Trimestrale di formazione e spiritualitĂ francescana
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Aprile n° Giugno 2011
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Aprile n° Giugno 2011
Intervista a don Sandro Vitalini
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Alcune riflessioni
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Via dal nucleare: una scelta per sempre?
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La vita di Maria
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Francescanesimo secolare
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Alberto Lepori
La Charta Oecumenica delle Chiese europee
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Gino Driussi
La forza della fede e la paura fra Andrea Schnöller La cecità di san Francesco Mario Corti
Rivista fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano
Comitato Editoriale
Maurizio Agustoni
Cristiani nel mondo
MESSAGGERO
fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Maurizio Agustoni Gino Driussi Alberto Lepori E-Mail redazione@messaggero.ch
Hanno collaborato a questo numero Mario Corti fra Agostino Del-Pietro Franca Humair fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini
Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch
Abbonamenti 2011
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Copertina Madonna del Sasso nel 1900 da una cartolina dell’epoca
Lettera della redazione
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Fedeli al programma che ci siamo dati per il 2011, continuiamo con la spiegazione sui comandamenti. Con questo tema riteniamo di essere fedeli allo scopo di questa rivista che vuol essere quello di istruire e informare cristianamente i suoi lettori. Segnaliamo con molto piacere che gli articoli di don Sandro Vitalini e di P. Callisto, apparsi sulla nostra rivista negli scorsi anni e inerenti i sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Cresima, Riconciliazione ed Eucarestia), sono stati raccolti in un libro dal titolo “Ama e fa ciò che vuoi” curato dal prof. Ernesto Borghi che li ha fatti seguire da suoi approfondimenti. Il libro, edito dalla Diocesi di Lugano servizio per la catechesi e coordinamento della formazione biblica), ha una prefazione del vescovo Pier Giacomo Grampa che lo consiglia vivamente ai catechisti parrocchiali. Ritornando a questo numero del Messaggero, segnaliamo l’articolo di fra Agostino Del Pietro sul ciclo degli affreschi restaurati nella basilica della Madonna del Sasso, ciclo che tratta della “Vita di Maria” riapparso nel suo antico splendore. Tra le consuete rubriche l’apporto ad un tema attuale, energia atomica, dovuto a Maurizio Agustoni al quale diamo il benvenuto quale collaboratore di redazione.
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Stiamo già pensando ai temi del prossimo anno; per il momento riteniamo utile rivisitare alcuni documenti del Concilio Vaticano II cercando di indagare sulla loro applicazione nel nostro paese. Anche il Concilio ha bisogno di diventare nuovamente un “messaggero” di vita evangelica per la società di oggi che ha tanto bisogno della Parola di Dio, innanzitutto della Parola di Cristo, oggi diffusa anche dai mezzi di comunicazione, soprattutto dalla stampa. Parleremo anche di Santa Chiara nell’ottavo centenario della sua sequela alla scuola di Francesco. Cercheremo notizie nuove di vita ecclesiale anche locale e di vita ecumenica, cercando di rendere così la nostra rivista sempre più interessante.
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Intervista a don Sandro Vitalini
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Nel “non uccidere” è implicato l’ordine di rispettare ogni vita umana?
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Il quarto comandamento: è solo per i bambini? Rispondo di no. Si noti la formulazione letterale ebraica “glorifica tuo padre e tua madre”. Il Comandamento si rivolge ai figli adulti, ai quali è imposto l’obbligo di provvedere ai genitori e difenderli nel loro buon nome anche quando la demenza senile li riduce male (Siracide 3, 14-18). I figli sono garanzia di continuità nel lavoro della terra e assicurazione dei genitori contro i malanni della vecchiaia. L’AVS e l’AI di allora era garantita dai figli. Sappiamo che la vita media allora durava al massimo 40 anni e che spesso l’arduo lavoro agricolo consumava rapidamente le forze dei genitori, solitamente circondati da uno stuolo imponente di figli, parte dei quali però soccombeva già alla nascita o in tenera età. “Glorificare” significa saper dir bene anche di genitori che hanno perso il senno e che i figli proteggono da lazzi e sberleffi. Il comandamento si estende anche al rispetto per le altre autorità? Si deve riconoscere che il decalogo nel fluire dei secoli è stato “tirato” in tutte le direzioni, mentre l’errore dei cristiani, per pavidità, è stato quello di non sostituirlo con la legge nuova delle beatitudini, ritenuta troppo impegnativa! Ma se ci limitiamo al Primo Testamento dobbiamo ammettere che Israele riconosce come unica autorità il suo Signore; sulla terra Mosé e i giudici non sono che i suoi porta-parola. L’istituzione della monarchia è vista negativamente dal Signore (“Hanno rigettato me”, 1 Samuele 8,7). Idealmente Israele sarebbe dovuto vivere senza re, senza capo, senza tributi, nella piena libertà dei figli di Dio. L’autorità paterna era assicurata su ogni famiglia, mentre un giudice avrebbe dovuto risolvere i problemi che si presentavano via via al popolo. Si tratta di un quadro ideale, che ci ricorda però come il Signore voglia le sue creature pienamente libere. Non devono esistere né superiori né inferiori. La monarchia è lesiva dei diritti dell’uomo perché fa di qualcuno una persona “più uguale” delle altre!
No. Il comandamento letteralmente impone di “non assassinare”, di non uccidere cioè proditoriamente, di non pugnalare alle spalle. Israele è un popolo bellicoso e costruisce a sua immagine un suo Dio bellicosissimo, sterminatore dei suoi nemici. In questa visione arcaica si pensa che sia il Signore a guidare alla vittoria le schiere di Israele (Deuteronomio 9, 3). Se Israele gli è fedele vincerà sempre, se gli è infedele sarà sconfitto. Il massacro dei nemici, dei loro animali, la distruzione dei loro insediamenti, è vista come cosa comandata da Dio. Il “peccato mortale” di Saul sarà quello di aver salvaguardato per il Signore un bottino di guerra che andava invece annientato (1 Samuele 15, 10-23). Ciò che il comandamento condanna è l’uccisione di un innocente a tradimento (2 Samuele 4, 5-12) che viene punita con la morte degli assassini. Val la pena di insistere sull’ “esiguità” di contenuto di questo comandamento, perché si capisca che, come cristiani, dobbiamo rifiutare l’immagine di un Dio che, se pregato da Mosé, stermina gli Amaleciti (Esodo 17, 8-16) (e a volte questo massacro è presentato come esempio di preghiera esaudita!!!). Così anche la legislazione che prevede la messa a morte di un figlio scapestrato (Deuteronomio 21, 18-21) o di persone che contraggono un’impurità (Deuteronomio 22, 22-24) non può certo essere accettata da coloro che sono chiamati ad amare amici e nemici, persecutori compresi (Matteo 5, 38-48). Lo sbalzo di contenuto tra la legge del taglione e la legge dell’amore senza confini per tutti è talmente sbalorditivo che noi, pur cristiani battezzati, e cioè immersi nella Trinità, ci appelliamo ancora alla vecchia legge perché la nuova ci sembra inattuabile. Il Vangelo ha davvero solo “sfiorato” l’umanità!
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“Non commettere adulterio”, che significa? Alla lettera l’ordine è di “non adulterare” persone e cose, e cioè di essere leali col prossimo. Ecco perché la sposa del prossimo va rispettata. L’adulterio è visto in Israele come un crimine (Levitico 20,10), soprattutto se una donna tradisce lo sposo (Giovanni 8, 1-11). Si è molto più indulgenti nei confronti dei mariti, i quali hanno anche a disposizione molte spose. Ecco perché l’adulterio di Davide, poligamo, con l’unica sposa di Uria, Betsabea, è particolarmente ripugnante (2 Samuele 11). Salomone avrà a disposizione 700 mogli e 300 concubine (2 Re 11,3), il che indica che il dono della sapienza in lui si era di molto affievolito, mentre egli voleva disporre di un harem all’altezza delle corti più prestigiose dell’epoca. Bisogna anche qui riconoscere che il salto tra una vita sessualmente piuttosto sregolata, come appare ai vertici stessi di Israele, e le esigenze del figlio di Dio incarnato (Matteo 19, 3-9) è abissale. Gesù però precisa che sposo e sposa formano per tutta la vita “una sola carne”, cioè una sola persona, e la loro progressiva fusione ha eliminato alla radice “la durezza di cuore” che aveva permesso l’istituzione del divorzio. Il cuore è nuovo (Geremia 31, 31) quando è immerso nella vita dello Spirito d’amore di Dio. Bisogna ammettere la nostra patente contraddizione: da una parte il diritto canonico concede a tutti i battezzati di sposarsi
in Chiesa, anche se sono miscredenti, ma non riconosce poi facilmente questa previa “durezza di cuore”, che rende nullo il Sacramento. Molto spesso sono proprio le seconde nozze, celebrate con rito civile, che vengono prese più seriamente dai contraenti e durano per la vita. La Chiesa orientale riconosce a volte che il primo matrimonio è “morto” e prevede le seconde nozze in un contesto dimesso, penitenziale. Quante volte come confessori abbiamo appurato l’inesistenza del primo vincolo e aiutato le coppie ad accostarsi ai Sacramenti! Ci sono casi nei quali questa inesistenza non può essere provata davanti al tribunale ecclesiastico, ma è certo che chi è chiamato ad assolvere nel nome della Trinità ha il dovere di procedere per aiutare delle persone a respirare nel Signore. A volte si toccano con mano delle assurde intransigenze che portano i divorziati risposati solo civilmente a staccarsi dai Sacramenti, al punto che tutti i loro discendenti ignoreranno per sempre il messaggio di amore, di libertà, di perdono, che Gesù ha portato per tutti sulla terra.
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Alcune riflessioni Genitori e figli, binomio educativo!
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Ê importante – parlando del quarto comandamento – vedere quali sono i doveri dei figli verso i genitori e i doveri dei genitori verso i figli, e vedere tutto questo in rapporto al messaggio cristiano che dai comandamenti ebraici ricava la sua forza. Parlando dei doveri dei figli verso i genitori si arrischia di fare un predicozzo di quelli noiosissimi, perché moralistici, che oggi nessuno più accetta. Ed allora, per ovviare a questo pericolo, vorrei ricavare da alcuni libri biblici delle piccole sentenze che riguardano questi rapporti. Sentenze vecchie di millenni che, se lette con attenzione e soprattutto con umiltà, e se applicate, mantengono un’attualità e una vivacità molto interessanti. Leggo nel “Libro dei proverbi”: Un figlio saggio ascolta i consigli del padre, un insensato non vuole sentire rimproveri. Un figlio sapiente è la gioia di suo padre, un figlio malvagio è il disonore di sua madre. Potremmo continuare a lungo con queste citazioni, perché questo “Libro dei proverbi” riporta molte sentenze che riguardano l’atteggiamento dei figli verso i genitori; atteggiamento che vuol essere soprattutto un invito a sfruttare l’esperienza che un genitore ha, ascoltando le sue parole e seguendo i suoi consigli. Ma vorrei anche ricordare un dovere che i genitori hanno verso i figli, quello fondamentale di insegnare, consigliare, educare, e per farlo riprendo dal capitolo quarto di un altro libro della Bibbia, chiamato del Siracide, quest’interessante sequenza: Figlio mio, non rubare al povero quel poco che ha e non rimandare deluso chi ti guarda con occhi supplicanti. Non far soffrire chi non ha da mangiare, non mettere a dura prova chi è senza mezzi.
Se uno è disperato, non peggiorargli la situazione; se è nel bisogno, non fargli sospirare il tuo aiuto. Se uno sta male e ti supplica, non dirgli di no; quando vedi un povero, non voltarti dall’altra parte. Quando vedi un bisognoso, non guardare altrove, non dargli motivo di imprecare contro di te; perché, se nella sua amarezza ti maledice, chi l’ha creato ascolterà la sua preghiera. Quando un povero si rivolge a te, ascoltalo con attenzione; sii amabile e buono nel rispondergli. Strappa chi è oppresso dal potere di chi l’opprime, se devi far giustizia, non aver paura di chi è più forte. Sii come un padre per gli orfani e come un marito per le vedove, e sarai figlio dell’Altissimo che ti amerà più di tua madre. Ho voluto sfruttare questi antichi aforismi per esprimere quello che oggi diremmo in poche parole: che i genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei loro figli; cosa ovvia in teoria, ma forse non sempre altrettanto ovvia in pratica. Agenzie educative oggi ce ne sono molte e qualcuna più potente della famiglia; pensiamo, per esempio, alla televisione. Ma non va dimenticato che il focolare domestico costituisce l’ambito naturale per l’iniziazione dell’essere umano alla solidarietà e alle responsabilità comunitarie. Perché essere solidali e responsabili – a mio modo di vedere – è il nucleo centrale di un’opera educativa, anche se questo nucleo si allarga verso altri insegnamenti molto importanti che possono essere impartiti con successo soltanto dai genitori; se manca la loro opera difficilmente – o per lo meno a stento – la stessa opera può essere supplita. Tra questi altri insegnamenti che i genitori devono impartire ai figli, vorrei sottolinear-
Messaggio tematico ne due: guardarsi dai compromessi e mantenersi il più possibile liberi di fronte ai modelli deteriori che, alle volte, la nostra società ci presenta. Fra questi modelli vi è anche quello di una vita tutta dedicata al benessere economico e non arricchita da valori spirituali e morali. I genitori cristiani poi, in forza del sacramento del matrimonio che hanno ricevuto, hanno la responsabilità ed il privilegio di essere i primi evangelizzatori dei loro figli. Non dimentichiamo che la parola “vangelo” vuol dire “buona novella”, ed evangelizzare – di conseguenza – offrire la buona novella di Cristo a tutti gli uomini di buona volontà. Fra le parole chiave di questa buona novella – adatte soprattutto nel compito educativo – vi sono anche le seguenti: “Beati i poveri nello spirito” cioè quelle persone che non guardano soltanto alla materia, ma che credono anche nei valori spirituali e a questi valori sanno sacrificare, se necessario, anche i beni materiali scegliendo la povertà del-
le cose per far emergere la ricchezza dei valori. Altra “buona novella”: “Il vostro parlare sia sì se è sì, sia no se è no” che vuol dire, non scendete a compromessi, non lasciatevi immischiare da turpi negoziati con la verità, ma cercate sempre, in tutto, la sincerità perché il vostro Dio è un Dio sincero e vero. Ecco che cosa intendo per “evangelizzare” i figli: portarli ad essere persone responsabili e libere che coltivano i beni spirituali almeno come si interessano dei beni materiali. E i genitori non cristiani, non hanno questo obbligo di educare a simili valori? Sì, lo hanno anche loro. Forse non lo chiameranno evangelizzazione, ma umanizzazione, responsabilizzazione o più semplicemente educazione. Ma sono gli stessi obblighi, perché se uno è genitore deve continuamente generare, prima un uomo, e nell’uomo – se ha fede – un figlio di Dio
Pace e guerra
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Mi piace considerare il precetto di non uccidere nel suo risvolto positivo che potremmo definire: il dovere di costruire la pace. Parlare di pace è facile, costruirla è molto più difficile. Ma per iniziare questa costruzione dobbiamo, innanzi tutto, essere convinti che la pace non è semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti. La pace non è ottenibile senza la tutela dei beni personali, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della fratellanza. La pace, intesa in questo senso, la possiamo definire con S. Agostino, la tranquillità dell’ordine, frutto della giustizia ed effetto della carità. Questa è ancora una definizione limitativa; la pace, nel suo senso più pieno, è lo “shalom” ebraico, cioè pace interiore e pace esteriore, pienezza di tutti i beni spirituali e materiali. Il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, dopo averci presentato questa visione della pace, aggiunge che la pace terrena è immagine e frutto della pace di Cristo, definito il “Principe della pace”. Infatti la sua vita si svolge fra due auguri di pace: il primo, pronunciato sulla capanna di Betlemme dove gli angeli hanno augurato ai pastori il loro Buon Natale, lodando Dio nell’alto dei cieli e comunicando la pace agli uomini di buona volontà; il secondo è l’augurio ai suoi apostoli
spaventati – anzi terrorizzati – dalle scene di persecuzione e di morte che avevano visto infierire contro il loro Maestro che, una volta risorto, apparve loro dicendo: “La pace sia con voi”. Da questo abbozzo di discorso sulla pace possiamo dedurre che – il suo contrario – la guerra, sia una parentesi anormale, assurda, un’aberrazione atroce. Potremmo teologicamente definirla: un sacrilegio contro Dio e contro l’umanità, un vero assassinio generalizzato. Dovendo parlare di guerra si capisce perché questo tema entra nel contesto del quinto comandamento che proibisce la distruzione volontaria della vita umana; infatti ogni guerra – non escluse quelle dell’an-
tichità – hanno sempre prodotto numerosi morti ed ingenti distruzioni. Ma le guerre moderne, a confronto delle quali le antiche sembrano battaglie condotte da soldatini di cartapesta, sono orribili carneficine ed esecrabili eccidi. E questo paragone, fra le guerre di un tempo e quelle di oggi, permette di capire come un certo tipo di guerra sia stata giustificata in passato anche nella cultura cristiana. Da S. Agostino in poi è stata teorizzata la dottrina della guerra giusta anche per motivi religiosi; l’hanno giustificata gli stati assolutisti in nome della potenza e del dominio, o in nome dell’ideologia espansionistica. Ma da Leone XIII i papi hanno sempre preso posizione contro la guerra con maggior vigore, fino a definirla immorale. Qualcuno obbietterà: non vi è forse la guerra di legittima difesa? Sì, è vero, uno Stato attaccato deve difendersi, ma anche la teoria della legittima difesa, che pure ha il suo fondamento morale, di fronte ad una guerra moderna diventa difficilmente sostenibile, perché non è possibile valutare oggettivamente le condizioni che rendono lecita una guerra di difesa dentro una guerra moderna che viene combattuta con le armi atomiche ed elettroniche. Non è possibile, neppure, valutare in anticipo le reazioni degli Stati direttamente o indirettamente interessati al conflitto. Tutti sanno quando la guerra ha inizio, nessuno sa quando avrà fine, né mai nessuno potrà fare una stima preventiva dei danni e delle morti che provoca una guerra moderna. Comunque, prima di armarsi per difendersi, un popolo deve far tutto il possibile per tutelare i propri diritti attraverso azioni diplomatiche, aiutato dagli organismi internazionali. Solo se queste azioni dovessero fallire, i pubblici poteri possono imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa nazionale. Chi scende in armi per difendere la propria patria è chiamato – dal documento “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II – servitore della sicurezza e della libertà del popolo. Tutto questo però non esime la Chiesa e la società civile a prendere in debita considerazione gli obiettori di coscienza al servizio militare, perorando per essi un servizio alternativo che, comunque, dev’essere apprestato come un dovere alla Comunità. Ritornando alla guerra dobbiamo ricordare che, scoppiato disgraziatamente un conflitto, ciò non rende lecita qualsiasi barbarie tra le parti. Le azioni manifestamente contrarie ai diritti delle genti ed ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono dei crimini e non basta un’obbedienza cieca a scusare coloro che si sottomettono. Se-
condo la morale cattolica si è obbligati a far resistenza agli ordini superiori quando – per esempio – comandano un genocidio. Tutti noi sappiamo che a dettare questo principio sono stati gli efferati e macabri crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. Recenti processi hanno ricordato che il codice di guerra non è una fonte suprema di diritto, né la gerarchia militare o i capi politici possono essere loro stessi fonti di diritto e di etica. Gli ordini militari non possono conculcare il diritto dei popoli, né contraddire le convenzioni ed il diritto internazionale. I criminali di guerra che hanno comandato azioni di sterminio e di genocidio – o anche brutali azioni contro inermi civili – e coloro che le hanno eseguite devono essere giudicati e condannati da un tribunale internazionale alle dipendenze dell’ONU. Un precedente, in questo senso, lo si ha nei tribunali di Norimberga e di Tokyo istituiti alla fine del secondo conflitto mondiale. Evidentemente non ci sarà mai la pace ed esisterà sempre lo stimolo alla guerra finché si continuerà ad accumulare armi ed a commercializzare la loro produzione. Nei confronti di coloro che credono che l’accumulo di armi sia un deterrente contro un’eventuale guerra di aggressione, e perciò un valido mezzo per conservare la pace sebbene armata, il “Catechismo della Chiesa Cattolica” solleva severe riserve morali. La corsa agli armamenti – dichiara – non assicura la pace e lungi dall’eliminare le cause di guerra, arrischia di aggravarle. E lo stesso “Catechismo” si preoccupa giustamente della destinazione impropria di una rilevante parte delle risorse per gli armamenti, distogliendole dai progetti originari per creare pace, benessere e prosperità. Il suo monito suona: “armarsi ad oltranza moltiplica le cause dei conflitti e aumenta il rischio del loro propagarsi. Questo vale soprattutto per i paesi in via di sviluppo senza una fondata tradizione democratica”. Circa la produzione e la commercializzazione delle armi, avverte che esse toccano il bene comune delle nazioni e della Comunità internazionale; le autorità pubbliche hanno pertanto il diritto ed il dovere di regolamentarle e condanna quegli interessi pubblici e privati a breve termine che vogliono legittimare imprese che fomentano la violenza ed i conflitti tra le nazioni e che compromettono l’ordine giuridico internazionale.
Messaggio tematico Non si uccide solo ammazzando
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Permettetemi un’affermazione categorica: uccide non solo chi ammazza, ma anche chi non permette di vivere pienamente. Forse il problema fondamentale della nostra società mondiale oggi potrebbe essere espresso con questo interrogativo: la nostra economia tende seriamente a favorire la possibilità di vita di tutti gli uomini oppure è comandata dalle attività delle nazioni ricche che vivono a spese dei popoli poveri e riducono sistematicamente la loro possibilità di vita mediante “l’ordinamento economico mondiale”? Se quest’ultima ipotesi fosse vera, noi saremmo – nella
prospettiva dei profeti – degli assassini. Tale dura parola non è mitigabile; anzi, sarebbe seriamente auspicabile che la nostra Chiesa ritornasse – ove necessario – alla forza del linguaggio profetico; essa parla un linguaggio troppo addomesticato che non scuote, né incita. “Tutto ciò che sottrae all’altro la possibilità di esistenza è, in fondo, equivalente a un’uccisione, anche se ciò viene fatto senza cattive intenzioni, senza pensarci, ma in realtà in maniera pregiudizievole per l’altro” così Lochman. Facciamo un esempio: il nostro consumo di carne aumenta continuamente, per allevare il bestiame dobbiamo importare molti mangimi. L’organizzazione per la protezione dell’infanzia “Terre des hommes” illustra quanto pregiudizievole sia questo comportamento per la vita di altri popoli. Aurer, basandosi su statistiche di qualche anno fa, dichiara: “non possiamo più accet-
tare che un miliardo di uomini sia sottoalimentato e che il 20%-25% dei bambini muoia prima dei cinque anni. Non possiamo più rassegnarci che da noi vi sia un letto d’ospedale per cento abitanti ed in Etiopia uno ogni trentamila e che da noi vi sia un medico ogni cinquecento abitanti e là uno ogni sessantaduemila”. Nello spirito del quinto comandamento dobbiamo riconoscere che l’umanità è un tutt’uno e che i beni di questo mondo appartengono a tutti. Tuttavia, per una giusta valutazione di questo problema, dobbiamo considerare che non esiste solo il contrasto tra società industriali ricche e paesi poveri in via di sviluppo; esiste anche il fatto che quasi tutti i paesi sottosviluppati sono anche oppressi da una piccola classe dominante. Ciò non costituisce certo una scusante per noi, tuttavia è un fattore che va tenuto presente. Ricorrendo a un linguaggio sferzante (assassini) si corre il rischio di ingenerare un senso di colpa senza indicare – nello stesso tempo – soluzioni possibili; ciò può avere un effetto frustrante e paralizzante su tante coscienze oneste. La riduzione della possibilità di vita non si riscontra solo nel rapporto tra primo e terzo mondo, ma anche nella nostra società che reagisce con sufficiente attenzione a diverse forme di indigenza con una vasta politica sociale; anche da noi esiste una concorrenza spietata che oggi si fa strada già nella scuola e produce infine dei gruppi di emarginati e questi gruppi stanno ingrossandosi anche nella ricca Svizzera. Il quinto comandamento non proibisce solo l’uccisione vera e propria, ma anche le forme mascherate di uccisione. In ciò rientra, per esempio, la distruzione della buona fama di un individuo (calunnia grave), o anche quella critica pungente che lo rende insicuro di sé. Anche il nostro linguaggio quotidiano tradisce certe espressioni assassine che adoperiamo nei rapporti con gli altri; per esempio, per me tu non sei nulla, per me tu sei come morto, tu per me non esisti. Tutte frasi che stanno ad indicare che nell’intimo di noi stessi è già avvenuto un assassinio contro il prossimo. Da dove proviene un atteggiamento così aggressivo? A mio modesto avviso, proviene da uno dei peccati più odiosi, l’invidia, cioè del non voler che risplenda il sole sulla vita di un altro uomo. Ed anche l’invidia, perciò, è un vero peccato contro la vita. Vi è un’espressione popolare che dice “verdi come l’invidia”; verdi, ossia il colore che contrasta con quello di una guancia sana.
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Messaggio tematico Adulterio come idolatria!
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Sembra che oggi ci voglia del coraggio a parlare del sesto comandamento, almeno nella sua accezione originale che dice: “Non commettere adulterio”, perché sull’adulterio, ai giorni nostri, si è molto – forse troppo – comprensivi. Ma perché esiste questo comandamento? Solo perché in Israele la famiglia era considerata una cosa preziosa? Solo per salvaguardare l’unione coniugale da sbandamenti e tradimenti? Purtroppo non per questi motivi: se andiamo a leggere il senso originale di questo comandamento, noi uomini del terzo millennio, dovremmo restare sconcertati. Infatti, la ragione primigenia per la quale nella Bibbia si condanna l’adulterio, è perché lo considera un attentato contro la proprietà privata, qual era la donna per il marito. Ne derivava, logicamente, che il rapporto sessuale di un uomo sposato con una donna libera non costituiva adulterio, mentre lo era ogni unione carnale con una donna sposata. Quindi, non perché si offendeva la propria moglie, ma perché si offendeva il marito della donna con cui ci si univa. Un’evidente disparità tra maschi e femmine causata dalla disuguaglianza della loro condizione giuridica e sociale. L’adulterio, dunque, non veniva inteso come una rottura colpevole dei rapporti interpersonali dei due partner del matrimonio, bensì quale negazione del diritto di proprietà del marito. Se dico queste cose non è per addolcire il comando del sesto comandamento che è molto preciso con quelle parole inequivocabile: “non commettere”. Ma semplicemente perché dobbiamo approfondire il significato di questo precetto al di là del legalismo ebraico. E per far questo, forse, è meglio tradurre il comando in positivo; invece della formula “non commettere” usare l’esortazione “salvare il matrimonio” che, in fondo, è lo scopo di questo precetto. Per dar senso a quest’opera di vera salvezza matrimoniale, credo sia bene rifare la storia del matrimonio come ce la presenta la Bibbia. Già nel libro della Genesi si parla della prima coppia umana; ed anche se quel racconto della creazione di Eva da Adamo non va inteso come racconto storico ma mitologico, esso è ricco di profondi significati. Eva nasce da una costola di Adamo, cosa che suscita normalmente ilarità e barzellette, ma forse non si conosce il profondo significato di questo particolare. Per gli orientali, ciò che nasceva dal capo dell’uomo era
superiore all’uomo, ciò che nasceva dai piedi dell’uomo era inferiore all’uomo, e ciò che nasceva dal centro dell’uomo era uguale all’uomo; la costola, che protegge il cuore, sta proprio al centro dell’essere umano. Ecco perché Adamo, che pur aveva passato in rassegna tutti gli animali per cercare un aiuto simile a lui quando, svegliato dalla dormia, vede Eva, esclama gioioso: “Questa sì è ossa delle mie ossa, è carne della mia carne perciò sarà chiamata “uoma” perché dall’uomo fu tratta”. E lo scrittore aggiunse: “L’uomo lascerà il padre e la madre, si unirà alla sua “uoma” e i due saranno una carne sola”. Quest’unità viene cantata nella Bibbia in un libro meraviglioso, purtroppo poco conosciuto, il “Cantico dei Cantici”. Il nucleo originale di questo libro risale all’epoca dei primi re; con un’ingenuità, e con un meraviglioso ed appassionato linguaggio, l’autore ignoto canta lo splendido amore di due giovani. Per quale motivo questo libro, che possiamo definire erotico, fu accolto tra i libri sacri? Forse perché descrive l’amore come una realtà umana e non come una specie di torbida promiscuità. Inoltre, quel libro è poi diventato un testo privilegiato per comprendere il rapporto che esiste fra Dio e l’uomo. Dio è lo sposo, l’umanità è la sposa; il rapporto fra i due dev’essere perciò un rapporto sponsale, fondato unicamente sull’amore. Perciò dall’insegnamento sull’amore che emana dal “Cantico dei Cantici”, completato con le grandi pagine sull’amore sponsale che troviamo nel Vangelo, nelle lettere di S. Paolo e di S. Pietro, possiamo dedurre che un giovane ed una giovane che veramente si amano, testimoniano alcune cose importanti: prima di tutto che esiste ancora l’amore sulla terra, in secondo luogo – per chi ha fede – che esiste ancora Dio, perché – per noi cristiani – “Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in Lui”. Ecco perché nelle dieci Grandi Parole vi è il comandamento che dice: “Non commettere adulterio”, Questo precetto – alla luce di questa duplice testimonianza – potrebbe essere tradotto anche così: “Non commettere idolatria, non prostituirti verso divinità straniere, ma ama, rispetta, servi ed onora quell’unico Dio che ha il suo più alto rappresentante nell’uomo e nella donna”. Quindi l’amore sponsale è parabola dell’amore divino e tutto quello che è odio, rancore, cattiverie e disprezzo, è una forma d’adulterio perché va contro l’uomo (o la donna) che sono immagine del divino.
Via dal nucleare: una scelta per sempre? Messaggio ???
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Lo scorso 25 maggio 2011 il Consiglio federale, a stretta maggioranza, ha deciso di proporre l’abbandono progressivo dell’energia nucleare, che dovrà essere completo entro il 2034, quando chiuderà la centrale di Leibstadt (AG). In Svizzera sono attualmente attivi 5 reattori nucleari che assicurano il 39,5% della produzione energetica. A titolo di paragone negli Stati Uniti ve ne sono 104 (20,2% della produzione), in Francia 58 (75,2%), in Giappone 55 (28,9%) e in Russia 32 (16,9%). Nel mondo vi sono 65 nuovi reattori in costruzione, di cui 27 in Cina e 11 in Russia. La decisione del Consiglio federale, se sarà confermata dalle Camere, costituirà una storica correzione di rotta rispetto alla tradizionale politica energetica svizzera, molto legata al nucleare. Questo stravolgimento “filosofico” cade 8 anni dopo il voto del 18 maggio 2003 con cui il popolo e Cantoni avevano confermato il loro sostegno all’atomo, respingendo nettamente due iniziative anti-nucleare. Ancora più recentemente, il 14 febbraio 2011, i cittadini
unita alla notevolissima pressione esercitata dall’opinione pubblica, ha profondamente influenzato l’approccio di molti Stati nei confronti dell’energia nucleare. In Svizzera l’abbandono del nucleare presenta non poche incognite perché pone l’intera società di fronte a sfide colossali, sia in termini di investimenti nelle energie rinnovabili, sia in termini di riduzione dei consumi. Presumibilmente si assisterà pure a un aumento dei costi dell’energia. Non sarà facile tenere fede a questi propositi, soprattutto quando il ricordo degli scenari apocalittici di Fukushima si sarà sbiadito; come già accaduto con Chernobyl. Un no definitivo all’atomo potrebbe inoltre precludere nuove conquiste per l’umanità. La ricerca scientifica sta attualmente lavorando su un procedimento tecnico – la fusione nucleare – che permetterebbe di evitare i rischi attualmente legati all’esercizio delle centrali nucleari. Per un cristiano, il tema dell’energia nucleare pone gravosi interrogativi legati alle responsabilità dell’uomo di fronte al Creato. A tale proposito mi sembrano particolarmente significative le parole pronunciate in un convegno su questo tema dal vescovo di Trieste mons. Giampaolo Crepaldi: “la Dottrina sociale della Chiesa né assolutizza la scelta per l’energia nucleare, sposandola sempre e comunque, né la condanna irrimediabilmente come sbagliata. Piuttosto essa la inserisce nella comune responsabilità dell’umanità a costruire il proprio progresso futuro, nel rispetto […] dei diritti degli uomini, compresi i poveri di oggi e di domani e le generazioni future”.
del Canton Berna, contro il parere del Consiglio di Stato, avevano accettato in votazione consultiva la costruzione di una nuova centrale nucleare a Mühleberg. Poi è arrivato l’11 marzo 2011, il terrificante terremoto in Giappone e gli ingenti danni alla centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. La gravità spaventosa di questi eccezionali eventi,
Per questo motivo sono del parere che, tra qualche anno, occorrerà verificare con serenità la scelta (anti)nucleare, al fine di valutare se essa risponda realmente e adeguatamente al bene comune. Senza dogmi, né preconcetti. Maurizio Agustoni
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La vita di Maria
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I lavori di restauro alla volta della basilica del nostro Santuario sono oramai conclusi da alcuni mesi. Grazie all’accurato intervento dei periti l’interno della chiesa, dedicata a Santa Maria Assunta, ha riacquistato buona parte del suo splendore originale. La pulizia degli affreschi, degli stucchi e delle decorazioni di fondo che ornano la volta della chiesa le hanno ridato fresca luminosità. Dal chiaro fondo del soffitto emergono ora con maggior evidenza anche i delicati affreschi che ornano la nave seicentesca. Essi sono opera della rinomata bottega bellinzonese dei Gorla. Lungo l’apice della volta ci sono degli affreschi con gruppi diversi di angeli, mentre sui lati della volta si possono ammirare otto medaglioni affrescati, raffiguranti altrettante scene della vita della Beata Vergine Maria. Per leggere questi affreschi in ordine cronologico, il visitatore, una volta entrato nella basilica dalla porta principale, deve dapprima raggiungere l’altezza del quarto arco laterale. Volgendo lo sguardo a destra e guardando in alto vede il primo dei quattro medaglioni che ornano questo lato della volta. Gli altri quattro sono invece disposti dirimpetto. Partendo da questo punto si può iniziare ad ammirare e a leggere ordinatamente il ciclo pittorico che descrive otto eventi della vita di Maria, seguendo il senso orario.
Vale la pena far notare come i primi quattro medaglioni, che si ammirano camminando dal centro della chiesa verso il portone d’entrata, raffigurino scene della vita della Beata Vergine Maria legate ai suoi genitori, alla sua nascita e alla sua giovinezza, delle quali non abbiamo testimonianze nella Bibbia. Per parlarne dovremo quindi fare ricorso alla letteratura apocrifa. Mentre le altre quattro scene che si contemplano procedendo dal fondo della chiesa verso l’altare maggiore sono tutte strettamente connesse con la vita, oltre che di Maria, anche di Gesù e hanno uno o più chiari testi di riferimento nel Nuovo Testamento.
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Veniamo quindi al primo medaglione. Vi è raffigurato il cosiddetto “Incontro alla Porta d’Oro”. Di che cosa si tratta? Per spiegarlo è necessario fare riferimento ad un testo apocrifo, il Protovangelo di Giacomo (II Secolo)1. Questo scritto contiene degli ampliamenti dei fatti narrati nei Vangeli di Luca e di Matteo concernenti l’infanzia di Gesù. In modo particolare il Protovangelo di Giacomo riporta dei racconti inerenti la vita di Gioacchino e Anna, i genitori della B.V. Maria. Gioacchino e Anna non hanno figli. Entrambi soffrono per la sterilità del loro matrimonio e pregano Iddio di dare loro una discendenza. Gioacchino si ritira nel deserto e digiuna per ottenere la grazia da Dio. Finalmente Dio esaudisce le preghiere di Anna e Gioacchino. «Ed ecco che l’angelo del Signore le si presentò innanzi e disse:
Messaggio dal Santuario “Anna, Anna! Il Signore Iddio ha esaudito la tua preghiera. Concepirai e darai alla luce; della tua prole si parlerà in tutta la terra!”. Anna rispose: “Viva il Signore Iddio! Dovessi partorire un maschio o una femmina, ne farò dono al Signore mio Dio e starà al servizio tutti i giorni della sua vita!”. In quel momento giunsero due messaggeri e dissero: “Gioacchino, il tuo marito, arriva con il suo gregge”. Un angelo del Signore difatti gli era andato incontro, dicendo: “Gioacchino, Gioacchino! Il Signore Iddio ha esaudito la tua preghiera; scendi di qua, ché tua moglie, Anna, ha concepito nel suo seno”. Gioacchino venne giù, chiamò i pastori, dicendo: “Portatemi qui dieci agnelli senza macchia e senza difetto, perché questi dieci agnelli sono per il Signore. Portatemi anche dodici vitelli teneri e questi dodici vitelli sono destinati ai sacerdoti e al consiglio degli anziani; e cento capretti destinati, questi, a tutto il popolo”. Ed ecco giungere Gioacchino con le sue greggi. Anna stava davanti alla porta e vide Gioacchino arrivare con le sue greggi. Anna subito corse e gli si appese al collo, dicendo: “Ora so che il Signore Iddio mi ha grandemente benedetta. Ecco, infatti, che la vedova non è più vedova ed io, la sterile, ho ora concepito nel ventre!”». (IV) È interessante notare come il dipinto di questo primo medaglione presenti diversi dettagli contenuti nel brano del Protovangelo di Giacomo. La Chiesa di rito latino festeggia solennemente l’8 dicembre l’immacolata concezione della B.V. Maria; il calendario liturgico bizantino prevede il 9 dicembre il ricordo della concezione di sant’Anna, madre della Madre di Dio.
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Il secondo medaglione. è dedicato alla natività di Maria. Il principale testo di riferimento per questo episodio della vita della Madonna resta il Protovangelo di Giacomo. In esso vi si legge: «E si compirono per Anna circa sei mesi e, nel settimo mese, ella partorì. Ed Anna chiese alla levatrice: “Che ho messo al mondo?”. Rispose la levatrice: “Una femmina!”. Anna rispose: “È stata magnificata l’anima mia in questo giorno!” (cf. Lc 1, 46). E la pose a giacere. E, compiuti i giorni, Anna si purificò, e diede il seno alla bambina, e le dette nome Maria.» (V) Nelle Chiese di rito latino e bizantino questo avvenimento viene festeggiato l’8 settembre.
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Il terzo medaglione. Se per descrivere i primi due medaglioni abbiamo potuto fare riferimento al Protovangelo di Giacomo per il terzo affresco, dedicato alla presentazione al tempio della Madonna, non possiamo più seguire alla lettera questo testo. Secondo questo autore, Maria sarebbe infatti stata presentata già all’età di tre anni, mentre il dipinto della nostra chiesa mostra una giovane più grande. Nelle Chiese di rito latino e bizantino questo episodio viene ricordato liturgicamente il 21 novembre. La Liturgia delle Ore secondo il rito romano presenta così la memoria:
«In questo giorno della dedicazione (543) della chiesa di S. Maria Nuova, costruita presso il tempio di Gerusalemme, celebriamo insieme ai cristiani d’Oriente quella “dedicazione” che Maria fece a Dio di se stessa fin dall’infanzia, mossa dallo Spirito Santo, della cui grazia era stata ricolma nella sua immacolata concezione.»
Messaggio dal Santuario
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Il quarto medaglione. L’ultimo dei quattro episodi della vita della B.V. Maria raffigurati sul lato destro della nostra chiesa è il suo sposalizio con san Giuseppe. Anche per questo avvenimento potremmo fare riferimento al protovangelo di Giacomo. Lasciamo però che sia il padre Gregorio Nisseno (+329) a commentare l’episodio. «Essendo la bambina (Maria) cresciuta e non avendo più bisogno di essere allattata, si affrettarono a portarla al tempio per offrirla a Dio e adempiere le promesse fatte. I sacerdoti dapprima educarono la bambina nel santuario, allo stesso modo in cui era stato educato Samuele (1Sam, 24ss.); poi quando divenne adolescente, tennero consiglio per decidere che cosa fare di quel corpo santo senza offendere il Signore. Sottoporla alla normale legge della natura e darla in sposa a qualcuno, sembrò un’assurdità. Pensarono che sarebbe stata cosa sacrilega che un uomo diventasse padrone di ciò che era stato consacrato al Signore. Era infatti conforme alla legge che un uomo diventasse padrone della propria sposa.
D’altra parte la legge non permetteva che una donna dimorasse nel tempio insieme ai sacerdoti e si facesse vedere all’interno del santuario; cosa contraria del resto anche all’onestà e alla dignità della legge. Avendo discusso questi problemi, presero la decisione davvero ispirata di affidarla, sotto sembianze di un matrimonio, ad un uomo che avrebbe offerto tutte le garanzie di custodirne la verginità. Si trovò in Giuseppe l’uomo adatto a quella situazione. Inoltre egli era della stessa tribù e famiglia della Vergine. Seguendo il consiglio dei sacerdoti, Giuseppe sposò la fanciulla. Ma il rapporto matrimoniale rimase escluso da quelle nozze.» (In nativitate Domini; PG 46, 1140 A-B) Questo episodio non viene ricordato in modo normativo né dal calendario liturgico bizantino né da quello latino. (Continua)
Le citazioni sono tratte da: Testi mariani del primo millennio, a cura di Georges Gharib, Ermanno M. Toniolo, Luigi Gambero, Gerardo Di Nola, Città Nuova Editrice, Roma 1988. 1
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Francescanesimo secolare La povertà francescana
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Riporto su queste pagine del Messaggero gli interventi preparati per il corso di formazione che ho dettato ai Fratelli e Sorelle dell’Ordine Francescano della Svizzera Italiana. A chi è stato presente potranno servire come ripasso; a chi non ha potuto partecipare, come completamento della sua formazione francescana; a chi non conosce il francescanesimo come introduzione a quelli
che sono i capisaldi della spiritualità del Santo di Assisi. In merito alla povertà, la trattazione di uno dei punti forti della spiritualità francescana, inizia con una domanda: da dove Francesco ha imparato ad amare la povertà? Innanzitutto dalla Parola di Dio, letta sia nel Vecchio come nel Nuovo Testamento. Nel Vecchio: Dio era il “Difensore” dei poveri”. I profeti si scagliarono contro chi maltrattava i poveri, specialmente Amos ed Isaia. Vi erano leggi per salvaguardare la fame del povero: durante la spigolatura, o la vendemmia, era proibito ritornare nel campo e nel vigneto per raccogliere ciò che era stato dimenticato, spighe ed acini, perché appartenevano di diritto al povero. Si parla di un “Resto d’Israele”, formato da quei poveri più di spirito che di sostanza che attendevano il Messia. All’inizio del Nuovo Testamento continua il “Resto d’Israele”, è personificato in due anziani, Simeone ed Anna, che ravvisano nel povero Bambino di Betlemme il promesso liberatore. Sempre dal Nuovo Testamento Francesco imparò ed espresse il suo amore alla povertà nella devozione all’umanità di Cristo, sia Bambino come Crocefisso, che nel suo discorso programmatico proclamò quale prima beatitudine: “Beati i poveri nello spirito”. Da dove Francesco aveva imparato ad amare i poveri?
Innanzitutto dagli usi e costumi della sua società, specie della sua famiglia. Nel Medio Evo cristiano, specie italiano, il povero era rispettato. Nella stalla accanto al palazzo aveva il suo posto assicurato. Non gli veniva mai negato il cibo. L’elemosina era forma penitenziale, quindi doveva essere abbondante. Ma la domanda più importante è la seguente: perché Francesco fece una scelta così radicale, quella di vivere in assoluta povertà? Per vivere il Vangelo sine glossa (senza commento) ed imitare così Cristo che da ricco (Figlio di Dio) per noi si fece povero (Figlio dell’uomo). Per testimoniare e insegnare il valore della povertà anche alla gerarchia: chi non ricorda la parabola della donna cacciata da corte che rimanda i suoi figli al Re suo sposo, quando si trovò in assoluta povertà? Quella donna, che la corte giudicava una prostituta, per Francesco era la povertà che manda alla Chiesa i suoi figli (i frati) finché vengano sostentati. Francesco inoltre non aveva nessuna propensione per i ricchi ordini monastici. Dopo essere uscito di casa sembra che abbia dimorato per qualche settimana presso l’abbazia dei benedettini di Subiaco che avevano una casa e chiesa in Assisi (S. Pietro), ma lì lasciò perché non corrispondevano alla sua aspirazione alla povertà. Anche la sua avversione alle crociate era dettata, non solo dal suo spirito non violento, ma perché riteneva che quelle guerre fossero fatte per arricchirsi e controllare le vie commerciali, più che liberare i luoghi santi. Sull’esempio del santo d’Assisi come oggi possiamo alimentare la nostra vocazione alla povertà ed il nostro amore per i poveri? Innanzitutto rendendoci persuasi che povertà è elemento fondamentale del cristianesimo. Ce lo ha detto Gesù con quella frase che facilmente dimentichiamo perché ci da fastidio: “Non si può servire a due padroni. O amerai uno e l’odierai l’altro … Non si può servire a Dio e al denaro”. E l’altra frase: “Dove è il tuo tesoro ivi è il tuo cuore”. In modo ancora più chiaro dopo il colloquio con il giovane ricco: “Quanto è difficile per un ricco entrare nel Regno dei cieli…”. Impegnamoci a leggere i segni dei tempi Le migliaia di poveri che ogni giorno muoiono di fame sono un chiaro segno di condanna alla nostra opulenza. Ma dobbiamo anche coltivare il rispetto e aiuto ai poveri non economici: vi sono delle povertà che non dipendono dalla propria agiatezza, ma dalla tristezza che è nel cuore (povertà affettiva), dalla solitudine (povertà di relazioni), dalla ignoranza (povertà di scienza).
Messaggio dall’O.F.S. Fra tutti i poveri, oggi, un ceto particolarmente esposto è quello degli stranieri che a frotte giungono da noi; accogliamoli, nel limite delle nostre possibilità, ma soprattutto combattiamo leggi e atteggiamenti razzisti. Dobbiamo inoltre essere voce profetica nella Chiesa che il Concilio Vaticano II ha dichiarato essere la “Chiesa dei poveri”. Cosa vogliono dire queste parole? Essere “Chiesa dei poveri” vuol dire, innanzitutto, dare spazio ai poveri nelle proprie strutture, ascoltare la loro voce, adattare le proprie manifestazioni a spirito di povertà e non di opulenza, togliere molti orpelli oggi incomprensibili, diminuire il culto esagerato per le persone che non dovrebbero atteggiarsi ad autorità ma che, nella “Chiesa dei poveri”, dovrebbero essere servitori, come Lui che ci ha insegnato a lavare i piedi ai fratelli. Questa spiritualità francescana, intimamente unita all’umiltà, è un modo di vivere il vangelo come San Francesco ha insegnato. Sarebbe bello se molti cristiani conoscessero meglio questo stile di vita e lo abbracciassero. Forse aumenterebbe il numero di coloro che si sentirebbero attratti ad entrare in questa scuola spirituale costituita dal Terzo Ordine Francescano, famiglia religiosa aperta a tutti, laici, sacerdoti, sposati e persone sole.
Ritiro di Quaresima
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Dal 25 al 27 marzo 2011 eccoci di nuovo al convento di Bigorio, con padre Mario Bongio, con fratelli e sorelle fedeli all’appuntamento del tempo di Quaresima. Lo scorso anno padre Mario ci aveva fatto riflettere sulle Beatitudini. Gli era poi stato chiesto di proporre come tema quest’anno il Padre Nostro, ma lui ha ampliato il tema e lo ha sapientemente trasformato in “Essere preghiera – essere cristiani – essere francescani.” La lezione Dobbiamo riflettere su tre aspetti: il contesto, il testo, la conclusione. Il contesto Abbiamo due versioni diverse del Padre nostro: nel Vangelo di Matteo e nel Vangelo di Luca. Nel testo di Matteo, si trova al centro del discorso della Montagna e se ne respira l’aria. Sono testi che vanno letti e riletti e lì si fonda la nostra fede. Per Matteo Gesù insegna, Egli è il maestro, il legislatore.
Gesù insegna a pregare dopo aver insegnato cosa fare (le beatitudini). Nel Vangelo di Luca (11, 1-3) il contesto è diverso. Per Luca, Gesù è il modello da seguire. Il tema è “incandescente” e va preso con calma e con umiltà. Anche gli altri evangelisti ci aiutano a comprendere la preghiera e l’atteggiamento giusto. Nel Vangelo di Marco (2, 13-19) Gesù salì sulla montagna… (solitudine, isolamento, luogo dell’incontro); nel Vangelo di Giovanni (17, 1-26) la preghiera di Gesù nell’ultima cena). Tutti i Vangeli parlano del Padre (Matteo 26, 39; Marco 14, 36; Luca 22, 42-44). Prendiamo coscienza della nostra condizione umana e miserevole (Luca 23, 45: Gesù sulla croce: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”). L’invocazione viene da sé e nel particolare momento diventa un grido, un urlo. La preghiera diventa la vita, concretamente. Questi testi ci aiutano a capire la “cornice”, la fase preparatoria che ci orienta verso il mistero della preghiera. Il testo nella versione di Matteo Nella versione di Matteo, il Padre nostro diventa la sintesi di tutto il Vangelo. Il Padre nostro non è una preghiera, è il compendio di tutti i contenuti del Vangelo. Il Padre nostro si trova al centro delle opere del Dio israelita e del Dio cristiano (elemosina – preghiera – digiuno). Quindi prima la carità (la concretezza) poi la preghiera, infine il digiuno (sobrietà, ecc.) Cioè prima la pratica poi la teoria, prima si opera e poi si capisce il perché. La preghiera è al centro; “guardatevi bene dal fare le vostre opere davanti agli uomini” vuol dire di fare prima le cose davanti a Dio, e questo vale per tutte e tre le opere. Dio ci darà la ricompensa giusta e questa sarà che Lui ci riconoscerà come suoi figli.
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La preghiera e la vita cristiana va vissuta con timore e con tremore. Matteo dice “quando pregate non fate come gli ipocriti…” (cioè non fate come fa il mondo, non fatelo con molte parole) ma entra nella tua camera e fallo nel segreto”, (cioè quando preghi entra nella stanza più segreta della tua vita, cioè nel tuo cuore, dove stanno i problemi, le preoccupazioni, perché è là che si scatena la lotta, che si gioca la vita). La preghiera del cuore diventa la preghiera della vita. Per Luca valgono le stesse cose, ma lui si pone dalla parte dei discepoli (Cap. 11) “Signore insegnaci a pregare”. E’ sempre preghiera, ma con altre parole. Fa una cosa decisiva, prende i suoi discepoli, li accompagna dentro il mistero della preghiera, dentro il mistero del suo cuore di Figlio nei confronti del Padre. Anche noi quindi lo preghiamo lasciandoci accompagnare dentro il grande mistero della vita, il mistero del cuore dell’uomo. Se con calma, con timore e tremore ci lasciamo prendere dalla mano di Gesù, stiamo in ascolto e in silenzio, abbiamo trovato l’atteggiamento giusto. Il nostro Dio ha un nome. Ogni volta che noi pronunciamo questo nome, Egli ci ascolta e risponde. Il nostro Dio ha un volto, è il volto di Gesù (“chi vede me vede il Padre”) ed è il volto di ogni fratello e sorella (“Dio li creò a sua immagine e somiglianza”). Il nostro Dio ha una Parola, è un Dio che parla. Quando leggiamo il Vangelo ascoltiamo la “Parola di Dio”. Noi rispondiamo “amen”. Se non Lo sentiamo, è perché non abbiamo ascoltato nella maniera giusta. Il nostro Dio ha un corpo. E’ quello di Gesù e lo troviamo nella Eucaristia e nella carne dell’uomo crocifisso, il povero. Il nostro Dio ha una storia, un percorso, un passato, un presente, un futuro. Dobbiamo riappropriarci del tempo, dare significato alla storia, guardare dove siamo orientati. Il testo nella versione di Luca Qui colpisce subito la figura di Gesù. Egli pregava e ne usciva trasfigurato, suscitando lo stupore dei suoi discepoli e le loro domande. Gesù era maestro e insegnava con le parole, ma soprattutto con l’esempio. Ha detto tante cose, ma soprattutto le ha vissute. Anche per la preghiera come per la vita è una scuola, niente si improvvisa, viene richiesto del tempo. Si deve imparare, fare allenamento, applicarsi. Bisogna trovare il tempo. Il rosario, la Via Crucis, sono preghiere tipicamente francescane. San Francesco ha composto l’Ufficio della Passione, il suo libro di preghiere era il Crocifisso. E’ una scuola quotidiana la preghiera di Lodi, Vespri,
Compieta, oltre le preghiere del mattino e della sera. Luca ha scritto il Vangelo della preghiera di Gesù. Ogni situazione della sua vita è colta mentre Gesù pregava. Mentre pregava Gesù viene battezzato, passa una notte in preghiera sul monte e poi sceglie i dodici apostoli, sul Tabor mentre pregava apparve come trasfigurato, nel Getsemani prega, lotta, agonizza, sulla croce Gesù prega, mentre ascende al cielo prega. Le domande E noi? Che cosa vuol dire per noi pregare? Quando lo facciamo e come lo facciamo? Quante debolezze sono saltate fuori, ognuna con un tentativo di soluzione. Vediamole insieme: – Non trovo mai il tempo per pregare (non bisogna “trovare” il tempo per pregare, ma dare del tempo alla preghiera). – A pregare mi stanco in fretta (la preghiera ha un suo ritmo, bisogna trovare un ritmo personale nella nostra vita disordinata). – Non mi sento, non ne ho voglia (è capitato anche ai santi, la preghiera è anche sforzo di volontà). – Facilmente mi distraggo (fallo lo stesso, non prendere questa scusa e se la distrazione è causata da preoccupazioni, fanne l’oggetto della tua preghiera). – Mi sembra inutile, ho pregato tanto, ma Dio non mi ha ascoltato (mettiamoci dalla parte di Gesù nell’orto degli ulivi. La croce segna la vita di tutti. “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” Questa è la grande preghiera di Gesù. Se qualche volte sembra che Dio non ci ascolta, è perché vuole provare la nostra fede. Qui si impone il silenzio. Gesù prende per mano i suoi discepoli e li conduce dentro il mistero del cuore di Dio). Le risposte del Vangelo Che cosa è la preghiera? E’ il mistero stesso del cuore di Dio, evidentemente più grande di noi e indispensabile per noi. Ci si accosta con umiltà, nel silenzio, nell’ascolto, nell’ubbidienza. Quanto pregare ? La preghiera non è un lusso, fa parte della sostanza della vita (Luca 18, parabola della vedova importuna). Bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai, con assiduità, perseveranza, sempre uniti a Dio. Come pregare? Non pregare come fanno i pagani o gli ipocriti, accumulando parole. La preghiera è del cuore e dal cuore. Cosa dire nella preghiera? Lo Spirito ci viene in aiuto e ci fa gridare “Abba, Padre” (S. Paolo ai Galati e ai Romani). A chi rivolgerci nella preghiera? La nostra preghiera sia
Messaggio dall’O.F.S. quella dei figli che stanno in piedi davanti al Padre, sempre al Padre. Cosa domandare nella preghiera? Gesù ci mette in guardia: “Cercate il Regno di Dio, tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Dobbiamo domandare le grandi cose, i grandi doni: chiediamo a Dio lo Spirito Santo, chiediamo che il nome di Dio sia santificato, cioè riconosciuto come santo da tutti, che la sua volontà si compia sulla terra come ora è compiuta nei cieli. Chiediamo il pane per ogni giorno e che tutti finalmente ne abbiano. Chiediamo che vengano perdonati i nostri peccati affinché noi perdoniamo finalmente i nostri fratelli. Abbiamo bisogno di giustizia, di verità, ma soprattutto di perdono. Chiediamo che siamo liberati dal maligno e dal suo veleno che distrugge il cuore e la mente degli uomini. Sono queste le cose da chiedere. Tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù! La lezione di padre Mario è terminata qui. Ora a noi “il compito a casa”, come dice lui. Ci sforzeremo di farlo. Durante il ritiro abbiamo apprezzato le conferenze di padre Mario, ma anche i momenti di silen-
zio, nella celletta, momenti per noi stessi. Abbiamo anche apprezzato il vivere in fraternità, specialmente durante i pasti, e ancora una volta siamo stati deliziati dall’ottima cucina di Antonio. Un grazie di cuore quindi a padre Mario e al Consiglio regionale che ha organizzato così bene questo ritiro. Ci diamo con gioia appuntamento dal 9 all’11 marzo 2012, ancora una volta tutti insieme! Franca Humair
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Sabato 7 maggio 2011 è stata una giornata speciale per le fraternità OFS della Valposchiavo. Un gruppo di una trentina di consorelle e confratelli di varie fraternità del Ticino è arrivato a Poschiavo, accompagnato dall’Assistente regionale padre Callisto e dalla Ministra regionale Gabriella Modonesi. Con una rappresentanza delle cinque Fraternità vallerane abbiamo pranzato insieme nel convento di Santa Maria delle Suore Agostiniane. Un posto stupendo in una cornice silenziosa di prati e vallate in fiore. L’incontro ci ha dato l’opportunità di passare alcune ore insieme per aiutarci a vicenda a migliorare il nostro comportamento di ogni giorno, con il contributo di padre Callisto che ha svolto una meditazione su Santa Chiara. Quest’anno ricorre infatti l’ottocentesimo dalle origini dell’Ordine delle Sorelle Povere di Santa Chiara. Dopo la tradizionale foto comunitaria, nel pomeriggio il gruppo ticinese, entusiasta di questa bella giornata trascorsa tutti insieme, ha dovuto ripartire. Padre Callisto invece, raggiunto nel frattempo dal “Gruppo Sacre Rappresentazioni”, attivo nella Comunità del
Sacro Cuore di Bellinzona, ha portato in scena nella nostra chiesa parrocchiale il “Cantico delle Creature” di San Francesco. Una rappresentazione con un valore liturgico e nel contempo ecologico poiché, lodando e ringraziando il Signore per quanto da Lui creato, i presenti partecipano, con preghiere e canti, a quello che il testo ancora oggi ci vuol dire. Grazie per il grande impegno, per il lavoro svolto e per averci dato la possibilità di prenderne parte attiva e farne tesoro.
a cura di Alice e Mariella
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Cristiani nel mondo
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La carità dei cristiani svizzeri Molte diocesi hanno progetti missionari che sostengono con collette particolari, spesso inoltre sacerdoti stranieri ricevono largo sostegno delle parrocchie in cui lavorano per progetti personali nei loro villaggi d’origine nei paesi poveri da cui provengono. Vi sono però sette organizzazioni caritative con mandato ufficiale della Chiesa cattolica svizzera. Cinque di queste sono attive soprattutto nell’aiuto spirituale o a quello legato alle missioni: Aiuto alla Chiesa che soffre, Opera di sostegno alle Chiese orientali, Fondo di solidarietà dei cattolici svizzeri, Missio per gli immigrati e Missioni interne per parrocchie povere. Le altre due organizzazioni si occupano di aiuto allo sviluppo nei Paesi del sud e sono “Sacrificio Quaresimale” ( che quest’anno ricorda i 50 anni di attività) e Caritas svizzera. Entrambe hanno ottenuto il marchio Zewo, fondazione che vigila sull’utilizzo corretto delle offerte delle opere umanitarie attive in Svizzera. Le organizzazioni che lo ricevono devono informare apertamente sulle loro attività, tenere una contabilità trasparente sull’uso mirato, economico ed efficace del denaro loro affidato. Esiste inoltre l’impegno a mantenere bassi i costi per la raccolta dei fondi e quelli amministrativi. E’ così possibile garantire che il 78% delle offerte vanno a finanziare i progetti. “Caritas Svizzera” è l’opera caritativa dei cattolici svizzeri, con sede a Lucerna e nel 2010 ha raccolto 30,1 milioni di franchi, mentre ha realizzato programmi e progetti per un totale di 85,3 milioni, ricevendo aiuti dalla Confederazione e da altre organizzazioni umanitarie. Circa 55 milioni sono stati spesi in aiuti umanitari e cooperazione internazionale, mentre 19 milioni sono stati destinati ad interventi sociali in Svizzera, specialmente nel quadro dell’azione internazionale contro la povertà. A livello diocesano esistono poi le Caritas diocesane e locali, che sono attive specialmente per interventi a livello regionale. “Sacrificio Quaresimale” è l’organizzazione dei cattolici svizzeri che promuove una campagna di informazione e di raccolta fondi ogni quaresima, fondi che vengono destinati ad attività pastorali e sociali in Svizzera (in collaborazione con la Commissione centrale cattolico romana), e ad interventi pastorali o sociali all’estero, specie nel sud del mondo (anche qui, collaborando con Chiese e organizzazioni locali). Nel 2010 ha partecipato a finanziare 277 progetti di sviluppo (specie in Africa) per un totale di 8.750.929 franchi, 113 progetti di tipo pastorale all’estero per franchi 3.292.873 e 35 per attività pastorali in Svizzera per franchi 3.651.601.
Opera pure sul piano nazionale sen sibilizzando la popolazione svizzera e intervenendo nella politica di sviluppo. L’opera cattolica collabora nella raccolta di fondi e di sensibilizzazione con “Pane per tutti” che è l’ente per lo sviluppo della Federazione delle Chiese evangeliche della Svizzera: esso sostiene circa 350 progetti e pro grammi di sviluppo in Asia, America latina e Africa; con campagne di informazione e di sensibilizzazione promosse nella Confederazione, si impegna a favore di strutture socioeconomiche internazionali più eque. Proposte dei teologi tedeschi Vasta eco sulla stampa internazionale ha avuto un “memorandum” pubblicato lo scorso febbraio e sottoscritto inizialmente da 143 teologi tedeschi di Germania, Austria e Svizzera e che successivamente ha raccolto migliaia di firme in tutta Europa. Il testo, dopo aver ricordato la crisi profonda che ha investito recentemente la Chiesa cattolica, propone l’apertura di un dialogo su sei campi d’azione. Vanno favorite strutture di partecipazione, in base al vecchio principio giuridico per cui “ciò che riguarda tutti, deve essere deciso da tutti”, con decisioni locali e trasparenti. Le comunità cristiane devono essere luoghi in cui gli uomini mettono l’un l’altro in comune beni materiali e spirituali: con la carenza di sacerdoti vengono costituite unità pastorali sempre più estese, nelle quali risulta difficile vivere prossimità e appartenenza. Occorre dare fiducia ai credenti perché si assumano anch’essi responsabilità e partecipino entro strutture democratiche alla conduzione delle loro comunità. Il riconoscimento della dignità e della libertà di ogni uomo esige che il diritto canonico permetta ai credenti di far valere i propri diritti. Il rispetto della coscienza individuale implica che venga riposta fiducia nella capacità umana di decisione e di responsabilità e promuovere questa capacità è compito anche della Chiesa. La valorizzazione ecclesiale del matrimonio e del celibato non richiede di escludere coloro che vivano responsabilmente l’amore, la fedeltà e la cura vicendevole come divorziati risposati o con un partner dello stesso sesso. La solidarietà con i “peccatori” ha per presupposto che venga preso sul serio il peccato tra le proprie fila. La Chiesa non può predicare la riconciliazione con Dio senza praticare la riconciliazione con coloro verso i quali è stata colpevole di violenza, negazione di diritti, ignoranza del messaggio biblico con una morale priva di misericordia. Infine nella liturgia che vive della partecipazio-
ne attiva di tutti i credenti, devono trovare spazio anche le esperienze e le forme espressive del presente, e la celebrazione non può irrigidirsi nel tradizionalismo, mentre una pluralità culturale arricchisce la vita liturgica e rifiuta il centralismo. Il dialogo proposto dovrebbe portare la Chiesa ad una nuova partenza, con un libero e leale scambio di argomentazioni per cercare nuove soluzioni. I cristiani sono chiamati dal Vangelo a guardare con coraggio al futuro e - accogliendo le parole di Gesù - a camminare come Pietro sulle acque: “Perché avete paura? È così poca la vostra fede’?”
presidente del Consiglio italiano, affermando (Corriere della Sera del 13 febbraio): ” Gli uomini che governano le istituzioni sono il volto delle istituzioni. Per questo la sobrietà deve essere una nota di stile caratteristica e visibile. I cittadini hanno il diritto di attendersi da chi li rappresenta la correttezza di comportamento, l’esemplarità nel pubblico e nel privato. Condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse”.
Un cardinale apprezzato
Da qualche anno, per Pasqua, in Francia si procede all’ammissione nella Chiesa di giovani adulti in maggioranza tra i 25 e i 29 anni: quest’anno furono in totale 2952 uomini e donne, delle più diverse professioni e varie diocesi. La Chiesa francese prevede un percorso regolato da un “Rituale dell’iniziazione cristiana degli adulti”, che va rispettato per conferire loro i sacramenti del battesimo, eucarestia e cresima, con un accompagnamento personale in sede parrocchiale o in un gruppo ecclesiale. Accanto a questi nuovi cristiani, per le feste pasquali anche alcune migliaia di adulti, già battezzati da bambini ma che poi avevano lasciato la pratica religiosa, vengono preparati ogni anno a ricevere la prima comunione e la cresima. Attualmente sono quasi 9000 gli adulti che in Francia seguono il percorso catecumenale, 5732 catecumeni e pre-catecumeni e 3201 battezzati adulti che si preparano ai due altri sacramenti.
La redazione del settimanale Famiglia Cristiana ha eletto il cardinale di Milano mons. Dionigi Tettamanzi quale “Italiano del 2010», perché “è il volto della Chiesa che ci piace”, una “Chiesa col grembiule” e “maestra di umanità”, che si fa carico delle sofferenze e speranze degli uomini d’oggi. L’arcivescovo di Milano (nella foto) lo scorso anno si è trovato più volte al centro di polemiche per prese di posizione non sempre gradite alle autorità cittadine (esponenti della Lega Nord in testa), come quando ha rivendicato il diritto a luoghi di preghiera per i musulmani, insultato come “imam di Kabul”, o ha visitato per Natale il campo dei Rom di via Triboniano, pregando “affinché si possa giungere a condizioni di vita più umane per quei bambini e per tutti i bimbi nella nostra città. L’integrazione è possibi le grazie ali’ impegno di tutti, nel rispetto della legge, nella tutela dei diritti di cui ogni persona è portatrice dalla nascita”. Il cardinale Tettamanzi non ha mancato di esprimersi sulle gravi vicende che hanno coinvolto il
Adulti che tornano
Alberto Lepori
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La Charta Oecumenica delle Chiese europee
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Compie 10 anni la Charta Oecumenica delle Chiese europee Quest’anno ricorre il decimo anniversario della Charta Oecumenica, firmata a Strasburgo il 22 aprile 2001 dai presidenti del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e della Conferenza delle Chiese Europee (KEK) di allora, rispettivamente il cardinale Miloslav Vlk e il metropolita Geremia (nella foto), al termine di un incontro ecumenico europeo e di un lungo percorso di dialogo che ha coinvolto tutte le Chiese in Europa. Il documento, che indica le linee guida dell’ecumenismo e della cooperazione tra le Chiese del vecchio continente, non riveste alcun carattere dogmatico-magisteriale o giuridico-ecclesiale (come si legge nell’introduzione). La sua attuazione è lasciata alla libera accoglienza dei cristiani in Europa. Tuttavia, il CCEE e la KEK riconoscono in questo testo, volutamente agile per potersi adattare ai diversi contesti nazionali e aperto a modifiche e integrazioni, un passo e un aiuto importante per le Chiese per realizzare insieme quella chiamata all’unità che è allo stesso tempo un obbligo per tutti i cristiani e un dono di Dio da richiedere incessantemente. Tre capitoli Nata da una sollecitazione della IIa Assemblea ecumenica europea (Graz, 1997), stilata da una commissione congiunta KEK-CCEE attraverso un’ampia consultazione con le Chiese d’Europa, la Charta si divide in tre capitoli e dodici punti che delineano gli ambiti dell’impegno comune per il dialogo e la collaborazione a tutti i livelli della vita delle Chiese, descrivendo le responsabilità ecumeniche fondamentali. Il primo capitolo, che confessa la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”, enuncia l’impegno a cercare una comprensione comune del messaggio di Cristo e l’unità visibile della sua
Chiesa. Il secondo capitolo è dedicato alla “comunione visibile” delle Chiese in Europa, con gli impegni ad annunciare insieme l’Evangelo della salvezza, ad operare insieme nella diaconia, a proteggere le minoranze, a pregare insieme, a continuare il dialogo anche nelle materie etiche controverse. Il terzo capitolo tratta della responsabilità delle Chiese per la costruzione dell’Europa e per la riconciliazione di popoli e culture. Il testo, infine, riprende il tema della salvaguardia del Creato, già messo in evidenza dalle Assemblee di Basilea (1989) e Graz, e si chiude poi con tre brevi paragrafi sull’approfondimento del rapporto con gli ebrei, con i musulmani e con altre religioni e visioni del mondo. In Svizzera, la Charta Oecumenica è stata firmata dai rappresentanti delle dieci Chiese che fanno parte della Comunità di lavoro delle Chiese cristiane nel corso di una celebrazione ecumenica svoltasi il 25 gennaio 2005 a Saint-Ursanne, nel Canton Giura. Da notare anche che in Ticino la Charta è stata ufficialmente consegnata dalla Comunità di lavoro cantonale alle sue Chiese membro il 20 gennaio 2002 nell’ambito della celebrazione ecumenica per l’unità dei cristiani nella chiesa evangelica di Lugano, cui prese parte l’allora segretario generale del CCEE, don Aldo Giordano. Numerose traduzioni La Charta Oecumenica, che – con tutti i suoi limiti – ha sicuramente costituito una svolta nelle relazioni tra le Chiese europee, è un processo in continua costruzione che ha già segnato, in un modo o nell’altro, il cammino ecumenico di varie comunità ecclesiali in Europa, come testimoniano le numerose traduzioni (più di una trentina – dall’arabo al castigliano, passando dal greco all’esperanto – che ne fanno il testo ecumenico più diffuso e più tradotto) e le decine di Chiese, comunità, associazioni e movimenti ecclesiali che hanno firmato il documento. La penetrazione della Charta Oecumenica nel tessuto istituzionale, ecclesiale e sociale europeo è tale da ritrovarla anche citata in documenti di istituzioni laiche, come ad esempio l’APCE (Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa) nel suo rapporto del 25 marzo 2011 sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale. Per celebrare insieme il decimo anniversario della Charta Oecumenica, il CCEE e la KEK hanno patrocinato un seminario ecumenico svoltosi lo scorso 9 maggio all’Università di Friburgo e organizzato dall’Istituto di studi ecumenici in collaborazione con la Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera. All’incontro
Messaggio ecumenico sono intervenuti i due segretari generali del CCEE e della KEK, rispettivamente padre Duarte da Cunha e il rev. Viorel Ionita, i quali hanno portato il saluto dei rispettivi presidenti, il cardinale Peter Erdö e il metropolita Emmanuel di Francia. Tra gli oratori, il vescovo di Nanterre (Francia), mons. Gérard Daucourt, membro del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, e il pastore Daniel de Roche, presidente del Consiglio Sinodale della Chiesa evangelica riformata del Canton Friburgo. Comunicato comune Sempre in occasione di questo decimo anniversario della Charta Oecumenica, il presidente della Federazione delle Chiese evangeliche della Svizzera (FCES), pastore Gottfried Locher, e quello della Conferenza dei vescovi svizzeri (CVS) , il vescovo di Sion Norbert Brunner, hanno pubblicato un comunicato comune, nel quale rilevano come, tramite questo documento, le Chiese si impegnino al dialogo e alla collaborazione. “La FCES prende sul serio questo impegno, perché le Chiese che annunciano insieme la Buona Novella
sono più credibili”, ha affermato Locher, sottolineando la necessità di venirsi incontro, aldilà delle frontiere confessionali, senza farsi spaventare dalle inevitabili resistenze. “I numerosi impegni della Charta Oecumenica – ha aggiunto - devono diventare più che delle belle parole. L’unità visibile non cresce tanto attraverso le strutture esteriori, quanto piuttosto attraverso la forza della fede interiore delle nostre Chiese”. Dello stesso tenore il giudizio di mons. Brunner. Riferendosi alle attuali difficoltà nel cammino ecumenico, il presidente della CVS ha sottolineato che “la Charta Oecumenica non considera il dialogo e la collaborazione come un fine in sé, ma come la condizione per raggiungere il vero scopo del movimento ecumenico: quello di riunire l’umanità nell’unica Chiesa di Gesù”. Locher ha pure evidenziato l’importanza di un movimento ecumenico che parta dal basso: “Vedo con piacere le parrocchie in cui la Charta è vissuta ed è diventata parte integrante della concezione stessa della Chiesa: questa era l’intenzione e la speranza dell’accordo concluso dieci anni fa”. Gino Driussi
La Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera compie 40 anni Quest’anno ricorre un altro importante anniversario per l’ecumenismo in terra elvetica: i 40 anni della Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera. Questo organismo è stato fondato il 21 giugno 1971 dalle Chiese evangeliche riformate, dalla Chiesa cattolica romana, dalla Chiesa cattolica cristiana, dalla Chiesa evangelica metodista, dall’Associazione delle comunità battiste e dall’Esercito della Salvezza. Nell’art. 1 degli statuti si legge quanto segue: “Nella fede in Gesù Cristo nostro Signore, Salvatore dell’umanità, Capo della Chiesa e Signore del mondo, esiste una Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera. Il suo scopo è di testimoniare l’unità delle Chiese fondate e che vivono in Gesù Cristo, di servire all’adempimento della loro missione e di incoraggiare la collaborazione tra cristiani”. Successivamente, hanno aderito alla Comunità di lavoro anche la Federazione delle Chiese evangeliche luterane, la Chiesa greco-ortodossa, una rappresentanza delle Comunità serbo-ortodosse e la Chiesa anglicana, per cui le Chiese membro sono attualmente dieci. Da notare che l’auspicio che la Comunità di lavoro si aprisse anche alle Chiese ortodosse era stato formulato da Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Svizzera nel 1984. In occasione di questo anniversario, la presidente della Comunità di lavoro, Adèle Kelham (nella foto), pastora anglicana a Losanna, ha affermato che l’ecumenismo non è un elemento secondario nella vita delle Chiese e che esse non possono dire di adempiere pienamente al loro mandato se non vivono questa dimensione. Ed ha aggiunto: “Come possiamo mostrare l’amore di Dio per il mondo se non amiamo, con rispetto e cordialità, i nostri fratelli e sorelle cristiani?”. I 40 anni della Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera saranno festeggiati ufficialmente, con un vespro, il prossimo 28 agosto a Lucerna.
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La forza della fede e la paura
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In un articolo, apparso già diversi anni fa su Sati, la rivista pubblicata dal Centro di Meditazione di Consapevolezza di Roma, Christina Feldman, insegnante di meditazione, scriveva: «Nella nostra vita sperimentiamo in continuazione la forza della fede e la forza della paura. La fede è una qualità del cuore e della mente che rende possibile aprirci e provare fiducia e amore. La paura ha invece l’effetto opposto di chiuderci, di farci cercare di evitare e controllare determinate situazioni. La paura ci rende sospettosi e privi di fiducia. Ci porta a separarci dagli altri e dal momento presente. La fede invece ha in sé una qualità di coraggio che ci permette di assumerci i rischi. Quando abbiamo paura cerchiamo la sicurezza e consideriamo l’imprevedibilità come un nemico. La fede ci consente di vivere la nostra vita senza garanzie, senza prove. Se invece abbiamo paura, desideriamo garanzie, prevedibilità e sicurezza. La fede è anche quella qualità di forza e di equilibrio che ci permette di abbracciare quanto è difficile e doloroso nelle nostre vite. Se abbiamo paura vogliamo fuggire dalle difficoltà e cerchiamo rifugio nelle distrazioni. La fede, al contrario, è quella qualità del cuore che ci permette di protenderci verso quello che non conosciamo, di estenderci oltre l’orizzonte di quanto ci è familiare. Se abbiamo paura cerchiamo la sicurezza in ciò che conosciamo. In presenza di fede possiamo riposarci in ciò che non conosciamo, mentre se abbiamo paura vogliamo controllare. A causa della paura spesso veniamo privati del mistero di ciò che non è conosciuto». Della fede, evidentemente, si può parlare in tanti modi. Si può osservarla da punti di vista diversi e con interessi diversi. La fede abbraccia ogni aspetto dell’esistenza. Si estende a 360 gradi. Dà un tocco alla relazione che abbiamo con le cose più piccole e quotidiane, ma definisce anche il nostro rapporto con l’infinitamente grande, con l’Assoluto e l’Ineffabile. In effetti, qualcuno ha definito la fede come «slancio verso l’indicibile», altri come «passione per l’infinito». Ma la fede ci assiste anche nel fedele adempimento dei nostri impegni quotidiani. Anche Christina Feldman nota che «nella vita e nella pratica spirituale incontriamo diversi tipi di fede. Possiamo sentire un senso di fede molto fragile e spesso mischiata alla paura. È una fede che nasce dal desiderio disperato di credere in qualcosa. Vogliamo a tutti i costi avere una relazione con qualcuno e c’è una forma di fede in ciò. Vorremmo credere in un sistema, in una via, in una tecnica. Tale forma di fede, mescolata alla paura, non ci è sconosciuta, tuttavia può essere pericolosa e privarci della libertà. A volte siamo pronti a rinunciare alla libertà perché la sicurezza sembra offrirci l’eman-
cipazione dalla paura. È infatti una fede mescolata alla paura che ci porta a creare rapporti di dipendenza o di dominio. È una fede che ha a che fare con l’attaccamento o con la paura di essere soli. Essa ci conduce facilmente a relazioni distruttive». Quando siamo connessi con la qualità della fede disponiamo di un’enorme pazienza: la pazienza di non esigere risposte e soluzioni immediate ai nostri problemi. Sappiamo convivere con essi, ascoltando con pace e fiducia la nostra situazione. Thomas Merton dice che impariamo il vero amore e la vera preghiera quando l’amore sembra ormai impossibile e il cuore è diventato di pietra. Naturalmente, se c’è fede: se ci manteniamo aperti e sappiamo ascoltare, mantenendo salda la pace del cuore. La paura ha invece l’effetto opposto: ci rende impazienti e pretende che tutto si faccia immediatamente chiaro. Quando abbiamo fede troviamo in noi stessi un luogo di grande calma e agio, un luogo dove possiamo prendere rifugio e sappiamo attendere che, dopo la notte, torni la luce del giorno. Chi medita, prega o, comunque, si dedica al lavoro spirituale, sa che la paura porta agitazione, mentre il frutto della fede è tranquillità, calma e pace. «Quando abbiamo paura pensiamo spesso che non esista alcun rifugio». Ma non è così. Se abbiamo anche solo un briciolo di fede, è proprio in essa che dobbiamo prendere rifugio. Non dobbiamo sbarazzarci della paura, ma profittare della paura per scoprire il potere trasformante della fede. Accogliendo e accompagnando la paura in tutte le sue molteplici manifestazioni di dubbio, avversione, ansia e avidità, possiamo imparare a riposarci, fosse anche solo per brevissimi istanti, in uno spazio più ampio, che è appunto quello della fede-fiducia. E’ gustando il sollievo e l’incoraggiamento che ci viene da questi fortuiti ma consapevoli contatti con la fede-fiducia, che siamo incoraggiati a coltivarla più intensamente, perché diventi sempre di più la forza che sostiene e orienta la nostra vita. Esiste una forma di fede-fiducia chiamata «fede convalidata». È fede che nasce dall’esperienza. Se una persona ci è stata molto vicina e amica in una situazione di difficoltà, essa può diventare per noi motivo di fede-fiducia anche in seguito, quando non esiste più. Il suo semplice ricordo ci rasserena e, spesso, rinnova in noi le energie della vita. A volte è un genitore, oppure un insegnante o anche una pratica. Richiamare alla memoria queste preziose presenze o esercitarci in una pratica che ci è stata di aiuto in un determinato momento di vita, nutre la nostra fede-fiducia e la irrobustisce. In effetti, si tratta di una forma di fede che non si fonda sul vuoto, ma su esperienze di liberazione che abbiamo realmente vissute.
Dieci minuti per te Anche la fede in Dio richiede di essere costantemente coltivata ed esercitata. I principali frutti della fede in Dio sono la perseveranza nella ricerca del bene, la forza e la serenità che ci sostengono nelle afflizioni della vita. A Dio si può anche chiedere aiuto. A questo riguardo, però, non dobbiamo mai dimenticarci che il fondamentale aiuto che chiediamo a Dio è proprio quello della fede-fiducia, così da essere nella condizione di affrontare la vita e le sue difficoltà con quell’atteggiamento che ci fa adulti nella fede. E’ l’atteggiamento di Gesù che dice: «Se è possibile, allontana da me questo calice di dolore. Però non la mia, ma la tua volontà sia fatta». L’atteggiamento contrario è espresso con chiarezza da quell’aneddoto che, credo, sia noto a tutti e che, in sostanza dice a Dio, sia pure indirettamente: «Se non fai quello che voglio, non ho bisogno di te». Dice la storiella che un ateo incallito cadde pericolosamente e stava per precipitare in un orribile abisso. All’ultimo momento, però, riuscì ad afferrarsi a un ramoscello, evitando la caduta. Ma il ramoscello era molto esile. Per cui il malcapitato capì all’istante che il ramoscello non
l’avrebbe sostenuto a lungo. Allora, in preda al panico gridò: «Dio!». Ma Dio non rispose. Allora di nuovo gridò: «Dio! Se esisti. salvami! Ti giuro sul mio onore che crederò in te e annuncerò il tuo nome in tutto il mondo, perché anche gli altri credano». Disse allora una voce: «E’ quello che tutti mi promettono quando sono in difficoltà!». Rispose: «No! No! Non sono come gli altri, io! Ho già cominciato a credere appena ho sentito la tua voce. Salvami soltanto da questa situazione e griderò il fatto prodigioso da tutti gli angoli della terra!». Disse allora la voce: «Benissimo! Sganciati dunque dal ramo, lascia la presa, perché io ti possa salvare!». E quegli: «Lasciare la presa? Sganciarmi dal ramo? Oh no! Questo no! Non sono mica impazzito!». Nella fattispecie, il nostro buon ateo aveva certamente ragione. Ma ciò che l’aneddoto vuole comunicarci è un’altra cosa: la fede non è un toccasana da evocare in casi estremi. E’ piuttosto il riferimento e la forza che orienta ogni nostro passo nella vita con fiducia, generosità, intelligenza e amore. fra Andrea Schnöller
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La cecità di san Francesco
U Nella storia della medicina negli ultimi anni ha assunto sempre più importanza una nuova disciplina chiamata patografia: si tratta cioè di tracciare il profilo patologico di personaggi famosi, di ripercorrere le tappe segnate dalle varie malattie da cui furono affetti e che spesso condizionarono il corso della storia umana o le loro vicende e relazioni personali. “La malattia è il vero volto del mondo”, ha scritto Claudio Magris. Il più grande poeta romantico tedesco, Novalis, dice addirittura che: “tutte le malattie sono trascendenza”, cioè ci permettono di raggiungere il massimo affinamento della sensibilità e di uscire dalla nostra misera dimensione materiale e di raggiungere una conoscenza superiore.
Un uomo non è però la sua malattia, ma ciò che riesce a fare di essa nella vita, come ci insegna la vicenda umana e personale di Francesco d’Assisi. Non sorprende pertanto che un personaggio così carismatico e affascinante come Francesco sia stato studiato anche dal profilo del suo iter patologico, in particolare per quanto riguarda la sua gravissima malattia d’occhi di cui soffrì negli ultimi anni della sua vita e che lo portò alla cecità completa. In un ritratto eseguito fra il 1225 e il 1226 e oggi conservato al convento di Greccio, il poverello d’Assisi appare nell’atto di asciugarsi l’occhio sinistro con una pezzuola bianca. Tralasciando tutte le interpretazioni agiografiche e spirituali che sono state fatte al riguardo, oggi la maggior parte degli studiosi di storia della medicina e degli oftalmologi sono concordi nel ritenere che il Santo abbia sofferto di tracoma, detto anche morbo egiziano o oftalmia egizia, endemico allora come ancora oggi nella valle del Nilo. Il tracoma era forse la maggiore fra le “dieci piaghe d’Egitto” di biblica memoria ed era correlato alle mosche e ai tafani che parassitavano le cisposità delle ciglia e favorito nella sua diffusione dal clima secco desertico, dalla polvere e dalla sabbia sollevate dal vento e dalle cattive condizioni igieniche. Ebbene sappiamo che Francesco compì un lunghissimo ed estenuante viaggio in Egitto fra il 1219 e il 1220, a strettissimo contatto con malati di lebbra, di tubercolosi e di tracoma (oggi sappiamo che la malattia è dovuta ad un microrganismo del genere Clamidia e che può essere trasmessa attraverso le secrezioni oculari o per il tramite delle mosche). Si tratta di un vero flagello anche ai nostri giorni, infatti si calcola che siano oggi alcune centinaia di milioni le persone colpite nell’Africa del Nord e nell’Africa sahariana e di queste almeno 10 milioni siano diventate irrimediabilmente cieche. Questa affezione oculare si manifesta con gli stessi sintomi che la tradizione ha tramandato per il Santo di Assisi: abbondante secrezione lacrimale, ulcere della cornea, ipersensibilità alla luce solare con fotofobia, evoluzione progressiva verso la cecità. All’epoca di Francesco l’unica terapia consisteva, come già nell’antico Egitto, nell’applicare contro il ripiegamento delle ciglia negli occhi una pomata alla crisocolla con resina di pistacchio e ocra gialla. L’ocra, assieme a altri pigmenti, veniva applicata anche come belletto su palpebre e sopracciglia: la cura del bello andava di pari passo con il fare del bene al sofferente, secondo uno dei cardini della caritas medioevale. Nel Medioevo dominava il sapere medico la teoria ippocratica dei quattro umori (sangue, flemma, bile gialla e bile nera),
Messaggio amico teoria che formulata dal grande Ippocrate di Kos resistette per oltre duemila anni: la salute cioè non era altro che il perfetto equilibrio di tali umori, mentre l’eccesso dell’uno o dell’altro era responsabile delle varie malattie e affezioni. Ora il tracoma di Francesco si caratterizzava per bruciori, prurito e una continua lacrimazione sanguigna e purulenta: secondo le cognizioni del tempo era dunque presente un eccesso di umori freddi e umidi, che bisognava trattare, quasi secondo un contrappasso dantesco, con un rimedio caldo e secco, nel caso specifico il ferro rovente, il cauterio. Così, siccome il suo protettore il cardinale Ugolino gli aveva esplicitamente ordinato di curarsi la vista, Francesco si recò presso Rieti nell’ eremo di Fonte Colombo, accomodato su una cavalcatura, la testa coperta da un grande cappuccio al quale era cucita una fascia che gli copriva gli occhi. L’oftalmologo di fiducia del cardinale Ugolino, medico della corte pontificia, sentenziò che era necessario cauterizzare dalla mascella al sopracciglio: questa lunga e protratta incisione avrebbe disseccato gli umori freddi e umidi e migliorato la vista del Santo. Francesco a tale sentenza si sentì umanamente tremare di paura e per esorcizzarla si mise a parlare al fuoco. “Fratello mio Fuoco, nobile e utile fra le creature dell’ Altissimo, sii cortese con me in quest’ora. Io ti ho sempre amato, e ancora di più ti amerò per amore di quel Signore che ti ha creato. E prego il nostro Creatore che temperi il
tuo ardore, in modo che io possa sopportarlo”, così tramanda la Leggenda Perugina. Una preghiera che sembra un incantesimo, sospesa quasi fra religiosità popolare e magia. Ma ciò che la contraddistingue è che in Francesco la preghiera, ogni preghiera, si fonda e si basa unicamente sul fiat voluntas Tua, sulla fede assoluta in un Dio unico, Creatore e Signore di tutte le cose della natura, onnipotente e giusto e buono. Dunque nessun occultismo, nessuna magia, nessuna ambiguità in Francesco, nessuna ribellione al volere di Dio. Così il cauterio non provocò dolore, ma non arrecò anche alcun beneficio alla sua vista. Ma gli ordini di Ugolino erano che si dovesse continuare la cura: un nuovo inutile tentativo venne fatto a san Fabiano quando il ferro rovente venne di nuovo affondato nelle carni vive delle tempie e del volto. Si era ormai nell’aprile del 1226: Francesco allo stremo delle forze si porterà verso Siena all’ospedale di Santa Maria della Scala alla ricerca di nuovi medici e di nuove cure. Gli restano ormai pochi mesi di vita: così che “Sorella Morte” lo coglierà nella notte fra il 3 ed il 4 ottobre 1226, idropico e completamente cieco. Probabilmente queste “terapie vulnerarie” così traumatiche ed aggressive ebbero il solo e unico effetto di accelerare e di aggravare una situazione clinica generale grave e già ampiamente compromessa.
Mario Corti
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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano
Abbiamo letto... abbiamo visto...
GAB 6900 Lugano Grün Anselm
I comandamenti Ed. San Paolo (in fase di pubblicazione) Il famoso benedettino, autore di tanti libri di spiritualità sta offrendoci questa bella serie di libretti sui comandamenti con questo impegno: “Ricorda i comandamenti. Le dieci parole come cammino di spiritualità”. Di questi precetti Grün dice: “I Dieci Comandamenti sono un dono di Dio agli uomini, uno specchio nel quale vedere riflessi la nostra persona e il nostro stato interiore, oltre che una segnaletica universale per la società civile”. E per sottolineare l’attualità del Decalogo, l’autore ad ogni precetto mette un sottotitolo d’attualità: I. Dio è qui; II. Io rendo onore; III. Questo giorno è santo; IV. Io rispetto la mia origine; V. Io voglio vivere; VI. Io sono fedele; VII. Mi basta quello che ho; VIII. Io sono sincero; IX. Il mio amore è puro; X. Io sono riconoscente.
In principio. Storie dalla Bibbia Torino, Ed. Elledici Serie completa composta da 26 episodi in 5 DVD con preziosa guida didattica. Al termine di ogni episodio la scheda di approfondimento “Per saperne di più”. Molto spesso i genitori quando ricordo loro il dovere assunto, chiedendo il battesimo per i loro figli, di educarli cristianamente, mi dicono: come facciamo? Rispondo che devono vivere loro da veri cristiani, perché non si può dare quello che non si ha. Oggi, poi, ci sono diversi mezzi didattici molto ben fatti. Ne segnalo uno per raccontare ai bambini le storie dei Vecchio Testamento, riservandomi – per il prossimo numero – di segnalare la continuazione per il Nuovo Testamento. Per quanto riguarda i DVD, si tratta di un linguaggio audiovisivo specifico, immediato, intuitivo, non infantile. La guida didattica suggerisce le dinamiche per l’interiorizzazione di ciò che è stato visto.