Messaggero 2010-12 Ott-Dic

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Rivista trimestrale - anno C

12 Ottobre Dicembre 2010

I sacramenti: Matrimonio Dieci minuti per te Messaggio dalla Madonna del Sasso Le pagine dell’Ordine Francescano Secolare


Intervista a don Sandro Vitalini

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Matrimonio e divorzio nella Chiesa

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Educazione religiosa in famiglia

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Corsi per fidanzati a Bigorio

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Giornata interfrancescana

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Essere francescani oggi

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Vivere l’attesa

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fra Andrea Schnöller

Diciotto mesi di cantiere

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Trent’anni della biblioteca

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Fernando Lepori

Appunti di vita ecclesiale

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Alberto Lepori

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

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Enrico Morresi

Messaggio biblico

Comitato di Redazione fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Claudio Cerfoglia (segretariato) E-Mail redazione@messaggero.ch Hanno collaborato a questo numero fra Agostino Del-Pietro Gino Driussi Alberto Lepori Fernando Lepori Enrico Morresi Maria Pola fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch

Gino Driussi

Una predica particolare

MESSAGGERO Rivista di cultura ed informazione religiosa fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano

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Lettera della Redazione

Eccoci all’ultimo numero di questo 2010 che sta terminando. Come sempre la fine dell’anno avviene in un modo festoso, immersi nelle feste natalizie. Sono sicuro che gli affezionati lettori del Messaggero sanno vivere il Natale con uno spirito cristiano attualizzando questa festa con una rinascita spirituale. Perciò gli auguri di ‘Buon Natale’, che tutta la redazione vi rivolge, sono all’insegna non solo della sincerità ma anche della spiritualità. Con questo numero termina anche il tema-guida che per un biennio ha analizzato i sacramenti. Alcuni apporti contenuti nella nostra rivista sono stati molto apprezzati, tanto da essere stati raccolti in un libro dal titolo Ama e fa quello che vuoi. I sacramenti dell’iniziazione cristiana per la vita di tutti. Questo libro, a cura di Ernesto Borghi, contiene nella prima parte gli articoli di don Sandro Vitalini e di p. Callisto sui sacramenti del Battesimo, Cresima, Riconciliazione ed Eucaristia. Nella seconda parte si trovano approfondimenti sugli stessi sacramenti opera dal curatore. Per il prossimo biennio la redazione ha optato per un approfondimento sui comandamenti spiegati dallo stesso don Vitalini sotto l’aspetto biblico e attualizzati da p. Callisto. In questo e nei futuri numeri continueranno le pagine sull’attività e spiritualità dell’Ordine Secolare Francescano, che in questo numero sono particolarmente sviluppate perché a Bellinzona sabato 2 ottobre si è tenuta una giornata interfrancescana. Non mancheranno le altre rubriche: sulla vita di qualche nostro convento o sulle “adiacenze”, le preziose pagine sulla vita della Chiesa di Alberto Lepori e sull’ecumenismo di Gino Driussi. P. Andrea continuerà con gli inviti alla meditazione e il dott. Corti, un appassionato di S. Francesco, sul Santo d’Assisi. Il materiale è vario e speriamo che i nostri lettori lo trovino interessante. Resta il problema degli abbonamenti: troppo pochi per coprire le spese. Perché non regalare un abbonamento quale dono natalizio a qualche famiglia parente o amica? Fareste un regalo a loro e alla rivista. la redazione

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Messaggio tematico

Intervista a don Sandro Vitalini In cosa realmente consiste il sacramento del Matrimonio? Se ci rifacciamo ai primi secoli notiamo che i cristiani che si sposavano seguivano le tradizioni locali, presentandosi però al vescovo o a un suo presbitero che ne accoglieva il consenso. Il consenso naturale sponsale diventa sacramento là dove la coppia cristiana riconosce che l’amore che la lega profluisce dalla stessa Trinità. Si tratta di un mistero grande: come Cristo Gesù ama la Chiesa e le dona la vita nel suo sangue, così, nel suo stesso Spirito, i coniugi si scambiano un amore non solo umano, ma divino. Si legga Efesini 5,21-33 e si noti che la sottomissione reciproca (v. 21) fa dei due sposi il servo l’uno dell’altra. La sottomissione che al v. 22 è richiesta alla sposa non va intesa quasi che questa fosse inferiore allo sposo, ma nel senso che il marito le lava i piedi, le dona la vita, si fa suo servo, come Cristo e nel suo stesso Spirito. Gli sposi cristiani sono la manifestazione dell’amore trinitario. Non meraviglia che la Chiesa primitiva si sia diffusa in un baleno grazie a queste coppie cristiane, che sbalordivano i pagani, immersi in una società corrotta, con tasso bassissimo di natalità e con l’imperversare di ogni sorta di vizi anche a sfondo sessuale (si legga il prologo della lettera ai Romani). Mi rendo conto che presento una realtà altissima, che solitamente viene sottaciuta nella preparazione odierna del matrimonio cristiano. Ma mi chiedo: ma allora è valido?

Si parla di “grazia sacramentale” anche per il Matrimonio, ma nessuno spiega in cosa consiste. Che cos’è dunque questa grazia? La grazia propria di questo sacramento fa sì che l’amore umano di una coppia sia divinizzato alla radice. Sposa e sposo sanno che si amano per una donazione che è propria delle divine persone, sono inseriti nel dinamismo stesso dell’amore trinitario. Come le divine persone sono uno nel flusso di un interscambio infinito ed eterno, così gli sposi diventano uno, si fondono progressivamente nella scoperta l’uno dell’altro, una scoperta che li porterà ad una fusione eterna. I tesori nascosti in un coniuge vengono scavati e messi in luce dall’altro, e così ci si accorge che più si scava e più si trova. Due coniugi, dopo cinquant’anni, anche se la bellezza esterna è sfiorita, trovano l’uno nell’altro delle ricchezze di tenerezza, ascolto, gentilezza, attenzione, premura, aiuto, che fa capir loro che il loro reciproco amore è più forte della morte e durerà per tutta l’eternità.

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Alla luce di ciò che capita oggi da noi (più della metà delle coppie divorziano) è ancora realistico sostenere l’indissolubilità del Matrimonio? Dalle premesse che abbiamo ricordato si deduce che un matrimonio celebrato in chiesa, con sfarzo di luminarie e di musiche, non è necessariamente valido. Il matrimonio cristiano è indissolubile come il vincolo tra le divine persone. Ma chi ha percepito e voluto che il suo matrimonio fosse penetrato da questo divino ed eterno amore? Un segno che ci porta a dire di sì alla domanda è la volontà dei coniugi di pregare assieme ogni giorno e di ricevere assieme ogni domenica la divina Eucaristia. Ritengo mostruoso il fatto che il Diritto canonico ammetta a questo sacramento un battezzato anche privo di fede. Ci sono sposi che rifiutano l’Eucarestia: a loro basta una bella, breve ‘cerimonia’. Ci rendiamo conto che noi supponiamo di imporre loro l’impegno a un amore indissolubile, quando questi non attingono dall’Eucaristia la forza per incarnarlo? Una scelta s’impone: o noi offriamo il sacramento solo a cristiani coscienti e impegnati e proclamiamo la sua indissolubilità, oppure continuiamo con la prassi attuale, pronti ad esaminare tutti quei casi di nullità che si presentano, coscienti che il nostro lassismo ha distribuito dei segni sacramentali senza accertarsi della loro effettiva validità.

Non le sembra troppo severa la disciplina della Chiesa che esclude un secondo matrimonio e l’Eucarestia ai divorziati? Preciso: i divorziati possono sempre ricevere l’Eucaristia. Il problema si pone per i divorziati risposati. La Chiesa orientale riconosce la possibilità di un secondo matrimonio, celebrato in ambito penitenziale, là dove il primo è stato riconosciuto ‘morto’. Anche nell’Antico Testamento si riconosceva la possibilità di un secondo matrimonio, tenuto conto della ‘durezza del cuore’ (Mt 19,8) delle persone. La nuova alleanza ristabilisce col Cristo l’unità della coppia (Mt 19,5-6), là dove essa accetta di lasciarsi coinvolgere nel dinamismo intertrinitario. Ma la ‘durezza del cuore’ resta largamente diffusa anche oggi, al punto che si può legittimamente temere che molti matrimoni celebrati come sacramento abbiano solo la parvenza di un contratto umano e possano essere dichiarati nulli da un punto di vista sacramentale. Ho conosciuto un numero impressionante di coppie, il cui matrimonio era sacramentalmente nullo, anche se non sempre era possibile ricorrere ai Tribunali ecclesiastici. Come confessore ho molte volte dato l’assoluzione e invitato ai Sacramenti. Faccio un caso tra mille: una donna nubile aveva sposato


il papà di parecchi figli ancor piccoli, la cui mamma era sparita in un altro continente. Questa donna aveva aiutato il marito a crescere nella fede i suoi figli e non aveva voluto bambini suoi perché temeva che li avrebbe potuti amare più degli altri. Questa sposa piangeva e io ho pianto con lei, dandole (dopo un’attesa di decenni) l’assoluzione. “Voglio la misericordia, non il sacrificio” (Mt 9,13; 12,7). Come perdoniamo un assassino pentito, così perdoniamo coloro che in un secondo matrimonio, morto il primo, ritrovano per loro e i loro figli la via della conversione e della pace.

Perché, a differenza degli altri sacramenti, non è il sacerdote, ma gli stessi sposi, ministri del Matrimonio? Faccio presente che per la Chiesa orientale è il presbitero il ministro del Sacramento (e il nostro prof. Corecco lo sosteneva anche per la Chiesa occidentale). Credo che si possa affermare che nella celebrazione del matrimonio cristiano siano gli sposi a voler fare ciò che fa la Chiesa, a volere dire di sì all’amore trinitario che vuole compaginarli in un amore indissolubile, e pertanto possiamo giustamente chiamarli ministri perché si scambiano questo eterno con-

senso. Se in una zona remota il prete non fosse reperibile in un lasso di tempo ragionevole, gli sposi hanno il diritto di celebrare il loro consenso davanti a Dio, presenti due testimoni. Aggiungo una nota che concerne tutti gli uomini e che i teologi antichi trattavano nel capitolo dei “sacramenti precristiani”. Tutti i sette miliardi di persone oggi sulla terra, come gli ottanta che ci hanno preceduto quaggiù, sono toccati dalla luce del Verbo e possono vivere nella grazia, se cercano di realizzarsi nell’onestà, nella giustizia, nell’amore per tutti. Anche il contratto matrimoniale assume un valore divino là dove gli sposi cercano di donarsi reciprocamente con tutta la loro volontà per tutti i giorni della loro vita. Si può così avere un ‘sacramento’, anche se è noto solo a Dio. Ma tocca ai battezzati rivelare il mistero dell’amore trinitario che si vuol comunicare a ciascuno di noi. Mi auguro che un manipolo di famiglie colme di amore trinitario (non conta il numero, ma la qualità) riprendano la missione evangelizzatrice specifica dei primi secoli per far capire ad ogni uomo la bellezza eterna del matrimonio celebrato nella Trinità.

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Messaggio tematico

Matrimonio e divorzio nella Chiesa

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arliamo di matrimonio che per il cristiano dovrebbe essere fondato sull’amore (il condizionale è d’obbligo perché trattiamo anche di divorzio, situazione dentro la quale spesso l’amore è sviato verso un’altra persona, ma pur sempre d’amore si tratta. Parlando di amore, partirei da una grande verità: Dovunque un uomo e una donna si amano al punto da fare del loro amore lo scopo della loro vita, quel loro amore diviene un segno valido per donarsi vicendevolmente la grazia di Dio (sacramento). Fatta questa premessa vorrei ricordare che tutto quello che riguarda l’amore umano (e di riflesso anche la sua mancanza o degenerazione) non può essere trattato con mezzi solo giuridici (come viene fatto oggi nei tribunali civili ed ecclesiastici), ma trattandosi di un sentimento profondo, interpersonale, vanno usati mezzi psicologici, e di conseguenza psicoterapeutici e psicanalistici. E’ questa mancanza che rende sterile, legalista, poco terapeutico l’agire soprattutto della Chiesa che spesso si accontenta di offrire solo tribunali, nei quali si usano solo strumenti legali e non indagine psicologiche. Eppure la figura e l’agire di Cristo è più simile a quello di uno psicologo che a quello di un giudice, anzi ha proibito il giudizio conoscendo la complessità del cuore umano,

e a chi voleva a tutti i costi giudicare ha indicato la trave del proprio occhio, piuttosto che la pagliuzza nell’occhio del fratello. E alle varie prostitute e peccatrici ha riconosciuto la capacità d’amore, mentre ha salvato dalla lapidazione un’adultera dicendole di andare libera, ma di non più peccare, quindi libera anche dai legami del male. Il testo su cui la Chiesa Cattolica appoggia l’indissolubilità del matrimonio e la sua prassi – dura – coi divorziati è:

Poi Gesù partì e andò verso i confini della Giudea, al di là del fiume Giordano. Ancora una volta la folla si radunò attorno a lui, come faceva sempre, Gesù si mise a insegnare. Alcuni che erano del gruppo dei farisei gli si avvicinarono. Essi volevano metterlo in difficoltà, perciò gli domandarono: “Un uomo può divorziare dalla propria moglie?” Gesù rispose con una domanda: “Che cosa vi ha comandato Mosè nella legge?” I farisei replicarono: “Mosé ha permesso di mandar via la moglie, dopo averle dato una dichiarazione scritta di divorzio”. Allora Gesù disse: “Mosé ha scritto questa regola perché voi avete il cuore duro. Ma da principio, al tempo della creazione, come dice la Bibbia, Dio maschio e femmina li creò. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna, e i due saranno una cosa sola. Così essi non sono più due, ma un unico essere. Perciò l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Quando poi furono a casa i discepoli interrogarono di nuovo Gesù su questo argomento. Ed egli disse: “Chi divorzia da sua moglie e ne sposa un’altra commette adulterio contro di lei. E anche la donna, se divorzia dal marito e ne sposa un altro, commette adulterio”. (Mc 10) Notiamo prima di tutto che il testo è diviso in due parti: anzitutto la provocazione, poi la spiegazione ai discepoli. 1. Gesù, usando il metodo rabbinico che ad una domanda risponde con una contro domanda, dice alla gente (farisei) che il divorzio concesso da Mosé non è un diritto, ma una eccezione o meglio una misura di emergenza nella condizione di allontananza da Dio (il cuore duro). 2. Ai discepoli ribadisce che il matrimonio è indissolubile, ma questa sua alta qualità non dipende da leggi, ma dall’amore verso Dio e verso il prossimo (coniuge) nel quale Dio è presente. Perciò a chi non ha imparato o ha cessato di amare, la cosa pare impossibile, resa tale dalla “durezza del cuore”. Da questa differenza teologica, essere o non essere nel-

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l’amore (ricordate Giovanni “…Dio è amore”…), scaturiscono tre principi importanti: La sacramentalità del matrimonio è fondamento della sua indissolubilità. In questa materia vi è differenza tra fede e legge morale. Il matrimonio e il celibato hanno la stessa radice: l’amore. Vediamoli in dettaglio.

Il sacramento è il fondamento dell’indissolubilità Così insegna la Chiesa cattolica, ma il problema sarà – come vedremo – quando vi è un sacramento, cioè quando fra i due celebranti (gli sposi) ci sono le condizioni necessarie per celebrarlo validamente, in modo che si possa ritenere che “Dio li ha congiunti”.

Differenza tra fede e legge morale Non si nega la necessità nel matrimonio di leggi morali e prescrizioni giuridiche. Ma bisogna insistere sulle tre virtù teologali. – La fede, senza la quale, come è possibile che Dio possa congiungere chi non crede in lui? – La speranza intesa come assoluta fiducia di chi ha unito se invocato costantemente, dona la forza necessaria perché questa unione continui anche in mezzo a sacrifici. – La carità, cioè l’amore verso Dio e verso chi è il più prossimo con la piena coscienza di essere testimoni • che esiste ancora l’amore sulla terra • che se esiste l’amore esiste Dio

Chiediamoci: – è capace di celebrare il sacramento del matrimonio chi è psicologicamente incapace di fissare il proprio amore su una persona? – chi si sposa per uscire di casa per difficoltà coi genitori, senza accorgersi che proietta sul coniuge le esigenze assurde che aveva sui genitori? – chi non ha completamente tagliato i cordoni ombelicali: “lascerà il padre e la madre” (amore di traslazione)? – chi non è capace di formare col partner una cosa sola, non tanto fisicamente (impotenza), perchè psicologicamente ossessionato a fare diventare l’altro simile a se stesso? Io mi rifiuto di credere che Dio congiunga persone simili. Voi mi direte: ma allora non concediamo il sacramento del matrimonio a nessuno! Risposta. E’ evidentemente difficile giudicare chi è pronto per ricevere il matrimonio quale sacramento, ma almeno tre pensieri meritano considerazione: 1. Così non si può continuare, si è corresponsabili anche come Chiesa dell’aumento dei divorzi. 2. La preparazione al matrimonio è l’ultima occasione per una revisione del proprio cristianesimo che da infantile deve passare ad adulto. 3. Perché per l’Ordine Sacro si obbliga ad una lunga preparazione con verifiche ed anche esclusione, mentre per il matrimonio bastano poche serate e ci sono parroci che non richiedono nemmeno quelle, o le fanno a coppie singole senza confronti?

Sintomi di crisi matrimoniale Matrimonio e celibato hanno la stessa radice: l’amore Su questo punto non mi soffermo, tanto è ovvio. Ma non mi sembra che sia questa comune radice che possa giustificare la prassi esistente nella Chiesa cattolica occidentale che l’uno debba escludere l’altro. Ho iniziato dicendo che la Chiesa dovrebbe tenere più in conto la psicologia quando tratta del matrimonio. Ed ho citato il passo di Marco, su cui poggia la sua dottrina sull’indissolubilità. Ora vorrei accostare questi due inizi per chiarire che il matrimonio diventa sacramento nel quale “Dio unisce” (non l’uomo, non la Chiesa) solo se i due sono capaci di questa unione.

Fatta questa necessaria premessa, veniamo a delineare alcuni sintomi di possibile crisi matrimoniale che si possono riscontrare già nei fidanzati. Quando tra i due vi è un amore spersonalizzante. Cioè una forza dell’eros che toglie la capacità di giudizio (quello che dice il più forte va sempre bene), toglie la capacità d’azione (quello che fa lui – o lei – lo devo fare anch’io se vogliamo essere coppia), toglie la libertà, la personalità, l’identità. E’ chiaro che in una simile coppia manca: • la ricchezza, è una coppia povera o impoverita • la possibilità di comprensione • la capacità (o volontà) di critica


Messaggio tematico

La divinizzazione (perché di questo si tratta) della persona amata va contro il primo comandamento e rende problematici tutti gli altri, anche il sesto ‘Non commettere adulterio’, perché tipi che vivono l’amore con questa possessività ossessiva, quando hanno spremuto come un limone la persona che dicono di amare (ma che in realtà vogliono solo possedere) vanno alla ricerca di un altro sulla quale puntare la loro fame di possesso. Se poi la persona posseduta s’accorge e si ribella, non fa nient’altro che accelerare la crisi a renderla difficilmente risolvibile in positivo, perché un possessivo–ossessivo è quasi impossibile che si converta ad un amore obbiettivo, prioritario: piuttosto abbandona per cercare un’altra preda. E non si pensi che i possessivi-ossessivi siano solo gli uomini, sono certamente la maggioranza, ma ci sono fior di donne capacissime di rendere il proprio uomo un fantoccio senza personalità illudendosi (e dichiarando) di amarlo. Da qui la necessità di un’educazione all’amore iniziata nella stessa preadolescenza, quando i giovanissimi scoprono l’altro sesso. Purtroppo oggi questa scoperta, invece di essere guidata a scoprire la personalità dell’altro è lasciata alla bruttura dei sensi, e grazie a certe stampe e televisione, si esperimenta prestissimo l’amore fisico (età del primo rapporto in forte calo, III-IV media). Se in questi rapporti va tutto bene (o si fa finta) l’amante possessivo-ossessivo, trova la giustificazione del suo comportamento.

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Secondo segno di crisi: l’incapacità di mettere in atto il “lascerà il padre e la madre”. In parole tecniche uno sbagliato amore di traslazione. Questo può avvenire per due motivi apparentemente contrari l’uno dall’altro: • Perché si è avuto un rapporto morboso con uno dei genitori, quindi un senso di colpa nell’abbandonarlo, soprattutto se questo dovesse rimanere solo (vedovo o divorziato). • Perché si è avuto un rapporto negativo con i genitori, quindi non si è educati ad un retto rapporto interpersonale e si arrischia di ripetere e proiettare la propria negatività sul partner: “Assomigli tutta a mia madre”, “Sei proprio come mio padre”. Nelle coppie in cui questo amore di traslazione non è passato in modo corretto (cioè nel rispetto della personalità dell’altro), presto o tardi scoppierà una crisi. Per aiutare queste persone, bisogna conoscere la loro storia, scoprire le radici del loro amore. Infine, la mancanza assoluta di valori. Anche coppie che chiedono il matrimonio in chiesa possono essere prive di valori, con una religiosità superficiale e rituale. Ma qui più che di valori vorrei parlare di virtù teologali: • mancanza di fede, cioè divinizzazione di se stessi: “tutto quello che faccio io è…” • mancanza di speranza, che genera depressione: è una malattia mortale nella coppia • mancanza di carità, che genera egoismo, chiusura e disprezzo dell’altro


Educazione religiosa in famiglia

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on si può parlare di matrimonio senza accennare agli impegni che questo sacramento domanda a chi lo celebra, agli sposi. Per trattare questo importante tema inizierei con una domanda. Per i genitori da dove proviene l’impegno di educare religiosamente i propri figli e di chiedere la collaborazione della Comunità parrocchiale per realizzare questa educazione? Parlare di “educazione religiosa in famiglia” vuol dire porsi preliminarmente un’altra domanda: i genitori cristiani hanno veramente l’obbligo di educare cristianamente i propri figli? Non sarebbe un obbligo delle Chiese? Parlare di obbligo, per un impegno come questo, è sempre antipatico perché obbligando non ottieni frutti apprezzabili. Comunque, l’impegno morale da parte dei genitori cristiani esiste e appoggia su diversi cardini: Il proprio Battesimo. Se ritengono che, in quanto battezzati, godono di quella vita divina che Cristo ha portato sulla terra, i genitori, come hanno trasmesso la vita fisica ai propri figli, così dovrebbero sentirsi impegnati a trasmettere anche quella spirituale. È un dono ricevuto, che deve essere comunicato. La Cresima. Questo sacramento, poco conosciuto perciò poco stimato, dovrebbe essere il “segno” della maturazione cristiana e, in quanto tale, l’ufficiale deputazione all’apostolato. Una volta si diceva che con la cresima si diventava ‘soldati di Cristo’. Ora in clima antimilitarista, forse è meglio dire che con la Cresima si diventa ‘apostoli di Cristo’, da lui chiamati ed inviati a testimoniare il suo messaggio e a diffonderlo. Il sacramento del Matrimonio. Forse pochi genitori ricordano che quando hanno chiesto questo sacramento hanno promesso di non rifiutare la prole e di impegnarsi ad educarla cristianamente. Se questa promessa fosse sempre mantenuta, anche fra le coppie cristiane rimaste (ormai la maggioranza delle coppie non chiede più questo sacramento) non ci sarebbero tanti divorzi, perché ‘educare cristianamente in famiglia’ vuol dire testimoniare l’amore di Dio attraverso il proprio amore in un concreto sforzo di mantenere l’unione anche in situazioni difficili, pensando, fra l’altro, che le prime vittime della disunione sono proprio i figli.

Concretamente cosa vuol dire “educare cristianamente i figli”? Vuol dire assumere quel programma educativo che Gesù ci ha lasciato (il Vangelo); ma soprattutto vuol dire prendere

lui come modello. Per far questo indispensabile è porsi la seguente domanda: chi è Gesù Cristo, affinché io possa assumerlo come modello? La risposta è triplice: Gesù è un maestro, un servitore del prossimo, un santificatore. Gesù maestro. Uno che fa questa professione non diventa modello solo per il modo di comportarsi della sua persona, ma anche per la validità dell’insegnamento che propone. Se i genitori vogliono seguire Gesù Maestro e proporre il suo insegnamento ai figli devono conoscere questa persona e quello che ha detto e fatto. Qui tocchiamo un tasto dolente. Noi sacerdoti ci accorgiamo subito, quando incontriamo i bambini per il catechismo, o scolastico o parrocchiale, quando non hanno ricevuto nessuna formazione religiosa in famiglia, e sono la maggioranza dei casi! È logico, non si può insegnare ciò che non si conosce. Per me, oggi, il più grave peccato dei cristiani è l’ignoranza, e dall’ignoranza nascono i pregiudizi, le critiche, la disistima, l’abbandono, ecc. Eppure quanti mezzi didattici oggi esistono per far conoscere Gesù ai bambini: libri ben fatti, album a colori anche per i più piccini, filmini. Bisogna avere la volontà di farli passare, leggere, vedere insieme, dando così anche la testimonianza che quello che la mamma o il papà stanno facendo per il proprio bambino è importante per tutti e due. Gesù servo. Se c’è un atteggiamento che stupisce nella vita di Cristo è la sua dedizione al servizio. Gli stessi miracoli, così numerosi e così misteriosi, sono ‘segni’ di una duplice realtà; delle meraviglie che la fede può compiere quando accetta l’azione divina (Gesù guarisce un cieco perché prima di aprirgli gli occhi del corpo gli ha aperto quelli dell’anima). Inoltre, queste azioni sono un indice che Gesù si è messo al servizio di tanta umanità sofferente. Educare cristianamente vuol dire inculcare e allenare a questo servizio, che per i più piccoli si chiama condivisione, per i più grandicelli impegno, per i giovani e gli adulti volontariato sociale. E il tutto dentro una comunità che aiuta, verifica, sprona ed incoraggia nei momenti di difficoltà. La comunità della condivisione sarà la famiglia, quella dell’impegno sarà il gruppo (parrocchia, scuola, società di vario tipo), quella del volontariato la società civile e/o religiosa. E tutto questo va fatto non per filantropismo, ma per amore cristiano: la differenza fra i due sta nel fatto che il primo, nobilissimo, parte dall’uomo e all’uomo conduce. L‘amore, forza divina, cerca di realizzare il comandamento di Cristo: “Amatevi come io ho amato voi!”. E noi sappiamo come ci ha amati. Lo ha detto ancora Lui: “Nessuno ama più di colui che dà la vita per la persona amata”. Gesù santificatore. Per noi che crediamo, Gesù è il Figlio

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Messaggio tematico

di Dio che ha portato la vita divina sulla terra. Per questo è stato sempre in unione col Padre e questa unione ha un nome preciso, preghiera. Per questo ha istituito dei ‘segni’ che donano questa vita divina o la rafforzano, i sacramenti. Per questo è arrivato, con un pizzico di esagerazione, a dirci che dobbiamo essere perfetti come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli. Ma anche questa opera di santificazione deve essere richiesta e accettata. Un anno, un ragazzo della Cresima, la vigilia di ricevere il sacramento, mi chiese: “Domani, quanto Spirito Santo riceverò?”. Pioveva dirotto, i suoi compagni fecero un risolino, risposi: “Vedete ragazzi piove. Immaginatevi di mettere fuori alla pioggia un recipiente: tu un vasetto, tu una brocca, tu un catino. Se piovesse tutta la notte, domani chi avrà più acqua nel suo recipiente? Così sarà di voi, riceverà più Spirito Santo, chi avrà il cuore, lo spirito, più ampio, più aperto, più disponibile, più accogliente”. Ma perché il nostro cuore sia capace di accogliere lo Spirito dobbiamo coltivare dei momenti spirituali. Quanti sono i genitori che pregano coi figli? Che vanno a messa con loro? Che s’interessano della loro crescita spirituale (almeno quanto della loro crescita fisica, intellettuale, sportiva, nell’hobby scelto, ecc..)?

Quali sono i tempi dell’educazione cristiana? Senza pretendere di dare della regole valide per tutti, ne distinguerei alcuni. Da 0 a 3 anni. Tempo delle esperienze affettive e dei primi gesti religiosi. Ogni sera ripetere il segno della croce sulla fronte, con il quale il sacerdote ha salutato il bambino alla porta delle chiesa quando è stato portato per il Battesimo.Il bambino non comprende, ma vive. Un giorno domanderà: “Perché fai questo?” E voi risponderete che è il saluto cristiano, dato la prima volta il giorno del suo Battesimo. Gli direte che quel saluto è dato nel nome di un Padre che è nei cieli, del suo Figlio Gesù che è stato uomo come noi, e dello Spirito di amore che vuol bene a te, bimbo mio. Dai 3 ai 7 anni. Tempo in cui si aggiungono i racconti (prima catechesi) e le esperienze esplorative, come la visita alla chiesa, prima quando è vuota, lasciando scoprire gli spazi, poi per breve parte delle funzioni, affinché veda la comunità riunita, senta i canti. Dai 7 alla fine delle elementari. Tempo della collaborazione con la catechesi parrocchiale ed istruzione scolastica. In questi anni vi è la preparazione alla prima Comunione che deve essere fatta prima in famiglia, poi in parrocchia. E la prima Confessione, distinguendo bene fra senso di colpa e sacramento della Penitenza, meglio detto ‘festa del perdono’. Nell’età della scuola media o scuola superiore e apprendistato è indispensabile preparare il giovane ad un incontro personale con Cristo, attraverso la rilettura del messaggio cristiano, per giungere alla solenne conferma del Battesimo e al sacramento della Cresima. Qualche genitore che ha letto fino a questo punto il presente articolo dirà: “Cose belle da scrivere, difficili da fare!” Ma chi ha detto che il cristianesimo sia una cosa facile? Siamo noi che lo abbiamo ridotto ad uno sciroppino dolciastro, allergici come siamo al solido cibo spirituale del Vangelo. L’effetto di questa riduzione l’abbiamo sotto gli occhi: è terminata la generazione cristiana, siamo entrando nell’era post-cristiana. I cristiani convinti e impegnati sono una minoranza, ma proprio per questo devono essere forti e testimonianti, istruiti e coerenti.

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Corsi per fidanzati a Bigorio

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ra l’anno 1964, ero da poco ritornato da Roma dove mentre facevo i miei studi alla Biblioteca Vaticana potevo seguire indirettamente i lavori di preparazione del Concilio Vaticano II. Mi riferiva di quelle assisi il vescovo Angelo Jelmini che vi partecipava quale decano dei vescovi svizzeri. Abitavamo ambedue alla Clinica Quisisana, così avevo modo di essere da lui informato di quanto avveniva nella commissione preparatoria. Fra gli altri argomenti che i vescovi discutevano vi era anche il sacramento del matrimonio e si auspicava una seria preparazione dei fidanzati che desideravano ricevere quel sacramento. Detto fatto, appena ritornato in patria, avendo parecchi amici che stavano per sposarsi, li invitai a Bigorio per riferire loro quanto si stava discutendo a Roma. L’incontro avvenne sul piazzale del convento, perché lo stesso era chiuso alla donne per la legge della clausura. Ma andò ugualmente bene così che si decise di organizzare un corso di tre domeniche, distanziate da un mese all’altro, e la partecipazione divenne sempre più numerosa da parte di coppie sparse in tutto il Ticino; da questi corsi nacque poi l’Associazione Comunità Familiare ed il suo consultorio con varie altre attività. Ricoprivo allora la carica di superiore provinciale dei Cappuccini ticinese e con i miei assistenti, p. Camillo Parola e p. Giovanni Pozzi, decidemmo di aprire il convento di Bigorio, di restaurarlo e adattarlo per un’attività del genere, dandone la direzione a fra Roberto. La cosa fu presto fatta e così poterono iniziare i corsi residenziali, non solo per fidanzati, ma per coppie già sposate e per ogni tipo di richiedenti. Per i corsi prematrimoniali non mancarono difficoltà, specie quando si organizzò il pernottamento: ci fu chi disse e scrisse che veniva messa in pericolo la castità. Chi ci salvò fu il vescovo Jelmini che venne a visitare uno di quei corsi e ci esortò a continuare ritenendoli necessari. Poi venne il Sinodo ‘72 che prescrisse i corsi a tutta la diocesi. Per qualche anno anch’io mi adeguai organizzando corsi solo serali a Bellinzona, mia nuova parrocchia, ma

compresi subito che avevo perso qualche cosa di prezioso, e con l’aiuto di un bel gruppo di coppie animatrici riprendemmo i fine settimana di Bigorio con soddisfazione di tutti i partecipanti che iniziano per due sere a Bellinzona, fanno un sabato e domenica a Bigorio, e terminano con altri due incontri sempre a Bellinzona presso la chiesa del Sacro Cuore. Noi credevano che questo impegno e relativi costi facesse diminuire la frequenza delle giovani coppie,

invece si è rivelato esattamente il contrario: la partecipazione è aumentata e provengono da tutto il Ticino, dalla vicina Italia e della Svizzera interna - sono coppie che non possono partecipare alla serate bellinzonesi. Dopo questi corsi che hanno come soggetto la persona di Gesù, si sono sviluppati – aperti a tutti – corsi sulle parabole e sui miracoli, così da offrire un ampio ventaglio su tutti i personaggi e fatti evangelici. Con ciò viene arricchita l’offerta che Bigorio propone a tutti quelli che desiderano ritrovarsi in questo bellissimo convento dove, oltre alla spiritualità, viene offerta della cultura artistica (i quadri di fra Roberto) e culinaria (l’ottima cucina di Antonio). Per chiudere diciamo: “Provare per credere!”.

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Il Presepio di Greccio

Rinunciamo a qualsiasi presentazione (il fatto è noto) e a qualsiasi commento (per

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a sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo. Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro. A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore. C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo. E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.

Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole. Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia. Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero è avvenuto che in quella regione, giumenti e altri animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durante un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute. Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.

(Fonti Francescane, 466-471)


non rovinare il racconto). Leggere questo testo è un’ottima preparazione natalizia

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Messaggio dall’Ordine Francescano Secolare

Giornata interfrancescana abato 2 ottobre 2010 al Centro Spazio Aperto di Bellinzona si è tenuto l’incontro delle famiglie francescane presenti nella Svizzera italiana. Organizzato dalla Commissione interfrancescana ha radunato frati, suore e laici, rappresentanti rispettivamente il Primo, Secondo e Terzo Ordine, con la presenza di fra Ephrem Bucher, ministro provinciale dei Cappuccini. E’ stato sapientemente moderato dal giornalista Silvano Toppi che ha lanciato la tematica della giornata: “Passato, presente e futuro del francescanesimo nella Svizzera italiana” con alcune domande stimolanti su cosa possa essere oggi il francescanesimo: una cultura, un’utopia, una presenza assente, una realtà irrealizzabile, una contrapposizione ai valori dominanti. Di questo incontro una breve sintesi delle relazioni.

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Per i frati Cappuccini, fra Ugo Orelli propone un’interessante escursione storica sulla presenza dei frati nel territorio della Svizzera italiana, segnalando dapprima le pubblicazioni apparse dal 1928 in poi a cura del “Messaggero Serafico” e nei volumi di “Helvetia Sacra”. Cita poi i primi insediamenti avvenuti alcuni anni dopo la morte di San Francesco, nella prima metà del secolo XIII fino alla soppressione dei conventi voluta dal Governo ticinese nel 1848. Fra Callisto Caldelari pone una domanda: in una società sempre meno cristiana perché non contrapporre una società francescana? Quali sono i capisaldi di questa spiritualità che attira non solo i cattolici, non solo i cristiani ma anche persone di altre religioni? Ne individua tre: la povertà, la fraternità e l’ilarità. La povertà di Francesco in contrapposizione alla sua vita giovanile vissuta negli agi offerti dalla ricca famiglia. La fraternità per vivere in stretto rapporto con ogni ceto di persone. L’ilarità che Francesco chiamava “Perfetta letizia”. All’inizio era talmente felice di essere libero e povero da vagare per i boschi dichiarandosi “L’araldo del Grande Re”. A cagione di questo suo atteggiamento non gli mancarono i maltrattamenti, di suo padre e dei concittadini che lo consideravano impazzito. Ma pure le autorità ecclesiastiche lo circondarono di sospetto e vollero incanalare il suo movimento carismatico entro le strettoie giuridiche di una regola che lui non voleva. La più alta espressione del suo carisma resta il “Cantico della creature” che perfezionò al termine della sua vita con le ultime due strofe, la prima sul perdono e la seconda sulla morte. Le suore Clarisse di Cademario, ottemperando al loro obbligo di clausura, mandano al convegno una relazione scritta da suor Chiara Myriam che ricorda la presenza delle Clarisse in Svizzera dal 1253 al 1474 attraverso sette mo-

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nasteri: quattro nell’area tedesca e tre nell’area francese. Purtroppo queste comunità furono tutte soppresse, a causa della riforma protestante o per le deliberazioni del Consiglio federale, nel corso del XIX secolo. Le Clarisse sono arrivate a Cademario nel maggio del 1992 e il 18 giugno 2006 il monastero, intitolato ai santi Francesco e Chiara, ha ottenuto l’erezione canonica. Nella consapevolezza della loro povertà e fragilità, il cuore della comunità è posto nel terreno della “nuova evangelizzazione” e la loro presenza desidera essere quel piccolo seme, nascosto ed insignificante, che, abbandonato al Signore, può servire ad annunciare la Buona Novella. Breve ma vivace l’intervento di suor Carla Pia che presenta le suore della Santa Croce di Menzingen e di Ingenbohl, due rami distinti, risalenti al medesimo fondatore: il Cappuccino grigionese Teodosio Florentin. Le suore di Menzingen vennero fondate da P. Teodosio e da Madre M. Bernarda Heimgartner nel 1844 e si occuparono dell’insegnamento alle ragazze povere dei villaggi. Nel Ticino giunsero nel 1880 per volontà di monsignor Eugenio Lachat, amministratore apostolico della diocesi ticinese. Ora sono impegnate in vari servizi di carattere pastorale, sociale ed ecclesiale. Le suore di Ingenbohl vennero fondate nel 1855 ed ebbero come prima superiora generale la beata Madre Maria Teresa Scherer. In Ticino sono attive dal 1886. Iniziarono all’istituto San Eugenio di Locarno, per accogliere i bambini sordomuti e i casi particolari, istituto dove ancora operano tuttora. La Fraternità francescana di Betania si propone con una relazione di sorella Serena. Fra Pancrazio Nicola Gaudioso, Cappuccino, figlio spirituale di Padre Pio, fonda la Fraternità nella solennità di Pentecoste dell’anno 1982. L’iniziativa della presenza qui in Ticino risale al precedente Vescovo, di felice memoria, Eugenio Corecco, che nel 1994 aveva invitato la Comunità ad aprire una casa nella sua diocesi. Tale progetto si è finalmente concretizzato nell’anno giubilare 2002 con l’insediamento nella sede definitiva a Rovio. La Fraternità si rifà allo stile delle prime comunità cristiane, dove vivevano insieme la propria esperienza di fede, consacrati, consacrate e famiglie laiche. Quanto alla spiritualità sono religiosi francescani-mariani. Il saio, con il suo colore grigio-azzurro, esprime proprio tale spiritualità. La fraternità è il prolungamento della Betania evangelica: il “fare di Marta” rappresenta l’accoglienza, mentre il “silenzio di Maria” la preghiera. Franca Humair, ministra della fraternità di Bellinzona, riferisce sul passato e presente dell’Ordine francescano seco-


lare (OFS). Voluto e fondato da San Francesco, in origine chiamati Fratelli della penitenza, nella “Leggenda dei tre compagni” si riporta; “Allo stesso modo anche gli uomini ammogliati e le donne maritate, non potendo svincolarsi dai legami matrimoniali, dietro salutare suggerimento dei frati intrapresero una più stretta penitenza nelle loro case”. L’OFS fu sempre una componente essenziale della grande famiglia francescana, sempre in armonia con la chiesa di Roma. Significativo il fatto che ben sette Papi consecutivamente furono terziari francescani, da Pio IX a Giovanni XIII. La sua storia è costellata da splendide figure di cristiani contemplativi: Elisabetta di Turingia, Lucchese da Poggibonsi, Angela da Foligno, Margherita da Cortona e di uomini di grande valore come Federico Ozanam, Silvio Pellico, Alessandro Manzoni. Nel Canton Ticino, nei secoli XVI e XVII, arrivarono i frati Cappuccini che portarono rinnovazione nell’apostolato e nelle opere di carità. Si dedicarono anche a far sorgere fraternità francescane soprattutto nelle vicinanze dei conventi. Nel 1926 fu redatta una statistica che comprendeva la cifra di circa 4000 membri. Da allora sono passati 84 anni e purtroppo la diminuzione di fraternità e professi è stata notevole. Attualmente sono all’incirca 400, ripartiti nelle fraternità ticinesi di Bellinzona, Locarno, Lugano, Mendrisio e Stabio, e grigionesi di Brusio, Campocologno, Poschiavo, Prada-Le Prese e San Carlo. Oggi molte cose sono cambiate: innanzitutto la nuova Regola approvata da Papa Paolo VI nel 1978 che ha portato diverse innovazioni. Il modo di fare fraternità è più aperto, anche se la preghiera è sempre al primo posto. L’OFS della Svizzera italiana è parte integrante dell’OFS d’Italia da cui attinge informazione e formazione. E’ autonomo per quanto riguarda l’attività sul territorio, gestita da un consiglio regionale che si preoccupa di dare le linee comuni, creando occasioni annuali di incontro quali il ritiro spirituale quaresimale al convento di Bigorio, il ritrovo annuale per la preghiera perenne affidata dalla Diocesi, l’organizzazione periodica di pellegrinaggi. A Spazio Aperto si tengono gli incontri di formazione animati dall’Assistente regionale. Nella rivista “Messaggero” animano la rubrica “Le pagine dell’Ordine Francescano Secolare”. All’OFS sono intestate la Casa S. Elisabetta di Lugano e lo Spazio Aperto di Bellinzona, sede regionale.

tate da Francesco. Pronte all’accoglienza di nuove modalità di vita e capaci di cogliere la disumanizzazione del nostro tempo, le fraternità OFS dovranno essere testimoni profetiche del volto misericordioso di Dio, con una vita costruita sulla fraternità, la riconciliazione, la pace, la solidarietà. Conclude riflettendo che la vendemmia di questo mese fa sorgere spontanea la preghiera “fa o Signore che otri nuovi accolgano vino nuovo”. Silvano Toppi conclude con l’affermazione che da tutte le relazioni ha potuto trarre parecchi spunti di riflessione e osserva: vi è una necessità di francescanesimo che in un modo o nell’altro continuerà ad esistere poiché contrapposta al modo d’oggi di valutare le persone secondo il loro valore economico, il “quanto vali in soldi”. Inoltre Francesco è sempre stato un segno di contraddizione al potere sia civile sia ecclesiastico. Ad esempio: al loro primo incontro Papa Innocenzo III lo trattò in malo modo, “tu puzzi, vai a rotolarti tra i porci” gli ordinò, comando a cui Francesco ubbidì. Oppure da un racconto della predica agli uccelli, giudicato oggi attendibile, quello contenuto nell’opera di Ruggero di Wendover: il santo, ottenuto da Innocenzo III il permesso di predicare, inizia subito da Roma ma ottiene ben poca udienza. Si reca allora fuori dalle porte della città e inizia a predicare agli uccelli, non solo a passeri e colombe, ma pure a uccelli da preda. Nell’iconografia medioevale gli animali rappresentavano spesso il simbolo di una certa figura sociale. Da qui la conferma che Francesco non escludeva nessuno, come ulteriori episodi tratti dalla Tavola Bardi, dove egli tiene in grembo un lebbroso e gli porta con affetto una mano alla guancia, mentre più in là lo stesso Francesco, cinto da un asciugamano, lava i piedi ad altro lebbroso. La giornata si è poi conclusa nell’attigua chiesa del Sacro Cuore dove il Gruppo Sacre Rappresentazioni della locale Comunità parrocchiale ha presentato il ‘Cantico delle creature’. Tutti hanno gustato un modo liturgicamente e attivamente nuovo di spargere il seme francescano. Oltre ai terziari hanno assistito alla rappresentazione diversi ospiti delle tre case anziani di Bellinzona.

Gabriella Modonesi, attuale presidente regionale OFS, chiude il ciclo di relazioni confermando l’invecchiamento delle fraternità esistenti ma portando, con una carrellata di sogni, la speranza di fraternità ricche di preghiera comunitaria, aperte al soffio dello spirito, fedeli alle aspirazioni det-

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Messaggio dall’Ordine Francescano Secolare

Essere francescani oggi Riportiamo integralmente l’intervento di p.Callisto Caldelari alla Giornata interfrancescana di Bellinzona.

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n una società che diventa sempre meno cristiana, forse, un antidoto potrebbe essere quella di renderla più francescana. Non che ritenga il francescanesimo superiore al cristianesimo, ma alle volte una corrente religiosa particolare può aiutare a rinvigorire la matrice generale. Francesco, che un po’ pomposamente venne chiamato l’Alter Christus, non potrebbe aiutarci con i capisaldi della sua spiritualità a ricristianizzare la società? Inoltre, i valori fondamentali del francescanesimo, non sono forse valori che riscontriamo anche in altri correnti e confessioni religiose, che la società moderna ricerca anche indipendentemente della sua adesione o meno ad una congregazione religiosa? E quali sono questi valori che, quali francescani, possiamo presentare alla società, indipendentemente dalle nostre appartenenze al primo, secondo o terz’Ordine? Mi sembra di poterne individuare tre che, a mio avviso, costituiscono una nostra particolarità, senza negare che gli stessi valori possano esistere anche in altre correnti religiose, ma che per i francescani hanno un carattere di essenzialità. Questi sono: 1. La povertà, intesa come liberazione, prima intellettuale e poi materiale 2, La fraternità, cioè la capacità di rapportarsi agli altri, uomini e cose 3. L’ilarità, cioè la gioia di vivere nella speranza che biblicamente non delude Vediamo brevemente questi valori che noi francescani dovremmo presentare alla nostra società come caratteristica di una spiritualità che anche oggi potrebbe essere appetibile a tutti gli uomini di buona volontà.

Povertà Francesco fu chiamato il “Poverello d’Assisi”, segno evidente che la povertà è stata da lui considerata come una virtù caratterizzante le sua persona e attività. Ma forse è interessante vedere come questa virtù evangelica si è sviluppata in lui. Individuo tre fasi. Francesco iniziò ad ‘impoverirsi’ non per amore di Cristo, ma per amore della giustizia. Lui, giovane e ricco, mercante e arrampicatore sociale (voleva diventare nobile), s’accorse che possedeva troppo a confronto di altri che avevano troppo poco e, di nascosto dal padre, tanto da suscitare le ire, iniziò a vendere le stoffe, il capitale del fondaco paterno, per dare il ricavato ai poveri.

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Per noi francescani questo inizio dovrebbe fare scuola se vogliamo presentare la povertà non come miseria, nemmeno come suscitatrice di elemosina, ma come equità e giustizia. Purtroppo non sempre si mette in rapporto la nostra vocazione alla povertà, cioè all’uso dei beni economici, con il nostro impegno per la giustizia. Non ragioniamo con parametri di verità: quello che io ho in sovrappiù è rubato a quello che altri non hanno per vivere. Francesco sviluppò poi il suo amore per la povertà attraverso l’identificazione e la condivisione coi poveri. Capì che non poteva solo sottrarre e donare, ma doveva vivere e condividere. Per questo si fece povero vivendo in mezzo ai poveri, mettendosi anche lui in fila a domandare l’elemosina. Siamo ancora su un piano etico, non teologico. Arrivò infine alla povertà come imitazione di Cristo vedendo in questa virtù il vestito che Gesù si mise per vivere fra gli uomini, dalla nudità del presepio alla nudità del Calvario. Questo itinerario che parte dalla giustizia per arrivare all’imitazione penso sia più comprensibile per la nostra società che non l’itinerario contrario che parta dall’imitazione di Cristo e, quasi sempre, si dimentica dei doveri di giustizia. Ma Francesco accompagnò la povertà delle cose alla povertà dello spirito. Il termine ricordato, “Poverello d’Assisi”, è una parafrasi dell’evangelica beatitudine: “Beati i poveri di spirito”. Ecco perché volle essere e chiamare i suoi fratelli ‘minori’, minori rispetto a tutti, non solo alla gerarchia, alle autorità civili del tempo, ma agli stessi poveri che riteneva degni delle sue migliori attenzioni quasi fossero i suoi signori.

Fraternità Non si può parlare di fraternità se non c’è condivisione e la condivisione più vera sta nel vivere insieme uno stato di povertà che non è miseria, ma libertà. Francesco ha iniziato a vivere una dimensione che possiamo anche chiamare ‘fraterna’ quando da giovane diventava il re delle feste assisane. Ed io credo che poi sia stato seguito da molti compagni proprio perché aveva stabilito con loro, uomini e donne, una fraternità cordiale più che un’amicizia festaiola. Poi diventò fratello dei poveri, dei diseredati e, come abbiamo detto, li chiamò ‘fratelli’. Infine la sua fraternità tocco i vertici teologici alla luce della paternità divina e della perfetta imitazione del suo figlio Gesù, il fratello per eccellenza. Anche in questo caso un itinerario che da etico si fa teologico. Questa caratteristica fondamentale del francescanesimo dovrebbe spronarci ad una fratellanza universale che punti:


A considerare tutti gli uomini come nostri simili, meritevoli della nostra stima e del nostro affetto, senza distinzione di razza, confessione, di credo. Anzi con un’attenzione particolare ai non credenti. Conseguentemente, ad avere una capacità di rapporto con tutti che inizi con l’interessarsi delle loro condizioni materiali e spirituali, dedicando soprattutto le due monete, tempo e interesse, che oggi valgono di più del soldo economico che, comunque, non deve mancare per quel dovere di giustizia di cui abbiamo detto sopra. Caratteristica della fraternità francescana è soprattutto l’interesse per i diversi, specie per quelli che sono ai margini della società, o che la società ha voluto, e forse dovuto, emarginare: parlo dei delinquenti, degli sbandati, dei carcerati. Come francescani, infine, dobbiamo coltivare uno spirito di fraternità con tutte le creature. Il suo ‘Cantico di frate sole’ dovrebbe aiutarci a capire lo spirito di fraternità che in Francesco è diventato poema. Con tutto quello che ciò comporta: amore per la natura, rispetto per il creato, spirito ecologico, fino alle forme più vocazionali (quindi molto personali) quale l’astensione dalle carni (vegetariani) e da un certo tipo di bevande (astemi).

Ilarità Che Francesco chiama “Perfetta letizia” e che io mi permetto di accostare alle virtù teologale della speranza. Solo chi spera ardentemente in Dio porrà in lui la sua fiducia

e attenderà da lui, dopo aver fatto tutto quello che gli è possibile, l’aiuto per superare le difficoltà della vita. Costui, ed il francescano in particolare, deve avere fiducia nei fratelli; solo così potrà condividere con loro forme di vita fondate sulla libertà e non sul possesso; solo così sarà prettamente felice, cioè tranquillo e tranquillizzante in ogni situazione della vita, forte nelle tribolazioni, paziente nella avversità. Oggi la società ha immenso bisogno di attestati di ilarità, gioia e serenità di questo tipo. In netto contrasto con la gioia sguaiata, la finta allegria e il falso sorriso che troppi esempi ci presentano quale frutto di svago e divertimento. Anche il cristianesimo ha bisogno di una iniezione di perfetta letizia. Non è ancora scomparsa la figura del cristiano (specie cattolico tradizionalista) immusonito, brontolone contro i mali del mondo, inquisitore non solo delle situazioni, ma anche delle intenzioni altrui, pio inquisitore moderno o tipico ‘laudatores temporis acti’: tutto era bello quello che era prima. Il francescano deve essere esattamente il contrario, ben sapendo che solo con spirito ilare può avvicinarsi a chi ha perso la gioia di vivere e necessita di una iniezione di allegria. Portare il francescanesimo nella società attuale domanda un’apertura, una dimensione sociale, che oserei chiamare politica nel senso genuino della parola (amore alla polis). Mentre stavo preparando questo intervento ho letto l’articolo sull’incontro di Padova (28-30 maggio 2010) apparso sull’ultimo nostro Messaggero preparato da Palma Pedrazzi, che ringrazio, dove è riportato l’intervento di Giuseppe Failla, presidente nazionale OFS, che dice: “La società ha bisogno di noi (francescani), della nostra vita. Ovunque siamo dobbiamo fare la nostra parte. Il dono ricevuto deve essere ritrasmesso, pronti anche a sporcarci le mani”.

Vita francescana in valle di Poschiavo Domenica 17 ottobre 2010 il Terz’ordine Francescano di tutta la valle di Poschiavo ha dato inizio alle sue attività pastorali incontrandosi nella parrocchia di S. Carlo Borromeo di Brusio. Sono ormai diversi anni che in autunno il terz’ordine francescano si ritrova in una delle parrocchie della valle per dare inizio alle sue attività fatte di preghiera e di lavoro per le varie comunità ecclesiali sul territorio. Il compito più importante dei francescani e delle francescane, oggi, è quello della preghiera: ogni comunità della valle si ritrova mensilmente per pregare con la preghiera della Chiesa che è l’ufficio delle Lodi o del Vespro. Inoltre si è anche presenti risolvendo le necessità particolari della Chiesa, presente nelle varie zone pastorali: queste necessità sono sempre numerose, in modo particolare per le missioni gestite da sacerdoti poschiavini.Quest’anno eravamo un’ottantina di persone che vivono in famiglia la spiritualità francescana, cioè l’amore per il Vangelo e per la Chiesa. Siamo stati aiutati in questo grande momento di preghiera dai sacerdoti diocesani; così pure in modo tanto affabile, come sempre, dai nostri responsabili del Ticino che vogliamo ringraziare caramente soprattutto per la profonda riflessione fattaci dalla ministra regionale Gabriella Modonesi, conclusasi con le parole bibliche: siamo ancora chiamati a profetizzare con gioia alla società del nostro tempo, animati dal nostro carisma francescano. Un doveroso ringraziamento anche al segretario Franchino Casoni e alla vice ministra Antonietta, sempre profonda gratitudine alla già ministra Palma. A tutte le terziarie e ai terziari un vivo, caloroso e riconoscente Pace e Bene!

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Dieci minuti per te

Vivere l’attesa i sono proposto di parlarvi dell’attesa. E’ un tema che ha una stretta affinità con la pratica meditativa e la consapevolezza accogliente. Interessa da vicino tutta la nostra vita e, oltre tutto, s’inserisce a pennello nel tempo che già stiamo vivendo: quello dell’Avvento, il tempo dell’attesa di Dio che viene. Riguardo all’attesa, Corrado Pensa così si esprime: «Per avviarsi verso il trascendimento dell’io» ed aprirsi al mondo del divino, occorre, come prima cosa, una qualità: la «fedefiducia come slancio verso l’indicibile, che esuli dagli abituali valori egoici». Senza un minimo di fede-fiducia, l’io «non può capire il non attaccamento», compagno inseparabile di un’autentica attesa. In realtà, «se non c’è almeno un germoglio di fede-fiducia, come posso prendere sul serio la proposta del non attaccamento» a quello che già so, a quello che già possiedo, per andare verso nuovi traguardi di conoscenza e di vita? Come potrei «lavorare seriamente a lasciar andare l’attaccamento alle mie abitudini mentali, alle mie reazioni», mantenendomi aperto alla novità che viene, «se in qualche modo non mi sentissi oscuramente sorretto, se non percepissi oscuramente che ne vale la pena? Se non capissi oscuramente che il superamento dell’io è più utile dell’io?». Il cercare secondo fede, «è un cercare gratuito. Col tempo diventa addirittura «un fatto organico». E’ come mangiare o respirare: pratico per praticare, pratico per vivere, cerco perché amo, perché mi soggioga il fascino della verità. Rivolgendosi a un monaco cristiano durante un ritiro intensivo di meditazione, un maestro Zen gli chiese: “Fratello, dicci di Dio, che cos’è Dio?”. E il religioso, rispondendo in stile Zen e dando una lucida definizione di fede come attesa di Dio che viene, rispose: “E’ qualcosa che non si riesce a prendere e che non si riesce a lasciare” (cf. Pensa C., La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994, pp. 96-97). Ma è anche consolante sapere che, a mano a mano che si procede in questo cammino, si finisce per raccogliere frutti preziosi. Li possiamo chiamare piccoli risvegli o, secondo la lapidaria definizione del grande Dogen, l’illuminazione prima dell’illuminazione. L’importanza di gustare questa nuova ricchezza che, in virtù fede-fiducia e dell’attesa, entra nella nostra vita, è del tutto evidente. Infatti, avendo toccato o anche solo sfiorato questo effetto di piccolo risveglio, il perché coltivare l’attesa e mantenerci aperti ad essa diventerà sempre più chiaro e la nostra motivazione a continuare nel cammino non potrà che rafforzarsi. Sul tema dell’attesa ci offre importanti spunti di riflessione anche il teologo Carlo Molari. Nell’incontro che con lui abbiamo avuto nel Natale 2005 a Condino, precisava che la speranza, nel contesto della riflessione cristiana, è soprat-

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tutto «attesa del dono di Dio che erompe dal futuro». Mentre la fede – per quanto vissuta sempre nel presente – attinge tuttavia la sua forza dal passato, la speranza è «sguardo rivolto al futuro». La fede è «cogliere l’azione di Dio negli eventi del passato» per «nutrire e sostenere il nostro orientamento nell’oggi»; la speranza, invece, è «sguardo rivolto al futuro», è «attendere Dio che viene». «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. Io sono colui che è, che era e che viene», si legge nell’Apocalisse. Perché

«Mi hai fatto senza fine e questa è la tua volontà. Questo fragile vaso continuamente tu lo vuoti continuamente lo riempi di vita sempre nuova. Questo piccolo flauto di canna tu l’hai portato per valli e colline; attraverso esso hai soffiato melodie sempre nuove. Quando mi sfiorano le tue mani immortali questo piccolo cuore si perde in una gioia senza confini e canto melodie ineffabili. Su queste piccole mani scendono i tuoi doni infiniti. Passano le età, e tu continui a versare, e sempre ancora c’è spazio da riempire. Tagore R., Gitanjali – Il Giardiniere viene? – si chiedeva Molari. Non è già venuto? Non ha già operato la creazione? Non ha già attuato la nostra redenzione? – «No! Viene continuamente, perché la creazione è ancora in corso, perché la storia salvifica non è finita. Perché noi, in quanto creature, non possiamo accogliere il dono di Dio in un solo istante compiutamente, ma solo a piccoli frammenti in una lunga successione di esperienze». In effetti, insisteva, «non siamo in grado di interiorizzare il dono di Dio tutto e subito. Il dono che abbiamo accolto, quello che ci viene dal passato e che accogliamo nella fede, non è sufficiente, non è ancora giunto al suo compimento». Ecco perché continuiamo ad «attendere Dio che viene». «L’Avvento è la fase liturgica di questa educazione all’at-


tesa di Dio che viene». E, precisando la natura di quest’attesa, aggiungeva: l’Avvento non è «preparare il futuro», «rendere possibile il futuro» o «costruire il futuro», come alcuni hanno la presunzione di dire; l’Avvento è «disporci ad accogliere Dio, perché è lui che viene a noi». E’ «il futuro che ci vene incontro. Non siamo noi che lo costruiamo. Per chi crede in Dio, il futuro già esiste, è. Il divenire è la perfezione che già esiste e viene incontro a noi. Non siamo noi che andiamo, nel tempo, verso il futuro. E’ la ricchezza della vita, è l’azione di Dio che ci viene incontro, rendendo possibile la novità». Spesso, inoltre, noi pensiamo che la speranza consista nell’attendere il bene che ci sarà domani. In questo senso, tutti noi abbiamo speranze. Abbiamo speranze fondate sul progresso, sulle capacità degli uomini, sul conto in banca, sulla scienza che possediamo, sulle capacità operative che abbiamo… Sono tutte speranze legittime. Non sono per nulla cattive. Ma non sono la speranza teologale. Perché la speranza, nel senso cristiano del termine, è essenzialmente attesa di Dio che viene». Purtroppo, «quando esaminiamo le nostre attese e le nostre speranze, scopriamo che raramente esercitiamo la speranza teologale. Abbiamo fiducia in Dio, certamente. Diciamo: “Spero e lotto per un futuro diverso!” – Però, nell’affermare questo, noi ci fidiamo poi delle nostre capacità, delle nostre finanze, degli amici potenti che abbiamo… Cioè: non attendiamo il dono di Dio, anche quando attendiamo cose buone. Se voi fate un elenco delle attività che svolgete quotidianamente e poi vi chiedete: “Quando faccio questo, cosa mi attendo, cosa aspetto?” – scoprirete che aspettate tante cose che non hanno molto collegamento con l’azione di Dio in noi. Aspettiamo il riconoscimento degli altri, la stima degli altri, l’applauso, il compenso economico, il successo, ecc. Cose anche buone. Però tutte queste cose non sono il dono di Dio». Se per anni c’impegniamo in una determinata attività, e poi quello che attendevamo non viene – perché non c’è il successo, perché gli altri non ci approvano – ci sembra di aver fallito, di aver perso tempo, perché quello che attendevamo non è venuto. Ma se, invece, «noi impariamo ad attendere Dio che viene, cioè quel dono di vita per cui cresciamo come figli suoi, allora anche quando la nostra azione non ha successo, anche

quando quello che abbiamo profuso non produce nulla, non viene riconosciuto, queste delusioni non scalfiscono in nulla la nostra interiorità. Il dono di Dio l’abbiamo accolto e nessuno ci può impedire di accogliere il suo amore e di crescere come suoi figli attraverso ciò che facciamo, anche attraverso i nostri insuccessi e fallimenti». Come avverte Paolo in Rm 8,35: “Nessuno ci può separare dall’amore”. Ed è sempre Paolo in Rm 5,5 che ci rassicura: “La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato”. In realtà, se tu lo riconosci e lo accogli, Dio viene sempre, anche quando l’impresa che ti sei prefissato di realizzare fallisce. Attendere il dono di Dio, però, significa anche accoglierlo. E per accogliere «è richiesto un atteggiamento che ci pone nella condizione di essere capaci di attività». In realtà, nei doni di vita, l’accoglienza aperta e partecipe è di fondamentale importanza. E’ in virtù di essa che l’azione di Dio diventa nostra azione, nostra realtà, nostra perfezione. La verità che ci viene offerta diventa nostro pensiero. Ma perché questo avvenga, è indispensabile essere aperti, svegli, disponibili, attenti, pronti a dare la nostra risposta: canna di bambù cava vuota dentro, valle di ricettività.

fra Andrea Schnöller

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Messaggio dal santuario

Diciotto mesi di cantiere

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n anno e mezzo fa è iniziata la seconda fase di un ampio programma di lavori di restauro del Sacro Monte della Madonna del Sasso. Dopo che nel corso dei mesi primaverili del 2009 gli arredi mobili della chiesa principale, dedicata all’Assunta, erano stati sgomberati ad opera dei militi della Protezione civile, il 15 giugno le porte dell’amato luogo di culto venivano definitivamente chiuse al pubblico e l’area antistante la sua entrata principale recintata. Prima di questa data, negli spazi del convento, era stata approntata una cappella provvisoria, atta ad ospitare la venerata statua della Madonna e le quotidiane funzioni liturgiche. Da allora in poi è iniziata una serie di interventi sia edili sia di restauro su diverse componenti del Sacro Monte. Ai piedi dello sperone di roccia sul quale è edificata la chiesa dell’Assunta sorge la chiesa dell’Annunziata. In essa già da tempo si stava lavorando. La prima fase degli interventi di restauro prevedeva infatti un importante lavoro di consolidamento della sua struttura edile. Verso la metà del 2009 sono invece iniziati i lavori di restauro all’interno della chiesa. Un’equipe di specialisti ha ora portato a termine un’ampia e accurata opera di recupero dell’arredo pittorico delle pareti della navata, del presbiterio e della cupola della chiesa. Tra l’altro, questo intervento ha fatto riapparire degli affreschi cinquecenteschi di cui non si aveva notizia, in modo particolare nella parete nord della navata una monumentale scena delle nozze di Cana e nelle due nicchie degli altari laterali un affresco con santa Caterina e la Madonna da una parte e dall’altra una raffigurazione del supplizio di sant’Erasmo. Ulteriori informazioni a questo riguardo le abbiamo pubblicate nell’ultimo Messaggero. I lavori concernenti questa

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chiesa si avviano ora alla conclusione. In presbiterio andrà ancora realizzato il ripristino dell’altare ligneo policromo seicentesco con la statua dell’Immacolata. Le due cappelle situate nelle vicinanze della chiesa dell’Annunziata, quella ottocentesca di san Giuseppe e quella seicentesca con il pregiato plastico raffigurante la Visitazione, già si presentano completamente e accuratamente restaurate. Chi da Locarno o da Muralto è solito volgere lo sguardo al Sacro Monte della Madonna del Sasso, negli scorsi mesi si sarà probabilmente accorto che le edicole della ripida Via Crucis, costruite nel 1817, hanno cambiato colore. Nei primi mesi di quest’anno sono infatti stati tolti dalle loro pareti i vecchi intonaci e in primavera sono stati rifatti. Attualmente si sta concludendo il restauro delle formelle in ghisa in rilievo dipinto, eseguite dallo scultore Giovanni Maria Fossati nel 1903. Purtroppo il terreno sul quale è costruita la cappella della seconda stazione della Via Crucis cede. Prima di restaurarla si sta ora procedendo ad un oneroso intervento di consolidamento della roccia. Dall’autunno si lavora anche alla sistemazione dell’acciottolato della Via Crucis. Nella primavera di quest’anno sono iniziati e verso la fine dell’estate si sono conclusi gli interventi di restauro di tre edicole che fiancheggiano la via della valle: la visione di fra Bartolomeo, il portico della croce e la cappella della crocifissione. L’intervento, oltre a consolidare le strutture delle cappelle, ha soprattutto ridato integrità e freschezza alle decorazioni a graffito eseguite negli anni venti del secolo scorso dal pittore Pompeo Maino. Anche la cappella della Natività di pianta ottagonale e quella della Risurrezione di pianta esagonale, la prima costruita lungo il sentiero della valle e la se-



Messaggio dal santuario

conda a lato della vecchia strada tra Trinità dei Monti e Orselina sono state completamente restaurate sia all’esterno sia all’interno. Alla fine dell’estate e agli inizi dell’autunno le pareti esterne del convento, che sorge addossato allo sperone di roccia sul quale troneggia la chiesa dell’Assunta, sono state tinteggiate. Per eseguire questo lavoro è stato evidentemente necessario il montaggio di ponteggi, che sono serviti anche per la sostituzione delle tegole dell’ala nord del convento. In autunno sono stati eseguiti lavori di rifacimento degli intonaci e di tinteggio delle pareti del chiostro e dello scalone di accesso alla chiesa dell’Assunta. Nella seconda metà dell’anno, grazie al montaggio di ponteggi, il soffitto ed il lucernario della biblioteca conventuale sono stati rifatti. Per poter eseguire questo intervento, durante la primavera, oltre quattordicimila volumi hanno dovuto lasciare provvisoriamente i palchetti della biblioteca e, ad opera dei militi della Protezione civile, sono stati depositati a Locarno in locali adeguati. La preziosa ancona lignea della Deposizione, ora attribuita alla bottega dei De Donati, già accuratamente restaurata nella prima fase dei lavori, potrà fra poco ritornare nella cappella della Pietà situata nel chiostro del convento. Questa cappella è stata sottoposta ad un complesso lavoro che ne consente ora la climatizzazione. I lavori in programma per la realizzazione di un ascensore previsto per agevolare l’accesso alla chiesa dell’Assunta da parte di persone con difficoltà motorie sono stati bloccati a motivo di opposizioni e difficoltà procedurali. Ed infine, nella chiesa dell’Assunta, celata alla vista dei più, è in corso l’opera probabilmente più impegnativa, ma anche più promettente della vasta campagna di lavori, il restauro appunto di questo

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amato luogo di culto. Uno dei primi interventi eseguiti da parte di una equipe di specialisti nell’agosto del 2009 è stata la ricollocazione dell’altare maggiore nella sua posizione originaria centrale. Un’operazione eseguita con grande perizia e sbalorditiva rapidità, considerando soprattutto le dimensioni e il peso dell’altare marmoreo. Da un anno e mezzo l’interno della chiesa dell’Assunta si presenta come un’oscura selva, a causa dei fitti ponteggi montati per consentire ai restauratori di lavorare sotto la sua volta. L’opera dei periti artigiani è da prima servita ad allontanare un’uniforme patina di sporcizia, che velava tutto il soffitto della chiesa, ma in seguito ha anche riportato alla luce insospettati tesori nascosti da lungo tempo sotto pesanti ridipinture, applicate in passato a parti della volta. Negli ultimi mesi sono proseguiti i lavori di consolidamento e di integrazione del suo ornato barocco. Completate queste operazioni, il comodo pavimento montato sotto la volta, che permette ai restauratori di lavorare e ai rari visitatori di ammirare da vicino i molti capolavori che ornano il soffitto, verrà smontato e si metterà mano alle pareti della basilica. La conclusione dell’intero programma dei lavori di restauro del Sacro Monte della Madonna del Sasso è prevista per la fine del mese di novembre del prossimo anno. Anche prossimamente i fedeli, gli estimatori e i turisti che lo frequentano dovranno sopportare inevitabili limitazioni e disagi, ma saranno, tutto sommato, delle rinunce accettabili in vista del risultato conclusivo e, in più, di mese in mese ulteriori tappe intermedie saranno vieppiù visibili e fruibili.

fra Agostino Del Pietro


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rent’anni fa, precisamente nell’ottobre del 1980, fu aperta al pubblico la Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Si concluse così positivamente una lunga e felice operazione culturale, che prese avvio alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, quando fra i Cappuccini della Svizzera italiana si sviluppò l’idea (non senza contrasti e dissensi) di rendere fruibile al pubblico degli studiosi e dei lettori l’antica biblioteca del Convento di Lugano. La decisione maturata, sostenuta soprattutto da padre Callisto Caldelari e da padre Giovanni Pozzi, fu coraggiosa e lungimirante: costruire un nuovo edificio progettato da Mario Botta, per trasferirvi i libri, prima custoditi nel locale del convento adibito appunto a ‘libreria’ (come prescrivono le Costituzioni dell’Ordine), e affidare la gestione della ‘nuova’ biblioteca ad un’associazione di persone al di fuori della comunità conventuale, per offrire un servizio culturale pubblico. Si trattava, per i Cappuccini, di promuovere la conoscenza e l’uso di un prezioso bene culturale: la più antica biblioteca privata del Cantone e la sola biblioteca monastica sopravvissuta nella sua integrità (con quelle molto più piccole di Bigorio e di Faido). Così diceva padre Pozzi in una comunicazione agli amici coinvolti fin dall’inizio per dar sèguito all’iniziativa: “I Cappuccini non offrono […] astratti valori spirituali, ma una massa di oggetti, di beni materiali, alla cui gestione sono invitate le persone amiche qui riunite. Il gesto […] non si veste minimamente dei panni del mecenatismo; al rovescio è una spogliazione, diversa nella sostanza da quello di Francesco davanti al vescovo e al padre, ma non dissimile nelle intenzioni”. Il 17 maggio 1976 fu costituita l’Associazione “Biblioteca Salita dei Frati” con lo scopo di garantire, sulla base

di una convenzione con la Regione dei Cappuccini della Svizzera italiana, l’apertura al pubblico e l’accrescimento bibliografico della biblioteca (denominata da allora “Biblioteca Salita dei Frati”, come oggi è ormai conosciuta). Il primo Comitato fu designato nella prima assemblea ordinaria, che si tenne l’8 giugno successivo: presidente dell’Associazione venne eletto Fabio Soldini, che a questo titolo rimase alla guida dell’Associazione per oltre un decennio, con il compito di operare scelte culturali che si sarebbero rivelate decisive per il futuro della biblioteca e per le molteplici iniziative (conferenze, convegni, pubblicazioni) ad essa correlate. Ultimato l’edificio progettato da Botta (una costruzione interrata a ridosso del Convento, da tempo ormai oggetto di visite e di studi da parte di architetti di tutto il mondo) e trasferiti i libri nella nuova sede, l’Associazione poté dar avvio alla propria attività pubblica, affiancando alla gestione tecnica e culturale della biblioteca la promozione e l’organizzazione di conferenze e incontri di studio su tematiche di cultura religiosa (in particolare francescana), filosofica, storico-politica e letteraria. Il problema più importante che dovettero affrontare subito i responsabili dell’Associazione riguardava gli acquisti librari: secondo quali criteri accrescere e valorizzare i libri affidati alle loro cure? Infatti la biblioteca dei Cappuccini luganesi, nel contesto bibliotecario della Svizzera italiana, rappresenta il tipo della biblioteca di conservazione, la cui caratteristica è di custodire un patrimonio librario antico, notevole per una sua specifica fisionomia: compito primario di chi ne cura la gestione è, da un lato, quello di garantirne una ordinata e sicura conservazione fisica, per trasmettere intatto questo tesoro, e, dall’altro, di

renderne possibile la conoscenza, la comprensione e lo studio. Si decise per questo di orientare gli acquisti librari nel senso di comperare opere funzionali alla conoscenza del fondo antico (secoli XVI-XVIII): cataloghi, censimenti, studi sulla storia del libro antico, una disciplina che andava sviluppandosi proprio in quegli anni. In secondo luogo si era ben coscienti che nella Biblioteca Salita dei Frati, per le ragioni per le quali essa si è andata costituendo nel corso dei secoli, come libreria al servizio della comunità conventuale, è preminente (anche se non esclusivo) il soggetto religioso: ma non prevalgono tanto gli interessi dottrinali e speculativi, quanto l’oratoria sacra, l’ascetica, la mistica, la spiritualità, la devozione, la religiosità popolare. Si ritenne perciò di perseguire, nell’accrescimento bibliografico di cui l’Associazione si faceva carico, il filone delle opere sulla ‘religione praticata’ (mentalità e comportamenti religiosi, spiritualità, devozione e pietà popolare, ascetica, mistica), con l’obiettivo di offrire a un pubblico ‘laico’, di non addetti ai lavori, gli strumenti per soddisfare i propri interessi in ordine alla conoscenza dell’esperienza religiosa, in termini storici e culturali. Infine si optò per l’acquisto di opere su Francesco d’Assisi e il francescanesimo. Con questi orientamenti, cui si giunse dopo un’attenta riflessione (e non senza opinioni contrastanti) dopo i primi anni per così dire sperimentali, si può dire oggi che la Biblioteca Salita dei Frati ha una fisionomia biblioteconomica e culturale consolidata, che le conferisce un carattere esclusivo nel contesto bibliotecario della Svizzera italiana. Nella definizione di questo orientamento è stato fondamentale il contributo che all’Associazione diede padre Giovanni Pozzi, soprattutto da quando, nel 1988, lasciato l’insegnamento universitario a Friburgo, la sua presenza in

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Messaggi dalle adiacenze

Trent’anni della biblioteca


Appunti di vita ecclesiale biblioteca divenne assidua e operosa. Per dare una misura concreta dell’accrescimento bibliografico che si è avuto dal 1980, basti segnalare che le opere elencate nel Registro cronologico d’ingresso dall’inizio di ottobre del 1980 alla fine di ottobre del 2010 sono 38’552 (si tratta soprattutto di libri acquistati dall’Associazione e, in minore misura, di doni). Questo dato dice, in termini puramente quantitativi, quale è stato l’incremento della biblioteca dal 1980 ad oggi. L’altro aspetto da ricordare, in questo sommario bilancio di trent’anni di apertura al pubblico della Biblioteca Salita dei Frati, riguarda l’adesione al Sistema bibliotecario ticinese (Sbt), voluta anche per dare maggiore concretezza al carattere di servizio culturale pubblico che la biblioteca ha sempre inteso rivestire. Nel giugno del 2001 si cominciò ad inserire le nuove acquisizioni nel catalogo informatizzato del Sbt. Successivamente, espletate le necessarie pratiche, venne formalizzata l’adesione della biblioteca al Sbt: dal 2003 infatti essa ne fa parte come biblioteca associata, sulla base di una convenzione sottoscritta il 24 giugno di quell’anno e di una risoluzione governativa del successivo 22 luglio: con questo atto ufficiale la Biblioteca Salita dei Frati venne riconosciuta “di interesse pubblico” (cfr. Legge delle biblioteche, art. 17). Alla fine di ottobre del 2010, grazie al notevole lavoro svolto dalla bibliotecaria Luciana Pedroia, responsabile della conduzione della biblioteca dal 1989, e dai suoi collaboratori, nel catalogo informatizzato del Sbt erano inseriti i dati di 51’132 libri della Biblioteca Salita dei Frati (nuove acquisizioni e opere prima catalogate solo su supporto cartaceo).

Fernando Lepori

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Insegnamento islamico a scuola Con l’inizio dell’anno scolastico, a Kreuzlingen (Turgovia) è iniziato l’insegnamento di religione islamica nella scuola pubblica, con un corso destinato agli allievi di quarta di due elementari della città: come per l’insegnamento cattolico e evangelico, la frequenza è facoltativa. Pur non essendo una prima svizzera (esistono già alcuni comuni in cui c’è un’ora di religione islamica a scuola), quello di Kreuzlingen è un esperimento che interessa tutta la Svizzera, dopo che un anno fa la maggioranza dei votanti ha deciso di proibire la costruzione di nuovi minareti. La scelta di Kreuzlingen vuole insegnare che la questione islam non può essere risolta con divieti e discriminazioni, né con l’assimilazione, bensì con l’integrazione, particolarmente necessaria in una città in cui il 23% dei 1900 studenti delle scuole dell’obbligo sono musulmani, contro il 24% di evangelici e il 32% di cattolici. Il docente è l’iman Rehan Neziri, d’origine macedone, laureato in teologia in Turchia e da sette anni abitante a Kreuzlingen, scelto dalle comunità islamiche e dalle autorità politiche e scolastiche per le sue conoscenze in ambito teologico e pedagogico, ma anche per le sue posizioni moderate e per la padronanza del tedesco. Il corso viene infatti impartito in tedesco ed è aperto al pubblico (quindi facilmente controllabile): due circostanze che allontanano lo spettro di una propaganda islamista, come teme la destra nazionalista. L’esempio di Kreuzlingen merita di essere conosciuto e imitato (da un articolo di Voce evangelica, ottobre 2010).

Nomadi in Svizzera La comunità nomade in Svizzera conta approssimativamente 30’000 persone. Di fatto, la maggioranza vive oggi un’esistenza sedentaria, ma il nomadismo, strettamente legato all’esercizio di vari mestieri tradizionali, è rimasto un elemento fondamentale dell’identità culturale nomade. In base al rilevamento sull’utilizzo degli spazi di sosta e di transito, le persone che praticano attivamente il nomadismo in Svizzera sarebbero circa 2’500. La richiesta di creare un numero maggiore di aree di sosta genera conflitti coi sedentari: da anni l’organizzazione jenisch “Radgenossenschaft” si impegna per realizzarne di nuove. Già dal 2006 esiste uno studio del Governo federale secondo il quale ai circa cinquanta accampamenti provvisori esistenti ne andrebbero aggiunti altri 38 per i nomadi svizzeri, e dieci grandi accampamenti per accogliere le carovane in transito di nomadi stranieri, composte generalmente da 30-50 roulottes. Nel 2003 May Bittel, pastore della Mis-


di Basilea, con un terzo dei cattolici svizzeri, ne ha solo 59 attivi nella pastorale parrocchiale; ma impegna anche 80 diaconi e 300 laici, per un terzo circa di nazionalità tedesca. Per il vescovo Gächter, la presenza di preti di diverse culture costituisce un arricchimento per il cattolicesimo svizzero, portando spesso in parrocchia “la gioia di vivere”, mentre sono riconoscenti alla Chiesa e hanno meno diffidenza verso i vescovi e il papa. Tuttavia non mancano anche difficoltà, a causa della diversità culturale, nelle scelte pastorali rispetto a certi valori, e nelle modalità di amministrazione dei mezzi finanziari in collaborazione coi parrocchiani.

La maggior parte dei nomadi svizzeri trascorre i mesi invernali presso gli spazi di sosta, in roulotte, abitazioni di legno o container. I loro figli frequentano la scuola di quartiere o di villaggio e i membri della popolazione nomade sono iscritti nei registri di queste stesse località. Il gruppo principale di nomadi svizzeri appartiene agli Jenisch; gli altri nomadi svizzeri sono dei Sinti (Manouches), apparentati etnicamente con i Rom. La maggior parte dei nomadi esercita un’attività indipendente, spesso con l’esercizio dei loro mestieri tradizionali, quali arrotini, ombrellai, cestai, baracconisti e mercanti, ma ne creano anche dei nuovi, prestando vari servizi artigianali, come il restauro di mobili e lampade, il commercio in metalli vecchi, abiti, tappeti e oggetti di antiquariato.

È cambiata la carta religiosa della Svizzera: se nel 1900 la maggioranza era protestante e i cattolici circa il 40% (ora i cattolici sono al 42% e i protestanti scesi al 35%), negli anni 1960-70 sono apparsi nuovi gruppi religiosi e si sono formate le cosiddette “Chiese degli immigranti”. Secondo uno studio della Federazione delle Chiese protestanti, cristiani provenienti dal Sud e dall’Est hanno fondato in questi ultimi anni più di 300 nuove Chiese. Queste comunità raccolgono i fedeli più per uguaglianza di lingua che per confessione d’origine, e hanno un’importante funzione nell’integrazione, anche se spesso presentano un cristianesimo fondamentalista e poco ecumenico. Esse costituiscono un apporto benefico per le Chiese tradizionali svizzere: del resto la tenuta percentuale del cattolicesimo è dipesa, durante l’ultimo secolo, dall’immigrazione italiana, spagnola e portoghese. Ancora attualmente (2010) nelle “missioni cattoliche” operano 129 preti, dei quali 61 italiani, 21 portoghesi, 21 spagnoli, 14 croati e 3 albanesi.

Durante il periodo estivo i nomadi si spostano in piccoli gruppi su tutto il territorio svizzero, soggiornando in genere per una o due settimane presso gli spazi di transito. In questo periodo hanno anche la possibilità di contattare la loro clientela abituale. I nomadi stranieri (particolarmente i Rom e i Sinti provenienti dalla Francia o dall’Italia) intraprendono i loro viaggi in grandi gruppi: solitamente sostano solo pochi giorni in Svizzera (notizie rielaborate da Voce evangelica, ottobre 2010).

Preti nel pluralismo svizzero La Svizzera conta (dati del 2000) oltre 7 milioni di abitanti, dei quali il 42% cattolici e il 35% riformati; il 21% degli abitanti sono stranieri, ma solo il 22% di essi sono cattolici. Secondo una statistica presentata da mons. Martin Gächter, vescovo incaricato della pastorale degli stranieri, 342 preti stranieri sono attivi in Svizzera: la diocesi di Lugano, con 97, ne conta il numero maggiore, seguita da quella di Losanna-Ginevra-Friburgo con 93; la diocesi

Nuove chiese in Svizzera

Una Bibbia in romancio L’Opera “Aiuto alla Chiesa sofferente” ha fatto tradurre la Bibbia del bambino nel “romancio unificato“, con il titolo “Dieu discurra cun ses uffants”; il cosiddetto “rumantsch grischun” è stato creato per permettere una scrittura unica ai circa 40.000 grigionesi che parlano cinque diversi romanci. Questa traduzione rappresenta la 163.ma versione della Bibbia per l’infanzia, da oltre 30 anni distribuita in 140 paesi dall’Opera “Aiuto alla Chiesa”, fondata dal padre Werenfried van Straaten; si calcola che complessivamente furono distribuite oltre 48 milioni di esemplari. Alberto Lepori

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Messaggi dal mondo della chiesa

sione evangelica zigana “Leben und Licht” (Vita e Luce), ha ottenuto dal Tribunale federale una sentenza che afferma che lo Stato deve permettere ai nomadi di mantenere il loro modo di vivere; ma questa decisione favorevole incontra ostacoli nei cantoni e nei comuni. Recentemente è stato inviato al Parlamento cantonale di San Gallo un progetto per quattro accampamenti provvisori e un centro di transito per nomadi stranieri, sollevando l’opposizione specialmente dell’Unione democratica di Centro. Anche il Ticino è vergognosamente manchevole e intollerante, per le polemiche che suscita spesso la presenza di nomadi, mentre l’autorità cantonale, dopo anni di sforzi, non è stata in grado di allestire alcuni campi attrezzati che offrano garanzie ai nomadi e alla popolazione.


Messaggio ecumenico

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

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orna la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si svolge tradizionalmente, almeno nell’emisfero nord, dal 18 al 25 gennaio. Viene promossa congiuntamente, dal 1968, dal Pontificio Consiglio per l’unione dei cristiani e dalla Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio ecumenico delle Chiese. I due organismi incaricano della ricerca di un tema e dell’elaborazione dei testi un gruppo ecumenico locale, regionale o nazionale – ogni anno diverso – poi rivedono e adattano il tutto per pubblicare in diverse lingue il ricco Libretto della Settimana, disponibile pure da noi. Come sempre, anche le Chiese cristiane della Svizzera italiana sono invitate a promuovere celebrazioni ecumeniche con i fratelli e le sorelle della varie comunità. Il tema del 2011 viene significativamente dalle martoriate Chiese di Gerusalemme ed è “Uniti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera” (Atti 2, 42). Nella presentazione della Settimana, si legge che

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duemila anni fa i primi discepoli di Gesù Cristo riuniti a Gerusalemme avevano sperimentato l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste ed erano radunati nell’unità che costituisce il corpo di Cristo. I cristiani di ogni tempo e di ogni luogo vedono in questo evento l’origine della loro comunità di fedeli, chiamati insieme a proclamare Gesù Cristo come Signore e Salvatore. Sebbene la Chiesa primitiva di Gerusalemme abbia conosciuto varie difficoltà, sia all’esterno sia al suo interno, i suoi membri sono stati perseveranti nella fedeltà e nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nella preghiera. Non è difficile constatare – rilevano ancora le Chiese di Gerusalemme – come la situazione dei primi cristiani della Città Santa abbia analogie con quella della Chiesa di Gerusalemme oggi. La comunità attuale conosce numerose gioie e sofferenze simili a quelle della Chiesa primitiva: ingiustizie e disuguaglianze, divisioni, ma anche la fedele perseveranza e la preoccupazione per una maggiore unità tra i cristiani.

Come si legge ancora nel testo di presentazione, il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2011 ci ricorda le origini della prima Chiesa a Gerusalemme, ci chiama alla riflessione e al rinnovamento, a un ritorno ai fondamenti della fede e ci invita a rammentarci dell’epoca in cui la Chiesa era ancora indivisa. Quattro elementi vengono evidenziati all’interno del tema presentato, elementi che costituirono il marchio della comunità cristiana primitiva e che sono essenziali anche per i cristiani di oggi. Innanzitutto la Parola che è stata trasmessa dagli apostoli. In secondo luogo la comunione fraterna (koinonia), che caratterizzava la prima comunità dei credenti quando si riuniva. Una terza caratteristica della Chiesa primitiva consisteva nella celebrazione dell’Eucarestia (la frazione del pane), in memoria della Nuova Alleanza compiuta da Gesù attraverso le sue sofferenze, la sua morte e la sua resurrezione. Infine, il quarto aspetto era l’offerta di una preghiera continua. Questi quattro elementi sono i pilastri della vita della Chiesa e della sua unità.


“Ecco la sfida che abbiamo. I cristiani di Gerusalemme chiedono ai loro fratelli e alle loro sorelle di fare di questa Settimana di preghiera l’occasione per rinnovare il loro impegno per lavorare per un vero ecumenismo, radicato nell’esperienza della Chiesa primitiva, per l’unità e la vitalità della Chiesa diffusa su tutta la terra”, spiega il documento, nel quale la Chiesa madre di Gerusalemme invita i cristiani di tutto il mondo ad unirsi alla sua preghiera per la giustizia, la pace e la prosperità di tutti i popoli di questa terra.

Chiese in preghiera per la pace Segnaliamo per concludere una bella iniziativa ecumenica in atto da un paio d’anni a Gerusalemme: la preghiera straordinaria di tutte le Chiese

per la riconciliazione, l’unità e la pace a cominciare da Gerusalemme. Si svolge a turno in una delle chiese della Città Santa e vi partecipano rappresentanti e fedeli di tutte le comunità cristiane. Il suo scopo è di promuovere una grande preghiera di intercessione di tutti i cristiani a Dio Padre per il nostro tempo, partendo appunto da Gerusalemme. La speranza degli ideatori è che questa iniziativa sviluppi anche una maggiore attenzione e una migliore conoscenza reciproca tra cristiani. Ogni preghiera si tiene, per quanto possibile, nella lingua liturgica della Chiesa ospitante. Rese accessibili da opportune traduzioni, queste preghiere mirano anche ad esprimere la ricchezza delle varie tradizioni della Chiesa. Finora si sono tenute quattro celebrazioni di questo genere. Le prossime sono in programma sabato

29 gennaio 2011, alle ore 18 di Terra Santa, nella cattedrale anglicana di S. Giorgio, e sabato 11 giugno 2011 (vigilia di Pentecoste), alla stessa ora, nella chiesa del Patriarcato latino. Esse vengono trasmesse in diretta da diversi canali satellitari, tra cui l’italiana Telepace. Inoltre, sempre nell’ambito di questa iniziativa, le Chiese di Gerusalemme invitano i cristiani di tutto il mondo, ovunque si trovino, in privato o in comunità, ad unirsi in preghiera con esse, sempre per la riconciliazione, l’unità e la pace, ogni sabato tra le ore 19 e le ore 20 di Terra Santa, anche per pochi minuti. Il principio portante è che tutti i cristiani preghino nello stesso momento per le stesse intenzioni. Maggiori informazioni si trovano sul sito www.prayrup.info

Gino Driussi

Il vescovo Younan nuovo presidente della Federazione luterana mondiale Le Chiese di Gerusalemme hanno espresso grande gioia per l’elezione del vescovo palestinese Munib A. Younan (nella foto) a nuovo presidente della Federazione luterana mondiale (FLM), la cui sede è a Ginevra e che rappresenta oltre 70 milioni di fedeli. A chiamarlo all’alta carica, lo scorso luglio a Stoccarda, sono stati i 360 delegati che hanno partecipato all’ XI Assemblea della Federazione, che sarà così presieduta per la prima volta da un arabo. Younan, che succede allo statunitense Mark S. Hanson, ha 60 anni, è sposato con tre figli, ed è dal 1998 alla guida della Chiesa evangelica luterana in Giordania e Terra Santa, che con circa 3000 fedeli è una delle Chiese numericamente più piccole appartenenti alla FLM. ”La mia visione della Federazione luterana mondiale – ha detto Younan nel suo primo discorso all'Assemblea -è quella di una comunione di Chiese che ricerca il coraggio di una predicazione profetica, capace di portare il proprio pulpito nelle strade e far conoscere al mondo l'amore di Dio”. Tra le priorità evidenziate dal nuovo presidente della FLM vi sono la missione in un mondo secolarizzato, la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione e il dialogo ecumenico e interreligioso. “In quanto arabo cristiano che vive in Palestina – ha sottolineato Younan – so quanto sia importante, e quanti benefici possa concretamente portare ad ogni persona il dialogo con altre fedi”. Effettivamente, il vescovo Younan si è fatto conoscere e apprezzare proprio per il suo impegno in favore della pace, della giustizia e del dialogo interreligioso. Tra gli altri incarichi, Younan presiede la Comunione delle chiese evangeliche del Medio Oriente, fa parte del Comitato cristiano internazionale di Gerusalemme ed è cofondatore del Consiglio delle istituzioni religiose in Terra Santa, di cui fanno parte esponenti cristiani, ebraici e musulmani.

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Messaggio amico

Una predica particolare el mese di gennaio i cristiani celebrano la settimana ecumenica per l’Unità delle Chiese. La nostra rivista è sempre molto sensibile a questo problema, lo dimostrano gli apporti mensili di Gino Driussi. Per questa occasione aggiungiamo il seguente scritto che ci è stata inviato dal giornalista amico Enrico Morresi.

N

Può capitare che una predica dal pulpito, una qualsiasi domenica dell’anno, ti rimanga impressa fino a che decidi di raccontarla al “Messaggero”? Càpita. Il luogo dove l’ho sentita: la Marienkirche di Lubecca, città della Germania settentrionale, patria di Thomas Mann; l’occasione: il culto luterano delle ore 10 di domenica 29 agosto 2010, chiesa tuttavia scelta assolutamente per caso, forse perché tante volte ricordata nei “Buddenbrooks”, che avevano la casa proprio di fronte. Officiavano due pastore: una tedesca – la titolare della chiesa – l’altra americana, tutte e due in toga nera e gorgiera bianca al collo. Furono cantati il Kyrie e il Gloria, letti l’Epistola (Ebrei, cap. 13) e il Vangelo (Luca, cap. 14). Poi le pastore salirono sul pulpito e cominciarono la predica. Che una predica non mi pareva, almeno fino a metà, ma piuttosto un raccontare “fait divers” (come una predica non dev’essere mai): ma poi sì, ed è per questo che mi è rimasta in mente. Ma vado con ordine.

divenni pastora a Manhattan, pensavo alle generazioni di bravi luterani che dovevano avermi preceduto nel cammino della fede, qui a Lubecca. Potete immaginare lo sconvolgimento che fu per me la sera in cui mia figlia, cliccando in Google su ‘Moritz Neumark’ – il nome del padre di mio padre – venne a dirmi: “Ma noi non siamo luterani, siamo ebrei!”. Ebrei! Una rapida ricerca mi confermò, non solo che il vecchio Moritz Neumark era ebreo ma anche che, insieme con suo fratello, era stato deportato a Theresienstadt dai nazisti e in quel campo aveva trovato

[La pastora americana parlava in prima persona, la tedesca traduceva] Quando mio padre portò la sua sposa qui, in questa chiesa, nel 1953, in viaggio di nozze, di certo non pensava che sua figlia oggi avrebbe predicato da questo pulpito – esordì l’americana. (Perché no?, pensai. I figli han da essere professori, tecnici, scienziati, ma non pastori? Che pregiudizio! Ma la verità, come avremmo saputo più avanti, era più profonda). A Lubecca – continuava la pastora – tornammo più volte, per far visita alla nonna che viveva ancora in questa città. Lubecca l’avevamo nel cuore: in casa, a New York, tenevamo appesi tre piccoli quadri: una foto della casa che era stata dei nonni, uno schizzo di questa chiesa di Santa Maria, e l’attestato della Cresima che papà aveva ricevuto qui dentro. Io amo questa chiesa – proseguì la pastora americana – anche per la cappella che c’è lì in fondo, nella quale si vedono, adagiate per terra, spezzate, le campane crollate nel bombardamento del 1942. È bene che nelle chiese ci sia – aggiunse – un luogo che ricordi la nostra fragilità, come singoli e come comunità. Perché se no la spazzatura la scopiamo sotto il tappeto e nessuno ci pensa più. Quando

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la morte (la nonna no, era riuscita a fuggire in Svizzera, mio padre era già emigrato negli Stati Uniti). Papà ci aveva tenuto sempre all’oscuro di tutto questo. Avrà pensato che quel diploma della Cresima avrebbe dovuto salvare l’ebreo Moritz Neumark, che aveva fatto “confermare” suo figlio in Santa Maria? Chissà. Il Vangelo letto all’ambone recitava: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i tuoi ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto in-


vita poveri, storpi, zoppi, ciechi, e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Avrai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. La pastora lo commentò a questo punto: io penso che mio nonno, che tanto fece per questa sua città (la sua impresa dava lavoro a centinaia di operai) e che era “Bürger”, cioè patrizio di Lubecca, chissà quante volte sarà stato invitato a pranzo qui vicino, al Rathaus, e molti furono da lui invitati a sedere alla sua tavola. Quando giunse l’ordine della deportazione, però, non deve aver trovato nessuno che se ne ricordasse…

Io adesso – proseguì - dove stanno lo so, almeno a Manhattan, e posso dirvi qualcosa di loro. Sono i ragazzi del South Bronx, per i quali si spendono molti più soldi per costruire prigioni che per migliorare le loro scuole. È l’autista di taxi ucciso dal passeggero che aveva preso a bordo, gli aveva domandato: “Sei musulmano?” e alla sua risposta affermativa gli aveva scaricato la pistola in faccia. Sono i bambini battuti dai loro genitori per motivi religiosi: per motivi religiosi, sì. Quale religione? domandate voi. La religione che predica l’odio degli omosessuali, delle lesbiche e dei trans. Una transessuale che viene a dormire da noi, in parrocchia, mi confessava che è l’unico posto in cui si sente “un essere umano”. Può essere faticoso, certo, dover trovare un tetto a chi non ce l’ha. Può essere scomodo e spiacevole e anche stressante. Sarebbe così comodo stare tra noi, occupati come siamo 24 ore su 24 con le nostre cose al punto da dimenticare chi sta “fuori della porta della città”. Ma quello che c’è di meraviglioso del nostro Dio è che quando stiamo lontani da lui e ci distanziamo dai fratelli fino a considerarli stranieri rispetto alla nostra famiglia, Egli ci si fa vicino, con il perdono e la grazia che ci sono necessari. Voglio concludere – disse la pastora americana, la tedesca traduceva – con una storiella ebraica. Un vecchio rabbino domandava al suo discepolo da che cosa ci si si dovrebbe accorgere che la notte sta per finire e si avvicina l’ora della preghiera. “È quando scorgi un animale in lontananza e ti accorgi se è una pecora o un cane”. No, rispose il rabbino. “È quando guardi un albero e ti accorgi se è un fico o un pero”. No, disse ancora il rabbino. Quand’è, allora? – domandò il discepolo. “È quando guardi in faccia uno straniero e riconosci che è tuo fratello o tua sorella. Fino a quel punto lì, è ancora notte”. La predica era finita. Noi tutti avevamo un nodo in gola.

Ma no, mi sbaglio – si corresse la pastora americana. Di lui si ricordò Gesù, un altro ebreo mandato a morire “fuori della porta della sua città”, dice la Lettera agli Ebrei, che così prosegue: “Usciamo allora anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”. Facciamo nostro il dolore degli altri, degli “outsiders”, cioè di quelli che stanno fuori del campo. Nasce la domanda a noi, a voi, fratelli cristiani: chi sono quelli che stanno fuori in questa città, fratelli? Chi sono gli ultimi a venire da noi invitati, quelli cui non pensiamo mai? Perché dove sono loro, là c’è Gesù.

Enrico Morresi

Nota dell’autore: la mia traduzione è libera, il testo in inglese e in tedesco (“13. Sonntag nach Trinitatis – St. Marien zu Lübeck – 28. August 2010“) può essere chiesto al Zentralbüro der Lübecker Innenstadtkirchen, Schüsselbuden 13, D - 23552 Lübeck. Me lo si può chiedere anche direttamente (enrico.morresi@sunrise.ch), ce l’ho sulla posta elettronica.

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Messaggio biblico

Quella “benedetta” costola Genesi 2, 18-25 Avete già provato la pena della solitudine? Se la solitudine è scelta di propria volontà la si vive in una grande e meravigliosa atmosfera di pace e di serenità. Se la solitudine è imposta per volontà altrui o per le circostanze, la mancanza di compagnia ti rende nervoso e può portarti alla disperazione se non l’accetti e con pazienza non ti ci abitui. Queste considerazioni mi sovvengono pensando ad un Adamo impastato di terra e di Spirito divino, che vive tranquillo in un paradiso meraviglioso, uomo perfetto, ma tremendamente solo. E anche Dio si rattrista per questa condizione dell’uomo. Lui che è la pluralità in persona (parlava effettivamente in plurale e continua a parlare in plurale) dice: “Non è bene che l’uomo sia solo, gli darò un aiuto a lui corrispondente”.

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Chi è questo aiuto corrispondente all’uomo? I primi tentativi divini per dare all’uomo un aiuto vanno a vuoto. L’uomo mostra un certo interessamento per gli esseri animati che Dio gli fa passare in rassegna, dando a loro un nome; tra essi però, cioè tra gli animali, non trova un compagno adatto. Questo racconto produce una impressione puerilmente ingenua, quasi ridicola, ma dobbiamo considerare che dare il nome a degli esseri vuol dire manifestare su di loro un gesto di superiorità, anzi di sovranità. L’uomo dunque, secondo la Genesi, ha il potere sugli animali. Alcuni animali dell’ambiente antico si manifestavano come esseri misteriosi ed enigmatici, quasi dotati di una forza divina; pensiamo per esempio all’Egitto con la sua zoolatria, oppure al ruolo sostenuto in tutto l’Oriente dal leone e dal serpente.

Nel citato passo della Genesi invece si sottolinea che l’animale è soltanto... un animale, soggetto al potere dell’uomo e non suo pari. L’antico Israele aveva un particolare rapporto con gli animali; gli animali infatti, assieme agli uomini, fanno parte della famiglia dei viventi e nei primordi, sempre secondo la Bibbia, l’uomo e gli animali abitavano insieme, sotto lo stesso tetto, in pace, anzi amichevolmente. L’israelita era ancora indenne dalla boria dei posteri che si ritennero assolutamente diversi e infinitamente migliori degli animali; accetta l’animale come affine in senso lato e gli assegna un posto nel mondo perfetto di Dio. Ma la frase: “Diede il nome ad ogni animale”, sta ad indicare il rapporto fra gli animali e l’uomo; l’uomo è superiore all’animale, ma dandogli un nome dimostra di amarlo, di considerarlo, di prenderlo come una entità specifica e non di annoverarlo tra gli oggetti qualsiasi.


Dice il commento preso dal Talmud: “Dando il nome ad ogni animale, Adamo constatò che gli animali sfilavano in coppia, maschio e femmina, mentre lui rimaneva solo. E questa constatazione aumentò il suo disagio e la sua malinconia”. Per questo l’autore biblico dice: “Fra essi, nessuno era di aiuto adatto all’uomo”. Dopo questa frase inizia il racconto della creazione di Eva, la donna; racconto che ha dato la stura a una quantità di barzellette più o meno sciocche, segno evidente che non lo si è voluto o non lo si è saputo capire. Cerchiamo di approfondire questo racconto molto interessante: “Allora Dio il Signore fece scendere un sonno profondo sull’uomo che si addormentò”. Queste parole alludono al fatto che il primo uomo non fu spettatore dell’opera creatrice di Dio; il narratore parte dal principio che Dio non permise a nessuno di assistere alla prodigiosa creazione della donna. Nel creare la donna, Dio non ha voluto consigli ed interferenze: la donna è una ‘invenzione’ divina. Il termine metaforico “torpore” sta ad esprimere il velo che avvolge il misterioso avvenimento; l’averlo usato sta a significare che l’origine della prima donna, anche dopo che questa era al fianco di Adamo, era e rimane un mistero impenetrabile. “Poi - continua l’autore della Genesi Dio gli tolse una costola e racchiuse la carne al suo posto; con quella costola, Dio il Signore formò la donna e la condusse all’uomo”. E’ una narrazione veramente ingenua che descrive la nascita della prima donna in modo immaginoso. Di fronte a questo passo dobbiamo però chiederci seriamente: che intendeva dire l’autore sacro? A quale raffigurazione dell’antico Oriente si è riallacciato?

Sembra che il narratore biblico sia stato influenzato dall’anatomia popolare quando ha introdotto nel suo racconto la parola “costola” che in ebraico si dice “seda”. L’enigma della costola non è ancora veramente risolto, perché tutto il racconto della nascita di Eva è metaforico nel senso proprio del termine. La parola “costola” non va certo presa alla lettera, ma presumibilmente ha un recondito significato. Ciò che viene indubbiamente dichiarato nel racconto è la parità di natura della donna e dell’uomo; questa affermazione viene sottolineata dal fatto che: “Quando tutti gli animali gli furono condotti d’innanzi, Adamo non si trovò un aiuto simile a lui”, mentre alla vista della prima donna egli esclamò lietamente e spontaneamente, anzi gridò con gioia: “Questa sì, è osso delle mie ossa, carne della mia carne, si chiamerà donna, ischia, perché dall’uomo (isch) è stata tratta!”. Ma siccome la costola è vicina al cuore si potrebbe desumere una conclusione molto profonda e consolante sul rapporto fra l’uomo e la donna; a questo simbolismo allude un passo del Talmud: “Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché lo comandasse, ne dai suoi piedi perché ne fosse la schiava, ma dal suo fianco perché rimanesse vicina al suo cuore”. Di fronte ad una simile interpretazione chi oserebbe più ridere del termine “costola”? Il brano che stiamo prendendo in esame termina con questi due versetti: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una cosa sola”. Ricordiamo che in italiano il gioco delle parole non funziona; in ebraico, uomo=isch, donna=ischia, perciò questo versetto dovrebbe essere tradotto così: “Perciò l’uomo lascerà suo

padre e sua madre e si unirà alla sua uoma, e i due saranno una cosa sola”. Uomo e uoma, una cosa sola, grande principio di antropologia biblica; l’uomo completo non è il maschio, l’uomo completo non è la femmina, l’uomo totale è la coppia. Anche Gesù accetterà questo principio antropologico, per questo definirà coloro che non sono in coppia degli eunuchi, cioè delle persone mancanti. “L’uomo lascerà suo padre e sua madre”, principio terribile per un ebreo obbligato ad assistere i propri genitori per un comandamento divino che l’obbligava, fra l’altro, a correre al capezzale del padre morente per chiudergli gli occhi; perché, se il figlio non era presente e non gli chiudeva gli occhi al momento della morte, lo spirito del padre avrebbe vagato senza requiem. Eppure l’amore per la sua “uoma” divenne più grande e più sacro, e Gesù stesso si rifarà a questo principio per ricordare l’indissolubilità della coppia umana, l’indissolubilità che si esprime soprattutto nel momento che i due saranno anche fisicamente una cosa sola, perché da quell’atto nascerà una nuova vita. E ricordando questo atto, l’ultimo versetto del capitolo secondo sottolinea che l’uomo e la donna, tutti e due, erano nudi ma non avevano vergogna. Possiamo leggere in queste parole un elogio alla sessualità umana, a questa entità che, ben lontana da essere un mezzo puramente genitale per raggiungere una congiunzione fisica, è una forza fisica, psicologica e spirituale che chiede all’uomo e alla donna di essere nudi, cioè trasparenti, sinceri, per essere complementari. Perché solo così, l’uomo e la donna, saranno immagine e similitudine di quel Dio che è Padre ed è Madre, ed è comunque generatore.

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Abbiamo letto... abbiamo visto... Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano

GAB 6900 Lugano

Mick E. L. Matrimonio. Per capire il sacramento Padova, Messaggero, 2008

Ecco un agile libretto che presenta in sintesi la visione dei sacramenti nata dal Concilio Vaticano II e in particolare l'importanza del sacramento del matrimonio, non solo per chi lo riceve, ma per tutti i cristiani. Un testo che può servire per la catechesi degli adulti e per i gruppi di riscoperta della fede cristiana, ma anche come sussidio per i corsi per fidanzati.

VITALINI S. – ZOIS G. Ma com'è Dio? Giuseppe Zois dialoga con Sandro Vitalini su temi scomodi del credere Pregassona, Fontana, 2010

Il libro è talmente bello, affascinante, interessante e curioso (e gli aggettivi non si sprecano) che lo consigliamo a tutti. Per convincersi basta scorrere l'indice: Prefazione: Il vento dell'inverno sulla primavera del Concilio. Il teologo: Un comunicatore di Dio che educa alla libertà. Introduzione: Domande scomode per i percorsi del credere. Tra cielo e terra: Un Padre che soffre un uomo che spera. Domanda di sempre, Uomo dove sei? Il roveto dell'anima e il suo destino. Corresponsabili del destino comune: Ascoltatori d'infinito in una società fragile Postfazione: Pensare e credere per amare, di Ernesto Borghi.


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