Metal Hammer Italia - Febbraio 2013

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Nr. 02-03/2013 - mensile Febbraio/Marzo - Euro 4,90 Sfr. 8,90

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SERVIZI TOP

Febbraio/Marzo 2013

14 STRATOVARIUS

interviste 30 SAXON 34 STEVEN WILSON 38 SOILWORK 42 HARDCORE SUPERSTAR 46 DARKTHRONE 54 NIGHTFALL 56 NEAERA 58 SUFFOCATION 60 ENFORCER 62 ANTIMATTER 64 DRAUGR 66 GABRIELE BELLINI 68 DEATH WOLF 70 ROTTING CHRIST 72 DISPERSE 74 COMPLETE FAILURE 88 THE BLACK 92 HEAVEN’S BASEMENT 98 SILVER HORSES

18 HELLOWEEN

Rubriche 4 HAMMER TO FALL 13 HAMMER ON STAGE 49 POSTER STRATOVARIUS HELLOWEEN 76 HAMMERED 80 RECENSIONI 90 SHOCK THE HAMMER 94 CULT OF THE HAMMER EL DIA DE LA BESTIA 98 ANTEPRIMA

22 GAMMA RAY 26 RAMMSTEIN

Per contattare la redazione, inviare demo e qualsiasi tipo di materiale: METAL HAMMER C/O PDC, CASELLA POSTALE 13043, 20130 MILANO METAL HAMMER 3


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"Notizie, anteprime, dichiarazioni, proclami e scoop dal mondo hard'n'heavy"

ROB ZOMBIE UN APRILE MOSTRUOSAMENTE DISUMANO enomous Rat Regeneration Vendor’: questo è il titolo dell’imminente, strampalato album del musicista cinefilo che risponde al nome di ROB ZOMBIE. Nei negozi dal prossimo 23 Aprile, il quinto capitolo solista dell’horror-maniaco nominato per ben sette volte ai Grammy Award e che tutti ricordiamo a capo dei WHITE ZOMBIE contiene il primo singolo ‘Dead City Radio and the New Gods of Super Town’ e brani come ‘Ging Gang Gong De Do Gong De Laga Raga’, ‘Lucifer Rising’, ‘Behold! The Pretty Filthy Creatures’ e una pesantissima quanto inaspettata cover dei Grand Funk Railroad, ossia l’anthemica ‘We’re an American Band’. “Credo che per la prima volta – sostiene – il nuovo album mescoli perfettamente l’epoca White Zombie con il futuro di ciò che sto facendo ora. I fan non possono che essere d’accordo sul fatto che questa sia la combinazione perfetta dei due mondi”. Icona rock e celebrato regista con una visione profonda e senza limiti, Rob Zombie ha continuamente sfidato il pubblico così come ha oltrepassato le barriere della musica, dei film e del publishing. ‘Venomous Rat Regeneration Vendorì è la prima uscita sulla sua nuova etichetta Zodiac Swan, in collaborazione con T-Boy Records/Universal Music. In qualità di musicista, Rob Zombie ha venduto oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo. L’ultimo album in studio, ‘Hellbilly Deluxe 2’, è arrivato dieci anni dopo il suo predecessore ‘Hellbilly Deluxe’, ed oggi è tre volte disco di platino. Il rocker divenuto regista è l’unico artista capace

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di ottenere un enorme successo tanto nella musica quanto nel cinema: come filmaker ha realizzato cinque film che hanno incassato oltre 100 milioni di dollari in tutto il mondo. Il mese di Aprile 2013 vedrà il suo dominio: non solo il 23 uscirà il suo nuovo album in studio, ma il 18 arriverà anche nelle sale in prima mondiale – proprio in Italia! – distribuito da Notorious Pictures, ‘Le Streghe di Salem’, il suo sesto lungometraggio. Il film narra la vicenda di Heidi, deejay di una famosa radio locale di Salem, meglio conosciuta come la città delle streghe, che riceve come regalo una scatola di legno, con all’interno un vinile. Credendo in una trovata pubblicitaria di un nuovo gruppo musicale, la ragazza ascolta i suoni che provengono dal disco e presto ne viene condizionata, perdendo progressivamente il contatto con la realtà. Sta diventando pazza o le streghe di Salem stanno per tornare? Nel cast figurano la moglie Sheri Moon Zombie, Meg Foster (gli occhi più chiari e inquietanti del cinema, secondo noi, Ndr), Torsten Voges, Ernest Thomas, Bruce Dern, Billy Drago, Jeffrey Daniel Phillips, Dee Wallace-Stone. Lo scorso anno, oltre a lavorare sul film, Zombie è stato impegnato dal vivo in tutto il mondo prima con i Megadeth, poi con Marilyn Manson nel ‘Twins of Evil Tour’. Zombie e i suoi compagni – John 5 alla chitarra, Piggy D al basso e il batterista Ginger Fish – hanno portato in giro per globo terracqueo il loro elaborato set, con una produzione multimediale, robot animati, schermi giganti al LED e luci spettacolari.


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MEGADETH I MEGADETH sono attualmente in studio a San Diego, impegnati nella lavorazione del loro quattordicesimo album, intitolato ‘Super Collider’. Mustaine, il bassista Dave Ellefson, il batterista Shawn Drover e il chitarrista Chris Broderick prevedono di pubblicarlo a Giugno, come primo prodotto della

vare! Siamo elettrizzati all’idea di che cosa ci riservi il futuro. Abbiamo lavorato con alcune grandiose persone nel corso degli anni, ed è incredibile vedere così tanti di loro nella squadra Universal per il nostro nuovo disco. Se i Megadeth, poi, non sono sufficienti, aspettate di vedere che cosa la mia nuova etichetta Tradecraft riserverà alle band metal di tutto il mondo”. Con una ritrovata energia all’interno della band, Mustaine è impaziente di tornare on the road, dopo aver festeggiato il 20° anniversario del best-seller ‘Countdown to Extinction’. Stando a una dichiarazione del bassista David Ellefson, ‘Super Collider’ “suona piuttosto simile a ‘Killing Is My Business…and Business Is Good!’, esordio della band, anche se MegaDave non lo ritiene così tirato. In compenso, sta chiedendo via Facebook consigli ai fan circa un cantante ospite per il nuovo album: “Qualche idea per un cantante ospite su un pezzo? Ho qualche idea ma voglio sapere voi che pensate”. Mustaine ha infine aggiunto: “Shawn, Chris e Da -

nuova etichetta di Mustaine, Tradecraft, in partnership con la UMe (Universal Music Enterprises). “È stata una vera emozione per noi apprendere di poter collaborare con questo colos so”, ha dichiarato Mustaine durante una pausa delle sessioni di registrazione. “Sembra che tutte le grandi band e i più bei video siano su un’etichetta Universal, che è di gran lunga la casa più eccitante e prestigiosa che i Megadeth potessero tro-

vid hanno febbrilmente contribuito a creare grande musica e credo che stiamo facendo il nostro lavoro migliore di sempre in questo momento in studio!” Gli fa eco il Presidente della UMe, Bruce Resnikoff: “I Megadeth non sono solo una della band di maggior successo nel metal, ma anche una delle più influenti band rock degli ultimi trent’anni”, ha dichiarato. “Continuano a radunare i loro vecchi fan e non mancano di farsene di nuovi. Non vedo l’ora di lavorare con loro”. Il disco è prodotto da Johnny K, che ha lavorato con band quali DISTURBED, SEVENDUST, MACHINE HEAD e STAIND, ed uscirà nel corso del 2013.

IN ROTTA DI COLLISIONE

KOLDBRANN ARROGANZA E DEPRAVAZIONE ‘Vertigo’, il terzo full-length dei KOL DBRANN, uno dei pochi gruppi black metal norvegesi che ancora possono definirsi “true”, ai è piazzato alla 20esima posizione nelle charts della madre patria. Ancora prima di ghermire questo inaspettato exploit, lo scorso Novembre il quintetto ha rilasciato un sette pollici (nella più fiera tradizione underground) per il singolo ‘Totalt Sjelelig Bankerott’, disponibile anche su piattaforma digitale. Il sette pollici è limitato a sole 300 copie, ma qualcuna è ancora disponibile; contiene inoltre l’esclusiva B-side ‘Kasjtjeijs Svøpe’. L’ondata di moderato successo che sta investendo Mannevond e soci è attribuibile al deal con la Season Of Mist, per la quale i Koldbrann hanno firmato prima di imbarcarsi nella registrazione di ‘Vertigo’. “Grazie alla label francese anche i nostri ormai introvabili primi due album, ‘Nekrotisk Inkvisition’ e ‘Moribund’, nonché l’Ep ‘Stig ma: På Kant Med Livet’, stanno per essere ristampati”, ha confidato un entusiasta Mannevond, leader della formazione. Che aggiunge: “In qualità di uno dei leader del la blasfemia sonora, posso dire che io e la mia band siamo fiduciosi nel loro operato, affinchè comprendano il nostro bisogno di diffondere il vangelo dell’oppressione. Vi abbiamo lasciato aspettare, ne siamo consapevoli. Ma in quel mentre, dalla nostra cantina hanno preso vita il nostro lavoro più arrogante e depravato. ‘Vertigo’ è tutto questo”.

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KVELERTAK UNA BOMBA DA INFARTO Pompano adrenalina, i norvegesi KVELERTAK. E di questo se ne sono accorti anche i responsabili della Roadrunner, che a breve immetteranno sul mercato ‘Meir’, come-back del sestetto di Stavanger dopo leponimo debutto del 2010. Dave Rath, vice presidente della label, è entusiasta: “Ogni decade, l’hard rock e l’heavy metal sputano fuori una vera band che sa prendere a calci nel fondoschiena tutto ciò che incontra. Questi ragazzi ricordano come dovrebbe essere la musica rock. Cioè enrgica, sfrontata e acuta. Siamo orgogliosi di poter lavorare con loro”. Prodotti da Kurt Ballou dei CONVERGE, i rockers scandinavi hanno collezionato ottime critiche seguite all’uscita del singolo apripista ‘Bruane Brenn’ (disponibile dal 5 Febbraio), definito come “un olocausto di riff, adrenalina, voracità da sta dio e assoli di chitarra, che in quattro minuti conden sano cinque decadi di rock’n’roll e la sparano in orbi ta con la velocità di un proiettile”. ‘Meir’ significa “di più” e “ancora”; alquanto indicativo dell’effetto che dovrebbe procurare all’appassionato, stritolato dal caos ragionato di ‘Nekrokosmos’ e immerso nelle chitarre frantumatrici di ‘Evig Vandrar’. Tra ritmiche stratificate, ganci melodici innovativi e melodie che s’insediano nella coscienza, ‘Meir’ è un album che sorprende in continuazione. “E’ sia orecchiabile che heavy”, commenta il cantante Erlend Hjelvik, “davanti a noi avevamo entrambi questi spettri, e il nostro scopo è stato di spingerci oltre i nostri precedenti limiti, in entrambe le direzioni. Non assomiglia a nulla che abbia ascoltato prima d’ora in vita mia…siamo stati noi i primi a restarne sopresi”. Chiamati personalmente dai MASTODON per supportarli nelle date norvegesi, richiesti dai promoter dei maggiori festival europei, per i Kvelertak la carriera è sulla rampa di lancio.

BODY OF ART FOUNDATION E BENEFICENZA UNITI CONTRO IL MALE Il cantante dei FEAR FACTORY, Burton C. Bell, è entrato a far parte della schiera di artisti che supportano la BODY OF ART FOUNDATION, fondazione che attraverso foto artistiche di personaggi famosi raccoglie fondi per la ricerca sul cancro. Corey Taylor (SLIPKNOT, STONE SOUR), Chris Adler (LAMB OF GOD), Barry Kerch (SHINEDOWN) e gli HALESTORM al gran completo hanno già aderito. Sempre in tema di intenti nobili, il 5 Febbraio è stato lanciato su iTunes il singolo ‘The Pride’. Il progetto è a carico di alcuni artisti della scena metal: Zakk Wylde e John ‘JD’ DeServio (BLACK LABEL SOCIETY), Morgan Rose (SEVENDUST), Kevin Martin (CANDLEBOX) e membri dei THE INFINITE STAIRCASE. Il ricavato sarà devoluto alla Carl V. Bini Memorial Foundation, la quale si occupa di raccogliere fondi per le vittime dall’uragano Sandy.

ALICE IN CHAINS UN QUIZ PER GLI ENIGMISTI Gli ALICE IN CHAINS hanno rivelato il titolo del nuovo album, appar-

so sul sito ufficiale della band e sui vari social network. Fin qui, nulla di speciale. La notizia sta nella sfida che la band ha lanciato verso i propri fan. Infatti, del titolo, sono state fornite a casaccio soltanto le lettere che lo comporranno. L’unico aiuto sembra dato dalla frase ‘Decode The Past To Reveal The Future’, ovvero ‘decifra il passato per rivelare il futuro’. I fan possono provare a postare i loro risultati sull’account instagram del gruppo. Ovviamente chi riuscirà a risolvere lo strampalato rebus privo di immagini verrà ricompensato con un’amichevole pacca sulla spalla…


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GHOST (B.C.) TERRIBILE INFESTAZIONE Misteriosi e dall’aspetto terribilmente pestilenziale, gli svedesi GHOST dovranno pubblicare il loro secondo, atteso album sotto il nome GHOST B.C. La modifica si è resa necessaria a causa di ragioni legali e di copyright partite dagli Stati Uniti all’inizio dell’anno. Si apre così la seconda fase della compagine svedese dedita ad un heavy che soffoca nei miasmi dello zolfo. Non soltanto cambia il moniker, ma anche il frontman: a Papa Emeritus è subentrato Papa Emeritus II, che da qualche mese capeggia il resto della band, formata dai cinque Nameless Ghouls che da sempre tengono celata la propria identità a chiunque. Uno di questi, ha così risposto in merito alla sottile differenza tra essere macherati ed essere anonimi. “Gli SLIPKNOT mantengono celati tutti i tratti somatici di es sere umani, mentre i KISS li camuffano sono uno spesso trucco. E’ anche un segno di pendente dal tempo. Ai tempi dei Kiss si andava controcorrente mascherandosi con del make-up dello pesante, in contrasto con la voglia di farsi conoscere. Oggi, invece, in cui ogni essere umano mette alla berlina il proprio nome, il proprio volto e le proprie espe rienze giornaliere, l’unica antitesi è l’essere anonimi nella forma più assoluta e totaliz zante. Di noi infatti non conoscerete mai i nostri veri volti, né i nomi registrati all’ana grafe. Esibirci con questi sai e con i cappucci che aggiungono mistero al mistero, più che a eliminare l’aspetto umano (come molti sostengono), tende a eliminare l’aspetto umanizzante di noi. L’unica persona che appare come tale e noi riteniamo come tale è Papa Emeritus. Difatti è l’unico con una parvenza umana, seppur putrefatta. Lui è la persona, noi cinque siamo soltanto dei burattini”. Il primo Papa Emeritus è stato messo a riposo durante un cerimoniale su palco tenuto agli inizi di questo Febbraio tenuto a Linköping, nella patria Svezia, poco prima che venisse introdotto il suo successore al trono nero (anche se alcune illazioni vorrebbero entrambi i characters intepretati da Tobias Forse, già nei REPUGNANT e nei SUBDIVISION). Sia quel che sia, i GHOST B.C. pubblicheranno ‘Infestissumam’ il prossimo 9 Aprile, in anticipo di due mesi sul primo rituale che Papa Emeritus II e i suoi Nameless Ghouls terranno il in Italia, ossia sabato 8 Giugno al Sonisphere Festival di Milano, sito nell’Arena Fiera di Rho, Milano. Accusati di simpatie sataniche (sintomo che la gente non ha nulla di meglio da pensare, e se pensa, è solita arrestarsi all’apparenza), uno dei membri ja dichiarato: “Per ciò che concerne le nostre credenze religiose, amiamo solleticare l’immaginazione dell’ascoltatore affinché egli possa diventare un devoto destinato a bruciare all’Inferno. Oppure un sagace parteci pante al culto del demonio…ma soltanto per un’ora o due. Questa è l’esperienza che offriamo!”

NEWSTED METAL, PURO E SEMPLICE Con i METALLICA che si trastullano nella loro rinata celebrità e milioni di dollari, c’è un ex di lusso che pensa unicamente a realizzare musica diretta e molto più creativa. L’ex è Jason Newsted, colui che dal ‘86 al 2001 ha occupato il ruolo di bassista nel posto lasciato vacante dal compianto Cliff Burton. Dopo aver favoleggiato un ritorno nei thrashers FLOTSAM AND JETSAM (concretizzatosi solo in termini di songwriting), un album nel super gruppo mediatico dei ROCK STAR SUPERNOVA e una parentesi lunga tre torvi album nei piccoli ma invincibili VOIVOD, Jason ha fondato il suo gruppo, chiamati con un pizzico di egocentrismo NEWSTED, composto dal batterista Jesus Mendez Jr. e il chitarrista Jessie Farnsworth. L’Ep di debutto, l’eloquente ‘Metal’, contiene 4 canzoni, è stato pubblicato lo scorso Gennaio e, fortunatamente per lui, non c’è moltissimo del suo passato nei Four Horsemen di Frisco: tanto PRONG e VOIVOD, oltra a qualche richiamo agli OVERKILL. E in tema di passato, impossibile esimersi dal sapere le sue opinioni e punti di vista su quanto vissuto con i Metallica. Per chiunque lo ignorasse, lo split di Jason con gli autori di ‘Master Of Puppets’ “ha avuto luogo per più ragioni”, come ha confidato egli stesso nel programma radio di Nikki Sixx (MÖTLEY CRÜE/SIXX: A.M.). “Inizialmente mi ero stancato della direzione che quei tre hanno intrapreso dopo il ‘black album’, poi sentivo che in mezzo ai troppi soldi che circolavano si stava perdendo il senso pratico della musica, senza contare che noi quattro passavamo più tempo a litigare e a farneticare di retorica piuttosto che dedicarci ad essa. Inoltre, dovevo per forza darmi una regolata sul piano fisico: tanti anni di heabganging sul palco, ogni sera, avevano lasciato il segno sulla stabilità del mio collo”. Jason non cova vendette, né risentimenti nei riguardi dei suoi ex compari, rei spesso di comportamenti infantili e di pessimo gusto nei riguardi del bassista che non ha alcuna colpa della morte del loro grande amico Cliff Burton. Ricordiamo che l’ultima parentesi di Newsted coi Metallica si è consumata nella prima settimana del Dicembre 2011, al fine di celebrare i 30 anni di attività della band che effettivamente lo ha lanciato nel firmamento degli intoccabili. ‘Metal’ è già finito nei piani bassi di Billboard (niente male, per un Ep di 22 minuti) e, nella parole di Jason, “è un trinomio inscindibile di musica in senso lato, metal di fondo e pesantezza che farà scricchiolare le ginocchia”. Quest’uomo sembra finalmente pronto a mettersi in proprio per pubblicare musica solida e aggressiva, senza ancorarsi ad un passatismo demagogico.

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CAYNE ARRIVEDERCI, CLAUDIO Un altro musicista ci ha lasciati prima del tempo. Si tratta di Claudio Leo,chitarrista dei CAYNE ed ex membro dei LACUNA COIL, di cui è stato fondatore. Se n’è andato, stroncato da un male incurabile, il 16 Gennaio, qualche mese dopo aver compiuto 40 anni. I Cayne, stretti nel dolore, lo salutano così: “Ciao Claudio, riposa in pace e porta la tua musica in cielo. Qui in terra i Cayne continueranno a suonare le tue can zoni ovunque, e vi vrai per sempre grazie a loro. Riposa in pace, fratello”. Pochi giorni prima, i Cayne avevano annunciato che Claudio, per motivi di salute, non avrebbe potuto partecipare alla presentazione del nuovo disco della band, programmata il 26 dello stesso mese. Per volontà di Claudio, la sua band ha deciso ugualmente di salire sul palco, in modo tale da poter dare forma al progetto collettivo. Cristina Scabbia, cantante dei Lacuna Coil, è stata la più attiva nell’esporre i suoi messaggi tramite Facebook; e il giorno della scomparsa ha condiviso una foto scattata ad un concerto, con il commento “onore e rispetto ad un uomo meraviglioso che rimarra comunque sempre con noi. Riposa in pace, Claudio”. Lo sfortunato musicista non ha potuto vedere la pubblicazione del nuovo, eponimo disco dei Cayne, uscito il 14 Febbraio. Con la band, fondata da lui e Raffaele Zagaria dopo essere usciti dai Lacuna Coil, ha anche registrato un disco nel 2001 e un EP risalente al 2011. Dei Lacuna Coil ha fatto parte dal 1994 al 1997, quando ancora si chiamavano Sleep Of Right, e ha registrato il primo EP, uscito nel 1998. RIP.

THE DILLINGER ESCAPE PLAN GREG PUCIATO E UN PROGETTO TOP SECRET Il frontman dei THE DILLINGER ESCAPE PLAN, Greg Puciato, ha dichiarato di avere pronti 11 nuovi pezzi per il suo nuovo side-project, di cui al momento sappiamo pochissimo. Pare che siano coinvolti musicisti piuttosto noti della scena me-

tal internazionale: la line-up infatti può vantare MAX CAVALERA (ex-SEPULTURA, CAVALERA CONSPIRACY, SOULFLY), Dave Elitch (ex-THE MARS VOLTA) e Troy Sanders dei MASTODON. Per ora il super-gruppo è in attesa di valutare quando e dove cominciare le registrazioni. Max Cavalera ha dichiarato a sua volta che il progetto sarà molto originale, anche per via dell’inclusione di ben tre cantanti in line-up. La proposta potrebbe calcare le orme dei NAILBOMB dello stesso Cavalera e potrebbe ricordare i TRANSPLANTS (punk-rapper ideati dalla mente di Tim Armstrong dei RANCID, ndr) in salsa metal.


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GIANNI DELLA CIOPPA VA PENSIERO (Crac Edizioni – 385 pagine) Instancabile e quantomeno vulcanico, Gianni Della Cioppa conta un’esperienza trentennale nel giornalismo riservato alle sette note. Soltanto lui poteva raggruppare quasi 400 pagine dedicate alle miriadi di realtà di ieri e di oggi che continuano orgogliosamente a suonare rock e metal italiano…cantandolo ancor più orgogliosamente nella nostra lingua madre. Per molti lettori dell’ultima ora, potrebbe trattarsi di un ossimoro. “Eppure – garantisce Della Cioppa – in trent’anni di storia tricolore tante cose sono state fatte e scritte. Tanta buona musica è stata suonata”. La frase d’apertura, pescata da ‘Musica Ribelle’ di Eugenio Finardi (uno che, nel caso non lo sapeste, non manca mai ai concerti milanesi dei guitar-hero dell’hard’n’heavy, ndr), recita testuale: “Qui da noi, in fondo, la musica non è male, quello che non reggo sono solo le parole”. Nessun’altro verso avrebbe saputo cogliere meglio il cruccio della scena italiana, penalizzata da una lingua vocalica, non consonantica, quindi apparentemente poco adatta ad una fruizione fluida, specialmente se inserita nell’idioma universale del rock/metal. Tuttavia, ‘Va Pensiero’ esiste anche per smentire questo luogo comune. “Il rock (decidete voi cosa vuol dire) è una musica che nasce altrove, è un suono che non ci appartiene, e che parla in inglese. Ma qualcosa che possa somigliare ad una scena ‘rock italiana’ si è costruita grazie a nomi che conosciamo tutti, e che hanno dato vita ad una sot tovalutata rivoluzione”. Ossia i CCCP, Litfiba, Timoria, Ritmo Tribale e Karma, meritevoli di stima per aver aperto la strada a centinaia di altre entità, band minori, meno conosciute ma ugualmente importanti. Senza alcuna pretesa critica (solo qualche valutazione, concessa ai più), l’intento di Gianni, coadiuvato da Walter Bastianel e Marco Priulla, può dirsi felicemente realizzato: soltanto in ‘Va Pensiero’

BLACK SABBATH E IN FINE ARRIVERA’ IL TREDICESIMO APOSTOLO

scoprirete la sterminata (ebbene sì) mappatura delle band che hanno accantonato l’esterofilia in favore di una forma artistica di patriottismo. E senza mai abbandonare i viottoli del rock e del metal, tra schede dettagliate, testi e discografie esaurienti, vi compaiono pure ampi spazi assegnati ai gruppi di confine (pop, indie, cantautori e al femminile), ai gruppi dialettali, alle “anomalie”, alle trasmissioni televisive, alle etichette specializzate e, dulcis in fundo, a interviste mirate a musicisti, giornalisti e operatori del settore. Difficilissimo trovare delle lacune. Certosinità a pieni voti! E non è finita qui…

Riprendiamo con la consueta razione di news relative agli ormai impossibili BLACK SABBATH. Ebbene: prima news, la più succulenta. Il nuovo album registrato dai magnifici tre – Osbourne, Iommi e Butler, of course – si chiamerà ‘13’, “a meno che non si trovi nel frattempo un nome più costruttivo”. Ad affermare ciò è Geezer Butler, che ha inoltre dichiarato che durante la prima metà di questo mese di Febbraio l’album è stato missato, in vista della pubblicazione orientata verso Giugno. Il batterista che ha sostituito Bill Ward è stato (stranamente) Brad Wilk dei RAGE AGAINST THE MACHINE. Seconda news. Ozzy Osbourne, in una recente intervista a RollingStone.com, non ha trovato di meglio che definire il sound del disco come “satanic blues”. Alcuni presunti titoli dei nuovi brani sono ‘End Of The Beginning’, ‘Age Of Reason’ e ‘God Is Dead’. Il veterano Rick Rubin, produttore, ha invece dichiarato di volere “un album in linea con i primi quattro. Il primo non era propriamente heavy metal. Potevi ascoltare in fluenze jazz sul disco, quindi l’obiettivo era quello. E allo stesso tempo cattura re quel sound live”. Terza news, della quale vi fregherà poco: la graziosa cantante svedese Lisa Ljungberg ha avuto il coraggio di registrare una versione pop di ‘Air Dance’, brano apparso nello spento ‘Never Say Die’ del 1978. Noi ci asteniamo da commenti. Se volete ridere, affidatevi a YouTube…


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CULT OF LUNA E’ l’ultimo brano del nuovo ‘Vertikal’, ma si tratta del primo videoclip. Stiamo parlando di ‘Passing Through’, degli “art rockers” svedesi CULT OF LUNA, che

ponente manicomio. “Un luogo macabro e sinistro, dove i degenti venivano abitualmente castrati e lobotomizzati”, ha precisato il regista Markus Lundqvist. Il brano è cantato da Fredrik Kihlberg, chitarrista, ed è proprio lui che ha chiosato sull’essenza ideologica che permea non solo il pezzo in questione, ma l’intero album. “Quando ci siamo decisi a scrivere del novo materiale abbiamo parlato a lungo della direzione da seguire. Io però non riuscivo a levarmi dalla testa il concetto del tempo che divora tutto quello che incontra. Avevo una frase, ‘time is passing me by’, che mi tormentava. Sapevo che avrei dovuto esorcizzarla. E’ una frase sem-

per l’occasione si sono visti costretti a ‘mimare’ una performance a temperature polari, all’interno di quello che fino agli inizi degli anni 60 era il più im-

plice, ma anche potente, simbotica di un feeling immenso, che comprime. Così è anche l’album: bellissimi, ma allo stesso tempo anche molto intimidatorio”.

LIMITE VERTICALE

MAYHEM ORDINE DAL SILENZIO Necrobutcher, bassista dei norvegesi MAYHEM, durante il festival-crociera ‘Barge To Hell’ tenuto sulle acque americane, ha approfittato di un’intervista per parlare del nuovo album del gruppo. “Siamo nel mezzo della fase di pre-produzione”, ha Abbiamo fatto recentemente una sessione di lavoro a spiegato. “A Budapest, città di Attila Csihar (allucinato frontmanm ndr).. Sia mo stati lì per tre settimane dove abbiamo tenuto anche uno show per finanziare le spese in studio. Tutto è andato molto be ne. Ora quindi avremo presto una nuova sessione in Norvegia dove finiremo le canzoni e poi, quando saremo pronti, andre mo a registrarle. Siamo quindi in dirittura d’arrivo per questo nuovo lavoro, a ben sei anni di distanza dal precedente”. Che è stato il ben recensito ‘Ordo Ad Chao’.


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MÖTLEY CRÜE LENTI, RIGOROSI, CON I PASSI DI PIOMBO Regna il caos sulle prossime mosse in programma per i quattro, debosciati componenti dei MÖTLEY CRÜE. Il cantante Vince Neil sostiene che nel futuro dei quattro rockers “non ci sarà nes sun nuovo album. La gente non compra più gli album. So che forse tre, quattro o al massimo cinque pezzi salteranno fuori per un’uscita che abbineremo al singolo che abbiamo pubblicato la scorsa estate (l’eloquente ‘Sex’, ndr),, ma sarà una cosa tipo EP, non un album. I singoli sì che vengono acquistati. Siccome il nostro calendario prevede parecchi show, qualsiasi prodotto uscirebbe probabilmente per l’inizio del 2014”. Il bassista Nikki Sixx, d’altro canto, non ha nascosto alcune perplessità circa il futuro della sua band. “Non abbiamo mai nascosto di conside rare l’ipotesi di un tour d’addio nel breve termine. Non è che ci odiamo o che non lavoriamo be ne assieme. E’ solo che vogliamo lasciare le scene nel modo giusto. Vedo delle band che continuano fot tutamente a frustare un cavallo morto e penso ‘ragazzi, non vedete che è morto?’. Siamo in uno dei no stri momenti migliori di sempre, e voglio arrivare ancora più in alto finendo il nostro film, il nuovo al bum e magari facendo un tour d’addio”.

MELVINS IN FONDO…TUTTI AMANO LE SALSICCE Gli stoner-Gods statunitensi, capeggiati dal riccioluto, corpulento e brizzolato Buzz Osbourne, sono in procinto di rientrare sul mercato con un album di cover – 13, per l’esattezza – dal titolo sottilmente osè, ‘Everybody Loves Sausages’, per conto della Ipepac Recordings. “E’ un modo come un altro per introdurre i nostri fan alla musica che più ci ha influenzati”, sostiene Buzz. “Amiamo le canzoni scelte per questo disco, ma amiamo soprattutto le band che le hanno composte. Credeteci, e non fermatevi alle apparenze”. La selezione dei brani, siamo sicuri, stupirà molti degli estima-

tori che i MELVINS hanno radunato in oltre 25 anni di attività. Questa raccolta, coincidentalmente, rappresenta l’uscita numero 20 per il terzetto (oggi quartetto) che da solo ha inventato lo sludge. Coinvolti in misura marginale nello sforzo in studio anche Mark Arm dei MUDHONEY e Scott Kelly dei NEUROSIS. Non mancano alcune canzoni registrate in precedenza con la formazione a tre, formata da Osbourne, Dale Crover e il dimissionario Trevor Dunn… Ecco la tracklist, con gli autori originali nelle parentesi: ‘Warhead’ (Venom), ‘Best Friend’ (Queen), ‘Black Betty’ (Ram Jam), ‘Set It On Fire’ (The Scientists), ‘Station To Station’ (David Bowie), ‘Attitude’ (The Kinks), ‘Female Trouble’ (Divine a.k.a. John Waters), ‘Carpe Diem’ (The Fugs), ‘Timothy Leary Lives’ (Pop-O-Pies), ‘In Every Dream Home A Heartache’ (Roxy Music), ‘Romance’ (Tales of Terror), ‘Art School’ (The Jam), ‘Heathen Earth’ (Throbbing Gristle).

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COREY, YNGWIE E PETER PECCAMINOSI ED ESTROVERSI S’intitola ‘I Sette Peccati Capitali’, l’autobiografia di COREY TAYLOR, frontman delle celebri band nu-metal SLIPKNOT e STONE SOUR, che si racconta ai fan e condivide la sua visione della vita da peccatore. E Taylor è certamente uno che sa come peccare. Partito come un eroe di provincia all’alba degli anni Novanta, si è gettato in una dissoluta esistenza di bevute pesanti e amori violenti, all’insegna del motto ‘cogli l’attimo!’ Quando poi la sua musica è esplosa, si è ritrovato ricco, desiderato e costantemente on the road. Ma ben presto il suo stile di vita estremo lo ha portato a interrogarsi sul significato e sulle conseguenze del peccato, e se questo possa o debba essere considerato sotto una luce differente. Dopotutto, se il peccato ci rende umani, perché dovrebbe essere sbagliato? Il libro è uno sguardo brutalmente onesto, rivolto a “una vita che avrebbe potuto prendere una direzione orribile a ogni svolta”. Ed è una seria, profonda, ma anche divertente riflessione sulla ricerca e la scoperta, necessarie a rimettere tutte le cose a posto. Disponibili invece in lingua originale altre due biografie che vi consigliamo di non lasciarvi sfuggire. La prima, scritta da YNGWIE MALMSTEEN con l’aiuto ovvio di un ghost writer 21 vedrà la luce il 21 Maggio e s’intitola ‘Relentless: The Memoir’ il Wiley. L’artista ripercorre la sua carriera, il suo stile e il suo modo di comporre. ‘Soul On Fire – The Peter Steele Biography’, è il lascito su carta (previsto in Ottobre) del cantante dei TYPE O NEGATIVE, PETER STEELE, morto all’età di 48 anni nel 2010. Il libro è stato curato dal giornalista Jeff Wagner, e ha lo scopo di fornire il miglior ritratto possibile della vita e della musica di Peter, basandosi sulle testimonianze di musicisti a lui vicini, famiglia e amici.

BLACK FLAG PECCAMINOSI ED ESTROVERSI I leggendari BLACK FLAG, orfani però del cantante/urlatore/intrattenitore/ mattatore Henry Rollins, si sono riformati. Come prima uscita suoneranno al Ruhrpott Rodeo di Hünxe, Germania, il 18 Maggio; seguirà l’apparizione all’Hevy Fest, festival indipendente che si terrà dal 2 al 4 Agosto (data della loro performance) al Port Lympne Wild Animal Park nel Kent, Regno Unito. Non soddisfatti di aver lasciato senza parole frotte di punkettoni vecchi e giovani, il quartetto californiano di Hermosa Beach – composta dal singer Ron Reyes, dal chitarrista e membro fondatore Greg Ginn, dal bassista Chuck Dukowski e dal batterista Roberto ‘Robo’ Valverde – ha fatto sapere di essere al lavoro su un nuovo album di inediti, di cui ancora non si conosce il nome, né la data di pubblicazione. Il settimo sforzo in studio seguirà di ben 28 anni il precedente ‘In My Head’.

VOLBEAT CAGGIANO IN PIANTA STABILE Dagli ANTHRAX ai VOLBEAT. Puzza tanto di mossa suicida, quella attuata da Rob Caggiano, italo-americano che dopo una lunga militanza nei thrash-moshers newyorkesi ha deciso di mettere la parola fine alla sua collaborazione a tempo pieno. Lo split è avvenuto in maniera del tutto amichevole, ma nelle parole di Rob si intuisce che non è stata una decisione facile. “Il mio cuore mi porta in un’altra direzione e io ho sempre voluto decidere con il cuore. E’ probabilmente la scelta più sofferta che abbia mai dovuto prendere, ma credo che sia quella giusta, in questo mo mento. Sono estremamente felice di quanto fatto con gli Anthrax,, e i ra gazzi del gruppo saranno sempre la mia famiglia. Non cambierei una vir gola degli uiltimi 12 anni trascorsi con loro”. Caggiano, almeno inizialmente, voleva concentrarsi solo sul mestiere di produttore. Coinvolto dai danesi Volbeat, ha finito per diventarne il nuovo chitarrista. “La collabora zione con Rob in studio è stata fonte d’ispirazione tale che abbiamo deci so di tenerlo”, ha rivelato il cantante e leader Michael Poulsen, “fondamentalmente siamo entrati in studio come trio e siamo usciti come band!” Ecco invece la dichiarazione di Rob in merito: “sono rimasto a bocca aper ta, quando me lo hanno proposto. Devo anche dire che non ci ho messo molto a decidere. Questa seriamente non era l’idea che avevo su come avrei trascorso il 2013, ma per me va ovviamente meglio di qualsiasi altra cosa avessi potuto immaginare!”

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HAMMER ON STAGE AGALLOCH 16 maggio Roma, Traffic Club 17 maggio Travagliato (BS), Circo Colony Per Info: Eye Carver (eyecarver@gmail.com) AIRBOURNE 19 giugno Roma, Orion Live Club 20 giungo Cesena (FC), Vidia Rock Club Per Info: Live Nation (www.livenation.it) AMENRA 27 aprile Misano Adriatico (RN), Boulevard 28 aprile Roma, Traffic Club 29 aprile Milano, Lo-Fi Club Per Info: Hard Staff (www.hard-staff.com) ANTIMATTER 24 marzo Milano, Blueshouse 26 marzo Bologna, Freakout Club 27 marzo Roma, Traffic Live Club 28 marzo Collegno (TO), Padiglione 14 Per Info: siti Web dei locali AVANTASIA 16 aprile Milano, Alcatraz Per Info: Live Nation (www.livenation.it) BAD RELIGION 18 giugno Milano, Alcatraz 19 giugno Bologna, Estragon Per Info: Live Nation (www.livenation.it) BLACK CROWES 03 luglio Vigevano (PV), Castello Sforzesco – Dieci Giorni Suonati (+ guest) 04 luglio Pistoia, Piazza Duomo – Pistoia Blues Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) BLACK VEIL BRIDES 11 aprile Milano, Factory 12 aprile Roma, Init Club 13 aprile Cesena, Vidia Rock Club Per Info: Live Nation (www.livenation.it) BON JOVI 29 giugno Milano, Stadio Meazza Per Info: Live Nation (www.livenation.it) CRASHDIET 16 maggio Roma, Orion Live Club 17 maggio Milano, Factory 18 maggio Pinarella di Cervia (RA), Rockplanet Club Per Info: Live Nation (www.livenation.it) CRYPTOPSY + Cattle Decapitation + Decrepit Birth + Eyeconoclast 19 aprile Pistoia, Melos Club 20 aprile Romagnano Sesia (NO), Rock N Roll Arena

Per Info: Nihil Productions (www.nihilprod.com) CULT OF LUNA + The Ocean + Lo! 23 aprile Mezzago (MB), Bloom 24 aprile Roma, Traffic Club 25 aprile Misano Adriatico (RN), Boulevard Rock Club Per Info: Hard Staff (www.hard-staff.com) DEAD CAN DANCE 02 giugno Firenze, Fiesole – Teatro Romano 05 giugno Roma, Auditorium Conciliazione 06 giugno Padova, Gran Teatro Geox Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) DEEP PURPLE 21 luglio Vigevano (PV), Castello 22 luglio Roma, Rock In Roma 24 luglio Majano (UD), Festival, Piazza Italia Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) EVERY TIME I DIE 24 giugno Romagnano Sesia (NO), Rock N Roll Arena Per Info: Hellfire (www.hellfirebooking.com) GODFLESH + guest 22 marzo Bologna, Locomotiv 23 marzo Mezzago (MB), Bloom Per Info: Hard Staff (www.hard-staff.com) IGGY POP + guest 04 luglio Roma, Ippodromo Capannelle 11 luglio Milano, Ippodromo S. Siro Per Info: Live Nation (www.livenation.it) LA NOTTE DEL DISAGIO: Buffalo Grillz + Bastard Saints + Hateful + Lucerhate 26 aprile Bresso (MI), Blue Rose Salloon Per Info: Nee Cee Agency (www.neeceeagency.com) JEFF SCOTT SOTO + Thunderage + guests 29 aprile Bresso (MI), Blue Rose Saloon Per Info: bluerosesaloon@live.it JOE SATRIANI 26 maggio Rimini, Velvet Rock Club 28 maggio Napoli, Palapartenope 29 maggio Roma, Atlantico Live 30 maggio Trezzo sull’Adda (MI), Live Club 31 maggio Padova, Gran Teatro Geox 01 giugno Firenze, Obihall Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) KILLSWITCH ENGAGE 25 aprile Milano, Magazzini Generali Per Info: Live Nation (www.livenation.it)

KISS 17 giugno Codroipo (UD), Villa Manin 18 giugno Assago (MI), Mediolanum Forum Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) KORN + Bullet From My Valentine + Love & Death 24 giugno Milano, Ippodromo San Siro 25 giugno Roma, Ippodromo Capannelle 26 giugno Padova, Gran Teatro Per Info: Live Nation (www.livenation.it) LONG DISTANCE CALLING + SOLSTAFIR + SAHG 11 marzo Milano, Lo-Fi Per Info: Hard Staff (www.hard-staff.com) LORDI 18 aprile Bologna, Circolo ARCI ZR (zona Roveri) 19 aprile Roma, Orion Live Club 20 aprile Roncade (TV), New Age 21 aprile Milano, Alcatraz Per Info: Live Nation (www.livenation.it) MESHUGGAH 30 aprile Roncade (TV), New Age Club Per Info: Live Nation (www.livenation.it) MOTÖRHEAD + special guest 19 luglio Vigevano (PV), Castello Sforzesco Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com) NECRODEATH + special guest 26 aprile Roma, Traffic Club 27 aprile Sestri Ponente (GE), Angelo Azzurro (+ Mastercastle) Per Info: www.necrodeath.net PAIN OF SALVATION + Anneke Van Giersbergen + Arstidir 10 aprile Bologna, Estragon 11 aprile Roma, Orion Live Club 12 aprile Milano, Magazzini Generali Per Info: Live Nation (www.livenation.it) PAUL GILBERT 06 aprile Trieste, Teatro Miela 08 aprile Roma, Orion Live Club 09 aprile Firenze, Viper Theatre 10 aprile Romagnano Sesia (NO), Rock N Roll Arena Per Info: Live Nation (www.livenation.it) PINO SCOTTO 15 marzo Ausonia (FR), Scalo Sound Station (showcase acustico) 16 marzo Latina, Sottoscala 9 (showcase acustico) 22 marzo Bellinzona (Svizzera), Peter Pan Rock Bar 23 marzo Bonate Sotto (BG), Arci Live 05 aprile Calvari (GE), Muddy Waters Per Info: Virus Concerti (www.virusconcerti.it)

RAMMSTEIN + guest 26 aprile Casalecchio di Reno (BO), Unipol Arena 09 luglio Roma, Rock in Roma 11 luglio Codroipo (UD), Villa Manin Per Info: Live Nation (www.livenation.it) SAINT VITUS + Mos Generator 23 marzo Bologna, Circolo ARCI ZR (zona Roveri) 24 marzo Milano, Tunnel Per Info: Live Nation (www.livenation.it) SAXON 14 giugno Firenze, Viper Theatre 15 giugno Roma, Orion Live Club 16 giugno Milano, Magazzini Generali Per Info: Live Nation (www.livenation.it) SOLEFALD + VREID + In Vain 13 aprile Travagliato (BS), Circolo Colony 14 aprile Calenzano (FI), Cycle Sound Per Info: siti Web dei locali SONISPHERE ITALY 2013 IRON MAIDEN + MEGADETH + Mastodon + Ghost + Voodoo Six + Amphitrium 08 giugno Rho (MI), Fiera Milano Live Per Info: Live Nation (www.livenation.it) STEVEN WILSON 28 marzo Milano, Teatro della Luna Per Info: Live Nation (www.livenation.it) STRATOVARIUS + Amaranthe + special guest 10 aprile Milano, Alcatraz Per Info: Live Nation (www.livenation.it) TESTAMENT + Shadows Fall + Bleed From Within 16 marzo Gualtieri (RE), Tempo Rock Per Info: Hellfire (www.hellfirebooking.com) THE DARKNESS 11 marzo Milano, Alcatraz Per Info: Live Nation (www.livenation.it) TOTO + guest 20 giugno Milano, Ippodromo San Siro 21 giugno Roma, Ippodromo Capannelle 22 giugno Padova, Gran Teatro Per Info: Live Nation (www.livenation.it) URIAH HEEP 10 maggio Cortemaggiore (PC), Fillmore 12 maggio Padova, Gran Teatro Per Info: Barley Arts (www.barleyarts.com)


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STRATOVARIUS Screaming For Vengeance “H

ey amico, ho saputo che sei reduce da una brutta influenza… meglio, avrai avuto più tempo a disposizione per ascoltarti bene ‘Nemesis’!” E’ un Timo Kotipelto in grande forma quello che ci risponde dalla stanza dell’albergo di New York dove risiede nella tappa


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statunitense per promuovere il nuovo disco griffato Stratovarius, un concentrato di energia che ben fotografa il particolare momento attraversato dal folletto finlandese e dalla sua band. Dopo anni di burrasche, di guerre spesso finite in tribunale, di scioglimenti, di reunion e di stravolgimenti di formazione (sono 15 i musicisti che sono transitati da queste parti in 29 anni di attività!), la band assorbito anche l’abbandono del batterista Jorg Michael pare aver finalmente trovato il giusto equilibrio, ben immortalato in un disco che racchiude tutta la rabbia accumulata in questi anni e la riversa in undici brani di ottima fattura, che se da un lato riportano gli Stratovarius ai fasti del passato, dall’altro portano a galla la loro volontà di crescere e di modernizzarsi. Un’evoluzione che pare sortire gli effetti sperati, se è vero che, a pochi giorni dall’uscita, ‘Nemesis’ è già stato etichettato come uno dei migliori dischi mai concepiti dal combo finlandese. Uno status che non può non inorgoglire il buon Timo, entusiasta di quanto realizzato ma anche saggio “pompiere” nel tentativo di smorzare i facili entusiasmi e rimanere

con i piedi per terra… ‘Nemesis’ ha visto la luce da pochi giorni ma già si stanno sprecando le critiche positive, segno che anche questo ostacolo è stato superato alla grande. Visto dal di dentro, come giudichi un simile lavoro e come pensi possa essere recepito dai fan di vecchia data degli Stratovarius? “E’ ancora un po’ presto per parlare in modo obiettivo del disco, siamo ancora troppo coinvolti nel discorso musicale per dare dei giudizi del genere. Quello che posso dirti è che le sensazioni che stiamo percependo attorno a questo lavoro sono molto positive. Siamo facendo parecchia promozione al disco, forse più che in passato. Io e Jens abbiamo girato la Scandinavia, Germania, Spagna ed ora ci troviamo a New York, e dal confronto avuto con voi giornalisti siamo rimasti tutti estremamente soddisfatti. Con gli Stratovarius ho inciso dodici album, dovrei averci fatto il callo, ed invece questa volta ero particolarmente nervoso, erano successe troppe cose attorno alla band per lasciarmi sereno e per darmi la sicurezza su come i fan avrebbero risposto a ‘Nemesis’, ed invece pare che le mie paure fossero infondate. Mi sono persino sentito dire che questo disco è il miglior album degli Stratovarius da quindici anni a questa parte…non so se sia vero, sicuramente da un punto di vista musicale ‘Nemesis’ rappresenta una sorta di evoluzione rispetto a quanto fatto in passato. Mi piace vederlo come una nuova Era andata aprendosi per il gruppo, abbiamo inserito un nuovo batterista che è subito stato coinvolto nel processo creativo del disco e oggi il feeling che si respira in seno al gruppo è davvero buono. Erano anni che non ci sentivamo così entusiasti riguardo al nostro lavoro, pensiamo di avere tra le mani un ottimo disco e questo ci consente di essere estremamente positivi” Quando ci parlammo all’epoca di ‘Elysium’ definisti quell’album come “ un disco eccellente che testimonia come gli Stratovarius, dopo i problemi trascorsi, siano finalmente tornati ad essere una vera band”. Possiamo affermare che questo concetto, con ‘Nemesis’, sia uscito ancora più rafforzato? “Direi proprio di si, nonostante il cambio di drummer. Prova di quanto detto è stato il fatto che, il processo di songwriting, si è sviluppato in modo del tutto naturale. Quando Jorg Michael ha lasciato la band e Rolf Pilve si è unito a noi, il nuovo batterista è subito andato ad influenzare il nostro modo di comporre, così come aveva fatto in precedenza Matias Kupiainen… Vedi? Un tempo quando venivano inseriti in una band dei nuovi elementi, questi venivano inevitabilmente lasciati un po’ in disparte, almeno nei primissimi tempi, a favore dei membri anziani del gruppo… questa volta sono stati tutti protagonisti nel processo di songwriting, questo perché nel corso degli anni abbiamo acquisito maggiore fiducia in noi stessi e una grande consapevolezza dei nostri mezzi, quindi ci sentiamo liberi di agire come il nostro istinto ci dice di fare. Se posso permettermi di fare un plauso, lo vorrei dedicare a Matias… rispetto a quattro anni fa è cresciuto tantissimo, sia da un punto di vista stilistico che compositivo, ha avuto l’umiltà di imparare molto con il primo disco ed oggi è stato in grado di darci quel tocco di freschezza di cui forse necessitava il nostro sound. Le canzoni che ha composto per ‘Nemesis’ posseggono tutte il DNA degli Stratovarius, ma allo stesso tempo hanno un inconfondibile tocco moderno… Sappiamo tutti che la strada migliore, quella più sicura soprattutto in una condizione come la nostra, sarebbe stata quella di riproporre la formula già utilizzata in passato per un disco di successo, ma non avrebbe avuto senso, sarebbe stato offensivo nei confronti nostri e dei nostri fan. Cerchiamo sempre creare qualcosa di nuovo, non rinnegando il passato ma guardando costantemente al futuro” Ma come si è svolto il processo di songwriting se paragonato a quello di un disco eccellente come ‘Elysium’? “Rispetto a ‘Elysium’ abbiamo avuto più tempo per riordinare le idee, concentrarci su quello che doveva essere fatto e lavorare al meglio per la buona riuscita delle canzoni. Se facciamo un paragone tra il processo di songwriting dei due lavori, posso afferma-

Dopo aver finalmente ritrovato la serenità al termine di anni di liti, di terremoti interni e di cause legali, gli Stratovarius sono ritornati a sfornare dischi di ottima fattura, e dopo l’acclamato ‘Elysium’ pubblicano oggi quel ‘Nemesis’ già inserito tra i migliori lavori mai partoriti dal combo finlandese. Un risultato lusinghiero che non può non inorgoglire il folletto nordico Timo Kotipelto.


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re che questa volta è stato tutto dannatamente più facile. Quando abbiamo iniziato le registrazioni di ‘Elysium’, paradossalmente avevamo già il nostro futuro bello che pianificato… sapevamo che dovevamo andare in tour con gli Helloween, sapevamo che dovevamo buttare fuori un disco e sapevamo che dovevamo promuoverlo a dovere in modo che fosse bello ‘caldo’ per il prossimo tour, quindi ci siamo trovati a dover fare le cose di corsa, con conseguenze abbastanza ovvie. Non rinnego quel disco, assolutamente, però forse con le dovute accortezze e con un po’ più di tempo a disposizione sarebbe potuto venire meglio. Per ‘Nemesis’ non abbiamo avuto pressioni di questo tipo, ci siamo presi tutto il tempo necessario per fare le cose per bene e per concentrarci sulla qualità dei pezzi, ed alla fine ci troviamo con un di-

sco che funziona” Visto che ormai siete sulla scena da qualche decennio e avete collezionato diversi dischi di successo, te la senti di individuare quelli che sono gli ingredienti fondamentali per comporre un disco “che funziona”? “Gli ingredienti sono fondamentalmente tre: energia, talento e denaro, inutile girarci troppo intorno. Se hai a disposizione un budget di 3.000 euro e devi realizzare un gran disco, puoi anche chiamarti Stratovarius ma non riuscirai a fare nulla. C’è sempre una certa pressione attorno al gruppo, non imposta dalla label perché, va detto, questa ci ha sempre lasciato carta bianca dal punto di vista creativo, quanto da noi stessi. Sappiamo che abbiamo degli standard da rispettare, sappiamo che abbiamo dei fan che non devono essere delusi, per questo mettiamo sempre il

massimo di noi stessi per ottenere il miglior sound possibile. Tutti noi abbiamo messo davvero molta energia nel processo creativo di ‘Nemesis’, abbiamo lasciato che le idee fluissero con grande naturalità senza forzarle né castrarle, cercando di mantenere intatta l’identità stilistica degli Stratovarius ma, allo stesso tempo, cercando di aumentare i nostri orizzonti e l’impressione è che il risultato sia stato centrato” Il sound di ‘Nemesis’ è decisamente più aggressivo e arrabbiato rispetto al passato. Pensi che questa caratteristica sia figlia di tutte le traversie, i problemi, gli stravolgimenti di line-up… che vi hanno interessato negli ultimi anni? “Bella domanda…sicuramente tutto quello che è successo nel corso degli anni ha in qualche modo influito sul nostro modo di comporre, perché la musica riflette quello che provi dentro, è una tua espressione interiore e se tu stai provando disagio, rabbia, frustrazione, è naturale che questa venga riversata nelle tue composizioni. Nel caso di ‘Nemesis’ credo che buona parte della rabbia in esso contenuta sia figlia di alcuni problemi che hanno coinvolto Matias nel corso della lavorazione. In quel periodo il suo padrone di casa non gli ha rinnovato il contratto d’affitto e Matias, che non solo ha composto buona parte dei pezzi finiti su ‘Nemesis’, ma si è anche occupato della produzione del disco, si è trovato a dover vivere per un certo periodo nello studio di registrazione. Certamente la rabbia provata in quei giorni, unita al suo desiderio originario di dare al sound del gruppo un taglio un po’ diverso e all’esigenza/necessità di vivere la realtà dello studio 24 ore su 24 lo ha portato a comporre pezzi così rabbiosi. Me lo vedo, incazzato nero per quello che gli è successo, dopo aver vissuto cinque mesi in studio, alzarsi dal divano, imbracciare la chitarra e iniziare a comporre ‘Stand My Ground’ (ride Nda). A parte gli scherzi, non so quanto ci sia dei suoi problemi in questa evoluzione sonora, e quanto della sua personale visione della musica. So che ama il classico power degli Stratovarius, ma so anche che gli piace roba più progressiva e che è alla costante ricerca di un suono di chitarra più fresco e moderno… probabilmente il risultato finale è il perfetto mix delle due cose” Visto l’angelo distruttore raffigurato sulla copertina del disco e titoli quali ‘Nemesis’, ‘Fantasy’, ‘Dragons’, ‘Halcyon Days’… verrebbe da pensare di essere alle prese con un concept album. E’ proprio così? “Durante un’intervista qualche giorno fa, un tuo collega mi ha detto che aveva l’impressione ci fosse un filo conduttore a unire le canzoni di questo disco… quello che posso dire è che, se veramente così fosse, non sarebbe stata una cosa programmata, e comunque dal nostro punto di vista ‘Nemesis’ non è in alcun modo un concept album. Forse c’è alla base un comune stato d’animo, c’è un’emozione di fondo che emerge dall’ascolto del disco, ma dal punto di vista lirico non vi è una storia comune. La copertina è stata realizzata


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dall’artista ungherese Gyula Havancsák che già aveva collaborato con noi per l’artwork di ‘Elysium’ e ‘Polaris’, e quello raffigurato non vuole essere un angelo bensì una Dea, Nemesi appunto, la Dea greca della vendetta. E’ una figura che ritorna anche nella title track, nella quale ho voluto dare una rilettura in chiave moderna di questa idea, della figura mitologica con le fattezze da angelo che torna sulla terra per portare la giustizia… ecco, forse questo è il concetto che ci terrei a fare emergere, il sottile filo che separa giustizia da vendetta, perché mi piace vedere in Nemesis la creatura che punisce le persone cattive ma premia i buoni, ristabilendo così il giusto ordine delle cose” Se non sono indiscreto, posso farti una domanda su Jorg Michael? “Vai pure, senza problemi!” Al tempo di ‘Elysium’ ci parlasti di un Jorg battagliero alle prese con la malattia che lo aveva colpito. Ora come sta? E’ difficile trovare notizie su di lui in rete e il suo abbandono non fa pensare in positivo… “Guarda, Jorg ha affrontato da grande combattente la malattia ed ha vinto lui. La decisione di smettere è legata alla sua volontà di fermarsi una volta raggiunto l’apice della sua tecnica batteristica. Aveva sempre detto che era sua intenzione fermarsi fino a che era ancora in grado di suonare qualsiasi cosa senza problemi, senza aspettare quel calo fisiologico che lo avrebbe ridotto all’ombra di quello straordinario batterista che tutti conosciamo. La sua tecnica è estremamente faticosa, perché suona in modo impeccabile ed allo stesso tempo fa molto spettacolo… nel corso della

mia carriera ho avuto modo di conoscere tanti grandi batteristi ma credimi, nessuno aveva la tecnica di Jorg. E’ un musicista incredibile ed ha una personalità fortissima che ha lasciato un’impronta enorme nella musica degli Stratovarius” Come siete giunti, invece, a Rolf Pilve? “Attraverso una serie di audizioni. Quando Jorg ha annunciato di voler lasciare la band, abbiamo pubblicato sul nostro sito internet un appello per cercare un nuovo batterista. A grande sorpresa abbiamo ricevuto oltre cento richieste da batteristi provenienti da tutto il mondo, musicisti di gran classe tra i quali ne abbiamo scelti quattro, poi invitati a provare con noi in studio. Tra questi Rolf è stato il più convincente ed il posto è stato suo. E’ un musicista giovane, ha solo 25 anni, eppure ha già una notevole esperienza sia in studio che live. Nel corso della sua carriera ha avuto modo di suonare su dieci dischi di progetti power e progressive underground, ha già sostenuto un tour europeo e lo scorso autunno ha suonato al Power Prog Festival di Atlanta, quindi pur non essendo un veterano ha già un buon bagaglio di esperienze alle spalle. Perché scegliere Rolf? Perché incarnava tutto ciò che cercavamo nel sostituto di Jorg… non volevamo un semplice clone del nostro ex batterista ma volevamo un musicista in grado di suonare le nostre canzoni ma anche di darci qualcosa di più, di portare il sound degli Stratovarius ad uno step successivo. Al gruppo Rolf ha portato la sua tecnica, le sue idee ed il suo entusiasmo. Ci ha confidato di essere sempre stato un grande fan degli Strato, da adolescente ha consumato ‘Visions’, quindi trovarsi nella

band per lui è un sogno divenuto realtà, e questa sua carica non può che giovare alla musica del gruppo” Come hai accennato in precedenza, in seguito a ‘Elysium’ siete partiti per un lungo tour con gli Helloween nel corso del quale vi siete esibiti in arene decisamente ampie. Nel vostro tour che partirà a marzo sarete invece di scena in club decisamente più piccoli. Non vi crea problemi un simile cambiamento? “Onestamente no, perché se devo scegliere tra un palazzetto mezzo vuoto o un club pieno come un uovo, scelgo il club tutta la vita. Recentemente ho suonato qualche concerto in acustico con il progetto Blackoustic, il duo ideato assieme a Jani Liimatainen dei Sonata Arctica, ci siamo esibiti in piccoli club ma il feeling è stato pazzesco… molto probabilmente se ci fossimo esibiti davanti a 2.000 persone non avremmo ottenuto lo stesso risultato. Questo per farti capire come la dimensione della venue non sia poi così importante. Quello che conta è quello che tu riesci a trasmettere al pubblico e come questo reagiste alle tue canzoni. Se riesci a coinvolgerlo, lo diverti e ti diverti a tua volta, allora anche il club di medie dimensioni andrà benissimo per il tuo show” Visto che il 10 aprile sarete di scena anche in Italia, all’Alcatraz di Milano, pensi di poterci dare qualche anticipazione sullo show? Magari qualche sorpresa per quanto riguarda la scaletta… “Guarda, stiamo tirando giù una scaletta di massima proprio in questi giorni, e ti assicuro che non è facile. Se per ‘Elysium’ è stato abbastanza semplice individuare due o tre brani da suonare on stage, per ‘Nemesis’ è sicuramente più difficile, perché fosse per me suonerei live il disco nella sua interezza. Il disco è pieno di pezzi dalla forte attitudine live, quindi non mi dispiacerebbe poterne inserire il più possibile in scaletta. Non escludo neppure la possibilità di prepararne sette o otto in saletta e poi sceglierne tre da suonare sempre e altri da ruotare nel corso del tour. Sono curioso, non lo nascondo… sono molto curioso di vedere come funzionano certi pezzi dal vivo… sicuramente non stravolgeremo la scaletta, perché non possiamo fare a meno di proporre brani come ‘Haunting High And Low’ o ‘Black Diamond’, sono dei classici ai quali è impossibile rinunciare, però cercheremo di svecchiarla puntando il più possibile su materiale più recente” FABIO MAGLIANO

Timo Kotipelto – voce Jens Johansson – tastiere Matias Kupiainen – chitarra Lauri Porra – basso Rolf Pilve – batteria www.stratovarius.com

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Vivono realmente una seconda giovinezza le “Zucche di Amburgo’ che, con ‘Straight Out Of Hell’, confermano quanto di buono fatto vedere anni addietro con ‘7 Sinners’ e ‘Gambling With The Devil’, andando a ripescare quel suono capace di indicare la strada a centinaia di metal band in tutto il mondo. Alla vigilia di un nuovo tour in compagnia dei “fratelli” Gamma Ray, siamo andati a tastare il polso del gruppo teutonico qui rappresentato dal sempre cordiale Markus Grosskopf.

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rovarsi faccia a faccia con Markus Grosskopf è sempre un gran piacere. Perché è palese come gli Helloween, oggi, poggino su tre personalità fondamentalmente agli antipodi (non ce ne vogliano Sascha Gerstner e Daniel Loeble, ma la storia non passa ancora da queste parti), e quella di Markus, almeno per il sottoscritto, è sicuramente la più piacevole. Se Michael Weikath è il genio lunatico, capace come niente di intrattenerti per un’ora disquisendo di musica ma anche di liquidarti in un nulla con una sonora pernacchia, ed Andi Deris è l’anima manageriale a tratti sin troppo professionale, il buon Markus è il classico ragazzone tedesco ideale compagno per una bevuta al pub, innamorato follemente della musica ma allo stesso tempo abilissimo a sdrammatizzare, a cogliere il buono anche nelle situazioni più difficili, magari sciogliendo tutto con una sonora risata che da anni ne caratterizza il personaggio. E di risate ne sono state spese tantissime nel corso della lunga intervista che segue, perché la rilassatezza e il senso di appagamento è davvero tangibile. Questo grazie al nuovo ‘Straight Out Of Hell’, lavoro che conferma gli Helloween su standard elevati scacciando definitivamente le critiche seguite al controverso ‘Unarmed’ e rilanciando una band che pare vivere davvero una seconda giovinezza. ‘Straight Out Of Hell’ ha da poco visto la luce e già piovono recensioni più che positive. Pensate sia cambiato qualcosa dal punto di vista operativo e sonoro, rispetto ai suoi predecessori? “A differenza di altri album, questa volta abbiamo voluto prenderci più tempo, fare le cose con calma e porre attenzione ad ogni particolare. Ascolto dopo ascolto emergeva sempre qualcosa che non ci convinceva a pieno, ed allora Charlie doveva intervenire per limare qua e dare un’aggiustatina là…fino a quando il risultato non ci ha convinto a pieno. Da un punto di vista puramente pratico, posso dire che il disco è stato registrato nella sua interezza a Tenerife, nello studio di Andi. Dico nella sua interezza perché in passato il mio basso lo registravo a casa inviando poi i file da mixare, invece questa volta sono volato anche io alle Canarie per lavorare con il resto della band… non c’è una ragione particolare per tutto questo, solamente abbiamo voluto fare un lavoro di squadra, rimanere strettamente a contatto e rendere più diretta la comunicazione tra di noi. Quando ci siamo trovati in studio avevamo la base del disco già pronta, i pezzi erano già abbozzati e si è trattato di donare loro una giusta forma, curando molto le parti soliste e cercando di dare un’atmosfera differente al disco, almeno se comparata con quella dei lavori precedenti. ‘Straight Out of Hell’, così come dice il titolo stesso del disco, vuole essere meno dark del suo predecessore, il suo mood è decisamente più solare e lo spirito più positivo” Come mai una simile svolta? E’ successo qualco-

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sa che vi ha spinti ad avere un approccio più rilassato alla composizione? “Non c’è una ragione particolare. E’ successo e basta. Non ci siamo mai soffermati troppo a pensare sull’indirizzo da dare ad un disco, abbiamo sempre lasciato che le cose facessero il loro corso e così è stato anche questa volta. Se i brani prendevano una determinata piega, perché interferire e far cambiare il loro orientamento? Se il destino voleva che suonassero in modo vivace, lo abbiamo assecondato. Vogliamo suonare veri, onesti… l’importante è che una canzone sia bella, non che insegua un modello predefinito” Ancora una volta vi siete affidati a Charlie Bauerfeind per la produzione. Ha cambiato qualche cosa a questo giro nel processo di lavorazione o avete seguito uno schema già collaudato? “A parte quei piccoli dettagli dei quali ti ho già accennato, non abbiamo cambiato praticamente nulla, perché dopo anni di collaborazione con Charlie sappiamo esattamente cosa, dove e perché fare le cose… Abbiamo collaudato una formula che funziona benissimo e non avrebbe avuto senso stravolgerla proprio ora. I cambiamenti possono essere legati a scelte stilistiche, ma quelle sono da imputare unicamente a noi, Charlie ci consiglia, arriva per i suoni là dove un comune orecchio non può arrivare, ma non interferisce sul nostro songwriting. Ormai lavorare con lui è diventato naturalissimo, ha una percezione della musica che, a tratti, è sovraumana, sente cose che un orecchio comune non sentirebbe, eppure una volta che interviene ti rendi conto che, come per magia, tutto gira alla perfezione”. L’impressione è che, essendo ormai una band affermata che non ha più nulla da dimostrare, la libertà negli Helloween sia totale, come confermano alcune scelte stilistiche adottate in passato, spesso agli antipodi rispetto al classico sound della band… “Abbiamo una grande libertà, non lo nego. Sia dal punto di vista sonoro che di songwriting ci concediamo parecchio. In passato abbiamo inciso pezzi reggae e anche un intero album swing. Anche un brano dal sapore mediorientale come il singolo ‘Nabataea’ può apparire un po’ inusuale… ma questo non è un azzardo, è un privilegio che ci siamo guadagnati sul campo. Con pezzi come ‘Dr. Stein’, ‘Eagle Fly Free’ o ‘Future World’ ci siamo creati una buona reputazione, abbiamo lavorato tanto e duramente, ed oggi possiamo anche azzardare qualcosa, sperimentare nuovi orizzonti se in quel momento reputiamo giusto farlo. Non è stata una cosa semplice, credimi… vai incontro alle critiche, ti scontri con chi ti accusa di esserti commercializzato, ma a noi questo non interessa, abbiamo deciso di combattere per il nostro diritto di fare ciò che vogliamo e di sperimentare con la nostra musica, e continueremo sempre a farlo. È segno di coerenza, non trovi? È meglio andare contro corrente ma fare ciò in cui si crede, piuttosto che continuare a fare la stessa cosa in eterno solo per compiacere al mercato. La scena è piena di gruppi che continuano a incidere sempre lo stesso disco, ed alla lunga questa cosa rompe un po’… Gli Helloween si sono sempre contraddistinti anche per questo… a volte abbiamo inciso pezzi più melodici, altre volte ci siamo induriti… siamo imprevedibili, perché l’imprevedibilità definisce il nostro songwriting ma definisce anche noi stessi” In una situazione di simile “anarchia compositiva”, come fate a capire se una canzone è adatta agli Helloween? “È l’istinto che ce lo dice. I tratti salienti sono riff e melodie, se questi ci sono e funzionano, allora il pezzo può andare bene per noi. Bisogna capire che viviamo Helloween, respiriamo

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Helloween, a colazione mangiamo Helloween e cereali (ride Nda)… Non abbiamo mai visto la musica come un lavoro ma come una sorta di missione per dare un senso alle nostre vite. Riff e melodie vengono sempre da sé, in modo molto naturale, e quando lo fanno generalmente sono Helloween al 100%. Anche i pezzi più sperimentali, se ci fai caso, contengono i tratti salienti del nostro stile, ci proiettano oltre ma, allo stesso tempo, non rinnegano mai le nostre origini” Onestamente, visto che siete considerati i padri del power metal, non avete mai accusato pressioni dall’esterno per perseguire uno stile ben definito, magari da chi vi voleva incanalati per sempre in un genere standard? “No, pressione non ne abbiamo mai avuta… come ti ho già detto godiamo di una certa libertà, abbiamo sempre fatto tutto di testa nostra e nessuno è mai venuto a dirci come avrebbe dovuto suonare un disco piuttosto che un altro… ok, qualche volta ci siamo trovati a dover completare una canzone e a dirci ‘Well, in questo punto non sarebbe male metterci un refrain in perfetto stile Helloween…’ ma è sempre stata una valutazione nostra, dettata dal nostro gusto musicale e mai dalle pressioni esterne. Mi pare che la nostra discografia parli da sè, non abbiamo mai avuto problemi ad andare controcorrente, anche in momenti in cui il mercato magari ci suggeriva di guardare altrove… Se in un disco come ‘Rabbit don’t come Easy’ c’è un pezzo reggae è perchè noi abbiamo voluto incidere un pezzo reggae… così come se in ‘Straight Out Of Hell’ ci sono pezzi power, è perchè noi li abbiamo concepiti così, non certo perchè ci sono stati imposti da qualcuno” Scusami la provocazione, ma al tempo del controverso ‘Pink Bubbles Go Ape’ furono in molti ad avervi accusato di esservi venduti al mercato con un disco alle soglie del pop… “Ma quel disco penso ricopra un ruolo a sè all’interno della nostra discografia. Non è il nostro miglior disco, è vero, ma non penso sia neppure un disonore aver inciso un lavoro simile. A quel tempo stavamo vivendo una situazione molto delicata (la band veniva dal successo planetario dei due ‘Keeper…’ e Kai Hansen aveva appena abbandonato il gruppo Nda) e uno sbandamento poteva anche essere concepito. ‘Pink Bubbles Go Ape’ non è il nostro lavoro più innovativo, e non è neppure il nostro disco di maggior successo… è un lavoro di transizione, che forse andava fatto in quel momento e che, puntualmente, è stato fatto. All’epoca i problemi erano all’ordine del giorno, eravamo confusi… non hai idea di quante volte ci siamo trovati a discutere se fosse il caso di pubblicarlo o di prenderci dell’ulteriore tempo… alla fine abbiamo corso il rischio e lo abbiamo buttato fuori. Che dire? Manca spontaneità in quel disco, manca la nostra anima, ma nonostante questo credo che dei pezzi validi ci siano anche in ‘Pink…’. Quando è uscito le reazioni non sono state delle migliori ma non tutto è stato buttato… va visto come un disco di transizione… probabilmente se non fosse stato per esso non ci sarebbero stati neppure lavori come ‘Master Of The Rings’ o ‘The Time Of The Oath’…ci è servito per focalizzare l’attenzione su quello che avremmo dovuto fare in futuro, ci ha insegnato a affrontare e superare lo stress di quel momento, ci ha dato una grande mano come band… Se oggi penso a quel disco non posso non pensare a tutti i problemi che lo hanno generato, ma posso sorridere perchè quelle difficoltà ci hanno certamente rafforzati”.

Francamente, c’è mai stato un momento in cui avreste voluto dire “basta”? Dopo tutto sono anni che sfornate album e trovare sempre stimoli nuovi per andare avanti non deve essere semplice… “Infatti non lo è affatto, e non nego che ci sono stati dei momenti in cui proprio ci pareva impossibile rialzare la testa e andare avanti. Nei primi anni Novanta ci pareva di essere finiti in un vicolo cieco, non vedevamo via di uscita… poi è arrivato Andi, è uscito un disco come ‘Masters Of The Rings’ e, come per incanto, la macchina è ripartita. È tutta una questione di stimoli, di trovare la scintilla anche nei momenti più bui. Da quell’istante ci siamo resi conto che saremmo sempre stati in grado di ripartire, bastava solo avere pazienza ed aspettare” Secondo il comunicato stampa stilato per presentare ‘Straight Out Of Hell’, questo lavoro viene descritto come la naturale evoluzione di lavori come ‘Gambling With The Devil’ e ‘ 7 Sinners’. Sei d’accordo con questa considerazione? Pensi realmente che, con ‘Keeper Of The Seven Keys – The Legacy’ si sia chiuso un cerchio e con ‘Gambling…’ si sia aperta una nuova era per gli Helloween? “Non so, è molto difficile da dire, soprattutto per una persona come me coinvolta profondamente nel processo compositivo di ognuno dei dischi che hai citato. Bisogna essere oggettivi per poter fare una simile considerazione, e forse voi critici lo siete più di noi musicisti. A volte, appena ultimato il lavoro, fatico persino a darci un giudizio, perchè mi sembra il disco più bello del mondo tanto è il tempo che ci ho speso attaccato… solitamente la reale concezione del lavoro emerge molto più in la nel tempo…’Gambling With The Devil’ è stato sicuramente un disco molto importante per noi, è stato una sorta di ritorno alla semplicità dopo gli azzardi di ‘The Legacy’, una riscoperta della vera essenza degli Helloween che è inevitabilmente ritornata con ‘7 Sinners’. Se ‘Straight Out Of Hell’ sia migliore dei suoi predecessori non sta a me dirlo…mi piace questo disco…molto…ma come ti ho detto sono la persona meno adatta per giudicarlo. Suona differente, questo sì, ma è una cosa che balza subito all’orecchio, non ci vuole un genio per capirlo. Forse un giudizio obiettivo lo potranno dare solamente quelle persone che lo compreranno e lo valuteranno senza troppi preconcetti”. Nel disco c’è una versione di ‘Burning Sun’ suonata con l’Hammond e dedicata a Jon Lord. Quanto è stato importante questo musicista per la vostra band? “È stato fondamentale. Jon Lord con il suo Hammond ha definito un sound, quello dei Deep Purple, che ha fatto la storia della musica rock. Se i Deep Purple sono quel che sono, è grazie a Jon Lord. Ed essendo la band inglese una delle nostre principali influenze, ci è parso doveroso dedicare un brano al musicista scomparso. A dire il vero non c’è stato nulla di pianificato, l’Hammond era semplicemente perfetto per ‘Burning Sun’, lo abbiamo inserito e ha funzio-


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nato benissimo. Se chiudi gli occhi ti sembra di percepire l’anima di Jon in questo pezzo” Se dovessi individuare il tuo brano preferito tra quelli che compongono ‘Straight Out Of Hell’, quale sceglieresti? “Il disco è appena uscito e, onestamente, è troppo presto per poter dire una cosa simile. Non ci riesco proprio, un po’ perché non sarebbe giusto nei confronti degli altri brani, un po’perché davvero non saprei quale scegliere. Forse se mi ponessi questa domanda tra un anno potresti ricevere una risposta differente. Un pezzo per emergere completamente nella mente di un musicista necessita di tantissimi ascolti e, soprattutto, va suonato dal vivo. Dammi il tempo di suonare on stage i pezzi nuovi e potrò dirti quale è il mio preferito” Come mai avete scelto come biglietto da vi-

sita per il nuovo disco un pezzo lungo e abbastanza articolato come ‘Nabataea’? “La scelta di ‘Nabataea’ come primo singolo è figlia degli importanti feedback ricevuti da questo brano. Una volta ultimato il disco lo abbiamo fatto ascoltare a diversi amici ed addetti ai lavori e tutti hanno sottolineato quanto bello fosse questo brano, quindi ci è parsa la soluzione più ovvia prenderlo come apripista per il nuovo lavoro. E’ un pezzo molto Helloween, narra la storia dei Nabatei, un popolo di commercianti dell’antica Arabia capaci di tenere testa a lungo al forte Impero Romano senza mai entrarne in conflitto. La civiltà Nabatea è stata forse la prima democrazia della storia e, cosa più importante, non ha mai conosciuto la guerra in tutta la sua storia. E’ un tema che si cuce perfettamente addosso ad Andi, ed infatti lo abbiamo visto particolarmente a suo agio nella sua esecuzione” Addentrandoci in un discorso puramente lirico, quali sono i temi che siete andati a trattare in questo lavoro?

“L’idea alla base di ‘Straight Out of Hell’ è una sola: io vivo la mia vita alla giornata, non penso al futuro ma cerco di godermi al massimo tutto quello che mi sta succedendo adesso. Qualcosa va bene, altre cose andranno storte, ma questo non ha importanza. La vita è un gioco, a volte si vince, a volte si perde, quindi non è il caso di prendere le cose troppo sul serio. Se ci pensi è un pò lo stesso concetto del concerto, lascia fuori i problemi, goditi l’evento e non pensare a nulla. Molti vengono ai nostri show per passare due ore in allegria e non pensare ai problemi della vita di tutti i giorni. Le emozioni vanno vissute all’istante, se non te le godi al momento, dopo è troppo tardi” Negli ultimi anni la sensazione è che l’heavy metal sia tornato prepotentemente a galla. Voi come vivete questa situazione dal di dentro? “Molto bene, ovviamente, e possiamo confermare che il metal sta vivendo realmente una seconda giovinezza. Lo si capisce dalla gente che viene ai concerti, dalla portata dei nostri tour, dal numero di interviste schedulate ogni volta. C’è un rinnovato interesse attorno a tutto il movimento, e questo non può che renderci felici. La cosa che più ci colpisce è vedere, ai nostri concerti, due generazioni di persone che vivono l’evento in un unico abbraccio. Ci sono i genitori che hanno iniziato a seguire gli Helloween sin dalla prima ora, che vengono allo show con i figli al seguito, e tutti vivono lo spettacolo con grande passione…Per un istante abbiamo abbattuto ogni barriera generazionale e la cosa ci riempie di orgoglio” A febbraio è partito il secondo capitolo dell’Hellish Rock, il tour che vi vedrà impegnati al fianco dei Gamma Ray. Una decisione nata per cavalcare l’onda del successo riscosso dalla prima parte o c’è dell’altro? “Kai Hansen fa parte della famiglia, è inutile nasconderlo, e poter condividere la vita on the road con lui è sempre un piacere. Dopo la prima parte di questo tour abbiamo ricevuto tantissimi messaggi di fan che ci chiedevano di ripetere questa esperienza, e da stronzi abbiamo pensato che avremmo potuto rispondere ‘No, chi c’era c’era, chi non c’era si attacca!’ Ma alla fine non siamo poi così sadici (sogghigna Nda), ripetere un evento unico sarebbe per i più una follia, ma noi pazzi lo siamo da sempre, quindi siamo andati contro corrente e oggi siamo nuovamente qui, a contenderci un camerino con la band di Kai” FABIO MAGLIANO

Andi Deris – voce Michael Weikath – chitarra Sascha Gerstner – chitarra Markus Grosskopf – basso Daniel Loeble – batteria www.helloween.org

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roprio nei giorni in cui le “Zucche di Amburgo” tornano a far sentire la loro voce con l’eccellente ‘Straight To Hell’, i cugini Gamma Ray rispondono con una tripla pubblicazione utile a far lievitare l’adrenalina attorno alla seconda parte dell’Hellish Tour che li vedrà nuovamente dividere il palco con Weikath e soci e, soprattutto, a far crescere la febbre per il successore di ‘To The Metal’, album del 2010 capace di scindere pubblico e critica tra chi lo considera un lavoro eccellente e chi un disco dannatamente sgonfio. Preziose indicazioni a riguardo potrebbero giungere dall’EP ‘Master Of Confusion’ con i suoi due pezzi inediti, del quale parleremo a fondo nel box a parte, mentre conferme sullo stato di salute del gruppo ci giungono forti e chiare con il live riversato anche su DVD ‘Shadows & Majesties Live’ ricco estratto dal vivo di date tenute tra Svizzera e Germania. A presentarci tutte queste novità è il sempre disponibile Kai Hansen. Solitamente si decide di realizzare un DVD live in occasione di un evento particolare. Che cosa pensi avesse di così speciale il tour del 2011? “Il tour era già stato pianificato da tempo, poi visto che il precedente DVD, ‘Hell Yeah - The Awesome Foursome’ era del

sarebbe stato il suo ultimo tour, vista la sua intenzione di lasciare la band. E’ stata una separazione assolutamente amichevole, perché Daniel ci ha posto alcuni problemi, ci ha parlato dei suoi disagi e noi lo abbiamo assecondato. Per sintetizzare, sentiva il bisogno di cambiare perché non reggeva più i ritmi della vita on the road. Non riusciva più a viaggiare sino ad Amburgo due volte a settimana per provare con noi, era stanco di girare per il mondo per suonare, aveva bisogno di fermarsi e di godersi maggiormente la vita di famiglia, e francamente non ce la siamo sentiti di contrastarlo. Al suo posto abbiamo arruolato subito Michael Ehre, un batterista con il quale si è instau-

2008 ma, soprattutto, che rispetto a quel tour stavamo suonando una scaletta completamente differente, ricca di pezzi non suonati abitualmente dalla band, abbiamo pensato che potesse essere interessante realizzare un nuovo DVD live. Abbiamo persino ipotizzato di fare un set completamente acustico, però visto il genere di musica che suoniamo e visto che l’unplugged sarebbe stato davvero troppo per noi, abbiamo desistito e ci siamo limitati a suonare solo una o due canzoni in acustico a metà concerto” ‘Skeletons & Majesties Live’ è anche l’ultimo tour che avete fatto assieme al batterista Daniel Zimmermann… “Daniel ci aveva annunciato che quello

rato subito un gran feeling. In brevissimo tempo siamo riusciti a mettere insieme tre canzoni davvero buone. Michael è un grande batterista, suona la chitarra ritmica ma soprattutto ha grandi idee. Sono sicuro che, con lui, i Gamma Ray potranno compiere un bel salto in avanti” Del live ‘Skeletons & Majesties’ avevano iniziato a circolare voci addirittura dal 2011 ma solamente oggi ha visto la luce. Come mai così tanto tempo? “Non lo considero un periodo fuori dal normale, lo trovo assolutamente in linea con il tempo di

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Time To Break Free lavorazione di un qualsiasi disco live. Lo abbiamo registrato in Svizzera nel 2011, è vero, poi abbiamo avviato un lavoro di produzione che ci ha richiesto molto tempo perché era nostra intenzione realizzare un prodotto qualitativamente elevato. Il montaggio video è stato poi abbastanza laborioso, visto che si trattava di cucire un lavoro di quasi quattro ore… quindi direi che è stato tutto assolutamente nella norma. E poi considera che, nell’ultimo anno, ho avuto il mio bel da fare con gli Unisonic, sia per quel che concerne il lavoro in studio, sia per l’attività on the road, quindi ho potuto concentrarmi sul DVD dei Gamma Ray solamente nei ritagli di tempo. Però si può dire che ne sia valsa la pena, non trovi?” Nel DVD trovano spazio due show tenuti allo Z7 di Pratteln e allo Zeche di Bochum. Come avete “trattato” questi due concerti? Li avete manipolati molto in fase di produzione o li avete lasciati il più possi-

Un EP dalle dimensioni di un full length album, un disco dal vivo e un ricco DVD. Il tutto per far da apripista ad un nuovo, entusiasmante tour in compagnia dei cugini Helloween ed in previsione di un disco di inediti atteso da tre anni. Non si può dire che la vita in casa Gamma Ray sia avara di novità, per questo abbiamo alzato la cornetta e siamo andati a scoprirle attraverso le parole del folletto Kay Hansen in persona. METAL HAMMER 23


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bile intatti? “Sono stati due concerti molto coinvolgenti, per questo abbiamo cercato di mantenere in fase di montaggio il più possibile lo spirito dello show. Lo spettacolo di Pratteln è stato perfetto, sia da un punto di vista di palco che di pubblico, mentre Bochum è stato un po’ caotico, però alla fine siamo stati tutti molto soddisfatti di quanto fatto. Penso che, chi vedrà il DVD, potrà calarsi perfettamente nell’atmosfera di quelle serate e godersi a pieno tutta l’energia e l’adrenalina di un nostro show” Trovo che la scaletta di questo live sia ottimamente bilanciata tra nuove tracce e vecchi successi. Considerando però la grande mole di materiale composto in tutti questi anni, quanto è stato difficile per voi stilare una scaletta che funzionasse e riuscisse ad accontentare tutti? “Tirare giù una scaletta che funzioni e riesca ad accontentare tutti è uno degli aspetti più difficili del live. Lo stimolo più grande per un musicista è suonare i pezzi nuovi e vedere se questi funzionano dal vivo, però mi redo conto che la gente che viene ai nostri show vuole sentire i vecchi classici del gruppo, quindi è necessario trovare il giusto bilanciamento tra nuovo e vecchio. Poi cerchiamo ogni volta di porre qualche modifica alla scaletta per non riproporre ogni sera lo stesso concerto, rendendo le cose più interessanti per noi e meno noiose a chi ci segue sempre e viene ad ogni nostra data. Ma è inutile girarci troppo intorno, per trasformare un concerto in una vera festa è necessario che tutti partecipino attivamente, che la gente canti con noi, che diventi parte attiva dello spettaco-

lo, e per farlo ha bisogno di quelle canzoni che hanno fatto la storia della band. Nel live che abbiamo pubblicato credo che si sia trovato un buon equilibrio e la reazione del pubblico ci ha dato ragione. Poi ci sarà sempre qualcuno che si lamenta della scaletta, ma questo fa parte del gioco, è impossibile accontentare tutti…” Siete prossimi ai 25 anni di carriera, eppure quando fondasti i Gamma Ray nel lontano 1989 non furono in molti a scommettere sulla sopravvivenza del neonato gruppo. Onestamente, te la senti di affermare che i Gamma Ray sono andati al di là di ogni più rosea aspettativa? “Non nascondo che, quando ho lasciato gli Helloween per fondare i Gamma Ray, furono in molti a credere che si trattasse solamente di un progetto estemporaneo e a scommettere che, da li a poco, sarei ritornato con la mia vecchia band. Io invece ci credevo fortemente, e grazie a questa tenacia ho avuto la possibilità e la forza di trasformare i Gamma Ray da potenziale progetto a vera e propria band. Quando ho iniziato questa nuova avventura sapevo solo che dovevo andare avanti, pur senza sapere quello che sarebbe stato il risultato. Se ci pensi, la storia passata in questo senso non volgeva a mio favore: quanti sono quei musicisti che hanno lasciato una band di successo, ne hanno creata un’altra e sono rimasti sulla cresta dell’onda? Ora come ora mi viene in

sul fuoco e smorzare gli entusiasmi: la cosa che mi interessava all’epoca era avere un buon feeling sulle canzoni e potermi esprimere completamente… i risultati commerciali difficilmente sarebbero arrivati subito, perché non avevamo un grosso budget e non avevamo il nome consolidato degli Helloween…ed infatti gli Helloween inizialmente vendevano di più, ma io sono felice per essere riuscito a costruire un gran gruppo di lavoro e di essere riuscito negli anni a ritagliarmi la mia fetta di popolarità” Negli ultimi anni le strade dei Gamma Ray e degli Helloween sono andate intrecciandosi più volte. Se pensi al tempo trascorso con loro, quale credi sia il tuo più grande rimpianto? ”La forza degli Helloween a quel tempo era la capacità di inserire melodie estremamente orecchiabili in un contesto di riff pesanti e chitarre tipicamente metal. All’epoca era una cosa nuova, oggi è una formula che ritrovo in numerosi altri gruppi. La cosa che un po’ mi dispiace è che all’epoca quella ricerca della melodia fu in qualche modo un po’ fraintesa, l’idea era che l’heavy metal dovesse rimanere un genere underground e certe aperture melodiche potessero pregiudicarne la natura originaria. Cosa che ovviamente non corrispondeva al vero, ma purtroppo non ebbi la possibilità di dimostrare

mente Ozzy Osbourne e, ancora di più, Ritchie Blackmore che, lasciati i Deep Purple, è rimasto al top con i Rainbow. Ma ora, pur sforzandomi, non riesco a tirare fuori altri nomi, quindi capisci come mi senta un privilegiato, perché ho avuto la possibilità di rimanere sulle scene così a lungo e riscuotere un buon successo pur senza la mia band originaria. Quando ho inciso il primo album dei Gamma Ray qualcuno della casa discografica e della distribuzione ha iniziato a parlare di disco d’oro ed allora ho dovuto intervenire per gettare acqua

il contrario perché dopo i due ‘Keeper…’ le nostre strade si divisero. Spero di averlo fatto negli anni successivi con i Gamma Ray” Qualche tempo fa i tuoi ex compagni degli Helloween hanno riletto in modo alternativo alcuni brani da te composti anni addietro, inserendoli nel discusso ‘Unarmed’. Che idea ti sei fatto di queste nuove versioni? “Non voglio farmi dei nemici, quindi devo fare attenzione a quello che dico (ammicca Nda)… Ok, tanto quello che dovevo dire ai ragazzi l’ho già detto a tempo debito. Non mi piacciono. Sono troppo legato alle versioni originali di quelle canzoni per potermi calare nella loro nuova veste. Ho provato ad ascoltare ‘I Want Out’ con il coro dei bambini e non mi ci sono ritrovato, non è una cosa che fa per me. Non me ne voglia Weiky, ma io non lo avrei fatto” Una delle piaghe più pesanti per una band come la vostra è senza dubbio il download illegale della musica. Quanto pensi che questo fenomeno abbia danneggiato i Gamma Ray nel corso degli anni e quanto ha condizionato la vostra crescita nel corso degli anni? “Il discorso è molto complesso e ci vorrebbero giorni per parlarne. La pirateria musicale è un reato, questo è appurato, però non mi sento di condannarla completamente


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ve’, tracce caratterizzate da un suono eccellente e da una resa davvero buona, che finiscono per impreziosire un lavoro insolito, utile a placare momentaneamente la fame di Gamma Ray e far crescere le aspettative per la prossima fatica dei Rayz. Fabio Magliano

‘Master Of Confusion’ (earMUSIC/Edel) In attesa della nuova fatica discografica che possa dare un seguito al controverso ‘To The Metal’ e con in bocca ancora il buon sapore lasciato dal succulento ‘Skeletons & Majesties Live’, i Gamma Ray rilasciano sul mercato quello che potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i più lunghi EP della storia. ‘Master Of Confusion’, a fronte di due brani inediti che potrebbero dare importanti indicazioni su quello che sarà il futuro prossimo del gruppo teutonico, propone dieci tracce totali tra cover ed estratti live, che lo rendono nell’insieme decisamente interessante. Se il buongiorno si vede dal mattino, l’opener ‘Empire Of The Undead’ spara l’adrenalina a mille con quell’incidere che, a tratti, rimanda alla luce la mitica ‘Ride The Sky’ ed un’attitudine classicamente metal, con un Kai Hansen realmente indiavolato con la sua sei corde. Con la successiva ‘Master Of Confusion’ si attracca invece nei lidi del classico power metal, con chitarre aggressive a fare da ponteggio per una melodia davvero valida, destinata a rimanere in testa sin dal primo istante. Nel complesso due pezzi che faranno la gioia di chi ha da sempre amato i Gamma Ray, con quelle galoppate chitarristiche e quella voce iper acuta che ha di fatto marchiato a fuoco uno stile. Quindi si parte con la divagazione… ‘Death Or Glory’ è una riuscita cover degli Holocaust, una band amatissima da Kai Hansen già coverizzata in passato, qui riproposta in una versione che farà la gioia di tutti gli amanti della NWOBHM, mentre sorprende un poco ‘Lost Angels’, rilettura in chiave power del pezzo degli Sweet, qui indurita rispetto all’originale nonostante un utilizzo di tastiere inusuale rispetto agli standard della band. Chiudono il lavoro sei pezzi live, nello specifico ‘The Spirit’, ‘Wings Of Destiny’, ‘Gamma Ray’, ‘Farewell’, ‘Time To Break Free’ e ‘Insurrection’, registrati in quel di Bochum e già proposti in versione video nel bonus DVD di ‘Skeletons & Majesties Li-

perché in qualche modo fa parte della nostra cultura. Quando ero ragazzino esisteva il tape trading, registravamo le cassette e poi ce le scambiavamo tra di noi… Era una cosa simpatica, divertente, che ha accompagnato la nostra crescita, quindi non vedo cosa ci sia di male nel duplicare tra amici un CD per ascoltarlo… anche perché rispetto a vent’anni fa, oggi il mercato è saturo di uscite discografiche ed è impensabile che un ragazzo abbia soldi abbastanza per comprare tutto quello che esce ogni mese, ci vorrebbe un signor stipendio per poterlo fare, quindi ci sta che i ragazzi comprino un CD a testa e poi se lo passino. Quello che non ci sta, e che deve essere perseguito duramente, è chi vende dischi

masterizzati, perché così facendo ruba alla band e guadagna vendendo materiale contraffatto. Il reato è doppio. Internet ha amplificato tutto questo, non c’è che dire. Da quando è possibile scaricare musica da internet abbiamo iniziato a guadagnare di meno e le nostre vendite ne hanno risentito, perché è vero che il nostro die hard fan comprerà sempre tutto originale per il piacere di supportare il gruppo, ma è altrettanto vero che, chi può scaricare musica senza pagare, molto probabilmente lo farà senza farsi troppi problemi di coscienza”. Presto dovrebbe uscire un nuovo studio album anticipato dall’EP ‘Master Of Confusion’ . Puoi darci un’anticipazione su quella che sarà il suo indirizzo stilistico? “Con il progetto Unisonic ho avuto modo di dare sfogo al mio lato rock oriented. Insieme a Michael abbiamo tirato fuori il nostro volto più hard rock, puntando molto sulla melodia. Con i Gamma Ray potrei tornare alle origini, concentrarmi sul metal classico, ed infatti il primo materiale che è venuto fuori strizza l’occhio allo speed metal Ottantiano. E’ forse un po’ presto per dire come suonerà tutto l’album, però posso dire che le prime canzoni che sono uscite fuori hanno un’anima fortemente incentrata sul metal classico” Siete da poco on the road con gli Helloween nella seconda parte del fortunato Hellish Tour. Che cosa rappresenta per voi un evento simile e come reagite a quella provocazione che vorrebbe i Gamma Ray quali veri headliner dell’evento? “Economicamente forse non è il massimo per noi, perché non ci permette di guadagnare come un tour da solisti, però è indubbio che un tour con gli Helloween ci apre molte porte in più. A parte la cassa di risonanza cha ha un evento simile, ci offre la possibilità di suonare in club molto più grandi del solito e in molti più Paesi, e

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questo è un ben per noi. Su presunte rivalità, io non le ho mai avvertite. Sono consapevole che il nome degli Helloween gode di maggiore appeal perché è sulla piazza da maggior tempo, quindi la cosa non mi crea problemi. Io mi godo quello che sono riuscito a fare con i Gamma Ray, e anche se non sono headliner non ne faccio un dramma… sono in grado di offrire il mio spettacolo ogni sera, ho una buona dose di classici da suonare, ho fan affezionati che continuano a seguirci con passione, e questo mi basta” Sei stato e sarai in tour con gli Helloween e hai appena collaborato con Michael Kiske negli Unisonic. Sono tutti indizi che fanno supporre ci sia un fondamento su quella voce ricorrente che vuole gli Helloween prossimi al ritorno in formazione originale… “Questa è la cosa che auspicano tutti e che sicuramente affascina non poco. Il pensiero di come potrebbero suonare, oggi, i vecchi Helloween stuzzica, non lo nego, però non c’è nulla di concreto in tutto questo. Potrebbe ricrearsi la magia di un tempo, oppure potrebbe naufragare nuovamente tutto, chi può dirlo? Potrebbe funzionare, non lo so… al momento sono solo voci prive di fondamento. Non voglio dire che torneremo a suonare insieme, ma non voglio neppure dire che non accadrà… Quello che è certo è che prima Michael dovrebbe risolvere un po’ di problemi e chiarire un po’ di cose con altre persone. A noi non rimane che vedere cosa ci riserverà il futuro…” FABIO MAGLIANO

Kai Hansen – voce, chitarra Henjo Richter – chitarra, tastiere Dirk Schlachter – basso Michael Ehre – batteria www.gammaray.org

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E’ uscita una retrospettiva video della famosa band teutonica intitolata ‘Videos 1995-2012’, un buon modo per rinfrescarci la memoria in attesa di vederla dal vivo in Italia. i hanno ammaliati con il loro piglio marziale e teutonico, ci hanno stupito con gli effetti speciali. Ad oggi, non tutti i vecchi fan dei Rammstein paiono apprezzare la decisa svolta commerciale e la spettacolarizzazione declamata del gruppo tedesco, ma i tempi sono cambiati anche a Berlino ed è difficile rinverdire una tensione artistica che non ha più ragione d’essere come prima. Mentre attendiamo il nuovo album ci beiamo di questa raccolta di video che ripercorre un po’ la storia del gruppo. Non è proprio una retrospettiva, ma a noi offre l’occasione di rivedere il percorso dei Rammstein anche attraverso le parole del chitarrista Richard Kruspe. Il DVD intitolato ‘Videos 19952012’ venne annunciato nel novembre 2012 sulla pagina Facebook del gruppo. Esso sarebbe stato costituito da una raccolta di video di quel periodo contenente anche due video inediti diretti da Zoran Bihac per ‘Mein Herz Brennt’, brano tratto dall’album ‘Mutter’. Il primo video sarebbe stato diffuso via Vimeo nel dicembre 2012 e avrebbe fornito una versione per pianoforte di ‘Mein Herz Brennt’. Il pezzo sarebbe stato realizzato come singolo con ‘Gib Mir Deine Augen’ come b-side. Il secondo video sarebbe uscito più avanti in uno speciale sito promozionale. Come accade di solito quando si parla dei Rammstein, anche questa volta internet ha fatto trapelare una versione esplicita del video prima dell’uscita ufficiale, facendo da cassa di risonanza per l’intero lavoro. Ora, viene da pensare che questo tipo di raccolte antologiche, servano a tappare i buchi tenendo viva l’attenzione quando si è scarsi di idee, in attesa dunque di raccogliere materiale per il disco futuro. Al momento non ci sono annunci ufficiali riguardo a quest’ultimo, è solo confermata la presenza della date dal vivo la prossima estate. Ci accontentiamo. Amiamo questi omaccioni per quello che hanno saputo darci fino ad ora e per ciò che hanno rappresentato nella storia peculiare del loro paese e del rock mondiale. La biografia personale del chitarrista Richard Kruspe a questo titolo è esemplare e riflette quella stupefacente della Germania, che è passata dall’enfasi trionfale imperiale prussiana, ai deliri di cospirazio-

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Ja Voll!

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ne cosmica del maligno nazional-socialista, fino a diventare simbolo della violenza simbolica della Guerra Fredda e poi, dopo la caduta del muro di Berlino, l’apoteosi del tripudio capitalistico. E’ come se nel dna della musica dei Rammstein esistessero condensati tutti questi aspetti, e ciò la rende a maggior modo interessante. Per tornare a Kruspe, egli fondò il gruppo chiamato Orgasm Death Gimmicks nel 1989, anno della caduta del muro dopo essere scappato dalla ex DDR per rifugiarsi a Berlino Ovest. Dopo il famigerato 16 novembre dello stesso anno, sarebbe tornato a Schwerin incontrando Till Lindemann batterista dei First Arsch e i suoi due conviventi Oliver Riedel (allora nei Inchtabokatables) e Cristoph ‘Doom’ Schneider (dei Die Firma). I quattro insieme avrebbero formato i Rammstein per unire il suono duro delle chitarre con una visione più industrial e teutonica, caratteristica dell’immaginario della storia tedesca. Spiega Kruspe: “Il fatto è che che crescere nella Germania dell’Est in qualche modo ti influenza spingendoti alla remissività o alla ribellione totale. Non te ne rendi conto subito. Io ho avuto un’infanzia felice e da bambino non avevo la percezione di crescere in una gabbia perché tutti erano come me, e non c’erano differenze sociali, di classe, il che poteva anche essere un fattore positivo. Solo diventando adolescente e sviluppando una visione più ampia della realtà poi comprendevi che quel livellamento non era né spontaneo né umano, e che era più vicino a una sorta di prigione che allo stato vero della natura umana. Incominciai a sviluppare una forte allergia nei confronti dell’autorità (ad esempio degli insegnanti a scuola) e ad oppormi a quella sottomissione imposta. La musica, specialmente l’hard rock e l’heavy metal che venivano dagli Stati Uniti, o comunque quel poco che poteva giungere fino a me, era una sorta di catarsi e di liberazione, la sola possibile. Poi decisi di scappare verso Ovest. Veramente venni arrestato durante una manifestazione di dissenso nei confronti del regime comunista e, per sfuggire a un interrogatoriopestaggio della polizia, scappai in Ungheria, poi a Berlino Ovest. La cosa pazzesca fu che, la tanto agognata terra promessa, subito mi fece schifo. Berlino Ovest era oscura, deprimente e mi faceva paura, io che fino allora non avevo avuto paura neanche degli scagnozzi della DDR. Però nella Germania dell’Est eri alla fine protetto, mentre l’Ovest mi appariva come una giungla minacciosa di cui non conoscevo le regole. Per non impazzire incominciai ad andare ad un sacco di concerti (ricordo che vidi anche i primi Nirvana). Intanto la situazione nella Germania dell’Est era migliorata, e dunque decisi di tornarvi”. Conoscendo questa storia non viene da sorprendersi che il manifesto dei Rammstein sia sempre stato (almeno della prima fase, quella più autentica della loro carriera) quello di infrangere le regole dell’establishment e di opporsi ai dogmi di una morale ipocrita e bacchettona. E comunque anche recentemente il combo tedesco non ha voluto smentirsi: il loro video del 2009 ‘Pussy’, con scene esplicite di sesso spinto tra i membri della band e delle ragazze compiacenti, solamente tre anni fa venne ritenuto da molti scandaloso. Continua Richard: “All’inizio intraprendemmo la nostra protesta contro la buoncostume in modo piuttosto ingenuo ed inconsapevole e ciò fu la nostra fortuna, perché se avessimo riflettuto troppo probabilmente saremmo finiti con l’auto-cen-

Lindemann il drago Lo sapevate che Till Lindemann è figlio del poeta per l’infanzia Werner Lindemann e di una giornalista-scrittrice? Egli crebbe nella Germania dell’Est degli anni ‘70 sotto la cortina di ferro ma circondato da cultura. Nel 2002 è uscito il suo libro di poesie ‘Messer’ dove, al di là del sulfureo alter-ego che manifesta sul palco, rivela una natura sensibile ed intimista. In effetti a sentirlo parlare appare quasi timido, a differenza di Kruspe che sembra molto sicuro di sé e perfettamente a suo agio nel ruolo della rockstar multi-millionaria. Spiega Till: “Non sono una persona che ama il caos. Per rilassarmi e trovare un mio stato di pace ho bisogno del contatto con la natura. Con i Rammstein viaggio molto ma non mi godo nulla, perché passiamo da un palco all’altro, da un hotel all’altro. Allora, quando non lavoro, amo compiere viaggi av-

surarci di più. Ad ogni modo, provenendo dall’Europa dall’Est, ci voleva proprio poco per apparire come blasfemi, visto che lì si soggiaceva ad un sistema di norme molto rigido”. Oggi il tiro dei Rammstein lascia più adito alla spettacolarizzazione che alla protesta, e i loro show sono più famosi per il loro effetto scenico e pirotecnico che per i contenuti di dissenso. Ciò ha l’effetto di attirare spettatori generici che vanno al di là dello zoccolo duro dei loro fan. “E’ un equilibrio molto difficile da tenere, perché in verità ci siamo stancati di dover per forza stu-

pire sul palco, ma dall’altra parte oramai il pubblico si aspetta un certo tipo di effetto plateale, durante i concerti ed è difficile ora modificare totalmente il registro” spiega ancora Kruspe. “In effetti mi piacerebbe poter suonare almeno uno show con effetti speciali zero, solo qualche luce e tutto il resto puro rock n’roll e non è detto che un giorno non lo faremo. Il nostro obbiettivo è quello di lasciare parlare sempre di più la musica e meno lo spettacolo”. Malgrado ciò che pensino di se stessi, visti dal punto di vista di chi li ama i Rammstein hanno quasi vent’anni ma sanno ancora sorprendere e non

venturosi (ad esempio sono stato in Amazzonia e lì la natura imperiosa mi ha ammaliato), o andare a pesca. Quelle sensazioni di libertà che la vastità degli spazi naturali mi danno poi rimangono il mio bagaglio emotivo durante i concerti, il mio punto di equilibrio quando mi trovo in difficoltà”. E sulla sua passione per gli effetti pirotecnici: “In passato me ne occupavo io ma poi, dopo un incidente, abbiamo assunto un tecnico professionista. Sono sempre stato attratto dal fuoco. E’ un emblema di purificazione, una sorta di esorcismo che compiamo sul palco. I Rammstein tirano fuori il lato oscuro dell’esistenza e quindi ci sono molti demoni da bruciare”. B.V.


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apparire mai banali o scontati. “Ce la mettiamo tutta per non ripeterci e non annoiare in primis noi stessi. Non è sempre facile. All’interno del gruppo esistono, com’è ovvio, opinioni diverse e, essendo una band democratica, discutiamo molto ed accettiamo parecchi compromessi. D’altro canto vent’anni sono tanti, siamo cambiati anche come persone, per cui spesso i nostri pareri divergono e litighiamo. Tuttavia, siccome per noi il gruppo è sacro, non abbiamo mai davvero pensato di dividerci anche perché, e lo dico senza pudore e con la massima sincerità, finanziariamente non sarebbe conveniente e non voglio negare tale aspetto. Quando ci sentiamo al limite dell’implosione, ciascuno di noi si prende degli spazi di libertà con progetti paralleli, come io con gli Emigrate, e respira per un po’ un’altra aria”. Per Kruspe comunque la militanza in altre band (come gli Emigrate per l’appunto) non è bastata a placare la sua raminga profonda inquietudine personale e ad un certo punto ha dovuto andarsene a New York per non scoppiare e mandare tutto a quel paese. “Sì, mi ero trovato artisticamente in un periodo di crisi in cui stavo mettendo in discussione parecchie cose, ma anche mi ero sposato con la mia prima moglie che era mezza americana. Quello stacco mi servì: rimisi quello che facevamo con i Rammstein nella giusta prospettiva e cominciai a rivalutarlo, tanto da tornare nuovamente, più avanti, a vivere in Germania, a Berlino. Non nego che esistono ancora tensioni tra di noi. Non siamo mai arrivati a metterci le mani addosso, ma vi siamo giunti vicino. Forse se l’avessimo fatto, se ci fossimo presi a botte sarebbe stato meglio, perché così ci saremmo sfogati una volta per tutte. Invece i non detti causano bubboni di rancore che nel tempo sono ancora più pericolosi. Più invecchi più ti incisti sulle tue idee ed è più difficile accogliere il punto di vista degli altri, però alla fine finora siamo sempre riusciti a ricomporre i conflitti e spero che riusciremo ad accordarci anche in futuro”. Dell’algido auto-controllo teutonico i Rammstein hanno sempre avuto poco e, in contrasto con la loro musica a tratti fredda e marziale, il loro comportamento fuori dal palco e le loro vite private sono sempre state trasgressive ed eccessive. I loro party nei backstage di mezzo mondo sono sempre stati famosi per i fiumi di alcool, i buffet di varie sostanze e i mazzi di donnette discinte e disponibili. Richard sorride sgamato: “Beh, con il tempo abbiamo imparato a diventare più parchi, quanto meno quando ci troviamo lontani dai tour. E’ stata una scelta obbligata se volevamo sopravvivere, come band ma anche come persone. L’auto-distruzione dopo un po’ non porta a nulla se non alla distruzione stessa. Io per esempio, per combattere i miei terribili mal di schiena provocati anche da anni di chitarra sulle spalle, ho iniziato regolarmente a fare yoga e ne sto traendo molto beneficio, anche psicologico. Lo pratico prima di salire sul palco insieme a Schneider. So che anche gli altri membri del gruppo si sono messi a fare una qualche sorta di sport. Come vedi ci teniamo a diventare longevi”. BARBARA VOLPI

Till Lindemann – voce Richard Kruspe – chitarra Paul Landers – chitarra Oliver Reidel – basso Christian ‘Flake’ Lorenz – tastiere, synth, samples Christoph Schneider – batteria www.rammstein.de www.facbook.com/rammstein

Videos 1995-2012’ (Universal) Per gli amanti e i cultori del gruppo ecco questa raccolta completa dei suoi video ai quali si aggiungono due inediti per il brano ‘Meinz Herz Brennt’. Il tutto per sette ore di materiale tra cui venticinque video musicali, moltissime riprese off-stage, clip, materiale inedito ed un booklet di cinquantasei pagine, disponibile in formato triplo dvd o doppio Blu-ray. Ecco la lista dei pezzi contemplati: Disco 1: 1 ‘Du Riechst So Gut’ 2.Making of ‘Du Riechst So Gut’ 3.’Seemann’ 4.Making of ‘Seemann’ 5.’Rammstein’ 6.Making of ‘Ramstein’ 7.Engel 8.Making of ‘Engel’ 9.Du Hast 10.Making of ‘Du Hast’ 11.’Du Riechst So Gut ‘98’ 12.Making of ‘Du Riechst So Gut ‘98’ 13.’Stripped’ 14.Making of ‘Stripped’ 15.’Sonne’ 16.Making of ‘Sonne’ 17.’Links 2 3 4’

18.Making of ‘Links 2 3 4’ Disco 2 1.’Ich will’ 2.Making of ‘Ich will’ 3.’Mutter’ 4.Making of ‘Mutter’ 5.’Feuer Frei!’ 6.Making of ‘Feuer Frei!’ 7.’Mein Teil’ 8.Making of ‘Mein Teil’ 9.’Amerika’ 10.Making of ‘Amerika’ 11.’Ohne Dich’ 12.Making of ‘Ohne Dich’ 13.’Keine Lust’ 14.Making of ‘Keine Lust’ 15.’Benzin’ 16.Making of ‘Benzin’ Disco 3 1.’Rosenrot’ 2.Making of ‘Rosenrot’ 3.’Mann Gegen Mann’ 4.Making of ‘Mann Gegen Mann’ 5.’Pussy’ 6.Making of ‘Pussy’ 7.’Ich Tu Dir Weh’ 8.Making of ‘Ich Tu Dir Weh’ 9.’Haifisch’ 10.Making of ‘Haifisch’ 11.’Mein Land’ 12.Making of ‘Mein Land’ 13.’Mein Herz Brennt (Piano Version)’ 14.’Mein Herz Brennt’ 15.Making of ‘Mein Herz Brennt’


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ono davvero dei grandissimi figli di pu….., i Saxon. Un’espressione volgare, da strada (habitué nelle corde dei veri guerrieri della classe lavoratrice), che scriviamo tranquillamente, come se fosse il più normale dei complimenti; zero polemiche, un potente rimando – il vecchio moniker, Sons Of a Bitch – e tantissimo appeal genuino. Perché non è così frequente imbattersi in una band che in oltre 3 decadi di militanza nella scena ha saputo mantenere uno standard qualitativo attestato sopra la media del genere. Utilizzando una metafora calcistica, dopo aver raggiunto il traguardo delle due stelle (10+10) come quota di partecipazione nella massima serie, il team del Sassone ha sempre occupato piazzamenti da Champions League. Certo, a partire dalla metà degli Eighties gli album di Biff Byford e compari non sortiscono più lo sgargiante effetto di opulenza originato da un ‘Strong Arm Of The Law’ o da un ‘Denim & Leather’; tuttavia si lasciano amare, colpiscono i fianchi, sanno ancora ruggire e non sfigurano (quasi) mai di fronte alle nuove generazioni che avanzano. ‘Sacrifice’, platter che tocca quota 20, risponde a queste caratteristiche. Numero tondo, che presuppone a qualcosa di speciale, per voi e per i fan … “Esatto. Però coi magri tempi che corrono, con l’industria discografica congestionata, l’unico exploit che possiamo concederci sta nel pubblicare un buon album, che valga i soldi spesi per l’acquisto e per vederci in concerto. Mica roba da poco. Ce ne siamo occupati tra uno show e l’altro. La scrittura è avvenuta quasi interamente durante i periodi di pausa, nella tranquillità dei nostri salotti o, come spesso accade, tutti insieme radunati in una stanza, mentre la registrazione si è concretizzata a strappi. Non ci diverte più segregarci in studio.” Barricarvi in studio sarebbe equivalso a compiere un ‘Sacrificio’…giusto? “No, non fino a quel punto (risata, nda). Il ‘sacrificio’ che ha dato titolo a questo album è inteso come positivo, è sinonimo di un rito collettivo, operato da noi cinque, volto a stabilire un contatto con la collettività che ci segue e ci supporta grazie alla qualità che gli abbiamo sempre offerto. Se ci pensi, i sacrifici sono il pane della nostra vita. Soltanto dormendo non si compie alcun sacrificio, perché ti abbandoni all’ozio supremo: respiri e basta, non svolgi alcuna azione volontaria che implichi un minimo di razionalità.” E dove proviene quella specie di medaglione – o scudo – che compare in copertina?

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SAXON Fly High Again

“Durante un mini tour di poche date in Messico, abbiamo visitato un museo dove era esposto, in una piccola teca iper-protetta da vetro anti-proiettile, quel medaglione in puro oro. Per la cultura messicana corrisponde ad un totem, una sorta di amuleto che ripristina, in chi lo possiede, i valori di tenacia, fratellanza, onore e rispetto. Ottimo per una copertina di arrembante e velenoso classic metal. Ci


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siamo informati al fine di avere una copia stampata su carta di quel feticcio, che poi noi abbiamo leggermente modificato allo scopo di renderlo nostro.” Detto questo, titoli come ‘Warriors Of The Road’ e ‘Walking The Steel’ richiamano istantanee i canonici temi del genere, bollati come ‘stupidi’ e ‘giovanilisti’ dalla critica non-rock… “Ciò che la critica non-rock stenta a capire – ormai da decenni – è che le liriche musicali, al pa-

L’aquila britannica veleggia sorniona nei cieli che sovrastano l’Olimpo dell’heavy metal. Raschiano sul velluto, ma non rischiano, i Saxon: ‘Sacrifice’ è il consuetudinario materiale che convince, aiuta lo scarico di ormoni e incita a scuoter il collo senza strafare. Finché avranno vita, teniamoci stretti questi defender dello Yorkshire…


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DA BUFALA A INESATTEZZA Si è soliti credere che l’anima del commercio sia la pubblicità. Vero. Ma perché questa funzioni a dovere, a volte è necessario innaffiarla di qualche bufala. Esempi? Eccone uno. In parecchi portali musicali, e persino sull’autorevole Wikipedia, viene riportato che dal 2003 Biff Byford svolge l’attività laterale, e part-time, di amministratore della Amadeus Orchestra. “Non so chi li abbia informati, ma è una stronzata bella e buona”, il suo principesco commento. Rovistando a fondo, va anche detto che di orchestre ribattezzate Amadeus ne esistono almeno tre (cinese, austriaca e americana) in tutto il pianeta. Da una notizia pretestuosa passiamo ad un comunicato che si è rivelato privo di sviluppi concreti. Sempre di orchestre si parla, comunque. E di ‘Crusader’, evergreen che nell’edizione di ‘Sacrifice’ con bonus disc compare in una versione ‘classicheggiante’. Risale all’Aprile 2011 la news che vorrebbe i Saxon intenti a collaborare con la Filarmonica polacca, in vista della data che il gruppo avrebbero tenuto nel Dicembre del medesimo anni a Varsavia. Il concerto si è tenuto regolarmente, ma di archi, ottoni e ottavini professionisti neanche l’ombra. Sfumata, quindi, l’eventualità di un Dvd che celebri l’evento, visto che l’evento non s’è consumato. Da esperto attaccante verbale, Biff dribbla la questione soffermandosi sulla succitata ‘Crusader’, “uno di quei pezzi che amiamo suonare più di altri. Ai tempi delle

sessioni di ‘Into The Labyrinth’ c’è stata la chance di collaborare con un ragazzo che ci ha aiutato nell’orchestrazione dei suoni. E da allora ci siamo prefissati di suonare in ciascuna delle nazioni che avremmo toccato con l’Orchestra nazionale del luogo, almeno una volta. Fino ad ora ci siamo limitati alle registrazioni in studio, come è accaduto per il pezzo ‘Call To Arms’, ma non abbiamo resistito alla tentazione di vestire di abiti aristocratici ‘Crusader”. Brano che, a detta dello sbiancato leone britannico, è “un mix tra unplugged, heavy metal e sinfonie da salottini chic”. Scavando e insistendo, è anche emerso che il vero fautore diretto della cosiddetta ‘orchestrazione’ è il bassista Nibbs Carter, “che grazie ad un pedale, persino sul palco, può controllare i suoni e i campionamenti prodotti e sintetizzati dalle tastiere”… (FP)

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ri di qualsiasi opera scritta con lettere e punteggiatura, spesso rientrano nel novero delle metafore. Nominare i ‘guerrieri della strada’ non significa necessariamente che si parli di un gruppo di centauri incazzati con l’universo, così come ‘camminare sull’acciaio’ non è un’elegia del life-style del metallaro. Cerco, entro i miei limiti, di rendere i testi papabili per tutti, di andare a fondo nei significati. Frasi ad effetto come ‘non vivo più senza te’ e ‘ti amo, baby’, o ancora ‘gloria all’heavy metal’ sono antiquariato dalle palle mosce. Non siamo più i venticinquenni che vogliono cambiare il mondo; siamo uomini maturi che si sforzano di comprenderlo e di adeguarvisi. Vuoi la dimostrazione? ‘Walking The Steel’ è un tributo a distanza riservato a New York, città ancora ferita dal disastro del fatidico 11 Settembre, e ai suoi cittadini, uniti nella solidarietà del dolore e dalla voglia di guardare avanti, l’orizzonte, e ripartire daccapo. ‘Warriors Of The Road’ è invece un omaggio tra le righe ai piloti di Formula 1 e al più intenso tra di essi che abbia scaldato l’asfalto con una monoposto: Ayrton Senna.” Siamo venuti a conoscenza del podcast che avete introdotto su Youtube. Una sorta di radio video-digitale, in sostanza, che promuove il materiale ‘intimo’, embrionale o dal vivo, quello che il più delle volte non potete pubblicare ufficialmente su supporto ottico o video … “E’ inevitabile doversi aggiornare con i prodigi della tecnologia. Siamo stati consigliati bene: il social network più cliccato è Youtube, e il sito ufficiale non basta più. Grazie a questo canale possiamo terminare anche sotto la lista dei ‘video raccomandati’, cosa che ci permette una maggiore apertura verso il mondo. Se tu cerchi qualcosa di stampo heavy, il canale seleziona i prodotti affini, tra cui il nostro; legioni di nuovi fan potranno così fare la nostra conoscenza. Certo, un podcast va aggiornato periodicamente, ma ne vale la pena.” I prodigi della tecnologia riguardano anche gli equipaggiamenti, sempre più minuscoli, con i quali è possibile facilitare, accelerare e ampliare il processo di creazione e registrazione della musica. Ne fate uso anche voi? “Come normale che sia. Se fossi un produttore o un fonico potrei elencarti persino i singoli microchip contenuti nelle apparecchiature. Ma visto che sono un semplice cantante, ti posso confermare che ProTools è tra di noi, insieme ad altri programmi di missaggio e mastering, debitamente coniugati con qualche retaggio analogico dei bei tempi andati.” Mi ha colpito la selezione delle tracce, la loro successione nel disco. Difficilmente troviamo due brani affini legati uno all’altro … “Questo perché un album è, anzi, deve essere un’esperienza ‘totale’. Sappiamo che l’heavy metal è una musica giocata sull’istinto e l’immediatezza, requisito che accompagna molti fan a cibarsene e bocconi: mettono l’album sul piatto, e corrono ad ascoltare una delle canzoni preferite. Ma è anche vero che altrettanti fan prediligono immergersi in pieno nell’atmosfera del disco; lo ascoltano tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine. E per questi patiti è necessario offrire loro un po’ di varietà…sempre nei limiti del genere. Un esempio pratico è dato dalla tripletta ‘Sacrifice’, Made In Belfast’ e ‘Warriors Of The Road’: una è moderna, la seconda è un mid-tempo con intermezzi folk e la terza è old-school.” Venti album sono l’equivalente di 200 brani, grossomodo. Sapresti individuare quel fattore astratto che ti sostiene, emotivamente parlando, nel corso della compilazione di un nuovo set di canzoni inedite? “La verità è che non riesco a fare altro, nella mia vita. Sono così abituato a scrivere canzoni che quasi me le sogno di notte. Ovviamente capitano anche delle ‘giornate-no’, oppure persino dei ‘periodi-no’. In quei casi, fingo di trovarmi con la spalle al muro. Il muro mi indica che devo affron-


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QUANTA NOSTALGIA RIVEDERSI LI’ DENTRO... Dentro dove? Dentro quello scatolone piatto che siamo soliti identificare come ‘schermo televisivo’. ‘Heavy Metal Thunder’, il film-documentario autobiografico firmato Saxon, è sul mercato da un paio di mesi scarsi; molti di voi non l’avranno nemmeno sfiorato, mentre Biff , in qualità di selezionatore delle immagini, è stato il primo spettatore. Interpellato sulla valanga di memorie che certi clip inevitabilmente smuovono , il canuto leader si sbottona a strappi, alternando autentici aneddoti di vera vita vissuta con once di consumati slogan da venditore di enciclopedie porta a porta. “Nel rivedermi in quegli spezzoni mi sono sentito catapultato in un tempo ancora precedente ai nostri esordi”, ricorda. “Da ragazzino ho lavorato in alcune fabbriche, tra rumori assordanti e sconnessi, e mi divertivo a cantare in mezzo a quel frastuono: ero predestinato a diventare il leader di una band heavy metal. La nostra musica, in fondo, ottiene il medesimo effetto di quei macchinari: ti sfonda il cranio con suoni violenti. Solo che i nostri incorporano la melodia (risata, nda)... naturale”. Nel rimirarsi in video, Biff rammenta con una punta di malinconia i concerti roventi tenuti a cavallo tra fine anni Settanta e primissimi Ottanta. Tour de force in piena regola. “In qualunque buco puzzolente del Regno Unito, e non solo, noi c’eravamo. A volte percepivamo un buon compenso, altre volte finiva che perdevamo noi; ma

tare i lavori dell’ultimo album della mia carriera, e il penultimo da me pubblicato ha deluso su tutti i fronti. Con questi presupposti, mi sbatto come un ossesso.” A differenza dei frontman in forza negli Iron Maiden (Bruce Dickinson) e nei Judas Priest (Rob Halford), tu non hai mai dato vita ad una carriera solista, nemmeno parallelamente ai

era una mania, dovevamo suonare ogni sera! Per otto anni abbondanti abbiamo fatto quella vita”. E per otto anni la giovane classe operaia s’è trasferita sopra un palco, a godersi il trionfo. “Ti assicuro – conclude – che non mi dispiacerebbe riassaggiare quei ritmi per un paio di mesi”. Quando l’anagrafe è soltanto una formalità… (FP)

loween, non ne ricordo altre di rilevante importanza.” Mi risultano cammeo con Destruction, Fastway, Freedom Call e gli Air Pavilion senza speranza … “Risalgono a parecchi anni fa… Davo solo un contributo rapido e indolore.” Il metal migliore è stato divulgato tra l’80 e l’89: la stragrande maggioranza dei metal-fan conviene su questo

vo minimizzare così. Qualche gruppo meritevole s’è anche affacciato. Prendi i Machine Head degli esordi: ho sentito grandi parole sul loro conto e non mi sono mai dispiaciuti. Idem quei collettivi che riprendono il passato per alterarlo secondo gli schemi correnti. Anche i Mastodon hanno le carte in tavola per non deludere un cariatide come me. E’ indubbio che i Novanta e gli anni 2000 abbiano partorito alcune band degne di stare dove stanno: parecchie idee sono davvero valide, molti riff pure. Sarà anche roba un po’ rimasticata, ma anche noi rimastichiamo parte dei nostri pasti.” Alcuni, alcuni, alcuni. Mi sembra di capire che sei immerso nel tuo mondo, poco incline ad affacciarti in cerca di novità … “Chiamala pure chiusura mentale, indifferenza o come meglio credi. Io dico solo che dopo una vita spesa a cantare heavy metal non avverti il bisogno impellente di cibarti di altro heavy metal. Se ti capita l’occasione, più che volentieri. Altrimenti lasci il fardello al ragazzino che vuole costruirsi una cultura e farsi strada. Io mi crogiolo nel mio, e in quello che ero solito ascoltare quando fantasticavo una vita da rockstar.” FILIPPO PAGANI

Saxon. In compenso, seppur col contagocce, ti sei prestato ad alcune ospitate … “Non riesco a non pensare ai Saxon: ecco perché non mi è mai importato di una carriera solista con chissà quale backing band. Le ospitate le accetto solo in funzione dei miei impegni, e a parte quelle con Doro e gli Hel-

assioma. Nessuna band posteriore a quel periodo ha saputo raggiungere un analogo status artistico. Che opinione hai maturato dei vostri epigoni, o comunque di quei combi che hanno solcato i cieli dal Novanta in poi? “In linea di massima concordo con la maggioranza dei fan – probabili nostalgici di una decade che non si ripeterà tanto facilmente – però credo sia eccessi-

Biff Byford – voce Paul Quinn – chitarra Doug Scarratt – chitarra Nibbs Carter – basso Nigel Glockler – batteria www.saxon747.com

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Prolifico (anche troppo) e versatile, creativamente solitario ma disponibile alle collaborazioni, onnivoro amante della spiritualità jazz abbinata alle articolazioni del rock. Con ‘The Raven That Refused To Sing’ Steven Wilson coccola le tempie e dimena i nervi di chi non sa privarsi dei suoi osannati Porcupine Tree… e non solo.

el lussuoso hotel della centralissima piazza Fontana di Milano, Steven Wilson è facilmente confondibile con il mobilio. Le varie estensioni della sua fluente personalità – Porcupine Tree in primis, Blackfield, Storm Corrosion ecc – al contrario, giganteggiano in tutti i reparti della goduria per i sensi. Seduto nel morbido angolo di un enorme stanzone, beve acqua minerale e mangiucchia dolcetti assortiti. Magro come un chiodo e nero-vestito, colui che il mondo intelligente (formato da gente intelligente che brama per musica intelligente) apprezza e riconosce nei panni di factotum e music-sitter per antonomasia, emerge nella sua autorità soltanto se lo si scruta dietro le fini lenti dei suoi occhiali da vista. La quintessenza del musicista vero risiede nei suoi cinquanta chili di salute: se ne sbatte delle cifre mai viste a quattro o cinque zeri (“la ricchezza la lascio ai parassiti del pentagramma, quelli con poca fantasia”), riconosce le sue fortune (“faccio quello che amo, e non muoio di fame”) e le ‘mancanze’ che determinano parte della sua sopravvivenza (“sono grato di non sentire la pressione tipica che grava sulle spalle di un padre e marito: posso concedermi un po’ di egoismo”). Ribadita la grandezza dell’uomo, spostiamo il radar sull’artista. E su ‘The Raven That Refused To Sing’, terzo capitolo dell’avvincente, tentacolare parentesi solista che il multi-strumentista londinese si concede a intervalli regolari… Ad un primo impatto sorge spontanea l’associazione con le cosiddette ‘nursery rhyme’, le favolette della buonanotte un po’ crude e scatena-brividi che taluni genitori britannici malati di cinismo sono soliti illustrare ai loro figlioletti… “Per la precisione, il ‘Corvo Che Si Rifiuta Di Cantare’ è una delle sei storie legate al soprannaturale che compongono il disco. Una favola che somiglia più ad una leggenda, dal sapore tradizionale e per nulla compresa nel calderone dei moderni racconti horror-gotici. Tu hai citato le ‘nursery rhyme’, ed è un paragone calzante. Le fiabe della tradizione britannica, e in generale nordeuropea, possiedono delle marcate venature dark, esattamente come i testi della title-track e delle restanti canzoni presenti nell’album. Ognuno di questi pezzi è basato su fatti ultraterreni, dai contorni tenebrosi – e sulla questione che siano prodotti di fiction o più sinistramente attendibili, lascio che siano i lettori/ascoltatori a stabilirlo.” Ricordi una storia, di quelle che ti sono sta-

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te narrate in tenera età, che ti ha particolarmente impressionato…per non dire spaventato? “Per alcune settimane rimasi completamente coinvolto, quasi ossessionato, dall’idea che potessero esistere i fantasmi. Non si tratta di una storia, ma di una foto. Fu un mio compagno di classe, nelle scuole primarie, a portare in aula un libro nella quale erano pubblicate foto di fantasmi spontanei. Non ho mai saputo se quelle foto fossero autentiche; so soltanto che per diverso tempo non sono riuscito a chiudere occhio, tanta era la mia paura in proposito. Poi, crescendo, ho imparato a constatare che l’Inghilterra, al pari di tutta l’isola britannica, è ricchissima di luoghi in cui si sono verificati degli avvistamenti spettrali.” I fantasmi classici, intesi come anime di persone defunte, appaiono ovunque. Tutto il mondo ne è pieno. Solo che, a differenza di molti altri Paesi, l’Inghilterra non affronta il fenomeno infarcendolo di spiritosaggini e incredulità, ma con con piglio serio e scientifico … “Poco, ma sicuro. I fantasmi, gli spettri, o comunque li si voglia chiamare, esercitano un fascino indescrivibile, che mette a nudo anche lo scetticismo più bieco. La prova della loro esistenza getta luce su una delle possibili destinazioni che ci attendono dopo che il nostro cuore avrà cessato di battere. Per quanto romantica, la mia teoria è questa: le persone che in vita hanno lasciato interrotto qualcosa di importante, non potranno morire completamente. Ciò mi conduce a delle serie riflessioni sulla mia vita, sui dispiaceri che l’hanno contraddistinta e resa unica, irripetibile. Più gli anni aumentano – ed io sono nella mia quinta decade – più tendo a guardarmi indietro. Guardo sempre avanti, perché è nel futuro che vivrò il resto dei miei giorni, ma non posso fare a meno di guardarmi alle spalle: a ciò che ho fatto e ciò che non ho fatto, a ciò che è funzionato e ciò che ha funzionato meno. E molto altro ancora. Tutti queste cose, definite rimpianti, assumono a loro volta le sembianze di spettri. Maggiore è il loro numero, maggiore sarà la chance di ripresentarsi sotto forma di fantasma, dopo la morte fisica. La teoria in cui lo spirito del defunto rifiuta di abbandonare la Terra allo scopo di mettere a tacere i propri rimpianti, apre i varchi a molte intepretazioni…ed è molto più stimolante della classica storiella gotica giocata sui brividi a buon mercato, secondo me.” Passiamo alla musica. Echi e anche profusioni di Soft Machine e King Crimson dominano gli spazi aperti del disco. E nel leggere il nome di Alan Parson nella lista delle figure coinvolte, ho subito pensato ad un piano di lavoro memore della vecchia scuola… “Parecchio old school, già. Non è certo segreta la mia venerazione


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21st Century Progressive Man?

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totale per le produzioni dei primi anni Settanta. E non parlo solo di progressive: qualsiasi album datato tra il ‘70 e il ‘74 possiede un suono da leccarsi le orecchie! Organico, vibrante, dorato. Ed è così che desidero che sia ogni mio album. Volevo quindi un ingegnere del suono che fosse in grado di coniugare il pathos maturato nell’esperienza analogica con la registrazione digitale, amica mia, oggigiorno insostituibile per praticità e velocità. Alan era in cima alla lista, staccato di parecchi punti dal secondo (di cui, per correttezza, Steven non ha voluto rivelarmi l’identità, nda). Non gli manca nulla. E poi, importantissimo: lui è stato il ragazzo che ha registrato l’album per eccellenza, quello che conoscono tutti, quello che a giudizio del mondo intero detiene il sound più bello in assoluto…” Mi vedo costretto a menzionare ‘The Dark Side of the Moon’, dei Pink Floyd, casomai esistesse ancora qualche animale che legge riviste musicali e lo ignori… “Il fatto di averlo al mio fianco è stato fonte di insegnamento senza precedenti. Più volte, sin da quando ho iniziato a lavorare in questo ambiente, ho avvertito l’impressione di essermi perso l’inizio di tutto (sarà perché all’alba degli anni Settanta eri solo un bambino, nda), ed oggi mi sembra di aver colmato, almeno in parte, questa lacuna. L’album possiede anche le corde del tributo a quel tipo di sound Settantiano, scorre magnificamente, proprio come me lo ero immaginato. Alan comunque è stato il primo, e anche unico, ad essere contattato. Mi ha un po’ sorpreso che fosse a conoscenza dell’operato di un certo Steven Wilson…” Steven, cosa rispondi a coloro che ti accusano di riproporre la tua collaudata, e vincente, formula compositiva? L’hai trovata, e non la abbandoni più. Io – sappilo – dissentisco. “Sfrutti una formula quando replichi il medesimo lavoro anno dopo anno, con minime e insignificanti variazioni. Nei quattro ultimi album da me realizzati (due con i Porcupine

Tree, uno a nome Storm Corrosion e questo ‘The Raven That Refused To Sing’) compaiono quattro metodi dissimili di registrazione e altrettanti modi differenti di concepire il rock, nella sua accezione progressiva ed eclettica. Sarebbe frustrante e noioso, per me, registrare di continuo il medesimo disco, cambiando i titoli e i testi alle canzoni. Credo comunque che la personalità di un musicista non debba venire meno: sperimentare e osare è sacrosanto, ma qualche elemento ricorrente deve restare. Può essere la struttura di alcuni brani, l’utilizzo di alcuni accordi, l’approccio lirico: i trademark non devono disperdersi, poiché sono quelli a restare impressi nella memoria dei fan. Ovviamente il confine tra ‘avere una formula’ e ‘avere personalità’ è parecchio sottile e soggetto a valutazioni altamente individuali, e gli album di Neil Young – ad esempio – lo dimostrano. Ma nel mio caso posso affermare che i miei album sono diversi…e simili allo stesso tempo. Perché io, in fondo, rimango sempre lo stesso uomo.” Prima di inoltrarci nell’intervista vera e proprio, abbiamo parlottato della sfera economica. Tanti gettano fango su Internet, per i soliti motivi che conosciamo a menadito… “Sì, ma occorre guardare il bicchiere mezzo pieno. Con Internet puoi vendere direttamente ai tuoi fan. Nessun intermediario, quindi, che lucra alle tue spalle. Prima, tramite i negozi e le figure di commercianti legati all’ambiente musicale, ricavavi 60 centesimi per ogni album venduto; oggi, grazie alla vendita diretta, ricavi un netto di 6 euro. Puoi anche vendere poco o nulla nei canonici store e centri specializzati, ma ti rifai grazie alla lealtà dei tuoi fan. Con Internet posso interagire direttamente con loro, percepir-

ne le vibrazioni, diventare un loro amico, oltre che il fornitore di musica preferito. Se poi consideri che ad ogni nuova uscita vi sono almeno 10mila persone, da tutto il pianeta, disposte a pagare 10 euro per acquistare l’album direttamente dal sito, capisci che si può guadagnare una bella cifra. Che in parte re-investo per altre attività correlate alla musica, e in parte uso per il mio auto-sostentamento”. Mai pensato di comporre musica per il cinema? “E’ una delle mie massime ambizioni, forse la più grande, finora rimasta insoddisfatta. Ma non vorrei limitarmi alla colonna sonora: girare un film, anche come co-regista, affiancato ad un regista più esperto…quello sì che sarebbe il top! E’ necessaria una giusta combinazione di fortuna e di conoscenze mirate nel settore. Chi compone musica per film dedica anima e corpo, per 15 ore al giorno e intere settimane, al proprio lavoro. Guarda Hans Zimmer o John Williams: non fanno altro! Chi proviene dal rock e dal pop non ha vita facile, in quanto deve imparare ad adottare una forma mentis del tutto nuova. Non stupisce, quindi, che i registi e i produttori diffidino dagli artisti di questa categoria. Vanno sui pezzi grossi da conservatorio. Accade assai di rado che un film-maker affidi un’intera colonna sonora ad un gruppo rock. Sia chiaro: mi riferisco alla creazione di pezzi appositi, non alla cessione di parte dei diritti di un brano già editato. Che io sappia, l’unico film che negli ultimi dieci anni ha rotto questo tabù è stato ‘The Social Network’, di David Fincher. E la sola mosca bianca del rock ‘cinematico’ è Trent Reznor. Devo sperare che qualche bravo regista – possibilmente non di commedie adolescenziali o rosa – sia anche mio fan. O che un mio

ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ Filosofeggiare è un parolone. Significa ‘ragionare da filosofo’ – anche se filosofi non lo si è. Innanzitutto, bisogna esserne capaci. E per esserne capaci biosgna perlomeno avvalersi di una capacità dialettica alquanto arguta, coniugata ad una profondità di pensiero che insulta quella dell’opinionista/tuttologo da televisione e, volendo, schernisce quella del giornalista medio che si crede culturalmente intoccabile perché conosce a memoria tutte le locuzioni latine ormai scolpite nel granito della Storia. Direttamente da uno di questi ‘esseri superiori’, stipendiati dalla Tv pubblica, giunge una notizia sbalorditiva: in base ad uno studio condotto da un’equipe di ricercatori americani, la piena felicità si tocca al raggiungimento dei 70 anni, e prosegue quasi incontrastata fino ad un attimo prima di esalare l’ultimo respiro. Tardi, già. Viene da domandarsi il perché. Abbiamo girato l’interrogativo (seguito da un ‘secondo te’) a Steven, che filosofo accademico non è, ma in compenso detiene i requisiti del sofista. Ecco la prima opinione in merito: “Non mi stupisce più del normale, questa affermazione. Quella è un’età in cui ci si può voltare, guardare quello che si è combinato ed accennare un minimo sorriso compiaciuto. Dei tanti traguardi che uno si può prefissare in gioventù, almeno una buona metà (i più importanti, secondo una normale ponderazione) saranno già stati raggiunti dopo sette decadi di esistenza”. Segue a ruota il secondo parere: “Volendo, si può anche supporre che a settant’anni si è maturi a sufficienza per non temere più l’arrivo della morte. La felicità, poi, risiede nel fatto che ci si sta avvicinando alla soglia dei tre quarti di secolo. Una media di longevità piuttosto alta, a ben guardare proibitiva per parecchie persone, sfortunate per ragioni geografiche, economiche o genetiche”. Non è che la ricerca della felicità sia priva di scadenza? Non è che essa, forse, implichi la disponibilità ad abbandonarsi al filosofeggiare, al confronto libero, al sensato dubbio che la vita superi le barriere della fisica e della biologia? (FP)


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STEVEN WILSON PROJECT “WOOOW!”. A bocca spalancata. Tale è rimasto Steven Wilson nel sapere che, agli occhi del sottoscritto, risulta il mix cromosomico di Alan Parson, Brian Eno e Phil Spector. “Non me l’ha mai detto nessuno…mi hai sconvolto con questa affermazione”. Tre professionisti del settore ‘musica con un’anima’, tre genietti che hanno conferito spessore all’arte del pentagramma. Magari la mia affermazione sarà anche esagerata, eppure qualche nesso tra questo trio e il mingherlino 45enne inglese dovrà pur saltar fuori. Esaurita l’estasi, Wilson non si scompone: “credo di vantare dei nessi con chiunque sia creativo e ambizioso. Nello specifico, con chiunque reputi la musica popolare troppo vuota, limitata, simile ad un veicolo di rincoglionimento di massa. I maestri che tu hai citato sono uomini che hanno contribuito a nobilitare la funzione e l’essenza della musica. Loro hanno pensato in grande, poiché sapevano e sanno che essa è qualcosa che va ben oltre il sottofondo rumoroso per tizi stupidotti”. Parole sante, che oggi appaiono fuori luogo; perché ci conducono ad un tasto dolente. I musicomani più eruditi, difatti, ipotizzano un’implosione del soggetto di cui stiamo parlando. Colpa del consumismo sfrenato, padre della superficialità. Si disimpara ad ‘ascoltare’: al suo posto subentra il balordo ‘sentire’… “Secondo me – conclude Wilson – questo processo d’implosione è in pieno corso. Oltre alla tua corretta osservazione, la musica continua a perdere motivi

fan diventi un bravo regista.” Tu sei la stella. E qui non ci piove. Mi sembra però legittimo spendere qualche parola su Nick Beggs e Theo Travis, gli unici due turnisti di ‘Grace For Drowning’ (precedente sforzo solista) che compaiono anche alle dipendenze di questo ‘Corvo che si Rifiuta di Cantare’… “La mia band è stata messa in piedi esclusivamente per la dimensione live, per il tour di ‘Grace For Drowning’, e mi sono stati consigliati da alcune persone fidate dell’ambiente. Adam Holzman è stato addirittura un membro alle dipendenze di Miles Davis (onore di pochissimi ancora in vita, nda) e mi è

stato suggerito da Jordan Rudess dei Dream Theater. Nick e Theo hanno mostrato una versatilità e una perizia strumentale non comune, quindi li ho riconfermati. Posso solo ritenermi fortunato: non è da tutti poter contare su un lotto di musicisti così straordinari. Credimi!” FILIPPO PAGANI

Steven Wilson – voce, chitarra, mellotron, tastiere, basso Guthrie Govan – chitarra Nick Beggs – basso Marco Minnemann – batteria, percussioni Adam Holzman – tastiere, organo, piano Theo Travis – sassofono, flauto, clarinetto www.stevenwilsonhq.com

d’interesse perché moltissima gente ritiene – erroneamente – che essa non assuma, o non debba assumere, alcun peso nel loro stile di vita. L’opposto di quello che in realtà dovrebbe essere. Per 9/10 della popolazione industriale, le sette note sono dei riempitivi per sale d’attesa”. Parafrasando Brian Eno… ‘Music For Airports’. (FP)


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na mossa folle e coraggiosa, che riporta sotto le luci della ribalta, e in grande stile, la band svedese, che sembra aver risolto i problemi di chitarra con l’ingresso ufficiale di David Andersson e salutando definitivamente il membro fondatore Peter Wichers (sempre che non voglia giocare una seconda volta la carta del ‘figliol prodigo’). Si torna in pista, quindi, con un (doppio) album capace di fondere scatti progr-metal e melodic death più brutale, il tutto con un sound moderno e decisamente aggressivo. Di questo ‘ritorno in forma’ parliamo con il cantante Björn “Speed” Strid, partendo proprio dalla domanda più pressante: perchè un doppio album, e perchè proprio adesso? “Volevamo fare qualcosa di speciale, di diverso. Questo è il nostro nono disco, e volevamo affrontare una sfida nuova e più grossa che in passato. L’idea mi è venuta nell’Estate 2011, l’ho proposta alla band e tutti ne sono rimasti colpiti; da quel giorno, quindi, tutti si sono predisposti per quella sfida, hanno iniziato a riflettere sulla possibilità di dar sfogo alla propria creatività, senza i confini di dodici-tredici canzoni, ma potendo espandere i riff nel doppio dei brani. Abbiamo avuto due anni per trovare i riff giusti, per selezionarli, ma posso dire che tutti sono contenti del risultato, non abbiamo dovuto allungare il brodo in nessuna canzone, ma anzi abbiamo esplorato a fondo tutto quello che ci piace della nostra musica.” Il doppio disco è creato con l’idea che i vostri ascoltatori dovrebbero sedersi ed ascoltarlo dall’inizio alla fine? Di questi tempi, mi pare ci sia sempre meno possibilità (o volontà) di rilassarsi per due ore di seguito... “Capisco quel che intendi, e da un certo punto di vista il doppio disco è legato anche da un concept, c’è una storia di fondo. Se lo si vuole gustare in pieno, decisamente c’è bisogno di staccare da tutto il resto del mondo e goderselo dall’inizio alla fine com’è stato concepito. I brani però si reggono anche da soli, ognuno ha il proprio ritmo, si può decidere quali sono i preferiti e ascoltare a ripetizione solo quelli, non ci offenderemo!” Com’è andato il processo di scrittura delle varie canzoni? Vi siete sentiti più liberi di sperimentare, non avendo la costrizione dei classici dodici-tredici pezzi? “Sì, la parola giusta è proprio ‘sperimentare’. Lo vedo come un album molto tendente al progressive, con moltissimi dettagli ‘nascosti’ ovunque, dettagli che richiedono ripetuti ascolti per essere apprezzati. Ovviamente il suono aggressivo dei Soilwork è sempre ben presente, ma non volevamo fossilizzarci solo su quello.” Non c’è mai stata la tentazione di abbandonare temporaneamente i lidi death/thrash per seguire l’ispirazione progressive, su questo disco? Decisamente ci sono dei passaggi in cui quasi non sembrate voi... dove troviamo il vero cuore dei Soilwork, su ‘The Living Infinte’? “Forse a livello subconscio, sapendo che avevamo più tempo a disposizione sui due dischi, abbiamo incluso tante sottigliezze, parti più complesse, ma la base di tutto rimane il thrash metal più veloce. Possiamo suonare solo quello che ci piace, e a noi piace picchiare forte e duro. All’inizio eravamo quasi spaventati dalle nostre idee, quando crea-

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SOILWORK vamo dei medley da inserire nel mezzo di alcuni passaggi: non siamo abituati a lasciarci andare troppo alla melodia, alla tecnica progressive. Ma avendo a disposizione molti mesi per comporre il disco, abbiamo trovato la giusta via di mezzo, componendo brani molto complessi costituiti da parti veloci e brutali, inframezzate da momenti più riflessivi.” Come se l’è cavata il ‘nuovo arrivo’ alla chitarra, David Andersson? E’ stato in tour con voi a lungo, e sapeva cosa aspettarsi dalla vostra musica... finchè voi non avete cambiato le carte in tavola! “David è stato fantastico, e ha composto quasi interamente ben sette canzoni. Era già con noi nel 2011, quando durante il tour estivo mi venne in mente l’idea del doppio album, quindi ha avuto tempo di concentrarsi verso questa sfida. Per noi è stato un sollievo scoprire quante idee avesse in testa: fino a quel momento per noi era un grande amico, un grande aiuto come chitarrista per coprire i ‘buchi’ lasciati da Peter e suonare la chitarra nei nostri tour. Ma poi ha rivelato la sua natura creativa, e adesso non potremmo immaginare un altro musicista al posto suo.” Avere Justin Sullivan, cantante dei New Model Army, come ospite speciale sulla title-track è un bel colpo. Non vi è mai venuta la tentazione di invitare molti altri ospiti, vista la gran quantità di canzoni presenti sul doppio disco? Ci sarebbe stato spazio per tutti... “Ho invitato Justin personalmente, da sempre speravo di lavorare con lui su una canzone, e sono stato estasiato quanto ha accettato. Certamente, come dici tu, ci sarebbe stato spazio per altri ospiti, ma nessun altro nella band ha proposto niente: nessun amico, nessun idolo, nessuna super-star... hanno visto la mia felicità nel lavorare con Justin, ma non si sono sbilanciati nel fare altri nomi. Quindi, se nessuno parla, nessuno viene invitato!” ‘The Living Infinte’ è un brano talmente epico da essere diviso in due parti: una sul disco uno e una sul disco due. E’ composto da molte melodie diverse, cambi di ritmo, aggressività... pensi che sia questa la canzone che rappresenta meglio l’intero album? “Probabilmente sì, è la title-track proprio perchè riassume un po’ tutto il lavoro, ma in realtà lo scopo del doppio disco è proprio quello di rendere difficile la classificazione della musica

Doppia Sorpresa che si ascolta. Si possono ascoltare due canzoni, una dal cd uno e l’altra dal due, e pensare che provengano da epoche diverse nella storia dei Soilwork. Si sente sempre la nostra impronta, ma non è un album monotono. Se c’è una parola per definire l’album, direi che sia ‘sorpresa’. Molta gente sarà sorpresa dalla decisione di registrare così tante canzoni, e molti fan saranno sorpresi dalla quantità di melodie e direzioni diverse intraprese da quelle canzoni. Si può ascoltare qualcosa di melodico e all’interno dello stesso brano, c’è una improvvisa e sorprendente accelerazione molto aggressiva. Penso si possa ascoltare il disco cento volte, e trovare sempre qualcosa di nuovo, focalizzando l’attenzione su passaggi sempre diversi. Questo è esattamente il modo in cui mi piace concepire la musica: per sorprendere.” C’è stato un momento storico, circa 4-5 anni, quando sembrava che il death metal svedese stesse per diventare un movimento davvero enorme, e che Soilwork e Dark Tranquillity avrebbero potuto diventare i nuovi Gods Of Metal. Poi, all’improvviso, la scena ha iniziato un po’ a sgonfiarsi - le band migliori sono rimaste, mentre di altre non si sente più parlare. Cosa pensi sia successo? “Me lo ricordo quel momento, e ho una mia teoria sul perchè la scena svedese sia molto diversa oggi rispetto a quell’epoca: ogni band si è evoluta, ognuno adesso ha un proprio sound, e non è facile trovare elementi comuni per definire una ‘scena’, al giorno d’oggi. Qualche anno fa Dark Tranquillity, In Flames, The Haunted, Soilwork, avevano tutti evidenti radici comuni, e seguivano un certo stile musicale. Adesso non diresti mai che In Flames e The Haunted suonano lo stesso tipo di metal, c’è chi è andato più verso la tecnica e chi più verso l’hardcore. Certo, c’era qualcosa di speciale nel sentire la ‘scena’ intorno a me quando tutte queste ottime band sono arrivate al successo all’inizio del millennio, ma penso che adesso la Svezia sia ancora più interessante, perchè ognuno sta seguendo la sua strada e producendo dischi di gran livello. Dopotutto, non a tutti piace ascoltare solo lo stesso genere musicale, giusto? E spero che comunque non sia troppo tardi, per noi, per diventare dei Gods Of Metal!” L’importante è non sparire dalla scena musicale... i Soilwork hanno suonato solo un concerto nell’arco del 2012. Siete pronti a tornare sulla strada e conquistare nuovi fan, ora che il nuovo disco è uscito? “Sì, non vediamo l’ora di tornare a girare il mondo, perchè dopo l’uscita di ‘Panic Broadcast’ sappiamo di non aver suonato dal vivo abbastanza, soprattutto per la situazione di Peter che andava a veniva dalla band, rendendo impossibile progettare tour a lungo termine. Ci sentiamo pronti e carichi! E poi... io a casa mi annoio! Penso di essere una persona che vive e respira la musica,

Quante band melodic death conoscete? Tante, sicuramente. E quante hanno mai prodotto un album doppio? Nessuna. I Soilwork, signore e signori, sono il primissimo gruppo ad avventurarsi in questo campo, producendo ben venti nuove canzoni per il nuovo disco, ‘The Living Infinite’. METAL HAMMER 39


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quindi in tour mi sento sempre benissimo, mentre a casa dopo qualche giorno non so cosa fare. Dovrei trovarmi un hobby!” Vuoi dirmi che non hai un hobby? “No! Non ci ho mai pensato prima, a volte guardo altri musicisti come gli In Flames a cui piace pescare e un po’ li invidio, ma io non saprei da dove cominciare. Confesso un interesse verso la costruzione di modelli di navi in legno, però non

ci ho mai provato prima. Dicono sia un hobby che ti calma e libera la mente, ma magari le mie mani non sono adatte... in ogni caso, è un problema di cui mi dovrò occupare almeno fra un anno e mezzo, visto che adesso il tour sta per partire, e non avrò tempo per il modellismo!” PAOLO BIANCO

Björn “Speed” Strid – voce David Andersson – chitarra Sylvain Coudret – chitarra Ola Flink – basso Sven Karlsson – tastiere Dirk Verbeuren – batteria www.soilwork.org

ELEGY GUITARWORKS, CHITARRE DA FINE DEL MONDO Molti musicisti quando non suonano con la propria band si lanciano in side-project, altre avventure musicali in cui continuare ad esplorare la propria passione. Quelli con un occhio verso l’imprenditorialità, però, decidono di investire i propri denari in altre imprese - c’è chi apre un bar sfruttando il proprio nome, c’è chi cerca una carriera televisiva... e c’è chi, come Bjorn, crea una ditta per costruire chitarre. E’ con questa idea che è nata il 21 Dicembre 2012 la Elegy Guitarworks, in collaborazione con il chitarrista Dave Sheldon (in forze agli Exes For Eyes). La ditta, con base a Toronto in Canada, si specializza nella creazione di chitarre a sei, sette e otto corde, e parimenti bassi a quattro, cinque, sei e sette corde. L’obiettivo è di produrre fra i 100 e i 200 esemplari all’anno,e Bjorn parla così della ditta: “Concepita il giorno in cui

il mondo avrebbe dovuto finire, la Elegy Guitarworks è stata fondata il 21 Dicembre 2012. Nata sotto la luce di una nuova amicizia, la ditta si specializza nel creare strumenti di qualità professionale a musicisti dal budget ridotto. I Maya avevano torto, il mondo va avanti... e noi scriviamo la loro Elegia!”. La base in Canada non deve stupire: da anni Bjorn divide il suo tempo libero fra la Svezia e il Canada, dove vive la sua ragazza! PB


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JUSTIN SULLIVAN E LA “MUSICA DEL DESERTO” Avere il leader dei New Model Army come special guest sul proprio album non è impresa da poco - nella sua ultra-trentennale carriera Justin Sullivan non ha concesso spesso la propria voce su dischi che non fossero suoi. Eppure a volte basta una chiacchierata estemporanea in un luogo insospettabile, per far nascere una collaborazione. Ecco come Justin racconta l’incontro con i Soilwork... “Qualche anno fa ho incontrato Bjorn nel mezzo di un deserto, nel sud-ovest degli Stati Uniti. Suppongo che sia io che lui avessimo una buona ragione per trovarci in quel posto, ma al momento non ricordo quale fosse - e in ogni caso, concetti come ‘buona ragione’ scompaiono nel mezzo di un deserto. Comunque, abbiamo proprio iniziato a parlare del deserto, della musica che nasce dal deserto, del fascino che questi luoghi esercitano su noi Europei, visto che non abbiamo deserti sabbiosi e li riteniamo quasi dei paesaggi alieni. A un certo punto, c’è stato un semplice scambio di battute. ‘Canteresti su un album dei Soilwork?’ ‘Ma certo’. E molti anni dopo, ho ricevuto un’email dai Soilwork: mi scrivevano dai loro studios a Stoccolma, proprio mentre io stavo registrando con i New Model Army a Londra. Ma grazie ai miracoli della tecnologia, non ho dovuto abbandonare la mia città, e abbiamo potuto registrare un veloce passaggio vocale su questa bella e strana canzone. Bjorn mi ha decisamente battuto nel campo della ‘desert music’: questa canzone (The Living Infinite) è bellissima, e auguro tutto il meglio alla band.” PB


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HARDCORE SUPERSTAR a proposta degli Hardcore Superstar si sta dirigendo verso lidi meno adolescenziali. Lungi dall’essere una battuta di pessimo gusto – d’altronde, un neofita in materia potrebbe travisare il nome di questa band e ritenerla un asilo di ex glorie del cinema per adulti – noi continuiamo a dimenarci, a fantasticare sogni di sporco e grezzo rock’n’roll sulle note di ‘C’mon and Take on Me’. Un minestrone ribollente di schiaffi sonori altamente abrasivi, che richiamano i favolosi Eighties ma, nel contempo, ne prendono le debite distanze, al fine di intrufolarsi dentro un sound dai risvolti cupi, un riflesso del periodo contingente che stiamo vivendo, tutt’altro che sereno. Ma quel titolo, che a conti fatti è l’unico dettaglio da memorizzare, nonché il primo rivelatore dei contenuti di un disco, non sembra essere d’accordo. Ne abbiamo discusso con l’essenziale – come le sue risposte – Joakim Berg, alias Jocke… Andiamo… La puzza di citazione la si sente anche con le narici toppate! ‘C’mon and Take on Me’ media tra ‘C’mon and Love Me’ dei Kiss e la sgrammaticata ‘Take on Me’ degli A-ha. Ho azzeccato? “Soltanto in parte. Nel senso che pure noi abbiamo pensato a quei riferimenti, ma in realtà il titolo si identifica nei contenuti della canzone. Se vuoi un indizio, il ‘take on me’ prende per il culo quelle persone che per le ragioni più svariate storpiano l’inglese. E tra queste annoveriamo anche noi: siamo svedesi, e dopo qualche bicchiere di troppo, se parliamo con qualche nonsvedese tendiamo a mischiare gli idiomi…” Un aspetto che vi caratterizza prende in esame le curiose copertine dei vostri album… “Le copertine, secondo il nostro parere, dovrebbero mostrare l’ideale chiusura di un concerto targato Hardcore Superstar. Sotto varie prospettive.” Davvero? Se la classica foto della band è un richiamo alla tradizione, cosa mi dici della mani in primo piano? “Quelle levate al cielo, dei fan, sono le ultime cose che vediamo prima di ritirarci.” E i corpi femminili studiati nel dettaglio di gambe e curve? “Suggellano degnamente un concerto. A volte ci è capitato di aprire le porte dei camerini e inciampare tra le cosce di qualche groupie. E spero che anche a qualche coppia sia accaduto di tornarsene a casa, con le nostre canzoni in testa, e darsi alla ginnastica da materasso.” Stavolta è differente: l’immagine rappresenta una ragazza devastata da troppo rock’n’roll, stesa inerme nel punto caldo di una sala prove… “E’ quello che capita nella maggior parte dei casi: ci si esalta fino a sconvolgersi i sensi e poi, infine, si casca a terra stremati. Il merito è nostro: suoniamo fino a spossarci, siamo noi a stabilire quando il party sarà terminato.”

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Non c’era dubbio che, dopo aver archiviato i primi dieci anni di attività, gli sleaze rocker di Göteborg si sarebbero attrezzati per il proseguo di quel party assordante ed alcolemico che urla rock da ogni angolo. Un party da loro stessi allestito nel 1998 con quintali di piña colada…

Glitters In The Mud Caldo, scollacciato sleaze metal munito di fendenti orecchiabili. Siete sempre i soliti, grossomodo, ma con quella punta di maturità che ad-

diziona freschezza alla vostra formula di aggressività e melodia. Insomma, senza strafare e senza inventa-


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re nulla di nuovo, non stancate… “Questione di amore, di amore per la musica. Fattore determinante quando suoni in una band. Prima di imbarcarci nella stesura di ‘C’mon’ abbiamo scoperto di non aver mai dimenticato il grunge, specialmente quello dei Mother Love Bone. Ciò non ci ha affatto allontanato dalle nostre influenze primarie, fornite da Suicidal Tendencies, Love/Hate e Anthrax.” Giochiamo a citare i vostri stessi pezzi… Chi può ritenersi ‘al di sopra della legge’ (‘Above The Law’)? “Io.” Sei solito ripetere ‘ancora un minuto’ (‘One More Minute’) – ad esempio – alla tua ragazza, quando lei è intenta a farti un servizietto in modalità ‘petting spinto’? “Tu non conosci la mia ragazza. Io la rispetto troppo, non le permetterei mai di arrivare a tanto (ecco spie-

gato perché molti uomini si sfogano con le prostitute… Nda).” Hai mai rubato le scarpe di un uomo morto (‘Dead Man Shoes’)? “Non ancora, ma non si può mai sapere in futuro.” Quanto vi hanno cambiato, le stagioni? Suppongo che ora facciate meno bagordi, rispetto al passato… “Beviamo meno del solito, yep. I reni sono due e vogliamo tenerceli sani, e quando superi la trentina qualcosina del tuo corpo inizia a lavorare con più lentezza. C’è anche da dire che, fino a qualche anno fa, i nostri concerti duravano 45 minuti in meno; oggi siamo spesso

gli headliner, e gli show sono più estenuanti. Se vuoi dare tutto, devi essere disposto a privarti di tutto…tutto quello che potrebbe minare la tua forma psico-fisica.” Nel nominare la parola ‘hardcore’, l’associazione più spontanea riguarda sì la musica, ma anche una vasta arena di tematiche pertinenti al sesso e all’industria dell’intrattenimento per adulti. Voi siete svedesi, abituati a non maturare alcuna inibizione di tipo sessuale. In più viaggiate per il globo. Altamente probabile che mettiate le corna alle vostre fidanzate… come loro, forse, le mettano a voi…


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RISTAGNO IN MOVIMENTO Il trastullamento in tour, per un musicista, equivale al weekend (con tanto di ponte) dell’impiegato, dell’operaio e in genere del lavoratore ordinario. Il sabato e la domenica ci si può sbizzarrire, uscire dai reticolati sociali, dormire fino a quando le palpebre rifiutano di sollevarsi, diventare quella persona che la settimana feriale tiene incatenata in letargo. Così anche per il musicista. Che però gode di un enorme vantaggio: il suo week-end è allungato, diluito per qualche mese. Ogni giorno, per lui, è sabato: ossia libertà di movimento e grande festa la sera. Le domeniche corrispondono ai giorni di completo sbandamento e/o riposo, nei quali l’imbrunire non prevede baraonde sotto i riflettori. Gli Hardcore Superstar, di questi week-end, ne hanno vissuti a iosa. Spalmati in quindici anni, per l’esattezza. 15 stagioni di scorribande, prima in Scandinavia, poi Europa e infine tutto il resto. 15 stagioni macchiate con infuocati spettacoli dal vivo. Spesso in compagnia di gruppi di supporto o headliner, con i quali condividere i viaggi. “Tra i più simpatici – ricorda Jocke – annovero i Motörhead. Anche perché la birra non mancava mai, se loro erano nei paraggi. Sono uno spasso: Lemmy & Co. sanno come ottenere il massimo dell’adrenalina da ogni situazione”. Ma se la simpatia è una qualità sfuggente, non si può dire altrettanto della pazzia. O meglio: della vocazione per l’assurdo. “Di band fuori di melone non saprei chi citare: ne abbiamo incontrate anche troppe!”, irrompe il frontman sull’argomento. E continua… “Ma nessuna batte gli Avatar. E vuoi sapere perché? Non hanno senso del pudore. E se te lo dice uno svedese, puoi fidarti! Ricordo che una volta io e Martin, il nostro bassista, ci stavamo facendo un paio di birre nel piano superiore del nostro tour bus. Ricordo che eravamo da voi, in Italia, qualche anno fa. Ad un certo punto si levò una puzza indicibile. Il primo a venirne coinvolto è stato Martin. ‘Potresti almeno avvisare?’, mi domandò. Ma non ero io, e soprattutto non era quel

tipo di puzza. O almeno, non solo quello. Poco più in là, dietro una tendina, intravedemmo il chitarrista dei nostri connazionali Avatar, quello di cui non ricordo il nome (meglio per lui, nda), ma che si fa chiamare ‘King’. Era seduto, con i pantaloni calati sulle ginocchia e i gioielli di famiglia in bella vista. Le sue parti intime emanavano il fetore più nauseabondo che potesse esistere al mondo… hai presente il pesce avariato contornato da qualche litro di diarrea? Io e Martin ci rifiutammo di chiedergli il perché di quello spettacolo: avevamo paura di non poter comprendere la logica della sua eventuale risposta. Ci limitammo a cacciarlo fuori, così che potesse appestare l’aria da un’altra parte. Lui ci rise in faccia, dicendoci che aveva già appestato col suo uccellaccio putrefatto anche i sedili dove eravamo seduti noi”. Eccovi servito, in un solo aneddoto, l’esito del mix tra la nostalgia di casa, il brivido del sesso (anale) con una sconosciuta, la sbronza pomeridiana e una dieta alimentare estranea dalla propria. (FP)

“Hmm…sotto questi capelli non ho ancora sentito sporgenze, quindi penso di potermi fidare (risata, nda). Le nostre ragazze, infatti, ripongono completa fiducia in noi: sanno che il nostro motto è ‘rock’n’-

fari, tutti accomunati dall’amore per la nostra musica. L’Italia non ci ha mai delusi, sotto il profilo dell’accoglienza e del numero di spettatori; per noi è quasi una seconda casa.” Scommetto che lo dici per arruffianarti i nostri lettori…

roll’! Il ‘sex and drugs’ completa il cliché, che per alcuni è anche uno stile di vita…ma non il nostro. Non più, almeno.” Non dubito della tua sincerità. Sarà pur sopravvissuto un hobby, magari un po’ perverso, dei bei tempi votati alla gioventù farlocca…no?! “Hobby perverso? Non siamo mica degli animali come voi giornalisti (ehm…nda)! Mi spiace deluderti, ma non m’è rimasto nulla di quei tempi balordi. Nemmeno i mal di testa, nemmeno le piattole. E, per fortuna, nessuna malattia venerea.” Credo che il 2013 sia l’anno giusto per riportare in auge il rock. C’è tanta gente giovane che merita di gustarsi un bel revival. L’ultimo guizzo, con relativa introduzione alle masse, è avvenuto agli inizi del secolo, grazie ai The Darkness… “Ne è passata anche fin troppa, di acqua sotto i ponti, senza che nessuno sapesse irrompere nelle grosse classifiche mainstream. Forse hai ragione: qualcosa si muoverà nella giusta direzione. I Darkness appartengono già al passato, comunque. Oggi i giovani possono contare sugli Hardcore Superstar. Quasi meglio, no?” E’ ciò che penseranno in Svezia, dove siete amati e vezzeggiati. Ma che mi dici della vostra fanbase europea, specialmente nei paesi latini? “Che è all’incirca numerosa come quella scandinava. Tra i nostri più accesi sostenitori troviamo normalissimi rocker, ragazzi di famiglia, uomini d’af-

“Certo che sì (risata, nda)! Scherzo… gli italiani non difettano mai di calore. Se c’è una cosa che non vi mancherà mai, è proprio questa: il calore e l’affetto verso quello che amate. Siete tra i migliori fan che una band possa desiderare.” Circolano ancora voci sulla possibilità che possiate coverizzare in concerto un intero album degli Slayer. Sempre in tema di rifacimenti: nulla che vogliate inserire su disco, sotto forma di Ep? “Ancora no. Ci piacerebbe, ma non troviamo il tempo per poterci dedicare in pieno all’iniziativa. Una cover non puoi registrarla dall’oggi al domani; devi chiedere i permessi, scegliere soprattutto quale brano tributare, studiarne i tabulati, pensare a come omaggiarlo rendendolo in parte anche tuo…perché non avrebbe senso copiarlo e basta. E’ un duro lavoro. Quanto alle esecuzioni sullo stage, di recente abbiamo preso parte al ‘Gothenburg Allstars’, uno show in onore di Ronnie James Dio. Eravamo io e Adde, in buona compagnia di Rickard (Zander, nda) degli Evergrey, Björn e Peter (Gelotte e Iwers, nda) degli In Flames.” Nel vostro DNA c’è il metal, il rock, il punk e il glam. Che descrizione daresti ad un alieno in visita sul nostro pianeta? “Più che una descrizione, gli darei il nostro ultimo album. Gratis. Potrebbe salire in cielo e diffonderlo per i cinque continenti.” FILIPPO PAGANI

Joakim ‘Jocke’ Berg – voce Vic Zino – chitarra Martin Sandvik – basso Magnus ‘Adde’ Andreasson – batteria www.hardcoresuperstar.com


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è la musica black metal, e c’è lo stile di vita black metal. Molte volte le due cose coincidono, ma ci sono casi in cui il voler far combaciare alla perfezione musica e stile di vita si trasforma, alla lunga, in grottesca auto-parodia, con signori bolsi e anziani che ancora continuano a urlare di dar fuoco alle chiese e stuprare vergini, senza traccia di alcuna ironia. Le vere leggende, però, si assumono il peso delle proprie scelte e se il loro cuore lo impone, decidono anche di cambiare stile musicale, pur rimanendo fedeli allo stile di vita black metal – stile nato, ricordiamoci, come estremizzazione metallara del punk e votato ad un atteggiamento totalmente anti-commerciale. E cosa c’è di meno commerciale del contribuire a plasmare un genere, diventarne ‘leggende’, per poi seguire il proprio cuore e, mantenendo il nome della band, esplorare prima sonorità punk/hardcore, e poi passare al power metal più sincero? E’ questa, in sintesi, la storia dei Darkthrone, tuttora riveriti come maestri del black metal, nonostante la musica proposta sia ormai distantissima dalle loro radici. I due musicisti, Fenriz e Nocturno Culto, sono maturati negli anni, e mantenendo saldo uno stile sardonico hanno avuto il coraggio di evolversi, senza ascoltare le critiche di chi li vorrebbe costantemente intenti a registrare sempre lo stesso disco. Arriviamo quindi al nuovo ‘The Underground Resistance’, un monolite di sei brani, pura esaltazione della NWOBHM, un ritorno quasi commovente al metal anni Ottanta. Fenriz anticipa subito le possibili domande riguardo alla nuova direzione musicale della band, iniziando la nostra conversazione. “Chiunque può cambiare il proprio sound, è una cosa normale soprattutto per le band che stanno registrando i primi demo. E’ meno normale per le band che hanno già una lunga carriera alle spalle. Ovviamente bisogna scoprire come e perché cambia. Cambia perché ‘i fan lo vogliono’? O cambia perché sta seguendo il proprio sogno?” Ascoltando le sonorità di ‘The Underground Resistance’ sembra che, ancora una volta, i Darkthrone abbiano ‘Nothing to prove’ e che più che mai tu sia ‘Just a hellish rock’n roll freak’. Il black metal è cosa morta e sepolta, ormai? “La magia del black metal è finita nel 1993. Da allora il genere musicale è diventato come una disciplina olimpica: se ne giudica la prestazione, la tendenza alla perfezione, lo stile... ma non l’anima. Detto questo, ci sono molte band che hanno tenuto in vita il genere con gran classe, suonando in maniera sporca e spaventosa come negli anni Ottanta, spingendosi anche verso lo stile black di inizio anni Novanta. Parlo della scena di Nideros, ad esempio (ovvero quella legata alla zona di Trondheim, in Norvegia, nda).” Ovviamente le citazioni nella domanda venivano da ‘Too Old Too Cold’, una delle vostre canzoni più conosciute e controverse, visto che già nel 2006 indicavate il ‘nuovo’ black metal come ‘spastico, patetico e debole’... “Nessuno mi aveva mai citato ‘Too Old Too Cold’, non so quanto sia effettivamente conosciuta come canzone. Ma alla gente che

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Fenriz spiega a Metal Hammer le spinte profonde che hanno portato all’incisione di un mastodontico tributo al power metal anni ottanta, sotto l’egida dei Darkthrone e intitolato ‘The Underground Resistance’, mentre il black metal rimane uno ‘sport olimpico’…

piace vorrei consigliare di ascoltarsi il demo ‘Into The Abyss’ dei Poison (la band death/thrash tedesca, non i glamster americani! Nda). Il titolo del disco ‘The Cult Is Alive’ deriva da una delle strofe contenute in quell’album, una delle migliori composizioni black metal/black thrash mai ascoltate.” L’ascolto del disco rende evidentissimo il fatto che tu stia attraversando una fase ‘power metal anni Ottanta’: i riferimenti che tu stesso citi nell’introduzione ai brani sono molto specifici. Stando alle tue parole, ‘The Ones You Left Behind’ si basa su ‘ritmiche speed/power del 1984’, con la parte centrale che ‘richiama la NWOBHM, sempre del 1984’. Con ‘Valkyrie’ si va ancora più nel dettaglio, visto che secondo te ‘suona precisamente come i cari vecchi Helloween del 1984/85’. Cosa ti attrae, oggi, di quel particolare periodo e di quel particolare genere musicale? E’ solo nostalgia per i bei vecchi tempi? “Non ho mai smesso di ascoltare quel genere musicale, ma a metà degli anni Ottanta avevo dodici anni, e non avevo soldi per comprare dischi e non conoscevo nessuno che ascoltasse i Witchfinder General o i Satan. All’epoca, lo ricorderanno solo i ‘vecchi’ come me, se non conoscevi nessuno dovevi spendere i tuoi soldi per ampliare i tuoi gusti musicali. Altro che Internet! Quindi, all’epoca ascoltavo solo i gruppi più grossi, quelli che finivano sulle copertine delle riviste: Black Sabbath, Iron Maiden, Accept, Dio. Dal 1984 qualche videoclip iniziò a girare sulla televisione via cavo, e ampliai un po’ i miei gusti, ma comunque mi persi molta della scena di quell’epoca. Questo vuol dire che molte delle band che ‘scopro’ in questi giorni, non sapevo nemmeno che fossero in giro già negli anni Ottanta, e per me significa che questo stile musicale che amo da trent’anni mi consente di scoprire ancora delle nuove band di quel periodo. Mi sento l’uomo più fortunato della terra, ad avere il tempo e la possibilità di riscoprire quello che all’epoca ascoltavo solo come punta di un iceberg. E adesso voglio suonare quel tipo di musica, perché quando nel 1986 avevo l’età giusta per formare una band, all’epoca mi sentivo un po’ stanco di quel genere musicale, e come saprete ho seguito altre strade. Ma dopo le schifezze ascoltate dalle band in voga negli anni Novanta, sono sicuro che non mi stancherò mai più del metal del

(Alta) Infedelta’ Musicale

decennio precedente!” ‘The Underground Resistance’ contiene sei tracce, ancora una volta divise al 50% fra te e Nocturno Culto. Tre canzoni le hai scritte tu, tre canzoni le ha scritte lui. Lasciando parlare in questo modo i freddi dati statistici, sembra quasi che non vi siate nemmeno incontrati per suonare insieme il disco... “Per il quinto album consecutivo abbiamo seguito lo stesso processo compositivo che seguiamo dal 2005: ognuno di noi scrive una canzone a testa (il numero di brani è sempre pari), sul disco le alterniamo, e ci incontriamo per registrare il disco. Con il passare del tempo abbiamo anche raffinato questa tecnica, abbiamo ad esempio imparato che le registrazioni ci vengono meglio se prima incidiamo i brani di Ted (vero nome di battesimo di Nocturno Culto, ndr), partendo dal basso e poi passando a registrare batteria e chitarre. Lui inizia a registrare il basso a casa sua, visto che non ha bisogno di sentire tracce della voce; ha in mente già tutta la canzone, quindi al momento di incontrarci il basso è già pronto, e dobbiamo occuparci di batteria, voce e chitarra. Poi però passiamo alle mie canzoni, e lì devo spiegare a Ted la mia visione per ogni brano, e lui deve incidere il basso prima di sentire il resto della canzone. E’ un processo più complicato, ma d’altronde io ho bisogno di sentire le vibrazioni del basso, per registrare le mie parti. In questo disco, ci siamo scordati di seguire questo metodo per una canzone, ‘Valkyrie’, per la quale abbiamo registrato prima le chitarre, e io mi sono trovato a dover cantare seguendo il ritmo di un aspirapolvere, più o meno - in cuffia non sentivo niente, ma ormai il momento di registrare era giunto e siamo andati avanti. Quindi, se nella canzone ogni tanto vi sembra che la voce sia un po’ fuori fase rispetto alla musica, adesso sapete la ragione. Comunque, per tornare alla tua domanda: sì, io e Ted ci incontriamo per registrare i dischi dei Darkthrone, ma seguiamo delle regole tutte nostre.” Da sempre, comunque, hai dimostrato di apprezzare la libertà nel registrare un disco interamente da solo, come fai ad esempio con gli Isengard, e con tanti altri demo sparsi nella tua discografia personale. Cosa ti attrae, nell’idea di suonare da solo? “Mi piace il fatto che non stai suonando il materiale di nessun altro. Questa passione mi è nata nel 1988, e nel 1989 ho registrato il primo demo degli Isengard, ‘Spectres Over Gorgoroth’, di cui vado molto fiero. Gli Isengard nacquero quando scrissi una canzone arpeggiando sulla mia chitarra. Passai poi a registrare una base di batteria per quella canzone, avendo perfettamente in testa tutta la musica. La cosa difficile era essere l’ingegnere del suono e il produttore, tutto contemporaneamente. Una volta otte-

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nuta la traccia di batteria, ho registrato la chitarra, ed ero molto soddisfatto del risultato. Prendete nota: se volete fare tutto da soli, non potete registrare prima la chitarra e poi la batteria. Semplicemente, non potete, non dovete: non fatelo. Se lo fate, smettete, e vedrete che il risultato migliorerà. Comunque, ho continuato con questo metodo per anni, vado avanti ancora adesso in questo modo, e anche ‘Transilvanian Hunger’ e

gente abbia compreso il fatto che ‘un disco iper-prodotto’ equivalga semplicemente a suoni compressi e ad una gratificazione istantanea, che non lascia traccia dopo qualche tempo. Perché tutti comprendono questo concetto, tranne i bambini e gli amanti del metal estremo? Se vuoi ascoltare suoni perfetti su un disco moderno, puoi ascoltare ‘Legend’ dei Witchcraft, uscito nel 2012. Se tutte le band avessero un suono lo-fi, allora si applaudirebbe chi avesse il coraggio di utilizzare un

punizione mi spoglierò e mi butterò nudo nella neve, attendendo che il freddo norvegese mi congeli a morte. Ahah! Seriamente, cosa devo dire... anche a me capita di mandare avanti dei pezzi di canzoni, ognuno trova il modo migliore per gustarsi la musica, è un’esperienza personale, e se uno sceglie di ascoltare i Darkthrone un motivo ci sarà, anche se questo vuol dire che ogni tanto manda avanti un passaggio che non gli piace.”

‘Panzerfaust’ dei Darkthrone sono registrati in questo modo – io ho inciso batteria e chitarra, e solo mesi dopo è arrivato Ted per registrare le parti vocali. Mi pare che nessuno si sia lamentato del risultato!” No, direi che lamentele su quei due album non se ne sentano molte! Una critica che invece vi perseguita da qualche tempo, e che forse tornerà in voga anche per il nuovo disco, è legata alla produzione minimalista, con suoni molto lo-fi. Ovviamente è una scelta artistica e come tale va rispettata; ma in linea teorica, tu riusciresti ad immaginare un disco dei Darkthrone iper-prodotto, con suoni pompatissimi? “Nel 2013 si vorrebbe sperare che la

sound moderno (e iper-pompato). Ma da molti anni quasi tutte le band metal utilizzano il sound moderno (e iper-pompato), quindi la nostra battaglia per il lo-fi non è ancora finita!” Come descriveresti le tre canzoni scritte da Nocturno per il nuovo disco? “Hard metal, molto più pesanti delle mie.” Delle tue tre canzoni, quella che mi ha più colpito è ‘Leave No Cross Unturned’, una lunga cavalcata di tredici minuti. Ma di questi tempi, con i più giovani che mostrano difficoltà di concentrazione e sono sempre più inclini a mandare avanti veloce i ‘tempi morti’ di un brano, vale la pena comporre un’opera maestosa come questa? “No, hai ragione, avrebbe più senso scrivere canzoni lunghe dodici secondi. Ho commesso un errore con ‘Leave No Cross Unturned’: per

Benissimo Fenriz, il tempo a nostra disposizione è giunto al termine, hai tempo solo per un’ultima frase, un epitaffio al 2013... “Il 2012 è stato un anno in cui molte nuove band hanno pubblicato dischi influenzati dagli anni Settanta: ho ascoltato tantissime sonorità vecchie e bellissime. Un altro trionfo per la resistenza dell’underground!”

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PAOLO BIANCO

Nocturno Culto – voce, basso e chitarra Fenriz – batteria www.peaceville.com/darkthrone


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Torna a distanza di tre anni dall’ultima pubblicazione ‘Astron Black And The Thirty Tyrants’ uno dei gruppi che ha reso eloquentemente interessante e ricca di ricerca sonora la scena death dalle forti tinte gothic/doom degli anni novanta, senza mai fermarsi! Un viaggio intenso a mai pago di novità, fino ai giorni nostri, fino a ‘Cassiopeia’, nuovo album dei greci Nightfall.

arlare dei Nightfall è come osservare un camaleonte, muoversi lentamente, trasformarsi, nascondersi, mimetizzarsi per poi catturare la preda. Una band multi-colore che ha sempre ostentato grande personalità, nonostante i moltissimi cambi di lineup, e che agli esordi ha davvero scolpito il proprio nome nella dura roccia del gothic-doom figlio del death metal più oscuro e dalle sonorità darkeggianti. Inquietanti, trascendenti, ipnotici e sognatori, i Nightfall con il nuovo ‘Cassiopeia’ dimostrano di non aver perso quell’ispirazione che li ha fatti diventare dei caposaldi del genere, grazie anche alla grande ostinazione e passione dello storico leader Efthimis Karadimas che esordisce così… “Hai ragione quando parli di ispirazione. Non esiste musica intensa in grado di trasmettere emozione se non viene creata da un momento di profonda intensità emotiva. Ho sempre seguito questa regola nel comporre i brani dei Nightfall e credo di essere riuscito a trasmettere all’ascoltatore l’essenza di ciò che vivevo in quel momento, aggiungendo un tocco di magia che arriva dall’immaginazione, da ciò che non si conosce e quindi dal lato oscuro e

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misterioso delle cose”. Ho infatti usato degli aggettivi per descrivere il vostro percorso musicale e la vostra band che ovviamente seguo sin dagli inizi con grande ammirazione: inquietanti, trascendenti, ipnotici e sognatori… “Beh, sono d’accordo con te! Hai optato per delle sfumature molto particolari e significative che offrono bene l’immagine di un gruppo che vuole scavare in un mondo interiore spesso tragico e dai lati misteriosi ma che non dimentica di osservare il mistero anche da prospettive più lontane legate a tematiche filosofiche e più astratte. La storia ci insegna molte cose ed è giusto andare a fondo per conoscere il nostro “essere” ed il nostro “esistere”. Con ‘Cassiopeia’ abbiamo voluto ancora una volta intraprendere questo tipo di viaggio “sospeso” tra dimensioni diverse ma non per questo così lontane e separate”. Musicalmente parlando credi ci sia una sorta di recupero di sonorità proposte nei primissimi album? “Forse, in alcuni brani come ‘Akhentaon’ ed ‘Hyperion’ c’è un approccio molto più diretto, figlio di quelle sonorità, ma in generale credo che ‘Cassiopea’ sia un album

variopinto che definire con una sola parola sarebbe riduttivo. Abbraccia l’heavy metal nella sua totalità, spaziando da sonorità death, fino ad altre più melodiche ed epiche. Sicuramente esistono brani dalla struttura molto intricata che mettono in evidenza singolarmente quanto prima espresso, non è facile puntare il dito su un genere musicale ben preciso. Abbiamo cercato di mantenere un sound granitico ma allo stesso tempo in grado di assumere forme diverse anche nello svolgersi di ogni singolo pezzo, creando contrasti armonici e dinamici, caratteristica questa che fa di ‘Cassiopea’ un album multidirezionale. Chi conosce i Nightfall troverà pane per i suoi denti, chi ancora non ha avuto occasione per ascoltare i nostri precedenti album avrà comunque cibo per sfamarsi in abbondanza!”. Credi che questa grande varietà coincida anche con la costante mutevole line-up dei Nightfall? “Lo spirito della band è saldo, e non ci sono dubbi che l’essenza dei Nightfall sia rimasta sempre la medesima nonostante i vari avvicendamenti tra musicisti che hanno fatto parte del nostro


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NIGHTFALL Camaleonti Stellari gruppo. Credo che ognuno abbia portato il suo contributo inserendosi nell’identità dei Nightall e abbia contribuito a suo modo a renderla anche più forte. Non ci siamo mai arresi quando sono giunte delle difficoltà e la voglia di superarle ci ha reso consapevoli della nostra forza. La band è come una sorta di famiglia, un nucleo dove poter condividere delle emozioni e dar vita a cose importanti. Creare è sempre molto stimolante e quando tutti danno il loro contributo è ovviamente molto entusiasmante perchè esiste anche la sorpresa del confronto e della novità”. Cosa dire invece della il vostro riferimento massiccio alla mitologia… “Certamente la nostra terra ha un valore anche per questo, dunque è normale che esista un continuo riferimento ai miti ed alle leggende. E’ un linguaggio ormai universale che va oltre l’appartenenza ad una terra, un modo per raccontare e per interrogarsi allo stesso tempo. Le figure mitologiche sono figure di culto e di riferimento e la loro storia può essere tranquillamente trasposta a vicende terrene che avvengono ogni giorno. Metafore della vita di ogni essere umano che calpesta la terra. Lo studio della mitologia greca e non solo credo sia importante proprio per poter trovare delle risposte ai molteplici in-

terrogativi che ci accompagnano ogni giorno. Poi ovviamente c’è anche un lato che vuole essere epico e tende ad ingigantire la portata di alcune gesta che rimangono scolpite nella memoria di ognuno di noi. Episodi e personaggi che vanno oltre il tempo!”. Se dobbiamo entrare nel mondo che raccontate in ‘Cassiopeia’ cosa ci puoi dire? “E’ un’esperienza molto interessante! Intanto è il veicolo perfetto per trattare il tema dell’arroganza, principalmente, e della punizione. Cassiopea e suo figlia, Andromeda, entrambe bellissime affermarono di essere superiori in quanto a bellezza anche alle Nereidi, le ninfe. Questo fece scatenare l’ira di Poseidone e degli Dei. Questo è l’incipit che porta però a riflettere sulla condizione umana. I testi sono un veicolo importante per raggiungere tematiche delicate ma in questo caso non possiamo definire ‘Cassiopeia’ un vero e proprio concept album. Esiste una sorta di connotazione simile che può essere riconosciuta in tutto ciò che viene espresso in ‘Cassiopeia’, a partire dalla grafica e dall’artwork di copertina, ma dire che i brani siano legati da una trama comune sarebbe scorretto”. Per chiudere se dovessimo paragonare la Grecia alla Germania, musicalmente parlando (mi astengo da ogni commento sull’attuale si-

tuazione economica nda) mi verrebbe da dire che in ambito estremo esiste in entrambe le nazioni una sorta di sacra triade: loro hanno in Kreator, Destruction e Sodom il vertice del thrash metal europeo anni ottanta, voi con Nightfall, Rotting Christ e Septic Flesh quello death-gothic dalle sfumature epic-black anni novanta… “In un certo senso è proprio così, anche se il metal tedesco ha una storia ed una tradizione più longeva della nostra. Il power metal è da classifica da quelle parti, basti pensare a Helloween, Blind Guardian, Gamma Ray senza dimenticarei Rage o i Primal Fear del nostro Constantine! E’ comunque un piccolo vanto per noi e per la nostra terra, sapere che alcune band hanno regalato a questo genere musicale qualcosa di davvero speciale!”. MARCELLO LORENTEGGIO

Efthimis Karadimas – voce Evan Hensley – chitarra Constantine – chitarra Stathis Ridis – basso Stathis Kassios – tastiere Jörg Uken – batteria www.nightfallstar.com www.myspace.com/nightfallgr

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NEAERA Riding The Storm Neaera sono in crescita, non ci sono dubbi. Una band dalle idee chiare e dall’entusiasmo contagioso. Basta seguire le parole di Stefan per rendersi conto dell’adrenalina che scorre nella loro musica… La prima impressione ascoltando il nuovo album è che sia migliorato molto il lato ‘progressivo’ della vostra musica, senza perdere ovviamente l’energia di fondo ed il mix sorprendente di aggressività e melodia, che è da sempre una sorta di marchio di fabbrica per voi ... Possiamo dire che ‘Ours Is The Storm’ è il più complesso ed il più profondo album dei Neaera? “Beh, prima di tutto, è un piacere sentire che si considera la combinazione di aggressività e melodia come il nostro marchio di fabbrica, Marcello! Sono assolutamente d’accordo! Sin dal momento che abbiamo formato la band, questo è stato il nostro obiettivo. E con ogni disco che scriviamo cerchiamo di rendere le parti aggressive più estreme e le parti melodiche più memorabili ed emotivamente più profonde. Quindi, sì, in tal senso questo è il nostro disco più complesso, perché abbiamo cercato di rendere il suono molto dinamico e versatile”.

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Avete seguito una particolare ‘concept-story’ per i testi questa volta? “A dire il vero no. Stiamo seguendo un concetto di “gruppo” in termini di testi. Non abbiamo mai scritto testi che riguardano “relazioni d’amore” o cose del genere… Ma abbiamo sempre cercato di approfondire temi legati ai problemi interpersonali, oltre a temi di sfondo politico. Restiamo fedeli a questo duplice approccio. Da un lato, è importante per noi esprimere il nostro disgusto su questioni come la crisi finanziaria, i casi di abuso della chiesa cattolica, la distruzione della natura madre. D’altra parte, vogliamo che i nostri testi possano avere qualche effetto utile sui nostri fan alla ricerca di idee e pensieri. Delle cosiddette “saggezze”, se vogliono, come nostra offerta… che naturalmente è possibile accettare o rifiutare!” I Neaera hanno sempre registrato album con la stessa etichetta, la Metal Blade, pensi che questo legame forte ab-

bia aiutato la band a creare uno stile ed una identità? Voglio dire… molte band che cambiano etichetta contiuamente a volte perdono il controllo sulla loro musica... “Questo è assolutamente vero per le band di grande successo. Con queste bande, che possono essere considerate “piccole aziende” con dipendenti e altro, le case discografiche vogliono avere voce in quello che la band fa e su come si sviluppa. La Metal Blade non ci ha mai detto di suonare più simili o vicini a questo o a quello stile. Hanno sempre accettato quello che abbiamo fatto. Naturalmente possono dirti… “questa canzone è veramente bella!” che indirettamente sottintende “per favore scrivi più di questa roba…”. Ma tutto sommato, non siamo una band dal “successo così commerciale” tanto da perdere la nostra libertà, haha! Credo sia ottimo così… Il denaro è la morte della passione, non è vero?”. Concordo con te ovviamente! Senti Stefan, quali sono in questo momento le band che considerate “top” nel vostro ambito musicale e perché? “Uh, difficile! Allora… Descriviamo la nostra musica come death metal melodico, a volte la gente ci considera un gruppo “core”, cosa che è anche giusta! Infatti abbiamo iniziato come una band metalcore dal sound abbastanza tipico. Che dire delle “top band”… I nostri amici Heaven Shall Burn sono sicuramente i migliori, guidando la scena in questo momento perché sono diventati davvero grandi in Germania e anche in Europa. Anche i Caliban hanno ancora molto successo e sanno essere perfetti sia negli spettacoli dal vivo sia nelle registrazioni in studio, impressionanti! Nel metal estremo i migliori sono i Behemoth, siamo tutti dei loro grandi fan! Se guardiamo agli Stati Uniti i The Black Dahlia Murder e gli As I Lay Dying sono un fenomeno in continua crescita!” I Neaera sono una band che ha girato molto, concerto dopo concerto, ora siete pronti per un tour da headliner. Qual è il tuo approccio prima di un concerto, hai seguito o segui qualche strano ‘rituale’ (hahaha) .... o preparazione? “Nessun rituale o cose del genere! In realtà, io preferisco stare piuttosto da solo gli ultimi 1520 minuti prima dell’inizio dello spettacolo… a raccogliere la mia energia e per mettere a fuoco il tutto. Il nostro ultimo tour da headliner è stato nel 2008, credo. Quindi è sicuramente tempo per ritornare!. E’ fantastico perché sarà principalmente per i nostri fan. L’atmosfera è diversa naturalmente quando suoni uno spettacolo per gli Hatebreed e gli Agnostic Front, come appena successo nel mese di gennaio… Chiaramente è una soddisfazione enorme, hai la possibilità di farti vedere e conoscere, ma il calore del tuo pubblico è insostituibile!”. MARCELLO LORENTEGGIO

Benjamin Killeke – voce Tobias Buck – chitarra Stephan Keller – chitarra Benjamin Donath – basso Sebastian Helot – batteria www.neaera.com

E’ il chitarrista e autore dei testi Stefan Keller ad offrirci una panoramica assai interessante su ciò che sta accadendo ad una delle realtà tedesche più interessanti del momento: i Neaera.


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er chi consuma la propria vita e le proprie ambizioni tra i grattacieli di New York, toccare il tasto dell’economia è di una dolenza doppia. E’ un dolore normale per chiunque sia abituato agli agi della civiltà industriale, e diviene doppio per chi risiede nella Big Apple, culla che dondola i magnati di Wall Street, i quali, attraverso la stampa, preparano la città N°1 del globo ad una disfatta che, un giorno o l’altro, si farà sentire. Derek Boyer, bassista dei Suffocation, è uno di quei newyorkesi che sente le fondamenta finanziarie della città sgretolarsi sotto i suoi piedi, e non possedendo le basi per sventare certi tipi di minacce, sfoga la sua frustrazione mediante le mezze metafore di ‘Pinnacle Of Bedlam’, settimo platter che trasuda la consueta – e non gratuita, a differenza di come si pensa – dose di articolata brutalità, “generata dal contributo di tutti cinque, anche se poi siamo in due a scrivere il grosso”, precisa il diafano strumentista. C’è uno spazio vuoto di quasi quattro anni che vi separa dal discreto ‘Blood Oath’. Più del solito. Cosa avete combinato? “Niente di che. Quello che si è soliti combinare tra un album e il successivo: concerti in gi-

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ro per il mondo e un po’ di liberta con gli amici e la famiglia. In mezzo, tra un incitamento all’headbanging e una birra in compagnia, abbiamo steso le idee-guida di ‘Pinnacle Of Bedlam’. Siamo gente semplice, noi.” E’ cambiato qualcosa, stavolta, nella vostra metodologia di registrazione? “Standard, che più standard non si può. L’arrangiamento di gran parte di musica e liriche ha avuto luogo nello studio casalingo di Terrance, che sarebbe lo studio che utilizziamo nella fase di preproduzione. In seguito abbiamo memorizzato il materiale, lo abbiamo suonato e apportato degli aggiustamenti dove necessario. Una volta che la pre-produzione s’era avviata verso l’ultimo stadio, ci siamo prenotati al Full Force Studio di Long Island. Lì dentro, ogni cosa è filata via alla velocità della luce…sarà la forza dell’abitudine.

SUFFOCATION Con Noi O Contro Di Noi

Batteria, basso, chitarre e infine incisione delle parti vocali. Terminate le incisioni, girammo i file a Zeuss, l’ingegnere dei Planet Z. Zeuss, che iniziò a lavorarci sopra per alcuni giorni, al termine dei quali ottenemmo la versione definitiva di un album duro e di cui essere orgogliosi. Liscio e semplice, come una buona bistecca di maiale.” Anche a costo di tacciarmi d’ignoranza … Cosa è il pinnacolo di Bedlam del titolo? “E’ un concept ideato da Terrance. In sostanza si tratta dell’epoca che stiamo vivendo tutti quanti, un’epoca in cui l’esistenza umana danza sul bordo del precipizio e il futuro appare privo di serenità e sicurezze.” Detta così, suona un po’ troppo generica … “Suonerà generica, ma non lo è. La scintilla è partita dal Libro Tibetano dei Morti, cioè il Necronomicon reso famoso da Lovecraft. Da una serie di associazioni mentali troppo lunghe da spiegare in questa sede, ho iniziato a creare un mini-concept sul trasferimento di energia. Terrance, in contemporanea, ha ipotizzato l’imminente disfatta dell’umanità, costretta a vivere in condizioni a dir poco disagiate. Unendo queste due componenti, ci siamo accorti che la soluzione non è affatto malvagia: sul piano narrativo funziona che è una meraviglia.” Possiede un non-so-che di apocalittico che ben si allinea allo spettro disfattista dell’America odierna (malgrado i proclami del Presidente Obama). Dal fatidico 11 Settembre, gli Stati Uniti hanno preso coscienza della propria vulnerabilità … “…che si è riflessa anche sull’aspetto finanziario. Se la tua introduzione era rivolta alla formulazione di una domanda sull’attuale stato di salute dell’America…beh, sappi che per quanto mi riguarda fa davvero schifo. La finanza è il


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cuore di un Paese, ma se il Paese si sta rovinando tra debiti e prestiti, capisci da solo che è alla frutta. Siamo alla fine di un’era. Capita a tutti gli imperi economici, anche ai più potenti e in apparenza indistruttibili. Ci sentiamo deboli come gli antichi Romani al tramonto del loro impero. Non so se questa situazione culminerà con una guerra nucleare, e nemmeno so a chi appartiene il dito che schiaccerà il fatidico bottone, ma so per certo che stiamo sopravvivendo in un periodo di merda. Potrà accadere tra un mese, oppure tra vent’anni, ma accadrà comunque. Non c’è scampo.” Faremo comunque in tempo a vedervi nuovamente in tour, però … “Inizieremo questo Aprile. Salvo imprevisti (risata, nda)…sì.” Ciò che caratterizza ogni vostra produzione è la corretta miscela tra mid-tempo innervati di accelerazioni, e pezzi accelerati schiaffeggiati da parentesi lente … “E’ un nostro marchio di fabbrica. Non siamo in grado di suonare completamente lenti o completamente veloci...sai che noia! Un buon esempio di quanto detto scalpita in ‘Purgatorial Punishment’, ‘Cycles of Suffering’ e ‘My Demise’. Anche le altre tracce spaccano, ovviamente!” Dave Culross, faccia amica, è rientrato nei ranghi e dietro il drum-kit. Un gradito ritorno. Ma che ne è stato di Mike Smith? “Continua a suonare. Ho sentito dire che insegna batteria in un paio di scuole durante il giorno, e si dedica a progetti in studio, come sessionman, la sera. E tro-

Prendere o lasciare. Vitaminizzarsi o devastarsi. Che siate attivi o passivi, l’approccio con i Suffocation è destabilizzante, poiché tramortisce, fa piazza pulita delle coronarie e non lascia indifferenti. Sul Pinnacolo di Bedlam ritorna l’affiatamento. E il brutal death è sempre da capiscuola… va molto più tempo per la famiglia, moglie e figlio.” Oltre agli ovvi Slayer e Death, quali mostri sacri del metal estremo tendono ancora a influenzarvi? “In tutta onestà, l’ultima volta che ci siamo fatti ‘manipolare’ dall’operato di un gruppo di musicisti estranei a noi stessi è accaduto diversi anni fa. E questo gruppo corrispondeva ai Morbid Angel. Oggi preferiamo prendere ispirazione l’un con l’altro.” Ciò non preclude una sbirciatina alla gioventù che avanza, immagino. D’altronde, la passione non si comanda. “Dici bene, fratello. Il brutal death metal è la forma più impressionante di musica. E’ così violenta che te la ritrovi sotto pelle, e non puoi più estirparla. Tra le band che rinnovano quotidianamente questo amore cito volentieri gli Arkaik, letali come vedove nere, gli Spawn Of Possession e i Soreption. Te ne potrei elencare a decine… E’ dura selezionare le compagini più in gamba in mezzo a tanta abbondanza. Il death metal dà luogo a una fucina di talenti, credimi!” Oltre che su un disco dei Suffocation, dove potremo leggere il tuo nome, sotto la lista degli special guest? “Sugli inediti e imminenti album dei Criminal Element e dei Deprecated. Ancor prima presterò servizio su un paio di tracce del nuovo Decrepit Birth.” Suonare con violenza non sarà certo l’unica valvola di sfogo … “Ebbene…no. Mi dedico alla degustazione di tabacco e alcool. Con ragione, quindi senza esagerare: i

miei sono sfizi, non dei vizi. Adoro gli sport motoristici, e nel dettaglio mi piace mettermi alla prova su qualche circuito a bordo della mia BMW. Al di fuori di questi svaghi, resto un normalissimo americano medio: la famiglia al primo posto, i Suffocation al secondo e la musica a coprire le posizioni successive. Da qualche tempo mi sto dilettando nella produzione: sono l’anello tra la band e la figura dell’assistente ingegnere. Basta poco per sentirsi vivi e felici…” FILIPPO PAGANI

Frank Muller – voce Terrance Hobbs – chitarra Guy Marchais – chitarra Derek Boyer – basso Dave Culross – batteria www.myspace.com/suffocation www.facebook.com/suffocation


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ENFORCER Heavy Metal Is The Law! orologio corre veloce per gli Enforcer, quasi quanto il ritmo travolgente del loro metallo da paura. Se il debutto ‘Into The Night’, appena ristampato da Earache, è stato un fulmine a ciel sereno e ‘Diamonds’ una goduriosa conferma, è proprio col terzo disco da studio che il gruppo svedese tenta di sbaragliare la concorrenza: ‘Death By Fire’ è un pezzetto di vinile incandescente, aggressivo come fu il thrash metal primordiale e veloce quanto lo speed di primi anni ’80. Niente rispetto per nessuno, solo pura velocità, riff che vi strappano la testa dal collo ed un “tiro” micidiale che non teme nessuna concorrenza. Heavy metal irrequieto, irriverente, esaltante, tre elementi che rendono gli Enforcer un gioiello prezioso nel quale la tentacolare Nuclear Blast investe ben più di una speranza. Tramite l’etichetta tedesca abbiamo intercettato il cantante e chitarrista Olof Wikstrand per tentare di circoscrivere il potenziale della sua band ed abbiamo conosciuto un ragazzo coerente ed appassionato, un fan che da poco si è trasformato in quel professionista del music circus che sognava di diventare da ragazzino. Potere dell’illusione, linfa vitale per chi ancora ci crede alla faccia dei detrattori. Olof, giusto per fare chiarezza col pubblico: ‘Death By Fire’, il vostro nuovo album, è stato scritto già col contratto Nuclear Blast tra le mani, oppure siete entrati in contatto con l’etichetta solo dopo aver terminato le sessioni di registrazione? “No, il sodalizio con l’etichetta tedesca è cosa molto recente, abbiamo firmato con loro da circa un paio di settimane (l’intervista è stata raccolta il 20 dicembre 2012), quando il disco era ormai stato ultimato in ogni dettaglio. Questa volta ci siamo occupati di tutto, dalle canzoni, ovviamente, fino all’impatto grafico e solo successivamente siamo usciti allo scoperto per cercare un’etichetta che fosse interessata al prodotto. Per coincidenza questa volta è toccato ai ragazzi di Nuclear Blast.” Quindi il vostro messaggio, fatto di velocità, energia e determinazione è forse la direzione finale verso la quale avete orientato il sound Enforcer? “Senza dubbio, con l’aggravante di essere stati molto più metodici ed attenti

L’

Ritmo, energia e sfacciataggine, elementi che ancora oggi distanziano il metal dall’odiato ambito commerciale e che rendono unica una band come gli Enforcer, pronti a sbriciolarvi i padiglioni auricolari con ‘Death By Fire’.

questa volta. Abbiamo curato ogni dettaglio e ci siamo concentrati per fornire un carattere ben determinato ai nuovi brani, tali da poter essere legati tra loro anche a livello concettuale. Per i primi due dischi abbiamo seguito solo l’impulso ed infatti i vecchi brani non seguono un filo logico continuativo, mentre quelli su ‘Death By Fire’ bruciano di pura passione, di determinazione e volontà di cercare una nuova dimensione nella quale inserire la nostra band. Non a caso tutte le sessioni legate al disco sono state esaurite in circa sei mesi, mentre il precedente ‘Diamonds’ (2010) è stato risolto in circa 30 giorni.” Penso che questa professionalità si rifletta anche nella qualità finale dei suoni, semplicemente brillanti e potentissimi… “Direi proprio di si, ogni particolare è stato valutato attentamente, cercando di distanziarci dalla musica per essere quanto più oggettivi possibile. Il sound di batteria è migliorato tantissimo, le chitarre sono travolgenti e non riesco a trovare un punto debole nei nuovi brani. Certo, questo livello di perfezione ci è costato un impegno impensabile a priori, ma credo che il risultato finali appaghi ognuno dei nostri fan, concedendo la possibilità alla band di aprire i propri confini con un lavoro finalmente inattaccabile sotto ad ogni punto di vista.” Tanta attenzione è costata molto al vostro portafogli? “Per assurdo questo disco è costato meno dei due precedenti, poiché siamo riusciti a fare tutto da soli, dalla registrazione al mix, dall’editing finale al mastering. Ci siamo fatti aiutare solo per la registrazione di alcune parti vocali, mentre tutto il resto è stato gestito dalla band. Possedere il controllo totale sulla band, sia dal punto di vista artistico che manageriale, è un impegno importante per ciascuno di noi, ma il risultato finale ci fa sentire molto orgogliosi, sinceramente meravigliati, sensazioni che compensano ampiamente gli sforzi profusi per raggiungere il traguardo.” All’intero degli Enforcer è cambiato anche il modo di percepire la realtà che vi sta attorno? Vi sentite già degli scafati professionisti all’opera? “No, l’approccio alla musica non è cambiato di un millimetro, siamo solo diventati più metodici nel tradurre le idee di base in qualcosa di più reale e gestibile. Fino a qualche anno fa, ogni parola ed ogni riff diventava argomento di elaborazione, ora siamo sicuramente più attenti nel discriminare le buone intuizioni da quelle meno ispirate. Stiamo crescendo, questo è evidente, ma non abbiamo perso quello spirito naif che ancora ci esalta. ‘Death By Fire’ ha iniziato a prendere forma circa un anno fa, quando ci siamo convinti di avere a disposizione il materiale sufficiente per creare un disco dinamitardo; da quel punto in avanti ogni energia è stata spesa per strutturare un lavoro che mantenesse inalterate le nostre origini ma che fosse in grado di guardare in avanti ed affrontare il 2013 con tutte le carte in regola per essere competitivo.” Morire carbonizzati, il tema portante del titolo: un argomento forte, che forse potrebbe essere tranquillamente affiancato ad una band di metal estremo, cosa ne pensi? “Penso che a nostro modo siamo una band di metal estremo. Non ci interessa il death metal, in quell’ambito sarebbero state necessarie 300 pa-

role per riuscire a rendere l’idea, ma rispettiamo chi esce dai canoni per raccontare qualcosa di nuovo. Prova a pensare agli Iron Maiden, quando per la prima volta cantarono: “666, the number of the beast!”. Nessuno avrebbe mai pensato che fossero dei supporter del lato oscuro, ma ci fu tantissimo stupore attorno al loro messaggio. Forse nemmeno loro credevano in quello che facevamo, ma non si sono fermati davanti all’evidenza di non essere una band black metal, hanno tirato dritto materializzandosi come un riferimento assoluto per tutti quelli che sono venuti dopo.” …ed è per questo che calcate la mano anche con una canzone intitolata ‘Satan’?


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“No, dai, ci fate tutti la stessa domanda. Noi abbiamo semplicemente utilizzato il riferimento di Satana quale distruttore di tutto, non ci siamo inventati nulla di nuovo. Satana è il lato opposto di Dio; il primo distrugge quello che il secondo ha creato. In queste dinamiche non abbiamo aggiunto nulla, ma ci piaceva il soggetto, forte ed espressivo, di una figura maligna impossibile da confinare. Non sono una persona religiosa ma riconosco il potere metaforico di queste due figure antagoniste, che si fronteggiano sopra l’iniquità di noi piccoli esseri insignificanti…” Curioso sentire ragionare di religione da un ragazzo svedese; il tuo popolo funge da esempio per quella emancipazione culturale che ha condannato la religione… “Anche da parte mia non esiste nessun presupposto che mi faccia rivedere le mie posizioni nei confronti della fede; io, come moltis-

simi miei coetanei, crediamo in noi stessi, nelle nostre esistenze materiali, senza apporre nessun valore di misticismo attorno a noi. In Svezia la religione è al capolinea, ormai non c’è più nessuno che frequenta la chiesa ed il culto è rivolto solo alla persona. Proprio per questi principi mi piace conferire a Dio ed a Satana quel potere didascalico di cui racconto in alcuni dei nostri testi.” Olof, cosa significa per te il termine heavy metal? “Significa passione e coraggio nei propri mezzi. Io apprezzo l’innovazione e guardo con incanto a quelle band che alla fine degli anni ’70 ed all’inizio degli ’80 sono state in grado di definire da zero un nuovo modo di fare musica e cultura. Lo stesso spirito indomabile e sfacciato lo riconosco nella prima ondata black di inizio ’90, ma come in tutti gli ambienti artistici, quando si perde l’ispirazione molto si trasforma in routine e non si avverte più quel brivido di imprevedibi-

lità e pericolo che rende unica ed innovativa un’opera. Io spero che gli Enforcer siano in grado di incarnare quello spirito ribelle ed estremo che rende una band qualcosa di speciale per i propri fan: io credo nella forza della determinazione e sono qui per portarla ovunque mi sarà concesso…questo per me significa heavy metal!” ANDREA VIGNATI

Olof Wikstrand – Voce e Chitarra Joseph Toll – Chitarra Tobias Lindqvist – Basso Jonas Wikstrand – Batteria www.enforcer.se

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eglio avere paura di se stessi, della propria identità, oppure temere quelli che ci stanno attorno, che regolano in modo passivo ed antagonista la nostra esistenza? Mick Moss è un artista in grado di isolare il suo sguardo sulla realtà che ci circonda e con infinita profondità rendercela in toni color seppia attraverso la sua musica. Mick ed il progetto Antimatter, di nuovo sui magazine per discutere di ‘Fear Of A Unique Identity’, album stratificato e concentrico come l’anima di un arbusto secolare. La filosofia che si intreccia coi toni dimessi di un rock elettrizzante e cupo, capace di aperture acustiche ancestrali così come di tuffi a capofitto nel mare oscuro della disperazione. Definire doom metal, oppure rock alternativo la nuova esperienza Antimatter non aggiunge nulla ad un ritratto musicale complesso, che nella classe del suo autore trova quel filo conduttore che la rende addirittura piacevole. La distrazione che emerge dal pensiero più isolato, la leggerezza che fa capolino tra vibrazioni plumbee che rileggono attraverso lenti fluorescenti la decadenza del rock di inizio anni ’80. Tantissimo materiale su cui discutere con un Mick alle prese con la sua passione più grande, la cucina…e noi l’abbiamo interrotto proprio sul più bello. Mick, questa nuovo prova dei tuoi Antimatter ci ha sorpresi; l’album corrisponde perfettamente ad una descrizione profonda e dettagliata della tristezza, un’opera di gran classe dai mille risvolti…concordi? “Concordo, ma riconosco diversi strati espressivi nel disco, risultato di una propensione alla composizione decisamente diversa rispetto al passato. Quando ho terminato ‘Leaving Eden’ (2007) mi sono sentito sgravare di un notevole peso dalla coscienza ed ho immediatamente tentato di registrare un demo di una nuova canzone per capire verso quale direzione avrei diretto il nuovo sound degli Antimatter. Caso vuole che il risultato suonava esattamente come non avrei voluto, come l’ennesima continuazione del percorso intrapreso con ‘Lights Out’ (2003) e ‘Planetary Confinement’ (2005). Ho deciso di fermarmi, di prendermi un anno di pausa per ricaricare le batterie e cercare di capire cosa avrei voluto veramente fare nel futuro. Quando mi sono riavvicinato alla musica l’ho fatto combinando il lato acustico, leggero a quello rock, fatto di chitarre distorte e ritmiche più frizzanti; questo orientamento è derivato anche dalla riscoperta delle mie radici, dal sound di inizio anni ’80 che mi ha formato da ragazzino ed in particolare quello degli Ultravox, una mia grandissima passione da teen ager. Mischiando tutti questi elementi ho dato inizio alla composizione di ‘Fear Of A Unique Identity’, seguendo con grande soddisfazione questo profilo lungo tutte le fasi di creazione del disco.” Gli Antimatter possono comunque essere considerati come una band vera e propria, oppure dovremmo intendere il progetto come un’estensione naturale del tuo carattere? “La musica è mia, è il prodotto delle mie sensazioni tradotto nell’impegno di creare suoni con determinate caratteristiche. Gli Antimatter esistono per dare un nome a questa dimensione musicale, come una specie di portale di passaggio dal quale la musica possa emergere ed invadere la nostra realtà. Parlavo con Duncan (Patterson, ex – Anathema, nda) solo qualche giorno fa della necessità di mantenere attivo il nome Antimatter nonostante il sound sia costantemente variato da album ad album; ho collaborato con musicisti differenti, sono riuscito ad esprimermi con registri diversificati, ma la costante in questo percorso è sempre rimasta nel nome…per cui direi che Antimatter è a tutti gli effetti un’estensione della mia personalità.” Tra poco sarai in tour in compagnia di Vic Anselmo per al-

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La forma slanciata ed enfatica della musica degli Antimatter trova nuovi sbocchi attraverso ‘Fear Of A Unique Identity’, disco che tradisce una positività inaspettata e capace di sbucare fiera tra le pieghe della tristezza più impenetrabile. 62 METAL HAMMER

cune date acustiche; è forse questa la dimensione definitiva del sound che hai in mente? “Ho pensato bene di frazionare in due parti l’esperienza live di ‘Fear Of…’, proprio per consentire al pubblico di apprezzare entrambi i lati di una moneta preziosa. Il lato acustico è più spirituale, ti concede un’immersione totale nelle vibrazioni di ogni nota, quello elettrico è invece notevolmente più fisico. Suoneremo come band regolare negli UK durante l’anno, ci stiamo preparando nella mia saletta qui a Liverpool, ma sarà un’esperienza completamente diversa rispetto a quella che porteremo in tour dal prossimo febbraio in compagnia di Vic.” Perché mai dovremmo avere paura della nostra identità, Mick? “La paura è alimentata dalla diversità, dall’isolamento nel quale certe personalità sono relegate proprio per la loro disuguaglianza in ambito sociale. Prova ad immaginare te stesso come un individuo dai tratti originali: attorno a te troveresti una moltitudine di persone che hanno poco da spartire col tuo modo di fare e vedere le cose. A questo punto ti sentiresti immediatamente emarginato…e proveresti quella paura di cui racconto. La società è fatta di migliaia di riflessi diversi incarnati nelle persone; il fatto che tutti, oggi, siano elementi

clonati da un protocollo uniforme mi fa stare male e questo è l’altro lato della paura, l’angoscia di essere uniformato dalla massa per una volontà superiore. L’omologazione crea ansia, che sia per un fatto di emarginazione, che di costrizione nel seguire uno stile di vita non tuo. Per capire meglio cosa intendo ti invito a dare un’occhiata al video clip che abbiamo realizzato per ‘Uniformed And Black’. Uniformare è come togliere colore al mondo, limitare la capacità di esprimere il proprio ego fino ad asciugare qualsiasi emozione…” Vero anche il contrario però, quando ci sentiamo richiedere di essere originali a tutti i costi, pronti ad affrontare tutte le situazioni con la giusta prospettiva. Non credi sia difficile distinguere i limiti fisiologici del nostro ego? La copertina del disco, così indefinibile, mi ha indotto questa considerazione… “Hai ragione, viviamo in un momento di indecisione totale. Ci chiedono di non essere noi stessi, di diventare docili, prevedibili e malleabili, ma allo stesso tempo è necessario trovare dei nuovi leader, persone dalla forza incrollabile pronte a prendere in mano le redini del nostro futuro. Sono d’accordo con te anche per la copertina, mi ha dato le stesse sensazioni di incertezza la prima volta che me l’hanno presentata; mi è sembrata molto minacciosa, come se le tre figure ritratte tra le om-


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ANTIMATTER La Paura Del Conformismo! bre fossero li per aggredirmi.” Nel tuo processo di composizione vengono prima le parole, oppure la musica? “Uhm…prima di tutto arriva il problema, poi la musica ed infine le parole che raccontano il problema in questione, ah ah (ride mestamente, nda). Nella composizione metto tutta la passione di cui dispongo ed anche la scrittura dei testi deve riflettere una tematica specifica che significa qualcosa di importante per me.” Mick, riesci a vivere di musica, oppure sei costretto a portare avanti anche un lavoro quotidiano per pagare le bollette? “Si, per fortuna gli Antimatter ricoprono quasi completamente la mia giornata e riesco a mantenermi con gli introiti a loro legati. Sarebbe stato un grande problema non riuscirci, visto che per diversi anni non ho visto un quattrino ma ho continuato a testa bassa a perseguire il sogno di diventare un musicista professionista; ora tutto il mio tempo è legato alla musica ed anche volendo

non riuscirei materialmente a fare altro.” Cosa ti ha dato la musica fino ad oggi? “La compagnia, la passione. Sono figlio unico ed ho passato tutta la mia adolescenza da solo, in casa; in situazioni del genere devi saper solleticare la fantasia e dagli 8 anni in poi ho scoperto la magia del vinile fino a sbarcare negli Ultravox e nei The Beatles, le mie due passioni più grandi. Nel 1988 un amico mi fece ascoltare dal suo Walkman ‘Dream Evil’ di Dio e rimasi completamente sotto shock, si apriva per me una dimensione musicale che mai avrei immaginato.” Mick, un’ultima curiosità; tu provieni da Liverpool, città dal profilo oscuro e molto legata alla cultura musicale. Quali ricordi hai del tuo quartiere all’età di teen ager? “Liverpool è cambiata proprio come è cambiata la droga che girava nelle strade. Negli anni ’80 e ’90 era la marijuana a farla da pa-

drone, con qualche invasione di campo delle anfetamine e dell’eroina. Oggi la droga dominante è la cocaina e ciò mi fa molta paura, poiché si tratta di una sostanza che ti cambia il carattere e che si impone sulla gente. I ragazzi di oggi vogliono sembrare tutti dei gangster carichi di piombo, dei boss di strada privi della pietà, gente che manderei volentieri affanculo lontano dalla mia amata Liverpool, città che si è sempre resa famosa per il senso dello humour, cosa assolutamente inesistente al giorno d’oggi. Forse sto davvero diventando vecchio e guardo al passato con esagerata nostalgia, ma per quanto fossero stati oscuri gli anni della mia adolescenza non sono stati nulla rispetto al pericolo di vivere nella società contemporanea.” ANDREA VIGNATI

M i c k M o s s – V o c e , C h i t a r r a , B a sso, Tastiere, Piano e Samples Colin Fromont – Batteria Vic Anselmo – Voce Femminile David Hall – Violino www.antimatteronline.com


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Si tratta di una band dal grande potenziale e dal futuro assicurato. Gli Italiani Draugr sono riusciti con l’album ‘De Ferro Italico’ a creare qualcosa di davvero pregevole combinando musica e storia in modo convincente e originale. Ursus Arctos e Jonny ci aprono le porte del mondo dei Draugr.

on fatevi scappare l’occasione di ascoltare ‘De ferro Italico’, amalgama molto interessante di tradizione, storia, cultura e musica dalle svariate influenze ed un piglio cinematografico da non sottovalutare.Per cominciare vogliamo raccontare ai nostri lettori come hanno preso vita i Draugr? “Il progetto nasce nel 2002, dal quartetto formato da Jonny alla batteria, Stolas al basso, Svafnir alla voce e Triumphator alla chitarra, con l'intento di suonare musicablack metal, lasciando ampio spazio alle influenze musicali dei singoli membri, senza troppi 'paletti' e soprattutto con una gran voglia di proporre dal vivo ciò cheavremmo di li a poco creato. Nel 2006 dopo un paio di demo e live in giro per la penisola e non, finalmente vede la luce il primo album ’Nocturnal Pagan Supremacy’. Inseguito, dopo vari

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DRAUGR Il Richiamo Del Lupo 64 METAL HAMMER

cambi di line-up e l'aggiunta di Ursus Arctos alle tastiere si arriva nel 2011 a sfornare il secondo disco, ‘De Ferro Italico’. Qui la maturità della band èpiù evidente, sia a livello di sound che di composizione, mischiando elementi tipicamente black metal con elementi folcloristici, oltre al concept che unifica il tutto e dauna chiara idea del nostro messaggio”. Un nome, il vostro,con un identità/significato importante e piuttosto "distintivo", come mai questa scelta? “E' una scelta che tuttora fa storcere il naso ai cosiddetti 'puristi' che vedrebbero più adatto un nome d'origine 'italica' per il nostro progetto ma, oltre a non esserci maipreoccupati di seguire schemi dettati dagli usi del genere che suoniamo, volevamo an-

che un nome che risultasse disarmonico all'udito, come una sorta di 'ringhio' e per questo motivo abbiamo scelto il norreno 'Draugr', uno spettro di forma lupesca che custodisce le tombe dei guerrieri vichinghi; la scelta del nome risale al 2002,quando la proposta concettuale della band era ancora lontana dalle tematiche introdotte in ‘Nocturnal Pagan Supremacy’ e approfondite poi con ‘De Ferro Italico’ edera forte l'influenza del black metal scandinavo, quel tipo di sonorità non ha mai abbandonato e mai abbandonerà il sound della band, per questo ed altri motivi siamofortemente legati al nome Draugr, distintivo per la sua storia così come per la cacofonia della pronuncia”. Il nuovo album 'De Ferro Italico' ci porta dritti in un mondo quasi cinematografico, una sorta di viaggio temporale che ha una trama ed un copione ben preciso. Ce ne voleteparlare? “L'idea del concept para-storico è nata durante la stesura dei primi pezzi andando poi ad influenzare l'atmosfera


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generale del disco. Nelle dieci tracce che compongonol'album descriviamo rituali propiziatori e usi militari dei nostri antenati, il nostro intento era di creare uno scenario adatto all'inserimento di fonti storiche appartenentialla cultura italica pre-romana, andando quindi a risvegliare l'interesse del pubblico per un periodo storico sottovalutato poiché all'ombra della ben più ingombrantestoria romana. ‘De Ferro Italico’ è frutto di un lungo ed approfondito studio su testi di storia antica e vede diversi momenti cantati o recitati in lingue quali latino e inosco (lingua parlata nel Sannio e in Abruzzo nel V sec. a.C.) ; le vicende del concept si svolgono nell’anno 392, anno in cui l'imperatore Teodosio proclamò l'abolizionedella religione pagana, questo fu il culmine di una serie di editti che aveva già disposto il divieto di riti e l'abolizione dei templi dediti a questo tipo di culti,si tratta di unatematica che ci ha affascinato da subito e con grande piacere continuiamo a ricevere domande riguardo alle fonti storiografiche del concept”. Musicalmente riuscite a coniugare verbi musicali anche dal significato distante, grande pregio a mio avviso... Non è facile riuscire poi ad adattare un tessuto sonoro così intenso adun concept lirico di un certo livello. A chi vi siete ispirati per rendere il risultato così efficace? “Nessuna ispirazione in particolare. In dieci anni di attività, all'interno della band, si sono alternati diversi musicisti quasi tutti open-minded per quanto riguarda ascoltie stili musicali, e tutt'ora il nostro sound è il frutto del lavoro di sei menti con background molto diversi tra loro, ascoltiamo dal jazz al metal, dal rock alla musicaclassica, dal punk alla cantautorale, senza porci restrizioni in ambito compositivo, questa è la causa principale della varietà della nostra proposta”. Si fanno troppo spesso nomi stranieri... credo che il vostro sia anche un grido di battaglia per rendere omaggio alla nostra gloriosa storia, sbaglio? Altre band italiane stanno dandovita ad una sorta di 'orgoglio patriottico' o comunque di valenza 'storica', avete delle preferenze, gruppi che volete menzionare? “Diverse recensioni hanno definito ‘De Ferro Italico’ come una 'risposta italiana' a Moonsorrow, Ensiferum, Nokturnal Mortum, o altre band nord o est-europee contematiche pagane e sonorità epiche e folcloristiche e ciò ci fa molto piacere; come già detto, l'obbiettivo era quello di riportare alla luce tradizioni e credenze pre-romane che hanno influenzato profondamente l'evoluzione della cultura italica e si può dire che lo abbiamo raggiunto. Purtroppo il nostro paese è caratterizzato da unaforte esterofilia e molte proposte 'patriotti-

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che' vengono spesso fraintese come politiche e osteggiate a priori, nonostante questi ostacoli, mi trovo d'accordo con te,sempre più band scelgono di trattare tematiche legate a diverse epoche della cultura italiana, cantando in lingua madre o forme dialettali e ciò è senz'altro un bene. Trale nostre preferenze ci sentiamo in dovere di citare i precursori, quelli che per primi hanno avuto il fegato di rischiare con una scelta del genere: Mario 'The Black' DiDonato e Agghiastru (Inchiuvatu, La Caruta di li Dei). Di recente c'è stato anche un cambio di line-up... “Sì, ci siamo separati da Augur Svafnir, frontman e membro della band per dieci anni. E' stata una scelta obbligata da cause di forza maggiore e per questo senza alcunrancore da entrambe le parti. Il nuovo singer dei Draugr è Nemesis, già mente dei corregionali Grimorium; non è un nome del tutto nuovo per chi segue i Draugr, infattiè stato session vocalist in tutti i nostri show del 2012 e, quando ci siamo ritrovati a dover cercare un sostituto per Svafnir, la scelta di Nemesis ci è sembrata la piùnaturale. La formazione attuale vede due novità rispetto a quella che ha registrato ‘De Ferro Italico’, oltre al già citato Nemesis, nel 2012 ha fatto il suo ingresso nellaband il chitarrista Mors. Con questi due nuovi ingressi lo 'spirito di gruppo' si è notevolmente rafforzato e allo stato attuale delle cose non potremmo augurarci una line-up migliore per Draugr”. A cosa state lavorando attualmente e qual è adesso il vostro obiettivo principale? “Siamo al lavoro su alcuni pezzi che andranno a comporre il nostro terzo full-length.?Sarà l'album più 'spirituale' e riflessivo della nostra discografia, l'obbiettivo è quello di evolvere il nostro sound pur mantenendo fermi alcuni elementi introdotti con 'DeFerro Italico' ma è ancora presto per svelare dettagli a riguardo. Inoltre, dopo diversi mesi di stop, a Marzo torneremo ad esibirci live con pochi concerti selezionati inItalia e all'estero, il primo dei quali il 9 Marzo in occasione dell'Heidenwahn Festival di Traun (Austria), i lettori di Metal Hammer potranno tenersi aggiornati sui nostrispostamenti seguendo la sezione 'live' su www.draugr.it”. MARCELLO LORENTEGGIO

Nemesis – voce Triumphator – chitarra Mors – chitarra Ursus Arctos – tastiere Stolas – basso Jonny – batteria www.draugr.it


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Soltanto un talento autentico è in grado di riconoscerne altri. Va quindi da sé che il musicista toscano abbia partorito l’intuizione – a nome ‘UnderWorld Collection: Collision’ – che potrebbe ottimizzare il percorso futuro di 14 giovani solisti, eruttanti energia, grintosi, pescati nel pozzo disilluso e un poco dormiente delle nuove leve…


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GABRIELE BELLINI sistono i furbetti parassiti, che prestano volto e voce a materiale elaborato appositamente da assistenti in ombra. In una ipotetica scala evolutiva dell’essenza artistica troviamo poi una miriade di individui autonomi, che camminano, corrono ed entrano nei cuori della gente grazie al filtro creativo ed esecutivo che essi stessi forniscono alle loro emozioni. Un gradino più su, sostano i polivalenti: produttori, anche fonici, con diapason e metronomi nelle orecchie. Al vertice di questa piramide irregolare incombono gli artisti maiuscoli, coloro che di quella materia astratta chiamata musica incarnano le ultime due categorie appena citate e, in più, assorbono la razione di altruismo che li trasforma in mecenati. Al vertice, pressato da quattro- stranieriquattro, parcheggia in sosta permanente Gabriele Bellini – che peste vi colga se non conoscete nulla del suo ventennale operato – chitarrista, bassista, compositore, insegnante, motivatore e, nella fattispecie, anche segugio. A lui dobbiamo l’iniziativa denominata ‘Underworld Collection’, il cui primo capitolo, ‘Collision’, raccoglie 14 tracce inedite di altrettanti giovani musicisti, valutati e prelevati dal parco delle aspiranti promesse. CD, il supporto; il formato corrisponde ad una semi-reliquia che pare prossima all’estinzione: la compilation. Già: una dimostrazione di eroismo, persino e soprattutto. Perché oggi ognuno se la stila da sé, l’antologia, scaricando (spesso gratuitamente) i brani preferiti dalla grande rete. Qualcuna sopravvive a stento, allegata a qualche giornale e sfruttata a mo’ di introduzione ai suoi contenuti, mentre moltissime aggredivano le vetrine dei negozi durante le feste: un ‘facile’ compendio per chiunque desiderasse ottenere il meglio – ‘best of’ o ‘greatest hits’ – di una band/artista ad un prezzo conveniente e scansando annose ricerche. Adesso sembra che il ciclo vitale della ‘compilation’ si sia ormai concluso, o comunque perso nell’indifferenza che pare albergare nei fruitori, occasionali e abituali, di prodotti fonografici… L’affabile e provveduto Bellini, invece, ha pensato di valorizzarla. Riportandola alla sua utilità originaria, giusto? “Giustissimo! Valorizzare è proprio il termine giusto. Il forte desiderio di voler presentare sia l’intero progetto che ogni singolo artista, cercando di offrire anche il maggiore numero di servizi possibili, in un degno supporto e coordinamento artistico che si rispetti, è stato l’input principale che ha portato a questa idea. Una cosa del tutto nuova, partorita da un approccio completamente diverso, e pertanto curata veramente nei minimi dettagli. Una cosa mai vista, insomma!” Quattordici tracce per altrettanti talenti ‘singoli’ smaniosi di farsi conoscere. Sicuramente avrai dovuto operare una selezione tra i tuoi molti allievi. Una selezione che si sarà basata su criteri diversi da quelli adottati dalle case discografiche. Quali, per l’esattezza? “Sì, 14 artisti motivatissimi, decisi e convinti di voler dire la loro, con un forte desiderio di emergere, da quei bassifondi oscuri, privi di luce e di possibilità, che solo un sistema debole e inefficiente come quello attuale poteva creare. Personalmente, ho sempre creduto che il mondo sia sempre stato ricco di talenti dal potenziale infinito, ed è sempre stato così anche da noi. Solo che da tempo siamo sempre più invasi e sedotti dalle superficialità delle cose. La musica è una cosa molto profonda, e come tale esige maggior rispetto e riconoscenza. Credo ci sia un assoluto bisogno di dare il giusto valore all’essenza di questa potentissima e primordiale forma d’Arte. Con questa base di principi, ho maturato nel corso degli anni l’idea di realizzare un progetto come quello di ‘UnderWorld Collection’… Praticamente, un sogno che si è avverato. Zero limiti alla creatività artistica e una grande attenzione per qualità/livello di

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Un Segugio Tra I Vulcani originalità/personalità delle composizioni proposte: questi sono stati i criteri, che dopo una accurata selezione operata tra molti artisti (miei allievi, e non solo), hanno determinato le scelte definitive. Anche io mi sono lasciato coinvolgere in un brano. Quando mi è stata presentata l’idea, l’ho trovata così bizzarra e accattivante, anche nella prospettiva di fare da apripista, che non ho resistito.” ‘Underworld Collection’, dal nome eloquente, si compone di più capitoli. Il primo è ‘Collision’, dedicato ai solisti … “Posso anticipare che il secondo capitolo sarà invece dedicato esclusivamente alle band. Infatti, io e i miei fidi collaboratori, ossia Jac Salani (La Fucina Studio), Simone Gagliardi (Gatti Promotion) e i miei soci del ‘Qua Rock’ abbiamo già iniziato i lavori di progettazione e contiamo di poter dare il via nella prossima primavera/estate. In anteprima assoluta: ‘Invasion’ è il titolo previsto.” La speranza è che altri tuoi colleghi – insegnanti e musicisti sul campo – seguano il tuo esempio, evitando però di inflazionare ulteriormente il mercato. Appurati però i demoralizzanti dati odierni nel campo delle vendite discografiche e degli happening dal vivo (specialmente in Italia), è possibile quantificare in ‘modalità positiva’ le attese dei ragazzi coinvolti? “Conto molto nel fatto che un progetto come questo abbia una certa risonanza tra gli addetti ai lavori e che stimoli quanto più possibile a credere e a investire in tali iniziative. Mi riferisco soprattutto a tutti gli addetti che hanno possibilità di gran lunga superiori alle nostre e che ancora dubitano e stentano a crederci. Il potenziale che possiamo avere a disposizione è tanto, basta solo crederci profondamente senza alcun timore. Poi, con una giusta dose di volontà, il modo più appropriato di come muoversi all’interno di questa giungla impazzita lo si trova sempre. Osare e provare a cambiare non è mai un’utopia! Nel nostro caso, possiamo anche contare molto sul fatto di aver formato una ‘grande famiglia’ e questo permette di avere molta più forza in tutte le direzioni, compresi i fatidici live! Quando si tocca il fondo, per poter risalire, volendo anche rinnovare le aspettative, diventa ancora più determinante non fermarsi, non smettere di lottare, di produrre, di inventare e accettare nuove sfide… Noi lo stiamo facendo.” Per esperienza diretta, sai dirmi i sentieri professionali che sono soliti percorrere i giovani musicisti, una volta che

terminano il corso specifico di studi? E’ vero che il numero di iscritti, da qualche anno in qua, a causa delle scarse aspettative nell’avvenire, tende a diminuire? “Oggi i giovani musicisti vanno guidati più di prima e con molta più attenzione, se vogliamo contrastare al meglio quello che di negativo ci viene offerto oggi… E’ una vera e propria missione che personalmente trovo estremamente stimolante, positiva e costruttiva. Se si percorre la strada giusta, i giovani rispondono… eccome se rispondono! Vero è che con l’immenso potere di Internet e tecnologie analoghe dovremmo essere tutti molto più vicini, alla portata di un semplice clic, ma non è sempre così. La verità è che molti si ritrovano più soli di prima, più soli dentro, più disorientati dalla realtà e persino più confusi dai troppi dati, dal ‘tutto e subito’. Questa condizione purtroppo si riflette non poco anche nel settore didattico. Guarda la musica: viene ascoltata in Mp3/Mp4, di scarsa qualità, resa sempre più superficiale o mirata al circo! Nel migliore dei casi, ne escono musicisti tecnicamente perfetti, e nient’altro; ‘belli e glaciali’, insomma! Credo si debba recuperare l’essenza di ieri; perché qualcosa di estremamente importante lo abbiamo tutti dentro, va solo esternato.” E il Bellini musicista, spericolato sperimentatore e alchimista di suoni, cos’ha in programma? “Un EP che stiamo ultimando in questi giorni. Si tratta di un fantastico progetto attivato circa un anno fa, una mia collaborazione a distanza con il primo e indiscusso cantante degli Hyaena (del periodo ‘Metal 8689’), Mario Candido, che da oltre 20 anni risiede a Londra. Ci siamo ritrovati in rete quasi per caso e come per magia si è riattivata una sinergia impressionante! Puntiamo tantissimo su questo nuovo progetto, tale che la promozione partirà sicuramente dalla capitale inglese! Poi ci sono i Pulse-R, in lavorazione per il prossimo album, e tante altre importanti collaborazioni in corso d’opera. Ovviamente non possono mancare i miei progetti solisti! Colgo l’occasione per dare un salutone a tutti i lettori di MH. Sosteneteci e restate sintonizzati.” FILIPPO PAGANI www.gabrielebellini.it www.facebook.com/gbgabrielebellini www.youtube.com/maestrobellini https://twitter.com/#!/BelliniGabriele

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Secondo disco per il side-project di Morgan, fondatore dei Marduk: il tema horror viene esplorato attraverso vie punk rock che ricordano da vicino un mostro sacro del genere: Glenn Danzig (ed i suoi Misfits ovviamente)…

DEATH WOLF Morte Nera Corazzata

Death Wolf nascono nel 2011, ma la loro storia è molto più vecchia: le radici risalgono addirittura un decennio fa, quando la mente creativa di Morgan Steinmeyer Håkansson, chitarrista dei Marduk, volle esprimere il suo amore per i Misfits fondando una band fortemente ispirata alle sonorità horror-punk. Nacquero così i Devils Whorehouse (proprio come il titolo di una canzone dei Misfits), che ottennero discreti consensi grazie ad un timbro vocale fortemente ispirato a quello di Glenn Danzig. Dopo due album, il gruppo decise

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che l’etichetta di ‘band-tributo ai Misfits’ iniziava a stare stretto, e così si cambiò nome, ma non pelle: i musicisti rimasero gli stessi, ma iniziarono ad esplorare anche altre atmosfere più metal, mantenendo però una connotazione horror. Nell’anno domini 2013 esce ‘Black Armoured Death’, un convincente secondo disco dei Death Wolf, e proprio con il loro fondatore Morgan andiamo a scambiare qualche parola. Quando hai creato i Marduk, l’obiettivo dichia-

rato della band era quello di creare il gruppo più violento e blasfemo mai esistito. Qual è l’obiettivo dei Death Wolf? “Innanzi tutto, lo scopo dei Marduk era di dare una mossa alla scena black metal, perchè nel 1999 la trovavo patetica e moscia. Chiunque può essere blasfemo, e più blasfemo dei Marduk. Ma la mia frase voleva solo smuovere le acque e far tornare l’aggressività in quel genere musicale. Con i Death Wolf, voglio scatenare un’energia diversa che risiede dentro di

me. Non posso suonare nei Marduk come suono con i Death Wolf, e da anni sentivo di dover esprimere anche questo lato della mia creatività. Come artista è interessante seguire strade diverse, anche perchè seguire quelle strade permette poi di tornare sulla via principale, in questo caso i Marduk, con


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rinnovata energia.” Cos’è la Black Armoured Death, la Morte Nera Corazzata che dà il titolo al disco? “Non c’è una vera connessione fra quelle tre parole, stanno solo bene insieme e rappresentano bene l’album: è nero come la pece, è corazzato e aggressivo, e parla ampiamente di morte. Tre parole molto forti, che caratterizzano perfettamente il contenuto della musica.” La prima canzone del disco si chiama ‘Noche De Brujas’, un titolo molto evocativo in spagnolo, nonostante il testo sia in inglese. E’ il segno che ormai tutti i titoli migliori e più cattivi sono stati già utilizzati, nella storia della musica? Si passerà ora alle lingue straniere? “E’ solo un gioco, un tentativo di colpire l’ascoltatore. Lo faccio da sempre, anche con i Marduk: abbiamo usato frasi in rumeno, latino, tedesco, e anche italiano. Anzi, all’epoca dei Devils Whorehouse avevamo scritto una canzone in italiano che poi non è stata inclusa in un album era ‘I lunghi capelli della morte’ (pronunciato in Italiano nda), basato su un film horror con la mia attrice preferita, Barbara Steele. Ecco, questa è una delle cose che sono cambiate insieme al cambio di nome della band: con i Devils Whorehouse c’era una evidente ispirazione cinematografica, la base dell’orrore era nei libri o nei film. Con i Death Wolf i testi parlano sempre di orrore, ma orrore quotidiano, che tutti possono sperimentare.” Nei testi delle canzoni è sempre presente il tema del ‘serpente’, lo si trova anche leggendo alcuni titoli di questo album: ‘World Serpent’ e ‘Snake Mountain’, che ovviamente si legano anche all’ultimo disco dei Marduk, ‘Serpent Sermon’. Non temi che le due band possano essere confuse, tematicamente parlando? “Ammetto un mio grande interesse per il mondo dei serpenti, e la loro simbologia. Quindi, mi trovo sempre ispirato per un buon vecchio testo legato ai serpenti! Quando scrivo una canzone, però, so sempre per chi la sto scrivendo, non ho dubbi se un certo testo sia per i Marduk o per i Death Wolf: tematicamente sono molto diversi, anche se la base di partenza può essere un putrido serpente.” Snake Mountain è anche uscito come EP, distribuito solo su vinile. Come mai questa scelta? “E’ stata una scelta semplicissima, per noi: io amo tantissimo il vinile, e vedo che

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in giro per il mondo c’è un ritorno in grande stile per questo formato. Negli anni novanta praticamente i dischi in vinile erano spariti, non ne stampavamo più, mentre invece adesso ne stampiamo sempre di più e c’è grande richiesta. C’è anche una forte componente collezionistica dietro questa richiesta, e io stesso sono un collezionista a cui piace comprare edizioni rare su vinile, danno un gran senso di potenza una volta tenute in mano.” In Febbraio e Marzo sarai impegnato in un lungo tour in America, dove ogni sera ti esibirai sia con i Marduk che con i Death Wolf. Vale la pena sostenere ritmi così serrati per il mercato oltreoceano, dove si dice sia sempre difficile ‘sfondare’, per una band europea? “Vale sicuramente la pena per il pubblico, che è sempre molto caldo e molto rispettoso delle band. Suonando parecchie date si ‘conquistano’ nuovi Stati americani, anche se un solo loro Stato a volte sembra grande quasi quanto l’Europa! Qui da noi è più facile organizzare un tour, ma anche in America si trovano grandi soddisfazioni. Non mi spaventa suonare due concerti ogni sera, vogliamo diffondere la musica dei Death Wolf ad un pubblico che sia pronto a recepirla … e quale pubblico migliore di quello dei Marduk?” Una curiosità finale: dal momento che i Devils Whorehouse nacquero come band fortemente ispirata ai Misfits, vorrei sapere il tuo parere sull’incarnazione attuale della band, con Jerry Only alla voce... “Non vorrei sembrare offensivo, i Misfits erano dei miti per me, ma trovo la situazione attuale una disgrazia. Chiariamoci, per me i Misfits sono morti nel 1982, non ho mai nemmeno accettato il loro ritorno con Michale Graves alla voce, ma al momento sembra semplicemente una blasfemia. Penso che non si dovrebbero registrare dischi usando il nome di una band che non dovrebbe più essere utilizzato. Danzig era la mente creativa della band, e adesso quella che poteva essere una grande eredità musicale è diventata una schifezza da buttar via.” PAOLO BIANCO

Maelstrom – Voce Makko – Chitarra Morgan – Basso Hrafn – Batteria www.deathwolf.net


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uasi trent’anni di carriera e di battaglie contro il perbenismo e gli stereotipi e avere ancora la voglia di combattere e di spaccare tutto. Sakis Tolis non si arrende mai, e soprattutto non da’ mai le cose per scontate, in primis il suo stesso estro creativo che sfida e mette alla prova in continuazione. ‘Kata Ton Daimona Eaytoy (Do What Thou Wilt)’ è un inno alla liberazione, per inseguire lo spirito sacro del tempio della musica. Il titolo del vostro nuovo album presenta la stessa scritta che c’è sulla tomba di Jim Morrison, frase a sua volta tratta dai lavori dell’occultista inglese Aleister Crowley. Qualche riferimento alla rincorsa del mito dionisiaco che fu di Morrison, che vuole l’essere umano libero di inseguire i propri istinti? C’è un velo sottile che separa libero arbitrio, anarchia e senso di distruzione e Jim ne fu vittima (‘do what thou wilt’ significa ‘fai ciò che vuoi’) “Effettivamente ciò che dici è vero ed è una domanda che mi sento fare molto spesso, ma a ad essere sinceri il titolo non si riferisce affatto alla tomba di Morrison, che tra l’altro non è mai stato una nostra influenza. Concordo però sulla sua visione circa la ricerca della libertà interiore e del mantenersi coerenti con il proprio spirito. Il titolo del disco ha lo stesso significato ma deriva da una massima che arriva dall’antica mitologia greca”. E’ un concept album? Le canzoni sono per caso legate da un filo tematico e da una visione comune? “Non posso dire che questo sia un concept album nell’accezione più pura del termine, nel senso che ci sono undici brani ciascuno con opzioni musicali diverse. Il disco rappresenta un viaggio nella sapienza occulta delle civiltà antiche esplorante l’area dell’ombra. Ci sono riferimenti alle popolazioni Inkas, Maya, slave e della Grecia antica, dunque esso è un patchwork di vari idiomi e culture che si riferisce alla stessa matrice tematica”. Come band, in così tanti anni di carriera, voi avete sempre dimostrato di aver seguito il vostro spirito personale a discapito della convenienza. Avete lottato contro ipocriti dogmi precostituiti (in primis religiosi) e contro l’ignoranza del bieco conformismo. Dove prendete tutta questa forza guerriera? Pensate che nel 2013 finalmente il mondo sia pronto a comprendere il vostro messaggio? “Noi ci limitiamo a seguire la nostra unica vera ideologia, che è quella del non essere schiavi e servi di nessuno. Seguiamo il nostro percorso e lottiamo per ciò che ci sembra giusto anche se non viene compreso dagli altri. Ad essere onesto, non me ne fregherebbe comunque nulla di assurgere allo stato di popolarità dei Metallica, o di un’altra band del genere. Già ritengo soddisfacente il fatto che qualcuno fuori dalla Grecia possa ascoltare ed apprezzare la nostra musica, e che quindi sia possibile per noi andare in tour. Suonare il più possibile dal vivo diffondendo il virus del non allineamento con l’establishment e promuovendo la libertà personale e l’anti-conservatorismo, è la nostra vera missione. Il successo fine a se stesso non ci interessa”. A quale mito greco i Rotting Christ si sentono più vicini? “Sinceramente a questa domanda dovresti rispondere da sola visto che anche nella tradizione romana esistono gli dei mitologici. Io non dirò nulla”. Dunque lasceremo ai lettori l’ardua sentenza. Spiegami piuttosto come si è compiuto il processo di creazione dell’album, sia la parte compositiva che quella di registrazione. “Non ti puoi immaginare quanto sia difficile e faticoso per me ultimamente riuscire a fare un disco, soprattutto perché prendo troppo seriamente l’intero

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Fai Cio’ Che Vuoi

processo compositivo, ancora più seriamente che in passato, e ciò lo rende gravoso. Quando ero più giovane ero più spontaneo, invece ora ogni singola nota o parola è frutto di una meditazione profonda. Prima mi isolo e indago dentro me stesso se ho qualcosa di intelligente da dire alle persone e ti giuro che sono molto severo nel giudizio. Se ritengo di sì, imbraccio la chitarra e inizio a comporre intorno a una riff. Quest’ultimo disco mi ha richiesto un anno di lavoro e quattro mesi in studio di registrazione. Ho quasi fatto tutto da solo, tranne le tracce di batteria. Se dovesse arrivare un giorno in cui non avessi più nulla da comunicare, smetterei. Non mi piacciono gli artisti che fanno uscire album inutili solo per ragioni contrattuali”. Come band siete stati dei pionieri, soprattutto nel vostro paese. In Grecia avete anticipato i tempi, sia a livello tematico che musicale, rappresentando l’area d’ombra in cui poi ora il vostro stato è effettivamente scivolato con la tremenda crisi economica e sociale che sta vivendo. Come ti senti a proposito? “In quanto guerriero del metal ho sempre sentito di dover lottare per le mie idee, non importa se giuste o sbagliate, e non mi arrenderò a nessun tipo di sconfitta fino a che non sentirò di avere vinto la guerra. I Rotting Christ diffondono il verbo del metal nel mondo, oggi in tempi di crisi più di prima. Comunque la situazione in cui è scivolata la Grecia è davvero pazzesca”. Siete in grado di metabolizzare differenti generi musicali. Non vi da’ dunque fastidio l’essere sempre ingabbiati in uno stile in particolare? “Secondo le leggi della natura, se qualche cosa non si evolve è destinato a morire. Cerchiamo anche noi di crescere e di cambiare, e nel contempo di non tradire il nostro DNA e le nostre radici”. Il nostro ordine sociale ed economico è pieno di gabbie, e il music business non fa eccezione. La musica per voi è uno strumento di catarsi e un modo per uscire da tale carcere esorcizzando nel frattempo i vostri demoni? “Assolutamente sì. E’ questo il motivo per cui dopo tanti anni scrivo ancora musica. Semplicemente toccando la mia chitarra, posso scappare da questo mondo malato e assurdo, composto da paradossali gabbie in cui gli umani si muovono come automi. Io cerco sempre di evitare queste forme di prigionia sociale e interiore, e sono molto fortunato ad avere la musica come strumento. ‘Kata Ton Demona Eaftou’ è il mio nuovo trip nell’occultismo inter-

I Cristi pagani della terra ellenica escono con ‘Kata Ton Daimona Eaytoy’, un disco ispirato alle tradizioni dell’occultismo nero del passato. Non solo black metal dunque, ma un excursus nelle aree d’ombra della storia dell’umanità.

nazionale e nelle ere oscure del passato. Tutti siete i benvenuti”. Da ‘Aealo’ fino a qua cosa è cambiato nel gruppo? Sembrate catalizzare ancora di più tutta la rabbia, l’angoscia e la disperazione che prova oggi il popolo greco. “Sono cambiate molte cose da ‘Aealo’ e la mia terra sta fronteggiando una delle peggiori catastrofi della sua storia moderna ma la nostra rabbia non è direttamente legata a tali eventi, piuttosto ha una matrice più antica, radicata negli archetipi oscuri che appartengono alla notte dei tempi e che quindi non scompariranno mai. Riguardo alla crisi greca, personalmente penso che possa anche essere vista come un’opportunità per modificare e migliorare lo stato delle cose”. Quali band stimi e ritieni influenti per i Rotting Christ? “Difficile a dirsi. All’inizio della carriera ero stato influenzato dai miti del metal classico e nero, come i Venom, i Bathory, i Celtic Frost, i Possessed, ma parlando dei gruppi odierni non saprei chi citare. Diciamo che in generale sono attratto dalla musica umbratile, pesante, difficile e che non trasmette sentimenti positivi”. ‘Grandis Spiritus Diavolos’ e ‘666’ potrebbero essere interpretati come brani satanisti. Forse dovresti spiegare al tuo pubblico che l’oscurità è semplicemente l’altra faccia della luce, e che Lucifero era il più luminoso tra gli angeli di Dio. “Lo stai facendo tu per me. Le cose stanno esattamente così e ciascuno possiede il libero arbitrio per decidere ciò che è bene e ciò che è male”. Quali sono le lezioni più importanti che hai imparato durante tutti questi anni, sia dal punto di vista professionale che musicale? “Che alla fine, con tutto quello che credevo di sapere, in realtà non so niente”. Un ultimo messaggio... “Tenete lo spirito sempre all’erta e vivo”. BARBARA VOLPI

Sakis Tolis – voce, chitarra George Emmanuel – chitarra Vaggelis Karzis – basso Themis Tolis – batteria www.rotting-christ.com www.myspace.com/rottingchristabyss

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L’album ‘Living Mirrors’ esce dalla scena prog metal polacca per portare i Disperse ad un livello ulteriore di popolarità. Vediamo se lo specchio delle brame dirà la verità dando il suo consenso.

l gruppo dei Disperse si formò nel 2007 a Przeworsk, in Polonia. Il cantante e tastierista Rafal Biernacki e il chitarrista Jakub Zytecki si erano incontrati al liceo e avevano militato in altre formazioni prima di formare i Disperse. Gli altri membri oggi sono il bassista Wojtek Famielec e il batterista Maciek Dzik e tutti quanti sono accomunati da un grande amore per i Dream Theater, per il metal e la sperimentazione. Anime libere dunque, in un paese come la Polonia dove il rock possiede ancora l’energia fresca del virgulto. Con questo nuovo album i Disperse sono decisi ad uscire dai confini del loro paese per sfondare anche all’estero. Il loro nuovo disco è intriso di positività e si riferisce alla vita che diventa il riflesso allo specchio della nostra essenza più vera. La loro sostanza trapela da ogni singolo brano. Ne parliamo con Rafal Biernacki. Solitamente il secondo album è più difficile da concepire rispetto al primo perché alcune idee sono già state bruciate ed inoltre si ha paura di fare un passo indietro invece che avanti. Vi siete sentiti sotto pressione e in ansia in questo senso? “Sì e no. Sì perché il processo di lavorazione ci ha richiesto ben tre anni, e più che angosciati o sotto stress ci siamo sentiti frustrati per la dilatazione temporale del tutto. Il fatto è che non eravamo mai soddisfatti del risultato, cercavamo sempre un effetto migliore, e quindi ci abbiamo messo davvero un sacco a finire il disco. No perché, paradossalmente proprio per quest’ultima ragione, eravamo certi che avremmo fatto qualcosa di bello e non avevamo dubbi in proposito”. E’ vero che l’album è stato prodotto dal vostro chitarrista? Perché questa deci-

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Lo Specchio Delle Mie Brame

DISPERSE sione? “E’ vero, l’ha prodotto ma non ha fatto il mixing e il mastering. Il nostro amico Grzegorz Mukanowski ha effettutato questi due ultimi passaggi non appena Jakub gli ha passato le tracce finite”. Esiste un significato specifico in relazione al titolo dell’album ‘Living Mirrors’? “Il titolo non è casuale. Esso è ispirato dalla teoria di Greg Braden che sostiene che la nostra realtà esistenziale effettiva è solamente lo specchio della nostra anima. Abbiamo ritenuto questo concetto vicino al significato delle nostre liriche e per cui abbiamo intitolato il disco ‘Living Mirrors’”. Come si è svolto il processo creativo delle canzoni? Iniziate con un’idea di base, con una riff, e poi le lasciate respirare finché non diventano brani oppure decidete il tutto in modo molto metodico e razionale? “Solitamente partiamo da una riff, da un beat di batteria o da una parte alle tastiere, dopodiché lasciamo che la canzone piano piano prenda forma. Di questo processo noi però restiamo gli artefici ed i registi. Le liriche invece vengono scritte solamente alla fine”. Quando formaste il gruppo avevate un sound specifico di riferimento oppure è un qualcosa che è arrivato strada facendo in modo casuale? “All’inizio avevamo l’obbiettivo di diventare i prossimi Dream Theater (certo, come no, hahahaha!). Chiaramente abbiamo notato molto presto che era impossibile anche solo imitare l’inimitabile arrivando a quel livello. Allora ci siamo limitati a porci lo scopo di essere un gruppo prog, sperimentale e pieno di virtuosismo tecnico”. Oltre ai Dream Theater quali sono state le altre band che vi hanno influenzato? “Innanzitutto Allan Holdswort, i Cynic e Devin Townsend. Poi artisti della scena elettronica come i Trifonic, i Celldweller, i Telephone Tel Aviv, band metal quali i Periphery, i Faceless i Veil Of Maya, gli Animals As Leaders. Inoltre non trascuriamo di ascoltare gruppi pop come i Coldplay, i Toto, i 30 Seconds To Mars. Un’altra nostra passione è John Mayer”. I titoli dei brani ‘Prana’ e ‘AUM’ fanno pensare che voi abbiate dimestichezza con la pratica dello Yoga. E’ vero? “Ci interessiamo di filosofie orientali e quelli in effetti sono due concetti yoga ed induisti. Amiamo molto gli insegnamenti del guru indiano Paramahansa Yogananda e ‘AUM’ e ‘Prana’ sono ispirati ai suoi libri”. Come fate a raggiungere il giusto equilibrio tra libera improvvisazione e virtuosismo tecnico nella vostra musica? “La libera improvvisazione è molto importante per noi, anzi, fondamentale ma mentre suoniamo, e soprattutto quando registriamo, cerchiamo di mantenerci fedeli a una sorta di perimetro definito

perché la complessità della nostra musica potrebbe farci deviare troppo dalla strada. Però, ad esempio, nel brano ‘Butoh’, durante gli show ci affidiamo all’improvvisazione totale”. Com’è la scena musicale in Polonia? “E’ fantastica, febbrile, piena di fermenti! Devi ascoltare i Proghma-C, gli Spiral, i Riverside, i Tides From Nebula, i Decapitated, i Behemoth. Sono gruppi incredibli!”. Anni di comunismo e repressione, in cui sentire un certo tipo di musica estrema era considerata una pratica occulta e fuori dalle legge, dove avere reso il vostro dna di musicisti dell’Est Europa molto forte. “La musica è sempre stato un grande veicolo di liberazione, insieme alla religione cattolica, forse l’unico in grado di potere mantenere sane le coscienze all’interno di un regime totalitario. Era uno strumento che doveva essere utilizzato in gran segreto, proprio come la preghiera. Ora la situazione è diversa e tutte quelle spinte creative che erano state compresse per anni stanno esplodendo con furore, determinazione, anche con violenza. Il bisogno di libertà rende i gruppi dediti alla sperimentazione e alla commistione di generi, mentre l’antico ricordo della repressione scatena la rabbia che rende la sonorità virulenta”. ‘Universal Love’ e ‘Be Afraid Of Nothing’ sono veramente due manifesti di energia positiva. Ci tenete a trasmettere fiducia e speranza con questo album? “Sì. Abbiamo strutturato il disco in modo che potesse trasmettere un generale senso di positività Non l’abbiamo deciso riflettendoci troppo su, ma è uscito così. Anche quei due pezzi sono scaturiti in modo del tutto naturale, senza pensarci troppo”. Quali sono i vostri piani ora? “Promuovere il disco e poi suonare il più possibile fuori dalla Polonia. Sarebbe anche ora che varcassimo definitivamente la soglia dei confini del nostro paese”. BARBARA VOLPI

R a f a∏ B i e r n a c k i – v o c e , t a s t i e r e Jakub ˚ytecki – chitarra Wojtek Famielec – basso Maciek Dzik – batteria www.disperse.pl www.facebook.com/disperseofficial

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COMPLETE FAILURE Il Gospel Della Dura Realta’ oemack non è un uomo che va per il sottile, nel senso che la sua visione del reale non lascia molto spazio alla speranza. Per lui

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ma poi quando sono con la band scatta questa sorta di alchimia che pare catalizzare tutta la furia cieca del mondo. E’ una sorta di messa magica quando siamo insieme. Quella rabbia un po’ di-

parla la musica dei Complete Failure, al quale aggiunge qualche nota esplicativa in questa intervista. Dove prendete tutta la furia che canalizzate nella vostra musica? “Non lo so. E’ una domanda da un milione di dollari. Non è una questione personale., nel senso che io ho una personalità tranquilla

pende dallo stile musicale che amiamo, un po’ da una certa frustrazione di cui non siamo consapevoli a livello razionale ma che la musica tira fuori. Il connubio tra Mark e James in questa accezione è esplosivo. Li stimo tantissimo e posso affermare con certezza che i Complete Failure sarebbero un gruppo mediocre senza di loro”. E’ vero che avete costruito il vostro proprio studio di registrazione? E’ meglio lavorare lì ed ha cambiato il

Esce ‘The Art Gospel Of Aggravated Assault’, il nuovo disco del combo di Pittsburgh per la Season Of Mist, un sincretismo di violenza e liberazione. Perché la musica per i Complete Failure deve possedere il demone della reazione a una realtà che a volte si avvita su se stessa stangolandoti. 74 METAL HAMMER

vostro approccio alla musica? “E’ vero. Il nostro studio si trova nella casa di Mike Rosswogs. Tutto l’equipaggiamento è suo mentre il locale è di proprietà di sua moglie. Lui si sta impegnando a diventare un buon ingegnere del suono, e devo ammettere che sta diventando bravissimo. James è la mente e Mike è il braccio. Insieme fanno il cuore pensante ed ideativo dei Complete Failure”.

Immagino che il vostro processo creativo, vista l’istintività primordiale del vostro suono, sia spontaneo e diretto. Giusto? “Ritengo che un sacco dei nostri detrattori ci accusino proprio di questo. A loro pare inconcepibile il fatto che non ci sono segreti dietro alla nostra musica se non la semplicità e la spontaneità. Noi teniamo i suoni grezzi, primordiali, basilari ed evitiamo ogni tipo di arteficio tecnico, il che spesso ci viene rinfacciato. Quando io, Mike e James ci mettemmo insieme sapevamo che sarebbero stati proprio loro con la batteria, la chitarra e il basso a definire il carattere sonoro della band. La base ritmica per noi è fondamentale ed è da lì che partiamo per sviluppare le canzoni. In più Mike ci mette la sua precisione e James il suo talento come songwriter. E’ accaduto anche per ‘The Art Gospel Of Aggravated Assault’. Credo che es-


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so sia l’album più veloce, punk e anfetaminico che abbiamo mai fatto. Non è grindcore e neppure rispetta le sonorità che vanno di moda. E’ radice, sudore e sangue. Stop”. Puoi spiegare il significato di un titolo del disco tanto singolare? “E’ molto semplice. Non appena ci siamo resi conto di quale sarebbe diventata la personalità sonora del disco, è stato ovvio e naturale coniare quel titolo. Per l’intensità dello sforzo individuale e la coesione del lavoro collettivo sapevamo che era una sorta di gospel, un gospel però impregnato di visione artistica e di sentimento di cooperazione. Era un inno all’umanesimo e alla lealtà, e solamente il fatto di essere vivi e umani in questo pianeta al giorno d’oggi, rendeva quel gospel una celebrazione dell’esistenza qui ed ora. Il suono è l’estrinsecazione di questa consapevolezza, un manifesto di vitalità, energia e forza travalicante le diversità linguistiche e culturali che arriva diritto al cuore”. Che cosa in generale vi fa incazzare e vi scandalizza? “Il 99% delle band che fanno musica oggi. Sono dei ‘fake’, banali, pretenziose, costruite a tavolino mediante operazioni di marketing. Il music-business è diventato omologato e scontato, roba per gente stupida che non ha voglia di mettersi in gioco e di riflettere. La musica è diventata un fenomeno alla moda priva del cuore, della verità e della passione”. Quali sono stati e quali sono i gruppi che potete citare come fonte d’ispirazione? “Il mio primo amore musicale fu un cassetta che mi diede un mio amico di una band chiamata Nunslaughter e che conservo ancora come una reliquia, perché da lì iniziò tutto. Poi mi innamorai dei Tundra e di tutta

la roba che Chris Dodge faceva con la sua etichetta Slap A Ham. Quei gruppi erano davvero buoni. Poi passai ai Bloodlet, agli Integrity e ai Nine Shocks Terror, ma solamente perché quelli erano gli unici gruppi che avevano suonato nella mia città intorno al 1995, quando ero un ragazzino che iniziava ad interessarsi di musica. Forse a pensarci bene i Bloodlet sono stati l’ispirazione sacra”. Quali sono le principali tematiche trattate dai brani del disco? Sembra che attraverso di esse abbiate voluto estrinsecare sentimenti oscuri e di profonda sofferenza. Le canzoni sono personali e dunque i temi che prendono in considerazione sono di natura intimista. ‘Mind Compf’ riguarda la separazione dei miei genitori e, più in generale, del dolore di tutti i bambini che affrontano un divorzio in famiglia. ‘Unlove Overhue’ parla di un gatto che ho avuto che morì di leucemia felina e descrive il suo percorso d’agonia verso la fine. ‘Hero In The Church Hurd’ riguarda la tossicodipendenza da oppiacei. Come vedi parliamo di problematiche molto comuni legate alla quotidianità. Detesto i cantanti che assumono il ruolo di sacerdoti dell’immenso e parlano di problemi cosmici come se loro potessero risolverli. Quella non è la vita reale. Credo che la musica debba estrinsecare la realtà e non estrapolarsi da essa”. Ti spaventa l’idea della morte o la consideri semplicemente l’altro lato della medaglia dell’esistenza? “Non ne ho paura. Non mi importerebbe di morire”. Pensi che esista una possibilità di redenzione per le anime perse facenti parte dell’umanità? “Credo che alla fine in questo periodo storico la maggior parte degli esseri umani viva piuttosto bene. Rispetto ai secoli passati ci sono più libertà e democrazia. Non è una forma di

salvezza assoluta, ma di miglioramento”. Avete condiviso il palco con un sacco di band importanti. Quali di esse hanno lasciato di più il segno? “Mike citerebbe i Today Is The Day, James i Negative Approach, io gli Antogama. Sono innamorato della scena polacca. Lì c’è un fermento incredibile”. Quali ambizioni dovete ancora soddisfare come band? “Raggiungere la felicità essendo in grado contemporaneamente di conservare il tipo di forza emotiva che determina la nostra musica”. Pensi che stili furenti come il grindcore e l’hardcore possano ancora rappresentare un modo per esprimere le tensioni sociali e personali? “Assolutamente sì. E’ per questo che essi sono stati creati, è il motivo per cui continuano ad esistere ed esisteranno anche in futuro. E’ una musica semplice, vera, essenziale e connessa con la sofferenza della vita, che non sparirà domani. La rabbia primaria è un sentimento atavico che riguarda la primordialità degli esseri umani. Riguarda il vivere qui e ora”. BARBARA VOLPI

Joemack – voce James B. Curl – chitarra Mark Bogacki – basso Mike Rosswog – batteria www.comfail.com www.myspace.com/comfail


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8/10 STRATOVARIUS ‘Nemesis’

(earMUSIC/Edel) Gli Stratovarius hanno finalmente trovato la credibilità. E’ brutto metterla giù in questi termini, ma questo è quello che ci sta dicendo il loro percorso artistico. Che, dopo un avvio brillante ed un’esplosione planetaria nel cuore degli anni Novanta, li ha visti insabbiarsi trascinati a fondo dalle bizze del loro leader Timo Tolkki, che aveva tramutato la sua creatura in una sorta di grottesca barzelletta ambulante. Con il definitivo abbandono del virtuoso della sei corde, con alcuni assestamenti a livello di line-up l’ultimo dei quali ha visto l’abbandono del batterista Jorg Michael a favore del giovanissimo Rolf Pilve e, di fatto, con una rinnovata serenità di fondo, la band ha saputo

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riordinare le idee, ripartire con rinnovata vitalità e con una buona dose di modestia inanellando, da quattro anni a questa parte una serie di lavori di crescente qualità. L’ultimo dei quali, questo ‘Nemesis’, appunto, traccia nuove coordinate per la band finlandese, che qui raschia via definitivamente quelle arie neoclassiche che ne avevano caratterizzato i brani più celebri, riduce all’osso i fronzoli e concentra l’attenzione su una rabbia per tanto tempo tenuta sopita. Se figlia delle vicissitudini che hanno segnato il passo del gruppo negli ultimi anni o dei problemi personali del chitarrista Matias Kupiainen, nel giro di pochi anni passato da rincalzo di lusso a main composer nonché produttore della band, non è dato saperlo, quello che è sicuro è che a questo giro Kotipelto e soci confezionano una serie di brani di grande impatto, eccellenti su disco e, c’è da crederci, efficaci anche in chiave live. Con il passare del tempo i ritmi sono andati rallentando e la voce del folletto nordico ha abbandonato i picchi stratosferici di una volta per concentrarsi sull’interpretazione del cantato, mentre il nuovo chitarrista ha portato una ventata di freschezza concre-

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7/10 SAXON ‘Sacrifice’

(UDR-Emi/Audioglobe) L’orologio biologico dei Saxon tende a incepparsi. Alcune volte cincischia, con le lancette che ballonzolano, tartagliano, indecise se riprendere la corsa regolare. Poi, impazzite, compiono una ventina di giri in avanti. Altre volte, invece, lo stop è risolutivo: la freccia si posiziona in modalità “fermo immagine” e indica stoicamente il biennio 1983-1984. Ed è proprio quest’ultima annotazione a coinvolgere la reputazione di ‘Sacrifice’, ventesimo (congratulazioni!) album che pare voler spolverare un biennio felice, reduce da una manciata di stagioni trionfali, eppure macchiato da ‘Crudader’ e ‘Power & The Glory’, grossolanamente commerciali. Se

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non fosse per la voluminosità di fondo, per quella intangibile sensazione di lindore formale che giace invisibile in tutte le produzioni moderne, ‘Sacrifice’ potrebbe confondersi per il successore di ‘Denim And Leather’, il pomo della discordia, e forse il capitolo più variegato del loro repertorio. Lo stesso Biff, frontman della formazione, lo dichiara nell’intervista: basterebbero i primi tre pezzi per comprendere le tre, uniche, affini, complementari e lineari anime della band. ‘Warriors Of The Road’ è un up-tempo cucito su misura per i cori nei concerti, ‘Made In Belfast’ leviga i timpani sensibili del fruitore di hard rock occasionale, la title-track cavalca gli scarti del più feroce metal simil-Judas Priest. Anche pagando lo scotto di farli apparire semplicistici, va ribadito che il resto di questo sforzo in studio segue fedelmente il tracciato qui esposto. Andare dritto al sodo: questo è l’imperativo. Normale poi che ‘Wheels Of Terror’, ‘Standind In A Queue’ e soprattutto ‘Stand Up And Fight’ si erigano sopra dei riff vecchi quanto il cucco (e quindi rimasticati da centinaia di realtà di ieri e di oggi); inevi-

tizzata in una certa modernità compositiva utile a svecchiare il sound e ad attualizzarlo. Ecco quindi nascere pezzi come il primo singolo ‘Unbreakable’ con la sua anima puramente metal smorzata solo dalle tastiere di Johansson, la splendida

getta”, mentre a ‘If The Story Is Over’ spetta il compito di andare a rimpolpare la lista di ballate ruffiane puntualmente inserite dagli Strato per spezzare cuori e smorzare i toni. Toni di un album nel complesso vario, lontano parente, stilisti-

‘Stand My Ground’, con le sue voci filtrate ideale ponte tra quello che è stato e quello che sarà, e soprattutto la folle ‘Halcyon Days’, spirito elettronico imprigionato in un corpo squisitamente metal. Il volto più melodico è incarnato in brani come ‘Dragons’ o ‘Castles In The Sky’ , brani facili facili piacevoli all’ascolto ma dal fastidioso profumo di canzone “usa e

camente parlando, di quei lavori che hanno lanciato la band negli anni Novanta, ideale evoluzione di quanto già mostrato con ‘Polaris’ prima e ‘Elysium’ poi ma soprattutto disco fondamentale per rilanciare definitivamente gli Stratovarius e spalancargli le porte di una seconda giovinezza. Fabio Magliano

tabile che ‘Walking The Steel’ si arruffiani di nascosto gli Stati Uniti (un po’ come fece ‘Dallas 1 PM’, in ricordo dell’assassinio di John F. Kennedy), il più grande mercato metal mainstream del pianeta, osannando il loro desiderio di rinascita

citazioni proprie. Prendere o lasciare. Ma siamo sicuri che voi prenderete, e anche con una certa fretta… poiché sarebbe sciocco scapitare il formato in doppio Cd, con l’enfasi orchestrale dell’evergreen ‘Crusader’, la riedizione aggiornata (ma

post 11 Settembre. Ma questi sono i Saxon… Anzi, questa è la quintessenza del metal ortodosso: una fede che non dimentica il passato, che scopre l’importanza della cultura (l’introduttiva ‘Procession’ giustifica un viaggio a ritroso verso i rituali Maya e indigeni del Sud America), che inciampa nell’hard rock e trabocca di

non troppo) di ‘Just Let Me Rock’ e tre acustici da cielo stellato che anticipa la primavera. Prendete, o voi defender dalla scorza dura. E non fate calcoli sull’orologio: accaparratevelo il primo sabato mattina libero. Sacrificando qualche ora di sonno. Filippo Pagani


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8,5/10 STEVEN WILSON ‘The Raven That Refuses To Sing (And Other Stories)’ (Kscope/Audioglobe) I vinili del progressive rock stanno raggiungendo quotazioni galattiche. Sul formato opposto, le ristampe in Cd perdono il fruscio, potenziano lo spessore del muro che si frappone tra musica e orecchio, e, come se non bastasse, ampliano il senso di piattume sonoro e frequenze schiacciate. L’usura del tempo e i danni involontari arrecati dall’uomo e dalla sua avidità non risparmiano niente e nessuno. Ma c’è un essere superiore, tra noi, un professore occhialuto con il volto di ragazzino, che lentamente e con inguaribile passione sta riconducendo la grandezza del progressive alla giusta dimensione e corretta prospettiva. Questi è Steven Wil-

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son, sensibile e arguto. Dietro il prestanome del “corvo che rifiuta di cantare”, messaggero del soprannaturale, il factotum che tutto il globo artistico invidia all’Inghilterra ha cesellato una sorta di audio-favola nebbiosa, mangiucchiata da illuminanti sfumature di nero, porpora, seppia e argento. Non perdiamoci però in panegirici: Wilson, signori, sembra in stato di grazia. Rivaleggia con il sé stesso che nel 2002, coccolato nell’utero policistico dei Porcupine Tree, formulò quel mostro di ansimante eclettismo denominato ‘In Absentia’, e anche con il sé stesso sperimentale e grezzo che rese intrigante ‘Fear Of A Blank Planet’. Nel corso di 56 minuti stesi su una suite non dichiarata di sei canzoni, Wilson dà sfoggio di tutte le sue competenze fonico-letterarie in materia lisergica, progressiva, jazz e spaziale. Il rock, nella sua accezione fagocitante, è il comun denominatore. Nel finto scompiglio di intuizioni, scintille e immani fuochi creativi, la lente d’ingrandimento osserva la sintassi iper-verbale dei Van Der Graaf Generator (‘The Pin Drop’) e il nichilismo interstellare sminuzzato e trafugato ai Pink Floyd nel loro splendore pre‘The Wall’ (‘Drive Home’). Ci si culla nelle aspirazioni narrative della Alan Parsons Project (la title track), ci si lascia abbagliare dalle armature cenciose, medievali e fiabesche degli Yes (‘The Watchmaker’), ci si lascia ingabbiare dall’intelletto muscolare targato King Crimson (‘The Holy

Drinker’) e si ondeggia nel chiassoso e brillante unguento fusion di rimando a Weather Report e Billy Cobham (‘Luminol’). Tutto questo è possibile, oltre grazie alla materia grigia di Wilson, per me-

Holzman e Minnemann) non vi suggeriranno nulla… Mentre alcuni si limitano a menzionare il ristretto insieme dei propri idoli musicali ed altri scimmiottano impunemente, Steven Wilson, nel suo miglior

rito di due fattori encomiabili. La mano di Alan Parson, Re Mida del quinquennio 1968-1973 nonché profondo conoscitore degli studio recordings di ieri e di oggi (e magari anche di domani); la spiritata performance della backing band, gente messa in ombra, i cui nomi (Beggs, Govan,

prodotto solista, ha imparato a interiorizzare queste nozioni, ad affiancarsi ai suoi idoli, così da emanciparne i traguardi, trovandone di nuovi. Ambizioso e, per ampissimi tratti, semplicemente indimenticabile. Filippo Pagani

dall’inizio alla fine, almeno la prima volta: si scopriranno poi, con pazienza, quali sono i brani che più si avvicinano al gusto personale di ogni fan. Spiccano, comunque, le due parti della title-track, separate fra primo e secondo disco, tratto d’unione dell’album, che riportano le radici al centro della composizione. La se-

sson (già turnista con la band) porta nuova linfa e nuove idee - stando alle dichiarazioni del cantante, David avrebbe scritto ben sette delle venti canzoni sul disco, e gran parte delle innovazioni quindi va attribuita a lui. Lunga vita alle nuove leve, dunque: con questo nuovo album i Soilwork tornano di prepotenza al centro

parazione dal membro fondatore Peter Wichers è stata meno traumatica del previsto, e il nuovo chitarrista David Ander-

della scena svedese, mettendosi in prima fila per il ruolo di ‘nuovi gods of metal’. Paolo Bianco

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8,5/10 SOILWORK ‘The Living Infinite’

(Nuclear Blast/Warner) Un doppio album è un’impresa sempre epica ed un mezzo azzardo. Siamo abituati a questi annunci da band prog o da sontuose rock band con tantissimo da dire, nell’inseguire un concept da raccontarsi attraverso molte canzoni. Non siamo assolutamente abituati, invece, al fatto che una band thrash/death svedese annunci un doppio disco. Anzi, di solito gli album di swedish death metal sono snelli, veloci, poco più di un’ora di brutalità intensa. Nessuno ha mai provato prima la carta delle venti canzoni spalmate su due dischi. Ci sarà un pubblico per ascoltarle tutte di seguito? E soprattutto, ci sarà abbastanza materiale buono per farle ascol-

tare tutte di seguito? I Soilwork, signore e signori, vincono alla grande questa scommessa, ribaltando il tavolo e andandosene con un sorriso. ‘The Living Infinte’ è un lavoro maestoso, che li vede distaccarsi sempre più dalla “scena” swedish death, pur mantenendo riconoscibile il proprio sound in ognuna delle canzoni. Nell’arco degli oltre cento minuti di ascolto si possono trovare violini, blast-beat, arpeggi che flirtano con il progressive metal, sessioni di growl brutale, parti melodiche, un ospite come Justin Sullivan (cantante dei New Model Army), e soprattutto una band che ha osato spingersi oltre i limiti del proprio genere, e ne è uscita vittoriosa. Inutile citare i brani uno per uno, l’ascolto consigliato è

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7/10 HARDCORE SUPERSTAR ‘C’Mon Take On Me’

(Nuclear Blast/Warner) Fasi alternate di un’esistenza trasandata, inzuppata nei miasmi dell’alcool e della vita vissuta sempre oltre il limite di velocità consentito. Gli Hardcore Superstar sono esplosi, si sono rapidamente consumati nel travolgente successo che li ha colti impreparati e dalle proprie ceneri sono stati in grado di risalire la china attraverso la revisione radicale dei propri intenti. L’anno della conversione è stato il 2005, in concomitanza con la pubblicazione in sordina del disco eponimo, un lavoro grondante di energia che rimetteva bene in chiaro la ritrovata abrasività del gruppo scandinavo; di li in avanti l’interessamento del gigante Nuclear Blast ed una maggiore concentrazione hanno con-

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sentito ai quattro l’emissione di tre album in linea con un livello qualitativo piuttosto alto che però mancavano dell’elemento sorpresa. A conti fatti possiamo affermare che gli Hardcore Superstar hanno probabilmente bisogno di essere spronati per tirare fuori il meglio e che la minaccia di essere catalogati come una band comune ha permesso loro di estrarre nuovamente il coniglio dal cilindro: l’effetto generato dall’ascolto di ‘C’Mon Take On Me’ è notevole, pare quasi un disco di debutto per la sua freschezza, un lavoro composto da musicisti indiavolati che con malizia si trasformano in cinici calcolatori per materializzare musica divertente, leggera e foriera di ottime sensazioni. Moltissimo si deve alla scelta di una produzione più nitida ed al songwriting meno lineare e prevedibile che nell’immediato passato. Le coordinate generali del sound non sono cambiate in modo radicale, sono leggermente straniate rispetto a quanto ci siamo abituati a ricevere dalla band di Goteborg; per raggiungere il risultato segnaliamo l’innesto del-

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9/10 DARKTHRONE ‘The Underground Resistance’

(Peaceville/Audioglobe) Il luogo comune secondo il quale la vera arte deve provocare, dividere le opinioni e incendiare dibattiti è vecchio, ma spesso azzeccato. Un artista deve essere libero di fare quel che vuole, e solo i preconcetti di chi lo giudica possono far pendere una recensione verso il positivo o il negativo. Sia chiaro fin da ora: The Underground Resistance è un ottimo album, a tratti superlativo. Ed è un album sostanzialmente power metal. E’ questo quel che ci si aspettava dai Darkthrone? Per molti no; sono ancora in tanti a rimpiangere le atmosfere di ‘A Blaze In The Northern Sky’, vera bomba black metal targata 1992, ma chi ancora crede che i Dar-

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kthrone suonino ancora quel genere o è in malafede, o è poco aggiornato sulle loro più recenti uscite. Con gli ultimi album i due artisti che prendono il nome di Fenriz e Nocturno Culto hanno dimostrato di incarnare lo spirito black (ovvero anti-commerciale ai limiti dell’anarchia), senza per questo suonare black. Si è criticata (giustamente, diremmo) la deriva punk-crust di ‘The Cult Is Alive’, e quasi ci si è riappacificati con il punk mischiato al power metal di ‘Dark Thrones And Black Flags’, disco in cui si notava già una nuova direzione musicale, meno punk e più metallara. Eccoci quindi giunti al naturale sviluppo di quel sound: per guardare al futuro, i Darkthrone guardano agli anni ottanta, attingendo in pieno dalla NWOBHM. I sei brani presenti su The Underground Resistance sono suddivisi equamente: tre sono scritti e cantati da Fenriz, tre da Nocturno. Le differenze si sentono, ma l’armonia è totale. I pezzi di quest’ultimo sono quelli più aggressivi e al contempo infusi di atmosfere doom, con l’apice toccato da ‘Lesser Men’, un incrocio fra Motorhead e High On Fire, ma sono i pezzi di Fenriz a stupire di più. Non c’è modo migliore di spiegare e recensire un brano, se non quello di lasciarlo alle parole del suo autore: ‘Leave No Cross Unturned’ è una canzone ispirata alla NWOBHM del 1984, con qualche tocco di thrash nei versi e nel ritornello, mentre

l’elemento acustico – più sfruttato che in passato – e l’appeal americano nel taglio della produzione, taglio evidente anche nella scelta di linee vocali più mansuete e variegate. Tre quarti d’ora di musica nei quali non rileviamo evidenti cedimenti ove si rileggono le virtù degli Hardcore

gruppo, che non rinnega se stesso, ma si apre con dovizia di maniera ad accorpare sonorità più varie e convincenti, più gestibili nel mercato globale. Il party selvaggio deve finire e ‘C’Mon Take On Me’ si tramuta in un lavoro più serioso rispetto ai suoi immediati predecessori, quasi

Superstar con in più l’aggiunta di uno sfruttamento più marcato ed incisivo delle chitarre firmate da Vic Zino, autentico valore aggiunto di brani zuccherosi quanto basta per rimanervi incollati nella memoria pressoché immediatamente. La forza sta nel divertimento ed unire la frenesia del rock’n’roll alla sorpresa pare avere emancipato le capacità creative del

gli HS stiano tentando di mettere metri tra la loro reputazione caciarona ed il futuro che li attende oltre la siepe. Chi li ha amati continuerà a farlo, chi non li conosce apra la porta riconoscendo il valore oggettivo di questo album, un’opera di rinnovamento, di impegno diretto per rilanciare un marchio ormai consolidato. Andrea Vignati

la parte centrale si riferisce al sound dei Celtic Frost nel 1984/85 con qualche riff heavy metal aggiunto per gradire. L’ultima parte della canzone è ispirata dai

che la passione del batterista/cantante risieda al momento proprio nell’heavy metal di metà anni ottanta. Quindi, se vi piacciono Helloween o Gamma Ray, que-

Pentagram dell’epoca 1987, a loro volta ispirati dai primissimi Black Sabbath degli anni Settanta”. Con una descrizione così precisa, ai limiti del feticismo, è chiaro

sto disco è per voi: incredibile ma vero, porta comunque il nome dei Darkthrone, i nuovo paladini del vero metal! Paolo Bianco


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7,5/10 HYPOCRISY ‘End Of Disclosure’

(Nuclear Blast/Warner) Gli Hypocrisy sono sempre di più un riempitivo nella giornata tipo dell’oberato Peter Tägtren, un impegno laterale che però gli sta conferendo notevoli riscontri, sia dalla critica che dai numerosi fan sparsi per il mondo. Non a caso il trio svedese ha appena concluso un mini tour in Giappone e si prepara per invadere l’Europa nella prossima primavera forte della pubblicazione del freschissimo ‘End Of Disclosure’, album che continua il percorso musicale intrapreso col precedente ‘A Taste Of Extreme Divinity’ del 2009. Le coordinate death metal del disco sono altresì più evidenti, col risultato che i nuovi brani emanano immediatamente un sentore “estremo” ancora più marcato.

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Fattore chiave la scelta di accelerare i tempi ed aumentare il tasso di brutalità in fase di songwriting, col risultato che le nove composizioni finite nel CD appaiono molto omogenee tra loro. L’impatto è devastante, al pari della completa riscoperta della venatura swedish death metal cara agli albori del gruppo; con questo gli Hypocrisy non hanno voltato le spalle all’evoluzione della propria mostruosità, hanno preferito fare un passo indietro per ottenerne ben due in avanti, ma vogliamo spiegare meglio il concetto: generare un lavoro più crudo avrebbe significato chiudere in modo evidente gli sbocchi tecnologici di un sound che ormai da circa dieci anni a questa parte è in costante evoluzione – diciamo da ‘The Arrival’ del 2004 in poi – mentre, abbandonare completamente l’elemento primordiale sarebbe coinciso con un suicidio delle proprie origini, peccato capitale pagabile a caro prezzo in un settore, quello estremo, molto permaloso per natura. Allora cosa si è inventato Mr. Tägtren? Ha esteso la violenza nella direzione naturale più calzante per gli Hypocrisy, quella della contaminazione. Emergono quindi frequenti deviazioni black metal, sparute fughe nell’ambiente sintetico dell’elettronica ed imperanti richiami all’up tempo scandinavo a ricordarci l’essenziale: ci troviamo davanti ad un monumento del death europeo. ‘End Of Disclosure’ riesce ad essere nello stesso frangente il disco più me-

lodico e violento partorito dal gruppo, pensiero plasmato attraverso l’excursus di composizioni che non dimenticano di

seguire il metronomo a qualsiasi velocità lo si imposti. L’effetto è immediato, la produzione assordante, il pathos emerge

essere sontuose nella regalità delle atmosfere, ma che accettano di buon grado di tornare ad essere “terrene” e scivolare sopra al fango della devastazione per insinuarsi nelle intercapedini del vostro sistema difensivo. Ottimo il “tiro”, dicevamo, risultato di riff sempre puntualissimi, sorretti in modo esemplare da una band compatta come l’acciaio, impeccabile nel

proprio nella figura di Peter, autore ed attore principale di una narrazione avvincente, che ci trasporta in un luogo non ben definito tra la terra e lo spazio, teatro di furiosi combattimenti nel quale la pietà non trova posto. Ottimi di nuovo gli Hypocrisy, esemplari anche con un oncia di originalità in meno del solito. Andrea Vignati

biamo già capito, il potere è nell’incedere ciclico ed ipnotico dei brani, carichi di una rabbia irrazionale che sbocca sempre, per gratitudine, in eccezionali passaggi armonici carichi di melodia. Furore e speranza, freddezza cinica ed un’architettura che si può permettere praticamente ogni cosa seguendo uno schema dalla lucidità inumana; i Rotting Christ usano il cervello per plasmare un inferno

chiaro il concetto e lo gonfia infilandoci ogni elemento possibile ed immaginabile, dall’armonia dissonante di chitarra alle cornamuse, dal pianoforte al bel canto baritonale. Come dinnanzi ad un quadro impressionista l’occhio – in questo caso l’orecchio – è rapito dall’ambientazione ed inizia a vagare nel subconscio, prodigo di visioni, anche ‘KATA TON DAIMONA EAYTOY’ utilizza la chiave dell’inganno

nuovo, dove la liturgia invertita, la litania ed il sacrificio, hanno un sapore nuovo ed originale che si mischia ai nostri bisogni primari. La melodia, lo stare bene ascoltando, è un dovere che pretendiamo da un CD: ebbene, il duo di Atene, ha ben

per occultare il proprio reale potere ed è proprio questo infinito avvicinamento alla fonte che rende il disco unico, un lavoro destinato a rimanere con voi per molto, molto tempo. Andrea Vignati

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8/10 ROTTING CHRIST ‘KATA TON DAIMONA EAYTOY’

(Season Of Mist/Audioglobe) Il male oscuro è cibernetico, privo di alcuna umanità e si dipana silenzioso riuscendo a renderci dipendenti totali della sua essenza. L’uomo riconosce il male, lo percepisce come il gatto con le vibrisse, ma non lo riesce ad evitare, anzi, lo avvicina affascinato, lo coltiva in se stesso e lo espone al mondo esterno quasi fosse una virtù. Il male è in ognuno di noi, è cieco, sordo e nero, ma possiede un timbro distintivo. I Rotting Christ riescono nell’impresa più difficile, ossia dare una trasposizione moderna al suono del male, un lettura originale ed inappuntabile di sensazioni veramente uniche. Ci informano che il titolo ‘KATA TON DAIMONA EAY-

TOY’ significa fai ciò che vuoi, frase che riassume il pensiero di un certo Aleister Crowley e quanto mai doverosa se affiancata al risultato, sbalorditivo, di questo nuovo lavoro degli ellenici. Fare ciò che si vuole senza rischiare di snaturare la propria dimensione artistica, una tentazione nella quale cadono in molti, falciati poi da prove incolore o troppo cervellotiche per essere trasferite al pubblico; i Rotting Christ, invece, a loro modo semplificano il messaggio lasciando che siano i suoni a svolgere il lavoro duro. L’impatto con la nuova musica è disturbante, non si capisce bene da dove provenga, se da un’altra galassia, oppure dal cuore freddo di un inferno siderale; una nenia di un rituale che monta lento e sontuoso, che raggiunge l’apice per poi esondare a piena potenza nel corpo del disco. Così si apre l’album, così appare ‘Xibalba’, urlo di razionale potenza distaccata che recupera il clima asettico di un certo post industrial per infarcirlo di miasmi black metal. Irregolarità ritmica, il vagito di un infante in secondo piano e la sferzante devastazione di blast beats violentati dal latrato di Sakis Tolis. Lo ab-

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RECENSIONI

6,5/10

THE BLACK ‘Refugium Peccatorum’

7,5/10 VERA CRASH ‘My Brother The Godehead’

(Black Widow)

(Go Down Records)

(Season Of Mist/Audioglobe)

Il Cd non se lo fila più nessuno. Dicono. Eppure c’è e ci sarà sempre la ristampa di un feticcio, di una reliquia che necessita la lettura in fibre ottiche. ‘Refugium Peccatorum’, terzo album in chiave dark/doom esoterica dei The Black di Mario Di Donato, è una di quelle opere di culto che fino a ieri erano iscritte al circuito dei collezionisti, invasati dall’odore secolare del cartone che avvolgeva amorevolmente il vinile. Mario, stimato musicista di agonie e speranze celesti e notevole artista in ambito figurativo, ha reso ancor più succulento un album di per sé singolare, per timbro e sensibilità. Alle spigolature classicamente heavy e di chiara ispirazione NWOBHM, alternate a improvvisazioni sulfurei e a intermezzi strumentali da pelle d’oca (solennità e occultismo procedono a braccetto, sappiatelo), si aggregano tre tracce bonus: la galoppata simil-Death SS di ‘Lux Veritas Est’, una ‘Obscura Nocte’ soffiata sul sepolcro degli Angel Witch e una personalissima cover di un atipico – poiché “veloce” – brano dei Saint Vitus, declamato con testo in latino. L’apice autentico, Di Donato, lo raggiungerà in altre prove in studio, non è un mistero. Ma ‘Refugium Peccatorum’, con le sue sporadiche imprecisioni, il suo mellifluo e arcano incedere, si ritaglia un posto d’onore nell’Olimpo del metal tricolore (e non solo) di marca underground. Filippo Pagani

Non chiamateli semplicemente stoner rock o doom. I milanesi Vera Crash sono molto di più e lo si sente in questo eccellente lavoro registrato, missato e masterizzato da Niklas Kallgren dei Truckfighters e che vede la partecipazione di Oscar Johansson dei Witchcraft. L’elaborazione sonora passa dunque da una matrice nord-europea con venature elettroniche, che personalmente mi fa pensare ai migliori Millionare. Eppure i suoni possono essere heavy e dilatati (‘Lucy, Lucifer’), le basi ritmiche incalzanti ed anfetaminiche (‘Kali Maa’), la voce spettrale come nel migliore black metal (‘My Brother The Godhead’), tanto per delineare le tematiche pregne di esoterismo oscuro delle canzoni, basate sull’esplorazione delle teorie cospirazionistiche. La bufera smuove i relitti emotivi intrappolati nel fango karmico in ‘A Blowjob From YaldaBaoth’, esplora i limiti del collasso in ‘Obey The Void’ e spinge al cardiopalmo in ‘Remote Killing’. La via d’uscita dalla dannazione pare a portata di mano, ma sfugge sempre all’ultimo momento, come se la gravità avesse una forza d’attrazione troppo potente per consentire l’ascesi. Lucifero è l’angelo caduto per sempre, i Vera Crash invece sanno elevare gli inferi condensandoli in un disco davvero intenso. Barbara Volpi

I polacchi incarnano per l’Europa (musicale) ciò che i giapponesi incarnano agli occhi del resto del mondo (sempre musicale). Pur non liberando niente di ignoto, quando si mettono d’impegno sanno come far penzolare le mascelle… Rientrano nella categoria anche i Disperse, quintetto dai nomi per noi impronunciabili, ma le cui avventure sonore parlano un linguaggio universale e inequivocabile, sospeso tra i Cynic e i misconosciuti (seppur ineguagliabili) Spiral Architect. La matura confidenza con i propri strumenti – vi sono sezioni strumentali che non hanno nulla da invidiare alle divagazioni più contorte e impestate dei “soliti” Dream Theater – viene bilanciata da un’altrettanto elevata dimestichezza con il songwriting, in grado di articolarsi in tracce da emicrania mistica come ‘Profane The Ground’ e ‘Unbroken Shiver’, ricolme di tecnica e gusto per il crossover (presenti inserti elettronici), ma le cui idee forse stroppiano. ‘Living Mirrors’ è un signor album, di quelli che necessitano di decine, se non centinaia di ascolti per coglierne le molteplici gradazioni di intensità. Delle venti intuizioni comprese in ogni pezzo, però, sarebbe stato preferibile eliminarne otto e sviluppare meglio le restanti dodici… Un capolavoro mancato. Sarà per la prossima. Filippo Pagani

7/10

DISPERSE ‘Living Mirrors’

AVANTASIA

‘The Mystery Of Time’

(Nuclear Blast/Warner) Ora che la spossante quanto complessa tripletta definita ‘The Wicked Trilogy’ è archiviata, il timoniere Tobias Sammet si sarà tolto un gran peso dallo stomaco. Era lecito pensarlo, giusto? Invece no: a meno che non si occupi dei “normali” Edguy, la sua mente tende sempre a partorire concept album articolati, inseriti in novelle di lungo respiro e dal forte sapore fantasy. Le metal-opere sottoscritte al mega-progetto Avantasia si arricchi7/10 scono sempre di gregari il cui peso specifico innalza il valore intrinseco degli album, che per fortuna del simpatico Sammet sostano comunque su vette altisonanti, lungi dal deludere. Anche per ‘The Mystery Of Time’ si profila il solito iter da elogio a pieno inchiostro: sia per il volume artistico dei tanti ospiti, specialmente dietro i microfoni (Joe Lynn Turner e Biff Byford i più presenti), sia per la qualità connaturata nei brani, non eccelsi come in passato ma squadernanti il rifframa abitudinario del power metal epico, che gronda leggenda, che non si esime da alcune puntatine “happy” e che pesca dettagli tali da ampliarne la gamma sonora complessiva. Da segnalare l’atipico class rock da classifica di ‘Sleepwalking’, schiacciato da arie magiche e giullaresche. Ancora un lavoro degno di nota. Bravo Tobias! Filippo Pagani

80 METAL HAMMER

6,5/10

8/10 BUCKCHERRY ‘Confessions’

NEAERA ‘Ours Is The Storm’

(Seven Eleven Music/EMI)

(Metal Blade/Sony)

Rockstar di altissimo livello in America, qui da noi i Buckcherry sono misteriosamente poco seguiti - al punto che non vediamo Joshua Todd e soci in concerto da oltre un decennio. Eppure continuano a sfornare dischi di gran qualità, vero rock and roll nella tipica tradizione americana, pieno di suggestioni erotiche, di mosse ammiccanti, testi espliciti e riff taglienti. ‘Confessions’ si inserisce perfettamente nel loro canone discografico, un concept-album incentrato sui peccati capitali, a cui sono dedicate sette delle tredici canzoni che ci vengono presentate. Chi si aspetta cori memorabili si può affidare all’Ira (Wrath, il pezzo più aggressivo) o all’Ingordigia (Gluttony, primo singolo), ma c’è ampio spazio per ballad mai troppo smielate e sempre attente a creare ritornelli memorabili (Dreamin’ Of You). Se ‘Lit Up’, nel 1999, fece esplodere i Buckcherry sulla scena mondiale con un carico di irruenza giovanile, ‘Confessions’ ce li mostra più maturi, in pieno possesso delle loro facoltà di musicisti. Il mix di rock, pezzi lenti, accenni swing, voce roca e ‘vissuta’ non può non far venire in mente un’altra band americana: gli Aerosmith. E, sinceramente, tutto su questo disco contiene i semi di un nuovo album destinato a diventare un classico del rock. Paolo Bianco

La forza della tempesta in musica, velleità notevole messa allo sbaraglio dai tedeschi Neaera, attivissimi negli ultimi anni per dare forma ad un sound che rimanda continuamente ai lidi del death melodico del nord Europa. ‘Our Is The Storm’ suona come un augurio più che una minaccia per il mondo, visto che per quanto l’impianto sonoro dei cinque sia ineccepibile, rileviamo pochi spunti particolari di entusiasmo in questo lavoro. La formalità taglia le gambe, gli schemi mentali appaiono sin troppo ridondanti per essere di qualche effetto e ciò che sbalordisce è proprio il fatto che quando il gruppo si lascia andare è capace di estrarre momenti musicali molto intensi e convincenti. Purtroppo la buona predisposizione alla melodia non è sufficiente per alleggerire la zavorra di un sound iper prodotto e gonfiato dai venti freddi provenienti da nord; l’inerzia è tanta, difficile da smaltire, ma i Neaera hanno tutte le carte in regola per riuscire, prima o poi, a definire in modo chiaro la loro fisionomia artistica. Svolteranno verso la melodia (probabile), oppure riusciranno ad amalgamare meglio il retaggio storico di un sound asciugato da ogni sorpresa? Chi lo sa, per ora li consideriamo una promessa molto valida, loro come tanti altri, competenti ma non esemplari, persi nel limbo della generalità… peccato. Andrea Vignati

BLACKMORE’S NIGHT ‘The Beginning’ (Minstrel Hall Music/Audioglobe) I Blackmore’s Night, è inutile negarlo, sono un gruppo per afecionados, e per rendersene conto è sufficiente ammirare i fan in fogge medievali che popolano i loro show. Se si eccettuano gli inguaribili nostalgici di Purple e Blackmore, sono veri e propri maniaci del folk rock quelli che da sempre seguono la bella Candice e la sua pittoresca ciurma, ed è proprio a queste persone che viene oggi rivolto questo splendido ‘The 8/10 Beginning’. Quattro dischi contenuti in un elegante cofanetto in velluto viola (ma guarda un po’!) equamente divisi tra due CD contenenti i primi due seminali album della band, ‘Shadow of The Moon’ e ‘Under A Violet Moon’ e due DVD con riprese fatte nel corso dei primi tour del gruppo, ‘Live In Germany 1997-1998’ e ‘Under A Violet Moon - Castle Tour 2000’ ospitati in location sempre suggestive ed affascinanti. Il tutto, ovviamente, corredato con materiale inedito, filmati da backstage, interviste ed estratti di vita on the road. Un lavoro ricchissimo, carico di fascino, utile per ripercorrere gli albori di una band capace a modo suo di fare la storia del folk rock moderno ma, soprattutto, per chi è affamato collezionista di cimeli griffati ‘Blackmore’s Night’. Fabio Magliano


MH 02-2013 rece

6-03-2013

12:01

Pagina 81

TSJUDER

‘Desert Northern Hell’

(Season Of Mist/Audioglobe) Si rabbrividisce di fronte alla superficialità di certa stampa italiota. Fortunatamente non è contagiosa, altrimenti anche noi e chissà quanti altri colleghi continueremmo a incensare ciecamente i soliti, arcinoti esponenti del black metal, con relativi titoli, ormai divenuti classici. Eccolo qua, invece, un altro classico! L’unica colpa di ‘Desert Northern Hell’ sta nell’essere nato troppo tardi. Forse perché anche gli Tsjuder si sono fatti notare con qualche ritardo (‘Kill For Satan’, 2000), dopo sei anni a girovagare nell’anonimato. Fosse uscito allo scoperto vent’anni fa (non sono pochi, vero), ai Satyricon di ‘Nemesis Divina’ e ai Marduk di ‘Panzer Division’ dedicheremmo ora qualche compassionevole articoletto. Gonfiato quanto vi pare, ma sempre compassionevole rimane. In passato abbiamo esaltato la proposta del terzetto di Oslo, tra i pochi che, senza snaturarlo di un grammo, elevano il black a materia adattabile anche a chi il black lo detesta. Oggi replichiamo, aggiungendo benzina al fuoco. Qui c’è furia matura, controllata con una maestria ingorda e una produzione che non lascia prigionieri. Qui ci sono pure alcuni assoli, assassini, ferali, scorticanti. Qui c’è dinamismo, zero fossilizzazione. Qui non ci sono compromessi, e una cover dei Bathory (‘Sacrifice’) da pelle d’oca. Una mazzata intelligente. Nessuno mai come gli Tsjuder. Immensi! Filippo Pagani

8/10

SIX FEET UNDER ‘Unborn’

(Metal Blade/Sony) Meglio un’esistenza da immortali, oppure rimanere nel limbo che separa il concepimento dalla nascita? Se lo scorso anno la prima delle due opzioni suonava gradevole ai Six Feet Under grazie ad ‘Undead’ è con ‘Unborn’ che tutta la nostra benevolenza viene riconosciuta al gruppo. Il salto in avanti generato dalla rivoluzione alla line up dopo il 2010 raccoglie finalmente tutte le conferme del caso ed, alleluia, il gruppo di Chris Barnes riesce a dimostrarsi all’altezza della situazione come non accadeva da almeno quindici anni a questa parte. La formula death thrash è funzionale nel momento in cui gli elementi che la producono, i musicisti, sono in grado di trasferirvi la giusta energia; il resto rimane opera gutturale di una delle voci più evocative del genere, quella che definì a suo tempo il marchio di fabbrica Cannibal Corpse e che ancora oggi appare adeguata ai registri semi oscuri nei quali opera. I Six Feet Under sono una band infarcita di clichè ma questo non lo scopriamo certo ora, quello che rinvigorisce è la sostanza muscolosa ed aggressiva di un disco semplice e diretto, privo di fronzoli ed orpelli che punta al vigore acustico per farsi rispettare. Non vi stiamo raccontando di un capolavoro, ma di un CD che vi conferirà vibrazioni vigorose, che rilancia quelle idee, spesso bislacche, firmate da uno dei personaggi cardine della storia death degli ultimi 25 anni. Andrea Vignati

7,5/10

7,5/10

6/10

8/10

7/10

6/10

AMPLIFIER ‘Echo Street’

SITUS MAGUS ‘Le Grand Oeuvre’

OSSELICO ‘Osselico’

SPEED STROKE ‘Speed Stroke’

PSYCHOPUNCH ‘Smakk Valley’

(KScope/Audioglobe)

(Avantgarde Music/Audioglobe)

(Andromeda Relix/GTMusic)

(Buil2Kill/Audioglobe)

(SPV/Audioglobe)

Immergersi in questo flusso di coscienza che si abbevera alla fontana dello space rock, denso di prog lieve e ramoscelli psichedelici sottili, è un’esperienza che causa assuefazione. Il precedente ‘The Octopus’, con le sue due ore di entropia universale, facilitava la perdita della bussola nell’ascoltatore più svampito. In ‘Echo Street’ disperdersi è meno facile, ma una preparazione a monte è comunque consigliata. Sel Balamir e i suoi Amplifier promuovo infatti l’assenza di gravità, in quanto diviene arduo restare coi piedi per terra mentre tutt’intorno è un fluttuare di note salvifiche, che irradiano nutrimento nelle cellule cerebrali preposte alla fantasia. Se vi siete sempre domandati che razza di incrocio sarebbe nato da un crash tra i sempiterni Pink Floyd, Morrissey, i Cousteau in guisa cupa e i Tool, significa che dovete piazzare nello stereo ‘Extra Vehicular’ e ‘Paris In The Spring’; se pensate che gli Oceansize siano il non-plus-ultra dello sballamento disarmonico avete anche ragione, ma va detto che coabitano con la title-track; se i God Is An Astronaut funzionano a dovere, non vi bruciano il cervello e vi mandano in trip, allora è bene che condividiate il piacere con la conclusiva ‘Mary Rose’. Quinto album per i corsari di Manchester. Quinto capitolo superlativo! Filippo Pagani

Inutile girarci intorno: possiamo anche continuare a rendere omaggio agli “scandinavi che furono” e rimanere romanticamente legati al passato, ma ormai e da qualche anno a questa parte il black metal è una questione Francese. Stop. Situs Magus è una giovanissima debut band lanciata da Avantgarde Music sul mercato con questo esordio ‘La Grand Oeuvre’ che, indubbiamente, per il momento non mette in luce elementi di clamorosa novità ed originalità. La nomenclatura è nota ed appare evidente di brano in brano: Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Darkspace sono i riferimenti principali. La cosa che invece li rende assolutamente speciali è come i Situs Magus riescano a far loro le formule sopra menzionate senza appesantirle e a riproporle con una freschezza ed immediatezza sensazionale, risparmiandoci quindi i difetti di tutti i “lor signori” sopra menzionati: non sono troppo intricati, non giocano a fare gli strani o ermetici a tutti i costi ed hanno un sound brillante pur essendo molto oscuri! L’album è un concept senza alcun secondo di silenzio tra i quattro movimenti (più intro) che lo costituiscono Riccardo Centodon

Dalla contrazione di ‘ossario’ e ‘psichedelico’, due termini con poco in comune, nasce il moniker Osselico, identificativo di un quartetto milanese abbonato all’hard rock di stampo esclusivamente vintage. Il pericolo, nel dedicarsi a sonorità arci-battute (da Deep Purple, primi Whitesnake e Uriah Heep, veri anfitrioni della band) e per giunta con 40 primavere sul groppone, sta proprio nel non sapersi rinnovare. Le trame di ‘Misticamente Accade’, ‘Chi Sei?’ e ‘18/19 Y.O.’ scorrono sopra una tela scolastica, specialmente nei riff di chitarra, rischiarati però da un’esecuzione egregia, talora sporca, che ben si allinea all’affine utilizzo dell’Hammond. Un altro pericolo è il cantato italiano, che in casi di modestia timbrica (Fabio Brambilla, anche bassista, non brilla a pieno voltaggio) tende a conferire un senso di “amatorialità” così morboso da non staccarsi di dosso tanto facilmente. Il deja-vù è l’ospite fisso di questo platter, inferiore alla mezz’ora di durata. Ciò non preclude che la tellurica ‘Neve Al Sole’, graffiata da ottimi assoli, e il maggiormente articolato pop/rock post-Sanremese di ‘Io e Lei’ possano togliere soddisfazioni ai conservatori che vivono incatenati al passato… Filippo Pagani

Nati da una costola degli emiliani Johny Burning, band capace cinque anni or sono di dare alla luce un esplosivo album glam, gli Speed Stroke debuttano oggi con un album che fissa anche su disco quella carica e quell’energia che da tempo ne sta marchiando a fuoco le esibizioni live. Nonostante l’artwork del disco tenda a traviare l’ascoltatore rimandando alla mente contenuti decisamente più splatter, quello che gli Speed Stroke racchiudono nei dodici brani di questo lavoro è un glam rock sanguigno ed irriverente, pregno di energia, di sudore, di quella furia selvaggia che solo il sano sleaze rock è in grado di trasmettere all’ascoltatore. Attorno a vocals taglienti e di sicuro impatto, si muove una band rodata, abile nel dare alla luce pezzi veloci, sfrontati ma allo stesso tempo carichi di quella melodia indispensabile per rimanere in mente sin dal primo ascolto. Tra i pezzi da novanta da citare senza dubbio la già nota ‘Age Of Rock’n’Roll’, una botta di adrenalina capace di sradicarti dalla sedia e di farti sbattere come un ossesso e la sofferta ‘Shine’ carica di umori, di emozioni, di sensazioni. Un ottimo debutto che va a rinverdire una scena rock tricolore sempre più prolifica. Marcello Lorenteggio

Dopo nove album regolari, un imprecisato numero di Ep, singoli, split album e home-video, questi svedesi cresciuti ad eccessive razioni giornaliere di Exploited, Adolescents e Ramones non hanno perso un milligrammo della loro predilezione alla caciara. Sin dall’artwork, rammentante i fumetti sconci che i nostri padri leggevano dal barbiere sotto casa, è palese lo spirito scanzonato che anima ‘Smakk Valley’: tante vocali allungate à la Offspring, sopra un tappeto punk, rock’n’roll e power pop che rivaleggia – in termini di goduria ormonale – ad armi pari con i New York Dolls. A dispetto della relativa immobilità sonora che penalizza il genere, da sempre estraneo alla sperimentazione e alle aperture verso l’esterno, compaiono alcune sorprese: segnaliamo ‘Sitting By The Railroad’, allentata da un refrain Aor, e l’inusuale ‘Emelie’, ballata atipica costruita attorno strutture country. Lo spirito e la tradizione rivivono felici negli Psychopunch; prima di loro, erano stati spolverati con i medesimi esiti dai vari Johnny Thunders, Cheap Trick, Generation X e Clash. La colonna sonora per la vostra trasferta domenicale allo stadio di calcio. Per l’allenamento di panca piana in palestra. Oppure, se preferite, il sottofondo al party con i vecchi compagni di scuola. Filippo Pagani

R E C E N S I O N I


MH 02-2013 rece

7-03-2013

22:32

Pagina 82

R E C E N S I DROPKICK O NMURPHYS I

‘Signed And Sealed In Blood’ (Born & Bred/Universal)

Tornano i padrini dell’irish-punk, e appena si avvia il nuovo disco, le cose non potrebbero essere più esplicite, grazie alla fragorosa apertura dell’album intitolata appunto ‘The Boys Are Back’. Per chi li segue da tempo, e da tempo si chiedeva se l’opener ‘For Boston’ di ‘Sing Loud, Sing Proud’ potesse mai trovare una rivale per 6/10 aprire dischi e concerti, ora la risposta è finalmente affermativa. ‘The Boys Are Back’ è un brano fantastico, pieno di energia, da cantare fin dal primo ascolto, aggressivo e con il marchio di fabbrica tipico dei Murphys. Dopo questa botta di adrenalina, però, l’esaltazione si ammoscia ben presto. E’ buona la ‘Prisoner’s Song’ (con la partecipazione dei trendyssimi Mumford & Sons a suonare gli strumenti folk), ma poco dopo il disco prende una svolta troppo folk e poco punk. I ritmi calano, i ritornelli si fanno poco interessanti, e non ci si immagina a cantare a squarciagola pezzi come ‘Jimmy Collins’ Wake’, buona piuttosto per una serata ubriachi in un pub di Dublino. Si torna sulla retta via verso la fine della tracklist (“Out Of Our Heads” è un altro pezzo in cui si mischiano alla perfezione velocità, tradizione e aggressività), ma è troppo poco e troppo tardi. Fa piacere che i ragazzi siano tornati, ma dovranno impegnarsi un po’ di più, per far rimanere a lungo il disco nelle playlist. Paolo Bianco VOICES ‘From The Human Forest Create A Fuge Of Imaginary Rain’ (Candlelight/Audioglobe)

Da una ingombrante costola dei disciolti Akercocke assume autonomia il progetto Voices, che vede Peter Benjamin, Sam Loynes e David Gray (quest’ultimo anche alle dipendenze dei My Dying Bride) creare un album dannatamente vicino – per non dire 7,5/10 sovrapposto – al sound della band madre. I contenuti di questo debutto dal titolo di ardua memorizzazione affondano il colpo in quel territorio ibrido situato sul confine tra death cavernoso e black metal di discendenza Enslaved; una striscia di terreno apolide, soggetta a galoppate furenti (blast-beat e up tempo non mancano), tempestata da un clima gotico, progressivo e, di conseguenza, anche atmosferico. Insomma: tanta abbondanza, gemellare a ‘Words That Go Unspoken, Deeds That Go Undone’, a detta di molti il capitolo definitivo degli Akercocke, e superiore a quella spericolata mezza confusione che risponde al nome di ‘Antichrist’, testamento della formazione britannica. A questa abbondanza si aggiunge un spiccata venatura alternative, un poco cacofonica (‘Sexual Isolation’), che contribuisce a donare quel quid caotico ma intelligente all’intero platter (ascoltatevi ‘Everything You Believe Is Wrong’), capace di mesmerizzare anche i detrattori del tipico vocione a metà via tra scream e growl. Akercocke…chi eravate? Filippo Pagani

6,5/10

SIDHE ‘She Is A Witch’

(Memorial Records)

(Graviton/Audioglobe)

(Autoprodotto/Black Widow)

Futuro. Passato. Presente. I tre tempi verbali di riferimento per questo Ep, ma anche i tre lunghi brani che i nostrani ed emergenti Filth In My Garage (bellissimo moniker, davvero!) hanno assemblato per ricordare alla popolazione mondiale che la speranza è ormai un’utopia. Che sia apocalisse o solita routine giornaliera, il 21 Dicembre 2012 – configurato nella datazione statunitense: mese/giorno/anno – porterà in dote la consapevolezza di un cambio drastico nelle nostre abitudini, tali da sostenere l’intero ecosistema. E’ stata routine; vedremo in cosa e quanto sapremo mutare. Oltre 22 minuti di destrutturazioni ritmiche in guisa post-hardcore, ammantate da una schizzata componente math-rock che trasforma il sudore in riabilitazione psicotica e la sofferenza in arma esogena. Incasellati tra gli Ocean e gli Every Time I Die, i cinque ragazzi milanesi fissano pochi ma fondamentali punti di riferimento nelle loro partiture, per poi seguire le libere associazioni dettate dalla saggezza (nessuna concessione alle esagerazioni), da una produzione inappuntabile, un songwriting straordinario e un’abilità collettiva che decora velenosi ribattute psichedeliche nel frammentato terremoto di questo piccolo gioiello, imbastardito dal tormento vocale di tal Giacomo al microfono. Vi aspettiamo trepidanti con un album intero! Filippo Pagani

Come sempre, un self-titled album significa rinascita, fare il punto della situazione per ripartire con nuova linfa. Il cammino per questo secondo disco dei Cayne è lungo e travagliato: il precedente disco, ‘Old Faded Pictures’, è datato 2001, e molta acqua è passata sotto i ponti. E’ quasi bizzarro parlare ancora dei Cayne come ‘ex-band di due fondatori dei Lacuna Coil’, il tempo è passato per tutti e la band stessa è andata in tour con i Lacuna l’anno scorso, dando fuoco ad un ritorno sulle scene che li ha visti sempre più protagonisti in Italia e all’estero. Nel frattempo, il gruppo è riuscito a raggruppare molte ‘featuring’ importanti per questo disco, dallo stesso Andrea Ferro a Paul Quinn dei Saxon e Jeff Waters degli Annihilator: le canzoni in cui compaiono questi ospiti speciali sembrano costruite proprio attorno a loro, e brillano di luce propria. Ma è in tutti gli altri brani, come ad esempio ‘Little Witch’ e ‘King Of Nothing’, che risiede la vera anima dei Cayne, anima oscura accentuata dalla voce sembra diversa di Giordano Adornato, e spesso sottolineata più dal violino (da brividi in ‘Addicted’) che non dalle chitarre. E’ chiaro come ‘Cayne’ sia il punto di svolta nella carriera della band, a cui ora non solo è affidato il compito di portare in tour i nuovi brani, ma anche quello di portare avanti la memoria di Claudio Leo, il chitarrista scomparso proprio pochi giorni prima che l’album fosse pubblicato. Ma Claudio sicuramente ha ascoltato ‘in anteprima’ il disco, e questo lo aiuterà a sorridere ovunque sia, nel ricordo di ciò che ha aiutato a costruire. Paolo Bianco

Le argomentazioni trattate dai Sidhe (‘popolo fatato’, in gaelico) contemplano il neo-paganesimo e la cultura popolare del centro e nord Europa. Comprensibile sin dal titolo, ampio spazio viene riservato al percorso spirituale/misterico dei Wicca, che negli ultimi anni sta raggiungendo una capillare diffusione in tutto il mondo. E il duo Rob-Tytanja, legati non solo artisticamente, su questi temi potrebbero trattenervi per ore. Onde evitare sbadigli, hanno deciso di renderli più commestibili attraverso un curioso mix che associa il doom dei Cathedral e il gothic spaesante dei Decoryah al magnetismo fiabesco e bagnato di rugiada dei Blackmore’s Night. La convivenza, per nulla forzata e altamente armoniosa, pesca nella voce tremula di Tytanja e nelle scelte dell’ensemble (la sezione ritmica di Vins e Mike completano il quadro) due solenni alleati. La ricerca testuale esalta la nostra splendida lingua italiana, maneggevole e pastosa per le invocazioni divine, le citazioni letterarie (‘Il Vangelo di Aradia’) e le illustrazioni/narrazioni relative ai sabba e alla stregoneria. Vi è un riflusso atmosferico davvero seducente, alternante punti caldi a zone fredde, a cui difetta un bilanciamento sonoro non ottimale, ma sempre di valore… Filippo Pagani

(Season Of Mist/Audioglobe) Si presentano nella loro forma più compiuta, i fratelli Sheane (batteria) e Jesse (voce, chitarra) Matthewson, canadesi con la fissa delle citazioni. Basti pensare che il nome completo di questo mezzo acronimo sta per Kill Everyone Now Mode, ossia un motto adottato dal “biografico” Henry Rollins nel definire l’attitudine dei mai dimenticati Black Flag. Nella loro quinta panoramica di inediti, i Ken Mode ripartono dal precedente ‘Venerable’ (2011) per riagguantare le 7/10 molte promesse mantenute allora e scodellarne di altre. Auto-qualificarsi come un terzetto che macina “un etilico, bastardo rock rumosrista con tocchi di post-metal, hardcore, sludge e doom” può dare una visione parecchio ampia della proposta, ma non completa. ‘Entrench’, nella fattispecie, comprime sfuriate noise, groove ed accelerazioni che non concedono respiro all’ascoltatore. A queste, incrementa un’appetibile dimensione new wave (evidente negli echi à la Killing Joke di ‘Romeo Must Never Know’) e persino industrial. In onor di sincerità, in certi frangenti garantisce l’insorgere di un nervosismo avvertibile anche a occhio nudo (spasmi e irritazioni); il muro di mattoni che ne fuoriesce, imponente e affamato di detriti, discende dal matrimonio incestuoso tra Converge e Neurosis. Un modo come un altro per farsi del male psicologico col sorriso stampato in volto… Filippo Pagani

82 METAL HAMMER

7/10

CAYNE ‘Cayne’

KEN MODE ‘Entrench’

7/10

FILTH IN MY GARAGE ‘12.21.12’

ZEUS! ‘Opera’

(Tannen/Offset/Santeria) Tuoni, fulmini e saette! Voi ascoltatori sarete fatti a fette. Questa è un ‘Opera’ che vi farà saltare i denti ed aguzzare il cervello, perché per apprezzarne fino in fondo il colto approccio metal-progesistenzialista, dissenziente, incalzante, dissonante, jazz anarcoide e sperimentale, dovrete spostarvi da un emisfero all’altro del vostro encefalo, cercando di scardinare ogni possibile format e definizione. Dove gli Einstürzende Neubauten baciano il metalcore e lo screa8/10 mo lasciando adito a spazi di assoluta frammentazione sintattica sonora alla Fantomas, ecco allora arrivare Zeus!. Colpiscono duro a partire da ‘Lucy in the sky with king diamond’ e proseguono come furie con ‘Sick And Destroy’, per impennarsi in una epilettica ‘Decomposition N!!!’. Se non siete morti infartuati, potete farvi pestare a sangue da ‘Set Panzer To Rock’, per lasciarvi poi coccolare dal demonio in ‘Beelzebulb’. Cavina e Mongardi insieme compongono una miscela esplosiva, voluta persino dalla Three One G statunitense (Justin Pearson in persona featuring in ‘Sick And Destroy’ signore e signori). Gli Zeus! sfogano la rabbia dell’Olimpo in una pericolante architettura composta da multiformi anfratti e stratificazioni. Fuggire è impossibile, perché la crescita verso l’avanguardia riguarda anche il metal e dintorni, e non c’è via di scampo. Barbara Volpi


MH 02-2013 rece

6-03-2013

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ENFORCER

‘Death By Fire’

(Nuclear Blast/Warner) Brucia il fuoco della passione heavy metal nel cuore degli Enforcer e questa volta c’è da averne timore! ‘Death By Fire’ è il loro, tanto atteso, terzo disco da studio, una chiamata alle armi senza mezzi termini, un lavoro che non concede tregua. Accanto alla foga, emergono atteggiamenti naif che non ci fanno dubitare della sanguigna determinazione degli svedesi nell’assemblare un lavoro radicale, “estremo” come piace definirlo a loro stessi. Di fatto troviamo ritmiche che spezzano la cervicale in due, scorribande di chitarra degne del miglior heavy di inizio anni ’80 ed un atteggiamento sfacciato, sguaiato addirittura, che diventa irresistibile proprio per la botta di adrenalina che genera. Gli Enforcer suonano quello che potremmo definire uno speed metal energico, che trova sostentamento sia dal thrash (per i riff copiosi ed incalzanti) che dall’heavy tradizionale per le ritmiche. Col piede pestato sull’acceleratore il trio libera una potenza micidiale trasformando ‘Death By Fire’ in un trattato di pura energia vitale, una gemma preziosa che proprio nella sua ingenuità, testimoniata dai frequenti riferimenti ai classici del genere, custodisce il suo valore più grande: l’amore incondizionato verso il divertimento, il ritmo e la libertà, fattori che non dovrebbero mai mancare in una band heavy metal degna di rispetto. Andrea Vignati

8/10

KAMELOT

'Silverthorn'

(SPV/Audioglobe) Tocca recuperare anche questa recensione sfuggita alla nostra redazione. Mea culpa! Il nome dei Kamelot è sempre stato legato al talentuoso Roy Khan al microfono, il cantante perfetto per questa band. Eppure ci si separa... cose che capitano. Khan ha portato ai massimi livelli la teatralità della musica di Youngblood, e non era facile trovare un valido sostituto onestamente. Quando si è trattato di andare in tour per supportare 'Poetry For The Poisoned', Fabio Lione dei Rhapsody Of Fire e Tommy Karevik degli ottimi Seventh Wonder hanno sopperito al vuoto. Bene, dopo il tour l’attesa.... Conoscere il nome del nuovo cantante: uno dei due del tour o un altro singer? Ha vinto Tommy Karevik ed è sicuramente il degno sostituto di Khan, e nel nuovo lavoro intitolato 'Silverthon', lo svedese non ha soltanto mantenuto inalterata la caratteristica teatralità della musica dei Kamelot, ma ne ha ampliato i confini. Il prodigioso Youngblood ha scolpito dodici brani in modo sontuoso, miscelando le tipiche sonorità del gruppo: grandi orchestrazioni pompose e melodrammatiche, rocciosi riff, congiunti a quel tocco cupo e misterioso che è il vero punto di forza di questo album, l’album che tutti i fan dei Kamelot volevano.'Silverthorn' è davvero imponente. Massimo Dicarlo

8,5/10

HATE PROFILE ‘Opus II: The Soul Proceeds’ (Behemoth Productions/Masterpiece)

8/10

7/10 BARBE-Q-BARBIES “Breaking All The Rules”

LABURINTHOS ‘Augoeides’

(Southworld)

(Avantgarde Music/Audioglobe)

Clamoroso caso di ‘it’s only rock and roll but I like it’, questo disco delle Barbie finlandesi non promette di reinventare il rock, ma vuole solo far divertire chi lo ascolta, soprattutto se c’è la possibilità che venga stuzzicato da una suadente voce che canta cose tipo “I want you because you’re making me cum/I really need you, you’re the really one”. Si passa quindi dalla divertente e anthemica “One More”, ode ai baristi che servono alcolici anche dopo l’orario di chiusura (magari non chiedendo nemmeno soldi alle procaci bevitrici), alla title-track con grandissimi cori e incitazioni alla ribellione nel nome del rock, il tutto a metà fra AC/DC e Kiss. In tutto questo, stona un po’ la ballad ‘Gun In My Hand’, in cui le ragazze si dimenticano che non è obbligatorio mostrare le proprie doti artistiche con un lentone, soprattutto se poco ispirato. Ma l’alta qualità delle altre composizioni, e la loro immediata fruibilità, rende l’ascolto consigliatissimo. Non ascoltate chi dice che il rock è morto, o che le canzoni ormai si assomigliano tutte: quando c’è di mezzo il divertimento, basta lasciarsi andare e ballare al ritmo di cinque finlandesi, e tutto sembrerà paradisiaco. Paolo Bianco

C’è qualcosa di molto naïve o per meglio dire “affascinante nella sua ingenuità”, che lascia il segno in questi romeni Laburinthos, band non certo di primo pelo ma che giunge soltanto ora all’esordio discografico. Un sound probabilmente inconsapevolmente elaborato grazie alla loro stessa distanza dalle correnti musicali degli ultimi due decenni e che ci consegna quindi una band fresca nel suo pur ingiallito sound che trasuda di darkwave, folk e prog rock, dove il termine “prog” non deve sviare: capita raramente di doverlo associare ad una band che in realtà suona così semplice e lineare! Sisters of Mercy, Devil Doll, Occult rock anni ’70, sfumature che abbiamo ritrovato anche in progetti più recenti certamente: le note promozionali rimandano ad esempio agli A Forest of Stars, ma aggiungerei anche gli estemporanei Anticrisis, gli Shadow Dancers o i nostri Crystal Phoenix. Forte è la compenente esoterica nel concept e nei testi del vocalist Tony Flandorfer affiancato dalla eterea Nelly Tîrnovan. Riccardo Centodon

Otto anni dopo ‘The Khaos Hatefile’, il duo riminese dagli pseudonimi enigmatici ritorna a navigare in pompa magna sul fiume d’ebano che separa la vita terrena dalla morte. Secondo atto di un concept suddiviso in tre parti, ‘The Soul Proceeds’ incasella annose impressioni sull’esistenza e 6,5/10 visioni astratte del concreto attraverso una grammatica criptica e metaforica. I testi sono assemblati in modo tale da essere letti a più livelli, mentre la prospettiva sonica e ideologica si contrappone al primo capitolo (profetico e apocalittico) per veleggiare su lidi bellici e sofferti. Pulsa un’energia torbida e oppressa, la vita che contiene ‘The Soul Proceeds’ brilla di luce cupa, disillusa, ancor più ingombrante di quanto Amon418 abbia mai concepito nelle sue parallele esperienze – Hortus Animae su tutte. I piedi affondano nel pantano black metal, quasi superfluo precisarlo (meno superfluo precisare che gli Hate Profile rivitalizzano il genere con una verve e un gusto identici a quelli dei primissimi maestri norvegesi), ma è un pantano dissonante, stratificato da migliaia di filamenti. E’ un pantano invasivo, a tratti minimalista, anche demotivare…ma solo nella misura necessaria a far affiorare il germe del riscatto. Glaciale e rovinosa, una gemma opaca che l’indifferenza non deve accantonare negli angoli remoti della scena tricolore… Filippo Pagani FOLKSTONE ‘Restano I Frammenti – Dvd Live’ (Folkstone Records/Audioglobe)

Tutto fa brodo, nell’archivio filmico dei Folkstone. I briganti bergamaschi, consolidata realtà del folk metal nostrano – apprezzati e seguiti anche all’estero, malgrado il mancato utilizzo della lingua inglese – celebrano la propria attività di guerrieri celtici con la bellezza di oltre due ore di musica spalmata all’interno del Palacover di 7/10 Villafranca, l’ultimo 3 Novembre, per un settaggio dei suoni volutamente imperfetto e, quindi, ancora più vivo. Un concerto, seppur coinvolgente per entrambe le fazioni (pubblico e musicisti), non basta. Ecco così spuntare i frammenti, spassosi e finemente cesellati con mano umana negli altri due Dvd della confezione. I Folkstone sono dei simpaticoni, di bocca buona, che parlano come mangiano. Gente genuina, insomma, di quelli che vi accolgono con loro nella mega macchinata che li conduce al Tanzt di Monaco: senza filtri o lenti amene, vi parrà di essere lì, a godervi il viaggio, le barzellette, il Battiato di sottofondo… Nessun regalo in versione audio (nemmeno un Cd), ma un voluttuoso inedito di turno (‘Respiro Avido’) e una miriade di scene, scenate, scenette che raccontano il grande cuore di questi bontemponi, convinti – a ragione! – che la purezza e la sostanza siano miliardi di volte più importanti dell’eleganza esteriore. Un invito a vederveli dal vivo: conserverete una splendida serata nel bagaglio dei ricordi indelebili. Filippo Pagani

S.V. IMPERIUM DEKADENZ ‘Meadows Of Nostalgia’ (Underground Activists)

Anche se la foto di copertina sembra rubata all’album di famiglia di una anziana coppia di pastori sardi, gli Imperium Dekadenz non nascondono a nessuno la loro natura alemanna. Malgrado ‘Meadows Of Nostalgia’ alluda ai ricordi fumosi che sono soliti aggredire il nucleo gothic di tanto metal odierno, questo quarto prodotto plasmato dal duo Vespasian (nome dalle proprietà diuretiche) e Horaz avrebbe – per il resto del mondo che lo recensirà – il sapore di una carrellata di black metal cadenzato, suonato a meraviglia. Per noi possiede anche il sapore acre e pungente di un sonnifero vicinissimo alla data di scadenza: una volta che lo si inghiotte, ci si sente pervasi da un formicolio che coinvolge collo, mascella, mucose nasali e parte alta del cranio. Ci siamo sforzati di apprezzarlo, e preso a sé stante è anche abbastanza gradevole. Il problema di ‘Meadows Of Nostalgia’, a voler essere pignoli sino allo stremo, è la sua totale assenza di personalità. Sfiora la caratura artistica del miglior Burzum, si avvicina alla complessità tecnica e alla produzione piena degli Emperor, nonché ai riflussi dei sottostimati Summoning: e questo è bene…anzi, molto bene. Okay, la nostra è pignoleria. Ma ricordiamoci che il periodo contingente è anche contraddistinto da numerose ristampe di album classici e/o misconosciuti. Che senso avrebbe, quindi, acquistare degli ottimi cloni? Filippo Pagani

R E C E N S I O N I


MH 02-2013 rece

7-03-2013

22:33

Pagina 84

RECENSIONI

7/10

6/10

6,5/10

LOST SOCIETY ‘Fast Loud Death’

ANTHRAX ‘Anthems’

7/10 VOODOO CIRCLE ‘More Than One Way Home’

ETHS ‘Autopsie & Samantha’

(Nuclear Blast/Warner)

(Nuclear Blast/Warner)

(AFM/Audioglobe)

(Season Of Mist/Audioglobe)

(Spinefarm/Universal)

Finlandesi e poco inclini ad assumere proteine sinfoniche o death/doom, come nella media dei loro connazionali – Hanoi Rocks e 69 Eyes a parte, ovviamente. Giovanissimi ed esuberanti, i Lost Scoiety erano destinati a suonare per forza thrash, flirtante con certo speed e incalcolabili rasoiate hardcore. ‘Fast Loud Death’ è un primo biglietto da visita che senza moralismi né paternali schiaffa in faccia la condizione collassante della società occidentale odierna. In compenso, il quartetto non si sottrae dall’obbligatorio citazionismo lessicale (‘Diary Of A Thrashman’ è quasi uno sfottò a Ozzy Osbourne, ‘Toxic Avenger’ è perfetta per lo slasher movie omonimo). Musicalmente è stato scolpito in qualche scompartimento confinante coi Forbidden e i Coroner nei loro stadi iniziali, e cucito pedissequamente su misura per colpire il fascino di coloro che hanno già speso metà dei loro risparmi per acquistare le discografie di Destruction e Cryptic Slaughter. ‘Thrash All Over You’ è il singolo trainante, mentre il prode Ed Repka, divenuto arcinoto per aver dato forma al set grafico dei Megadeth, è il responsabile della copertina, squisitamente in linea con gli anni 80. Non vi sono molte aspettative, oltre alla furia controllata. Per patiti cronici. Filippo Pagani

Dopo ‘Worship Music’ per gli Anthrax è tempo di fare outing, di rendere pubbliche, manco ce ne fosse bisogno, alcune piccole deviazioni di fedeltà al passato. Farlo con un EP di cover è il modo più immediato – poco dispendioso – e curioso per far parlare di se. Sei cover quindi, più le edizioni sia da studio, che remixata di ‘Crawl’ per un dischetto carino che ci sentiamo di consigliare a tutti quelli che sanno molto della band di NY, ma che ancora sono alla ricerca di sorprese su di loro. ‘Anthem’, rubata dal catalogo dei Rush è il brano che più incuriosisce, tanto quanto ‘Keep On Runnin’ dei Journey, mentre piovono conferme dai momenti più leggeri e frenetici legati ad una certa ‘TNT’ degli AC/DC e ‘Jailbreak’ dei mitici Thin Lizzy; per finire c’è da riconoscere competenza e gusto nelle revisioni di ‘Smokin’ dei Boston e ‘Big Eyes’ dei Cheap Trick, brani che sottolineano quanto gli Anthrax si siano formati con l’hard dei ’70 nel cuore. ‘Anthems’ è una buona prova generale per tastare il polso della band priva di Rob Caggiano, per gli imminenti impegni targati 2013. C’è ancora indecisione su chi prenderà il posto del chitarrista ed accettiamo l’EP come un diversivo interessante, un lavoretto ben confezionato che rinforza la sensazione che negli Anthrax, accanto a tanti problemi, ci sia ancora posto per la passione. Andrea Vignati

Gli anni ’80 sono stati un ricco miraggio vissuto nel lusso, un’epoca irripetibile in ambito hard rock nella quale luci e fluorescenze fecero il successo degli Whitesnake e di chiunque ponesse sui piatti opposti della bilancia passione ed elettricità. Quel periodo è ormai sepolto nella memoria, vittima della recessione e della pirateria, ma come tutti ben sanno i sogni sono gli ultimi a morire; se l’assioma vale anche per voi, allora è bello concedere ai Voodoo Circle un tuffo in quel luminoso passato, dare loro la corretta risonanza nella speranza di rivivere noi stessi quei profumi ammalianti di sesso ed avventura. Questo è il terzo disco del gruppo, il meglio riuscito senza alcun dubbio, il sigillo di una maturazione semplice per un sound scritto e pensato da scafati attori dell’hard teutonico; Mat Sinner ed Alex Bayrodt spingono il sound al limite internazionale del termine, aiutati dall’ottima timbrica di David Readman dietro al microfono. Loro la scintilla che scatena ritmo, groove, tentazione per un totale di dodici passaggi sull’assolata autostrada della memoria. Buon gruppo i Voodoo Circle e seppure il continuo retaggio nei confini della band di Coverdale non gioverà alla loro economia, ammettiamo che ogni tanto un bel disco di hard sanguigno non guasta proprio, per cui sfamate con ‘More Than One Way Home’ la vostra voglia di trasgressione. Andrea Vignati

‘Autopsie’ e ‘Samantha’, qui racchiusi in un solo dischetto legato dal simbolo &, sono stati la doppietta di debutto (2000 e 2002) di un sestetto marsigliese che negli ultimi anni ha saputo strabiliare i ricercatori di metal diverso. ‘Tèratologie’ e ‘III’ rammentano che l’esplosione della frangia alternativa coniugata alla componente estrema dell’heavy music non si serve soltanto della dialettica svedese o americana. Vero è che gli Eths si caratterizzano grazie alla frontwoman Candice, unione d’incanto tra il gutturale di Angela Gossow (Arch Enemy) e la sofferenza di PJ Harvey, ma è altrettanto innegabile che la proposta di questi francesi, anche agli esordi, si segnalava per un impulso mai domo (seppur embrionale) a miscelare le poliritmie dei Korn con l’andamento saltellante del funk stralunato. Tra bordate e gigioneggiamenti vari, il combo si divertiva (e ancora si diverte) a insaporire il menù beccando spezie trip-hop (‘Animadversion’) e qualche nascosta atmosfera da film d’essai. A meno che non detestiate un po’ di sana violenza, questo resume è il viatico per scoprire qualcosa che non vi lascerà indifferenti. Seguite gli Eths nella loro evoluzione, anno dopo anno. Potreste restarne colpiti. Filippo Pagani

Dopo il successo di critica per il primo album, si arriva alla prova del nove per il supergruppo svedese capitanato dalla bellissima (e dotatissima) Elize Ryd e formato da membri appartenenti a Dream Evil, Nightrage, The Cleansing, Mercenary ed Engel: fu vera gloria, o il mix di aggressività e melodie ai limiti del pop è qualcosa di irripetibile? La risposta risiede in queste dodici tracce, ed è più complessa del previsto: il sound è decisamente mutato, trasformandosi con successo in uno speed-power che ricorda molto una versione ancora più dinamica dei Dragonforce, grazie a tre voci (una donna, due uomini) che si alternano con grande aggressività e, soprattutto, velocità. Il mix di voci maschili in growl e divina voce femminile nei ritornelli può far pensare ad una versione ‘power’ del metalcore che oggi va per la maggiore fra gli ascoltatori più giovani: lungi dall’essere una bestemmia, questa scelta ripaga ampiamente nel creare canzoni che, anche dopo ripetuti ascolti, rivelano qualcosa di nuovo ed interessante. Non confondete gli Amaranthe con il resto del ‘gothic metal’ a voce femminile: qui si parla di qualcosa di nuovo, e decisamente interessante. Paolo Bianco

WITCHES’ BREW

‘Supersonicspeedfreaks’

(Black Widow) Impossibile non innamorarsi all’istante di ‘Supersonicspeedfreaks’! Perché questo è magma raggrumato da antologia, materiale per organi caldi, cervelli ribollenti, tessuti anatomici imbevuti di bourbon e pancreas macchiati dall’olio di noccioline tostate. Succubi di prima istanza degli Uriah Heep (a voi il lusso di scoprire in quale brano è inserita la granitica cover-jam di ‘Gipsy’), questo quartetto dell’alta Lombardia rumina baldanzosamente ma con raziocinio nei mean7,5/10 dri melmosi, liquidi e appiccicosi dello stoner, dell’hard blues e dell’heavy psichedelico, come se sotto lo stesso tetto si fossero dati appuntamento gli Hawkwind (valevole anche per l’apparizione al sax e al flauto di Nik Turner), i Manilla Road e i Black Sabbath completi di discografia trentennale, con David Coverdale dei Whitesnake a ciondolare tra gli astanti, ai quali non manca il desiderio di cimentarsi nel kraut rock mitteleuropeo. Il risultato è facilmente deducibile: un fluido fiume di emissioni calcaree che una registrazione odierna s’è vista bene dal ritoccare geneticamente. Un come-back poco meno che perfetto, trascinante, che pur evitando d’un soffio lo zenit (a brani superbi si alterna qualche rara mediocrità) ha saputo annientare la valenza del pur buon debutto ‘White Trash Sideshow’. Acidi, competenti e dal feeling pazzesco, Zonca, Bosco, Brando e Dal Pane sono i modellatori di musica per sognatori depravati. Filippo Pagani

84 METAL HAMMER

7/10 AMARANTHE ‘The Nexus’

FINNTROLL ‘Blodsvept’

(Century Media/EMI) Si potrebbe credere che una band folk-metal possa accusare segni di stanchezza, una volta giunta al sesto album in quindici anni di carriera. Ma ai Finntroll basta il primo pezzo di questo nuovo disco, per dimostrare a tutti che di idee ne hanno ancora tantissime, e che soprattutto la perizia musicale è in continua crescita. La title-track, posizionata in apertura, richiama la polka, 7,5/10 fa ballare immediatamente, ma al contempo picchia duro sugli strumenti, ha un gran riff centrale, una parte in growl e fa venir voglia di ubriacarsi. Il tutto in quattro minuti di musica, per presentarsi bene al pubblico. Sul resto del disco si trova di tutto: qualche influenza black metal per guardare al passato, qualche accenno al ‘videogame metal’ (come lo chiamano loro) in ‘Ett Folk Förbannat’, per guardare al futuro, e non pochi momento il growl è associato al suono del banjo o di altri strumenti folk. Il tutto, ovviamente, cantato in Svedese, perchè i Finntroll non scendono a compromessi: o si amano o si odiano. Ma in ogni caso, è difficile rimanere indifferenti davanti ad un disco come questo. Paolo Bianco


MH 02-2013 rece

6-03-2013

12:02

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NIGHTFALL ‘Cassiopeia’

(Metal Blade/Sony) Fuori dall’atmosfera terrestre regna il silenzio, l’assoluta mancanza di suono che concede solo a vibrazioni non udibili di propagarsi da un luogo all’altro. Gli ellenici Nightfall utilizzano l’imponente nome di ‘Cassiopeia’ per il loro nono album; l’arroganza del personaggio della mitologia greca nel definirsi la più bella delle Nereidi, somiglia alla tracotanza della razza umana, convinta di essere artefice delle proprie azioni e prossima vittima dell’evidente cecità che la affligge. La musica che si accompagna al tema dominante è quindi nervosa ed opprimente, ambientata in spettrali teatri death metal nei quali trovano posto assidue incursioni melodiche di ottimo pregio chiamate a smuovere un’esecuzione cupa e pesante. La forza dei Nightfall è di sfruttare un parco di suoni piuttosto esteso, che si spinge dal doom all’heavy tradizionale per infarcire, smuovere e levigare, una strutturazione molto fitta nella quale è difficile penetrare; l’effetto immediato prodotto dai sei musicisti è il soffocamento, tanta è la mole di note da seguire, un deterrente all’ascolto piuttosto chiaro che di fatto limita l’accessibilità di un elaborato che possiede contenuti interessanti. Entrando dalla porta di servizio sarete accolti nel cuore della narrazione, isolati in un blocco di metallo lugubre e silenzioso, inospitale tanto quanto la musica targata Nightfall…se ve la sentite. Andrea Vignati

6,5/10

PHILIP ANSELMO/WARBEAST ‘War Of The Gargantuas’

(Housecore Records/S.O.M./Audioglobe) Phil Anselmo presenta il suo progetto solista con uno split-EP come ai vecchi tempi: due canzoni per lui, e due per la band di suoi ‘protetti’, i Warbeast, recentemente visti in tour con i Down. E’ un disco corto, concentratissimo, suonato a volumi altissimi, ed è estremo: in poche parole, è un disco che contiene tutto ciò che è buono e giusto nel metal, presentando una sorta di sfida fra le due band, entrambe determinate a uscire vincitrici nella gara fra chi è più massiccio. Ovviamente tutta l’attenzione è puntata su Anselmo, e qui lo si trova aggressivo come non lo si ascoltava da anni, lontano dalle atmosfere doom dei Down. Le idee musicali sono quelle giuste, ma c’è un grosso problema di fondo: i “The Illegals” (ovvero la sua backing band) non sono esattamente i Pantera, e la produzione è un po’ piatta. I due brani non sono niente male, Phil possiede una voce sempre riconoscibile e quando urla sembra che stia esorcizzando ancora una volta i suoi demoni, ma ribadiamolo: non stiamo ascoltando i nuovi Pantera. E’ un paragone ingiusto? E la vita ad essere ingiusta, dopotutto, e sappiamo tutti che il popolo metal sogna ancora quei tempi andati, quelle ‘volgari dimostrazioni di forza’. Di contro, i Warbeast non hanno nulla da perdere e nulla da dimostrare, e le loro due tracce sono cariche di aggressività, di thrash metal mischiato al punk e di attitudine in stile Motorhead. Le nuove leve spaccano sassi, e si dimostrano vere e proprie ‘bestie da guerra’. Attendiamo entrambe le band al debutto discografico con un disco vero e proprio, così si potrà stabilire chi sarà il vero successore dei Pantera. Per ora, il disco è un ottimo aperitivo al vetriolo. Paolo Bianco

6,5/10

7/10

7/10

6/10 LORDI ‘To Beast Or Not To Beast’

KLAUS SCHULZE ‘Shadowlands’

ASTRAL SLEEP ‘Visions’

FREDDY DELIRIO ‘Journey’

7/10 ANGRA 'Best Reached Horizons'

(AFM/Audioglobe)

(SPV/Audioglobe)

(Solitude/Masterpiece)

(Black Widow)

(SPV/Audioglobe)

Passano gli anni ma la sostanza dei Lordi rimane sempre la stessa. Il concetto di entertainment, di intrattenimento come si dice dalle nostre parti, deve unire due elementi ben definiti: primo, il valore visuale dello spettacolo, poi quello intrinseco della proposta…ossia la musica. Non lamentiamoci quindi se il sound dei Lordi non riesce veramente ad essere solido, oppure se le loro idee puntano sempre ad una visione ristretta del pentagramma, queste non sono priorità, l’importante è l’apparenza. La forma viene prima della sostanza, questo il motivo dominante di una carriera che si sviluppa sul limite stretto che separa l’hard rock dal metal e seppure ‘To Beast Or Not To Beast’ (geniale, il titolo) si presenti come l’album più rude della discografia dei finlandesi, non aspettatevi nulla di differente rispetto al solito: esatto, tutto cresce attorno a riff divertenti che si traducono in brani orecchiabili, situazioni ripetute che già al secondo ascolto di fila perdono vigore. Gli innesti elettronici sono strampalati, fuori dal contesto d’arrangiamento, e servono da contorno ad un piatto dalla pochezza disarmante che galleggia solo perché ruffiano, ma non preoccupiamoci della musica, ok? Lo spettacolo deve andare avanti, tra costumi e paillettes ed ormai dovremmo averlo capito: duri o molli che siano, i Lordi sono sempre i Lordi, ok? Andrea Vignati

Giù il cappello, signori. O almeno pettinatevi, in segno di rispetto. Siamo al cospetto del “corriere cosmico” su due gambe, antesignano della new-age (e quindi dell’ambient), volitivo uomo-chiave nella decifrazione dei millesimali globuli che infestano l’elettronica degli ultimi quarant’anni. Non solo: Klaus Schulze è una delle rare figure trasversali che impattano sulla dinamica del “fare musica” di qualsiasi artista, a prescindere dai filoni e dalle mode seguite. Anche il metal gli è grato, specialmente il versante più sperimentale, etereo e sinfonico. Dal dirompente ‘Irrlicht’, in risposta agli ex-compari dei Tangerine Dream, ha realizzato una mole impressionante di lavori. Sottacendo il concept in due parti forgiato con il contributo della divina Lisa Gerrard (Dead Can Dance), l’ultimo in guisa solista è questo ‘Shadowlands’, estenuante per durata – tre suite, di 42, 17 e 18 minuti, alle quali si aggiungono i 74 minuti in due tracce dell’edizione limitata in doppio Cd – e assai completo nella tavolozza di nuance che il maestro tedesco riesce a scomodare in questo trip surreale. Poco da dire (e molto da ascoltare): nell’immaginario paese delle ombre colorate, l’astronauta Schulze continua a intingere pastelli, chine e acquerelli nell’acqua delle stelle… Filippo Pagani

Visioni, immagini sfocate che si palesano nel pensiero incosciente che separa il sonno dalla veglia. La liquidità dei suoni che si compara allo sciabordio delle onde che gentili scalfiscono la battigia ed il senso di oppressione che lentamente viene indotto a livello subconscio. Gli Astral Sleep sono maestri dell’induzione onirica, non annoiano, ma bloccano il pensiero, addirittura il respiro, di chi ascolta. La formula, di comprovata efficacia, scomoda il doom rallentato e si allunga fino alle radici del rock acustico in una mistura sporca che non rinuncia a qualche frammento più rozzo di acredine death metal. ‘Visions’ è disco d’assieme, un lavoro in quattro movimenti per un’ora di angoscia vertiginosa, un susseguirsi di situazioni armoniche invischiate nel fascino deviato di chi ha molto tempo da spendere per spremere ogni nota ed estrarne il significato finale. Gli Astral Sleep firmano un ritorno discografico dallo spessore invidiabile, un racconto trasognato di una realtà diversa dal solito, metal fino all’ultima vibrazione. Non vittime, ma protagonisti di uno scenario musicale alternativo per definizione, i finlandesi, che se ne infischia dei lustrini ed immerge le mani nel fango per sentire il freddo siderale di madre terra, che nel silenzio riposa sopra ai nostri trambusti. Amen. Andrea Vignati

Riesumato dalle polveri al cromo dell’audiocassetta incisa nel 1992, quando l’autore di questa chicca era un giovanotto, ‘Journey’ trova ora il jolly della pubblicazione in Cd. Legato a doppia mandata ai Death SS e a Steve Sylvester (che lo ha voluto con sé nei recenti W.O.G.U.E.), nonché cantante degli hard rockers H.A.R.E.M., Freddy Delirio è un tastierista dai plurimi interessi, tra gli allievi prediletti di Richard Wright (notevoli, nella fattispecie, le foto interne di richiamo all’epopea iconografica Pinkfloydiana), Keith Emerson e Rick Wakeman. Alla pari di questi numi tutelari, il nostrano Freddy nutre una forte ambizione cinematografica, felicemente tradotta in questo breve soggiorno di musica strumentale, ove la vasta gamma di tasti bianchi e neri padroneggiano in mezzo a drum machine, campionamenti e frotte di sintetizzatori. Squisitamente datato, contiene le meglio definite ‘Dreamland’ e ‘Witches’ Sabbath’, inserite nella colonna sonora del surreale culthorror ‘The Darkest Night’, in contrappeso a ‘The Triumph Of The Truth’ (in puro stile Goblin) e, soprattutto, alle tre arie per pianoforte poste in chiusura, realizzate come arricchimento di una ristampa di rara efficacia, che fa della pulizia, dell’amore per animazioni sci-fi e di un po’ di nostalgia i propri perni di appoggio. Filippo Pagani

In colpevole ritardo ci occupiamo del best of degli Angra, formati nell’ormai lontano 1991 e che dopo venti anni esatti dall’uscita della prima demo (distribuita soltanto a poche label dal management tedesco e che vide da li a poco la pubblicazione del debut 'Angel's Cry') arrivano a questa celebtrazione. In questi lunghi anni si sono avvicendati dietro al microfono due eccezionali vocalist Andrè Matos ed Eduardo Falaschi, dieci anni a testa (più o meno). Coincidenza (?) vuole che la raccolta sia divisa in due cd che rappresentano i due decenni. Il primo ripercorre il periodo di Andrè Matos, il secondo quello di Edu Falaschi. Piacevole, lo scorrere dei brani, come se fosse la scaletta di un gran concerto ma nulla di davvero spettacolare o inedito, se si esclude la cover di 'Kashmir' dei Led Zeppelin, ben poca cosa per dare un certo valore aggiunto al prodotto, che a mio parere avrebbe meritato maggior cura per quello che gli Angra hanno rappresentato in tutti questi anni per il mondo metal power-prog e non solo. non ci resta che aspettare il nuovo album! Antonio Favaro

7/10

R E C E N S I O N I


MH 02-2013 rece

7-03-2013

22:33

Pagina 86

R E C E N S I VERATRUM ONI

‘Sentieri Dimenticati’ (Nadir/Audioglobe)

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Se ‘Sangue’, primo demo dei bergamaschi Veratrum li aveva proposti come una delle realtà più promettenti nel nuovo panorama estremo italiano, il loro disco di debutto ‘Sentieri Dimenicati’ conferma in toto le sensazioni avute tre anni addietro. Su una base death di grande spessore, tecnica8/10 mente ineccepibile, ricca di venature epiche e di richiami al black più atmosferico e claustrofobico, si poggiano liriche in lingua italiana mai banali, incredibilmente ricercate, figlie di una ricerca che dovrebbe sfatare alcuni clichè superficiali che da sempre ruotano attorno al mondo della musica estrema. ‘Sentieri Dimenticati’ non da tregua all’ascoltatore dal primo all’ultimo secondo, trascinandolo in un incubo sonoro lungo dieci tracce, scandito da un nichilismo sonoro di rara intensità, nel quale il massacro sonoro palesato in pezzi come ‘Uomo’ o ‘Lo Sventramento Dei Guardiani della Terra Cava’ viene solo a tratti mitigato da tracce strumentali che lasciano emergere la cristallina prova tecnica dei musicisti coinvolti in questa band. Un lavoro mai banale, ricco di idee e spunti interessanti, che potrebbero davvero spalancare davanti al combo lombardo le porte della scena “che conta”. Marcello Lorenteggio MIDRYASI ‘Black, Blue & Violet’ (MyGraveyard Productions)

Dieci anni di successi, di ottime recensioni, di crescita di un culto tutto italiano: dalla provincia di Varese i Midryasi convincono tutti grazie alla loro proposta psichedelica. Giunti al terzo disco, pienamente in possesso delle loro capacità compositive, i musicisti sono pronti a nuove sfide, 7/10 esplorando il futuro riscoprendo il passato. Orange Goblin, Black Sabbath, Pentagram... tutto è finemente mischiato ed elaborato, dalle tastiere ipnotiche e morbose di ‘Behind My Ice’ ai pezzi più veloci, che ascoltati sotto sostanza psicotrope possono anche provocare incubi: ‘The Counterflow’ è continuo incalzare di riff e voci acute in lontananza e urla in primo piano. Ce n’è per tutti i gusti, per tutte le sfumature di nero, viola e blu, per arrivare al doom di ‘Hole Of The Saturday Night’, canzone che chiude il disco in maniera perfetta. Si apprezza anche una produzione a tratti volutamente ‘lo-fi’, proprio per fare immergere l’ascoltatore nei gloriosi anni Settanta - decisione confermata anche dalla pubblicazione del disco su vinile, per una resa ‘sporca’ della loro musica. Sporca ma calda, come dovrebbe essere il vero rock... Paolo Bianco

4/10 OLD FUNERAL ‘Our Condolences 1988-1992’

SEPTEM ‘Septem’

6,5/10 FOGALORD ‘A Legend To Believe In’

(Soulseller)

(Nadir/Audioglobe)

(Limb Music/Audioglobe)

C’è della grassa ironia a definire defunti (e da oltre 20 anni!) gli Old Funeral…ma tant’è. E non si poteva scegliere foto di copertina più indicativa, per celebrare (?) l’operato dei quattro ragazzacci di Bergen: un calesse privo di postiglione e una bara da Far West, su misura per il vorace banchetto di vermi e agenti atmosferici. Sopra l’immagine vi si deposita un senso di indifferenza e desolazione che intacca le fibre più intime. Una corposa operazione di recupero (terza e incomprensibile compilation, per 26 tracce) ma non di restauro, quella orchestrata dalla Soulseller: i remix avrebbero di fatto rovinato la sporcizia originale, composta da mixer spartani a due tracce, batterie arrugginite e corde rotte – in confronto, le produzioni dei Darkthrone sono da cinque stelle! Spacciati per black metallers, gli Old Funeral suonavano in realtà un death marcio e corrosivo, andato a depositarsi in due demo e un Ep, con la postilla di un live album postumo ascoltabile quanto un trita-pannocchie in funzione e a pieno regime… Prevediamo eccitazione incontrollata e maniacale da parte di becchini e medici forensi! La gente un poco più normale potrebbe evitarlo come la peste bubbonica. Cosa? Il futuro Burzum Varg Vikernes e Abbath degli Immortal hanno militato (anche se in periodi diversi) in questa band?! E allora? Filippo Pagani

Disco di debutto per gli spezini Septem che, dopo aver ben impressionato due anni or sono con un promo capace non solo di raccogliere critiche positive, ma di vendere addirittura 800 copie in 5 mesi, arrivano ad esordire ufficialmente con un disco che farà la gioia di tutti gli amanti del metal classico. L’omonimo disco che abbiamo tra le mani, sapientemente prodotto dal “guru” Tommy Talamanca, mostra una band che, se da un lato attinge a piene mani dalla lezione impartita dagli anni Ottanta da Iron Maiden, Judas Priest e Samson, dall’altra denota la volontà di spingersi oltre, di rinfrescare il classico metal rendendolo più attuale con soluzioni decisamente più attuali. E con risultati più che positivi, aggiungiamo noi, visto che il lavoro in questione si fa ascoltare con piacere tra tracce più robuste ben costruite attorno a riff granitici di un certo impatto, e ad un gusto per la melodia che consente ai brani di fare centro sin dal primo ascolto. Un buon debutto che premia a pieno la tenacia di una band sicuramente interessante. Marcello Lorenteggio

Educandi dei Rhapsody cadetti e allievi del ruspante “positive feeling” implementato dagli Helloween (Kiske-era), i Fogalord danno alle stampe un concentrato di power metal sublimato da un carattere fantasy-mitologico da far inturgidire i capezzoli degli appassionati. La band nostrana ruota intorno alla figura carismatica di Dany All, tastierista dei Synthphonia Suprema, qui anche produttore gravido di dote e cantante dalla timbrica arcigna, affiancato dai prezzemolini Alessandro Lotta e Pier Gonella in qualità di ospiti di lusso. ‘A Legend To Believe In’ è opera zuccherosa e spigliata, nella quale la doppia cassa recita a mitraglia, le chitarre sputano coriandoli di roccia vellutata e le tastiere piroettano in voluminosità. Ci si diverte, ci si scapiglia e si sogna di lande innevate spezzate dal sole, con spadoni branditi da creature multiformi e folgori di contorno. L’animo barocco e folklorico del quartetto nostrano emerge in ‘The Scream Of Thunder’, antipasto di ‘Of War And Resurrection’, un complesso quarto d’ora di rollercoaster suggestionante, tra ricami cupi, parti recitate, evocazioni e duetti teatrali. Patiti di Freedom Call e Dragonforce gradiranno assai. E noi con loro. Buona la prima. Ma il passo più ingombrante verrà col secondo sforzo… Filippo Pagani

DEATH WOLF

‘II: Black Armoured Death’

(Century Media/EMI) Nelle ombre si aggira una creatura assetata di sangue, un mostro di cui nessuno conosce la forma ma che tutti si sentono in dovere di provare timore; egli si nutre di incubi, serpeggia nella notte e cresce nell’ansia delle sue vittime. Il suo schema è semplice: costringe il malcapitato di turno a concedersi al sacrificio dopo averlo soffocato di pena, reso responsabile nel peccato assoluto, tanto da renderlo consenziente. I Death Wolf, ex – Devils Whorehouse, fungono da co7,5/10 lonna sonora per gli efferati rituali del mostro e si firmano autori di un secondo album, ‘II: Black Armoured Death’, da applausi. Il loro è un incedere convulso, che ruba dal punk hard core a la Misfits così come dal dark l’energia mortale della pesantezza; urla e ritmo, headbanging sfrenato che implode sino a togliere il fiato in una rincorsa alla giugulare vittima. Non c’è nulla di imprevisto nei loro schemi, ma proprio per questa ragione è la forza bruta, muscolare del gruppo a colpire; Morgan, nostra conoscenza per la militanza in Marduk ed Abruptum, libera un’energia travolgente e malata difficile da ignorare e tutta la band si focalizza sul bersaglio deflagrando in mille pezzi qualsiasi cosa si pari sul proprio cammino. Colonna sonora di un mostro assassino, oppure musica plasmata per tirare fuori il peggio da ciascuno di noi? Fateci una riflessione prima di rispondere, ok? Andrea Vignati

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7/10

KVELERTAK ‘Meir’

(Roadrunner/Warner) La Norvegia non partorisce solamente suoni oscuri e crepuscolari, ma anche una certa forza d’assalto che può diventare power rock micidiale. La garanzia di questo album sta nella firma di Kurt Ballou dei Converge, che ha voluto produrlo. Così l’aggressione ti colpisce subito in faccia fin dalla prima traccia ‘Spring Fra Livet’, cantata in norvegese come anche gli altri pezzi del disco. 7/10 L’assalto continua con la tiratissima ‘Trepan’ e con ‘Bruane Brenn’, quest’utlima con cori da tifosi da curva calcistica. ‘Meir’ in inglese significa ‘more’, ‘di più’, quindi si capisce subito dove i Kvelertak vogliono andare a parare. Essi vogliono spingere al massimo il piede sull’acceleratore della potenza, dell’energia e del volume. Allora ecco la velocissima e furente ‘Evig Vandrar’, la caotica e animalesca ‘Snilpisk’, la quasi screamo ‘Manelyst’. La band arriva a rasentare il metalcore senza indulgere nella sua immanenza punk rock; essa piuttosto si spinge a deviare verso l’epicità proprio quando il collasso nervoso si chiude asfittico. ‘Meir’, è come inserire le dita dentro alla presa della corrente. Per il resto è puro e semplice rock n’roll. Barbara Volpi


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MANII

‘Kollaps’

(Avantgarde Music/Audioglobe) Non furono soltanto i colossi Mayhem, Burzum, Emperor (e compagnia danzante..) a creare e far esplodere il fenomeno del black metal norvegese nei primi anni ’90, ma anche tante altre sepolcrali band, molte delle quali scomparse dopo qualche demo o un album… Tra le tante i Manes, band che lasciò il segno con un paio di demo ed un successivo incredibile esordio ‘Under Ein Blodraud Maane’ nel 1999 e che poi virò verso territori ben più sperimentali strizzando l’occhio all’elettronica o all’alternative rock. Sciolti i Manes nel 2009, il duo originale Cernunnus e Sargatanas si ricostituisce sotto nomea leggermente modificata in Manii e da alla luce un come-back veramente credibile ed importante. Un album che piacerà a tutti colori che mai sono usciti vivi da quel sound gelido e disperato degli inizi, quel riffing di chitarra mortale, disarmonico e dissonante che solo Cernunnus e pochi altri (Thorns e Varg Vikerknes) sono riusciti realmente a rendere un marchio di fabbrica. Otto le nenie che costituiscono il lento incedere di ‘Kollaps’, tra tutte segnaliamo le morbose ‘Liv-Oydar’ ed ‘Endelaust’, vero e proprio corteo funebre per l’ultimo dei nostri giorni Riccardo Centodon

8,5/10

HEAVATAR

‘Opus I - All My Kingdoms’

(Napalm Records/Audioglobe) La corrente power metal melodica deve moltissimo alla musica classica, questo non crediamo sia un segreto, ma il tributo al “classico” fornito dagli Heavatar di Stefan Schmidt è ben altra cosa. Il musicista, già conosciuto per il suo apporto fondamentale nei Van Canto, ha deciso di sostituire i vocalizzi a cappella con chitarre elettriche roboanti e doppia cassa…rubacchiando spunti, arie e motivetti dai compositori classici che ognuno di noi conosce. Gente del calibro di Beethoven, Bach, Paganini e Bizet, mica pinco e pallino, uniti alla ferrea rigidità degli Iced Earth, giusto per darvi un’idea del sound del gruppo. Buona l’ispirazione, ben gestita l’opera di scrittura ed arrangiamento di nove brani che si lasciano ascoltare con trasporto; professionale, infine, il contributo del resto della band, nella quale spicca il carisma del drummer Jörg Michael. Se da una parte non c’è nulla da eccepire per la forma, rimaniamo spiazzati dalla sostanza di questo sforzo, interessante nei sani principi, ma fin troppo confinato in un ambiente angusto per definizione. Certo, per far musica di questo tipo oggi ci vuole del coraggio ed allora non arricciate il naso davanti all’inno conclusivo del disco, ‘To The Metal’, stonatura che riassume i connotati ideali che hanno convinto Mr. Schmidt a partorire un album del genere. Andrea Vignati

6,5/10

ECHOES OF YUL ‘Cold Ground’ (Avantgarde Music/Audioglobe)

7,5/10

6,5/10 TERMINAL SICK 'Nothing More'

ORNAMENTS ‘Pneumologic’

(To React Records)

(Tannen Records/Audioglobe)

Il nuovo album dei bolognesi TERMINAL SICK intitolato 'Nothing More' è finalmente disponibile in versione fisica e digitale, e dalla biografia si può leggere che i Terminal Sick sono la nuova espressione del metalcore italiano. Prodotto, registrato e mixato da Dualized ed Eddy Cavazza (dysFUNCTION Productions) nei Zeta Factory Studio (Carpi) e masterizzato da Troy Glassner agli Spectre Studio (Seattle-Usa). Sarà, 'Nothing More' riesce ad essere un album moderno senza scimmiottare nessuno. Esiste forse una somiglianza con i Killswitch Engage oppure gli All That Remains, normale dunque ascoltare potenza estrema e melodia alternarsi continuamente. Inserti elettronici ed una dose massiccia di riffing mid tempo portano la band a far piegare testa e gambe all'ascoltatore. Headbanging moderno...Tutto sommato si tratta di un buon lavoro anche se non si tratta di nulla di realmente clamoroso. Va sottolineata l'ottima produzione a la cura dei suoni. Piero Marcon

Pneuma come soffio vitale, come prana, come aria, come vita. ‘Pneumonia’ si muove al ritmo del respiro: lascia dilatare lo spazio di apnea per poi affondare insidioso in un espirazione verso l’inferno. Talvolta la gravità diventa quella degli Earth e si allarga in un drone esistenziale, oppure diventa eterea come l’anima che cerca di innalzarsi verso la salvezza. Davide Gherardi, Alessandro Zanotti, Enrico Baraldi e Riccardo Bringhenti sono bravissimi a condensare sospensioni spazio-temporali che poi affondano in aggressioni maledette. Il doom spirituale degli Ornaments conosce notti sonore da cui la fenice si risveglia scrollandosi la cenere di dosso (‘Pulse’) e riprende a far battere il proprio cuore secondo pulsazioni minimali (‘Aer’). Tra bagliori luminescenti e percorsi nell’ombra il dolore viene accarezzato da un respiro vivificante (‘Breath’), mentre nel corpo spaccato appaiono le piaghe della sofferenza cristica. Allora è sangue, è urlo, è redenzione (‘Spirit’). L’ossessione non fa in tempo a concedersi alla morte, perché il volo interrotto di ‘Pneumologic’ è pur sempre un tentativo di redenzione. Barbara Volpi

Sono passati circa tre anni dal già notevole esordio ma questi giovanissimi polacchi riescono a basirci ancora una volta spingendosi ormai, e definitivamente, ben oltre i dettami della scuola Sunn O))), Isis, Godflesh che ne aveva contraddistinto gli 8,5/10 inizi, trasformando il loro sound per questo secondo album in un vero e proprio viaggio ipnotico, glaciale, post isolazionista. I nomi appena citati inquadrano abbastanza inequivocabilmente il genere musicale in cui si muovono i nostri, un post/metal sperimentale quasi completamente strumentale, se si fa eccetto per i molti sample vocali campionati, filtrati ed usati in maniera sparsa ma efficace lungo tutto l’album. Con tutto il rispetto per i sacri nomi che hanno indubbiamente influenzato il sound degli EOY, sorprende ed affascina la spiccata attitudine dei nostri nella cura dei suoni: Michal Sliwa e Mateus Sczech sono una vera e propria fucina sonora, cosa che potrebbe far apprezzare questo album anche agli amanti della musica ambient ed industrial essendo i nostri, dal punto di vista chitarristisco, completamente slegati dalla “forma canzone” più tipicamente metal. Riccardo Centodon ALEX DE ROSSO ‘Lions & Lambs’ (Defox Records/Andromeda Relix)

Alex De Rosso è motivo di vanto per i nostri connazionali e sberla indiretta a coloro che piangono miseria maledicendo la propria nazionalità, spesso bistrattata in campo hard’n’heavy. Sono più di trent’anni che il capelluto chitarrista padovano allieta di note tricolori la palude hard, ma sono quasi 15 le stagioni che ci sepa7/10 rano dal suo terzo lavoro solista. L’attesa è terminata da poche settimane, con ‘Lion & Lambs’ a urlare la sua autorità negli store digitali e fisici, forte di una compattezza stilistica che pesca a piene mani da Dokken, Winger e Lynch Mob, con qualche svisata Vanhaleniana e pizzicotti alla melodia ruffiana dei Toto. Date queste premesse, non sorprende che amici personali di Alex (membri delle succitate band) e idoli di molti di voi compaiano in veste di ospiti in queste dieci tracce di rock variopinto, zeppo di refrain cantabili a tutte le età. In grande spolvero anche la sua determinazione vocale, che non sfigura di fronte ai più quotati colleghi, adeguatamente duttile per supportare le calde ballate aromatizzate di umori yankee (‘Your Mirror’, ‘Chasing Illusions’), talora risolte in clangori elettroacustici. La chiusa di ‘Them Bones’ indica gli Alice In Chains tra le influenze, ma stranamente difetta di quel carattere altresì vigente nei 40 minuti precedenti. Pazienza. Intanto: bentornato, Alex! Filippo Pagani

5,5/10 BENEA REACH ‘Possession’ (Spinefarm/Universal)

Sono considerati ‘i futuri leader del metal norvegese’, ma in realtà i Benea Reach, giusnti al terzo disco, sembrano proporre una sorta di metalcore che si fa ascoltare, ma che appena premuto il tasto ‘stop’ scivola via dalla pelle e dalle orecchie. Non c’è niente di particolarmente sbagliato in questo “Possession”, ma non c’è neanche niente di particolarmente giusto. La maggior parte del tempo sembra di ascoltare brani già sentiti altrove, mentre quando ci si imbatte in qualcosa di innovativo sembra totalmente fuori contesto, piazzato in mezzo ad una canzone senza una logica precisa (esempio: ‘Desolate’, in cui in mezzo a urla belluine si trova una parte centrale molto d’atmosfera, con un duetto quasi crooner fra voci maschili e femminili bello, ma quasi senza senso). Non c’è dubbio, però, che la voce molto malleabile di Ilkka, unita ad un groove spesso intenso, possa attirare le nuove leve del pubblico, avvicinandole al metal: ma in questo campo la Norvegia offre ben di meglio. Paolo Bianco

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ate leggere queste pagine ad un amico, e chiudete gli occhi. Il vostro compare menziona un nome che profuma di leggenda e cultura sotterranea: Mario ‘The Black’ Di Donato. Se nell’arco di uno schiocco di dita pensate ad una sventolante bandiera italiana sormontata dal viso vagamente “Depiscopiano” del mostro sacro abruzzese (fermamente legato alla sua terra, che lo ha soprannominato ‘Il Lupo’ e ‘Guerriero d’Abruzzo’), siete sulla buona strada. Se davanti a voi si profila invece il buio assoluto, non vi resta che fare ammenda (esattamente come gli organizzatori italiani, “che mirano soprattutto a promuovere band estere”) e imparare dalle righe che vi separano dalla fine dell’intervista. E’ con onore e profondo rispetto che accogliamo tra noi Mario Di Donato, sostenitore di Metal Hammer – specialmente in questo periodo critico – e artista poliedrico che ha donato la sua anima alla causa del metal tricolore. Uomo appartenente ad una categoria alquanto rara in Italia, Mario è anche perspicace pittore, maestro nelle arti figurative; attivo, inoltre, sin dagli anni 70 che erano appannaggio del prog oscuro. Ma è nel

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Ora E Per Sempre

decennio successivo che si rivela in qualità di sommo aizzatore dell’heavy e del doom, generi da cui ha contratto un debito felicemente liquidato sull’onda di elaborazioni stilistiche additabili a lui soltanto. Pilastro degli Unreal Terror e dei Requiem, il Di Donato che vi presentiamo, oltre ad essere il fondamento dei The Black (progetto), è un modello di erudizione, umiltà e profonda coscienza antropica, che si compiace del fatto che i nostrani Visioni Gotiche abbiano scelto un suo dipinto (“risalente al 1975 e ispirato sia da D’annunzio che dal fiammingo Pieter Bruegel”) come copertina del loro imminente sforzo in studio… Dopo la medusa di ‘Gorgoni’, attendevamo un album inedito. Invece, assieme alla Black Widow che tenne a battesimo la prima versione, hai voluto ristampare ‘Refugium Peccatorum’ (1994), che a sua volta recupera le sensazioni e le idee più importanti di quanto espresso fino a quel momento. Come ti sembra, riascoltato oggi? “Risentendo tutta la prima parte

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dell’album, non mi è sembrato affatto datato rispetto ai suoni contemporanei. Anzi, con mio stupore ho apprezzato tantissimo le ‘vecchie’ sonorità, perché onestamente possono creare sensazioni ancora oggi. E possono ancora di più sottolineare il progetto ‘The Black’, che tende a catturare la parte psicologica dell’animo umano cercando di condurre l’ascoltatore a dimensioni più vicine alla propria vita e al proprio modo di essere.” I tre pezzi inclusi come bonus (tra i quali spicca la cover di ‘Hallow’s Victim’, in origine dei Saint Vitus) riflettono un approccio forse ancora più carnale, di heavy metal scarno e volutamente rudimentale, nonostante risalgano tra il 2000 e il 2010… “Sono senz’altro una nuova linfa per ‘Refugium Peccatorum’. Alla pari dei primi 11 pezzi, vogliono comunque completare l’emozione e la riflessione umana di fronte ai propri errori, dove solo la coscienza potrà valutare le difficili strade, sbagliate o meno, sempre con il presupposto dell’imperfezione degli esseri umani. Ricordo che quando suonammo dal vivo ‘Obscura Nocte’ nella trasmissione ‘Help’ di Red Ronnie, questi si complimentò per l’intricata composizione del pezzo che, a suo avviso, poteva fare da una colonna sonora di un film particolare e dalle tinte oscure.” Sei stato tra i primi a inoculare il misticismo all’interno della tua musica, heavy metal arcano e non scevro di barocchismi ed epos mediterraneo. Per te cosa rappresenta, in poche parole, il “misticismo” coniugato all’arte sonora e visiva?


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“Vedo con piacere che la tua analisi su tutta la mia produzione ti ha illuminato, e ti ha fatto capire a fondo che il senso artistico e la linea mistica che ogni mio pezzo vuole esprimere fanno parte della mia vita come in un tunnel forte e capiente di emozioni, dove tutto mi è permesso e tutto mi aggrada. Evidentemente questo modo di comporre musica e la mia arte pittorica rivelano marcatamente – solo se inscindibili – il passato vissuto nel mio paese, Pescosansonesco. Là, dove anche le pietre, le acque e gli alberi apparivano come baluardi sacrali, a cui la storia stessa e le credenze popolari o cristiane si sono ispirate nei secoli; costruendo nel tempo un bagaglio prezioso che ho assorbito e custodito ancora oggi come un incredibile tesoro che mi ha dato tante soddisfazioni e riconoscimenti.” Sei il fondatore del movimento denominato ‘Ars et Metal Mentis’. In cosa consiste? E a quanto ammontano gli affiliati? “L’Ars et Metal Mentis’ non è altro che l’accostamento indivisibile tra Arte e dark metal dell’anima, quindi una rarità nel circuito metal che sicuramente prenderà posto importante nei generi distinti del rock mondiale, per arrivare all’Ars Mentis di ‘The Black’. I Requiem, con il loro ‘Metal Mentis’, hanno sicuramente fornito la base principale per la costruzione di questo genere. Si parla spesso di band mondiali che sono state influenzate dal sound sia dei Requiem che dei The Black: soprattutto in Italia, alcune di queste band utilizzano la lingua latina nei titoli. Stessa cosa, mi risulta, anche per molti gruppi tedeschi. Spero che col tempo ci sia una vera fusione di lingua latina e sound ‘Blackiano’, tale che questo movimento, dall’unicità assoluta, sia continuativo nel tempo.” Di te, Mario, rocker, metallari e musicomani in genere conoscono soprattutto la sfera musicale. Ma c’è anche il Mario pittore, le cui opere hanno fatto il giro del mondo, scatenando probabili ‘sindromi di Stendahl’ tra gli ipnotizzati osservatori. Chi sostiene che la pittura abbia smarrito il fascino che inglobava in passato, chi la ritiene un mero accessorio per manifesti, copertine di dischi e di libri… Hai un’opinione sullo stato di salute dell’arte figurativa, nell’Italia del 21esimo secolo? “Esplosioni di nuovi movimenti monumentali artistici non ce ne sono stati. In passato abbiamo appreso il Cubismo di Picasso, la Metafisica di De Chirico, il movimento Impressionista francese o la fortunata linea dei Futuristi italiani dei primi del ‘900, che costruirono la linea universale e incancellabile di tutta la storia dell’arte. Se è vero che l’arte è l’espressione che rende libertà assoluta all’essere umano, questa non avrà mai fine e sarà sempre un mezzo poliedrico di comunicazione e di civiltà; un mezzo che susciterà fortissimi interessi, per generazioni e generazioni, le quali studieranno sempre l’evoluzione e le mentalità di espressioni artistiche fondamentali per il ‘modus vivendi’. Questo è il secolo dell’utilizzo delle forme d’arte moderne, come quella digitale. Anche la grafica usata per le pubblicità o cover di dischi è ben accetta in questa evoluzione temporale, purché l’artista conservi ancora il senso personale e espressivo appropriato esclusivamente all’arte pittorica.” Hai mai avuto contatti o scambi di opinioni con altri seri musi-pittori, alcuni dei quali hanno illustrato le copertine dei loro dischi? Pescando nel magro mucchio: dai nostrani Battiato, Mingardi e Paolo Conte, ai più rockettari Tico Torres e Marilyn Manson, sino ai ‘nobili’ Leonard Cohen e Joni Mitchell… “Mai avuto il piacere di scambiare opinioni con questi artisti, anche se conosco le copertine di Battiato, Marilyn Manson e Joni Mitchell. Proprio in questo periodo sto concretizzando l’idea di selezionare delle opere di musi-pittori (come tu li hai chiamati), orientati soprattutto

nel genere rock/metal, per poter dare vita ad un’esposizione di opere d’arte di importanti musicisti.” Cosa ascolti quando dipingi le tue opere, spesso velate di religiosità? E quali immagini/quadri/opere invadono la tua mente mentre componi? Quando dipingo mi piace ascoltare musiche di Bach, musica corale sacra e logicamente tutto quello che è metal. L’organo a canne rinascimentale e Settecentesco sono gli strumenti che mi danno più emozioni e che mi trasportano in campi mistici e religiosi infiniti. Le mie composizioni musicali, invece, possono nascere anche in situazioni abituali come alla guida della macchina, in una sala d’attesa o in solitudine. Non manca l’influenza visiva di elementi architettonici o scultorei come capitelli, sculture gotiche e statue lignee. Soprattutto non mancano gli elementi figurativi ed essenziali della mia pittura, che completano la mia inesauribile sete artistica e musicale.” Gli anni passano per tutti, le stagioni si accavallano... E’ ancora e sempre “il Nero”, il colore che predomina in Mario Di Donato? “Sarà ‘il Nero’ il colore di sempre. The Black sarà sempre più ‘Oscuro’ ricercatore dell’anima umana e delle sensazioni dell’uomo; l’uomo costretto a misurarsi giorno per giorno con problematiche esistenziali, politiche, religiose. Una lotta cruenta senza fine saranno tracce essenziali

Un’opera prima disseppellita dallo stantio, un disco da custodire gelosamente, una reliquia che ha smesso di gracchiare. A vent’anni dal debutto sul mercato, in tiratura vinilica, il nobile ‘Refugium Peccatorum’ pesca la carta dell’edizione in Cd. Non c’è occasione migliore per addentrarsi nell’alveo “elevante” di Mario ‘The Black’ Di Donato…

per la musica di Mario ‘The Black’ Di Donato, oscuro guerriero del passato, del presente e del futuro.” Amen. FILIPPO PAGANI

Mario ‘The Black’ Di Donato – voce, chitarra Eugenio ‘Metus’ Mucci – voce Enio Nicolini, Belfino De Leonardis, Amedeo ‘God Dragon’ D’Intino – basso Emilio Chella, Giuseppe Miccoli, Gianluca Bracciale – batteria Jan Bernardi, Sasha Buontempo – tastiere www.theblackband.it www.myspace.com/theblackatratus


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Folle, geniale, imbarazzante, provocatorio... Il metal a volte è un ‘semplice’ SHOCK!

di Fi A cura

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ittime dell’indifferenza, bistrattate, ad un passo dall’estinzione. Oasi cittadine, zone protette dalla smania del consumismo becero, dove la cifra da versare – per quanto ingente – viene erogata con volti tondeggianti e sorrisi a 33 (!), oppure a 45 (!!) denti. I mega-store li hanno detronizzati, fino quasi a ridicolizzare la figura del fruitore di musica. Nella fiera della plastica a prezzi esorbitanti non c’è spazio per la passione: i commessi sono annoiati biscazzieri di periferia, mentre la restante umanità assunta in loco è ferrata sullo scibile delle sette note al pari di un analfabeta sulla biologia molecolare. Eppure, aggirandosi tra le arterie d’asfalto, è ancora possibile imbattersi nell’insegna sgualcita di un negozietto colmo di poster, vecchie t-shirts, magazine specializzati, qualche biografia in odor di stantio. E cimeli. A frotte. In rigoroso formato vinilico. Che vi guardano dalle pareti, dietro il cellophane. Incasellati negli scaffali, in ordine alfabetico, pronti all’effetto domino scatenato dagli utenti; gli abitudinari, muniti di pupille selettive e dita tarantolate. In questi ritrovi di interscambio culturale alcuni ci passa(va)no pomeriggi interi: oltre alla ricerca della futura reliquia, vi si ricama(va)no dibattiti musicali, lunghe conversazioni farcite di aneddoti, battute, flashback dei concerti, risate. Vi è inoltre la sicurezza, un giorno, di poter reperire le ultime tessere, completare la propria collezione privata e accedere così alle chiavi che garantiscono la libertà, che scardineranno le serrature del paradiso del rock… Ma se il negozio è deserto?! No problem. Meno parole e più concentrazione: diretti allo scopo. Aggirandovi tra gli arredi portadischi potreste anche sen-

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tirvi osservati, a mo’ di esempio, dal sulfureo mostriciattolo che campeggia su ‘Abominog’, discreto successo dei rivitalizzati URIAH HEEP, che nel 1982, forti di una line-up svecchiata, lun-

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go 5 inediti e altrettante cover gozzovigliarono sull’agile cresta di un meticcio heavy/hard su misura per il passe-partout radiofonico. Reduce dal fiasco commerciale di ‘Conquest’, la ciurma di Mick Box predilesse un’icona davvero efficace: brutta o bella, non sfila via inosservata. In 31 cm quadrati – il libretto Cd ne conta appena 12 – l’impatto è assicurato; normale che nella mente dell’indiscreto tracimi repentina la brama di scoprire che razza di sound possa celarsi sotto quel ghigno bavoso… Aggiudicato! Proseguite la ronda; nulla di appetibile alle lettere V, W, X e Y. Giunti alla Z, stranamente, è la vecchina dei thrashers ZNOWHITE a calamitare il vostro sguardo. Ipnosi? Suvvìa, meno fantasie. Vi interrogate, piuttosto: con quale coraggio è possibile divulgarne il faccione – alquanto sinistro, causa innaturale fonte di luce che lo rischiara – ai quattro angoli del globo, quando è il viso angelico di una cantante, la giovane Nicole Lee, il carattere distintivo del collettivo di Chicago? La tentazione dell’acquisto è agevolata dal prezzo, più basso di un cappuccino al bar… Preso! Una volta a casa, previa documentazione, vi accorgerete che gli elementi grafici e letterali di ‘Act Of God’ (traducibile in ‘legge di Dio’, oppure ‘cause di forza maggiore’, quindi indicante catastrofi di cui l’uomo non è responsabile) modellano un puzzle dai connotati eccentrici. Leggendo i testi, subodore-

rete l’aroma della perseveranza di chi è duro a morire – malgrado il gruppo si sia sciolto nel’89, l’indomani del debutto – miscelato con quello della sconfitta istantanea, parente dell’ingiustizia. Ossia le entità prospicienti della palla 8, cuspide nelle partite a biliardo ma anche giocattolo usato per pronosticare la fortuna. Una palla nera con pois bianco, impugnata da una zingara con (presunte) facoltà da veggente… E che dire dei RAMMSTEIN, celebri ed eccellenti interpreti della Neue Deutsche Härte (connubio tra metal, industrial ed elettronica)? Impossibile trascurare il poster con le sei copertine di ‘Sehnsucht’ a loro accostate. E’ la negoziante, una tipetta dalla chioma corvina, a svegliarvi dalla ‘Sindrome di Stendahl’ in cui siete caduti. “Ognuno nella band è ateo, e induce in noi la sensazione di essere costantemente puniti. Ma non siamo i soli”, recita testuale da una rivista del 1997, anno d’uscita del disco. ‘Sehnsucht’ è

il ‘desiderio’, un bisogno che trae ossigeno dal protrarsi di qualsiasi limitazione e impedimento, anche per mezzo di forchette e altri arnesi da cucina utilizzati in modo impro-

prio. E giù di traduzioni: dall’incesto di ‘Tier’ (‘Animale’) si transita per la cafonaggine inguinale di ‘Büch Dich’ (‘Piegati’), sino a ‘Küss Mich (Fellfrosch)’, che della passera pelosa è un omaggio, ‘baciato’ da uno spasso lessicale tra il fascino e il disgusto – cercatevi i significati di ‘Fell’ e ‘Frosch’ e avrete un’idea. “Le femministe ci odiano – prosegue, dalla carta stampata, il frontman Till Lindermann – ma sono le donne a seguirci con più ammirazione, a rispecchiarsi nelle nostre liriche. Sanno che il sessismo di cui sono protagoniste è una maniera, forse un po’ estrema, di prenderci cura di loro, di mostrarne i sentimenti. Circa il resto, provo a penetrare nella testa di persone abiette e amorali, per capire e descrivere i perché accadano simili porcherie”. Da aggiungere alla lista! Nel frattempo è entrato un parruccone con jeans attillati e maglietta dei DESTRUCTION. Il suo ‘Release From Agony’, in edizione speciale, è una perla di thrash teutonico datato ’88, ultima stagione aurea, che attende il legittimo proprietario. Siete all’oscuro dei contenuti, ma la proiezione scomposta e altamente deformata di quel mezzobusto appena prosciolto dal coma vi suggerisce che un giro alla mostra di arte figurativa non ve lo leva nessuno. Sorrisetto alla cassiera; scucite il contante; salutate. Il vostro pomeriggio libero volge all’imbrunire. Vi sbrigate a imboccar l’uscita, non prima d’intascarvi il cartoncino da visita del negozietto. Perché ritornerete. Già. Eccome se ritornerete!


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Nonostante i britannici Heaven’s Basement debuttino solo oggi con la loro prima fatica discografica, da tempo i principali palchi europei e statunitensi raccontano delle gesta di questi quattro rocker. Un precorso artistico singolare che ha portato i quattro di Manchester a divenire una interessante realtà nel panorama hard rock continentale. A presentarceli è il bassista Rob ‘Bones’ Ellershaw. li Heaven’s Basement sono un piccolo fenomeno capace di recitare un ruolo a sé nell’affollatissimo panorama rock europeo. Nonostante la band di Manchester sia arrivata solo oggi alla realizzazione del disco di debutto, il positivo ‘Filthy Empire’, già da qualche anno i palchi di mezzo mondo sono incendiati dalle performance dei quattro britannici. E non palchi qualsiasi, ma stage capaci di segnare per sempre la carriera di una band. Se Papa Roach, Buckcherry, Theory of a Deadman, Shinedown, Blind Melon, Hardcore Superstar, Tesla, Madina Lake, D-A-D, Thunder, Black Stone Cherry… sono solo alcune delle band con le quali gli Heaven’s Basement hanno potuto dividere la scena, da tramandare agli annali è sicuramente la data tenuta allo stadio della natia Manchester di supporto ai Bon Jovi davanti a 50.000 fan in delirio. Un memorabile traguardo per molti, un buon punto di partenza per questa rock band che, dopo essersi rodata per bene on the road (e

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Reaching For Heaven

aver testato musicisti su musicisti prima di trovare la giusta line up), si lancia finalmente nell’avventura in studio, con risultati davvero soddisfacenti. Come soddisfatto appare Rob ‘Bones’ Ellershaw, bassista nonchè portavoce della band nell’intervista che segue, Gli Heaven’s Basement contano su una forte reputazione live ma giungono solo oggi al debutto discografico. Ti va di ripercorrere brevemente la storia del gruppo? “Il gruppo è nato originariamente nel 2008 ma è attivo con questa line up da appena due anni. La nostra natura di band fortemente incentrata sull’attività on the road ha messo a dura prova i musicisti che si sono avvicinati a noi, e questo ha reso difficile trovare una formazione stabile. Abbiamo speso davvero tanto tempo nella ricerca del cantante giusto, e quando nel 2010 abbiamo trovato Aaron, è stato come trovare la quadratura del cerchio. La registrazione del nostro disco di debutto è stato solamente il culmine di anni di duro lavoro, nel corso dei quali è andata facendosi sempre più chiara l’idea di come dovesse suonare la nostra band. La realizzazione del disco è stata un vero e proprio lavoro di squadra, che ha impegnato tutti noi dall’inizio alla fine, partendo dalle parti vocali ed

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arrivando alle parti di batteria” Per chi ancora non vi conosce, come pensi possa essere inquadrata la vostra proposta sonora? “Penso che il nostro sound riprenda quella lezione impartita dalle grandi band rock del passato, rivisitandola e rinfrescandola parecchio. La base del nostro sound è nelle classiche rock band britanniche, dagli Zeppelin ai Rolling Stones, passando per i Queen ed i Black Sabbath. Ovviamente ci piace anche roba più moderna, ed in questo caso gli ascolti sono decisamente vari… diciamo che amiamo tutto quello che si può collocare tra i Muse ed i Rage… e poi ovviamente non disdegniamo un’ascoltata a generi più di nicchia. Amiamo i riff imponenti tipici del rock, uniti a show estremamente energetici” Quale è stata la cosa più importante che avete appreso lavorando al vostro disco di debutto? “Penso che siamo tutti dei grandi perfezionisti e soprattutto siamo i nostri critici più esigenti. Sapevamo che non ci sarebbe stata una seconda chance per realizzare il disco di debutto, quindi abbiamo posto l’assicella davvero in alto, prendendo come punto di riferimento debut album del calibro di ‘Appetite For Destruction’ o ‘Rage Against The Machine’. Credo che la cosa più importante della lavorazione di questo disco sia stato il grado di coinvolgimento di ognuno di noi… nessuno è stato messo


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in secondo piano e tutti sono stati protagonisti del processo di songwriting… in questo modo l’atmosfera in studio era davvero vibrante. La sfida maggiore è stata il riportare anche su disco la nostra carica live. Come detto gli Heaven’s Basement sono sempre stati una band live, ed era importante ricreare la stessa attitudine anche su ‘Filthy Empire’. Il mondo è pieno di band che spaccano sul palco ma non riescono a rendere su disco… noi volevamo sovvertire tutto questo e far vedere al mondo anche su disco, quello che vale la nostra band” C’è un pezzo in questo disco che credi incarni alla perfezione l’essenza del vostro sound? “Sicuramente ‘Fire, Fire’. E’ una grande rock song, che pompa l’adrenalina nel mio corpo ogni volta che la ascolto. Sono sicuro che, chi non ha mai ascoltato la nostra musica, mettendo su questo brano si potrà fare una buona idea su quello che sono gli Heaven’s Basement. C’è un assolo, nel mezzo del brano, che mi manda fuori di testa…” Da un punto di vista lirico dove vanno a parare i vostri brani? “C’è un filo conduttore che unisce tutte le canzoni del disco, ed è legato al desiderio di cogliere il momento, di vivere la vita al momento assaporandone ogni aspetto perché il tempo passa inesorabile e bisogna saper godersi l’attimo. Per un disco di debutto, mi pare che sia un concetto abbastanza esplicito” Come vede, una band emergente come la vostra, il mondo di internet e tutto ciò che è ad esso collegato? “Internet da sicuramente una grandissima mano a gruppi come il nostro, dandoci la possibilità di rimanere costantemente in contatto con i nostri fan e di diffondere la nostra musica in ogni angolo del mondo. Strumenti come Facebook e Twitter sono sensazionali perché ci permettono di dialogare direttamente con chi ci segue, tenendoli aggiornati costantemente sull’attività del gruppo. Youtube, poi, è molto utile per far vedere e far sentire quanto vali. Oggigiorno ci sono tantissimi gruppi che bazzicano la scena, è difficile ritagliarsi un proprio spazio e acquisire visibilità, e internet in questo senso può essere un importante aiuto” Avete già programmato il tour di supporto all’album? “‘Well, ‘Filthy Empire’ è uscito il 4 febbraio ed adesso è nostra intenzione suonare più show possibile e portare la nostra musica a tutta quella gente che ha voglia di tornare a sentire del buon rock. Al momento abbiamo diversi concerti in programma ma ci è stato prospet-

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tato anche un grosso tour del quale non voglio dire ancora nulla per scaramanzia (E’ stato successivamente confermato un tour europeo ad Aprile insieme ai Black Veil Brides, con tre date anche in Italia Nda). Inutile dirti che non vediamo l’ora di incominciare a suonare le nuove canzoni dal vivo” Papa Roach, Buckcherry, Bon Jovi, Tesla, Hardcore Superstar… sono solo alcune delle band con le quali avete avuto la fortuna di esibirvi. Qual è la cosa più preziosa che avete appreso da questi show? “Penso che ogni volta abbiamo cercato prendere un poco da ogni band con la quale abbiamo avuto l’onore di condividere il palco, e credo che questa sia la cosa migliore da fare se si vuole realmente crescere. Non devi mai uniformare il tuo spettacolo, farlo diventare qualcosa di standard… ogni sera il tuo show deve essere qualcosa di unico ed irripetibile, se no il rischio è quello di far crollare l’interesse attorno al gruppo dopo la fiammata iniziale. Noi non vogliamo correre questo rischio e ti assicuro che non assisterai mai ad un concerto degli Heaven’s Basement uguale ad un altro…Ho recentemente letto un articolo sul concerto di reunion dei Led Zeppelin, e ricordo che Jason Bonham disse che, proprio prima di salire sul palco, Robert Plant andò da lui dicendogli “Pensa solo a divertirti, perché nessuno al mondo potrà portarti via questo momento”. Ed è tutto dannatamente vero. Quando sei sul palco ti senti il padrone del mondo, ti senti onnipotente e non c’è una sensazione migliore al mondo” Qual è il ricordo più bello che conservi della vostra attività on the road? “Quando abbiamo finite di registrare ‘Filthy Empire’ e siamo volati in America per suonare al Download Festival. Dovevamo suonare la domenica sul terzo palco a mezzogiorno e, onestamente, ci aspettavamo una risposta modesta da parte del pubblico. Ed invece durante le prime due canzoni abbiamo iniziato a vedere le tende attorno a noi svuotarsi e l’area concerti riempirsi all’inverosimile. Pensa che l’organizzazione ha dovuto mobilitare una security di emergenza perché non si attendeva così tanta gente sotto il palco per il nostro show. E’ stato indimenticabile” FABIO MAGLIANO

Aaron Buchanan – voce Sid Glover – chitarra Rob ‘Bones’ Ellershaw – basso Chris Rivers – batteria www.heavensbasement.com


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Flim, libri e opere d’arte che alimentano il culto dell'heavy metal

i filmacci azzardati e involontariamente comici è costipata la storia del cinema. Ma se imbocchiamo alcuni corridoi sotterranei, dove non si ha la pretesa di imbattersi nella solita video-minestrina che accontenta tutti, ci accorgeremo che causticità e surrealismo spiccio rappresentano le migliori armi per difenderci dall’avvento di un orrore troppo grande per essere illustrato. Di trattamenti sull’Anticristo e il suo passaggio nefasto in questa valle di lacrime se ne dipingono decine al giorno nel ventre rigido degli ambienti ecclesiastici e teologici, incuranti forse che il pianeta ha già subìto l’onda del maligno sotto le sem-

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bianze di Napoleone Bonaparte prima e Adolf Hitler poi. Di ipotesi sulla venuta di un terzo guastatore che metterà a tacere le nostre misere

Sottovalutato dalla critica colta, avulso al baricentro geografico del cinema di spicco, l’unico film al mondo che mostra l’urticante potere metafisico del metal estremo si rivela una fucina di idee piccole ma brillanti. Che variano dal grottesco al sarcastico, dall’eretico al beffardo. 94 METAL HAMMER

esistenze se ne parla a sproposito, sempre e comunque, perché si è soliti credere alle profezie di un certo Nostradamus. Stando invece alle attente letture di padre Angel Berriartúa, sacerdote di Bilbao che ha decifrato l’Apocalisse di Giovanni, il nemico giurato di Cristo imporrà il suo lento ma letale dominio a partire dalla notte di Natale del 1995. Per l’esattezza, esso sorgerà a Madrid. Il sito prescelto è ancora avvolto nel mistero… L’incipit di ‘El Día de la Bestia’ sembra promettere fumi di zolfo shakerati con vapori di Sangria: un mix esilarante, sì, ma anche castrante per quella (larghissima) fetta di cinefili che ispeziona con sospetto le opere latine concepite fuori dai confini statunitensi, per giunta dirette da registi che non vantano parentele (artistiche o addirittura biologiche) con Pedro Almodovar. E si sbagliano! Alex De La Iglesia apparterrà anche alla cricca dell’animazione underground,

in volta attraverso masochistiche pratiche punitive. Lo scopo è palese: attirarsi le simpatie del maligno, così da mettersi in contatto con il Real-caprone medesimo e freddarlo a tradimento, scongiurando l’imminente catastrofe. Le vicendechiave della trama si svolgono a tramonto avvenuto, al riparo dalla fastidiosa luce diurna, quando l’ignaro popolo ultima la staffetta del consumismo e infine, esausto ma felice, si rifugia tra le pareti domestiche in attesa del Signore celeste. Ed è sempre nottetempo che si manifestano i primi, isolati segnali di avvertimento: una gang di delinquenti corregge le imperfezioni antropologiche della metropoli uccidendo tossici, barboni e chiunque rientri nella categoria dei cosiddetti rifiuti sociali. Diffondendo il Male sotto la firma “Limpia (trad: pulisci) Madrid”, preparano a dovere l’imminente visita del Principe delle Tenebre. L’intuito e soprattutto un foglietto sgualcito recante la scorretta pronuncia spagnola di tre istituzioni hard’n’heavy – Napalm Dez, Iron Meiden e Hace de Cé – guidano il sacerdote all’interno di un negozio di dischi specializzato in metallo gretto e incandescen-

ma questo suo secondo lungometraggio con individui in carne e ossa riflette appieno i crismi della “commedia d’azione satanica”, come da lui definita. La capitale spagnola in cui giunge il parroco è piovosa, buia e caotica, un alveare di inciviltà mal repressa avviluppata in abiti rustici; una metropoli perfettamente allineata alle intenzioni del sant’uomo, che approfitta di alcune situazioni a rischio-nefandezza per commettere ogni tipo di crimine, dall’aggressione al ladrocinio (‘scherzi da prete’, li definiremmo con una punta di cinismo), espiati di volta

te, gestito da un tripponcello sulla trentina, Josè Marìa, sciroccato e un poco sozzone; in altre parole, l’incarnazione di uno stereotipo altamente offensivo e duro a morire. Ci sarebbe il pretesto per un’infornata di brutalità gratuita, imperniata sui vecchi Venom e Slayer; invece una rapida selezione dei vinile (tra i quali s’intravede l’eponimo degli alternativi Big F, puro culto!) proietta sul giradischi miasmi più recenti, profusi da collettivi apparentemente meno “dichiarati”. Spunta la rarità in vinile, uno split (‘Live Death’) comprendente le esibizioni al Milwaukee Metal Fest edizione 1992 di Malevolent Creation, Cancer, Exhorder e Suffocation, gli ultimi dei quali eruttanti la vigorosa ‘Jesus Wept’ in una versione-studio. Imprimetevelo nelle meningi: ad eccezione dei Cannibal Corpse in

Un Nemico Alla Porta

EL DÍA DE LA BESTIA


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‘Ace Ventura’, nessun altro film scaglierà nelle vostre orecchie stralci di brutal death allo stato brado! Spunta anche il demo in cassetta dei Satannica, fittizia band ispanica autrice di un death metal tradizionale che a giudizio del goffo Josè Maria (Santiago Segura, il versatile attore che lo incarna, in realtà impazzisce per Frank Sinatra) propizierebbe l’incontro col diavolo. Il rapporto tra il prete e il ragazzo si intensifica, in nome di una disperata missione alla quale si aggrega il professor Cavan, ciarlatano di origine italiana (il romano Armando De Razza) che malgrado il suo innato scetticismo conduce un seguitissima rubrica esoterica in Tv. Questa è la machiavellica Trinità che aiutata da Dio e ostacolata da Satana tenta con ogni mezzo di salvare il pianeta, attraverso anche un graduale sviluppo delle dinamiche interpersonali. Il giovane si lancia nell’avventura per noia, salvo poi affezionarsi all’uo-

mo di chiesa, assai intelligente ma inibito da una vita consumata sui libri e quindi a digiuno del mondo reale. Il regista De La Iglesia aggiunge al trio un miniconvoglio di personaggi secondari di vario rango. Con la madre del metallaro, titolare di una pensione, frustrata, razzista e nostalgica dell’epoca Franchista, si issano le vele della critica sociale; col nonno, che si aggira nudo per casa coperto soltanto da una camicia di flanella, entriamo nella disamina apotropaica, visto e assodato che il vecchietto (ex hippy) viene quotidianamente nutrito dal nipote con dosi di acidi. La candida Mina, cameriera, contrasta infine con la nostrana Maria Grazia Cucinotta, irriconoscibile con caschetto biondo ma succo-

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sa nel suo apparire in lingerie rosso fuoco. Ad un cast nutrito di macchiette efficaci ed efficienti fanno eco dialoghi funzionali e al confine del grottesco, situazioni che sfiorano volutamente l’ironia e scene d’azione girate con piglio meticoloso, efficacemente scandite da una pletora di sputa-watt locali – scissi tra thrash tribale, crossover e cenni industrial – capeggiate dai Def Con Dos, a loro volta tenuti a guinzaglio dai più celebri Ministry, Pantera (con una azzeccatissima ‘By Demons Be Driven’) e, strano a dirlo, anche dai frivoli Sugar Ray. ‘El Día de la Bestia’ provoca, racchiude 100 minuti che traboccano alcuni dei limiti posti dalla comun decenza. C’è del coraggio nel dipingere una frangia di giovani musicomani alla stregua di balordi, alimentando di fatto i già troppi pregiudizi che i bigotti collezionano ai danni della sottocultura heavy. C’è della sana incoscienza nel mostrare veri rituali satanici che la finzione filmica non ha affatto alterato. Il risultato è consequenziale e logico: durante le riprese, staff e cast sono stati fatti oggetto di numerose minacce di morte mosse da gruppi religiosi... Il meccanismo d’intrattenimento orchestrato da De La Iglesia diverte, a tratti sospende il fiato con colpi di scena surreali, scatena rabbia tramite infamie ostentate col contagocce e condisce il tutto con levitanti atmosfere horror che omaggiano sottilmente un tris di cult del genere, con ‘Omen: Il Presagio’ in cima alla lista. Da accettare per quello che è: una messinscena parodistica e sboccata dell’invocazione al maligno, nel desiderio di annientarlo con le sue stesse armi. Da accettare perché la sua provocazione sa farsi intelligente, in quanto mira a instillare dibattiti e domande tra il pubblico… Non saremo certo noi a rovinarvi l’epilogo amarognolo della pellicola se vi riveliamo la location finale. Ossia la gigantesca piazza Castiglia, “rea” di ubicare le famose torri Kio: edifici convergenti l’un verso l’altro che, oltre a costituire la Porta d’Europa, secondo una forzatura cabalistica raffigurano uno dei simboli del demonio. I due grattacieli pendenti furono anche tra i bersagli degli attentatori dell’11 Settembre, data ormai storica, che ha simboleggiato uno dei potenziali, autentici giorni della Bestia. E se il pargolo infernale, antitesi di Gesù Bambino, fosse davvero nato quella notte tra 24 e 25 Dicembre 1995?! Ricordiamo che al tramonto del 2013 taglierà il traguardo della maggiore età… FILIPPO PAGANI


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SILVER HORSES A Horse With No Name!

(Giga) “I Silver Horses sono nati per suonare solo ed esclusivamente un genere di musica che ci piace, ossia il rock più vero, quello degli anni ’70, dai Led Zeppelin in poi. La voce di Tony sembrava in un primo momento improbabile, visto il suo passato heavy, ma invece è stata per tutti noi, lui compreso, una grande sorpresa…positiva!” L’album risplende di un’energia contagiosa, un groove magnetico che tradisce un’esperienza blues rock profonda e radicata. Condividete questa breve descrizione? Cosa vorreste fosse notato

avalli d’argento, oppure cavalli di razza del rock? Ce lo chiediamo dopo aver intrecciato un rapporto epistolare con Gianluca Galli e Matteo Bonini, metà formazione dei Silver Horses, autori del travolgente ed eponimo debutto discografico, un dischetto fatto di sudore e ritmo, di chitarre elettriche e vibrazioni vellutate, il

di questa band? (Bona) “Hai fatto centro, abbiamo in tutto e per tutto suonato quello che ci piace veramente e credo che questo nel disco sia decisamente evidente. Le nostre radici rock blues ed anche acustiche si sentono e ci fa piacere, ma vorremmo che fosse notata e ricordata la creatività, la dinamica, il feeling.”

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tutto sotto alla voce spettacolare di un certo Tony Martin. Incuriositi? Andate avanti con la lettura, allora… Ciao ragazzi, per rompere il ghiaccio vorrei sapere di più sul significato del progetto Silver Horses; attorno a quali basi è stato fondato il gruppo e quali sono i traguardi che vi siete posti?


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Accanto a brani congegnati perfettamente, arrangiati in modo professionale e supportati da una produzione eccezionale ci piace sottolineare le prestazioni sia di Gianluca Galli alla chitarra e Tony Martin dietro al microfono. Come è nata la collaborazione tra di voi ed in che modo ciascun membro ha contribuito alla gestazione del vostro album? (G) “Abbiamo contattato Tony ormai quasi tre anni fa ed abbiamo iniziato subito a lavorare benissimo insieme. Lui da principio si sentiva un po’ in imbarazzo, poco all’altezza della musica ed all’inizio pensavamo che scherzasse, ma poi, non avendo mai cantato cose del genere, era un po’ in difficoltà…ma si sbagliava! La sua performance è veramente fantastica, forse una delle migliori della sua carriera.” La sezione ritmica è compatta, “rotonda”, capace di registri profondi che scandiscono l’andamento, sempre variabile dei brani; in quale percentuale convivono impulsività e ragionamento nel vostro sound? (B) “L’impulsività fa da padrona. Creo le ritmiche di getto, senza troppo riflettere sulla teoria e mi faccio trascinare dal sound ed entro le prime tre take il gioco è fatto. Si parla di provini ovviamente, poi per arrivare alle tracce definitive un minimo di ragionamento ci vuole, ma ti assicuro che anche durante la registrazione dei brani l’improvvisazione ci sta eccome; difficilmente sentirai due passaggi identici all’interno di un brano fatti dal sottoscritto! La chiave di lettura del sound? No groove, no party!” Quali storie ha da raccontarci il cavallo metallico immortalato in copertina? Quali argomenti tematici possono essere accostati all’idea Silver Horses? (G) “Bella storia questa! Abbiamo discusso a lungo sulla copertina e l’immagine da dare alla band. In effetti il cavallo di acciaio post nucleare forse non ci descrive al 100%, ma la copertina piaceva a tutti e non risponde ai soliti cli-

chè. Silver Horses è una parola molto evocativa che sentiamo in ‘White Room’ dei Cream, nonché un bellissimo brano dei Badlands…speriamo di poter essere accostati a questi due esempi!” Country, folklore rock, hard settantiano ed un tiro spesso vicino al metal d’autore: un quadro raffinato, difficile da assemblare…ma come è successo? Quando vi siete accorti di avere tra le mani qualcosa di esplosivo che valeva la pena di essere distribuito al pubblico? (B) “Circa 3 o 4 anni fa io e Gianluca abbiamo iniziato a lavorare su dei brani che lo stesso Galli aveva tra i suoi hard disk. Sono rimasto sbalordito fin da subito dalle sonorità e da quanto groove ci fosse nonostante l’assenza del basso e della batteria; la spontaneità poi con la quale il tutto prendevano forma mi eccitava! Mi sono accorto subito che stava nascendo qualcosa di notevole e quindi ti posso dire che fin dall’inizio ero sicuro che prima o poi un disco sarebbe uscito….e così è stato.” La natura internazionale del gruppo, l’appropriata volontà di esprimere un sound senza barriere non fanno a cazzotti con la limitazione di essere un gruppo italiano? (B) “La produzione (7us media group) è tedesca, il manager (Gerd Krombholz) pure, l’art-designer polacco, Tony britannico, dire che siamo un gruppo italiano credo sia decisamente riduttivo. Internet ha stravolto ogni convenzione, ci sono molte realtà in giro per il mondo quasi completamente italiane che nel nostro Paese sono più o meno sconosciute. Ho avuto la fortuna di suonare in diverse band durante la mia carriera ed ho visto cambiare molto il mondo delle etichette, soprattutto indipendenti, negli ultimi 10 anni; ti posso dire che un tempo se ti proponevi cantando in inglese nessuno avrebbe intrapreso alcun tipo di discor-

Etichette bandite, libera espressione rock che ruba dal blues più fumoso e levigato sprazzi di lucidità metal. Un territorio inesplorato nel nostro bel Paese, un paesaggio di musica esaltante nel quale rullano gli zoccoli degli Silver Horses. so con te, mentre oggi è completamente l’opposto, si punta subito al mercato internazionale.” Alla luce di quello che ci avete appena raccontato, dobbiamo considerare i Silver Horses come una band vera e propria che godrà di un futuro, oppure si è trattato di un godurioso esperimento estemporaneo? (G) “Assolutamente si, una band che è già al lavoro da tempo per il secondo disco, che sta preparando delle date live per maggio e che sarà assolutamente in crescita, sia creativa che, speriamo, anche in termini di visibilità e risultati!” ANDREA VIGNATI

Tony Martin – Voce Gianluca (Giga) Galli – Chitarra Andrea Castelli – Basso Matteo (Bona) Bonini – Batteria www.silver-horses.com


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Redazione/Amministrazione PDC - C.P. 13043 20130 Milano Tel/Fax 02 36551321 Pubblicità Tel/Fax 02 36551321 E-mail: pdcproduzione@yahoo.it Layout & Paging: Sandro e Angelo Salvadori © Copyright 1995 Universa Medien Verlags GmbH Ernst-Mehlich-Straße, 6 - 4600 Dortmund, 1 I Diritti d'autore di METAL HAMMER ® il marchio e il logo sono di proprietà esclusiva di GREAT SALES LTD. E' vietata la riproduzione totale o parziale di articoli originali, traduzioni, disegni e fotografie senza previa autorizzazione scritta. Arretrati: Gli arretrati di Metal Hammer si possono ricevere al doppio del prezzo di copertina tramite assegno o versamento sul c/c postale Nr.15077209 intestato a :

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