possono che soffrire, per arrivare – in certi casi – a morire. Pensiamo ad alcune di queste istituzioni che accompagnano, anzi subiscono la crisi familiare. –
La scuola. Se due delle tre componenti scolastiche sono in crisi, quelle che fanno capo alla famiglia, cioè gli allievi e i genitori, come volete che la terza, quella che sbagliando viene ritenuta l’unica componente, i docenti, sia sana? Caricati di troppi compiti che la famiglia non assolve, i docenti, oltre che a istruire, devono educare, formare, creare coscienze critiche. Perciò oberati dal lavoro e dalle conseguenti responsabilità, arrischiano di stancarsi presto o, peggio, di maturare complessi d’impotenza.
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Le associazioni dovrebbero assolvere quel compito che una volta era tipico della famiglia: l’occupazione del tempo
libero. Forse perché si è esagerato nel far lavorare i giovani dentro e fuori le mura domestiche, oggi il tempo libero ha un solo altro nome: divertimento. E di questo vengono incaricate le varie associazioni nelle quali i giovani sono scaricati. I monitori spesso si trovano a dovere occupare un ruolo che i genitori hanno irresponsabilmente abdicato, quello di loro sostituti, confidenti, amici. –
La Chiesa. Grande è la responsabilità della Chiesa nella formazione delle coscienze! Ma se questa formazione non è sostenuta dalla testimonianza dei genitori, che possono fare le parrocchie e le altre istituzioni ecclesiastiche? Frequentate nell’età infantile, abbandonate nell’età adolescenziale, si trovano davanti a campi dove è stato seminato, ma poi per l’incuria dei primi contadini (i genitori) si è lasciato crescere di tutto, più rovi e spine che grano buono.
Famiglia, Scuola e Chiesa, tre istituzioni che dovrebbero collaborare per l’armonica crescita dei giovani, responsabili del futuro. C’è solo d’augurarsi che chi vi lavora senta la sua responsabilità come un impegno irrinunciabile per la creazione di una società migliore. La voce della speranza dice: coraggio possiamo farcela.
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Intervista a Patrizia Pesenti
Responsabilità sociale e politica La persona intervistata in questo numero è la presidente del Consiglio di Stato; infatti quando l’intervista è stata rilasciata l’avvocato Patrizia Pesenti era ancora a capo dell’Esecutivo cantonale. Ma non tanto per questa carica; tanto meno per la smania di avere personaggi importanti sotto il tiro delle nostre domande (prima il capo della Diocesi, poi il capo del Governo); ma per il fatto che Patrizia Pesenti dirige il dipartimento della sanità e socialità, ed ha pure ricoperto il ruolo di giudice dei minorenni, abbiamo scelto lei, donna gentile, autorevole ed esperta in materia di responsabilità politica e sociale. Ecco come ha risposto alle nostre domande:
Per la seconda volta termina il suo anno di presidenza del Consiglio di Stato. Vi è una responsabilità in più per un presidente del Governo, rispetto a quella degli altri consiglieri? Vi sono più impegni di rappresentanza, ma la responsabilità resta sempre del collegio governativo poiché le decisioni vengono sempre concordate. In definitiva si tratta di un primus inter pares, poiché la presidenza non implica un maggior potere decisionale anche se formalmente le decisioni portano la firma del presidente.
Un Governo è responsabile se progettuale. Avete pubblicato da poco le Linee direttive, quali sono i punti salienti? L’aspetto centrale è a mio avviso il superamento dei confini tra i dipartimenti, vale a dire una gestione a compartimenti stagni dell’amministrazione cantonale. Abbiamo così individuato sette aree di intervento prioritario sulle quali hanno lavorato assieme almeno tre dipartimenti facendo proposte concrete. Le sfide che abbiamo davanti sono la demografia (intesa come calo delle nascite e invecchiamento); la sicurezza in un mondo che cambia rapidamente; il riscaldamento climatico per citarne solo alcune. Certo individuare obiettivi ed avere progettualità non significa ancora disporre delle risorse finanziarie necessarie a realizzare. Il vero problema è questo: mancano i soldi. Ed è il risultato di una politica di defiscalizzazione rivelatasi eccessiva e squilibrata, fatta nel periodo 1996-2005.
Si sente spesso la critica che nell’amministrazione comandano gli alti funzionari, scelti più con criteri partitici che per competenza, secondo lei è vero? Alcuni funzionari trascorrono molti anni al servizio dell’Amministrazione laddove i consiglieri di Stato ormai rimangono solo due, tre, massimo quattro legislature. Ciò può dare l’impressione che il funzionario ‘comandi’; in realtà le decisioni oggi possono essere prese solo dopo un paziente lavoro di concertazione soprattutto con le cerchie interessate fuori dall’amministrazione. Le decisioni calate dall’alto non reggono mai. Sulla scelta ‘partitica’ dei funzionari non sono d’accordo, o almeno farei delle distinzioni. Per quanto mi riguarda nei concorsi non ho mai chie-
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sto al candidato la collocazione politica, è importante la qualità della preparazione e del lavoro. Proprio perché alla fine il consigliere di Stato è responsabile dell’attività del Dipartimento ed è cruciale che scelga persone in grado di assicurare una gestione di alta qualità. Questa è la mia opinione e si riflette nella variegata appartenenza politica degli alti funzionari del mio dipartimento.
Lei è stata giudice dei minorenni, ha toccato con mano il disagio giovanile. Allora era così preoccupante come oggi? Quali sono la cause principali, solo la famiglia o anche lo Stato? “La gioventù moderna è votata al demonio, senza dio e pigra. Non sarà mai più come la gioventù del passato e non riuscirà mai a dare continuità alla nostra cultura”1. Sono parole di un testo fenicio di tremila anni fa. Ma sembrano scritte ai nostri giorni. L’adolescenza è un periodo tormentato di trasformazioni e di comportamenti che hanno da sempre messo in difficoltà l’adulto (c’è chi ha detto però che l’adolescenza è quell’età in cui i genitori diventano difficili). Certo, talora ciò che gli adolescenti fanno ci spaventa e ci sembra fuori dal nostro controllo. Siamo stati confrontati anche con atti di efferata violenza ad opera di giovani, ma la maggior parte dei giovani è sana. Perché non possiamo accontentarci di impressioni e sensazioni per definire e catalogare il mondo dell’adolescenza. Dalla recente statistica della polizia cantonale risulta che dal 2006 al 2007 sono raddoppiate le denunce di violenza sui giovani (non dei giovani). Da uno studio internazionale condotto ogni 4 anni anche nelle scuole medie del nostro cantone2 risulta che gli atti di violenza oppure i furti (fatti o subiti) sono stati meno frequenti nel 2006 rispetto a quattro anni fa. Così pure è diminuito il numero di adolescenti che hanno fumato la canapa: erano 25.6% nel 2002 e sono 17.3% nel 2006. Il consumo di alcol invece è purtroppo aumentato: il 50.9% di giovani non aveva mai bevuto alcool nel 2002, nel 2006 questa percentuale è scesa al 46.6%. Con questo non voglio dire che tutto va bene. Ma non si deve criminalizzare una generazione intera per coloro che sbagliano. Vanno perseguiti e condannati quelli che commettono reati e la condanna deve tener conto più che per un adulto, della loro possibilità di cambiare, di diventare esseri umani migliori. Crescere non è facile e soprattutto non lo è dove manca il riferimento di adulti responsabili, amorevoli, che si occupano dei giovani, prima di preoccuparsene. Come può l’adolescente di oggi divenire adulto in un mondo che offre tutto e il contrario di tutto? Ad esem-
pio: come possiamo chiedergli di non essere aggressivo quando ogni giorno è bombardato da immagini di violenza e di guerra? Ed ancora: non è facile sviluppare una sessualità armoniosa e rispettosa dell’altro quando il sesso è sfacciatamente esibito in tutti i messaggi pubblicitari, quando l’accesso alla pornografia è talmente facile? Come possiamo chiedere ai giovani la tolleranza quando gli adulti (certo non tutti) fanno a gara ad essere intolleranti? Quanto tempo siamo disposti a investire, assieme ai bambini, agli adolescenti, per capire quali sono le cose che contano davvero nella vita? Intendo nella nostra vita, non solo nella loro. Siamo sicuri che saremmo contenti di noi se ci vedessimo con gli occhi dell’adolescente che eravamo? I giovani sono pronti a prendere esempio da noi, ma noi siamo pronti a vivere all’altezza di quello che pretendiamo da loro? a cura della redazione
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Bonino S., Cattelino E., Ciairano S. Adolescenti e rischio – Comportamenti, funzioni e fattori di protezione, Giunti Editore, Firenze 2003 2 Studio dell’OMS Health behaviour in School-aged Children”, condotto in Svizzera dall’Istituto per la prevenzione dell’alcolismo e delle tossicomanie e in Ticino dall’Ufficio di promozione e di valutazione sanitaria. I dati del 2006 saranno disponibili sul sito www.ti.ch/upvs e per l’inizio dell’anno scolastico 2008/2009 è prevista una pubblicazione riassuntiva destinata agli adolescenti.
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Messaggio tematico
Responsabilità nella socialità Dario Robbiani ha gioito con noi quando è risuscitato il Messaggero; ne ha chiesto un numero ed abbiamo approfittato per chiedergli un articolo d'attualità. Ecco cosa scrive:
La solidarietà sociale Tra i tanti difetti, noi ticinesi (si dovrebbe dire svizzeritaliani) abbiamo una virtù: siamo generosi. Quando viene organizzata “la catena della solidarietà“ siamo i primi a dare. Proporzionalmente alla popolazione, più dei “ricchi” svizzeritedeschi e dei romandi che sfoggiano il buon cuore. Anche tra di noi ci sono gli spilorci. Parliamo degli svizzeritaliani in generale. Con Telethon siamo i più magnanimi. Gli svizzeri tedeschi addirittura si sono sganciati e non partecipano alla campagna di raccolta di fondi per curare le malattie genetiche.
C’è chi la chiama carità I credenti la chiamano carità, o misericordia. Per i laici è solidarietà sociale. Non è il nome che conta, bensì l’atto, che è una manifestazione d’altruismo . La generosità l’abbiamo nel DNA. Quando, nel settecento, in Ticino, sulla strada per l’Italia, arrivarono i primi intellettuali osservatori e cantori dei paesaggi e delle popolazioni alpine, descrissero i ticinesi brutti e cattivi, attaccabrighe, con il falcetto alla cintola e lo stanghino in mano, pronti a far a botte, sempre all’osteria, mentre le donne erano a casa, nelle stalle e nei campi, curve come bestie da soma, piegate dai reumatismi, dall’artrite e dalle innumerevoli gravidanze.
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Gli illustri ospiti non capivano il dialetto, anzi i dialetti, poiché ogni valle aveva il suo. Non sapevano che il falcetto serviva per potare la vite e le piante da frutta, che gridavano per sentirsi vivi non per minacciare e le donne valevano meno di una mucca o di un mulo. Con l’abito bello, la barba e i capelli rassettati, erano aitanti, con la fisionomia marcata dal seme celtico, romano, alemanno, francese, spagnolo e russo. Timidi e riservati, quei ticinesi primitivi avevano una caratteristica che, se intesa, sarebbe piaciuta agli uomini di cultura, ai pittori e ai musicisti in viaggio per il paese dove fioriscono i limoni. Erano animati da spirito comunitario. Avevano firmato dei patti di solidarietà e in difesa dell’autonomia prima ancora del patto storico all’origine della confederazione elvetica.
Lo spirito comunitario Il loro era un vero “comune”. Le mulattiere, i pascoli, il bosco, l’acqua potabile, il forno del pane erano beni collettivi. La dannazione erano la valanga e l’incendio, che distruggevano vite e beni. Per evitarne le conseguenze facevano la guardia, a turno, di giorno e di notte . Tutta la popolazione si mobilitava per cercare i sepolti sotto la neve o per spegnere il fuoco. I pompieri, i gendarmi, le guardie e il pronto soccorso erano volontari. Una specie di servizio civile. Quella era la solidarietà sociale dei nostri antenati. La portavano nel fagotto quando la miseria li obbligava ad emigrare o se mobilitati dallo straniero occupante. I “paesani”erano sodali. Si aiutavano tra di loro. Assistevano i
nuovi arrivati. Insegnavano il mestiere e come stare al mondo senza lasciarsi fregare dagli altri emigrati. S’incaricavano di portare a casa le lettere e i risparmi. Facevano una colletta per rimpatriare la bara con la vittima del lavoro o di un’epidemia. I primi ospedali erano opere pie e misericordiose, frutto della divina provvidenza Durante le grandi guerre, i ticinesi si spartirono il pane con i profughi, i disertori e i fuggiaschi. Furono protagonisti di atti pietosi e altruisti, che non figurano nei libri di storia ma nella memoria collettiva e che hanno forgiato il carattere di un popolo apparentemente egoista e ripiegato su se stesso.
Il modello ticinese di socialità Ecco perché, nel settore sociale, esiste un “Tessiner Model” e la solidarietà sociale non è strombazzata ma praticata. Certamente ci sono i pidocchiosi, gli ingenerosi, quelli del chi-fa-perse-fa-per-tre, chi considera la solidarietà roba di preti e comunisti. Ma in generale, la partecipazione, la mutualità e la fratellanza sono diffuse e hanno radici profonde. Si sono manifestate con il sostegno popolare all’occupazione delle Officine FFS di Bellinzona e allo sciopero dei ferrovieri. Un movimento spontaneo di condivisione sociale e di calore umano. Non è stato casuale, episodico o provocato dalla inettitudine e dalla spocchia dei manager “kruki”. La solidarietà sociale esisteva in Ticino prima di diventare programma politico e rivendicazione sindacale. Si tratta di coltivarla, sempre, scoraggiando il disimpegno civile e l’egoismo individuale. Dario Robbiani
La festa di Pentecoste ci richiama all'opera dello Spirito Santo, il "Grande sconosciuto" nella vita della maggioranza dei cristiani Eppure la sua presenza è la base di un'autentica vita di fede. Riflettere sulla sua azione, invocarlo, vuol dire vivere secondo lo Spirito e vincere le tentazioni di un mondo che ci offre la materia quale unico bene. Prega e rifletti con questa antica e bellissima sequenza medioevale.
“ “
Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, Padre dei poveri, vieni, datore di doni, vieni, luce dei cuori.
Senza la tua forza, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa.
Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, dolcissimo sollievo.
Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.
Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.
Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.
O luce beatissima, invadi nell'intimo il cuore dei tuoi fedeli.
Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna
”
Messaggio dal santuario
Dove è finita la Pietà?
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olti fedeli e visitatori del santuario si saranno chiesti come mai da alcuni anni la cappella della Pietà nel chiostro del convento è vuota. Dove è mai finito lo stupendo altare ligneo che vi era custodito? Per rispondere a questa e ad altre domande concernenti uno degli oggetti più significativi e pregiati del nostro santuario, abbiamo chiesto informazioni al signor Andrea Meregalli, che durante diversi mesi si è preso cura del prezioso manufatto.
Signor Meregalli, lei si è occupato del restauro dell’altare della Pietà del santuario della Madonna del Sasso. Sappiamo quando, dove e da chi è stato fabbricato? L’ancona lignea detta “della Pietà”, ma anche della “Deposizione dalla Croce o “del Compianto”, da Gilardoni è indicata esistente nel 1487, anno nel quale viene consacrato il sacello che la custodisce. Anche la letteratura critica più recente accetta questa data, il che indica l’arrivo dell’ancona a Locarno appena tre anni dopo la visione di fra Bartolomeo da Ivrea della Vergine. Fra Bartolomeo erige il proprio eremo sul luogo preciso della visione, dove oggi si trova l’oratorio della Annunciata, e fonda poi, propriamente “sul sasso”, il Santuario. L’opera è concordemente assegnata alla bottega milanese della famiglia De Donati ed è considerata la prima opera conosciuta del periodo della sua piena maturità artistica.
Conosciamo l’epoca in cui l’altare è arrivato alla Madonna del Sasso e dove venne collocato originariamente? Il sacello che originalmente ospita l’ancona è chiamato la seconda costruzione fondata da fra Bartolomeo. Nel 1625 viene indicato “in mezzo al portico del convento”, che gli è successivo. Oggi non si rilevano indizi sicuri di resti murari tardoquattrocenteschi nella corte del convento e la ipotesi più probabile pare quella della sua demolizione e sostituzione con la cappella cinquecentesca attuale.
Alla Madonna del Sasso si trova attualmente anche un altro gruppo ligneo di innegabile valore: il cosiddetto Compianto sul Cristo morto. Che cosa accomuna e che cosa differenzia i due complessi? Il gruppo del “Compianto” risale a prima del 1485 ed è attribuito a Domenico Merzagora, importante scul-
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tore vigezzino. Esso proviene dalla chiesa di san Francesco ed è arrivato al Santuario solo verso la fine dell’Ottocento, dopo avere sofferto le conseguenze di vicende avventurose.
Ci sono altre opere simili nel nostro Cantone? No. Non esistono altre opere di scuola lombarda di questo tempo, dimensione e livello in luoghi pubblici del Cantone.
Nei primi nove mesi del 2005 l’altare della Pietà è stato sottoposto ad un accurato lavoro di restauro. Era la prima volta? Abbiamo notizie sicure di un restauro eseguito dalla bottega degli Annoni di Milano attorno al 1904 dove viene eseguita una ridipintura completa di tutte le parti policrome. Sugli incarnati tuttavia, dalle analisi chimiche eseguite, è emerso che la ridipintura degli Annoni ne copre già una precedente di cui però non abbiamo notizie. Dopo la metà del Novecento sono poi stati eseguiti dei piccoli interventi puntuali, in corrispondenza di zone degradate.
Qual è stato l’obiettivo principale del recente intervento di restauro? Quali le maggiori difficoltà di realizzazione? Lo scopo principale è stato la conservazione dell’opera. I numerosi spostamenti, le condizioni ambientali ed alcuni vecchi interventi di restauro impropri avevano danneggiato alcune parti della struttura lignea e della policromia che necessitavano quindi di interventi di consolidamento in certi casi anche urgenti. Le difficoltà maggiori si sono presentate in fase di pulitura. Infatti in alcuni casi siamo riusciti a rimuovere le ridipinture riscoprendo la policromia originale, di indiscusso maggior pregio, come nel caso dei dipinti sullo sfondo; in altri casi, come ad esempio il gruppo con il corpo del Cristo, le difficoltà di rimozione delle ridipinture e le incertezze sulla presenza e sullo stato di conservazione della policromia originale ci ha indotto a mantenere lo stato attuale.
Ci sono state delle sorprese? Sorprese sono emerse dalla pulitura del dipinto posizionato sullo sfondo, raffigurante Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea ai lati di una figura centrale. Infatti la ridipintura degli Annoni aveva cambiato i
simboli della passione, il martello era diventato una lancia mentre la tenaglia era diventata una corona di spine. La sorpresa maggiore è arrivata dal recupero delle dimensioni originali di alcuni pezzi, modificate dai restauri, che hanno permesso una più verosimile ricomposizione dell’ancona. Nella disposizione precedente le tavole sono state spostate verso l’esterno per consentire l’inserimento del gruppo all’interno della struttura. La nuova disposizione quindi prevede il gruppo con il corpo del Cristo all’esterno della struttura. Inoltre in una foto scattata prima del restauro Annoni, si nota come le lesene che sostengono l’arco, poggiavano su dati con specchiatura in finto marmo; questi, ora scomparsi, sono stati rifatti con le dimensioni dedotte dalla foto.
La cappella quindi è stata prima monitorata registrando i cambiamenti di umidità e di temperatura durante un anno, e solo successivamente è stata pro-
Lei ha sicuramente visitato la mostra dedicata ai Maestri della scultura in legno nel ducato degli Sforza, tenutasi durante l’inverno 2005/6 nei Musei del Castello Sforzesco di Milano, nella quale era esposto anche l’altare della Pietà di Orselina, dopo l’intervento di restauro. Che cosa può dirci in merito a questa esposizione? L’esposizione raggruppava alcuni pezzi del panorama lombardo tra la fine del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento. I pezzi selezionati dai curatori non erano tanti ma tutti significativi, esposti in ambienti dove le luci ed i percorsi ne accentuavano le caratteristiche qualitative e simboliche. L’altare della Pietà si inseriva nella mostra sicuramente come l’opera strutturalmente più complessa e completa dell’esposizione.
Sa dirci come mai l’altare restaurato non è ancora ritornato al santuario della Madonna del Sasso? Bisogna fare una premessa. Una della cause del degrado dell’opera erano le condizioni ambientali, ed in particolare gli sbalzi di temperatura e umidità a cui era esposta quotidianamente. Dopo il restauro si impone la necessità di ricollocare l’opera in un ambiente adatto alla sua conservazione.
gettata ed in fase di realizzazione una camera che determini condizioni ambientali controllate e quindi ideali per la conservazione dell’altare della Pietà. intervista a cura di fra Agostino
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Messaggio dall’Ordine Francescano Secolare
Sorelle e Fratelli dell’OFS
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on grande entusiasmo siamo ripartiti con la nuova veste grafica e tematica di Messaggero, ricevendo molti apprezzamenti e suggerimenti per una continua miglioria della rivista. Come già fatto più volte, mi permetto di richiamarvi al fatto che su queste pagine il nostro Ordine Francescano Secolare trova spazio per pubblicare gli avvenimenti importanti che la nostra fraternità regionale vive nel corso della propria storia. Per permettere a questo prezioso strumento di comunicazione di sopravvivere, è necessario che tutti i membri delle nostre fraternità del Ticino e dei Grigioni si abbonino personalmente, investendo in modo sapiente 30.- franchi per anno. Il 2008 si presenta come un anno interessante di novità: la fraternità di Mendrisio, dopo 7 anni di assistenza spirituale da parte mia, è stata affidata al parroco di Chiasso, don Gianfranco Feliciani, che ringrazio di cuore da questa pagina. Ora si tratta di trovare un assistente locale anche per la fraternità di Stabio; siamo in trattative con un frate cappuccino lombardo. La mia intenzione è quella di dedicarmi unicamente al Consiglio Regionale, lasciando così l’assistenza locale del mendrisiotto, anche per un continuo accumularsi di impegni pastorali, professionali e comunitari. Nei mesi di febbraio, marzo ed aprile, ci siamo ritrovati a Spazio Aperto per la formazione regionale. I temi sono stati: La misericordia, La Pasqua - festa della vita, La carità. Rinnovo l’invito fraterno a tutti voi a tenere in grande considerazione gli aspetti formativi che il Consiglio propone. In febbraio sono stato in Guinea Bissau dove, con un gruppo di volontari, abbiamo stretto i rapporti con una clinica che si occupa di mamme sieropositive con i loro bambini ed una scuola cattolica francescana. Sul prossimo numero di Messaggero ne parlerò più ampiamente. A tutti auguro che la gioia pasquale rimanga in voi e vi accompagni ogni giorno nell’incontro con il Signore risorto presente nei nostri fratelli. fra Michele Ravetta
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La fraternità di Bellinzona ha celebrato il giorno 20 aprile scorso il suo Capitolo elettivo. Sono risultati eletti: ministra, Franca Humair; vice ministra, Angela Maricelli; consiglieri: Verena Rossi, Annamaria Bertossa, Carla Bruschi, Casoni Sylva. Al nuovo Consiglio il Messaggero augura buon lavoro.
Siamo vicini al dolore di Antonio Doninelli, recentemente toccato dalla perdita della cara moglie Diomira, pure nostra sorella francescana sempre assidua con Antonio nella Fraternità di Mendrisio. Il Consiglio regionale OFS esprime ad Antonio e ai familiari, a nome di tutta la Fraternità della Svizzera italiana, commosse condoglianze.
“N
arrare” la speranza, costruire la speranza: così avevo concluso il messaggio OFS nell’articoletto riservatoci nell’inserto del Messaggero di gennaio/marzo. A portare questa speranza il passaggio della reliquia di Sant’Elisabetta ha contribuito non poco. Ho avuto l’impressione che chi ha partecipato alle diverse liturgie preparate con tanta dedizione dalle Clarisse di Cademario, ha sentito il soffio dello spirito di questa Santa, nostra patrona, così vicina alla nostra vita di oggi per la sua attualità. Preghiera e lavoro simboleggiati nelle mani che sorreggevano la reliquia. Mani che si congiungono per pregare, mani che lavorano, mani francescane, nostre e di tante nostre sorelle e fratelli che ci hanno preceduto. Mani che sanno portare la speranza nelle nostre città, nei nostri villaggi, perché le loro strade siano, come per il giullare di Dio, il nostro padre San Francesco, le vie per portare un sorriso, una carezza, la gioia della vita che prorompe in primavera, nei suoi fiori colorati ricchi di promesse.
Dopo il passaggio a Cademario la reliquia ha ripreso il suo cammino verso la Lombardia. Con una piccola delegazione sono stata a Milano per assistere alla sua nuova dipartita per il Veneto. Nell’austerità della Basilica di Sant’Ambrogio folta di pubblico, sono echeggiati i canti prettamente francescani in cui ci siamo riconosciuti e accolti nella grande famiglia OFS. Sì, perché non siamo soli! Questo è importante da ritenere, da riflettere. Siamo in tanti! E ciascuno con due mani per pregare, e lavorare perché possa il vicino di casa, l’amico che viene da lontano, riconoscerci fratelli e discepoli di Cristo (Gv. 13,35). Gabriella Modonesi
Cronache dalle Fraternità Con questo contributo desidero presentare la fraternità OFS di Poschiavo. Siamo in 22 membri attivi - più 4 sostenitrici - che più o meno partecipiamo ai ritrovi la quarta domenica di ogni mese, da ottobre a maggio. Le professe anziane che non hanno più la possibilità di prendere parte alle riunioni sono 11 (penso però che con la preghiera ci possano essere sempre vicine); altre 4 consorelle non partecipano ai raduni (probabilmente a causa di salute malferma); infine 2 consorelle e 1 confratello abitano fuori valle. Da un elenco degli ultimi 13 anni risulta che 45 tra consorelle e confratelli sono tornati a Dio: purtroppo le fila si assottigliano. Forze nuove, al momento, non ce ne sono ma se è volontà di Dio e di San Francesco ci potrà essere una ripresa. L’assistente spirituale è il nostro parroco don Cleto Lanfranchi. Lo scorso anno abbiamo approfondito le schede di ‘San Francesco nel mondo per il mondo’. Quest’anno ci proponiamo di vedere insieme, almeno per quanto ci sarà possibile, le schede di ‘Il cammino della fraternità’. Con le altre fraternità OFS vallerane (cioè San Carlo, Prada, Le Prese, Brusio e Campocologno) ci siamo trovati il 23 settembre 2007 per un pellegrinaggio al convento dei frati francescani a Montagna (Sondrio) e il 14 ottobre successivo per l’inizio del nuovo anno sociale a Poschiavo. Abbiamo celebrato i Vespri, seguiti da una meditazione nella nostra chiesa parrocchiale di San Vittore e conclusi con un fraterno ritrovo. Il nostro rammarico è che siamo fraternità OFS della Svizzera italiana un po’ lontane dal nucleo centrale (se va bene ci vogliono 6 ore di viaggio andata e ritorno da Bellinzona) e il guaio è che gli anni più belli ormai se ne sono andati. Andiamo comunque avanti e che San Francesco ci sia sempre di aiuto e di guida. Alice
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Messaggio francescano
L’ideale e la realtà
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ra Tommaso da Celano riferisce che Francesco “insegnava ai suoi a costruirsi piccole abitazioni e povere, di legno e non di pietra, e cioè piccole capanne, di forma umile”, in conformità al detto evangelico di Matteo 8,20: “Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio di Dio non ebbe dove posare il capo” (FF 642). Per Francesco quindi, dato che i frati dovrebbero vivere in questo mondo come pellegrini e forestieri, la casa di pietra (che richiama visivamente la stabilitas loci dei monaci) non può certo essere adatta a loro. Meglio una capanna che ricordi Betlemme, o un rifugio provvisorio, dove ripararsi in caso di cattivo tempo o di eccessivo freddo. Per capire questa logica sanfrancescana, leggiamo ora di seguito due episodi molto significativi al riguardo. “Una volta si doveva tenere il Capitolo presso Santa Maria della Porziuncola. Mentre era imminente il tempo fissato, il popolo di Assisi osservò che non vi era una abitazione adatta e, all’insaputa dell’uomo di Dio, assente in quel periodo, costruì una casa per il Capitolo, nel minor tempo possibile. Quando il padre ritornò, guardò con meraviglia quella casa e ne fu molto amareggiato e addolorato. Subito, per primo, si accinse ad abbatterla. Salì sul tetto e con mano vigorosa rovesciò lastre e tegole. Pure ai frati comandò di salire e di togliere del tutto quel mostro contrario alla povertà. Perché, diceva, qualunque cosa troppo vistosa fosse stata tollerata in quel luogo, ben presto si sarebbe diffusa per l’Ordine e sarebbe stata presa come esempio da tutti. Ed avrebbe demolito dalle fondamenta la casa, se i soldati presenti non si fossero opposti al fervore del suo spirito, dichiarando che apparteneva non ai frati, ma al Comune” (FF 643). “Un’altra volta, stava tornando da Verona con l’intenzione di passare per Bologna, quando udì che vi era stata costruita una nuova casa dei frati. Poiché la voce diceva “casa dei frati”, egli cambiò direzione e passò al-
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trove, non andando a Bologna. Mandò poi a dire ai frati di uscire subito da quella casa. Per questo motivo, lasciato il luogo, non vi rimasero neppure i malati, ma furono fatti uscire assieme agli altri. Né fu dato permesso di ritornarvi sino a quando il Signor Ugolino, allora vescovo di Ostia e Legato in Lombardia, predicando proclamò davanti a tutti che la suddetta casa era sua. Ne è testimone e riferisce il fatto uno che, trovandosi ammalato, fu in quell’occasione allontanato dalla casa” (FF 644). Non possiamo sapere se i due episodi qui riportati siano veramente accaduti, o invece (come sembra più probabile) siano stati inventati dall’agiografo. Ciò che quì ci importa, infatti, è il messaggio che è sotteso ai due episodi narrati. Avrete già senz’altro notato che in ambedue i casi, allorché viene decisa la costruzione di una casa per i frati, Francesco è dato come assente. Il che è già di per sé molto significativo, perché – a meno che si tratti di un espediente letterario di fra Tommaso – tutti i frati avrebbero dovuto già conoscere le idee di Francesco riguardo alla povertà dei frati. Nel primo caso narrato è Francesco stesso che prende l’iniziativa della distruzione di quel “mostro contrario alla povertà”. È un Francesco non solo meravigliato, ma addolorato e amareggiato. Nel secondo caso, Francesco non è presente, perché ha deciso di nemmeno vedere il nuovo “mostro”, ma da lontano ordina perentoriamente a tutti i frati, anche a quelli infermi, di uscire subito dall’edificio. È poi interessante rilevare che, sia nel primo episodio che nel secondo, le case si salvano solo per un intervento esterno, che ha tutta l’aria di un astuto stratagemma. Un intervento comunque di persone che appartenevano alla categoria dei ‘maiores’, non legata quindi alla ‘minoritas’ e al voto di povertà di Francesco e dei suoi frati minori. Quest’ultima annotazione non fa che aumentare la probabilità dell’invenzione dell’agiografo, per descrivere l’amore smisurato di Francesco per ‘Madonna povertà’. Ma i due episodi non possono neppure celare un certo senso di integralismo o, se si preferisce, di letteralismo di Francesco. Infatti, se si deve sempre puntare sull’ideale, la realtà spesso obbliga a scendere, per così dire, a necessari compromessi, segnatamente quando si è in presenza di indigenza materiale o morale. Senza perdere di vista mai, comunque, l’ideale e il desiderio di raggiungerlo, con coraggio e con pazienza, per il bene proprio e della comunità. fra Riccardo Quadri
Chi sono i religiosi? Anche nel nostro paese ci sono delle realtà ecclesiali poco conosciute, fra queste quella dei religiosi e religiose. Molti si chiedono: chi sono i religiosi? Risponde questo “messaggio” ricordando che nello scorso febbraio si sono radunati a Torhout in Belgio i superiori e le superiore maggiori di 38 conferenze nazionali di 26 nazioni europee. Il seguente messaggio è il risultato delle riflessioni di questo gruppo che presenta i voti e le speranze delle comunità religiose.
Tensione per Cristo, tensione per l’umanità, vissute in comunità L’Europa è una realtà complessa e composita, fatta di molte identità culturali, molte etnie e molte lingue, sostenuta da religioni e convinzioni diverse. L’Europa è una terra di grandi possibilità e di slanci di solidarietà, di tante povertà con nomi nuovi, progetto audace di unità e intreccio di individualismi nazionali. L’Europa è una terra promessa e spesso negata ai poveri che bussano alle sue porte e chiedono uno spazio di speranza e giustizia. Noi religiosi e religiose che abbiamo favorito, nel corso della storia, la nascita della sua identità culturale, umana e cristiana, vogliamo ancora contribuire perchè l’Europa non perda queste sue radici profonde. Noi religiosi e religiose ci sentiamo figli di questa Europa dalla storia dolorosa, con le stesse tensioni, contraddizioni e debolezze, ma siamo anche portatori di un grande progetto di spiritualità e fraternità. Noi crediamo che le nostre comunità, dono dello Spirito, affermano il primato di Dio perché sono il luogo dell’incontro con Cristo che ci ha scelti e riuniti, e ci dà la grazia di rispondere al suo amore, vivendo una fraternità autentica, gioiosa e leggibile. Noi crediamo che le nostre comunità sono vere scuole che conducono ad un processo di conversione dall’io al noi, risvegliando la passione per l’incontro e il gusto di essere felici insieme. Noi crediamo che le nostre comunità sono scuole di relazione, in cui i legami con l’altro si tessono pazientemente, mettendo in comune le risorse, le difficoltà e le fragilità di ciascuno. La forza del legame costruisce comunione e l’unità si crea integrando le differenze. Noi crediamo che le nostre comunità sono scuole di riconciliazione e perdono. La ricerca della verità lascia affiorare il dolore e il limite, riconosce il male in noi, fuori di noi e lo denuncia, ponendo gesti di pace. Noi crediamo che le nostre comunità sono scuole di ospitalità, per fare spazio a Dio e agli altri, e ascoltare il grido degli esclusi, degli umiliati, degli immigrati. Animati dalla passione per l’umanità, mettiamo in atto tutti i mezzi che possano ridare dignità alla persona. Noi crediamo che una comunità evangelizzata è chiamata ad evangelizzare. E’ una missione che si realizza in modo nuovo: con una presenza umile, con una collaborazione crescente tra i diversi istituti ed i laici, con un linguaggio nuovo di misericordia e speranza. Questo è il contributo che vogliamo dare, come religiosi e cittadini, al divenire umano e spirituale dell’Europa.
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Lo smarrimento di Arjuna Dieci minuti per te
Siamo divisi al nostro interno
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l primo capitolo della Bhagavad Gita si sofferma a descrivere – come accennavo nel nostro primo appuntamento – il campo di battaglia di Kuruksetra, il campo di Kuru. Questo campo divenne famoso a motivo delle pratiche ascetiche di Kuru, antenato comune dei Pandava e dei Kaurava che ora sono schierati gli uni di fronte agli altri, pronti per la battaglia. Arjuna, principe ed eroe dei Pandava, è seduto sul suo carro, di fronte ai due schieramenti. Deve decidere se buttarsi nella mischia o tirarsi in disparte, rinunciando all’ingaggio. Dopo un lungo elenco di principi e di eroi che si trovano schierati dall’una e dall’altra parte, la Gita si sofferma a descrivere lo smarrimento di Arjuna. Al momento di dare inizio alla battaglia, infatti, Arjuna è colto da una crisi profondissima. Egli si rende perfettamente conto che si tratta di una guerra fratricida, al termine della quale non si potrà dire a chi arrise la sorte migliore, se ai vincitori o ai vinti. A che serve vincere una guerra, se poi si devono piangere amici, parenti, maestri e fratelli? «Dovrò uccidere i miei parenti e i miei amici? No, non combatterò!». È questa la conclusione a cui Arjuna arriva, al termine di un sofferto travaglio interiore. In effetti, il motivo della guerra è così descritto da Krishna Prem: «I Pandava sono cinque fratelli aventi diritto al trono, che è stato invece usurpato da Dhritarastra, il re cieco dei Kaurava, e da suo figlio Duryodhana. I Pandava sono stati condannati all’esilio per avere perso una partita a dadi e, di ritorno, hanno reclamato il loro diritto al trono, ma non sono stati esauditi. Questa è la causa del Mahabharata, la grande guerra».1 Commenta Bede Griffiths: «Fin dai tempi antichi, questa battaglia è stata interpretata in chiave simbo-
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lica: da una parte e dall’altra del conflitto i Pandava rappresentano la giustizia e i Kaurava l’ingiustizia. Il campo di battaglia è il campo del mondo e Arjuna rappresenta l’anima umana seduta nel carro del corpo, impegnata nella battaglia della vita. I Pandava, i legittimi sovrani, sono il vero Sé. Sono stati esiliati dalla loro terra e il loro posto è stato usurpato da Dhritarastra, il re cieco che si dice abbia cento figli. Egli rappresenta l’ego – ossia l’«io» incentrato su se stesso – con le sue innumerevoli passioni e i suoi innumerevoli desideri, rappresentati qui dalla sua numerosa progenie. Il simbolismo vuol dire che oggi nell’essere umano il regno è stato rovesciato e il re legittimo è stato esiliato. Il Sé ha perso il controllo e questo falso governatore che ha usurpato il trono, l’ego, domina l’essere umano» e le sue stesse istituzioni.2 Per cogliere fino in fondo la portata di questo simbolismo, occorre tuttavia scendere dal piano teorico sul piano della vita concreta. Finché rimaniamo sul piano delle speculazioni teoriche e delle dottrine, infatti, la scelta per chi parteggiare – se per le tendenze egoiche della nostra natura o per il Sé – non è sempre scontata, ma sicuramente più facile, perché, dopo tutto, ci coinvolge relativamente. Sul piano della vita concreta, invece, il conflitto diventa reale e lo smarrimento è di casa, sia sul piano individuale che collettivo. Posti davanti a scelte concrete, agiamo abitualmente in uno stato di contrazione mentale, condizionati da ignoranza, paura, dipendenze, pregiudizi e precomprensioni varie. «Siamo vissuti – diceva Freud – da forze che non conosciamo». Non sempre ce ne rendiamo conto, ma è proprio questa cecità a rendere più grave la nostra condizione.
«La battaglia – commenta ancora Bede Griffiths – avviene dunque nel campo della natura umana. Siamo divisi al nostro interno e contro noi stessi. Le energie spirituali dell’uomo sono state mandate in esilio e il trono è stato usurpato dal re cieco, ovvero dall’io ripiegato su se stesso».3 Dopo aver cacciato le energie spirituali, l’io egoico ha usurpato il trono. Così non è più la luce dell’intelligenza a ispirare le nostre scelte, ma la sete di potere, l’avidità, l’ignoranza, la paura. Può apparire strano che la Gita chiami parenti, amici, fratelli e maestri le tendenze egoiche della nostra personalità che, con maggiore o minore successo, tutti cerchiamo di superare. Ma in realtà, le cose stanno proprio così. Sono nostri parenti e maestri, dai quali facciamo fatica a congedarci, perché sono costitutivi della nostra personalità. Oltre tutto, svolgono un ruolo economico di fondamentale importanza nel complesso processo evolutivo della persona. Una splendida pagine di Freud ci aiuta a capire lo smarrimento di Arjuna, così da vedere meglio nella nostra vita. Il compito di gestire con intelligenza e amore la vita è affidato interamente a noi, in quanto ci qualifichiamo quale «io» cosciente e libero, capace di scegliere e di volere. Ma si tratta di un compito spesso arduo e difficile. Infatti, le esigenze e i condizionamenti che incontriamo dentro e fuori di noi sono molteplici. Scrive Freud: «Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Ma il povero io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni, severi, e si dà da fare per mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese. Queste, oltre tutto, sono sempre divergenti e spesso sembrano essere inconciliabili. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se l’io fallisce tanto spesso
nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es. E quando si seguono gli sforzi cui l’io è costretto per soddisfare contemporaneamente o, per meglio dire, per ubbidire loro contemporaneamente, non ci parrà fuori posto di aver personificato questo io, ossia di averlo presentato come un ente a se stante. Il poveretto, in realtà, si sente stretto da tre parti, minacciato da tre specie di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando angoscia… Spinto dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà, l’io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l’esclamazione: la vita è davvero dura!».4 «La grazia è dimenticarsi», diceva Bernanos. E Gesù precisa: «Chi perde la propria vita per me e per il vangelo – cioè per la verità che fa liberi e per l’amore – la troverà. Chi invece è preoccupata di salvare la propria vita, la perderà».5 Sul piano ideale siamo tutti d’accordo. Ma quante resistenze non incontriamo a volte quando, scendendo dal piano ideale su quello della vita concreta, cerchiamo di tradurre in gesti, atteggiamenti e azioni quotidiane quegli ideali che sappiamo «essere veri». La vita è un campo di battaglia, dice la Bhagavad Gita. Su questo campo incontriamo una moltitudine di parenti, amici, maestri: bisogno di autoaffermazione, modi di sentire e di pensare a cui ci siamo assuefatti, abitudini contratte, paure, preconcetti e pregiudizi, ignoranza, attitudini distruttive, che però ci sono note, familiari e, quindi, rassicuranti e care. Perché combattere per superarle? A che serve? Combattere per migliorare, porta davvero qualche
vantaggio? Dove c’è un impegno, oltre tutto, c’è sempre anche spazio per l’insuccesso, l’incomprensione e la delusione. Osserva Bede Griffiths: «Lasciamo l’Egitto, lasciamo le apparenze e andiamo nel deserto. Il nostro stato, a questo punto, è, molto spesso, quello di chi ha rinunciato a tutto, ma, umanamente, sembra non avere guadagnato nulla». Ecco perché Arjuna si dispera. «Egli depone le armi e rifiuta di combattere, perché non sembra esserci nulla per cui valga la pena combattere».6 1.26 … Vedendo schierati in quel luogo padri e avi, maestri, zii materni, fratelli, figli, nipoti e compagni, 1.27 suoceri e amici … 1.28 Arjuna fu invaso da un’immensa compassione e, desolato, disse queste parole: «O Krishna, vedendo questa mia gente schierata, pronta a combattere, 1.29 languiscono le mie membra; la bocca inaridisce e un tremore e un brivido insorgono nel mio corpo; 1.30 l’arco mi scivola di mano, la mia pelle brucia. Non riesco a star saldo e la mia mente è come smarrita. 1.31 Vedo funesti presagi, o eroe dai lunghi capelli, e non riesco a scoprire alcun bene nell’uccidere la mia gente in battaglia. 1.32 Io non aspiro alla vittoria, o Krishna, né al regno, né ai piaceri: a che mi giova il regno, a che le gioie o la vita? 1.33 Coloro per i quali io desidero tutto questo – regno, gioie e piaceri –, proprio costoro sono qui schierati davanti a me, pronti a perdere, in battaglia, ricchezze e vita! 1.34 Sono maestri, padri, e così
pure figli e avi, zii materni, suoceri, nipoti, cognati e parenti. 1.35 Come potrei ucciderli? Se anche dovessi dominare sui tre mondi, non li ucciderei! Tanto meno per regnare su questa terra! 1.46 É meglio per me essere ucciso in battaglia, disarmato e senza opporre resistenza, piuttosto che resistere ai figli di Dhritarastra con la mano armata di spada!». 1.47 Così Arjuna parlò sul campo di battaglia e tosto s’accasciò sul sedile del carro, lasciando cadere l’arco e le frecce, col cuore agitato dall’angoscia». fra Andrea Schnöller
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Testo riportato da Bede Griffiths, Fiume di compassione: un commento cristiano alla Bhagavad Gita, Appunti di viaggio, Roma 2006, p. 11-12 2 Bede Griffiths, Fiume di compassione: un commento cristiano alla Bhagavad Gita, Appunti di viaggio, Roma 2006, p. 12 3 Bede Griffiths, Fiume di compassione: un commento cristiano alla Bhagavad Gita, Appunti di viaggio, Roma 2006, p. 13 4 Freud S., L’io e l’es, in Opere, Boringhieri, Torino 1977, vol. IX, p.517-520 5 Mt 8,35 6 Bede Griffiths, Fiume di compassione: un commento cristiano alla Bhagavad Gita, Appunti di viaggio, Roma 2006, p. 14
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Messaggio biblico
Leggere la Bibbia Alcune fonti bibliche Nello scorso numero abbiamo parlato dei generi letterari nella Bibbia, cioè del vestito con il quale si presenta un discorso e dicevamo che è importante capire questi generi letterari per approfondire il messaggio di una determinata pagina biblica. Quest’oggi vogliamo fare un passo avanti ponendoci alcune domande: la Bibbia ha sfruttato la letteratura precedente?... Gli autori biblici hanno attinto da altri poemi?... Qualsiasi scrittore che oggi si accinge a produrre un opera storica si documenta; se vuol fare una pagina poetica si immerge in un clima di poesia contemporanea, se vuole scrivere delle pagine di romanzo, studia lo stile del romanzo. Per la Bibbia è capitata la stessa cosa e non vale l’obiezione a cui cercheremo di rispondere un’altra volta: la Bibbia è Parola di Dio, è stato Lui che l’ha dettata e quindi non ha nulla da prendere dalla letteratura che la circonda o che circondava i singoli autori. No, anche la Bibbia è immersa nella realtà sociale, storico-letteraria, culturale del suo tempo e dato che i tempi sono diversi perché diversi i libri e diversi gli autori, è importante saper scoprire le fonti che hanno servito a questi autori per comporre i loro pensieri.
Il mito nella Bibbia Una di queste fonti è il mito. Parlare di mito nella Bibbia vuol dire, prima di tutto, dimenticare quella superficiale definizione che equipara il mito alla favola, alla leggenda, a qualche cosa del genere, per cui si ha una certa paura ad applicare questo termine alla Bibbia. In realtà il mito è stato “una delle grandi manifestazioni della cultura umana e soprattutto è stato la prima grande teologia”. Il biblista mons. Gianfranco Ravasi che scrive queste parole, aggiunge: “il mito, preso seriamente, è un modo per parlare del mistero quando questo mistero ha in sè un che di ineffabile, un qualche cosa che non può essere del tutto espresso con le categorie normali e allora si ricorre alla forza del simbolo, forza che regge tutti coloro che vogliono penetrare nel mistero”. Ecco allora, anche nella Bibbia, l’uso dei miti! Perché la Bibbia - lo possiamo affermare con certezza - si muove proprio partendo da una serie di ricerche mitiche che erano state fatte nell’antichità. Soprattutto nei primi libri della Bibbia, quelli che noi analizzeremo, sono stati usati vari miti, trasformati, purificati nei loro elementi negativi e riproposti, perché potessero trasmetterci dei misteri. Per esempio: il mito di Deucalione e Pirra, un uomo e una donna che su una grande
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barca solcano le acque di un diluvio per far rinascere un’umanità nuova, non è forse - debitamente modificato - paragonabile al biblico diluvio universale? Il mito orientale dei vari giardini dove si può compiere il bene ed il male, non ha servito al racconto del paradiso terrestre? Il mito dei giganti o semi-dei, ecc. ecc. In altre parole, perché rifiutare agli autori biblici di aver sfruttato le antiche mitologie dei loro tempi, trasformandole in canali che portano a noi la Parola di Dio?...
La storia nella Bibbia Se la Bibbia usa il mito, vuole dire che non tutte le pagine della Bibbia sono pagine storiche? Ecco un’altra espressione che ha bisogno di spiegazioni: “storia biblica”. Evidentemente, quando noi eravamo bambini sui banchi del catechismo scolastico, il buon parroco ci insegnava che la storia di Adamo ed Eva era avvenuta realmente così, che tutta l’umanità proveniva da quella prima coppia, che quella prima coppia aveva generato dei figli; e l’imbarazzo del catechista era evidente se un ragazzino intelligente gli chiedeva: ma allora i figli di Adamo ed Eva erano fratelli e si sposarono tra di loro? Poi, nelle classi del ginnasio, ci hanno insegnato che la scienza aveva un’altra versione, rifiutava l’origine dell’uomo proveniente da una coppia sola. Allora la nostra confusione aumentava a dismisura, perché ben difficilmente il professore di scienze era disposto a trattare seriamente una nostra domanda sulla differenza delle due ipotesi, quella biblica e quella scientifica. Come anche il catechista difficilmente si cimentava in una seria risposta al noto problema del rapporto fra scienza e fede. Ho detto che ciò capitava durante il periodo ginnasiale di venti, trenta anni fa. Non è vero, ancora ultimamente trovai al liceo dei ragazzi che mi chiedevano: com’è possibile mettere d’accordo il racconto biblico e il racconto scientifico?... Ed allora spiegavo che i due racconti sono completamente distinti e che l’uno non interferisce sull’altro. Certamente la Bibbia ha delle pagine storiche, ma il termine “storia” non va assunto secondo il nostro criterio, perché per noi “storia” suppone una documentazione da cui non si può prescindere e nella Bibbia, soprattutto nei primi capitoli della Genesi, questa documentazione non esiste. Allora noi possiamo dire che molte pagine bibliche non sono storiche nel senso attuale del termine, e possiamo affermare che non vogliono raccontare ciò - e soprattutto come - sono avvenuti certi fatti all’inizio
del mondo attuale. Queste pagine hanno altri scopi, più profondi ed anche più misteriosi. Perciò dovrebbero lasciare perdere tutte le loro fatiche quei bravi scienziati cattolici che vogliono tentare l’accordo fra testo biblico della creazione e la teoria dell’evoluzione; questi scienziati, e tutti i catechisti e predicatori che cercano queste concordanze, perdono il loro tempo, perché le pagine della Bibbia normalmente non ci danno una descrizione scientifica, ma usano il modello scientifico e storico del loro tempo per lanciare dei messaggi. La parola “storia”, nella Bibbia, ha dunque un altro significato e un altro valore; quando leggeremo le pagine su Adamo e su Abramo, leggeremo la storia esistenziale dell’uomo, del credente; non leggeremo una cronaca di giornale sul signore Adamo, o gli avvenimenti e le crisi religiose del signore Abramo. Ma la Bibbia ci trasmetterà la storia di quel Adamo che siamo noi che abbiamo sempre la tentazione di diventare Dio; la storia di quel Abramo che siamo noi che, con difficoltà, cerchiamo di offrire al Signore le cose che da Lui abbiamo ricevuto, perché a quelle ci siamo troppo attaccati e le abbiamo trasformate in altrettanti idoli. La Bibbia dunque - almeno nel libro della Genesi - non è un libro storico e non è un libro scientifico nel senso moderno del termine. Ma allora, che cosa è? È “Parola di Dio”! È Libro di sapienza! È Messaggio all’umanità! È programma di vita! È bussola per orientarci nel dedalo di questa nostra complicata esistenza! È tutto questo, e nei prossimi “Pensieri” cercheremo di spiegare, con parole povere e secondo le nostre più povere capacità, queste affermazioni.
No alla sapienza in pillole Dopo aver detto che la Bibbia non è un libro di storia e non è un libro di scienza, nello scorso numero iniziavamo ad avanzare delle affermazioni su cosa è la Bibbia, dicendo che è: “Parola di Dio”, libro di sapienza, programma di vita, ecc. Non mi soffermo su la “Bibbia Parola di Dio”, perché questa affermazione presuppone un atteggiamento di fede che forse non tutti i miei lettori si sentono di avere. Preferisco riflettere sulla Bibbia come “Libro di sapienza”. Ci sono nella Bibbia dei libri che si chiamano sapienziali, ma con ciò non si vuole dire che la sapienza biblica è tutta concentrata solo in quelle pagine. Dal primo capitolo della Genesi all’ultimo capitolo della
Apocalisse, la sapienza sprizza da molti versetti biblici; sapienza intesa come atteggiamento fondamentale che l’uomo della Bibbia assume nei confronti dell’essere, del reale. Abbiamo detto che alla Bibbia non si chiede quando è avvenuto questo, come è avvenuto quello, ma gli si deve domandare: che senso hanno questo e quello? Che senso ha l’uomo, che senso ha il mondo, che senso ha il bene, che senso ha il male? Che senso ha la vita, che senso ha la morte? Queste erano le grandi domande della sapienza d’Israele, le domande ultime, come dice Gianfranco Ravasi. Ma ci sono anche le domande penultime, concernenti tutti i problemi concreti: perché l’uomo si copre di vestiti? Perché c’è la fatica del lavoro, perché le doglie del parto? E la Bibbia si preoccupa, sempre nei primi capitoli della Genesi, di rispondere anche a queste domande. E poi tante altre domande, più profonde: perché l’uomo è tentato, perché l’uomo - che ha tutto - è insoddisfatto, perché l’uomo deve soffrire? E anche a queste domande la Bibbia ci aiuta a dare una risposta. Infine ci sono anche le grandi domande spirituali: esiste Dio? Perché alle volte lo sentiamo vicino questo Dio e alle volte lo sentiamo lontano? Esiste la vita nell’aldilà? Perché alle volte ci crediamo e alle volte la neghiamo, se non con le parole, soprattutto con i fatti? Leggere con intelligenza e con fede la Bibbia vuol dire rispondere a queste domande che stanno nel profondo del nostro cuore e ogni tanto si affacciano alla nostra mente. Evidentemente per avere una risposta è importante possedere delle chiavi di lettura. La prima chiave è quella già annunciata della mitologia; non bisogna aver paura di vedere, dentro la Bibbia, dei fatti mitologici tolti da altre culture di altre religioni o della stessa cultura e religione ebraica; sono anche questi veicoli, canali, sentieri, attraverso i quali ci arriva la Parola di Dio. Forse, invece della paura, dovremmo coltivare quel sano ottimismo per saper vedere anche nelle mitologie e nei miti di oggi, quello che vi è di positivo. Se cercassimo di scoprire come Dio ci parla anche attraverso i miti odierni, (i miti del pallone, della musica, del cinema, ecc.) riavvicineremmo alla fede e alla religione i nostri giovani che di questi miti sono grandi adoratori, mentre noi adulti abbiamo la tentazione di disprezzarli e di rifiutarli in blocco. La Bibbia non ci insegna forse che niente è così cattivo da non avere in se un seme di positività? fra Callisto Caldelari
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Messaggi dal mondo della Chiesa
Uno studio sulla Chiesa svizzera
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lla fine del 2007 è stato pubblicato, a cura dell’Istituto svizzero di sociologia pastorale un fascicolo di 120 pagine dal titolo “Katholische Kirche in der Schweiz. Zahlen-Fakten-Entwicklungen, 1996-2005”. Lo studio, assistito da numerose statistiche, si articola in 8 capitoli: dopo un primo che tratta dell’evoluzione numerica dell’appartenenza religiosa (comprendente il periodo 1970-2000), un secondo e terzo capitolo riferiscono dell’organizzazione territoriale della Chiesa svizzera (che non è una Chiesa unitaria, ma si articola in 6 diocesi) e del personale ecclesiastico occupato, il quarto capitolo è dedicato alle popolazioni immigrate, il quinto agli ordini e comunità religiose, il sesto agli studenti di teologia e relative facoltà teologiche, il settimo all’evoluzione del numero dei battesimi rispetto alle nascite e dei matrimoni religiosi rispetto a quelli civili, infine l’ottavo capitolo presenta confronti con la situazione religiosa nei paesi confinanti con la Svizzera.
Cambiamenti nella popolazione I dati statistici delle appartenenze religiose nel periodo 1970-2000, raccolti dai censimenti federali, spiegano l’origine dell’attuale “pluralismo” religioso svizzero: nel 1970 la quasi totalità della popolazione svizzera dichiarava di appartenere alle due comunità cristiane (la cattolica per il 49,39%, l’evangelica-riformata per il 46,42%); nel 1990 i cattolici erano ancora il 46,15%, mentre i protestanti erano già discesi al 38,51%, perché gli immigrati stranieri provenivano prevalentemente da paesi cattolici; ma nel 2000 i cattolici discendevano al 41,82% e i protestanti al 34,04%: in quel decennio avvenne infatti la crescita, a seguito dell’immigrazione specialmente dall’Europa orientale, di ortodossi (nel 2000 risultati l’1,81% della popolazione totale) e di musulmani (nel 2000 risultati il 4,26%, in totale oltre 310.000 persone). Tale evoluzione percentuale negativa per le Chiese tradizionali (in parte compensata numericamente dall’aumento della popolazione) è verosimilmente continuata dal 2000 ad oggi, specialmente a causa della crescita del fenomeno nuovo dell’abbandono delle Chiese e l’aumento di coloro che dichiarano di non appartenere a nessuna religione (11,11%) oppure non danno alcuna indicazione (4,33%). I cambiamenti all’interno della popolazione svizzera non concernono solo l’appartenenza religiosa, ma anche la distribuzione delle confessioni sul territorio nazionale, a causa delle migrazioni interne, spe-
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cialmente dai cantoni cattolici nelle grandi agglomerazioni e città originariamente a maggioranza protestante, cui si aggiunge l’apporto di lavoratori stranieri che ovviamente si dirige specialmente verso i centri commerciali e industriali. Lo studio dell’Istituto pastorale documenta come nel periodo 19702000 nelle città di Zurigo, Ginevra e Basilea (le tre “capitali” della Riforma) la popolazione cattolica ha superato quella protestante, anche se ambedue le Chiese hanno subito rilevanti diminuzioni: con evidenti difficoltà dal profilo pastorale, già per la diminuzione dei... contribuenti. Il fenomeno delle “uscite” dalle Chiese cattolica e protestante è analizzato dettagliatamente per singoli Cantoni (si sa che l’organizzazione civile-ecclesiastica è regolata dai singoli Cantoni): una tabella riassuntiva informa che per la Chiesa evangelica riformata, nel periodo 2001-2005, l’abbandono fu annualmente tra il 2,9‰ al 22,3‰ a Basilea Città, mentre tra i cattolici fu annualmente tra il 3‰ ad Obwalden al 7,1‰ a Zurigo, con una punta massima del 20,1‰ a Basilea città. In quest’ultima città, mentre la popolazione totale è diminuita del 13% dal 1976 al 2000, la comunità cattolica è passata da 83.867 fedeli a 31.847 (-62%), e la comunità protestante è diminuita da 96.790 a 36.872 (-61,9 %); gli appartenenti ad altre confessioni sono invece cresciuti da 46.161 a 119.200 (+158,2%).
Preti e assistenti pastorali Nel terzo capitolo l’analisi concerne il personale attivo nella pastorale. Lo studio quantifica la diminuzione dei presbiteri operanti nelle diocesi svizzere: nel 1969 i preti presenti nelle diocesi svizzere erano in totale 2977 (nel Ticino 269), nel 2005 erano 1709 (nel Ticino 208). L’evoluzione nella diocesi di Lugano è meno marcata che per le altre diocesi svizzere, probabilmente per aver favorito l’accoglienza di preti stranieri. Questo “rimedio” risulta dal confronto tra preti residenti in Svizzera e preti “incardinati” nelle diocesi: in totale nel 2005 i presbiteri appartenenti a diocesi estere erano in Svizzera 223 (nel 1991 erano invece 167), nel Ticino erano 37 nel 2005 (25 nel 1991). Tuttavia è noto che il numero dei preti di origine estera presenti nel Ticino è certamente maggiore (basta scorrere i loro nominativi): nel 2008, secondo l’Annuario diocesano, i preti diocesani attivi nel ministero sono 123, mentre gli extradiocesani sono 36 (circa un quinto). Quali le conseguenze sulla diocesi, non è compito della statistica ricercarle.
L’aspetto più interessante della statistica sul “personale religioso” è tuttavia rappresentato dai dati relativi agli “assistenti pastorali” occupati nelle diocesi svizzere: nel 2005, contro 973 preti diocesani e 244 preti regolari (appartenenti a comunità religiose), operavano 117 diaconi e 563 assistenti pastorali (di cui 205 donne). Assenti nella diocesi di Lugano e poco diffusi in quella di Sion, gli “assistenti pastorali” rappresentano più del 40% del personale nelle diocesi di Basilea e San Gallo (mentre nella diocesi di Coira sono percentualmente meno, perché pressoché assenti nella parte grigionese). Il dato più sorprendente riguarda la diocesi di Basilea: dal 1983 al 2005, gli assistenti pastorali sono aumentati da 72 a 287, mantenendo così quasi invariato il numero degli addetti alla pastorale (da 688 a 700). Ma questi dati non mancano di suscitare parecchi interrogativi sull’influsso nelle comunità parrocchiali: infatti in 128 casi l’assistente pastorale è anche responsabile della comunità e in 36 si tratta di una donna.
Battesimi e matrimoni Lo studio dell’Istituto pastorale sangallese fornisce pure dati globali su due “eventi” significativi, il battesimo e i matrimoni religiosi. Anche questi dati evidenziano un regresso numerico (parzialmente mascherato dall’aumento della popolazione totale): purtroppo nella statistica non è compresa la diocesi di Basilea, notoriamente la più popolosa della Svizzera. Per le altre diocesi, contro 49.067 nascite nel 1996 nel territorio relativo (il totale delle nascite in Svizzera fu allora di 94.372), i battesimi cattolici furono 18.978; nel 2005, contro 44.708 nascite (in Svizzera 72.903), i battesimi furono 16.496: la diminuzione sul periodo di dieci anni è stata quindi del 13,1%. A titolo di confronto, lo studio pubblica anche i dati relativi alle Chiese nazionali protestanti: i battesimi nel periodo 1996-2005 hanno registrato una diminuzione del 14,8%, ma nel periodo 1960-2005 la diminuzione è stata del 59,4% (da oltre 40.000 battesimi annui si è scesi per le Chiese protestanti a 16.240 nel 2005!). Per quanto concerne i matrimoni religiosi, i dati indicano una tendenza generale analoga: senza la diocesi di Basilea, nel 1998 i matrimoni civili furono in totale in Svizzera 23.332, e i matrimoni cattolici 5.645; su 24.872 matrimoni civili nel 2005, per le diocesi considerate i matrimoni cattolici furono 4.430, con una diminuzione percentuale su otto anni del 21,5% . Nella diocesi di Lugano, si è scesi da
766 a 558 matrimoni, con una diminuzione del 27,2%. E’ tuttavia da considerare, oltre all’aumento della popolazione di altra religione, i numerosi matrimoni tra coniugi divorziati, quindi esclusi dal matrimonio cattolico. La percentuale di diminuzione dei matrimoni religiosi è analoga, sul breve periodo, a quella registrata dai protestanti (25,6%), mentre risulta una diminuzione rilevante del 65,6% sul periodo 1960-2005. Infatti, in Svizzera, su 40.139 matrimoni civili nel 2005, solo 5.632 furono celebrati dalle Chiese protestanti e 4.430 dalla Chiesa cattolica (cui bisogna aggiungere circa altri 4.000 della diocesi di Basilea, purtroppo non censiti).
Confronti internazionali Nel capitolo conclusivo i dati svizzeri vengono confrontati con quelli dei paesi viciniori (Germania, Francia, Austria) e risultano molte analogie. Ad esempio, per il periodo 1970-2005, la diminuzione del clero diocesano è stata del 34,8% in Germania, del 57,7% in Francia, del 20,9% in Italia (che probabilmente ha accolto molti preti esteri), del 40,6% in Austria (per la Svizzera la diminuzione è stata del 45,6%). A compensare la diminuzione dei presbiteri, le Chiese degli Stati confinanti hanno aumentato il numero dei “diaconi permanenti”: dal 1990 al 2005, in numeri assoluti, sono aumentati in Germania da 1.489 a 2.742 (di cui 1.066 a tempo pieno), in Francia da 571 a 1.958, in Austria da 256 a 529, e notevole l’aumento anche in Italia, da 949 a 3.124, dove rappresentavano nel 2005 l‘8,4% del personale attivo nella pastorale (il 10,9% in Francia, il 17% in Germania!). Lo studio offre anche i confronti tra la Svizzera e gli altri paesi europei circa la diminuzione del numero dei battesimi e dei matrimoni religiosi: i primi sono diminuiti, in dieci anni, tra il 13 e il 24%, i matrimoni religiosi tra il 19 e il 27%. Alberto Lepori
Schweizerisches Pastoralsoziologisches Institut,” KATHOLISCHE KIRCHE IN DER SCHWEIZ. Zahlen-Fakten-Entwicklungen, 1996-2005”, 2007, pp.120, Gallustrasse 24, Postfach 1926, 9001 St.Gallen
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Messaggio ecumenico
L’indulgenza è ancora un ostacolo al dialogo ecumenico? In occasione del 150° anniversario delle apparizioni di Lourdes, che ricorre quest’anno, Benedetto XVI ha disposto che “tutti i singoli fedeli veramente pentiti, debitamente purificati mediante il sacramento della confessione, e ristorati con la santa comunione, e innalzando infine devotamente preghiere secondo l’intenzione del sommo pontefice, potranno quotidianamente lucrare l’indulgenza plenaria, applicabile anche, a modo di suffragio, alle anime dei fedeli in purgatorio”.
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apa Ratzinger sembra particolarmente amare le indulgenze: da quando è stato eletto successore di Pietro, sono già state numerose (oltre ai consueti appuntamenti con la benedizione “urbi et orbi” a Natale e a Pasqua) le occasioni in cui la Penitenzieria apostolica ha disposto, per volere del pontefice, l’indulgenza plenaria. Citiamo ad esempio la Giornata mondiale della gioventù 2005 a Colonia e, lo stesso anno, l’8 dicembre per il 40° anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II o ancora le giornate mondiali del malato o l’incontro mondiale delle famiglie del 2006 a Valencia. Orbene, anche se le indulgenze attuali non hanno nulla a che vedere con gli abusi che nel XVI secolo scatenarono la Riforma di Lutero, ci si può chiedere se questa prassi, estranea a tutte le altre Chiese cristiane, non costituisca ancora un ostacolo per il dialogo ecumenico e se non sarebbe il caso di accantonarla per rispetto e considerazione nei confronti dei “partner” ecumenici.
Che cos’è l’indulgenza? Ma vediamo innanzitutto che cos’è l’indulgenza. Al n. 1471 del Catechismo della Chiesa cattolica leggiamo: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, remissione che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. L’indulgenza è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati. Le indulgenze possono essere applicate ai vivi o ai defunti”. Questa la definizione “tecnica” dell’indulgenza. Ma per una spiegazione in parole più semplici, più comprensibili, ci siamo rivolti a uno specialista, don Manfred Hauke, professore ordinario di patrologia e dogmatica alla Facoltà di teologia di Lugano: “Il nocciolo della questione è la realtà tremenda del peccato da una parte e la misericordia di Dio, dall’altra. Il peccato, illustrato per esempio da Gesù nella parabola del figliol prodigo, è l’allontanamento da Dio perché
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l’uomo prende come unica misura se stesso. Soltanto Dio può perdonare il peccato e offrire il perdono a chi si pente sinceramente. Il peccato è una realtà così tremenda che la sua guarigione completa non avviene facilmente. Il peccato, anche se perdonato, porta con sé delle conseguenze intrinseche che vanno anch’esse risolte. Qui sta l’importanza della differenza tra peccato e “pena del peccato”. Possiamo paragonare il perdono del peccato e l’assoluzione delle conseguenze con quello che avviene in un grave incidente: una persona seriamente ferita viene salvata dai soccorritori, ma ci vogliono ancora delle settimane affinché le ferite possano guarire. Se facciamo il confronto con il sacramento della riconciliazione, il soccorso al ferito può essere paragonato con l’assoluzione sacramentale da parte del ministro di Dio e la guarigione delle ferite con la penitenza e le opere buone fatte in seguito dal penitente (una guarigione per la quale di solito non basteranno tre Ave Maria). Per capire la modalità dell’indulgenza, è utile ricordarne lo sviluppo storico. Un punto di partenza è la distinzione tra peccato e pena (temporale) del peccato. Un altro elemento è l’intervento della Chiesa, che si manifesta in pratiche analoghe già nel tempo antico. Quando durante una persecuzione un cristiano aveva rinnegato la fede, non veniva ammesso subito alla riconciliazione e alla comunione eucaristica, ma doveva fare una penitenza a volte molto lunga. Il tempo di penitenza poteva essere abbreviato quando un altro cristiano - che aveva subito tante sofferenze grazie alla sua fedeltà durante la persecuzione (un cosiddetto “confessore”) – gli prometteva di pregare per lui e gli dava un “libello di pace”. In base a questo libello, il vescovo poteva abbreviare il tempo di penitenza e accordargli la pace con la Chiesa. Nei meriti e nella preghiera dei santi, sulla base della soddisfazione vicaria per noi di Cristo sulla croce, si intravede già quella realtà chiamata a partire dal Medioevo “tesoro della Chiesa”. La Chiesa ha la possibilità di far partecipare a questo tesoro grazie al potere delle “chiavi del regno dei cieli” affidate a Pietro e agli apostoli, le “chiavi” per sciogliere e legare”. L’indulgenza libera dunque dalle pene temporali del peccato. Ma allora chi non ne usufruisce, anche se si è confessato e ha quindi ottenuto la remissione (il perdono) della sua colpa ed è in stato di grazia, quando muore dovrà comunque passare dal purgatorio per essere liberato dalle pene temporali del peccato prima di andare in paradiso? “L’indulgenza è il modo più facile e sicuro per ottenere la liberazione dalle pene temporali, ma evidentemente non è l’unico. Ogni atto di carità e ogni sacrificio contribuisce alla guarigione spirituale del credente. Siccome il perdono sacramentale non toglie ancora le pene del peccato, può darsi che anche in punto di morte rimarrà una situazione bisognosa di riparazione. Perciò la Chiesa fa di tutto affinché ogni fedele possa ricevere l’indulgenza plenaria in punto di morte: il sacerdote che amministra i sacramenti al fedele in pericolo di morte deve anche impartirgli la benedizione apostolica, con annessa l’indulgenza plenaria. Anche se non può essere presente un sacerdote, la
Chiesa concede ugualmente al fedele l’indulgenza plenaria in punto di morte, purché sia debitamente disposto e abbia recitato abitualmente durante la vita qualche preghiera; in questo caso la Chiesa supplisce le tre solite condizioni richieste per l’acquisto dell’indulgenza plenaria: la confessione sacramentale, la comunione eucaristica e la preghiera nelle intenzioni del sommo pontefice. Lo si legge nel Manuale delle indulgenze edito nel 1999 dalla Città del Vaticano. La purificazione nel purgatorio resta necessaria quando ci sono ancora dei peccati veniali, rispettivamente delle pene temporali da scontare”.
La posizione protestante Ovviamente, la posizione protestante sulle indulgenze è del tutto diversa. Così commentava il teologo valdese Paolo Ricca, a fine novembre 2005, la decisione di Benedetto XVI di concedere l’indulgenza plenaria per il 40° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II: “Siamo, a dir poco, sconcertati per un ricorso così frequente e ostentato all’indulgenza, la cui pratica, come tutti sanno, contribuì non poco alla divisione della Chiesa d’Occidente e che è tuttora un motivo di dissenso profondo tra cattolici ed evangelici. Certo, la Chiesa cattolica è liberissima di indire tutte le indulgenze che vuole, ma insistere sulle cose che dividono nuoce ai rapporti ecumenici e mortifica la speranza di chi lavora e fatica per l’unità dei cristiani. Ci chiediamo: perché, invece di “concedere indulgenze”, non si annuncia semplicemente il perdono dei peccati, gratuito e incondizionato, che Cristo ci ha guadagnato offrendo se stesso per noi sulla croce? Il puro e semplice Evangelo non è forse mille volte meglio di tutte le indulgenze possibili e immaginabili?” Nella stessa circostanza, rammarico era stato espresso anche dal pastore Giovanni Leopardi a nome dell’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del Settimo Giorno: “La dottrina delle indulgenze contraddice il Vangelo, perché distoglie l’attenzione del credente da Cristo, come unico dispensatore della grazia di Dio, per rivolgerla verso uomini che possono esserne solo testimoni ma non amministratori”.
una scissione tra la colpa perdonata e la pena temporale da espiare. Ad esempio un’indulgenza per ottenere la quale bisogna visitare le quattro basiliche papali (in precedenza patriarcali) di Roma (San Pietro, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano) non ha nulla a che vedere con lo sforzo spirituale che dovrebbe precedere l’assoluzione dei peccati”. Nell’ortodossia non esiste la nozione di purgatorio, ma quella di “stato intermedio” dopo la morte. Di che cosa si tratta? “Per quanto riguarda quello che avviene dopo la morte fisica, la Chiesa ortodossa insegna che l’anima del defunto passa per 40 giorni attraverso le cosiddette “dogane del cielo”, dove viene interrogata sul suo operato e poi riceve un giudizio personale in attesa del giudizio universale o finale. Durante il periodo che intercorre tra il giudizio personale e quello universale (alla fine del mondo), l’anima rimane in uno stato intermedio di beatitudine per i giusti e di tormento per i peccatori, uno stato ancora privo però (prima del giudizio finale) di un carattere definitivo. Nella Chiesa ortodossa le preghiere per i defunti sono un’intercessione presso Dio per ottenere il perdono per colui che, forse, nella sua vita, non ha fatto tutto quello che doveva o poteva fare, cioè che è morto con piccoli peccati inconfessati o che non ha portato frutti di pentimento per i peccati confessati in vita. Ogni perdono di peccati dopo la morte viene unicamente dalla bontà di Dio, con la cooperazione delle preghiere degli uomini, ma senza bisogno di alcuna forma di “soddisfazione” o” pagamento”. Sorprende, dal punto di vista ortodosso ma credo di poter dire soprattutto protestante, il fatto che il magistero cattolico non abbia riconosciuto fino adesso, in modo chiaro, che in nome della pratica delle indulgenze sono avvenuti nella storia dell’umanità diversi abusi. Da ortodosso e da ecumenista convinto, mi chiedo che senso abbia, al giorno d’oggi, l’intensificazione della pratica dell’indulgenza nella Chiesa cattolica”. Una questione, quella dell’indulgenza, tuttora aperta e che non potrà prima o poi non essere affrontata nei dialoghi teologici in corso tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane in vista dell’unità. Gino Driussi
Il punto di vista ortodosso Per padre Mihai Mesesan, parroco della Comunità ortodossa della Svizzera italiana, “l’idea di indulgenza non è completamente estranea all’ortodossia, ma non è stata sviluppata una teologia specifica in merito. Un’ “indulgenza ortodossa” potrebbe essere per esempio la preghiera che recita il vescovo alla fine della Divina Liturgia per la festa patronale di un monastero o per la consacrazione di una chiesa: è una preghiera di perdono collettiva, con la quale il vescovo intercede per i fedeli invocando l’infinita bontà di Dio. La critica ortodossa, per quanto riguarda la pratica delle indulgenze nella Chiesa cattolica, è essenzialmente legata al fatto che, lungo i secoli, c’è stata
Per saperne di più A chi vuole approfondire la questione delle indulgenze, suggeriamo la lettura dell’interessante libro “La discussione teologica sulle indulgenze dal Concilio Vaticano II fino ad oggi” (Galaxia Gutenberg: Targu Lapus, Romania, 2005). Si tratta di una tesi di dottorato elaborata alla Facoltà di teologia di Lugano da Wilhelm Tauwinkl. Con questo lavoro, partendo dalla discussione avviata durante il Concilio, l’autore intende mostrare come la dottrina e la prassi delle indulgenze siano ben radicate nella teologia e coerenti con lo sviluppo storico della comprensione della fede. Per Tauwinkl, l’indulgenza non è un corpo estraneo, ma un punto d’incrocio di dottrine fondamentali della fede cattolica.
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Messaggio amico
I santi e la medicina
S
e c’è un evento che sempre ha accompagnato l’uomo dalla sua comparsa sulla terra, questi è la malattia. Evento pieno di mistero che spesso venne ammantato di magia o di misticismo. Nella rappresentazione popolare della malattia non si cessò mai di credere ai fatti magici, come la possessione demoniaca o la punizione divina. Sin dai tempi più remoti si pensava che la malattia fosse mandata dagli dei offesi e che tale offesa fosse dovuta alla trasgressione di regole morali o sociali stabilite. Per il pensiero primitivo arcaico ogni malato è colpevole: la malattia è il risultato del suo comportamento. Alcuni medici razionalisti greci e romani rovesciarono poi questo rapporto, considerando il peccatore come un malato: egli agisce male perché la malattia lo priva di un giudizio sano e libero. La dottrina cristiana si ispirò a queste due fonti contradditorie, volle cioè conciliare la concezione semitica del ruolo patogeno del peccato e la concezione naturalistica greco-romana. Ne conseguì la necessità di un doppio trattamento, morale e fisico al tempo stesso. Il Cristo, “il primo medico”, guarisce sì i corpi, ma la sua potenza curativa arriva sino all’anima. Legando l’eziologia della malattia al peccato, il Cristianesimo l’ha trasformata in un mezzo di redenzione. Come ha scritto il Cardinale Angelo Scola “sempre la domanda di salute implica la domanda di salvezza”. La tradizione cristiana assimila il paziente al Crocifisso e tende a leggere la sofferenza della malattia come una “imitatio operis”, dove l’Opus è la Croce di Cristo. E con Gesù sorge un elemento importantissimo derivato da una profonda religiosità: il miracolo, che è il “figlio prediletto della Fede”, il principale elemento curativo all’ interno della dottrina cristiana che continua coi Santi. Questi ultimi sono (secondo una dottrina trasmessa dal Medioevo fino ad oggi) ausiliari o intermediari nei diversi compiti divini. In questo modo quindi i Santi vennero a sostituirsi alle pleiadi divine delle antiche religioni. Così nei primi secoli dell’era cristiana i vecchi dei o demoni incaricati delle malattie vennero sostituiti dai Santi tutelari. “A fame, peste et bello libera nos Domine”, O Signore liberaci dalla fame, dalla peste e dalla guerra. L’uomo del Medioevo, perseguitato da guerre, carestie e pestilenze gravissime (basti pensare alla terribile Peste Nera del Trecento) si vide costretto a ricorrere alle preghiere e all’ invocazione dei Santi. Se una critica si può muovere a posteriori al Cristianesimo primitivo fu che non promosse l’interesse a conoscere la ragione delle sofferenze fisiche di questa vita e ritornò all’antico concetto secondo il quale la malattia non era altro che un castigo per i peccati commessi (concetto purtroppo giunto in certi ambiti sino ai nostri tempi, basti pensare alla problematica HIV con
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tutte le sue complesse connotazioni relazionali, sessuali e sociali). La risposta dell’ammalato era l’accettazione silenziosa del dolore e della morte per risorgere in un mondo migliore. Ma il Cristianesimo apportò però alla pratica della medicina qualcosa di grandioso e di sconosciuto sino ad allora e di nuovo: la compassione “cum-patire, soffrire insieme”, la misericordia, la pratica curativa che sopperiva alla impossibilità di guarigione, la solidarietà umana. Nell’etica caritativa cristiana medioevale il concetto di cura aveva significati e valori trascendenti, che facevano di tale pratica non solo un’arte medica, terapeutica, ma anche un’opera di misericordia corporale e spirituale. L’immagine del Cristo “Salvatore e medico” si ribaltava in quella del “povero Cristo” da assistere, soccorrere e aiutare, secondo la Regola di San Benedetto che non era solo “ora et labora”, ma anche “infirmorum cura ante omnia”, la cura dei malati viene prima di tutte le cose (nr. 36 della Regola) e “tutti i malati che arrivino siano accolti come Cristo in persona, perché egli ci dirà: ero forestiero e mi avete accolto (nr. 53 della Regola Benedettina). Facendo un breve excursus storico possiamo dire che i Santi cristiani sorsero durante i primi quattro secoli della nostra era, quando i seguaci della nuova religione vennero sottoposti ad un’interminabile serie di persecuzioni, torture, martirii, vessazioni ecc. Questi fatti furono registrati da cronisti dell’epoca nei libri di protocollo e in altri documenti ufficiali: si dice che il documento piu’ antico di questo genere sia il Deposito Martyrum scritto verso l’anno 354, costituito da una serie di date e di nomi di Santi martiri. Durante i dieci secoli di Medioevo si andarono così costituendo leggende e racconti sui diversi Santi che acquisirono vocazioni e proprietà specifiche sui diversi tipi di malattie e di afflizioni. Nel secolo XIII un arcivescovo di Genova, Jacopo da Varagine (corrispondente all’odierna Varazze), scrisse un libro chiamato Leggenda Aurea, che divenne il libro più popolare e più diffuso nel Medioevo, dove narrava la vita dei Santi con un linguaggio semplice e diretto, ben comprensibile anche dal popolo e che presentava una grande varietà di descrizioni e di allegorie. La Leggenda Aurea ebbe anche un influsso decisivo sulle arti figurative quali la pittura, gli affreschi, le vetrate, le decorazioni in serie e i manoscritti come il famoso Libro delle Ore o Ora Sacra del francese Etienne Chevalier, che contiene 360 miniature dipinte da Jean Fouquet con scene della Passione di Cristo e della vita dei Santi. Con questi elementi il popolo ebbe una motivazione ed un rifugio per le sue pene e le sue paure. Per ogni malattia ci fu un Santo Patrono e per ogni caso preghiere specifiche. L’ufficializzazione dei Santi nella Me-
dicina avvenne ad opera di Papa Giovanni XXI, che scrisse un libro intitolato Thesaurus Pauperum o Tesoro dei Poveri, una specie di enciclopedia medica popolare che ebbe grande diffusione in tutta Europa, nella quale compose le diverse preghiere per le varie malattie e segnalò il Santo Patrono di ognuna di esse. E non poteva essere che così, visto che Giovanni XXI, al secolo Pietro Ispano, era un medico portoghese, famoso come oftalmologo ai suoi tempi, che dopo aver insegnato per oltre 10 anni all’ Università di Siena, giunto a Roma divenne il medico personale di cinque Papi succedutisi nell’ arco di pochi anni, finché salì al soglio pontificio il 13 settembre 1278. Nonostante la carica papale Pietro Ispano continuò ad occuparsi di Medicina scrivendo anche un famoso trattato di oculistica (Liber oculorum). Proprio per meglio attendere ai propri impegni e approfondire gli studi si fece costruire a Viterbo una stanza tutta per sé, accanto al Palazzo Ducale. Ma dopo appena otto mesi di pontificato “dormendo nella sua camera gli cadde la volta di sopra addosso e fu ritrovato sotto le pietre e i legni ch’era morto“, come scrisse l’ anonimo estensore dell’ epoca. Nel Tesoro dei Poveri di Giovanni XXI erano più di cento i Santi che venivano invocati e che la tradizione ha tramandato fino ai nostri giorni. Così solo per citare i più noti ritroviamo San Basilio protettore dei polmoni, San Biagio della gola, Santa Apollonia dei denti, Sant’Erasmo dell’addome, Santa Lucia degli occhi, San Vito curava la corea (detta ancora oggi “ballo di San Vito” nella Medicina ufficiale, era la terribile complicazione cerebrale del reumatismo articolare acuto). San Rocco era il protettore dalla peste, San Sebastiano dalle piaghe, Sant‘Antonio dal “fuoco di Sant’Antonio” (l’odierno herpes zoster), San Mauro dalla sciatica, Sant’Andrea dalla gotta e dalle malattie della pelle, San Lorenzo dalle scottature e dai dolori lombari, ed i Santi Cosma e Damiano, patroni della Medicina assieme all’Evangelista Luca, aiutavano i sofferenti nel caso del “mal della pietra” (i calcoli renali e vescicali). Ma il più invocato era San Benedetto perché curava la “risipola” (ora detta erisipela,vero flagello nei secoli scorsi, basti pensare che fino all’ inizio del 1900 era la causa più frequente di morte, conseguente a piccole ferite o lesioni cutanee, molto frequenti durante il lavoro nei campi, che poi si infettavano e provocavano uno stato febbrile acuto che conduceva all’exitus). Oggi sappiamo che l’affezione, ora facilmente curabile con antibiotici, è dovuta a un germe chiamato streptococco. Giovanni XXI ha tramandato così oltre cento storie di Santi, con tante storie personali, ma tutte segnate dalla grazia divina e dalla donazione umana. Pascal nei suoi Pensieri è stato esplicito e categorico al riguardo: “Per
fare di un uomo un Santo occorre solo la Grazia. Chi dubita di questo non sa cosa sia un Santo né un uomo”. Gianfranco Ravasi ha scritto che il Santo deve irradiare la sua luce, fecondare l’aridità del mondo, testimoniare e condividere la sua gioia e il suo amore. Non sorprende pertanto che anche in un’epoca come la nostra caratterizzata da un esasperato tecnicismo e da possibilità diagnostiche e terapeutiche inimmaginabili fino a solo qualche decennio fa, nonostante tutto ciò, chi è gravemente malato e si trova in uno stato di solitudine e di desolazione interiore, faccia ricorso tuttora ad altri elementi di appoggio e di sostegno nei quali possa credere e che possa capire. Tali elementi si trovano nelle radici religiose costituite, perlomeno alle nostre latitudini, dal Cristianesimo. Per chi si trova in una situazione di “abbandono” tipica della malattia grave o incurabile, la religione può apportare l’unica vera consolazione e la messa in pratica concreta del paradosso paolino “nel dolore lieti”. L’ individuo in stato di abbandono, sofferenza, spesso solitudine, talora vera e propria disperazione, prima o poi si rifugia nella religione: si rispolverano le preghiere apprese nell’ infanzia, si prega prima Dio e poi i vari Santi. Spesso il medico o il personale curante in cui il paziente ha deposto la propria fiducia possono assumere apparenze di Santità e anch’essi, assieme ai Santi, partecipano al miracolo del ristabilimento, della ascesa, del risveglio gradevole e del ritorno alla vita. Nella nostra ultratrentennale esperienza medica e in vari ambiti e luoghi possiamo constatare come attualmente i più invocati e presenti al letto dei malati siano due frati cappuccini, San Pio di Pietrelcina e Padre Leopoldo Mandic, le cui immagini fanno spesso capolino accanto agli effetti personali dei pazienti. In questo senso le esemplari figure dei Santi ospedalieri rappresentano il prolungamento nella Storia della figura del Cristo medico ben documentato nei Santi Evangeli. Così Camillo De Lellis, fondatore dei Camilliani; Giovanni di Dio, folle di amore per Dio e per il prossimo che girava per le vie di Granada invitando tutti con “fate del bene fratelli”, da cui l’Ordine dei Fatebenefratelli che tante benemerenze ha meritato nell’ assistenza ai sofferenti; e il Cottolengo e i più vicini a noi Moscati e Pampuri cosa ci insegnano? Il dono totale e assoluto della loro vita, una totale immedesimazione a Cristo. Essi sono stati testimoni di un geniale connubio fra carità ed intelligenza suscitando in se stessi e negli altri una speranza certa (Angelo Scola, Sulla Salute). Possiamo tutti ancora oggi trarre conforto dalle loro opere e dal loro esempio. Mario Corti
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Messaggi dai conventi
Un “deserto” tra il verde nni fa, un articolista molto sensibile scriveva su un nostro quotidiano: “Sarà per quel filo sempre più lungo, il filo della storia, lungo il quale dal 1535 ad oggi, i cappuccini hanno lasciato segni tangibili e indelebili, che nemmeno l’incendio del 1987 ha saputo cancellare. Segni scalfiti nel territorio e impressi nell’uomo, sia religioso o laico”. Sarà per questo, e chissà per quanto altro, che il Convento di Santa Maria del Bigorio rimane una presenza tanto discreta quanto importante.
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Questo luogo, uno dei conventi più antichi dell’Ordine dei cappuccini, fu dimora di anacoreti, uomini che praticavano assiduamente la “custodia del cuore”, cioè la vigilanza ed il discernimento su ogni pensiero che veniva loro in mente. Il Bigorio racchiude un tesoro particolare e ne fa partecipi tutti coloro che in continuazione salgono quassù, quasi per fuggire dal chiasso e dalla frenesia che ovunque dilaga. È il silenzio la carta vincente, vissuto in un’atmosfera particolare. Molte persone trovano il luogo adatto per meditare, per una revisione della propria esistenza, per riprendere fiato, prima di ricominciare la discesa verso la preoccupante vita di tutti i giorni. Molte sono le persone che chiedono di poter trascorrere delle giornate nel silenzio, ed è per questo che ogni anno offriamo un calendario con degli appuntamenti specifici che riguardano il silenzio e la meditazione.
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Giornate di meditazione cristiana Padre Andrea Schnöller, frate cappuccino, da più di venti anni continua, con la sua grande esperienza, ad animare corsi di meditazione, conferenze e ritiri. Sei anni fa ha fondato l’associazione “Ponte sul Guado” con sede a Condino in provincia di Trento, per favorire la meditazione e l’evoluzione delle coscienze. Al Bigorio anima quattro fine settimana all’anno e guida le persone a conoscere e praticare la meditazione cristiana, che è un cammino verso la consapevolezza. È un profondo contributo alla vita, quello di dedicare un po’ di tempo a sé stessi, alla propria persona, per essere più disponibili verso gli altri.
Deserto: incontro con Dio Queste giornate di deserto sono molto più di una espressione geografica che richiama alla nostra fantasia un luogo vuoto, arido, assetato e solitario, ma significano lasciarsi condurre attraverso il silenzio e la contemplazione di questo ambiente, alla riscoperta della parola di Dio, cercando di inserirla nella propria esistenza. Il deserto ha luogo due volte all’anno, prima della Pasqua e prima dell’Avvento, ed è animato da fra Roberto Pasotti.
Programma dei corsi 2008 Fine settimana per coppie e famiglie Fra Callisto Caldelari
Meditazione cristiana Fra Andrea Schnöller
Ritiro Spirituale
7-8 giugno 27-28 settembre 25-26 ottobre 18-19 ottobre 6-7 dicembre 6-7 settembre
Fra Riccardo Quadri
Deserto: incontro con Dio
14-16 novembre
Fra Roberto Pasotti
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Messaggi dalle adiacenze
Sull’ultimo numero di “Fogli”
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uscito lo scorso mese di aprile, secondo l’abituale scadenza annuale, il numero 29 di «Fogli», la rivista dell’Associazione “Biblioteca Salita dei Frati”. I primi due articoli della sezione Contributi, la più corposa, sono nati in margine alla recente mostra Editoria tra Svizzera e Italia: gli Agnelli nel Settecento a Lugano, gli Hoepli dall’Ottocento a Milano, organizzata in collaborazione dall’Archivio storico di Lugano, dalla Biblioteca cantonale e della stessa Biblioteca Salita dei Frati, dove sono stati esposti trenta fogli volanti stampati a Lugano dalla tipografia Agnelli nella seconda metà del Settecento. Al genere editoriale del foglio volante è appunto dedicato il primo contributo, di Ugo Rozzo, che ne traccia a grandi linee la storia, dalle origini della stampa al secolo XVIII. Dell’attività della tipografia Agnelli, la prima e più importante casa editrice che abbia operato nella Svizzera italiana, dal 1746 al 1799, quando la stamperia fu distrutta in seguito a una sommossa popolare fomentata da elementi reazionari contrari all’orientamento filofrancese degli Agnelli, tratta invece il secondo contributo: Giovanni Orelli ne ripercorre le vicende recensendo la monografia di padre Callisto Caldelari (L’arte della stampa da Milano a Lugano. La tipografia Agnelli specchio di una epoca, Lugano, Edizioni Città di Lugano,
Archivio storico, 2008). Anche il terzo contributo si occupa di problemi editoriali: Giampiero Costa illustra i rapporti che Francesco Chiesa ebbe con l’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini, documentati dal cospicuo carteggio intercorso tra i due. Il quarto contributo, infine, di Sarah-Haye Aziz, riguarda gli archivi dei materiali sonori e visivi prodotti dalla Radio e dalla Televisione della Svizzera italiana. Nella sezione Rara et curiosa, nella quale vengono presentati libri di particolare interesse e rarità posseduti dalla Biblioteca Salita dei Frati, Riccardo Quadri descrive l’incunabolo veneziano del 1485 con l’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale, un famoso esponente della corrente rigorista francescana che con la sua opera esercitò una grande influenza sulla spiritualità del tardo Medioevo. Segue la sezione In biblioteca, dove Alessandro Soldini descrive le esposizioni allestite nel porticato della biblioteca nell’anno sociale 2007-2008. Chiudono la rivista, nella Cronaca sociale, le informazioni sull’attività dell’Associazione e, nell’ultima sezione, la lista delle Nuove accessioni, dove sono elencate le pubblicazioni acquisite dalla Biblioteca Salita dei Frati nel 2007: con queste salgono a quasi quarantaduemila i libri inseriti nel catalogo informatizzato del Sistema bibliotecario ticinese, poco meno di un terzo del patrimonio librario della biblioteca stessa.
Le prossime conferenze Diamo ora alcune essenziali informazioni sulle conferenze che si terranno in biblioteca prima della pausa estiva. Il 13 maggio (alle ore 18) Gilberto Lonardi presenterà il suo volume L’oro di Omero. L’«Iliade», Saffo: antichissimi di Leopardi (Venezia, Marsilio, 2005): in
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questo saggio l’autore propone una nuova lettura della poesia leopardiana e del suo rapporto con gli antichi, indagando i modi in cui Leopardi interpreta forme e figure dell’antichità e interroga certi ’miti’ della sapienza occidentale, alla ricerca di quelle virtù che i moderni hanno dimenticato. Un secondo incontro sul poeta di Recanati è previsto il 3 giugno (ore 20.30): Ottavio Besomi presenterà l’ultima edizione critica dei Canti, curata da una équipe di studiosi sotto la direzione di Franco Gavazzeni (Firenze, Accademia della Crusca, 2006). L’opera si segnala, oltre che per una compiuta ricostruzione dei manoscritti e delle stampe, perché è corredata di un DVD che costituisce un eccellente strumento di lavoro: esso infatti consente al consultatore di vedere sullo schermo tutti i materiali, con le varianti e le correzioni, e quindi di verificare meglio le decisioni dei curatori. Con edizioni critiche fondate su tali supporti è nata, come è stato detto, la filologia interattiva. Tocca invece una tematica storicoeconomica l’incontro del 15 maggio (ore 18.15), promosso e organizzato in collaborazione con la Società filosofica della Svizzera italiana, nel quale verrà presentato, con una relazione di Piero Del Negro, il recente saggio di Paolo Farina Il disincanto della scienza: Giammaria Ortes (17131790): l’ “economia nazionale” contro i Lumi (Venezia, Marsilio, 2007): l’Ortes, figura importante dell’ antilluminismo italiano, si occupò di una scienza tipicamente moderna come l’economia e sostenne che nessuna riforma sociale può realizzare un maggior benessere per tutti. In autunno è previsto l’abituale ciclo di letture bibliche, che quest’anno verterà sul libro dell’Esodo e il cui programma è attualmente in fase di definizione. Fernando Lepori
La tipografia Agnelli e i Cappuccini di Lugano
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el precedente articolo Fernando Lepori parla della mostra Agnelli ancora in corso a Lugano (Villa Ciani) che al momento della sua apertura ha avuto in parte sede anche nella Biblioteca Salita dei Frati. Come mai? Risponde P. Giovanni Pozzi attraverso il seguente estratto della presentazione del primo volume della Bibliografia Luganese del Settecento (elenco delle dizioni Agnelli) tenuta nella Biblioteca di Brera (Milano) il 6 aprile 2000 e pubblicata per intero quale post-fazione del volume Editoria e Illuminismo fra Lugano e Milano (ed. Sylvestre Bonnard, 2005, pp. 281-287): Nella Biblioteca dei Cappuccini di Lugano, nei primi secoli della sua esistenza i libri furono depositati man mano che venivano acquistati; la biblioteca è conservata intatta, immune dalle soppressioni che hanno colpito gli ordini religiosi; e soprattutto per via di una singolare legislazione proposta ai Cappuccini: l’obbligo fatto a ogni frate di segnare con il proprio nome ogni acquisto librario personale con una formula precisa: “Ad uso di [seguito dal nome del frate e dalla carica allora occupata] applicato alla libreria di [seguito dal nome del convento in cui il frate dimorava]”. Non era una nota di possesso, bensì di spossesso, poiché il libro veniva così fissato in quel luogo e lì il frate lo lasciava quando cambiava convento. Questa legislazione permette di ricostruire la fisionomia culturale dei singoli possessori attraverso il progressivo accumulo del materiale librario. È quanto abbiamo tentato di fare, l’attuale bibliotecaria della Salita dei Frati Luciana Pedroia e il sottoscritto (P. Pozzi), precisamente per il Settecento, in un libro uscito a Roma tre anni fa e che reca per titolo la formula di cui ho detto: “Ad uso di…”. Abbiamo così schedato 1086 titoli firmati da Cappuccini. E qui entrano in scena gli Agnelli, e,
dalla parte dei frati, un uomo che non ha lasciato nulla di scritto, di cui c’è solo qualche ricordo come restauratore dei due conventi più belli che abbiamo in Ticino (Bigorio e Lugano), ma la cui figura rivive nelle firme che ha lasciato sui libri delle biblioteche cappuccine in cui ha dimorato: sui 1000 titoli inventariati a Lugano, oltre 400 portano il nome di Fra Agostino Maria d’Origlio. È altrettanto significativo che su 419 titoli del catalogo Agnelli di p. Callisto la biblioteca dei Cappuccini ne possegga 180. Ancor più significativo che di questo totale, ben 56 titoli siano stati rinvenuti dal Caldelari solo in questa biblioteca (e ben 28 per firma di Agostino) e che altri 74 figurano presenti in meno che cinque delle biblioteche da lui consultate. Invece sono presenti solo otto titoli fra quelli che hanno la falsa data di Lugano. È ovvio che fra l’Agnelli tipografo, il Vanelli suo consulente e il Cappuccino ci fosse un legame personale stretto, cosa oggi confermata dalla lettera che p. Callisto ha trovato nell’Archivio Vaticano. “In tanto V.E. sappia ch’jo son più che sicuro ch’il Padre Guardiano de’ Cappuccini di Lugano fa un detestabile commercio di questi libri critici, inviandone a Venezia, ed in altre parti delle Casse intere. Egli fabbrica un Convento le di cui spese, almeno una gran parte, le fa da questo ignominioso fondo. Questo è un Religioso protetto e bene inteso ne’ Svizzeri; onde converrebbe con politica tirarlo a Roma, che da questo si potrebbe il tutto scoprire. Se questo sortisse, creda V.E. che i gesuiti perderebbero un grand’Inimico; ma conviene portare un occulto colpo; per non fare una Cappuccinata”. Cosa abbia spinto un frate a collaborare con un editore tra i più attivi nella lotta contro la Compagnia di Gesù, non è facile da determinare. Tuttavia, al di là del contingente tornaconto di ambedue e al di sopra di rivalità clericali, improbabili almeno in tale forma, data la non presenza dei Gesuiti sul territorio, si può affer-
mare che alla radice ci fosse l’orientamento culturale rigorista, e in parte giansenista, quale appunto emerge in modo così netto dal complesso librario che i Cappuccini hanno firmato. Questo è il tratto d’unione d’un sodalizio tra il mondo ecclesiastico luganesi e il tipografo, che dovette avere profonde radici”. A testimoniare i rapporti che dovevano esistere tra i primi tipografi luganesi e la famiglia religiosa dei Cappuccini, sta il fatto che già nei primi anni della sua attività stampa opere certamente commissionati da frati. Nel 1747, pochi mesi che i torchi lavorano, abbiamo i Canti spirituali per le sacre missioni che si fanno dai PP. Cappuccini con un regolamento facile d’uni vira cristiana e devota. Nello stesso anno il Compendio della vita di San Giuseppe da Leonessa ed il Compendio della Vita, Martirio e Miracoli di S. Fedele da Sigmaringa Svevo, ambedue opera del P. Giuseppe da Cannobio, pubblicati in occasione della canonizzazione di questi due frati. In bene ed in male gli Agnelli ebbero rapporti con il vescovo diocesano capuccino Mons. Agostino Neuroni, al quale dedicarono dei fogli encomiastici, ma col quale ebbero qualche difficoltà quando furono accusati dagli Svizzeri di stampare alla macchia opere contro i Gesuiti, anche se il cardinale segretario di Stato Torrigiani accuserà Neuroni di essere troppo benevolo con quegli stampatori. Diversi cappuccini pubblicarono le opere dagli Agnelli, per tutti ricordiamo i fratelli Bonaventura e Vittore da Coccaglio. Per questi rapporti così stretti possiamo immaginarci che, soprattutto, Agostino Maria d’Origlio sia spesso entrato nella tipografia situata nella piazza grande di Lugano, e mentre ci sembra di vedere il vecchio abate Agnelli salire la “risciada” dei frati, entrare in convento e portare qualche volumetto antigesuitico fresco di stampa.
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Messaggi dalle adiacenze
Spazio Aperto: come si presenta e a che serve
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el primo numero del rinato Messaggero abbiamo presentato le attività che si svolgono al centro Spazio Aperto di Bellinzona, che riteniamo la cosa più importante. In questo numero vi offriamo una descrizione del Centro, come si presenta, affinché chi desiderasse ne possa approfittare per delle riunioni di gruppi, assemblee di società, seminari di ditte e associazioni, feste di famiglia. Come dice il suo nome, lo Spazio è aperto a tutti, importante è prenotarsi per tempo. Il fatto che funzioni anche come ristorante permette ad un ente di te-
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nere un seminario d'un giorno intero con pranzo, o un'assemblea che si prolunga con una cena e magari una festa. È spesso scelto per banchetti nuziali, per avvenimenti familiari, dato che un gruppo si può ritrovare da solo. I prezzi sono modici, il servizio accurato. Spazio Aperto è retto da un'associazione che porta lo stesso nome, della quale si può diventare membri con una tassa di fr. 100 per adulti e fr. 20 per giovani.
Un fortunato sussidio per la tua fede Su queste pagine della rivista segnaliamo dei libri da legP. Callisto Caldelari gere e dei filmati da vedere. È un servizio che Gesù, la prima bibliografia per chi dubita, vogliamo offrire ai nostri lettori nell'ambito è in difficoltà e non crede
e sociale in cui citicinese) muoviamo. culturale-religioso Bellinzona (Ed. Istituto bibliografico Purtroppo dobbiamo rinunciare a ciò che ave2008, fr. 28.vamo promesso nel primo numero circa le riSi può chiederlo alla segreteria della Comunità chieste alla redazione di acquisto delle opere del Sacro Cuore (tel. 091 82 00 880 ore d’ufficio). segnalate. Questo servizio vale solo per l'opera È uscita la terza edizione del lavoro di P. Callisto, il fortunato libro che nel solo Ticino, in un anno e mezzo ha venduto circa 3'000 copie. Ci fa piacere ricordare cosa su questo libro ha scritto uno dei massimi biblisti italiani, P. Ortensio da Spinetoli. “È libro veramente senza frontiere. Intorno a Gesù, sempre ammirati e attoniti, padre Callisto fa ritrovare ‘credenti’ di ogni colore, estrazione, confessione religiosa, cultura, professione, età, epoca. Renan con Ricciotti, Biffi con Maggioni, Martini, Ravasi. Solo per fare alcuni nomi poiché di fatto la panoramica è molto più vasta e soprattutto ancor più ampie sono le angolature. Si potrebbe dire che in questo libro c'è una risposta per tutti. In primo piano, o se si vuole al primo posto, c'è sempre la posizione più logica, la più coerente con l'esegesi (più) moderna, ossia attuale, quella che ormai dal Vaticano II ha fatto il suo ingresso anche nelle scuole cattoliche, anche se ancora non si è affermata pienamente poiché a trattenere gli studiosi ci sono sempre delle remore e delle paure, di certe gerarchie, ma che l'autore con una certa disinvoltura, diciamo pure nonchalance, ha fatto entrare senza preamboli e nemmeno del tutto distaccato, altrimenti l'avrebbe ignorata. Certo ci sono pagine pertinenti anche in Renan, perché non accoglierle? Come pure in Biffi che per altri versi è su posizioni tradizionali, perché escluderlo? Non solo per quanto riguarda gli autori, ma anche per le tematiche cristiche e cristologiche: non sono state selezionate da un particolare punto di vista critico. Si parla dell'infanzia (di Gesù) e della vita pubblica, del Battista e di Erode, della morte e della risurrezione, del Gesù uomo e del Cristo figlio di Dio in modo, si potrebbe dire, paritario. Ci sono le ragioni per mettersi da una parte o dall'altra, per pronunciarsi pro o contro, ma la scelta è rilasciata al lettore, a chi si è messo davanti al Protagonista e quindi ha preso a leggere il libro con animo di sincero ricercatore e non da semplice dilettante. Il libro non è un romanzo che illustra le gesta di Robinson Crosué, ma un testo di specifica catechesi cristiana. Chi scrive non è un qualsiasi saggista, ma un provato pastore di anime che non perde mai di vista il suo primo intento, che è sempre quello di far conoscere chi è stato e soprattutto chi è Gesù Cristo. La sua unica ambizione, o meglio preoccupazione, è aiutare in qualche modo il lettore a poterlo meglio comprendere, ‘seguire’, amare, poiché Gesù è di tutti e per tutti, non dei ‘pochi eletti’, anche di quelli e per quelli che non l'hanno preso mai seriamente in considerazione. Egli è sempre il grande benefattore dell'intera umanità, colui che si è provato, a prezzo della vita, a cambiare il corso della storia, additando ai suoi uditori, ebrei e non, con la parola ma più ancora con l’‘esempio’, con le sue scelte altruistiche eroiche, il modo di rapportarsi con Dio (da figli) e tra di loro (da fratelli), a qualsiasi estrazione, condizione culturale o sociale potessero di fatto appartenere. Il cristianesimo non è tanto una religione quanto una crociata umanitaria, un'accolita di uomini di buona volontà che hanno preso sul serio il ‘Discorso della montagna’, incentrato sulla ‘beatitudine’ di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, e se ne sono fatti propagatori e promotori. Predicare Cristo non è fare della buona teologia, ma contribuire a costruire e a dilatare sulla terra il regno di Dio, che equivale a realizzare tra gli uomini una convivenza di totale comprensione, solidarietà, pace! È per questo alto messaggio, ricordato a tutti, in particolare a quelli che a volte sono diffidenti o distratti, che il libro merita di essere conosciuto, preso in mano, sfogliato. Con sincera gratitudine a chi l'ha scritto.”
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Abbiamo letto... abbiamo visto... Su questa ultima pagina della rivista segnaliamo dei libri da leggere e dei filmati da vedere. È un servizio che vogliamo offrire ai nostri lettori nell'ambito culturale-religioso e sociale in cui ci muoviamo. Purtroppo dobbiamo rinunciare a ciò che avevamo promesso nel primo numero circa le richieste alla redazione di acquisto delle opere segnalate.
Milli Vai Il Vangelo di Gesù secondo Luca (Ed. Marietti) Se volete una vita di Gesù adattissima a bambini tra i 3 e i 7 anni ecco un testo che possiamo definire classico. Si tratta innanzitutto del testo evangelico secondo Luca, trascritto alla lettera in modo cattivante per chi sa leggere ed anche per chi non lo sa ancora. Ma la mamma, il papà o la tata possono mostrare i bellissimi disegni fatti dall’autrice che illustrano ogni piccolo comma (tre per pagina). L'esperienza di diversi anni d'insegnamento in prima elementare ha insegnato al redattore di questa rivista che un simile libro, preso come testo, porta i piccoli allievi ad una profonda conoscenza di Gesù così che al termine di quel primo anno scolastico abbiano una solida base per affrontare diverse altre nozioni inerenti la propria fede. Se il bambino non inizia il suo approccio scolastico-religioso con la conoscenza del "Maestro" per eccellenza, tutte le altre nozioni, sulla Madonna, sui santi, sugli angioletti o peggio sui diavoletti, non faranno altro che creare confusione.
Ernesto Borghi Il cuore della giustizia. Vivere il vangelo secondo Matteo. (Ed. Paoline) Siamo nell'anno liturgico A e la domenica, nella nostre chiese, si leggono i testi tolti dal vangelo di Matteo. Ecco perché il sussidio offerto da Ernesto Borghi ritorna utilissimo, sia per chi vuol prepararsi all'ascolto, sia per chi vuole ripassare ed approfondire ciò che ha ascoltato, sia per chi non ha avuto la fortuna di sentire un'omelia biblica che ha preso spunto dal testo evangelico, ma ha divagato su altri pascoli, cioè ha ascoltato un predicatore che ‘pascolava’. L'autore, che molti ticinesi conoscono, è il responsabile della formazione biblica nella nostra diocesi e presidente dell'Associazione Biblica della Svizzera Italiana. Dalla prefazione di Giuseppe Segalla ricaviamo che questo volume intende guidare nella comprensione della vera giustizia, il cui cuore consiste nell’amore senza limiti verso ogni essere umano. “Le questioni storico-critiche e letterarie sono trattate nelle poche pagine della breve introduzione, perché la finalità del libro è piuttosto quella di leggere il testo evangelico, di comprenderne l’autentico senso letterale con l’ausilio di un’esegesi essenziale sul testo originale (l’unica vera esegesi!) e di farne risuonare il significato” per donne e uomini d’oggi “chiamati a rispondere alle sfide del mondo in cui siamo chiamati a vivere. Il lettore è aiutato fin dall’inizio a porre il brano nel suo contesto, che lo illumina e nel contempo si fa un’idea dell’articolazione del vangelo stesso. La lettura dei brani scelti è interrotta da excursus dettati dal testo stesso su tematiche attuali, spesso scottanti, come il diavolo, i miracoli, il primato di Pietro e la dannazione eterna. Il percorso qui è diverso, più sintetico, ma non meno fondato nei testi biblici e con una base filologica sempre molto accurata”.