Messaggero 2012-20 Ott-Dic

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Trimestrale di formazione e spiritualitĂ francescana

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Ottobre n° Dicembre 2012


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Ottobre n° Dicembre 2012

Dopo due numeri sui passati Concili, abbiamo iniziato – e continueremo nei prossimi numeri – a parlare del Concilio Vaticano II a cinquant’anni dalla

MESSAGGERO

sua apertura. Il tema a parecchi lettori piace perché li aggiorna su un avvenimento di capitale importanza per la Chiesa Cattolica, ma non mancano coloro che obbiettano: perché scrivere di questo Concilio del quale si stanno facendo i funerali? Non possiamo condividere questo attestato di morte, ma non saremo noi ad elogiare un post-Concilio cinquantenario per non aver portato avanti quella riforma della Chiesa che Papa Giovanni XXIII auspicava nell’indirlo. Parecchie cose sono rimaste ferme; altre, negli scorsi anni, hanno fatto qualche passo e poi stanche si sono fermate sull’orlo della strada del tempo. Perciò non fa meraviglia che parecchi cristiani adulti lo ricordino con nostalgia e i giovani non sappiano nemmeno che cosa sia. Possano queste pagine rinfrescare la memoria.

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Rivista fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano ISSN 2235-3291 fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Maurizio Agustoni Gino Driussi Alberto Lepori

Hanno collaborato a questo numero don Carlo Cattaneo Mario Corti fra Agostino Del-Pietro Fernando Lepori Gabriella Modonesi Cynzia Patriarca Rovelli fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini

Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch

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Foto di copertina: Roma - 25 gennaio 1959 Basilica di San Paolo Annuncio del Concilio Vaticano II © Archivio fotografico Osservatore Romano

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Editoriale Crisi: l’economia non sia tutto

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In questi ultimi mesi l’attenzione dei media è concentrata in modo quasi compulsivo sulla sorte dei bilanci pubblici di molti Stati europei. Si susseguono a ritmo serrato gli incontri tra i capi di governo al fine di trovare una via salvifica che sottragga l’Europa alla dolorosa morsa della crisi. Il tasso di disoccupazione, più di ogni altro indicatore economico, riflette con impietosa durezza la gravità della situazione. In Grecia e Spagna la percentuale di disoccupati è superiore al 25% e, quel che più preoccupa, la disoccupazione giovanile è vicina al 55%. Durante i vertici dell’Unione Europea si constata sempre più una frattura tra i cosiddetti Paesi “rigoristi” (Germania e Gran Bretagna in testa, cui si aggiungono alcuni Stati settentrionali) e i Paesi mediterranei (Francia, Spagna, Italia, ecc.), meno inclini al rigido rispetto di una certa disciplina di bilancio. Anche in Ticino, nel nostro piccolo, l’autunno politico si è consumato nella discussione attorno al Preventivo 2013. L’economia – o meglio la finanza statale – sembra essere divenuta la principale, se non l’unica preoccupazione della politica e dell’opinione pubblica. Ora, senza negligere l’importanza dei conti pubblici, questa visione è riduttiva su più piani. Da un lato la politica non può limitarsi alla mera amministrazione della macchina statale (per questo ci sono i funzionari), ma deve sviluppare visioni, prospettive, soluzioni di ben maggior respiro sui molti temi che riguardano la società: la sicurezza, l’ambiente, la famiglia, l’integrazione degli stranieri, i rapporti con l’estero. Dall’altro lato questo approccio riduttivo della politica rischia di ingenerare nel cittadino l’impressione che – nella vita – l’economia, i bilanci, il denaro siano tutto, per lo Stato, come per il cittadino. Ora, è evidente che una situazione finanziaria solida sia spesso una premessa necessaria per gli investimenti più modesti, come per le conquiste sociali più ambiziose. Questo non deve però distogliere lo sguardo dal fine autentico dell’esistenza umana, che non può certo ridursi ad avere i conti “in ordine”. Questa visione “economicista” della vita sociale (già vigorosamente criticata nei tempi addietro dal Beato Antonio Rosmini) cozza inoltre con l’enormità delle sfide che ci riserva il futuro, non solo come ticinesi o svizzeri, ma come cittadini del Mondo. Alla stanchezza, soprattutto morale, dell’opulento Occidente si oppone in effetti la straripante fame di sviluppo dei Paesi africani, asiatici e sudamericani,

un tempo assoggettati alle potenze europee. Molti si chiedono se la Terra sarà in grado di reggere, ecologicamente, l’urto di un’industrializzazione mondiale e di un allineamento dei consumi agli standard occidentali. Non pochi economisti, sociologi e filosofi propongono modelli di non-crescita o decrescita (economica), accompagnati da un graduale riequilibrio delle risorse possedute dai popoli. Questi modelli, sovente animati da ottime intenzioni, rischiano tuttavia di costituire la risposta sbagliata ad un giusto interrogativo. Benedetto XVI, nella sua enciclica Caritas in veritatæ, ha scritto che “l’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l’uomo è costitutivamente proteso verso l’«essere di più»” (n. 14). La strada di uno sviluppo ordinato e, soprattutto, giusto è irta di mille insidie, prima fra tutte l’egoismo dell’uomo. Per questo motivo la politica – e così ciascuno di noi – non può occuparsi unicamente di bilanci e conti economici, ma deve recuperare la capacità di infondere nella società messaggi morali e culturali che siano all’altezza delle sfide presenti. Come accaduto dopo la Seconda Guerra Mondiale – quando Adenauer, De Gasperi e Schuman unificarono un’Europa dilaniata dal più atroce conflitto di sempre – toccherà soprattutto ai cristiani riaccendere nei cuori umani la passione di vivere con fiducia la fratellanza universale. Un’altissima responsabilità, che deve impegnare ciascuno di noi. Mettiamoci d’impegno! Maurizio Agustoni

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La storia della Chiesa nei Concili ecumenici

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CINQUANTA ANNI FA INIZIAVA IL CONCILIO VATICANO II Il Concilio Vaticano II, del quale la Chiesa cattolica ha celebrato il cinquantesimo della sua apertura l’11 ottobre 1962, si svolse in quattro periodi, dall’11 ottobre all’8 dicembre 1962, dal 29 settembre al 4 dicembre 1963, dal 14 settembre al 21 novembre 1964, dal 14 settembre all’8 dicembre 1965. Fu indetto da Papa Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI, ed ebbe quale principale scopo di ridefinire il ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Quando venne eletto, a 77 anni, Giuseppe Roncalli quale papa (e prese il nome di Gio­vanni XXIII), molti commentatori (e forse anche molti cardinali elettori), giudicarono che sarebbe stato un papa di transizione e di compromesso proprio per la sua età avanzata. Invece manifestò presto una personalità fuori dell’ordinario e sorprese tutto il mondo quando a sorpresa, il 25 gennaio 1959, annunciò di voler con­vocare il XXI Concilio ecumenico della Chiesa. Come Giovanni XIII indicò esplicitamente, in diversi atti e discorsi prima della apertura del Concilio, la Chiesa cattolica voleva riprendere dialogo con il mondo contemporaneo, e il Concilio Vaticano II si aprì in un clima di grandi speranze, con la partecipazione di 2540 padri conciliari tutti i continenti (sui 2908 aventi diritto) contando sulla consulenza di 200 tra teolo­gi ed esperti o periti, e alla presenza di osservatori di Chiese or­todosse e protestanti (all’inizio 35 che aumentarono fino a 93). Nel discorso inaugurale, Giovanni XXIII pose l’accento sulla parola “aggiornamento”, per sottolineare che occorreva promuovere un rinnova­mento della Chiesa, nella dottrina e nella pastorale, rinunciando a pronun­ ciare condanne. Fu il segnale della a­pertura della Chiesa al dialogo con altre religioni anche non cristiane, con le diverse culture e i sistemi socio-­politici del mondo. Giovanni XXIII morì però il 3 giugno 1963 ed il suo successore Paolo VI prese la decisione di continuare e di condurre a termine la grande assemblea ecclesiale.

Sessioni e documenti promulgati Il Vaticano II si svolse in quattro periodi (detti anche sessioni): • la prima, dall’11 ottobre all’8 dicembre 1962 (non vi fu approvato alcun documento); • la seconda, dal 29 settembre al 4 dicembre 1963 (con l’approvazione di due documenti); • la terza, dal 14 settembre al 21 novembre 1964 (con l’approvazione e promulgazione di tre documenti); • la quarta, dal 14 settembre all’8 dicembre 1965 (con l’approvazione e promulgazione di undici documenti) Il Concilio Vaticano II si concluse con una serie di messaggi del Concilio all’umanità (ai governanti, agli uomini di pensiero e di scienza, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri ammalati e tutti coloro che soffrono, ai giovani). Tra tutti i documenti conciliari, la costituzione dogmatica Lumen Gen­tium, sulla Chiesa, attribuiva un maggior peso ai laici e a tutto il “po­polo di Dio” nella vita della Chiesa e approfondiva inoltre il ruolo e la na­tura dell’episcopato e del suo rap­porto con il papato specificando co­me i vescovi dovessero lavorare col­legialmente tra loro ed in comunio­ne con il Papa, capo del collegio episcopale. La costituzione Sacrosanctum Con­cilium, sulla Sacra Liturgia e le ce­lebrazioni, ebbe un’amplissima eco, visto il principio fondante della par­tecipazione dei fedeli e il conseguen­te riconoscimento delle lingue “vol­gari” (parlate dal popolo) come adatte per la celebrazione dei Sacra­menti, primo fra tutti la Messa. Nella costituzione Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contempo­ raneo, si pose l’attenzione della Chiesa sulla necessità di aprire un proficuo confronto con la cultura e con il mondo. Esso infatti è opera di Dio (e perciò fondamentalmente buo­no) e quindi luogo in cui Dio manifesta la sua presen­za. Compito della Chiesa, dei laici in primo luo­go, è quindi quello di allacciare profon­di legami con “gli uomini e le donne di buona volontà”. Il decreto Unitatis Redintegratio, sul­le confessioni cristiane, e la dichiarazione Nostra Aetate, sulle religioni non cristiane, riconobbero la presenza di “semi di verità” an­che nelle altre Chiese cristiane e nel­le altre confessioni religiose e il ripudio dell’antisemitismo teologico.


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GIOVANNI XXIII ANNUNCIA L’APERTURA DEL CONCILIO (11 settembre 1962) La grande aspettativa del Concilio Ecumenico, ad un mese di distanza dal suo inizio ufficiale, splende negli occhi e nei cuori di tutti i figli della Chiesa cattolica, santa e benedetta. Nella successione di tre anni di preparazione, una schiera di spiriti eletti raccolti da ogni regione e di ogni lingua, in unità di sentimento e di proposito, ha radunato una ricchezza così sovrabbondante di elementi di ordine dottrinale e pastorale, da offrire all’episcopato del mondo intero, convenuto sotto le volte della basilica Vaticana, motivi di sapientissima applicazione dell’evangelico magistero di Cristo, da venti secoli luce dell’umanità redenta dal sangue suo. Siamo dunque, con la grazia di Dio, al punto giusto. Le profetiche parole di Gesù, pronunciate in vista del compiersi della finale consumazione dei secoli, incoraggiano le buone e generose disposizioni degli uomini, in modo particolare in alcune ore storiche della Chiesa, aperte ad uno slancio nuovo di elevazione verso le cime più alte: “Levate capita vestra, quoniam appropinquat redemptio vestra” (Sollevate la testa, perché è prossima la vostra liberazione).

A servizio dell’uomo Il mondo infatti ha bisogno di Cristo: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo. Il mondo ha i suoi problemi dei quali cerca talora con angoscia una soluzione. Va da sé che la affannosa preoccupazione di risolverli con tempestività, ma anche con rettitudine, può presentare un ostacolo alla diffusione della verità tutta intera e della grazia che santifica. L’uomo cerca l’amore di una famiglia intorno al focolare domestico; il pane quotidiano per sé e per i suoi più intimi, la consorte e i figlioli; egli aspira e sente di dover vivere in pace così all’interno della sua comunità nazionale, come nei rapporti con il resto del mondo; egli è sensibile alle attrazioni dello spirito, che lo porta ad istruirsi e ad elevarsi; geloso della sua libertà, non rifiuta di accettarne le legittime limitazioni, al fine di meglio corrispondere ai suoi doveri sociali. Questi problemi di acutissima gravità stanno da sempre sul cuore della Chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, ed il Concilio Ecumenico potrà offrire, con chiaro linguaggio, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana.

Eccone alcuni. L’eguaglianza fondamentale di tutti i popoli nell’esercizio di diritti e doveri al cospetto della intera famiglia delle genti; la strenua difesa del carattere sacro del matrimonio, che impone agli sposi amore consapevole e generoso, da cui discende la procreazione dei figli, considerata nel suo aspetto religioso e morale, nel quadro delle più vaste responsabilità di natura sociale, nel tempo e per la eternità. Le dottrine fautrici di indifferentismo religioso e negatrici di Dio e dell’ordine soprannaturale, le dottrine che ignorano la Provvidenza nella storia ed esaltano sconsideratamente la persona del singolo uomo, con pericolo di sottrarlo alle responsabilità sociali, è dalla Chiesa che devono risentire la parola coraggiosa������ e generosa, che già fu espressa nell’importante documento “Mater et Magistra”, dove è riassunto il pensiero di due millenni di storia del cristianesimo.

Giustizia e pace Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri. Ogni offesa e violazione del quinto e del sesto precetto del Decalogo santo; il passar sopra agli impegni che conseguono dal settimo precetto; le miserie della vita sociale che gridano vendetta al cospetto di Dio; tutto deve essere chiaramente richiamato e deplorato. Dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l’amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti. Questa si chiama diffusione del senso sociale e comunitario che è immanente nel cristianesimo autentico, e tutto va affermato vigorosamente. Che dire dei rapporti tra Chiesa e società civile? Viviamo in faccia ad un mondo politico nuovo. Uno dei diritti fondamentali cui la Chiesa non può rinunciare è quello della libertà religiosa, che non è soltanto libertà di culto. Questa libertà la Chiesa rivendica ed insegna, e per essa continua a soffrire in molti paesi pene angosciose. La Chiesa non può rinunciare a questa libertà, perché è connaturata con il servizio che essa è tenuta a compiere. Questo servizio non si pone come correttivo e complemento di ciò che altre istituzioni debbono fare, o si sono appropriate, ma è elemento essenziale ed insurrogabile del disegno di Provvidenza, per avviare l’uomo sul cammino della verità. Verità, libertà sono le pietre dell’edificio su cui si eleva la civiltà umana.

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DAL DISCORSO DI APERTURA DEL CONCILIO (Papa Giovanni XXIII) La Santa Madre Chiesa gioisce poiché, per singolare dono di Provvidenza Divina, è sorto il giorno tanto desiderato in cui il Concilio Ecumenico Vaticano II qui, presso il sepolcro di S. Pietro, solennemente si inizia con la protezione della Vergine Santissima, nel giorno stesso in cui si celebra la sua divina Maternità. La successione dei vari Concili, celebrati nella storia - sia i venti Concili Ecumenici, sia gli innumerevoli Provinciali e Regionali, pur essi importanti - attestano chiaramente la vitalità della Chiesa Cattolica e segnano come i punti luminosi della sua storia. Il gesto del più recente e umile successore di San Pietro, che vi parla, di indire questa solennissima assise, si è proposto di affermare, ancora una volta, la continuità del Magistero Ecclesiastico, per presentarlo in forma eccezionale a tutti gli uomini del nostro tempo, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità della età contemporanea. (…)

“Un grande fervore destatosi improvviso in tutto il mondo, in attesa della celebrazione del Concilio” Per quanto riguarda l’iniziativa del grande avvenimento che qui ci aduna, basti a semplice titolo di documentazione storica riaffermare la nostra umile ma personale testimonianza del primo ed improvviso fiorire nel nostro cuore e dalle nostre labbra della semplice parola di Concilio Ecumenico. Parola pronunciata innanzi al Sacro Collegio dei Cardinali in quel faustissimo 25 gennaio 1959, festa della conversione di San Paolo, nella basilica sua. Fu un tocco inatteso, uno sprazzo di suprema luce, una grande soavità negli occhi e nel cuore. E insieme un fervore, un grande fervore destatosi improvviso in tutto il mondo, in attesa della celebrazione del Concilio. Diventa chiaro quanto si attende dal Concilio riguardo alla dottrina. Cioè il Concilio ecumenico – che si avvarrà dell’efficace ed importante esperienze giuridiche, liturgiche, apostoliche e amministrative – vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti, che lungo i secoli, nonostante difficoltà e contrasti è divenuta patrimonio comune

degli uomini. Patrimonio non da tutti accolto, ma pur sempre ricchezza aperta agli uomini di buona volontà. Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige proseguendo così il cammino, che la Chiesa compie da quasi venti secoli.

“La dottrina certa e immutabile presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo” Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un Concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa, nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze. E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale.


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SEMPRE ATTUALI GLI INSEGNAMENTI

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Appello dei Vescovi svizzeri per il 50mo del Vaticano II (11 ottobre 2012) Vanno qui ricordati – sia pure in modo incompleto – alcuni punti importanti e sempre attuali: • La liturgia deve essere rinnovata, perché la Parola di Dio sia annunciata meglio e più abbondantemente. Le celebrazioni devono essere semplificate e devono parlare la lingua della gente, con la partecipazione attiva di tutti i fedeli. • La Chiesa va percepita meglio come il Popolo di Dio, nel quale Cristo Redentore incontra gli uomini e li vuole riconciliati con Dio e tra di loro. Tutti sono chiamati alla santità: in virtù di tale comune vocazione chi ha ricevuto un ordine sacro non deve dominare bensì servire il Popolo di Dio, nel quale deve attivarsi una comunità viva e fraterna. • Dio si rivela non solo nella Creazione e con la sua Parola, ma soprattutto nella persona di Cristo Gesù. La testimonianza di chi lo ha conosciuto si è riversata nelle Sacre Scritture e nella tradizione della Chiesa. • La Chiesa si apre al mondo moderno, senza adeguarvisi ma rendendovi presente il messaggio salvifico di Gesù Cristo. • La Chiesa apprezza ogni bontà e grandezza presente nelle religioni non cristiane. Essa annuncia loro Gesù Cristo che, in quanto vero uomo e vero Dio, ama e salva tutti gli uomini. Ma ciò avviene nel rispetto della libertà di ognuno: a nessuno è lecito imporre una religione. • Noi cristiani dobbiamo sentirci particolarmente vicini agli Ebrei, che sono i nostri fratelli maggiori e ci hanno donato la speranza nel Messia redentore. • Il Decreto sull’ecumenismo afferma che la ricerca dell’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa visibile è compito di ogni cristiano. Ne sono parte costitutiva la conversione, il dialogo e la preghiera, perché in ultima analisi non possiamo crearla da noi stessi ma la riceviamo come dono di Dio. • Il Battesimo fonda il sacerdozio comune di tutti i cristiani. Tra le persone ordinate (vescovi, presbiteri, diaconi) e i laici la differenza non è di grado ontologico. Alle persone ordinate spetta in modo proprio l’avvicinare ogni persona al Cristo Redentore.

DOCUMENTI DEL VATICANO II In totale i Padri conciliari discussero ed approvarono durante il Concilio sedici documenti: quattro costituzioni (testi teologicamente più importanti: contenuti dogmatici, pastorali e disciplinari), nove decreti (affrontano e configurano in maniera nuova un ambito della vita della Chiesa) e tre dichiarazioni (testi su questioni che non riguardano soltanto la Chiesa, ma anche il rapporto della stessa con l’esterno). Eccone l’elenco:

Costituzioni • Sacrosantum Concilium, costituzione sulla sacra Liturgia, approvata il 4 dicembre 1963; • Lumen Gentium, costituzione dogmatica sulla Chiesa, approvata il 16 novembre 1964; • Dei Verbum, costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, approvata il 18 novembre 1965; • Gaudium et Spes, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, approvata il 7 dicembre 1965;

Decreti • Inter Mirifica, decreto sui mezzi della comunicazione sociale, approvato il 4 dicembre 1963; • Orientalium Ecclesiarum, decreto sulle Chiese orientali cattoliche, approvato il 21 novembre 1964; • Unitatis Redintegratio, decreto sull’ecumenismo, approvato il 21 novembre 1964; • Christus Dominus, decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi, approvato il 28 ottobre 1965; • Perfectae Caritatis, decreto sul rinnovamento della vita religiosa, approvato il 28 ottobre 1965; • Optatam Totius, decreto sulla formazione sacerdotale, approvato il 28 ottobre 1965; • Apostolicam Actuositatem, decreto sull’ apostolato dei laici, approvato il 18 novembre 1965; • Ad Gentes, decreto sull’attività missionaria della Chiesa, approvato il 7 dicembre 1965; • Presbyterorum Ordinis, decreto sul ministero e la vita dei presbiteri, approvato il 7 dicembre 1965;

Dichiarazioni • Gravissimum Educationis, dichiarazione sull’educazione cristiana, approvata il 28 ottobre 1965; • Nostra Aetate, dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, approvata il 28 ottobre 1965; • Dignitatis Humanae, dichiarazione sulla libertà religiosa, approvata il 7 dicembre 1965;

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Domande a don Sandro Vitalini

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Quali sono a suo giudizio i tre principali insegnamenti del Concilio Vaticano II per la Chiesa che è nel Ticino? Il Vaticano II ha insegnato anche a noi ticinesi a vivere una liturgia attiva, a sentirci attivi nella Chiesa ed a vivere lo spirito ecumenico. In questi tre campi il Concilio ha certamente prodotto frutti: la liturgia è diventata più partecipata; si sono creati i consigli diocesani presbiterale e pastorale nonchè taluni consigli pastorali a livello parrocchiale ed inter-parrocchiale; il dialogo ecumenico ha aperto prospettive nuove, nella linea del Vangelo.

Q

Quali sono le prospettive per sviluppare gli insegnamenti del Concilio per quanto riguarda la liturgia nelle nostre parrocchie? La Diocesi di Lugano è stata all’avanguardia nel mondo nel promuovere le celebrazioni ed i canti in lingua italiana. Il numero dei presbiteri provenienti da tutti i continenti si è però progressivamente accresciuto e il culto per una liturgia viva allentato. E’ importante che i laici attivi in parrocchia, sfruttando i corsi di formazione offerti dal Centro di Liturgia, si impegnino per dare ad ogni Eucaristia un’impronta marcata. Il nostro libro diocesano è ancora troppo poco sfruttato. Per Messe di gruppi giovanili, di bambini, di famiglie si può certo ricorrere a repertori diversi, che siano però in sintonia col momento liturgico che si sta vivendo. Là dove non si fa differenza tra canti introduttivi, offertoriali, di ringraziamento, né si tien conto dei vari aspetti dell’anno liturgico, si è propriamente nella notte. Bisogna ammettere che un’Eucaristia ben preparata, durasse anche un’ora, non stanca, perché tutti si sentono coinvolti nei canti, nei gesti, nei movimenti. Non esiste una liturgia “prestampata” buona per ogni occasione. L’Eucaristia domenicale costituisce sempre un avvenimento unico e nuovo, che coinvolge e “sorprende”. Importante è il suo prolungamento in un aperitivo o in un pasto semplice offerto a tutti. La liturgia è vissuta se ci porta a spezzarci gli uni a favore degli altri. Essa ci apre a vivere la diaconìa. Il simbolo della raccolta dell’offerta in danaro può essere variato (raccolta di giocattoli, libri, vestiti per particolari situazioni o quando si spedisce un container alle missioni). Più la comunità è generosa verso l’esterno e più è in grado di rispondere alle necessità interne.

Una liturgia viva non si limita alla Messa, ma dà spazio alla liturgia delle ore, all’adorazione, a processioni, tridui e novene (si pensi a quella di Natale!). La Messa è il culmine dell’azione liturgica, che non viene dunque con essa esaurita. La solennità della celebrazione implica anche la semplicità. I tempi dei pizzi, dei merletti, delle code, delle cappe, dovrebbero essere tramontati. La sobrietà è evangelica, mentre ogni sfarzo è non solo ridicolo, ma anche tragico perché espressione di una ricchezza che va sempre e solo devoluta al Cristo presente in ogni povero del mondo. Senza Eucaristia la comunità non sussiste. Bisogna riconoscere che l’ordinazione presbiterale di uomini sposati di fede provata è per intanto ancora una necessità. Tra qualche decennio le comunità denutrite scompariranno e non si avvertirà più il bisogno di ministri, perché la Chiesa sarà scomparsa. Anche comunità di modeste proporzioni hanno diritto di vivere grazie all’Eucarestia. La tradizione orientale ci presenta preti-contadini che vivono del loro lavoro manuale ed assicurano nel loro villaggio la celebrazione della divina liturgia. Si ricordi come la Grecia è rimasta cristiana (e si potrebbero anche evocare i Paesi slavi e l’Unione sovietica) pur soffrendo per più di tre secoli la persecuzione islamica. Comunità guidate da presbiteri celibi si sono invece dissolte nel nulla (come le chiese d’Africa dopo sant’Agostino). Le lezioni della storia dovrebbero pure insegnare qualcosa.


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Come si può sempre meglio vivere la collegialità (partecipazione) a livello parrocchiale e diocesano? Se verrà attuata maggiormente a livello diocesano, zonale, parrocchiale, si potrà forse influire sul tessuto ecclesiale globale, dove la comunione di servizio tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi del mondo, manifestatasi nel Vaticano II, è scomparsa. La Chiesa non è monarchia, a nessun livello, non è nemmeno democrazia, ma famiglia, comunione di battezzati, dove ciascuno è attivo con il suo carisma specifico. La Diocesi di Lugano ha vissuto da molto tempo un embrione di collegialità tra laici e parroco con l’assemblea e il consiglio parrocchiale. Ci si rende conto della loro importanza in quei paesi dove il parroco si considera l’unica autorità e compra e vende come gli pare e piace. Accanto a queste istituzioni, volute dalla Legge, vanno creati consiglio ed assemblea pastorale, almeno a livello di zona pastorale. Il parroco non è il factotum, ma il coordinatore di un’attività pastorale diversificata e capillare. Bisogna riconoscere che, oltre al volontariato, si dovrebbero prevedere anche incarichi remunerati là dove l’impegno è esteso alla giornata intera. Una specifica formazione è auspicabile per persone che si dedicassero all’istruzione religiosa, alla visita ai malati e agli anziani, alla animazione degli oratori. Non è giusto chiedere al presbitero di servire la comunità in

tutti i campi. Egli è consacrato per animare la preghiera e nutrire la comunità con la Parola di Dio. L’antica tradizione della predicazione quotidiana dovrebbe essere dunque reintrodotta. Ma le responsabilità vanno condivise. I laici vanno riconosciuti nelle loro specifiche competenze (contabili, gestionali, amministrative), ma anche in servizi a favore dei bambini, dei giovani, dei malati, degli anziani. Si riesce a costituire un tessuto sociale cristiano là dove il singolo battezzato si sente chiamare per nome. Un individuo può allacciare rapporti intensi con un massimo di cento persone. Là dove la parrocchia è più vasta, per non cadere nell’anonimato, il singolo sarà raggiunto da altri membri attivi della parrocchia. Chi si sente solo, abbandonato, non è membro di una comunità cristiana degna di questo nome. Se il laicato si fa attivo, è giusto che sia coinvolto nella scelta del parroco (questo, anche se solo con un gesto formale, esiste da noi) e del vescovo diocesano. Colui che è preposto al servizio di tutti va scelto da tutti. Bisognerebbe almeno che tutti i membri del popolo di Dio si potessero esprimere al proposito. Forse che le Chiese dell’antichità conoscevano una vitalità ed un’irradiazione superiori per la stretta vita di famiglia vissuta da ogni comunità - di proporzioni certo ridotte – in comunione con i suoi presbiteri e il suo vescovo?

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Come si può contribuire a sviluppare maggiormente ed in modo pratico l’ecumenismo tra i cristiani e quali sono le prospettive augurabili? Anche se taluni spiriti aperti preparavano il Concilio pure sul problema ecumenico, esso non era sentito dalla gente. Non evochiamo i tristi fantasmi del passato, ma riconosciamo che il Vaticano II e anche il documento “BEM” del Consiglio ecumenico delle Chiese ci hanno fatto fare passi giganti. In un suo discorso Paolo VI ipotizzava la ritrovata unità tra tutte le Chiese cristiane come il più grande avvenimento del ventesimo secolo. Il grande teologo Max Thurian riconosceva che il Vaticano II aveva risposto alle istanze del calvinismo e pertanto si era convertito alla Chiesa di Roma. Purtroppo lo slancio del Concilio ha conosciuto brusche frenate, che hanno di nuovo allontanato le Chiese tra loro (al punto che noi cattolici non dovremmo nemmeno più chiamarle “chiese”). Se è vero che la nostra langue, e là dove non c’è più l’Eucarestia muore, è pure vero che le altre Chiese cristiane conoscono notevoli flessioni. Se l’unione fa la forza, la disunione crea debolezze mortali. Dato che non ci è possibile reagire se non dal basso, è necessario allacciare colloqui e collaborazioni già a livello di famiglie. Soprattutto le coppie miste dovrebbero avvertire la loro missione profetica in quanto pre-realizzano l’unità. La regolare frequentazione della Messa e della Santa Cena come pure la partecipazione alla vita diaconale delle due comunità fa delle coppie miste un segno di speranza e un lievito per il futuro. Anche i gruppi ecumenici vanno visti in questa linea. Si dovrà finalmente capire che un progressivo avvicinamento non può essere bloccato per decenni. Dal punto di vista teologico si giustifica una parziale “communicatio in sacris”. Se il coniuge cattolico partecipa pienamente alla Santa Cena non riceve solo del pane, ma la grazia del Cristo. In termini tecnici si direbbe che “recipit rem”. Anche se nella cena protestante ci fosse un “defectus”, non c’è un’“absentia” dell’ordine. Il “BEM” riconosceva la necessità dell’imposizione delle mani per i ministri e dell’episcopato per le Chiese sorelle. Rifiutando il “BEM” e allontanandoci dalle Chiese sorelle, abbiamo favorito l’insorgere di una corrente anarchica (la cena è presieduta da qualsiasi persona e non è necessario essere battezzati per comunicarsi) che annienta la struttura organica (di servizio, non di dominio) ecclesiale.

Certo dobbiamo ammettere di essere tutti “fratelli separati”, disobbedienti all’ordine del Cristo (Giovanni 17,21), di essere dei bestemmiatori (quando diciamo che l’unità si farà “quando Dio vorrà”); dobbiamo darci la mano a partire dal momento in cui ci siamo separati (più per ragioni di prestigio e politiche che teologiche), non imponendo agli altri ciò che le tradizioni divise hanno elaborato nei secoli, e attingendo a piene mani nella Bibbia, nel credo comune, capaci di proclamare l’unica fede nel rispetto delle tradizioni diverse che nei secoli si sono sviluppate. O l’ecumenismo distruggerà la nostra divisione o questa annienterà le Chiese. Quando i cristiani si sono sentiti minacciati, si sono stretti maggiormente tra loro, capaci di aiutarsi, di capirsi, di perdonarsi. Ora la minaccia di un diffuso indifferentismo è tale da mettere in pericolo la sopravvivenza stessa delle nostre Chiese. L’annientamento delle Chiese dell’Apocalisse, delle Chiese degli Apostoli, dei primi Concili, potrebbe oggi ripetersi per le Chiese della nostra Europa. Sapremo aprire occhi e cuore per tempo? don Sandro Vitalini

padre Giovanni Pozzi


Ricordo di padre Giovanni Pozzi

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Fu davvero un piacere e un privilegio poter far parte della redazione di Messaggero (allora ancora “Messaggero serafico”) in un momento in cui tra i collaboratori piu o meno regolari della rivista c’erano diverse delle grandi personalità, umane e intellettuali, espresse dall’Ordine dei Cappuccini in Ticino negli ultimi decenni. La riunione mensile della Redazione di cui facevano parte Mauro Jöhri , Andrea Schnöller, Riccardo Quadri, e la possibilità di cenare con loro in convento, diventava ogni volta un momento imperdibile di discussione, di arricchimento e di crescita. In quella piccola redazione confluivano le esperienze di questi frati che, in campi diversi e (spesso) con grande libertà, avevano avuto la possibilità di percorrere ognuno la propria strada, pur condividendo tutti un ideale francescano, che negli anni successivi al Concilio aveva cercato di rinnovarsi e di riproporsi nella sua freschezza originale. Al Messaggero di quegli anni collaborava in modo saltuario anche padre Giovanni Pozzi. L’aveva già fatto negli anni in cui ancora viveva a Friborgo, ma dopo il ritorno a Lugano i suoi scritti comparivano in modo meno episodico sulla rivista. Pozzi stava riordinando e pubblicando alcuni dei lavori di ricerca che aveva cominciato a Friborgo e volentieri passava alla rivista articoli e approfondimenti nei campi di interesse che più aveva frequentato, come ricercatore e studioso: la mistica femminile, la religiosità popolare, il rapporto tra spiritualità e architettura. Si tratta di contributi che non hanno perso nulla del proprio valore, spesso sintesi di decenni di studio e che ancora oggi si leggono con piacere e con frutto. Ma Giovanni Pozzi, rientrato a Lugano nel 1987, arricchiva la nostra redazione non solo coi suoi scritti, bensi anche solo con la sua presenza, discreta, rispettosa, umile benché molto colta. Frequentare il convento di Lugano per la rivista voleva dire incontrarlo spesso, condividere la tavola per la cena con lui e con la comunità dei frati. Quando divenne guardiano della piccola comunità, si notava l’impegno che metteva nell’accogliere chiunque entrasse convento. Finito il mandato di guardiano, tornato poi frate tra i frati, mi colpì la disponibilità con la quale, per i tanti piccoli aspetti di vita quotidiana del convento, si sottometteva all’autorità di chi, ben più giovane, aveva preso il suo posto. Tra i contributi più significativi di padre Pozzi a Messaggero bisogna almeno ricordare un numero intero della rivista dedicato a L’Oggetto devozionale e il suo impiego, i cosiddetti santini (nn. 7/8, 1984); due numeri su L’itinerario mistico della donna (nn. 3/4, 1992); l’introduzione allo studio di Elena Malinverno

L’immaginetta mortuaria, immagine di vita e immagine della morte (n. 5, 1992); Parole sul silenzio, aspetti letterali, filosofici e teologici (n. 1, 1997); La santità riflessa di santa Teresa, nel numero dedicato a S.Teresa di Lisieux (n. 5, 1997); L’ex voto dipinto; Il dialogo con i santi tradotto in pittura, nel numero sugli exvoto per Grazia Ricevuta (n. 6, 2000); Chiesa mistica e chiesa di pietra, nel numero sull’architettura sacra (n. 4, 2001); Sulla religione popolare: esemplificazioni tra arte visiva e preghiera (n. 5, 2003), contributo apparso postumo. Il filo conduttore rintracciabile rileggendo questi diversi contributi mi sembra si possa cogliere nella preoccupazione di affermare il valore delle pratiche di vita interiore. Una pratica còlta nei margini e negli spazi lasciati liberi dalla teologia piu ufficiale. La religiosità popolare, quindi, quale ambito particolare dove il popolo, nella sua semplicità e immediatezza, ha saputo trovare forme e strumenti “fortemente pedagogici” per costruire e allenare una sana interiorità, teologicamente corretta, anche se riconducibile più alla teologia dei santi, che non a quella dei teologi. Oppure la mistica femminile, che nel medioevo risponde all’esclusione della donna dai ruoli dirigenziali nella Chiesa, contribuendo in modo determinante al “diffondersi della coscienza che l’uomo puo indiarsi (…) e che un pezzetto di Dio sta in ciascuno di noi”. Dagli scritti pubblicati sul Messaggero emerge un padre Pozzi che accompagna le sintesi dei suoi lavori piu importanti e corposi con giudizi che hanno contribuito, da allora ad oggi, a valorizzare pratiche e atteggiamenti spesso svalutati o colti solo nei suoi aspetti meno significativi: “L’immaginetta sacra è guardata troppo spesso con occhio di sufficienza dal cristiano consapevole (…). Piaccia o non piaccia ai dotti, si deve riconoscere come un documento cosi modesto e fragile sia portatore di significati densi e si nutra di pensieri alti”. Il silenzio del convento di Lugano dove ci riunivamo la sera custodiva anche queste ricchezze. Ruben Rossello

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I Cappuccini ticinesi su internet


Bibbia e letteratura alla Biblioteca Salita dei Frati

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L’Associazione Biblioteca Salita dei Frati ha proposto quest’anno, nei mesi di ottobre e novembre, un ciclo di incontri biblici su un tema di grande rilevanza storica: l’influsso costantemente esercitato dalla Bibbia nel corso dei secoli sulle letterature europee. La Scrittura infatti, indipendentemente da come la si ritenga ispirata, si può definire il «grande codice» della letteratura occidentale, per citare un celebre titolo di Northrop Frye. Gli esempi di “ri-scritture” (espressione usata per indicare un’opera letteraria che rielabora un testo biblico) sono moltissimi. Ci sono opere che si ispirano in modo molto scoperto e fedele a una fonte biblica, secondo uno stretto rapporto di intertestualità: non dimentichiamo che la poesia italiana nasce con il Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi, che segue da vicino il Benedicite di Daniele (3, 26ss). Ci sono poi testi paragonabili ai moderni midrash, che riprendono cioè fonti bibliche reinterpretandole alla luce di un dato contesto, come certi passi biblici inseriti da Dostoevskij nei suoi romanzi (ad es. Cana di Galilea nei Fratelli Karamazov). Ci sono infine casi in cui il riferimento ad un tema biblico viene inserito in un contesto nuovo (come ancora nei Karamazov la Leggenda del grande Inquisitore, con riferimento alle tentazioni di Gesù dei Vangeli di Luca e Matteo). Gli incontri della Biblioteca dei Frati hanno avuto inizio con una lezione introduttiva di Piero Stefani (docente presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano), proposta col titolo Scriptura crescit cum scribente, con allusione alla frase di Gregorio Magno «Scriptura crescit cum legente», secondo la quale l’intelligenza spirituale è un arricchimento del testo biblico. Stefani ha illustrato le caratteristiche delle innumerevoli ri-scritture della Bibbia, per mostrare in particolare come i tratti propri dell’arte narrativa biblica abbiano inciso a fondo sui modi, peraltro molto vari, in cui le storie bibliche sono state riscritte. Ma si è anche chiesto se la Scrittura sia sempre ri-scrivibile, se è vero che ci sono pagine della Bibbia così ‘eccedenti’ da renderne impossibile una riscrittura. Le lezioni successive hanno preso in esame opere e passi di tre grandi scrittori dell’Ottocento e del Novecento, rappresentativi di culture diverse ed anche di un diverso modo di porsi di fronte alla Scrittura. Piero Boitani (docente alla “Sapienza” di Roma e all’Università della Svizzera italiana) ha presentato la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943) di Thomas Mann, nella quale è stato rielaborato e amplificato il racconto biblico della Genesi. Malgrado il titolo, Mann (che scrive sollecitato da Goethe) rielabora non soltanto la storia di Giuseppe, ma anche la storia dei patriarchi da Abramo a Giacobbe,

sicché la sua tetralogia è la ri-scrittura di tutta la seconda parte della Genesi (i capitoli 12-50 dedicati alla storia patriarcale). Il tema centrale è il riconoscimento di Dio o, come scrive Boitani, «la scoperta del Dio unico e solo». Mann mette molta enfasi sul ri-conoscere (l’agnizione, l’anagnórisis) come forma privilegiata di conoscenza: è l’esperienza di Giuseppe e dei suoi fratelli, è l’esperienza di Abramo che scopre Dio riconoscendolo. Non dimentichiamo che, secondo Freud, la gioia del riconoscimento è una delle pulsioni centrali dell’uomo. La terza lezione è stata magistralmente tenuta da Adalberto Mainardi (monaco della Comunità di Bose e studioso della spiritualità ortodossa) che ha ripercorso alcuni momenti dei grandi romanzi di Fedor Dostoevskij: L’Idiota (1868), I demoni (1871), I fratelli Karamazov (1880), dove lo scrittore non si limita ad evocare molti passi evangelici tra le righe del racconto, ma ne fa il vero e proprio nucleo generativo della narrazione. Almeno a partire da Delitto e castigo (1866) si può dire che la Bibbia, ed il Vangelo soprattutto, nutra costantemente l’opera di Dostoevskij. Una singolare opera di Jean-Paul Sartre è stata l’oggetto dell’ultima lezione. Gabriella Farina (dell’Università di Roma Tre) ha presentato Bariona o il figlio del tuono, opera scritta dal filosofo francese, esponente di un esistenzialismo ateo (ma c’è chi preferisce parlare di esistenzialismo non-cristiano), quando nel dicembre del 1940, prigioniero di guerra a Treviri, assecondò il desiderio di due sacerdoti compagni di prigionia che gli proposero di scrivere un dramma sul mistero del Natale. Con la sua opera, che fu rappresentata nel campo di prigionia, Sartre mise in scena il racconto biblico dell’Annunciazione ispirandosi ai Vangeli di Luca e Matteo per realizzare in quella notte di Natale l’unione più vasta di cristiani e non credenti. Non c’è dubbio che Bariona sia una delle più significative interpretazioni del Natale della letteratura del Novecento. Straordinaria, per limitarci ad un esempio, la scena del Presepe e l’intensità con cui Sartre descrive la maternità di Maria. Val la pena riportare questo passo: «La Vergine è pallida e guarda il bambino (…). Lo guarda e pensa: ‘Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive’». Fernando Lepori

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Francescanesimo secolare Viaggio ad Assisi

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Anche quest’anno le iscrizioni al nostro pellegrinaggio erano già al completo a fine gennaio: questo denota quanto sia ambita e desiderata questa proposta che ci porta a riflettere nella terra dei Santi Francesco e Chiara. Come tema di studio e di approfondimento, fra Michele Ravetta ci ha suggerito “Lo Spirito Santo nella vita francescana”. Di anno in anno, il nostro assistente ci offre via via temi sempre più impegnativi ma riesce sempre a dipanare la matassa ed a renderci comprensibile ed attuabile nella vita privata qualsiasi argomento che a noi, di primo acchito, sembrerebbe insormontabile. Su cinquanta partecipanti, circa la metà erano alla prima esperienza: dalle loro espressioni abbiamo compreso quanto abbiano apprezzato la perfetta organizzazione di suor Carla Pia Rossi, l’accoglienza nel gruppo, lo studio dell’argomento e la grande complicità e cordialità che si è creata tra di noi. Artefici di tutto ciò sono l’inossidabile coppia suor Carla Pia (organizzatrice) e fra Michele (assistente spirituale). Tra i due religiosi corre una generazione ma proprio tutti sono concordi nell’affermare il connubio speciale che essi formano e il grande messaggio di spiritualità che sanno trasmettere. Un cordiale arrivederci all’anno prossimo! Cynzia Patriarca Rovelli

PROGRAMMA: Mercoledì 16 maggio

Viaggio di andata e S. Messa alla Domus Laetitiae

Giovedì 17 maggio

S. Messa nella Basilica di S. Francesco ad Assisi Visita accompagnata alle Basiliche di S. Francesco Visita alla Basilica di S. Maria degli Angeli (Porziuncola) Visita a Spello

Venerdì 18 maggio

Trasferta all’Isola Maggiore sul lago Trasimeno S. Messa nella chiesa di San Michele sulla sommità dell’isola Preghiera a San Damiano Serata in allegria

Sabato 19 maggio

Visita all’Eremo delle Carceri

Domenica 20 maggio

S. Messa alla Domus Laetitiae

S. Messa nel bosco dell’Eremo Rientro in Ticino


Messaggio dall’O.F.S. Val Poschiavo

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La sottoscritta e il segretario regionale hanno viaggiato in Val Poschiavo: una meraviglia di viaggio per la via Svizzera in una giornata ricca di sole e di foglie autunnali di ogni colore con le cime dei diversi passi spruzzate da una coltre leggera di neve che sfarfallava al sole. Direi senza enfasi che era una giornata ideale per prepararsi ad un incontro con la nostre fraternità della valle di Poschiavo. Il silenzio voluto dalla guida dell’auto nelle strade delle montagne ha suggellato il tutto. Abbiamo avuto un primo incontro con le/i responsabili delle fraternità: il prendere coscienza per tutti dell’invecchiamento di sorelle e fratelli, il pensiero rivolto al futuro per garantire un’adeguata continuazione della testimonianza in valle dello spirito francescano, pimentato dalla presenza dell’orso M13 che proprio il giorno prima aveva fatto una scorribanda nella scuola di Poschiavo. Le fraternità in valle non vivono grandi sconvolgimenti ma necessitano comunque di nuovi stimoli perchè l’identità e la “vita” francescana si mantenga tra coloro che l’hanno abbracciata in gioventù e ne siano fieri. Il messaggio di avere un’unica grande fraternità (con l’età nessuno vuole assumersi cariche) sembra sia passato con un consiglio regionale unico. Dobbiamo ripensare come concretizzare quest’idea. La notte nel silenzio ha portato consiglio e già nella mattinata ai due assistenti di fraternità, don Pietro e don Davide, abbiamo proposto un aiuto concreto di formazione prevedendo un viaggetto dell’assistente regionale fra Ugo Orelli in quel di Poschiavo. Attendiamo risposte effettive di accoglienza e di collaborazione. Nel primo pomeriggio della domenica ci siamo ritrovati con le fraternità, quasi al completo. Dopo le preghiere a cui sono avvezze le nostre fraternità della montagna è seguito un saluto rivolto a tutti, pensato e soppesato, che qui schematicamente trascrivo. Oggi ci è data un’opportunità: il fatto di ritrovarci per riflettere sullo stato delle fraternità in questa valle. Essere francescani secondo gli Statuti equivale a “testimoniare il vangelo con lo spirito di San Francesco nella famiglia e nella realtà della Chiesa locale, radicata nel territorio in cui viviamo, nel rispetto di tutte le culture, nella promozione della giustizia e della pace, nel rispetto dell’ambiente in cui viviamo, invitando a stili di vita più sobri”. In un epoca nella quale i paesi del mondo intero sentono il peso della crisi finanziaria e della carenza dei

valori etici che sostengono le nostre democrazie, anche le nostre fraternità devono, con ottimismo intelligente, trovare altre vie e rivivere la fraternità che ci ha uniti. Che ci porta ad essere fratelli e sorelle: ogni crisi genera e stimola inventive, creatività, la voglia di scrollarsi di dosso quel peso angoscioso del domani. E nella crisi dobbiamo diventare nuovi, pronti al cambiamento, seguaci di Francesco umile ma determinato nelle sue scelte. Dobbiamo riscoprire, indipendentemente dall’età, la gioia di vivere la letizia francescana fatta di cose piccole ma importanti per riscoprire quella vitalità che ha animato la nostra giovinezza dove scalare le montagne ci sembrava una cosa meravigliosa. Dobbiamo testimoniare alla società attuale i valori di solidarietà, di attenzione agli ultimi e ai bisognosi. Come francescani dobbiamo pensare ad un mondo umanamente più perfetto, secondo l’idea di umanità che impregna il Vangelo: a Cana la proposta per la mancanza di vino; al figliol prodigo il padre offre una festa; davanti alla peccatrice il Cristo domanda: “Chi di voi non ha mai peccato…”. Ogni fraternità deve strutturarsi secondo le sue disponibilità e le sue capacità. Non ci sono fraternità standard, tutte uguali, perché le le condizioni di vita dei suoi membri, dell’ambiente in cui vivono, dell’aria che si respira sono diverse. E dobbiamo avere la capacità di entrare nella realtà della vita odierna, di vedere e sentire, non con le orecchie, ma con il cuore, i nostri nipoti che crescono, che sposano altri ideali, forse non comprensibili a prima vista ma reali. Gli immigrati, dai colori arcobaleno, ci portano il sapore e la visione di altri mondi e diventano un appello forte di Cristo che ci chiede di rimanere accanto a loro per far crescere il seme della speranza, la loro voglia di una vita migliore. E per venire alla pratica come facciamo con questa costellazione di fraternità sparse? Ne siete contenti? Cosa vorreste? Sentendovi parlare di voi stesse, delle vostre attività mi sono resa conto che moltissime di voi ‘spazzano’ le chiese, si preoccupano della loro bellezza che perdura nel tempo mantenendole nitide e fiorite. E allora vi dico “beate voi” che come Francesco nella sua umiltà si preoccupava delle chiese di allora. Vai Francesco e pulisci la mia chiesa: pulizia metafora di un’altra pulizia… Voglia il Signore, voglia Francesco nostro padre aiutarci e portarci a dire in questi tempi difficili: la piu’ grande follia della terra è la speranza! Gabriella Modonesi

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Cristiani nel mondo

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Chiesa evangelica in festa Il 15-16 settembre la Chiesa evangelica riformata di Ascona ha festeggiato i 50 anni dalla inaugurazione, avvenuta nell’autunno del 1962. La più giovane e la più numerosa comunità protestante in Ticino è forse l’unica a non soffrire di un’emorragia di fedeli, essendo negli anni diventata la parrocchia riformata germanofona per eccellenza in Ticino. Se infatti un po’ ovunque nel cantone i riformati di lingua tedesca stanno scomparendo (con il ricambio generazionale il tedesco lascia spazio all’italiano) ad Ascona la comunità germanofona resiste, con una presenza costante ai culti di 150-200 persone, grazie ai molti svizzero-tedeschi e germanici che raggiunta una certa età, decidono di trasferirsi nel Locarnese, dove trovano persone che condividono le medesime tradizioni e la stessa lingua con i propri canti, le proprie preghiere e abitudini religiose. Questa particolarità linguistica è una ricchezza, con due tradizioni e due culture religiose che convivono, e la possibilità, soprattutto per gli anziani, di trovare nella Chiesa quel senso di appartenenza, quella vita comunitaria, indispensabili per evitare l’isolamento che tocca sempre più persone nella terza età. Una comunità evangelica nel Locarnese è attiva dal 1887 (primo culto in tedesco), mentre al 1889 risalgono gli statuti e nel 1901 viene inaugurata la chiesa di Muralto; nel 1948 una piccola cappella a Locarno-Monti e nel 1962 la chiesa di Ascona. Nel 1973 ad Ascona è rialzato il campanile, con due campane (una terza si aggiunge nel 1982); nel 1983 viene costruito un Centro evangelico ad Ascona, mentre esiste a Muralto dal 1976. (da VOCE EVANGELICA, settembre 2012).

Superare la divisione tra protestanti e cattolici «Ecumenismo adesso! Un solo Dio, una sola fede, una sola Chiesa»: questo è il titolo di un appello lanciato lo scorso 5 settembre a Berlino da numerosi esponenti, protestanti e cattolici, del mondo della politica, della cultura, dello spettacolo e dello sport in Germania. Per i promotori dell’iniziativa, oggi lo scisma tra le Chiese non è più né voluto, né giustificato. E si fa riferimento sia al cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano Il, sia al cinquecentenario della Riforma protestante che cadrà nel 2017. L’appello «Ökumene Jetzt» vuole essere «un documento dell’impazienza», e parte dall’affermazione che “È evidente che è molto di più quello che ci unisce, che

quello che ci divide», anche se «esistono posizioni differenti nella concezione dell’eucarestia, del ministero e della Chiesa», ma, per i firmatari dell’appello «queste differenze non giustificano il perdurare di questa separazione». Tiepidi per ora i vertici sia della Chiesa evangelica di Germania (EKD), sia della Conferenza episcopale tedesca (DBK), il testo a fine ottobre era già stato firmato da oltre 4.000 persone.

Una inchiesta sui preti lombardi L’invecchiamento del clero è fenomeno noto nella Chiesa cattolica; i Vescovi lombardi hanno incaricato l’Università Cattolica di Milano di condurre un’indagine, per conoscere realtà ed esigenze del clero anziano. Ne ha riferito con un ampio servizio la rivista bolognese IL REGNO, dal quale sono tratti i dati seguenti. L’intenso processo di invecchiamento demografico della popolazione sacerdotale diocesana lombarda è stato descritto come il prodotto di due tendenze contrastanti: la presenza sempre più diffusa dei cosiddetti “grandi vecchi”, ovvero di sacerdoti molto anziani, e i ritmi insoddisfacenti del ricambio tra le generazioni. La quota di sacerdoti “grandi vecchi” è mediamente pari al 12% e l’età media è molto vicina ai 60 anni (58,48), a fronte di valori ben più bassi entro la popolazione maschile della Lombardia. I preti anziani occupano le loro giornate con le attività ministeriali (69%); un tempo più importante è occupato dalla preghiera (76%), seguono la lettura (50% giornali e 49% libri), lo studio ed altri interessi (37%), la televisione (28%). Il 72% dichiara che esce di casa ogni giorno, il 40% dichiara di incontrare qualche persona ogni due ore, per cui molti preti anziani si sentono ancora inseriti nella comunità in cui vivono. La casa parrocchiale è la dimora privilegiata dalla maggior parte dei sacerdoti. Tuttavia, circa la sistemazione dei sacerdoti più anziani, le percentuali sono molto simili tra chi vive in casa parrocchiale (37,2%) e chi in casa privata (35,1%). Quando non è solo, e sono la maggioranza (59,4% !!!), il prete convive con un parente (solo nel 13% dei casi: la madre, una sorella, un fratello, altri parenti), oppure con un confratello o una domestica. Circa chi si occupa delle faccende domestiche, il dato varia secondo l’età: i preti che se ne occupano personalmente sono il 17,2% fino a 60 anni, il 13,6% dai 61 ai 74 anni; utilizzano una domestica ad ore il 30,1% dei preti fino a 60 anni, il 41,4% dai 61 ai 74 anni, il 34,1% oltre i 75 anni; hanno una domestica fissa solo il 15% dai 61 ai 74 anni, e il 16,5% oltre i 75 anni. L’ar-


Gerusalemme: Basilica del Santo Sepolcro

Unica Pasqua per cattolici ed ortodossi I cattolici del Patriarcato latino di Gerusalemme festeggeranno la Pasqua del 2013 la stessa domenica che le Chiese ortodosse; la decisione sarà estesa nel 2015 probabilmente a tutti i cattolici della Terra Santa. Si tratterà di un segno concreto di ecumenismo che risponde al desiderio dei fedeli, in particolare dei cristiani che appartengono a famiglie con membri di rito diverso. Così i cristiani vivranno nello stesso giorno in tutto il Medio Oriente la festa più importante del calendario liturgico. Il tema è stato affrontato nell’ultima sessione di lavoro tra il Patriarca cattolico latino e il Custode di Terra Santa, e i vescovi melchiti, maroniti, armeni, assiri e caldei che hanno giurisdizione sulle comunità che vivono in Israele, in Palestina, in Giordania e a Cipro. Come è noto, le Chiese ortodosse seguono tuttora il calendario giuliano, cioè quello precedente alla riforma gregoriana, introdotta da papa Gregorio XIII nel 1582. La differenza più marcata si nota proprio nel fatto che la Pasqua viene celebrata il più delle volte in domeniche diverse. Ci sono anni in cui la distanza tra le due date arriva addirittura a cinque settimane. Tutto questo rappresenta un problema in Medio Oriente, dove i cristiani sono una piccola comunità accanto ad ebrei e musulmani: in un contesto del genere, le divisioni pesano evidentemente ancora di più, specie tra persone della stessa famiglia. Nel 2013 a Gerusalemme per i cattolici di rito latino la Pasqua slitterà dal 31 marzo al 5 maggio. Non si tratta di una novità assoluta: in Giordania dal 1979, i cristiani di ogni confessione celebrano le principali feste lo stesso giorno: così si è scelto per il Natale il 25 dicembre, cioè la data del calendario gregoriano, e per la Pasqua la domenica fissata dal calendario giuliano. Lo stesso sistema è stato poi adottato in alcune città della Palestina. Con la celebrazione secondo il calendario ortodosso, le comunità latine della Terra Santa si troveranno a celebrare la Pasqua in un giorno diverso rispetto ai cattolici del resto del mondo, e ciò creerà qualche “sconcerto” tra i pellegrini occidentali. Inoltre, già nel passato, quando per la coincidenza di calendari le due Pasque, ortodossa e latina, cadevano nello stesso giorno, non è sempre stato facile conciliare il via vai dei diversi riti in quel “condominio” complesso e a volte un po’ burrascoso che è la basilica del Santo Sepolcro (o della Risurrezione) costruita intorno alla tomba di Gesù. E’ da augurarsi che i progressi dell’ecumenismo, dopo il Concilio Vaticano II, facciano superare gli ostacoli derivanti da secoli di divisioni ormai incomprensibili.

ticolo descrive altri aspetti della vita dei preti anziani, come le loro relazioni con confratelli o parrocchiani, le attività che svolgono, le loro preferenze, le aspettative e i loro desideri e bisogni. Una indagine da segnalare alla Curia diocesana e anche al Consiglio pastorale, per un giusto e adeguato trattamento del clero ticinese.

Evangelici in Brasile La popolazione evangelica in Brasile è cresciuta di 16 milioni di persone tra il 2000 e il 2010 raggiungendo i 42,3 milioni. È quanto rivela un censimento condotto dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica. Negli ultimi trent’anni la percentuale di evangelici è balzata dal 6,6% al 22,2% dell’intera popolazione, facendone il segmento religioso del Brasile caratterizzato dal più alto tasso di crescita. Mentre la popolazione evange-

lica è cresciuta, quella cattolica ha subito un calo dal 73,6% (2000) al 64,6% (2010). Il declino del cattolicesimo ha interessato ogni regione del paese, con punte massime nella regione settentrionale, dove la popolazione cattolica è scesa dal 71,3% nel 2000 al 60,6% nel 2010. Nella stessa regione e nello stesso periodo la popolazione evangelica è cresciuta dal 19,8% al 28,5%. Lo Stato di Rondonia, nella parte nord-occidentale del Paese, vanta la maggiore concentrazione di evangelici con il 33,8%, mentre nel nordest si registra la percentuale più bassa con appena il 9,7%. Lo Stato di Rio de Janeiro ha la minore percentuale di cattolici, appena il 45,8%. Anche il numero di coloro che si dichiarano senza religione è leggermente cresciuto, passando dal 7,3% del 2000 all’8% del 2010. Alberto Lepori

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Chiesa d’Inghilterra: nuovo primate e no alle donne vescovo

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Lo scorso novembre è stato un mese importantissimo per il futuro della Chiesa d’Inghilterra: è stato nominato il nuovo arcivescovo di Canterbury e il Sinodo si è pronunciato contro l’ammissione delle donne all’episcopato. Procediamo cronologicamente. Più che la sorpresa è stato l’entusiasmo ad avere accompagnato, il 9 novembre, l’annuncio della nomina di Justin Welby (nella foto insieme con la moglie Caroline), attuale vescovo di Durham, quale 105.o arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana. A sceglierlo, è stata un’apposita commissione, la “Crown Nominations Commission”, formata da 16 membri, ecclesiastici e laici. Quest’ultima ha fornito il nome al primo ministro David Cameron, il quale lo ha sottoposto alla Regina Elisabetta per approvazione, la Chiesa d’Inghilterra essendo Chiesa di Stato.

Welby ha 56 anni, è sposato e padre di cinque figli e la sua è stata una vocazione tardiva. La sua carriera professionale lo ha portato ad essere per 11 anni, dal 1978, manager nell’industria petrolifera dapprima a Parigi, poi a Londra. Ma nel 1983 la sua vita cambia per una tragedia famigliare: la figlia di sette mesi muore in un incidente stradale in Francia. Sei anni dopo, Welby abbandona la sua attività e decide di diventare sacerdote. Viene ordinato nel 1992 a 36 anni ed è attivo per 15 anni nella diocesi di Coventry. Dal 2007 al 2011 è decano di Liverpool, prima di essere nominato vescovo di Durham. Verrà intronizzato nella sede di Canterbury il prossimo 21 marzo, succedendo all’arcivescovo dimissionario, il gallese Rowan Williams, che lascia dopo 10 anni per tornare a dedicarsi all’insegnamento . Welby, la cui nomina è stata accolta positivamente sia nel mondo anglicano sia negli ambienti ecumenici internazionali, viene descritto come un uomo colto, dalla fede profonda, affabile, buon comunicatore, moderatamente conservatore dal punto di vista teologico, buon mediatore e anche con notevoli doti manageriali. L’unica perplessità che si può forse sollevare è la sua poca esperienza di vescovo, ministero che esercita solo da un anno. Oltre ad essere capo della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Canterbury esercita anche un primato d’onore in seno alla Comunione anglicana, formata nel mondo da 44 Chiese regionali o nazionali presenti in 165 paesi, per un totale di circa 80 milioni di fedeli, dei quali è considerato il leader spirituale. La bocciatura dell’episcopato femminile Ha provocato una grossa sorpresa e molta delusione, il 20 novembre, al termine di una giornata di acceso dibattito, la decisione del Sinodo generale (ossia il legislativo) della Chiesa d’Inghilterra, riunito a Londra, di respingere la legislazione sull’ammissione delle donne all’episcopato, al termine di un iter durato una dozzina d’anni. Quindi, a 20 anni esatti dall’introduzione del sacerdozio femminile, la Chiesa d’Inghilterra non ha fatto il passo successivo, quello delle donne vescovo. Per passare, la normativa avrebbe dovuto ottenere i voti favorevoli dei due terzi delle tre camere che formano il sinodo: quella dei vescovi, quella del clero e quella dei laici, ciò che è avvenuto nelle prime due (44 sì, 3 no e 2 astensioni tra i vescovi, 148 sì e 45 no tra il clero), ma non nella terza (132 sì e 74 no, mentre sarebbero stati necessari 138 voti favorevoli). Abbiamo parlato di sorpresa in quanto in questi ultimi anni tra gli anglicani inglesi, durante il lungo processo di avvicinamento al


Messaggio ecumenico voto, era molto netta la tendenza a favore, suffragata dall’approvazione di 42 delle 44 diocesi della Chiesa d’Inghilterra e dei tre quarti dei sinodi diocesani. Indubbiamente, il voto negativo del Sinodo generale, che non riflette quindi quanto emerso dalle diocesi, costituisce una sconfessione per l’attuale arcivescovo di Canterbury Rowan Williams e per il suo successore designato Justin Welby, entrambi favorevoli. Ma l’opposizione dei due estremi della Chiesa d’Inghilterra, cioè gli evangelici da una parte e gli anglo-cattolici dall’altra, è stata decisiva, anche se erano state previste delle misure per tutelare le parrocchie contrarie ad avere una donna vescovo. Ora, le attuali 3935 donne prete inglesi (a fronte di 8087 uomini) dovranno attendere parecchi anni - almeno 7 prima che la questione dell’episcopato femminile - che ha provocato una forte spaccatura tra favorevoli e contrari - torni all’ordine del giorno del Sinodo. Aggiungiamo che nella Comunione anglicana diverse Chiese hanno già introdotto l’episcopato femminile, in particolare quelle degli Stati Uniti (dove a presiedere la Conferenza episcopale è proprio una donna, Katha-

rine Jefferts Schori), del Canada, dell’Australia e della Nuova Zelanda. Ma le ultime due “vescove”, elette negli scorsi mesi, provengono da un continente notoriamente conservatore come quello africano: sono Ellinah Ntombi Wamukoya, dello Swaziland, e Margaret Vertue, della diocesi di False Bay, in Sudafrica. In tutto, sono attualmente 25 le donne vescovo in servizio nel mondo anglicano. Ricordiamo che nella Chiesa cattolica la questione del sacerdozio femminile è stata definitivamente chiusa dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Ordinatio sacerdotalis” del 22 maggio 1994, che si conclude con questi perentori termini: “Al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”. Gino Driussi

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2013 Torna come ogni anno, dal 18 al 25 gennaio, la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, indetta congiuntamente dal Pontificio Consiglio per l’unione dei cristiani e dalla Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio ecumenico delle Chiese. Il tema della Settimana 2013 è “Quel che il Signore esige da noi” (Mich. 6, 6-8). Ogni anno il sussidio che accompagna le celebrazioni di questa iniziativa viene da un gruppo ecumenico di un paese diverso. Quest’anno il compito è stato affidato all’India, più precisamente al Movimento studentesco cristiano dell’India, cui aderiscono circa 10mila universitari e che festeggia il suo centenario, in collaborazione con la Federazione degli universitari cattolici di tutta l’India e con il Consiglio nazionale delle Chiese dell’India. La versione definitiva è stata poi elaborata da una Commissione internazionale nominata dai due organismi citati all’inizio. Una condanna forte al sistema delle caste, il grido di dolore dei dalit, gli esclusi, che sono per la maggior parte cristiani, ma anche le persecuzioni contro i cristiani e le altre minoranze religiose: sono questi gli argomenti affrontati dal sussidio e affidati alla riflessione e alla preghiera in questa Settimana per l’unità, temi particolarmente importanti per la società indiana, dove i cristiani rappresentano il 3,5% della popolazione, in una situazione nel contempo difficile e stimolante, dove la libertà religiosa, pur sancita dalla Costituzione, non viene sempre rispettata. In questo contesto, le Chiese svolgono un ruolo delicato: costruire una cultura del dialogo e di armonia con tutta la società. Il libretto offre anche spunti sul significato della pratica della giustizia, sulla quale i cristiani sono chiamati a riflettere in fraternità, sulla ricerca della bontà e della vita in umiltà di fronte al Signore. Le meditazioni attraversano gli otto giorni con la metafora dell’uomo in cammino che si confronta con l’interrogativo tratto dalle parole del profeta Michea: “Che cosa esige Dio da noi?”. La Settimana di preghiera mobilita innumerevoli comunità e parrocchie di tutto il mondo: i cristiani provenienti dalle varie confessioni si ritrovano a pregare insieme nel corso di speciali celebrazioni ecumeniche. Anche in Ticino avranno luogo diversi culti, tra cui anche quello cantonale, organizzato dalla Comunità di lavoro delle Chiese cristiane, quest’anno in diretta televisiva nazionale domenica 20 gennaio 2013 alle ore 10 dalla chiesa parrocchiale di Cureglia.

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La pace interiore

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Sono molte le angolature da cui si può osservare la pace. Di conseguenza, molte sono anche le possibilità che abbiamo di coltivarla in noi e attorno a noi. Tutto ciò che porta a coltivare la pace, poi, va salutato con cuore aperto. Perché la pace è un dono straordinario per tutti e in ogni momento della nostra vita. Non è un caso che Gesù risorto inauguri gli inizi del regno di Dio con l’augurio: «La pace sia con voi!». Dove Dio è accolto e l’uomo aderisce alla sua volontà, lì irrompe la pace. E’ stato questo l’argomento del nostro ultimo appuntamento mentre prima, ispirandoci a una riflessione di Ivan Illich, abbiamo riflettuto sul tema della «pace dei popoli».

Shalom (pace)

La pace dei popoli, però, come del resto la pace in famiglia, la pace sul lavoro e in ogni altra relazione umana, si fonda, oltre che sulla lealtà e la giustizia, sulla pace interiore. Se non abbiamo la pace dentro di noi, come possiamo essere costruttori di pace nelle relazioni che abbiamo con il mondo attorno a noi? Di conseguenza, «la pace interiore è senza dubbio uno dei tratti più specifici di un qualsiasi cammino che si possa chiamare spirituale»1. Si tratta di «un’esperienza precisa che, da un lato, tende a costituirsi gradualmente come sfondo stabile e costante dell’individuo; dall’altro, tende ad aumentare di intensità in momenti particolari», ossia in momenti nei quali ci viene richiesto un supplemento di pace se vogliamo far fronte con coerenza ed equanimità a una situazione di tensione e di conflittualità, oppure in momenti in cui il richiamo della pace esercita un fascino tutto particolare sulla nostra mente-cuore, per cui ne intravvediamo con chiarezza la preziosità e lo prendiamo a cuore. E’ del tutto evidente che, quando si parla di pace interiore, s’intende un’esperienza parecchio diversa da quella che può essere una momentanea assenza di disturbo; anche se, comunemente, è proprio a questo momentanea esperienza che ci si riferisce con l’espressione «pace interiore». Nella sua realistica e accurata riflessione, Corrado Pensa rileva anzitutto il fatto che, «quando si parla di pace interiore, i primi due elementi che emergono sono abitualmente quelli dell’evitamento e quello del successo». In sostanza: io sono in pace se riesco ad evitare de-

terminate cose, a schivare determinate responsabilità o persone, a scaricare sulle spalle di qualcun altro quel determinato compito. Oppure sono convinto che, se riesco a procurarmi quella determinata cosa, a impossessarmi di quel determinato oggetto, a raggiungere quel determinato obiettivo, avrò pace. Si potrebbe – dice – «parlare di strategia del meno nel primo caso e di strategia del più nel secondo». Ossia: «o crediamo che perverremo alla pace solo sottraendo alla nostra vita e, dunque, svincolando, defilandoci, nascondendoci; oppure crediamo che godremo di pace solo aggiungendo e, dunque, prendendo, possedendo, vincendo». E’ facile comprendere che, di fronte a una simile prospettiva e alla messa in atto di tali strategie, le grandi tradizioni spirituali ritengono, concordemente, che «la pace risultante da esse è una pace fragile e, in fin dei conti, falsa». Anzi, i cammini e le tradizioni spirituali nascono proprio come risposta alternativa, ossia come risposta al fallimento delle strategie del più e del meno: «le vie spirituali si occupano della vera pace ed insegnano che, per approdarvi, l’ostacolo principale sta proprio in quella compulsività ad evitare determinate cose e ad appropriarsi di altre, di cui stiamo parlando». Si cita Michel Quoist, un autore spirituale che godette grande successo soprattutto negli anni 70-80 per la profondità, la concretezza, ma anche la semplicità e l’immediatezza dei suoi scritti: «Ci sono certi giorni – scrive Quoist – in cui soffro di più per la fame. Fame di tutto: delle cose, del prossimo, di affetto, di riconoscimento… Allora mi trascino nella mia giornata, tendo la mano e afferro avidamente tutto ciò che mi riesce di prendere lungo il passaggio. Alla sera sono sempre deluso. Non mi resta niente della mia messe rinsecchita! Sì, perché io sono fatto per dare, sono fatto per ricevere quel che gli altri mi danno; non sono fatto per prendere, per afferrare»2. Le strategie del prendere e dell’afferrare, come quelle dell’evitare, dimenticano che la vita è essenzialmente relazione e, quindi, è nella relazione, stando nella relazione, coltivando la relazione e non fuggendo la relazione o facendo violenza alle regole della relazione che si perviene alla pace e si costruisce la pace. «L’evitamento e l’appropriazione sono funzioni ovviamente indispensabili. Si pensi solo alla necessità di evitare ciò che è distruttivo, nelle sue mille varietà o, di contro, alla necessità di adoperarsi con diligenza per il soddisfacimento di quelli che Maslow chiama i bisogni di base, quali sicurezza, stima, affetto. Anzi, a questo proposito non si sottolinea mai abbastanza il fatto che la negligenza o l’ignoranza circa i propri bisogni di


Dieci minuti per te base, tipica di non pochi aspiranti spirituali, è solo una forma di evitamento mascherato di distacco. Del resto non c’è bisogno del microscopio per vedere tendenze coatte all’evitamento e all’acquisizione operanti in ambienti spirituali. Se per esempio io mi accorgo di essere incapace di vivere fuori di un determinato contesto – che sia il mio gruppo di riferimento, di ricerca spirituale e meditativa, di preghiera, la comunità o il monastero – vuol dire che sto trasformando uno strumento di crescita in uno strumento di difesa, di evitamento. Oppure, se concepisco la religiosità come un accumulo di interventi assistenziali o di esperienze meditative e sento che più ne faccio più ho valore, allora sono evidentemente preda della mentalità acquisitiva». Fatta questa precisazione, comunque, è facile intravvedere che, facendo leva esclusiva sulle strategie dell’acquisire e dell’evitare, non si arriva lontano. Infatti, «la caratteristica comune di queste due strategie apparentemente opposte è questa: che la pace raggiunta grazie ad esse dura poco». E come potrebbe essere diversamente? Avere evitato lo sgradevole ci regala un attimo

o un giorno di decontrazione, di respiro più pieno; ma presto saremo già tesi di nuovo, in guardia per schivare altre cose spiacevoli. Sicché questa pace è solo – come lo sono molte altre modalità di vivere e di celebrare la pace – un armistizio tra due tensioni. Lo stesso si può

dire quando è in ballo l’avidità. La domanda fondamentale rimane allora proprio questa, ossia: quanta coscienza viva e presente abbiamo di ciò? «A me sembra – scrive Corrado Pensa – che la prima leva del lavoro interiore stia proprio in questa presa di coscienza. L’emergere di questa illuminata sfiducia lascia spazio all’intuizione che avere un po’ di pace vera, oltre ad essere un valore in sé, è anche l’unico modo per capire che cosa dobbiamo lasciare e che cosa dobbiamo prendere. Allora il lasciare e il prendere, cessando di essere manovre compulsive, possono gradualmente diventare espressioni di intelligenza affettuosa: prendere ciò che guarisce, lasciare ciò che nuoce», sia a noi che agli altri. «Oltre tutto, quando spunta questa intelligenza, ci rendiamo anche conto che, invece di prendere o evitare per avere pace, la pace precede, accompagna e segue l’azione. Per quanto ora immediatamente viva, ora sullo sfondo, si tratta di una nuova forma di pace, mai disperatamente assente». Andrea Schnöller

1. Pensa C., Sulla pace interiore, in La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994, p. 61-71. 2. Quoist M., A cuore aperto, Sei, Torino 1983.

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Titolo Titolo il volto femminile del francescanesimo Chiara,

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Una delle grandi novità del movimento francescano è stata quella di aver saputo superare lo steccato che sempre e tradizionalmente aveva separato il maschile dal femminile. La grande forza dirompente e la grande novità del Cristianesimo, che Francesco aveva ben capito, si esprimeva nella rottura della barriera che divideva uomo e donna, come aveva già scritto l’apostolo Paolo: “Non esiste più nè schiavo nè libero, nè uomo nè donna.” Ma nei secoli questa novità paolina si era per così dire “congelata” ed era riemersa una netta e forzata separazione fra i due sessi. Ma Chiara è la ragazza medioevale che ha superato questo steccato: Francesco e Chiara rendono possibile l’impossibile; Francesco amava la libertà, la spontaneità, la bellezza e la grandiosità del creato e se questo valeva per gli uomini certo doveva valere anche per le donne. Con una buona dose di sognante ingenuità, perché l’ingenuità fa parte del sogno, Chiara e Francesco devono aver parlato tra di loro della vita sentita come la più bella esperienza che possa capitare specie allorché si risponde alla chiamata di Dio, anche se poi hanno dovuto giocoforza in parte piegarsi ai condizionamenti del tempo (in particolare per quanto riguarda la clausura di Chiara). Ma in tal modo la donna trovava spazio come soggetto: il mondo è per la donna come per l’uomo, tutta l’esperienza è per l’uno come per l’altra. E se Francesco non avesse superato la barriera che divideva uomo e donna non lo sentiremmo così attuale. Chiara appartiene al gruppo di donne che si sentono e vogliono essere soggetto e non solo oggetto nella Chiesa e Francesco le riconosce il diritto di parità nell’esprimere l’esperienza francescana. Il sogno di Francesco era che tutti, uomini e donne, potessero vivere la stessa espe-

rienza. Il capitolo XXIII della Regola non bollata si apre a tutti, uomini e donne, per presentare lo stesso tipo di vita che egli aveva proposto ai frati: Francesco cioè riteneva possibile questo stile per tutti e quindi anche per Chiara. Egli è il grande saggio che attraverso una profonda esperienza di rapporto con gli altri e con Dio arriva a capire la vita e a superare divisioni senza senso. Egli è arrivato a questa straordinaria maturità umana attraverso il suo rapporto con Dio, certo, ma anche e soprattutto attraverso il suo rapporto con le donne. Egli ha amato le donne ed in particolare Chiara. Egli ha ascoltato Chiara: non solo quello che diceva, ma quello che lei era; ha ascoltato l’altro sesso, l’altra metà del cie-


Ottavo centenario Messaggio clariano ??? lo. E ha imparato tanto. Francesco è paziente, sa ascoltare, vuole capire: è grande non perché lascia il padre e tutti i beni del mondo, ma per la sua capacità di capire e di reimparare. E Chiara è la sua maestra. Egli non ha il timore di lasciare esprimere il femminile che porta in sè. Quando i dubbi lo assalgono egli chiede consiglio a Chiara, vuole ascoltare la voce del mondo femminile che è in Chiara: possiamo ben dire che Chiara è il volto femminile del francescanesimo. Chiara chiama sempre se stessa “Francisci plantula”, la pianticella di Francesco, in quanto si considera sempre secondaria e subordinata rispetto al Santo: ma è probabile che all’inizio del movimento francescano Chiara avesse una presenza, un’iniziativa e un’autorità che poi i poteri e i condizionamenti del tempo e anche le fonti testimoniali le hanno negato. Bisogna infatti ricordare che all’origine il movimento francescano era tutto aperto alle novità, all’avventura, fatto come era di cavalieri erranti, aperti anche alle soluzioni più radicali. E se Chiara ha espresso la volontà di condividere in toto l’esperienza di Francesco, questa doveva basarsi innanzitutto sulla assoluta necessità di superare gli steccati fra il maschile e il femminile. Ne andava della vitalità e della novità della loro scelta. E il superamento delle divisioni, degli steccati, degli schematismi, soprattutto nell’ottica della fede vissuta in modo totalizzante, deve costituire il completamento massimo della persona umana. Chiara è parte integrante di questo programma “aperto” di Francesco. Essa era di nobile famiglia, molto più istruita di Francesco che era quasi illetterato, e doveva avere una finezza d’animo che non poteva non piacere a Francesco. Nel Duecento il Dio espresso dalla cultura del tempo era un Dio prevalentemente re, signore di tutte le cose, “Pantocrator”, come vediamo stupendamente rappresentato nei mosaici normanno-bizantini di Torcello, Cefalù e Monreale. Il Dio di Francesco e Chiara è sì

sempre onnipotente e santo, ma è più bello, amabile, gioioso; è il Dio del creato splendido e meraviglioso. Dio è anche nella bellezza, nei colori, nella profondità della vita, una dimensione a cui il francescanesimo era estremamente sensibile. Chiara nelle lettere ad Agnese, principessa di Boemia, parla di Cristo come del Bello (4LAg); parla della bellezza dello sposo e dei begli ornamenti della sposa (1LAg). E nella 3LAg scrive: “Ama colui che totalmente si è dato per tuo amore, la cui bellezza sole e luna contemplano”. Attraverso il linguaggio poetico Chiara esprime ciò che la teologia accademica non può esprimere, riesce ad aprirci al suo essere, alla sua sensibilità, al suo modo di entrare in rapporto con Dio e col mondo. Si comprende in tal modo come Chiara abbia sempre visto nella Povertà un motivo di innamoramento nuziale, fino ad arrogarsi ed a pretendere con forza il “Privilegio della Povertà”. Due erano i punti a cui lei non poteva rinunciare in alcun modo: la completa povertà e l’amicizia spirituale con Francesco e coi frati minori. E in questa ottica davanti all’avventura dell’Assoluto, davanti alla bellezza della chiamata, è probabile che Chiara e Francesco abbiano dovuto accettare la clausura di San Damiano quasi per forza maggiore: purtroppo la realtà è sempre diversa dal sogno e fra tutte le sofferenze che il Santo ha patito fino alla morte penso che ci fosse anche questo sogno infranto: che uomini e donne potessero vivere cioè lo stesso tipo di vita, che quello che valeva per gli uni valesse anche per le altre. Francesco non ha mai fatto grandi discorsi o non ha scritto ponderosi trattati; la sua santità l’ha espressa in poche parole, in pochi gesti, nel suo modo di vivere. Egli è una preziosa eccezione perché ha ricomposto l’armonia del maschile e del femminile, dando largo spazio all’affettività, accettando il femminile nella sua vera natura. Sia negli scritti di Francesco che in quelli di Chiara si trovano spesso accostati i termini “padre”, “madre”, “fratello”, “sorella”: sfaccettature dell’amore compresente in ogni persona, sia essa uomo o donna. Francesco e Chiara hanno proposto un modo di vivere fraterno, che può essere incarnato ovunque. E’ la qualità della vita che cambia, sei tu che cambi. E’ questa la parola nuova e rivelatrice che Francesco e Chiara continuano a darci. E credo che una delle cose fondamentali che un francescano o una francescana devono fare è quella di recuperare e di ricomporre, come aveva fatto Francesco, l’armonia dei due sessi per sentire davvero tutti gli uomini come “fratelli” e tutte le donne come “sorelle”. Mario Corti

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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano

Abbiamo letto... abbiamo visto... IL CONCILIO VATICANO II

Edizione del cinquantesimo. Postfazione di Christoph Theobald

GAB 6900 Lugano

Bologna, EDB, 2012 In occasione del 50.mo anno dall’apertura del Vaticano II, il volume che presenta i documenti ufficiali del Concilio con testo a fronte viene proposto in edizione speciale, arricchito dalla postfazione di uno dei più importanti teologi contemporanei. Col pensiero rivolto alla generazione che non ha vissuto l’avvenimento ecclesiale, un’occasione imperdibile per riscoprire la bussola della trasmissione della fede.

Adriana Valerio

Madri del Concilio. Ventitre donne al Vaticano II Roma, Carocci editore, 2012 La Valerio traccia per ognuna delle ventitre uditrici un sintetico ma esaustivo profilo biografico; scelte secondo criteri di internazionalità e rappresentanza, esse parteciparono solamente alla terza e alla quarta sessione. La loro influenza, secondo l’autrice, si ebbe specialmente in due documenti, con la presenza alle sottocommissioni che prepararono le costituzioni sulla Chiesa e sui rapporti col mondo moderno.

Helder Camara

Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II Cinisello B., Edizioni San Paolo, 2011 Il vescovo brasiliano, durante le notti passate a Roma, scrive agli amici, rendendoli partecipi dei lavori conciliari, degli incontri con personalità, di meditazioni poetiche con forte spiritualità, di riflessioni sulla storia e sull’economia. E’ un libro sorprendente, perché informa su aspetti del Concilio che normalmente sono sfuggiti agli osservatori ed agli studiosi, e persino agli stessi Padri conciliari.


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