Hammer Highlights
DREAM THEATER 32
SOPRENDENTE RITORNO I progster più osannati del pianeta tornano con un full-length che è da considerarsi più una vera e propria opera che un semplice album. Con “The Astonishing” i Dream Theater fanno il passo definitivo verso l’Olimpo musicale e Metal Hammer sceglie di celebrarli con una serie di articoli che ripercorrono la loro storia dagli inizi a oggi.
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STEVEN WILSON
AMON AMARTH
KEE MARCELLO
Nello scorso numero vi abbiamo presentato Steven Wilson con un articolo di Paky Orrasi, che ripercorreva la storia e lo stile di colui che è considerato uno dei maggiori esponenti mondiali del prog rock e non solo. In questa nuova uscita facciamo parlare direttamente l’artista attraverso un’intervista esclusiva carpitagli lo scorso mese prima della data finlandese dell’attuale tour.
I vichinghi svedesi sono tornati e lo fanno solcando un nuovo percorso nella propria carriera discografica. Con ‘Jomsviking’, la band capitanata dal roccioso Johan Hegg si avventura nel concept album, con un storia costruita intorno ai leggendari Vichinghi di Jomsborg. In questo faccia a faccia gli Amon Amarth si addentrano nella loro nuova fatica rivelandone alcuni retroscena.
Dagli Europe agli innumerevoli progetti che lo hanno visto coinvolto, Kee Marcello può senza dubbio considerarsi uno dei personaggi più attivi della scena metal svedese. Il chitarrista di Ludvika si mette a nudo in questa intervista, raccolta da Andrea Lami, fra momenti di gloria passati, obiettivi attuali e futuri, oltre a svelare curiosità fino a questo momento inedite.
METALHAMMER.IT 3
Hammer Hammer Highlights
HighLights
64 DragonForce 8 Anvil
walk this
20 Magnum
56 Judas Priest 22 Entombed A.D.
LA LEGIONE DEi DodIcIMILA
r Finalmente ci Benritrovati! eailtenumero h siamo, che avete in T g shin mano segna il ritorno di Metal
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Asto
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76 Opeth
Hammer nelle edicole a distanza di oltre un anno dall’ultima volta. Un altro numero arriva al vostro cospetto. La sensazione è Altri giorni sono passati e molto lavoro è stato molto strana: sono fatto. Una redazione encomiabile e instancapassati 14 anni da quando bile che vi porta una ulteriore, gustosa e scrissi per l’ultima volta su soprattutto gratuita uscita di Metal queste pagine, una vita. Mi ero appena laureatodifficile, e Hammersposato, in un periodo fatto avevo decisoe di percorrere di sacrifici notti insonninuove a scrivere vie che non sapevo dove mi gli articoliportato. che avete avrebbero Un davanti. giorno hoChe dire, noi contenti del risultato, trovato unsiamo sentierino laterale, anche se ora il giudizio efinale mi ci sono incamminato mi spetta sono ritrovatoadivoi. nuovo qui. Un sicuramente Prima domanda che giorno arrivata unanella telefonata sorgeràè spontanea vostra mente e il fuoco della vecchia passione è: riacceso ma che numero è questo? Febbraio o s’è istantaneamente. E’ Marzo? Questione che direi. per rispetto a voi letteralmente esploso, lettori va puntualizzata. Si è deciso di Così è ripartita questa avventura: avevamo davanti un foglio bianco e non assegnare il nome del mese a ciastutto ricostruire. Potete immaginare una cuna da uscita, ma di numerarla in maniera sfida ed un’avventura più belle di questa? Io sequenziale; permette(rà) non ci riesco, questo non oggi. Oggi si fa Metal all’intera redazione di lavorare in tutta
Hammer, una stella che nessuno ha mai oscurato. Abbiamo lavorato per ricostruire una rivista che fosse la migliore possibile, abbiamo messo giùraccogliendo il progetto, fatto la esclusivi struttura,e di non calma, articoli contenuti… perpetrare lainserito cattiva iabitudine che abbiamo c’è nella messo tutta la nostra passione e maggior parte dell’editoria italiana di far che uscire la nostra energia. Sappiamo riviste-fotocopia, coninsieme le stesse interviste e staremo a lungo. Abbiamo un fratello digitale recensioni che stancano prima di (metalhammer.it presto tutto voi ee in secondo luocontiamogodinoi avere anche Assumiredattori. l’edizione eBook disponibile per amo quindi di il mondo mobile) edilè carattere solo periodico irregolare, l’inizio. Questo primo numero se che avetecosì fra le mani è chiamarlo, a tratti vogliamo un numerosperando sperimentale, che l’irregolarcontiene infatti sia nuove idee ità assuma il significato cui stiamo lavorando e che di originalità presto vedranno la luce,dei ma nostri contenuti. anche qualcosa di tradizionale che non vi Detto lasceràquesto, del tutto qual spiazzati. Nei mesicui è ilprossimi motivo per nuove sorprese arriveranno l’editoriale ha ilad titolo arricchire la rivista per darvi sempre di più. “la legione dei dodMentre la rivista prendeva forma mi sono icimila”? Ebbene, fermato ad osservare il panorama in cui ci ad saremmo andati a muovere. oggi La sorpresa è stata (4 Marzo 2016), sono stati dodicimila
OGNI GIORNO ON LINE
grande e… triste. Se oggi ho il privilegio di dire bentrovati a voi lo stupore di vedere il mondo dire lo stesso a me mi ha spiazzato. Oggi(quasi in piena estate 2014per ho la ritrovato a i lettori tredici, 12’714 precisione) grandi linee lo mondo cheilavevo di quello chestesso noi chiamiamo “numero zero”. lasciato nel 1998, sembra quasi che mi abbia Sappiamo che ancora la gratuità la novità gli stanno aspettato. Siamo qui ae celebrare allagrandi base di queste cifre,(dai ma ciò ci motiva a stessi nomi di allora Maiden ai Metallica passati palchi italiani,percontinuare perdilarecente nostra sui strada. Vogliamo dai tanto Priest ringraziare agli Accepttutti che quelli hannoche in rampa hannodisfoglialancio i nuovi finoe ai Sabbathasulla viadella to la rivistalavori, passata invitiamo godere della pensione)… ogni band di queste, se presente. Vorremmo però ringraziare meno sommiamo gli anni dei componenti, supera di quei furbetti che sidisono presi lache briga di piratare il slancio il quarto millennio: tristezza. Nonnumero fraitendetemi, pur amando tuttiini grandi e di renderlo scaricabile PDF su vari del siti passato avrei sperato di trovarmi spiazzato di contenuti illegali. dal Infine, furore di band, un spaesato da quesito: mille vi nuove anticipiamo ulteriore nuove correnti e tendenze. Niente di tutto Quando ci rivedremo? Desideriamo questo. Il mondo che mi accoglie è lo consciastesso mentee non risposta a questa domanda, di allora oggidare come allora sono convinto che sia uno scenario può essere fradesolante. venti giorni o fra sei mesi, Abbiamo un sacco di lavoro da lavoro fare, noi nel le l’importante è che il nostro allieti testimoniare e voi D’altronde non può piovere per vostre giornate. nell’eleggere nuovi sempre,degni no? di beniamini Stefano Giorgianni essere tali. Siete con noi?
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UN SITO IN CONTINUA EVOLUZIONE PER DARVI SEMPRE DI PIU’
TALES FROM BEYOND Aristocrats 10
Hammer Core
Metal Rubriche
Dream Theater Story
Il power trio capitanato da Guthrie Govan si svela a Metal Hammer
Black Stone Cherry 11
Nuova fatica per i rockers statunitensi. Ecco a voi “Kentucky”
TELEGRAPH
DIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it
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CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
L'Antro di Graziano
From Ashes to New 12
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
Nuova linfa va ad aggiungersi al metalcore. Vi presentiamo i From Ashes To New
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Elegacy 14 A molti anni di distanza
dall’ultimo full-length torna il combo piemontese
CAPOREDATTORE WEB Gianluca Grazioli gianluca.grazioli@metalhammer.it
Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it
Cover to Cover
The Library
Paky Orrasi paky@metalhammer.it
Tony Dolan 15
Il mitologico frontman ci regala un po’ della sua vita, a puntante
Sergio Rapetti s.rapetti@metal.it
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Hell In The Club 16
Gli hard-rockers italici tornano e si confermano con “Shadow Of The Monster”
Bring Out the Thrash
Dop due EP gli italo-inglesi scelgono la strada del fulllength
Lost Society 24I giovani thrasher finlandesi
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Jordan Rudess
Beppe ‘Dopecity’ Caldarone b.caldarone@metal.it
Delain 26 Gli olandesi lanciano un EP,
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succosa antecipazione del prossimo album
Ereb Altor
Francesco ‘Frank’ Gozzi f.gozzi@metal.it Pippo ‘Sbranf’ Marino p.marino@metal.it
Circle Of Burden
28 Un tributo agli indimenticati Bathory compone la nuova fatica degli svedesi
Killswitch Engage
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30 Ritorno prepotente dei
Recensioni
Live Report
FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Emanuela Giurano
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GRAFICA Andrea Carlotti
Undressed
Behemoth
PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò
82
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NAMM 2016
Marco ‘Cafo’ Caforio m.caforio@metal.it NEWS EDITOR Gianluca Grazioli
metalcorer americani capitanati da Jesse Leach
SHiprocked 2016
Marco Aimasso m.aimasso@metal.it Roberto ‘Dulnir’ Alfieri r.alfieri@metal.it
Death Chamber
si confessano ai nostri microfoni per la nuova release
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Andrea ‘Gandy’ Perlini a.perlini@metal.it Alessandro ‘Querty’ Quero a.quero@metal.it
A New Tomorrow 18
REDAZIONE
HANNO COLLABORATO Arianna G., Alessandra Mazzarella, Marco Pezza, Enrico Mazziotta, Andrea Martongelli, Tony Dolan, Andrea Lami, Gabriele Marangoni PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it
TE
CI S U E V NUO
Anthrax For All The Kings Nuclear Blast 26 Febbraio
Anvil Anvil Is Anvil Spv 26 Febbraio
A T E M . WWW
ns r u t e R metal
Baby
Le BABYMETAL hanno svelato l’artwork del nuovo imminente album ‘METAL RESISTANCE’. La release su earMUSIC è fissata per il 1 aprile – in Giappone il giorno della Volpe – esattamente un giorno prima della loro esibizione più importante di sempre al di fuori del suolo nipponico ovvero alla Wembley Arena di Londra, il 2 aprile. L’album sarà pubblicato in tre differenti formati, CD, doppio LP e una box set limited edition con T-shirt. Kobametal, mastermind della band ha dichiarato: “Come annunciato dalla profezia della Divinità della Volpe, il nuovo album sarà pubblicato il 1 aprile, il giorno della Volpe. Da quando è uscito l’album di debutto nel 2014 non ci siamo ancora fermati per il tour mondiale. Ho incontrato gente da tutto il mondo e ho avuto l’occasione di constatare il miracolo che fa unire le persone sotto la stessa bandiera, quella delle BABYMETAL! La nuova canzone ‘The One’ parla proprio di questo, dell’unione di tutti i popoli del mondo. Io continuo a credere che le canzoni delle BABYMETAL possano dare una mano affinchè ciò avvenga.”
Magnum Sacred Blood Divine Lies SPV 26 Febbraio
Sabaton Heroes On Tour Nuclear Blast 4 Marzo
KIllswitch Engage Incarnate Roadrunner 11 Marzo
Almanac Tsar Nuclear Blast 18 Marzo
Amon Amarth Jomsviking Sony 25 marzo
T I . R E M LHAM
Il nuovo album dei doomster olandesi OFFICIUM TRISTE sarà pubblicato su etichetta Transcending Obscurity Records. Il gruppo è ancora alle prese con la composizione dell’album, e promette aggiornamenti a breve. ****** Siamo lieti di annunciare i primi nomi confermati per l’ottava edizione dell’Eindhoven Metal Meeting, festival indoor in programma per il 16 e 17 Dicembre 2016 all’Effenaar di Eindhoven, Olanda. Tra le band al momento confermate ci sono i DESTRUCTION, gli ENTHRONED ed i PROTECTOR. *******
Uscirà il prossimo 29 aprile per Inner Wound Recordings l’album d’esordio del progetto progressive metal Universal Mind Project. Il disco, missato e masterizzato da Simone Mularoni (Ancient Bards, DGM, Vision Divine), vanta la partecipazione di straordinari guests quali Nils K Rue (Pagan’s Mind), Mark Jansen (Epica, Mayan), Charlie Dominici (ex-Dream Theater), Diego Valdez (Helker), Alessandro Bissa (Vision Divine), Mike LePond (Symphony X), Emanuele Casali (DGM) e Johan Reinholz (Andromeda). ******* Dopo aver annunciato SABATON, oggi è il
turno di BULLET FOR MY VALENTINE! La band inglese prosegue il tour dell’ultimo album “Venom” e si esibirà sul palco di Sonisphere Postepay Rock in Roma 2016 che vedrà headliner IRON MAIDEN il 24 luglio prossimo. Ricordiamo che gli IRON MAIDEN saranno in tour in Italia per tre date a luglio, ecco di seguito i dettagli: 22.07 MILANO, Mediolanum Forum (SOLDOUT) 24.07 ROMA, Rock In Roma Sonisphere 26.07 TRIESTE, Piazza Dell’Unità D’Italia ******* Era dello scorso gennaio la notizia che ci annunciava l’inizio dei lavori del secondo lavoro discografico
dei DEVILMENT, “nuova” band di Dani Filth (Cradle Of Filth). A distanza di appena un mese, arrivano nuovi aggiornamenti in merito a questa release, le cui registrazioni cominceranno a breve, come dichiarato dal chitarrista Colin Parks. ******* La software house Turbo Tape Games ha realizzato un nuovo videogame in collaborazione con i DREAM THEATER e dedicato al loro ultimo album “The Astonishing”, da poco pubblicato su etichetta Roadrunner Records. Il videogioco sarà disponibile per PC, Mac, iOS e Android a partire dal mese di aprile e sarà
scaricabile gratuitamente. ******* Hellfire Booking e This is Core presentano il ritorno dei Protest the Hero dopo il sold out della data Di Milano di Dicembre 2014; la band canadese dopo il successo delle ultime date torna nel nostro paese per 3 appuntamenti durante il prossimo tour europeo che li vedrà protagonisti nei più importanti festival e clubs del vecchio continente. In attesa dell’uscita di un nuovo album dopo il loro acclamatissimo “Voilition” i 5 di Ontario durante questi shows ripercorreranno tutti i più grandi successi della loro carriera lunga quasi 18 anni. Le date previste sono il 29 giugno a Roma, il 30 giugno a Pordenone ed il 1 luglio a Milano. ******* Gli epic folk metaller finlandesi Ensiferum tornano all’attacco. Sul campo di battaglia dal 1996 la band di Helsinki è cresciuta in maniera smisurata fino ad arrivare negli ultimi anni a calcare i migliori palchi del mondo in veste di headliner. Gli Ensiferum tonano il 1 aprile con una raccolta di classici che ripercorrono i 20 anni di carriera della band. ******* Versus Music Project è felice di annunciare che saranno gli americani BETWEEN THE BURIED AND ME gli headliner dell’edizione 2016 del DISSONANCE FESTIVAL. La band suonerà qui la sua UNICA DATA ITALIANA per questo tour e ad essa si affiancheranno altri artisti italiani ed internazionali nelle prossime settimane. ******* Durante una intervista a Metropolis Radio, David Coverdale ha affermato che il prossimo anno uscirà un nuovo album di inediti degli Whitesnake, seguito di “The Purple Album” uscito l’anno scorso. Il sessantatrenne cantante ha anche detto di “sentirsi rigenerato” dopo il tour con la nuova band ( nella quale , ricordiamo, fa anche parte il nostro Michele Luppi ) e che grazie a loro “ha ritrovato le energie e la voglia di scrivere nuovi pezzi, dopo che aveva seriamente pensato di finire la carriera in bellezza con The Purple Album dove l’aveva cominciata”. Staremo a vedere. ******* Periodo sfortunato per gli EAGLES OF DEATH METAL. Dopo aver annullato il loro
tour europeo in seguito alla tragedia del Bataclan, la band è costretta ad annullare tutte le restanti date del loro nuovo tour europeo a causa di un infortunio ad un tendine di una mano per il chitarrista e cantante Jesse Hughes, costretto così ad un periodo di cure e riposo. La band ha però confermato che tornerà in Europa in estate. ******* Di recente Punishment 18 Records ha messo sotto contratto i technical death metaller italiani NODE per la pubblicazione del loro nuovo e sesto disco della carriera intitolato “Cowards Empire”. Le registrazioni, avvenute tra marzo e settembre dello scorso anno, sono state portate a termine da Larsen Premoli (Destrage) presso i Reclab Studios, a Milano. Molti gli ospiti che hanno prestato il contributo tra i quali spiccano i nomi di grandissimi musicisti della scena italiana: Daniele Orlandi (Blackstarr & The new Black), Gianluca Ferro (Time Machine), Tommy Massara (Extrema), Larsen Premoli, Lisy Stefanoni (Evenoire), Luca Di Fato (Wake Arkane), Andrea Caniato, Steve Minelli. Nuovi dettagli saranno svelati a breve! ******* Gli ALMANAC di Victor Smolski (ex-RAGE) sono i sostituti dei MYSTIC PROPHECY nel prossimo tour in compagnia degli ORDEN OGAN. Le due band saranno in Italia il prossimo 31 marzo 2016 al Circolo Colony di Brescia. ******* E ancora, a proposito dei RAGE: il nuovo lavoro si intitolerà “The Devil Strikes Again” e sarà pubblicato il prossimo 10 giugno 2016 su etichetta Nuclear Blast Records. ******* Il nuovo EP dei CANDLEMASS si intitolerà “Death Thy Lover” e sarà disponibile dal prossimo 3 giugno su etichetta Napalm Records. Il disco, su cui canta Mats Levén, avrà una copertina curata da Erik Rovanperä e la seguente tracklist: 01. Death Thy Lover 02. Sleeping Giant 03. Sinister N Sweet 04. The Goose ******* Il nuovo album dei tedeschi MYSTIC PROPHECY si intitolerà “War Brigade” e sarà pubblicato il prossimo 18 marzo su etichetta Massacre Records. La copertina del disco è stata curata da Uwe Jarling.
******* Gli ALLEGIANCE OF ROCK sono un nuovo super-gruppo nato dalla collaborazione del chitarrista Gus G. (OZZY OSBOURNE, FIREWIND), del bassista John Levén (EUROPE), del batterista Anders Johansson (HAMMERFALL, YNGWIE MALMSTEEN) e del cantante Mats Levén (CANDLEMASS, TREAT, YNGWIE MALMSTEEN). Il gruppo si unirà per la prima volta sul palco dello Stockholm Rocks Festival, che si terrà il 7 maggio al Debaser Medis di Stoccolma, e suonerà canzoni tratte dalle discografie di tutti i membri. ******* A grande richiesta, annunciamo l’aggiunta di due nuove date di STEVEN WILSON oltre ai due shows di Aprile precedentemente comunicati. Il tour del nuovo album “Hand. Cannot. Erase.” si prolungherà fino al mese di luglio, quando STEVEN WILSON si esibirà all’Anfiteatro Del Vittoriale di Gardone Riviera (BS) e all’Arena Beniamino Gigli di Porto Recanati (MC). ******* I SEPULTURA sono entrati in studio e iniziato a scrivere il loro nuovo album, previsto entro la fine dell’anno su etichetta Nuclear Blast. ******* “The Immortal Wars” è il titolo del nuovo album degli EX DEO, previsto per il mese di febbraio del 2017 su etichetta Napalm Records. Il disco si ispira alle Guerre Puniche tra Roma e Cartagine e alle figure di Annibale e di Scipione l’Africano. L’opera sarà mixata e masterizzata da Jens Bogren presso i Fascination Street Street Studios. ******* I CATTLE DECAPITATION hanno annunciato di aver rinnovato il contratto con l’etichetta Metal Blade Records. “Siamo felici di annunciare che abbiamo rinnovato con Metal Blade Records per alcuni altri album e proseguiremo questo fantastico rapporto con l’etichetta metal più importante degli ultimi 14 anni.” ******* I tedeschi SUIDAKRA hanno pubblicato, tramite la loro pagina Facebook, la copertina del loro prossimo album, “Realms Of Odoric”, in uscita il 20 maggio 2016 via AFM Records. L’artwork è stato curato da Kris Verwimp. ******* Ad accompagnare AXEL
RUDI PELL nella sua unica data italiana di Sabato 17 Settembre 2016, presso il Phenomenon di Fontaneto d’Agogna (NO) , ci saranno i LORDS OF BLACK di Ronnie Romero, attuale voce dei Rainbow. La band arriverà in Italia per presentare al pubblico “II”, il nuovo album disponibile da Marzo via Frontiers Records. ******* Dopo la prematura scomparsa di Mark Reale, mastermind e leader del combo leggendario che risponde al monicker di RIOT, sembrava che tutto fosse finito, ma grazie alla tenacia dei componenti della band il lavoro è andato avanti con il benestare del chitarrista prima di passare a miglior vita. Nasce, a grande richiesta dei fan, il progetto RIOT V con i membri originali Don Van Stavern, Mike Flyntz e Frank Gilchriest (Virgin Steele), con il quale viene pubblicato l’album “Unleash the Fire” nel 2014 e già acclamato da pubblico e critica come un capolavoro del genere. La band sarà in Italia il 13 e il 14 Maggio a Brescia ed Ascoli Piceno per due show esclusivi. ******* I tedeschi CREMATORY si sono separati dal bassista Harald Heine, sostituendolo con Jason Matthias. Heine lascia la band per motivi personali e di salute, e per passare più tempo con la propria famiglia e i propri figli. La band si appresta intanto a pubblicare il nuovo album “Monument” il prossimo 15 aprile su etichetta Steamhammer/SPV. ******* Dave Lombardo suonera’ nei SUICIDAL TENDENCIES durante il tour Americano di supporto ai MEGADETH . Inizio del tour il 26 Febbraio da Las Vegas, Nevada. ******* Grandi notizie per gli italiani TRICK OR TREAT! La band di Alessandro Conti ha an-
nunciato un nuovo accordo discografico con la nostrana Frontiers Records per la pubblicazione di “Rabbits Hill part II”, la cui uscita è prevista per questa estate. ******* I DEATH ANGEL hanno scelto “The Evil Divide” come titolo del loro nuovo album, previsto per il prossimo 27 maggio su etichetta Nuclear Blast. Il disco è stato registrato presso gli AudioHammer Studios di Sanford, in Florida, con il produttore Jason Suecof. Il mastering è stato invece curato da Ted Jensen presso gli Sterling Sound di New York City. ******* Il nuovo album dei TESTAMENT potrà arrivare nei negozi tra i prossimi mesi di giugno e luglio con il titolo “The Brotherhood Of The Snake”. La band ha da poco concluso le registrazioni del primo singolo, che sarà pubblicato in concomitanza con il prossimo tour nordamericano del gruppo in compagnia di SLAYER e CARCASS. Al termine del tour il gruppo si chiuderà in studio e spera di registrare e mixare il materiale in tempo per il ritorno in Europa, fissato per l’estate. ******* Brutte notizie per i fan dei Nightwish. ANETTE OLZON, ex cantante del combo finlandese, è stata vittima di un’aggressione la notte scorsa. A rivelarlo è la stessa artista, la quale ha dichiarato sui social network che è stata soccorsa da due uomini che hanno messo fuori combattimento il malintenzionato, sotto l’effetto di droghe, consegnandolo alla polizia.
METALHAMMER.IT 7
Metal Hammer ha incontrato Steve 'Lips' Kudlow per discutere del nuovo "Anvil Is Anvil"
di Alessandra Mazzarella Ph. Alice Ferrero
E R A P , SE VI
È Ì S O C
Nella vita ci capita di incappare in entità così iconiche nel loro genere che il solo nome basta a fare da presentazione: la mamma è la mamma, Sanremo è Sanremo ( per quanto il valore di questa manifestazione sia irrisorio per molti rende comunque il concetto) e gli Anvil sono gli Anvil. Indistruttibili, inossidabili, vetusti Anvil. La band canadese ci tiene a far presente che quando si tratta di loro c’è poco da discutere, sono così come li vedi, confortevolmente prevedibili, portatori sani di cliché eppure sempre capaci di intrattenere, anche dopo quasi quarant’anni di militanza sotto il vessillo del metal. Quando ci parla del nuovo album Steve “Lips” Kudlow non è esattamente di manica larga: “Non c’è molto da dire in realtà, è l’en-
8 METALHAMMER.IT
nesimo album degli Anvil, fatto alla nostra maniera, tutto qui. Ai fan di vecchia data piacerà di sicuro, a chi si avvicina alla nostra musica per la prima volta
potrà dare un’idea cristallina di ciò che facciamo. Niente esperimenti, niente deviazioni, è un altro classico Anvil, né più né meno”. Rassicurante, non c’è che dire. Come si dice: “Chi lascia la vecchia via per quella nuova, sa
quel che lascia ma non sa quel che trova”. Il discorso vira poi sugli show dal vivo. Dopo un iniziale sgomento nel constatare che non è prevista una data italiana n e l t o u r, L i p s tira un sospiro di sollievo nell’ind i v id uare il concerto italiano (previsto per il 9 aprile al Circolo Colony di Brescia) strizzato tra una data spagnola e una neerlandese. Ah, la fallacia dei sensi tipica dell’età che avanza… Inutile dare la colpa allo schermo troppo piccolo dello smartphone,
il signor Kudlow non è più un giovanotto e non è un mistero per nessuno, ma ci ride su perché è una persona sportiva: “Meno male che alla fine la data è saltata fuori! Mi sarebbe dispiaciuto molto non passare dall’Italia, ci siamo sempre trovati bene. C’è tanta gente che conosce bene quello che facciamo e ne siamo molto contenti”. La domanda sorge spontanea: dopo tanti anni, tanti album, tanti live, come fa una band a scegliere la scaletta giusta? Qual è il segreto degli Anvil? “Non c’è una vera risposta, la scaletta si fa da sé! Si cambiano giusto un paio di cose ogni volta ma la struttura di base è sempre quella: si apre con ‘March Of The Crabs’, si continua con ‘Metal On Metal’. Anche l’assolo di batteria non manca mai, ergo bisogna aspettarsi anche ‘Swing Thing’… La gente
Tr 01. Daggers acklist 02. Up, Dow And Rum 03. Gun Conn, Sideways 04. Die For trol 05. Runaway A Lie 06. Zombie A Train 07. It’s You pocalypse 08. Ambushedr Move 09. Fire 10. Run LOikne The Highway 1. Forgive Hell Don’t Fo rget
vuole sempre vedere il vibratore! L’assolo con il vibratore è diventato un nostro must, quindi ‘Mothra’ è un altro dei pezzi che in tour non mancano mai. Certe cose non le abbandoniamo mai, altre vengono cambiate volta per volta. In questo tour ad esempio non suoneremo ‘Hope In Hell’ e al posto di ‘School Love’ stavamo pensando di metterci ‘Ooh Baby’, che è un pezzo del nostro primo album, vedremo come andrà. In sintesi, a cambiare è soprattutto il materiale nuovo, per il resto quasi tutto rimane fedele alla nostra tradizione”. Com’è bella questa affidabilità, ci piace molto la stoica coerenza che solo una band granitica come gli Anvil può avere. Forse questa coerenza è costata loro qualche
minuto di fama in meno – e qualche zero sul conto in banca – ma Lips ci tiene a precisare che di queste cose non gli interessa affatto: “Non abbiamo rimpianti di nessun tipo. Siamo stati fedeli a noi stessi e questa è la cosa che conta di più.”. Magari quando si è giovani è più semplice, si ha più voglia di spaccare il mondo che di fare quattrini. Con l’età magari si perde un po’ di grinta e di gioia, l’asse delle priorità si sposta dall’astratto al concreto,
vedere qualche collega nuotare nel denaro alla maniera di Paperon de’ Paperoni solo perché ogni tanto si è piegato al volere del business potrebbe suscitare un po’ di invidia; il signor Kudlow smentisce subito: “Per me non è cambiato assolutamente nulla, mi diverto ora tanto quanto mi divertivo da ragazzino. Nella musica trovo ancora tutto ciò che amo e che mi rende felice”. A seguire Lips snocciola una sua personalissima definizione di successo: “Successo è saper creare, essere
unici e saperlo fare per tutto la vita. Non importa quanti dischi di successo si facciano o quanta gente venga ai tuoi concerti, esserci è l’unica cosa che conta. Questo è il successo: arrivare dove altri possono solo sognare e provare sincera soddisfazione quando ci si guarda indietro. Vivere di musica è di per sé un traguardo, è sufficiente”. Quindi gli Anvil sono contenti quando si guardano indietro. E quando si guarda avanti? “Vedo un altro album, un altro tour, ancora un altro album e un altro tour e così via. I Motörhead lo hanno fatto per tutta la loro carriera ed è quello che voglio anch’io per la mia band: andare avanti per tutto il tempo che abbiamo a disposizione”.
METALHAMMER.IT 9
I The Aristocrats (ovvero il trio composto da Bryan Beller, Guthrie Govan e Marco Minnemann), non hanno certo bisogno di presentazioni. All’attivo dal 2011, e giunti ormai alla terza fatica discografica, sono una delle formazioni strumentali più apprezzate a livello internazionale. L’accoglienza italiana per i concerti promozionali non si è fatta attendere: “Finora abbiamo fatto solo due date, una “epica” a Genova e una al Blue Note di Milano, entrambe sold out, speriamo di andare avanti così!”, dice Bryan. Tre virtuosi, tre assi del proprio strumento che non vivono minimamente “l’ansia da prestazione” dovuta alla loro fama: “È un nostro “standard personale” che desideriamo mantenere, siamo felici di suonare insieme e cerchiamo di dare il meglio di noi stessi sul palco. Ovviamente c’è una “pressione professionale” dovuta al fatto che ci teniamo a fare bene quello che facciamo.”, parola di Guthrie Govan. Il sound della band è andato limandosi col passare del tempo, così come il modo di comporre. Marco, a riguardo, dice: “La prima volta che ci siamo incontrati abbiamo cominciato provando canzoni del nostro vecchio repertorio ed è dall’approccio di quelle
prime prove che poi è nato il primo disco; abbiamo scritto autonomamente i brani, li abbiamo provati, li abbiamo registrati e poi li abbiamo portati sul palco. Con “Culture Clash” avevamo capito come “scrivere l’uno per l’altro e quali erano i nostri punti di forza. Con “Tres Caballeros” il processo è stato inverso, abbiamo
cosa.” Diversa la posizione di Guthrie: “Quando cerco di “produrre arte” mi piace l’idea di “intuire” quello che sento senza farmi troppe domande. Ai tempi dell’università studiavo letteratura, e all’epoca avevo già letto molti libri e apprezzato tanti capolavori; all’università però non bas-
prima proposto dal vivo il materiale e poi siamo andati in studio a registrarlo.” Relativamente all’origine dei brani i processi creativi dei tre sono molto differenti. Marco, ad esempio, ammette: “A volte trovo un riff che mi piace o che suona bene alle mie orecchie, e cerco di tirarne fuori qualcosa, altre volte mi concentro su uno stile, come nel caso di “Stupid 7”, dove volevo comporre qualcosa che suonasse “punk”. Di solito non ragiono per “obbiettivi”, è più una specie di colonna sonora a qual-
tava leggere per il gusto di farlo, c’era da capire a tutti i costi il perché piacesse. Penso che per la musica sia meglio non chiedersi troppo da dove vengono le idee: meno è conscio il processo più sei libero di creare qualcosa.” Infine Bryan: “Per me è il contrario! Quando scrivo mi pongo un obiettivo, una missione: ho una storia nella testa, penso a un titolo, come nel caso di “Texas Crazypants” o “Smuggler’s Corridor”, cerco di immaginare un contesto e cerco di andare il più vicino possibile al bersaglio. “Sparando” non è detto che centri per-
fettamente l’obiettivo, ma miro lì, poi quel che succede va comunque bene, purché appartenga al contesto.” Una vita molto intensa, dove si trova comunque il tempo di ascoltare anche altra musica. I gusti della band sono (manco a dirlo) abbastanza lontani tra loro: “Io faccio fatica a trovare il tempo di “scovare” nuova musica, generalmente qualcuno mi suggerisce qualcosa e mi dice “dovresti ascoltare questo!”. La settimana scorsa in questo modo sono incappato in un’ottima band chiamata Beauty Pill, e non li avevo mai sentiti prima”, dice Bryan. Per Marco invece: “Tutto ciò che suona puro e onesto per me è ok! Ovviamente ho delle band preferite come Queen, Police, Led Zeppelin, Frank Zappa... A Natale ero dai miei genitori e mio padre ha messo un dvd di un concerto dei B52’s e ho pensato “che figata!”. E Guthrie stupisce tutti confidando: “La cosa importante per i miei ascolti è che non si tratti di musica troppo complicata fatta di “assoli veloci di chitarra distorta”, qualcosa che non abbia a che fare con il “lavoro”. Le ultime cose che ho sentito sono la “Serenata per tenore, corno e archi” di Benjamin Britten e “Rubber Soul” dei Beatles.”
Laciatevi alle spalle i vostri limiti
CONTINUA SU metalhammer.it
di Gabriele Marangoni
LA RODUCE AL T IN I V R TO E MM CAPITANA IO R METAL HA T R E W O DEL P SCOPERTA GOVAN DA GUTHRIE
10 METALHAMMER.IT
di Alex Quero
BACK TO THE ROOTS IL GRUPPO AMERICANO PARLA A METAL HAMMER DEL NUOVO ALBUM “KENTUCKY”
La calata milanese della band statunitense è l’occasione per scambiare due graditissime parole con il cantante e chitarrista Chris Robertson, che come sempre si dimostra persona dotata di una calma olimpica quasi sovrannaturale. Nell’attesa di scoprire se sia solo una strategia tantrica per liberare tutta l’energia una volta salito sul palco, iniziamo col fare i complimenti a Chris per il nuovo, bellissimo, “Kentucky”, in uscita ad inizio aprile per Mascot Records: “Grazie, man! Questo album è stato forse il più divertente da realizzare, perchè è stato il primo veramente autoprodotto. Per scriverlo ci siamo chiusi in studio solo noi della band con un ingegnere del suono, il risultato è la cosa più onesta e naturale che potessimo tirare fuori, senza alcuna interferenza esterna. Siamo davvero fieri del nuovo disco”. La libertà in fase di composizione ha anche contribuito ad inasprire I suoni, che sono diventati più duri rispetto al recente passato: “in effetti nessuno ha mai pensato a fare un disco per la radio, è una cosa che non vogliamo più fare, quello che ci interessa è suonare del rock and roll nella maniera più heavy possibile”. Nonostante la passione
per le registrazioni audio, però, il frontman non si è occupato di questo aspetto, dato che “per il mixaggio e il mastering ci siamo rivolti a professionisti. Io mi sono occupato in prima persona dell’ultimo DVD che abbiamo lanciato”. Dopo dieci anni di carriera e di presenza nel music business, Chris sembra trov a re
anche intorno ai Black Stone Cherry la stessa voglia di ritornare a suonare rock and roll: “ci sono molte più band che suonano rock senza tanti compromessi. È splendido vedere tanti ragazzi giovani che cercano di riscoprire il gusto di suonare rock and roll”. Un’attitudine che per la band ha significato un importante cambio di label, con l’addio alla Roadrunner per approdare a Mascot Records: “dopo tanti anni era arrivato il momento di cambiare, è stato naturale e condiviso da entrambe le
parti. Arrivare alla Mascot è stato grande, abbiamo trovato tanti professionisti e tanta esperienza”. I membri dei Black Stone Cherry sono amici d’infanzia e vengono tutti da Edmonton, nel Kentucky. L’attaccamento alle proprie radici è una costante che, oltre a figurare questa volta addirittura nel titolo dell’album, spesso ricorre nei testi delle canzoni. Secondo
Chris, addirittura “se fossimo nati in una qualsiasi altra parte non solo del mondo, ma anche degli USA o dello stesso Kentucky, la nostra musica avrebbe un suono diverso. Anche riguardo ai testi, sono così perchè semplicemente scriviamo di quello che conosciamo e che comprendiamo, non ci interessa parlare di grandi cose”. Anche sugli hobby le idee sono chiare: “ho sempre amato stare a contatto con la natura. Per un certo peri-
odo anche andando a caccia, ma sono tanti anni che non ci vado più, ora porto mio figlio in giro per I boschi. Devo dire comunque che anche la caccia non è mai piaciuta per il fatto di uccidere, ma più che altro la vedevo come un’unione quasi mistica con le nostre radici, con la natura”. Sul tour in corso non ci sono dubbi, dato che “sta andando alla grande, con venue sempre piene e pubblico entusiasta. Non era scontato, perché il nuovo album deve ancora uscire e le persone stanno scoprendo live alcuni nuovi brani” e dopo tanti anni “salire sul palco non è mai un lavoro, assolutamente, non l’ho mai pensato neanche lontanamente. C’è stato un periodo qualche anno fa in cui ero un po’ stanco ma non sono mai arrivato a non volerlo fare e, sinceramente, ora come ora mi diverto come mai in passato. Suonare la mia musica, vedere facce nuove ogni giorno, questo è quello che voglio fare”. Anche se “quest’estate i Black Stone Cherry saranno impegnati negli Stati Uniti”, l’appuntamento con il loro southern rock è rimandato di pochi mesi: “Torneremo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 in Europa”.
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Una nuova band va a nutrire la linfa del metalcore. Tra rap, metal e elettronica ecco a voi i From Ashes To new. Nuovi volti si affacciano di giorno in giorno sul panorama -core internazionale. Il genere è in continua espansione e la contaminazione è senza dubbi uno degli elementi che sta avvicinando sempre più giovani a questa variante che tanto, nel corso del tempo, ha fatto discutere gli addetti ai lavori e i metallers di vecchia data. Ebbene, oggi siamo al cospetto di una delle proposte più interessanti degli ultimi anni, una banda di baldi giovinotti che hanno scelto di mischiare metal, rap, elettronica e chi più ne ha più ne metta in un turbinio di pezzi che vanno a comporre la loro prima fatica. Stiamo parlando dei From Ashes To New, combo della Pennsylvania che si presenta a voi in anteprima su Metal Hammer. È Tim D’Onofrio il nostro interlocutore, colui che siede dietro le pelli, che
prima di tutto introduce il gruppo: “Abbiamo suonato in band locali per anni e qualche volta abbiamo anche condiviso il palco, mai assieme però. Quando i diversi gruppi si
sono sciolti, Matt (il mastermind, ndr.) ha invitato Chris (voce, ndr.) a cantare su del suo nuovo materiale, anche se l’intenzione iniziale non era di creare una band vera e propria. Quando la canzone ‘My Fight’ è passata su Sirius Octane Radio ci siamo resi
conto che dovevamo fare qualcosa.” Un gruppo nato quindi un po’ per caso, con un nome sorto dalle ceneri: “Matt e Chris erano in una band che è durata pochissimo prima degli From Ashes To New, questo era il titolo di una canzone di quel progetto che trovavamo
adatto al nostro scopo.” Un progetto che si basa su molteplici influenze di genere, che Tim spiega così: “La nostra musica esce in maniera naturale. È ciò che noi stessi vorremmo ascoltare. Non posso però dire che non ci sia alcuna difficoltà, perché abbiamo dei gusti eclettici che attraversano tutti i nostri pezzi.” Poi si con-
GIORNO UNO
di Stefano Giorgianni
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centra sulle sue ispirazioni personali: “Ho iniziato a suonare la batteria a causa di Joey Jordison degli Slipknot. Una volta che ho cominciato scoprii Vinnie Paul, Travis Barer e per il mio stile odierno Jimmy ‘The Rev’ Sullivan degli Avenged Sevenfold è il mio più grande punto di riferimento. Aveva un modo così particolare di concepire le parti che nessuno ad ora può eguagliarlo. Inoltre, era una delle principali menti del songwriting.” E sui gusti degli altri componenti afferma: “Ascoltiamo un’ampia varietà di generi differenti di sicuro! Credo che se la gente potesse dare un’occhiata ai nostri iPod o alle playlist di Spotify si sorprenderebbero e sarebbero persino confusi. Condividiamo l’ascolto di alcune band, ce ne sono un paio che ciascuno di noi odia ma magari agli altri piacciono, ma in linea di massima concordiamo su tutto.” Prima dell’imminente full-length, i From Ashes To New avevano rilasciato un EP
intitolato ‘Downfall’ che Tim afferma essere stato fatto uscire per: “quietare la nostra impaziente fanbase ed erano presenti solo cinque canzoni. Non so esattamente cosa ci aspettiamo con questo debut album, speriamo solo che sia l’inizio di una carriera da condividere con i nostri fans per un lungo periodo.” E se gli si chiede di scegliere un pezzo che rappresenti la band, risponde: “Cambia di volta in volta. Sono un fan della roba pesante, quindi direi ‘Face The Day’, ‘Downfall’, ‘Same Old Story’. Ci sono inoltre brani come ‘Farther From Home’ che trasmettono un sacco di energia.” ‘Day One’, il debut, uscirà per un’importante etichetta, la Eleven Seven, con la quale il rapporto è iniziato: “perché ha dimostrato interesse vero di noi, grazie soprattutto al nostro manager che ci ha dato una gran mano nel
realizzare la nostra visione della band. Credo il gruppo non potesse chiedere un manager migliore di lui.” Tim parla poi del songwriting dell’album che “inizia
o una melodia specifica che lui o Matt hanno trovato. Non è nulla di straordinario, però abbiamo visto che funziona.” Il discorso si sposta poi sui testi che
solitamente con Matt che arriva con un riff e un beat, altre volte con un riff di Branden (chitarra, ndr.) e vengono usati così come sono oppure viene creato qualcosa di totalmente diverso. Chris entra dopo che loro hanno delineato una base e abbozza le parti vocali con un testo
“provengono da esperienze di vita ed è per questo che i nostri testi sono così realistici. Molti di essi parlano dei differenti rapporti che intercorrono fra le persone - i cari, gli amici, ecc. Altri parlano di come superare le avversità che la vita ci mette davanti.” Già prima di realizzare il primo album
i From Ashes To New hanno supportato band come Five Finger Death Punch e Papa Roach, dai quali hanno imparato “a creare uno spettacolo diverso ogni sera. Ciascuno show eravamo lì ad osservare le loro mosse, non per copiarle ovviamente, ma per capire come si riesce tutte le sere a proporre qualcosa di diverso tutti i giorni.” I ragazzi quindi non sono digiuni di tour e fra un concerto e l’altro: “Facciamo palestra regolarmente, questa è la mia idea di divertimento. Per me andare in palestra significa essere a casa in ogni momento per un’ora o due. Molti dei centri dove andiamo sono abbastanza simili l’uno all’altro e quando ti sposti da locale a locale, di città in città è oserei dire terapeutico avere quel senso di solidarietà fuori dal tour bus.” Così termina la chiacchierata con Tim e invitiamo i più curiosi a dare un ascolto a ‘Day One’!
Day One Tracklist 01. 02. 03. 04. 05. 06.
Land Of Make Believe Farther From Home Lost And Alone Shadows Through It All Face The Day
07. 08. 09. 10. 1.
Downfall Breaking Now Every Second Same Old Story You Only Die Once
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UNA NUOVA SEQUENZA
di Stefano Giorgianni
IL gruppo piemontese torna sulla scena dopo molti anni di pausa con un disco fresco e una lineup rivoluzionata.
Gli Elegacy sono una di quelle band che pensavamo essersi persa nel mare magnum della caotica scena power-prog italica. In questo 2016 arriva invece la smentita con l’uscita di un nuovo album, intitolato “The Binding Sequence”, e una lineup rinnovata, con alla voce l’ex-Derdian Ivan Giannini e una sezione ritmica di tutto rispetto, che comprende Mike LePond al basso e Mark Zonder alla batteria. Abbiamo incontrato il vocalist e il tastierista Constantin Terzago per discutere del ritorno in attività del gruppo e della loro nuova fatica. Esordisce Ivan Giannini, affermando che: “questo è decisamente un buon periodo tanto per me quanto per la band. Stiamo preparando un live show autentico e, come amo dire, onesto, concentrandoci non solo sulla parte strumentale, ma anche sulle voci, scrivendo e adattando i cori del disco in modo che quasi tutta la band possa dare un contributo dal vivo con la propria vocali-
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tà.” Constatin spiega invece cosa è successo al gruppo dai tempi di “Impressions” del 2004: “Dall’uscita dell’album di esordio molte cose sono cambiate. Abbiamo vissuto un cambio di lineup radicale che aveva come obiettivo inizialmente quello di pubblicare il secondo disco, uscito a fine 2015 per Valery Records, e poi quello di diventare finalmente una realtà stabile ed attiva anche dal vivo.” Ivan ricorda poi com’è iniziata l’avventura con gli Elegacy: “Ormai dieci anni faccio parte di una tribute band ai Marillion, il chitarrista del gruppo è collega di lavoro di Massimo (La Russa, chitarra, ndr.) che era in cerca di un cantante per completare le registrazioni e gli è stato fatto il mio nome. Quindi ci incontriamo immediatamente nel suo studio e ascolto la preproduzione dei brani. Ho iniziato a lavorare con una certa assiduità e la giusta concentrazione solo intorno a dicembre, devo dire però che una volta rotto il ghiaccio registrando la prima canzone il lavoro è andato avanti più spedito.” Interessante sapere anche qual è stato il coinvolgimento di LePond e Zonder nel proget-
to, Costantin dichiara che: “Mike e Mark non sono stati semplicemente degli ospiti, hanno registrato con noi tutto il disco contribuendo significativamente al sound e agli arrangiamenti. Evidentemente il materiale era stimolante anche per loro. È stato certamente un gran privilegio poter realizzare assieme questo disco. Hanno lavorato in tempi mostruosamente veloci, che a raccontarlo c’è da strabuzzare gli occhi. Dico solo che Mike ha registrato tutte le tracce definitive del disco in meno di 10 ore. Zonder ha lavorato nel suo studio con grande meticolosità, mantenendosi costantemente in contatto con la band per la scelta del sound e durante la scrittura delle sue parti.” Complice anche l’inserimento di questi musicisti il sound degli Elegacy è mutato, assumendo tratti notevolmente più progressive derivati da una maturazione artistica: “negli anni siamo cresciuti, abbiamo studiato cose nuove da un punto di vista musicale, ampliato il nostro orizzonte di ascolti. Questo lo si percepisce chiaramente nel disco dove c’è un po’ di tutto, power-prog classico, jazz, elettronica, qualche
ammiccamento pop o mainstream. Non volevamo farci vincolare da schemi, ma cercare un approccio compositivo più spontaneo. Il risultato sono pezzi come ‘The Faulty Miracle of Life’ dove di fatto non esiste nemmeno un vero e proprio ritornello, o come ‘Autumn in Berlin’ che se riarrangiati con sonorità più commerciali potrebbero tranquillamente stare in classifica.” Strana anche la scelta del titolo, che Constatin spiega essere: “La sequenza genetica che ci definisce come individui ed in un qualche modo ci vincola a non poter essere persone diverse da quello che siamo.” L’artwork si collega invece: “a ‘The Dark Tower’ di Stephen King. Rappresenta una delle scene finali della saga, quella in cui Roland giunge finalmente ai piedi della Torre nera, fulcro del multiuniverso, centro dell’energia che tiene separati i mondi, causa della disgregazione del tessuto dell’universo, e di fronte a sé trova un vasto mare di rose.” CONTINUA SU metalhammer.it
Notes from the
DARK SIDE di Tony Dolan
Mentre sto seduto a Londra, in un grigio, umido, freddo, tipico giorno inglese, la mia mente viaggia intorno al mondo nel raccontare i miei molti tour e viaggi. L’idea di questa rubrica è di portarvi in giro per il mondo assieme a me, nella maniera più musicale e METAL che si possa concepire. Ho iniziato a suonare come si deve nel 1979 (sì, sono un vecchietto), sono entrato e uscito da diverse band nel corso degli anni, ma sono sempre stato ‘DENTRO’ nelle arti in un modo o nell’altro, senza mai allontanarmi troppo. Mi considero molto fortunato ad aver fatto tante grandi cose nella mia vita finora e sono ancora qui a farne di incredibili che mi pongono ancora delle sfide. Ho conosciuto molte persone importanti, alcune buone, alcune non così, ma anch’io sono stato di sicuro buono e cattivo allo stesso tempo, così è la vita. Puoi solo puntare ai tuoi obiettivi personali e cercare di essere leale con chiunque incontri sulla strada. Alcuni la penseranno come voi, altri non condivideranno il vostro punto di vista, l’importante è però andare avanti, perché nessuno ha il diritto di giudicare, ma lo faranno, poiché tutti lo facciamo fino a un certo punto. Detto ciò, se vi focalizzate e avete un traguardo che volete raggiungere, allora ciò
che gli altri pensano o dicono dovrebbe esservi noto, forse, ma non preso come qualcosa che può cambiare il corso degli eventi. Se verrete lodati per ciò che pensate o avete fatto vi sentirete in maniera fantastica, perché a tutti piace che ci venga detto che siamo bravi e abbiamo fatto un bel lavoro, ma se prenderete il lato positivo del vostro lavoro, dovrete accettare ugualmente anche quello negativo. A nessuno piace sentire di non aver fatto praticamente nulla di buono che state perdendo tempo con quello che state facendo perché ‘FATE SCHIFO’ - ma, come per le lodi, se siete focalizzati sul vostro obiettivo, questo vi motiverà in egual misura. Guardate il motivo per cui siete stati elogiati e anche su cosa la gente critica il vostro lavoro e usate queste cose per accrescere le vostre motivazioni. Alcuni vi loderanno perché vorranno raggiungere la vostra
stessa posizione e vi vedranno come un esempio da seguire, o semplicemente perché gli piacete e vi augureranno il successo. Gli altri, i negativi, troveranno problemi, non gli piacerete per qualche altra ragione, probabilmente non basata sul vostro talento, o arte, o saranno solamente gelosi di ciò che state facendo e vorrebbero farlo a loro volta. Io stesso ho goduto, e godo ancora oggi, di entrambi i tipi di critiche, positive e negative, da persone che stanno lì sedute a giudicare dopo così tanti anni, col tempo imparerete a ritenerlo parte dell’arte della musica. Dovete e dovrete accettarlo come una fetta del vostro lavoro, del salire sui palchi e mostrare il vostro talento attraverso i vostri pezzi al pubblico. Sono un grande fan dei Motörhead, Lemmy ,il suono del suo basso, il suo stile mi hanno ispirato a fare ciò che faccio, la sua morte mi ha colpito duro, ma questa è la storia di molti
di noi; comunque, sapete, c’è molta gente che odiava e odia i Motörhead e Lemmy (e così il suo stile, suono, ecc.) e trovo incredibile e difficile credere e capire questa posizione... ma è un esempio di ciò che sto dicendo, non ti possono piacere TUTTE le persone. Quelli a cui non piacete voi e la vostra musica non sono quelli per cui dovete farla perché, dall’altra parte del pianeta, ci sono ragazzi e ragazze che vi ammirano e che aspettano le vostre creazioni, loro sono la ragione per andare aventi, sono i vostri fan, le persone con cui siete collegati, loro sono quelli importanti... 10’000 o 1 solo, non importa ... connettersi o toccare qualcuno con un brano che avete creato è una cosa veramente straordinaria. L’importante è che rimaniate leali a voi stessi, non potete esser falsi nel farlo! Lemmy era Lemmy, faceva le cose a modo suo e, che vi piaccia oppure no, quello che avete era lui in persona. Non ha cambiato nulla di sé o della sua musica, ha fatto quel che ha fatto e questo è tutto. Non importa se vi piacciono o meno i Motörhead, quello che voglio dire è SIATE VOI STESSI, se credete realmente in voi e in quello che state facendo nessuno vi può fermare.
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I MOSTRI ITALICI DELL’HARD ROCK SI SONO RISVEGLIATI! VI ACCOMPAGNIAMO NEL TEATRO DEGLI HELL IN THE CLUB! Terzo disco per gli Hell In The Club e terzo centro pieno. “Shadow of the Monster” rappresenta un’ulteriore testimonianza del valore inoppugnabile di una band che all’inizio poteva apparire solo uno dei tanti side-project del rockrama contemporaneo e che invece si è rivelata una delle realtà più accattivanti e agguerrite della “scena”, attrezzata per rivendicare un ruolo di spicco nell’Olimpo del genere. Un album uscito a poco più di un anno dal precedente “Devil On My Shoulder” sotto il presumibile impulso di una pressante urgenza espressiva, ed è proprio da qui e dall’ingresso nel Club di un nuovo membro che abbiamo iniziato la nostra
chiacchierata con Andy Buratto (basso) e Dave Moras (voce). E’ il bassista a prendere la parola e introdurci, innanzi tutto, Marco “Lancs” Lanciotti, la new entry dietro i tamburi: “Durante le date in supporto a “Devil on my Shoulder” Fede (Pennazzato) ha deciso di concentrarsi solo alla sua carriera di sound engineer, cosi abbiamo continuato in sede live temporaneamente con Marco Lazzarini, già con me nei Secret Sphere, e Simone Morettin, già con Dave negli Elvenking. In seguito grazie a Simone Mularoni siamo entrati in contatto con Lancs scoprendo davvero un super batterista che non avevamo m a i conosciuto prima. Ha preparato nel pochissimo tempo a disposizioni delle parti perfette per il disco nuovo e ora an-
che in sede live si sta dimostrando magnifico. Siamo contentissimi di averlo con noi”. “Per quanto riguarda il poco tempo trascorso fra “Devil on my Shoulder” e “Shadow of the Monster””, passando alla seconda parte della domanda, “semplicemente c’eravamo ripromessi di non ripetere quanto successo fra il nostro primo disco e il secondo. In più i pezzi nuovi sono arrivati in modo naturale molto velocemente e cosi abbiamo deciso di ributtarci subito in studio per questo nuovo lavoro!”. Titolo e artwork (realizzato dal noto disegnatore, scrittore e regista americano Nathan Thomas Milliner) dell’albo fanno riferimento all’enigmatica figura di un “mostruoso burattinaio” … tocca a Dave illuminarci sui risvolti di tale scelta: “Il mostro della copertina rappresenta tutte quelle cose che praticamente ogni giorno ci influenzano e spesso ci obbligano a ignorare la nostra vera natura e a com-
portarci come non vorremmo. Il lavoro, le opinioni degli altri per fare un paio di esempi … tutte cose che, contro la nostra volontà, ci fanno spesso sentire come fossimo per l’appunto delle marionette movimentate da un grande brutto mostro. Milliner ha capito subito di cosa stavamo parlando leggendo il testo della title track e in pochissimo tempo ha realizzato una cover strepitosa”. Continua, dunque, un approccio alla materia piuttosto “maturo” anche sotto il profilo dei contenuti, con testi in cui viene combinata una classica attitudine “ricreativa” a soggetti più complessi. E’ ancora la voce degli HITC a confermare che “abbiamo voluto continuare su questa strada, anzi forse abbiamo sviluppato ulteriormente i temi più profondi. D’altronde è nella nostra natura scrivere testi che abbiano un forte significato e se nei primi tempi ci siamo lasciati trascinare più dal lato “divertente” della nos-
HARD ROCK MONSTERS
di Marco Aimasso
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Shadow Monster Tracklist tra musica, ora abbiamo equilibrato un po’ le cose. Ovviamente non abbandoneremo mai la nostra attitudine più spensierata e “rock” nel vero senso della parola, per noi è vitale sviscerare le nostre stesse vite ed esperienze tramite i testi, quindi ci sarà sempre un certo equilibrio tra queste due diverse sfaccettature delle nostre personalità”. Musicalmente, rispetto per la “tradizione” e un temperamento capace di eliminare ogni sensazione di “stantio” costituiscono le carte vincenti di un flusso espressivo istintivo e privo di pressioni …”non pianifichiamo mai i pezzi che dobbiamo ancora scrivere”, è di nuovo Buratto a parlare, “lasciamo che le canzoni arrivino da sole senza imporre una direzione artistica. Con gli HITC proponiamo il genere musicale che più abbiamo nel cuore e cioè l’hard rock e lasciamo che questa grande passione che abbiamo verso questo genere faccia da sola il suo corso tirandoci fuori musiche e parole che andranno poi a comporre il disco. E’ stato cosi per tutti i dischi
1.DANCE! 2.Enjoy The Ride 3.Hell Sweet Hell 4.Shadow Of The Monster 5.The Life & Death Of Mr. Nobody
che abbiamo fatto. Forse però ormai il fatto di suonare insieme da un po’ di anni ha iniziato a creare un feeling di maturità compositiva che inizialmente c’era meno, anche se considero il nostro primo lavoro un bellissimo debut con canzoni che adoro ascoltare ancora oggi”. Domandare a un musicista di scegliere i pezzi migliori tra quelli che ha prodotto, è una pulsione “giornalistica” tanto irresistibile quanto velleitaria, ma anche in questo caso Andy fornisce una versione interessante della questione, affermando che “sembrerà una frase fatta ma è davvero difficile parlare dei tuoi brani in termini di preferenze. E’ ciò che ci esce dal cuore quindi è difficile per noi dire cosa è meglio o cosa è peggio. Verso l’ascoltare invece sicuramente la musica fa effetti diversi che possono anche mutare nel tempo.
È tutto molto soggettivo essendo la musica legata alle emozioni e quindi con tantissime sfumature da individuo a individuo”. Fallita l’operazione “selezione” sui brani originali, non resta che chiedere lumi sulla cover di “Money Changes Everything” dei The Brains (più nota per la versione di Cyndi Lauper) inclusa nel disco: “Picco, il nostro chitarrista, ama cimentarsi nel rifacimento di brani già esistenti, stravolgendoli con arrangiamenti tutti nuovi. ”. La critica (anche quella straniera!) ha apprezzato in maniera pressoché unanime la miscela di “classico” e “moderno” degli HITC, spaziando molto nella citazione dei plausibili riferimenti e delle analogie artistiche, un aspetto che ha sorpreso anche lo stesso Moras … “leggendo le varie recensioni mi sono stupito di una cosa. A parte che sono tutte estremamente positive (oltre ogni aspettativa), la cosa che mi ha colpito è che nonostante un po’ tutti concordino – giustamente - sul fatto che il disco sia a tratti “nostalgico” e riconducibile a un genere
Appetite Naked Le Cirque Des Horrors Try Me,, Hate Me Money Changes Everything
ma anche a un’epoca ben precisi, quasi ogni recensore cerca di descrivere le nostre canzoni menzionando band completamente diverse. C’è chi parla di Motley Crue, chi cita i Bon Jovi, chi parla di Hardcore Superstar o chi di H.E.A.T. (e così via). In ogni caso facciamo quello che amiamo, e questo ci basta!”. Nella trepidante attesa di poter “testare” i brani di “Shadow” nei nuovi live set della band, terminiamo questa piacevole conversazione chiedendo ad Andy un’opinione sul “futuro” del rock, combattuto tra rigore ed evoluzione …”non credo che il rock morirà mai. In nessuna sua forma. E’ un genere troppo genuino e ha delle caratteristiche che colpiranno sempre l’ascoltatore. Credo che però si debba variare sempre nei propri ascolti non fossilizzandosi su un unico genere ma cercando di scoprire i diversi volti che ormai il rock ha. Non si arriverà più agli antichi fasti, credo, ma questo immagino sia un po’ il destino di tutta la musica in generale e non solo quello del rock”.
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UN DISCO A LUNGO ATTESO di Stefano Giorgianni
DOPO DUE EP DI SUCCESSO, IL TRIO ITALO-INGLESE HA SCELTO DI CIMENTARSI IN UN FULL-LENGTH. METAL HAMMER LI HA RAGGIUNTI A LONDRA PER PARLARE DI QUESTA NUOVA FATICA DISCOGRAFICA! Finalmente ce l’hanno fatta! Dopo due EP che hanno riscosso il favore di pubblico e critica, gli A New Tomorrow hanno preso la decisione di buttarsi a capofitto nella creazione di un full-length, oggetto del desiderio della solida fan base che hanno avuto la capacità di costruirsi dal 2009, anno della fondazione, sino ad oggi. La band italo-inglese, o anglo-italiana, ha quindi intrapreso un percorso di maturazione che culminerà con l’uscita del primo disco vero e proprio, dopo anni passati a calcare i palchi di mezza Europa e miriadi di ore spese in studio di registrazione, sia per passione che per lavoro.
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Alessio Garavello, il frontman (conosciuto ai più per aver militato negli Arthemis e nei Power Quest), e Andrea Lonardi, il bass-
ista, lavorano infatti negli storici Rogue Studios
di Londra, dove Metal Hammer li ha raggiunti per parlare di questa loro prossima creazione. “L’idea dell’album era un po’ che ci girava in testa” ammette Andrea “Ci siamo trovati paradossalmente con una forza in più quando il chitarrista ha scelto di andarsene. A quel punto, per assurdo, abbiamo scoperto delle energie diverse e questo ci ha
ispirato a metterci al lavoro su un full-length. Già la prima sera, in sala prove, è uscita l’idea che
poi diventerà una delle prime canzoni del disco.” Un cammino iniziato già da qualche tempo difatti: “alcuni pezzi c’erano già, in versione embrionale” esordisce Alessio “e abbiamo tenuto da una parte alcune idee per metterle a disposizione di una release più completa delle precedenti. Il concetto del full-length ci ha unito anche come band, rispetto a prima, quando scrivevamo qualche brano e andavamo a registrarlo in studio per un EP. Ora, avendo scritto così tanto materiale e avendo avuto così tanto tempo per le jam session, abbiamo capito quali sono i punti di forza di ognuno e, di conseguenza, a sfruttarli per il nostro obiettivo.” La band ha subito una defezione in lineup, che li ha mutati in un power-trio: “Siamo in tre e il disco è stato scritto da noi, anche se abbiamo un ragazzo che si aggiunge come chitarrista per i concerti. Da quando abbiamo ridotto il numero degli elementi in formazione abbiamo anche imparato ad ascoltarci di
più l’un l’altro, nonostante suonare in tre un genere come il rock/metal non sia una cosa affatto facile.” Lavorando in studio i ragazzi hanno a disposizione anche alcuni vantaggi, difatti: “Abbiamo registra- t o ogni jam session, di modo che alla fine di queste ognuno potesse riascoltare tutto e prendere spunti interessanti per le canzoni. La fortuna di poter usufruire di uno studio professionale ci ha avvantaggiato, perché spesso non si riesce mai a ricreare uno stesso giro o mood uscito durante una sessione, cosa possibile invece con le registrazioni in mano.” La sintonia fra i componenti si può dire raggiunta, in quanto: “I pezzi sono stati scritti praticamente da tutti, anche se, come sempre capita, uno di noi magari arrivava in studio con un’idea e ci si lavorava per tirare fuori qualcosa. Ad esempio a me i riff vengono in mente mentre cammino.” Non solo pianificazione nel nuovo lavoro degli A New Tomorrow, c’è soprattutto spontaneità: “Lavoriamo tutti i giorni in studio con diversi artisti e
un paio di volte la settimana proviamo con la band. Ad esempio qualche giorno fa abbiamo creato un pezzo in maniera totalmente improvvisata, e nell’album sarà tale e quale perché abbiamo paura di perdere la spontaneità del
momento in cui è nato. C’è quella magia che si può rovinare aggiungendo anche soltanto qualche nota.” La fase di songwriting è comunque iniziata già da qualche periodo, perché: “Le prime sessioni sono di maggio 2015, quindi si parla di circa otto mesi. Abbiamo terminato la musica e stiamo lavorando alle voci e alle melodie, oltre che ai testi e agli arrangiamenti. Ora le jam ci servono soprattutto per affinare le parti.” Alessio si occupa
dei testi e confessa: “I testi li traggo da ciò che ci sta intorno ed è una cosa che mi ha sempre affascinato. Poi ci ha segnato il fatto di trasferirci qui, lontano dagli affetti. Spostarci a Londra ci ha anche spinto a fare finalmente le cose per noi stessi, scoprire che questo è possibile è sta-
to straordinario. Ormai, comunque, l’Inghilterra è la nostra casa, visto che sono sette anni che viviamo qui.” In rete è divenuta popolare la loro cover di ‘Dirty Diana’ di Micheal Jackson, ma per l’album non sanno ancora se ci saranno tracce simili: “Non abbiamo ancora pensato alle bonus track, ma possiamo ragionarci...” Gli A New Tomorrow hanno scelto ancora la strada dell’autoproduzione, che
forse porterà a qualcosa di più: “È autoprodotto, per ora. Quando finiremo il disco lo faremo comunque sentire in giro per vedere se riusciamo a trovare una casa discografica. Intanto abbiamo firmato con un management, Alpha Omega, e loro ci daranno una mano appena l’album sarà pronto.” L’uscita però non è stata fissata, per permettere al gruppo di lavorare con calma: “Dovrebbe uscire entro l’anno, poi dipende da come andranno le cose, se troveremo un etichetta o meno. Ci prendiamo tutto il tempo che ci serve per fare le cose come si deve. Poi, quando si ha un disco finito non bisogna mai lasciarlo fermo troppo a lungo, oltre alla voglia che si ha di vederlo circolare sul mercato.” L’attività dal vivo è però già iniziata: “Ora cominceremo a suonare qualche nuovo pezzo live, per vedere com’è la risposta del pubblico. Sicuramente torneremo in Italia per almeno un paio di date.”
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Avevamo lasciato i Magnum nel 2014 con la pubblicazione di “Escape From The Shadow Garden”, diciottesimo album in carriera per i britannici. A distanza di due anni, la band di Tony Clarkin torna di nuovo in azione portando con sé alcune interessanti novità, fra cui un nuovo tour europeo e, ovviamente, un nuovo album! A parlarci della diciannovesima prova in studio, “Sacred Blood ‘Divine’ Lies”, è il vocalist Bob Catley che, entusiasticamente, ci introduce così questo nuovo platter: “Questo è il diciannovesimo album dei Magnum. Credo sia grandioso, al suo interno troverete 10 brani, i 10 classici pezzi che potreste aspettarvi da Tony Clarkin. È una sorta di continuazione del nostro ultimo disco, “Escape From The Shadow Garden”, a livello musicale prosegue sulla medesima direzione, per cui se avete apprezzato il disco precedente, amerete anche questo. La produzione è molto più forte, le chitarre si adattano abbastanza bene nel disco, ci siamo af-
fidati ad una ‘string session’, quindi abbiamo usato degli strumenti a corda, persino dei violini. Abbiamo tirato fuori il meglio cercando di sfruttare questa sezione di strumenti in alcuni brani del disco, tanto che il risultato è molto bello. A livello di testi troviamo belle parole, qualcosa a cui ti abitui facilmente e che ti porta a chiedere: “Oh, di che cosa parla?”, “Che
cosa significa?”. Ci sono un sacco di pezzi ai quali si possono attribuire svariati significati, mentre altri sono facilmente comprensibili grazie ai testi, per cui si capisce meglio l’argomento trattato”. Il disco, che vanta un altro spettacolare artwork di Rodney Matthews, già autore di grandissimi lavori di Avantasia e degli stessi Magnum, rappresenta in toto il lato più rock del quintetto di Birmingham; di questa opinione sembra essere lo stesso
Catley che, entusiasticamente, dichiara: “Sì,è l’album più rock che abbiamo mai fatto. In passato abbiamo fatto delle cose acustiche, in questo nuovo lavoro canto meglio rispetto al passato, o così spero! La mia voce qui si adatta molto meglio, anche se dipende ovviamente dai brani, forse è anche merito del nostro produttore
che mi ha aiutato in questo. Ci sono delle belle lyrics, abbiamo un bel guitar work, la band suona meglio di sempre e sono davvero orgoglioso del lavoro svolto per quest’ultimo album”. Due album in due anni testimoniano che la band ha ancora molto da dire dopo 40 anni di carriera, tanto da portare il combo inglese a guadagnarsi il titolo di “band più produttiva di sempre”. A distanza di così poco tempo, cosa è effettivamente cambiato in termini di songwriting all’interno del
nucleo Magnum? “Tony non smette mai veramente di scrivere quando è in tour. Quando abbiamo portato a termine l’ultimo tour aveva già alcune idee per questo disco, lui ha sempre delle idee quando è on the road, trova sempre qualcosa per dei nuovi brani. Ha sempre così tante idee in testa e solo alcune alla fine si trasformano in vere canzoni, da lì parte il processo per capire cosa può funzionare o meno, per cui non si ferma mai”, questo è ciò che ci rivela il singer, che così prosegue: “Noi torniamo dal tour e lui si rinchiude nel suo studio di registrazione e si mette al lavoro su del nuovo materiale tutto il tempo! Ogni volta che ritorno dai tour degli Avantasia, mi dice di avere per le mani dei riff per dei nuovi brani dei Magnum. In quei giorni non aveva ancora scritto alcuna lyric, ma stava già lavorando alla musica. Solitamente ci serve almeno un anno affinché il tutto sia pronto e completo per un nuovo disco. È un processo continuo quello che Tony ha con la musica e le parole, non si ferma mai, ahhaha! Lui è felice quando suona la chitarra e si fa venire in mente delle buone idee per qualche canzone. Sono molto
Dove nasce Il Sangue Divino 20 METALHAMMER.IT
A TU PER TU CON IL VOCALIST BOB CATLEY, CHE SVELA I RETROSCENA DEL NUOVO “Sacred Blood ‘Divine’ Lies” di Arianna G.
colpito del suo lavoro, sono contento di averlo come amico, chitarrista, compositore, produttore, tutte queste belle cose. Andiamo d’accordo e ci divertiamo in studio”. Diciannove album sono certamente una tappa non facile da raggiungere, un sogno che tantissime band odierne spererebbero di realizzare, ma come ci si sente ad aver raggiunto un simile traguardo? Queste le parole del vivacissimo frontman: “Sono sorpreso, ehehe. Se qualcuno mi avesse detto agli inizi della nostra carriera che 40 anni più tardi avremmo potuto registrare così tanti dischi, diciannove per l’esattezza, avrei risposto: “Cosa? Sei pazzo?”. Credo che stare assieme per così tanto tempo sia già un grosso traguardo, più o meno abbiamo avuto la stessa lineup ed è una cosa, tesoro mio, di cui si può essere orgogliosi! Abbiamo avuto una piccola pausa a metà degli anni ’90, anche se poi non ha funzionato un granché per nessuno di noi. Ci siamo riuniti nel 2001, abbiamo pubblicato nove album per la SPV durante il corso di questi ultimi anni e abbiamo ricevuto molto supporto dall’etichetta. Senza i nostri fan non avremmo potuto fare niente e loro stessi non avrebbero potuto acquistare i nostri dischi o venire a vederci dal vivo, per cui dobbiamo dire grazie anche per questo. Siamo grati di avere questo tipo di sostegno sia dai nostri fan, che dalla casa discografica e credo che questo sia davvero un bel traguardo, sì! Non abbiamo ancora finito con voi, gente! Siamo ancora qui e non vediamo l’ora di metterci al lavoro sul prossimo album!”. “Sacred Blood ‘Divine’ Lies” uscirà nei negozi di musica a partire dal prossimo 26 febbraio e, per non far mancare proprio nulla a coloro che da sempre hanno sostenuto la band sin dagli esordi, il disco sarà disponibile sia in versione standard che in formato digipack e bonus disc; proprio quest’ultimo includerà – a detta dello stesso Catley, come ci confermerà in seguito in
questa sede d’intervista – tre brani inediti e due videoclip, di cui uno inerente proprio alla titletrack del disco, del quale era stato lanciato online un breve teaser. Ricapitolando, quindi, il 2016 segnerà una nuova tappa per i Magnum, sarà un anno abbastanza ricco e pieno, vista l’imminente release e il nuovo tour che, di nuovo, non farà tappa in Italia, come tristemente ci viene confermato dal nostro interlocutore: “L’hai notato eh? Abbiamo
suonato in Italia nel corso degli anni, ma la cosa non si è estesa per tutti i tour che abbiamo avuto. Avremmo bisogno che un promoter ci chiedesse di suonare da qualche parte in Italia e a volte è un lavoro duro, non tutti sembrano capire la musica. A volte la gente si muove solo quando
arrivano le richieste dei fan su Internet che chiedono di poterci vedere a Milano, Torino, Roma o Bologna. L’ultima volta in cui abbiamo suonato a Bologna il pubblico è stato fantastico, come sempre! “ I fan italiani, però, potranno godere della presenza di Mr Catley il prossimo 22 marzo all’Alcatraz di Milano in occasione dell’unica data italiana della metal opera di Tobias Sammet (Edguy): “Sì,
prenderò parte al nuovo tour degli Avantasia poco prima di andare nuovamente on the road con i Magnum. Il tour degli Avantasia inizierà a marzo e suoneremo in Italia, ovviamente… Non vedo l’ora di tornare. Siamo già stati lì all’Alcatraz di Milano. Sarà un grande bello spettacolo, inizieremo a fare le prove alla fine di Febbraio. Gli Avantasia
suoneranno in tutta la loro magnificenza in Italia, all’Alcatraz, il prossimo 22 marzo, per cui siateci gente! Io canterò un paio di brani, sarà uno show di circa 3 ore, non ci sarà nessun gruppo spalla, anche perché sarà un concerto lunghissimo senza pause! Si tratta pur sempre di una rock opera, una heavy metal rock opera! Troveremo Tobias Sammet accompagnato da un sacco di cantanti.Ho avuto modo di lavorare con Michael Kiske, avrò modo di cantare con Jorn Lande, Eric Martin dei Mr. Big, ci saranno bei personaggi. È bello poter fare tutto questo, dovrebbe esserci anche quel tipo… oh, miseria, come si chiama? Ah sì, Dee Snider dei Twisted Sister. Dovrebbe esserci anche lui! Gente, venite a vedere gli Avantasia! Avremo solo un concerto in Italia, sarà bello e non vedo l’ora! Sarà un anno intenso visti gli impegni con Avantasia e Magnum, poi subentreranno anche i festival estivi, se tutto andrà bene dovrebbe esserci un festival in Italia. Sarà un anno impegnativo con le due band, ma sono contento di poter fare queste cose! Sarà fantastico, per cui venite a vederci!”. Mancare ad un simile evento sarebbe un grosso peccato. Segnatevi, quindi, questa data sul calendario e fate partire il countdown, perché Bob Catley e tutta la famiglia stanno per arrivare!
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A soli due anni dal precedente "Back To The Front" Metal Hammer vi accompagna ALLA SCOPERTA DEL NUOVO ALBUM DEGLI ENTOMBED a.D. con le parole del frontman Lars
O D N A M M O C Y DL
DEA Tu mi vuoi far perdere tempo in tribunali? Io aggiungo due lettere, ti zittisco e continuo a far musica. Facile no? LarsGöran Petrov è una persona alla mano, positiva e che non ha mai perso di vista l’importanza della musica: scriverla e portarla ai fan. Lascia agli altri le scaramucce sui nomi. La sua concretezza ed esuperanza sono state la costanza di questa conversazione. Durante la quale ci presenta il nuovo album degli Entombed A.D. e il suo constante contatto con il bambino che è ancora in lui. Sfatiamo un mito: la Scandinavia (Norvegia, Danimarca e Svezia) e la Finlandia (che non appartiene alla Scandinavia ma alla fascia dei Paesi Nordici) sono terre buie ergo indi e per cui producono metal…NO. Questa motivazione è una bufala. Se non volete fidarvi dell’espatriata di turno, potete
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leggervi i diversi studi che sostengono il contrario. Ricerche hanno mostrato una correlazione tra la felicità e benessere di un paese e il tipo di musica che produce; in sostanza più felice è il Paese, più scura è la musica e viceversa. Prendete l’America, piena di problemi economici e sociali ma colma di pop e dance, perché le persone infelici vogliono musica che gli aiuti a sfuggire dai problemi quotidiani. La Svezia è prospera e non solo dal punto di vista economico, come ben sappiamo, si ritrova a essere una fabbrica di metal assurda. Da essa sono nati stili quali il “Gothenburg sound” e lo “Swedish death metal”. La prima ondata di “death metal svedese” era costituita da band come Morbid e Nihilist, e in seguito, Dismember, Unleashed e Entombed. Proprio questi ultimi hanno
di Paky Orrasi
avuto dei problemi che hanno determinato la dipartita di Alex Hellid. Nulla di strano poiché i cambiamenti di line-up non sono inconsueti, se ma in questo caso l’ex chitarrista ha deciso di coinvolgere avvocati siccome il nome della band appartiene anche a lui. Per evitare cause sono state aggiunte due lettere “A.D.” e via con la musica, perché è quella che conta, senza bloccarsi per anni. Tutto rispecchia il carattere di Lars-Göran Petrov, uno degli artisti più piacevoli che io abbia mai intervistato, sempre bello che contento come ogni Svedese che si rispetti! Gli Entombed A.D. hanno pubblicato “Back to the Front” nel 2013 e il 26 Febbraio uscirà “Dead Dawn”. Sebbene i tumulti siano passati Nico Elgstrand, chitarrista, parlando del nuovo album ha giudicato il lavoro che ha portato a questo sec-
ondo lavoro avvilente: “Nico è un ragazzo parecchio sensibile” commenta Petrov scherzando, “per lui è stato liberatorio completare il tutto, in quanto è quello nella band che ha più controllo, nel senso che si assicura che tutto funzioni! Alla fine è andato tutto bene. Su questo album abbiamo cominciato a lavorare praticamente subito dopo l’uscita di “Back to the Front”, ci abbiamo messo esattamente due anni e le persone erano sorpresa, magari pensavano che tra casini vari sarebbero passati sei anni prima di avere un nuovo album. Abbiamo imparato a migliorare il modo in cui utilizziamo il tempo, scrivendo molto sul tour bus. Perché avere sei anni tra un album e l’altro è ridicolo.” Credo che tutti possiamo essere d’accordo sul fatto che tagliare la testa al toro senza
bloccarsi in cause ridicole sia stata quella giusta, altrimenti sarebbe stato non solo una perdita per la band, ma specialmente per i fan. “Dead Down” è un brillante lavoro stile Entombed, fiero death metal allo stato puro, e ascoltandolo sarete inondati dall’energia di questa band, non solo un ennesimo lavoro e Petrov commenta “è stato grandiaso lavorarci, come quando pubblichi il tuo primo album, mi sono risentito bambino” e questo vale mille parole. La cosa che amo in assoluto sia del Death che del Trash è la fermezza, ossia non deve cambiare e macchiarsi troppo con altre influenze; sono generi che sono perfetti e vanno rinfrescati ma non stravolti. Ora, a 43 anni, Petrov guarda alla sua carriera e al motivo che inizialmente lo portò ad essere affascinato da questo stile e al motivo per quale ancora lo sceglie ogni giorno: “Da piccolo guardavamo a band come Iron Maiden, Motörhead, Sex Pistols e volevamo essere come
loro, prima di tutto dovevi suonare uno strumento, io imparai la batteria e iniziai con i Morbid. In qualche modo diventai un cantante o un growler ed eravamo contentissimi di avere un posto dove suonare, poi non ti dico la felicità di pubblicare un album, che metti vicino a “The Number of the Beast” e ti esalti. Oggi questo genere musicale mi da il tutto, non è cambiato nulla, an-
cora son qui a ridere perché l’album sta per uscire e non vedo l’ora di averlo tra le mani, praticamente sono ancora quel bambino, altrimenti dovrei smettere”. Questo entusiasmo è rispecchiato Death Down che non cambia le regole Entombed e
se siete preoccupati riguardo alle chitarre non vi preoccupate, Petrov precisa che la chitarra rimane importantissima. Inoltre sembra che questa “nuova” line-up funzioni alla grade, se da una parte vi è una comunicazione diretta e costante con la label dall’altra vi è una ritrovata e migliorata relazione tra questi musicisti. Le continue risate e la positività di
Petrov è così distante dal mito che lo segue, potrebbe sdraiarsi sugli allori, anzi sa bene che ci sono ragazzi li fuori che pieni di energia sono pronti ad essere la nuova band che spacca “quando vado in un pub e mi ritrovo a guardare ragazzi suonare è fantastico, perché mantangono la scena viva.
Inoltre oggi le nuove leve hanno un talento enorme, hanno la faccia di bambini ma suonano come adulti. Proprio un paio di settimane sono andato al Copperfields, un pub di Stoccolma dove c’erano tre, quattro band di ragazzini davvero bravi. I fan, tuttavia, aspettano di vedere gli Entombed A.D. sul palco, e non preoccupatevi, questa formazione mira a suonare live re go l a r me nt e, uno dei problemi che hanno portato alla dipartita di Hellid era il suo non volere essere sempre in tour, quindi non vi mancheranno occasioni di vederli, ma chi coprirà il quinto posto? Petrov ha deciso di svelarcelo: “Con noi ci sarà Guilherme Miranda, front dei brasiliani KroW”. Quindi ragazzi tutto è pronto tra album e tour, più forti di prima e a noi non resta che lottare per la prima fila!
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Finalmente si sono scrollati l’etichetta dei minorenni e con “Braindead” sono qui a dimostrarvi che non sono un fenomeno del momento ma del Fenomenale Trash Metal! Il 2015 è stato un anno triste per l’heavy metal. Abbiamo perso una marea di artisti ed è normale sentirsi persi e privi di speranze, ma tuttavia, se si è pronti ad ascoltare, vi sono formazioni ce ti danno speranza. Ad esempio da una cittadina finlandese dal nome che sembra scritto da Tolkien, Jyväskylä, un paio di anni fa arrivò una band che ha sorpreso tutti: Lost Society. Formati nel 2010 (all’epoca età media quindici anni) e scoperti, grazie ad un concorso GBOB (Global Battle Of the Bands) dalla Nuclear Blast nel 2012. La loro arma? Un thrash metal che ha sbalordito colossi quali Bobby Ellsworth (Overkill), il quale in un’intervista mi disse “sono scioccato, questi ragazzini suonano come una band navigata, sono gruppi come questi a cui mi paragono oggi, per rimanere rilevante
e spingermi a fare meglio, non le band della mia età”. “Fast Loud Death”, il loro primo album uscì nel 2013 e da li questi ragazzi non solo non si sono fermati ma anzi sono stati catapultati sul palco con Children Of Bodom, (i quali gli hanno presi sotto la loro ala, portandoli in tour) Slayer, Anthrax , At the Gates e Overkill. A guidarli in questo mondo hanno non solo una band come Bodom, una label da sogno, ma anche “mutti” aka Silke Yli-Sirniö, il top in quanto promozione in Finlandia, chiamata dalle sue band mutti, ossia mamma in tedesco, nome che si è guadagnata grazie alla maniera in cui si prende cura dei suoi artisti. Nel 2013, la loro promoter Silke mi chiese di intervistarli e di indirizzarli durante la conversazione, in quanto erano nervosi di parlare con una vera rivista e
ancora inesperti. Non dimenticherò mai quanto vecchia mi sentii in quel momento “Tuska 2013!”, ricorda Samy: “Dio mi ricordo quell’intervista eravamo così nervosi, sei stata una delle prime interviste”. Tuttavia da giornalista fu una esperienza magnifica avere al microfono ragazzi che facevano musica per vera passione, ingenui e non interessati alla fama, difronte non avevo l’ennesimo pallone gonfiato che passa più tempo in un bar cool e rock della capitale che in studio. I Lost Society venivano da una piccola città, dove se prendi una chitarra in mano, essa diventa la tua vita, una maniera per trovare il tuo posto nel mondo, loro erano veri e sono rimasti veri. Ora nel 2016 mi ritrovo nell’ufficio di mutti, con Samy a dir poco cresciuto, che mi fuma sigarette e mi beve vino, sicuro di se ,una sicurezza che si sente in “Braindead” , il nuovo lavoro che dimostra una crescita spaventosa e un particolare sviluppo artistico di una band esperta, risposta a chi credeva fossero solo
un fenomeno, che sarebbe poi morto. Con Samy e Silke abbiamo anche parlato di chi credeva che i Lost Society fossero la versione thrash degli Sturm und Drang, una band Finlandese Heavy Rock composta esclusivamente da quindicenni, ma dopo un clamore che li portò a suonare dappertutto, anche al Wacken, entrarono nel dimenticatoio. Questo terzo album dimostra che i Lost sono qui per rimanere e portare la bandiera del Trash contemporaneo in giro per il mondo. Inoltre “Braindead” attesta la loro maturità specialmente nell´aver compreso che l’aggressività non è sinonimo esclusivo di velocità “quando abbiamo iniziato a scrivere quest’ album non ci siam detti di rallentare”, spiega Samy, “abbiamo semplicemente scritto riff seguendo i nostri istinti. Ma una volta scritto ‘I Am The Antidote’ l’abbiamo registrato alla buona, in sala prove, solo per ascoltarlo e lì abbiam tutti pensato che questo fosse il nostro pezzo più aggressivo. Credo che sia stata
WE ARE THE ANTIDOTE di Paky Orrasi
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una lezione. Il detto talvolta meno è meglio in questo caso non mente”. Difatti “Braindead” è in assoluto il loro materiale più oscuro e violento. E sempre seguendo la stessa regola, Samy ha capito che per far arrivare il suo messaggio non sempre deve urlartelo in faccia. In questo lavoro ha deciso di sperimentare con la sua voce, usando il pulito, una novità assoluta per loro, e dei sussurri “Per quanto riguarda la voce e le strade che ho deciso di intraprendere e sperimentare è successo tutto nello studio” , spiega Samy “avevamo scritto i pezzi a Jyväskylä ma non avevo ancora idee su come cantare. Io e il produttore Nino L a u re n n e, una volta ascoltati tutti i pezzi, abbiamo pensato di provare a cantare qualcosa con la voce pulita. Provammo con ‘I Am The Antidote’ e li ci rendemmo conto che il pezzo raggiungeva un livello totalmente superiore. Quindi abbiamo continuato e sono convinto che sperimentare con la mia voce abbia dato quel qualcosa in più all’album.” Samy non è estraneo alla voce pulita, difatti anni e anni fa prima dei Lost Society la faccia della nuova generazione Trash aveva sperimentato con il glam metal. Ma cantare per divertimento e registrare è diverso e sulle sue preoccupazioni riguardo a registrare in pulito Samy ammette “ero preoccupato perché non avevo mai registrato la voce chiara, tuttavia Nino ha una tale esperienza specialmente con band che usano solo voce pulita e quindi ha saputo spengermi e far uscire il meglio. Inoltre credo
che l’album nella sua interezza abbia un suono nettamente migliore rispetto ai due precedenti. Nino si è occupato della produzione e mixaggio ed ha fatto una lavoro spaventoso, lui era davvero su di giri mentre lo stava mixando. Questo è il suono che i Lost Society devono avere”. Se il suono è eccellente, i testi non sono da meno. Seguendo il suono dell’album, i testi sono molto oscuri, molto diversi dai precedenti, che per la maggior parte seguivano i temi predominanti nella scena East Coast
thrash metal. Un esempio è il pezzo ‘Only (My) Death Is Certain’,riguardo al testo Samy ci spiega “è la storia di un uomo che quando si addormenta ha lo stesso identico incubo, dove viene ucciso. E ogni notte sogna di essere ucciso, ma non riesce a risvegliarsi, quindi è bloccato nella sua mente. Il pezzo è un viaggio nei sentimenti e emozioni di questa persona”. Il pezzo è un esempio brillante di come testo e musica devono camminare sullo stesso viaggio emozionale. Difatti, dopo una intro apocalittica, ci ritroviamo in un coro epico ma subito ricadiamo nell’oscuro. Samy è davvero orgoglioso di questi pezzi e ha fatto anche un grande lavoro alla chitarra. Chiare le influenze targate Bodom, udibili molto più in questo che
nei precedenti lavori e Samy aggiunge: “Dato che abbiamo rallentato in questo album, credo che sia chiara l’influenza. Naturalmente non abbiamo rubato nulla, ma semplicemente abbiamo fatto nostro lo stile da cui noi, come ogni musicista, viene inspirato. Alexi Lahio è da sempre il mio chitarrista preferito quindi mi sono ritrovato a scrivere assoli più melodici e di certo avevo lui in mente”. Come il titolo suggerisce, “Braindead” esplora il tema di una generazione incollata a un piccolo aggeggio tra le loro mani. Tuttavia la generazione di Samy è la prima peccatrice, quindi ho deciso di chiedergli se lui potesse sopravvivere senza smartphone, computer e in generale internet per un mese e lui risponde che nel suo caso sarebbe problematico: “ Io sono la persona dietro al nostro Facebook, instagram etc, quindi per questo motive sarebbe problematico. Tuttavia se non avessi questo ruolo sono sicuro che potrei! La cultura Braindead sta crescendo giorno per giorno. Io sono giovane, ma a differenza dei bambini che stanno crescendo ora, ricordo come è stare senza telefonino e computer, ho vissuto le due ere per dire e quindi credo che non avrei assolutamente problema a staccarmi dalla rete e godermi altri aspetti della vita”. Insomma, giovani, ottimi musicisti e con la testa sulle spalle. I Lost Society sono definitivamente la band più promettente della loro generazione, quindi non perdeteli d’occhio, sono certa che anche i nostri eroi dovunque loro siano stiano brindando alle nuove leve.
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Definiti da sempre come “la costola” dei Within Temptation sin dal loro esordio avvenuto nel 2006 con la release di “Lucidity”, i Delain sono stati finora una delle poche band del panorama metal odierno ad aver raggiunto traguardi che oggi giorno pochissime realtà musicali sarebbero in grado di vantare nel proprio curriculum. A distanza di dieci anni esatti dal loro ingresso nel music biz, la creatura di Martjin Westerholt può essere definita in toto una band a 360°, completa ma soprattutto può definirsi una band matura. Quattro album in studio e svariati tour internazionali in compagnia di alcune delle più grandi band in circolazione come Nightwish, Epica, Sonata Arctica e Kamelot sono certamente traguardi ostici per tantissimi act attuali e i Delain questo lo sanno molto bene, ma si sa, il duro lavoro alla fine ripaga sempre! A breve l’ensemble olandese centrerà un altro grande obiettivo: il 2016 sarà, infatti,
un anno molto importante per Charlotte Wessels e soci. Questo nuovo anno non solo segnerà il decimo anno di carriera, ma regalerà anche ben due nuove release: un EP, “Lunar Prelude”, e un quinto full length, tuttora in fase di lavorazione; pro-
andare in tour e il nostro programma inerente al nuovo album stava andando a rilento, per cui è stato un periodo molto impegnativo che ci ha portato via molto tempo utile alla realizzazione del nuovo album. Ad un certo punto, ci siamo ritro-
prio quest’ultimo EP sembra aver incuriosito in particolar modo i fan del sestetto symphonic metal che da subito si sono domandati cosa abbia spinto Westerholt e i suoi a pubblicare un mini album prima di avere tra le mani un lavoro completo. Secondo il tastierista olandese, la risposta sarebbe alquanto logica: “Abbiamo deciso di realizzare questo EP poiché lo scorso anno abbiamo ricevuto moltissime richieste di
vati a far fronte a un sacco di richieste dei fan impazienti di avere del nuovo materiale. Ovviamente abbiamo iniziato a comporre nuova musica e ad un tratto ci siamo detti: “Perché non pubblichiamo un paio di canzoni inedite per riscaldare l’animo della gente?”. Da qui è nata l’idea di realizzare un nuovo EP. Con questa nuova release abbiamo anche deciso di non seguire un percorso definito.
Normalmente scrivi tutto il materiale e lo registri, ti dedichi al mixing… Questa volta abbiamo pensato di lavorare per gradi. Abbiamo riscritto delle canzoni già registrate in precedenza, poi abbiamo scritto altri brani e li abbiamo registrati e avevamo alcuni pezzi già pronti, per cui abbiamo pensato di animare la gente con un nuovo EP”. Il nuovo EP sarà a tutti gli effetti un piccolo antipasto di quello che la band offrirà in seguito con il prossimo full length che, viste le anticipazioni, si prospetterà essere un altro bel gioiellino. Benché la pubblicazione sia programmata per il prossimo 16 febbraio, questo nuovo mini album potrà essere gustato in anteprima dai fan in occasione del “Suckerpunch show”, evento che prende nome proprio da un brano inedito contenuto in questo disco e il cui video, che porta la firma del grande Patric Ullaeus, sarà a breve online. Cosa ne pensa, però, il founder di questo nuovo
Preludio Lunare Il nuovo EP della band olandese attraverso le parole del tastierista Martijn Westerholt di Arianna G.
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platter e dei brani in esso contenuto? “Turn The Lights Out era già stata eseguita live e questo mi aveva fatto capire che le canzoni comunque funzionavano, mi davano modo di vedere se c’era qualcosa da sistemare o meno. Durante la pre-produzione ci siamo accorti di quanto ci piacesse anche “Suckerpunch” e così abbiamo pensato di lavorare prima a questo brano, in modo da poterlo registrare e missarlo in seguito. Siamo stati molto soddisfatti del risultato e abbiamo pensato che fosse il brano giusto per presentare il nuovo album alle persone, ai fan”. Dalle parole di Westerholt si evincono una grande gioia e un forte orgoglio per questa nuova creaturina e, si sa, non è un segreto che Martijn e Charlotte siano le “menti criminali” dietro i Delain, ma pochi sanno che questi due grandi artisti spesso si avvalgono di un “settimo” membro, qualcuno che ha sempre lavorato dietro le quinte sin dai tempi di “Lucidity”: si tratta di Guus Eikens, musicista olandese noto per aver fondato gli Orphanage (band nella quale ha militato George Oosthoek, ospite che in più di un’occasione abbiamo ritrovato nella discografia dei nostri, ndr). In merito a questo lungo sodalizio
professionale, Martijn dichiara: “Questa è una gran bella domanda, perché, in effetti, Guus fa parte della band, non suona live ma fa parte della squadra. Io, Charlotte e Guus scriviamo il 90% del materiale, noi siamo il fulcro compositivo della band. La cosa più importante è che tutti i membri della band sono sempre più coinvolti in tutto il processo, che vede anche lo sviluppo e la stesura di un brano, ma io e Charlotte siamo il cuore della band. È sempre stato così dall’inizio e Guus rappresenta una parte molto importante. Sarebbe difficile riuscire ad ottenere le stesse canzoni e gli stessi risultati senza il suo intervento, Guus è una parte essenziale”. Niente da temere, quindi! Il prossimo LP della band, nonostante i problemi logicistici, arriverà entro la fine dell’anno, come conferma lo stesso musicista: “A breve avremo un imminente tour con i Nightwish e questo ci richiederà circa due mesi. Questo significa che dovremo lavorare duramente e spingerci al limite, cercando di finire il tutto entro la fine del mese, perché poi dovremmo aspettare Aprile per poter andare avanti con i lavori. Credo che al momento abbiamo per le mani il 75% del lavoro, sono mol-
t o contento di questo, ma abbiamo bisogno di più tempo una volta rientrati dal tour per poter ultimare la parte rimanente. Spero quindi di poter pubblicare il tutto alla fine della primavera o al più tardi in estate. La cosa certa è che il disco uscirà entro l’anno!”. Ricapitolando, quindi, la band avrà in procinto nuovi tour, nuove release, un anniversario di tutto rispetto, la cui realizzazione è tuttora in fase di progetto con tanto di super sorpresa per i fan, come rivelatoci da Martijn… e per quel che riguarda le nuove future collaborazioni? Ci sarà spazio anche per esse? Un famoso detto recitava “mai dire mai”. Westerholt, infatti, di album in album, si è sempre affidato alla partecipazione di vari special guest che, a modo loro, hanno aggiunto un tocco in più ai brani dei Delain. Tanti musicisti, infatti, hanno collaborato con il sestetto olandese, da George Oosthook a Marco Hietala, da Alissa White-Gluz a Sharon Den Adel, una delle voci più amate della scena internazionale. Proprio la cognata del tastierista sembra essere l’artista più richiesta per le più svariate collaborazioni in ambito musicale, ma ci sarà mai la possibilità di rivedere i fratelli Westerholt all’opera, magari in un disco dei Delain, dopo il fruttuoso per-
corso artistico condiviso nei Within Temptation? La risposta potrà stupire, positivamente o negativamente, tutti i fan della band: “Ad essere onesti, non ci ho mai pensato, non intenzionalmente… Entrambi facciamo la stessa cosa a modo nostro anche se non è propriamente comparabile. In qualche modo, però – e non so dirti esattamente il perché – non credo che la cosa possa accadere tanto presto… Credo sia per il fatto che entrambi facciamo le stesse cose, ascoltiamo le cose che facciamo con le rispettive band, se ho qualcosa di nuovo da sottoporre alla sua attenzione, lo faccio, a volte sia lui che Sharon mi invitano per farmi ascoltare i loro nuovi pezzi. Diciamo che ci teniamo aggiornati su ciò che facciamo, ma non si sa mai cosa il futuro possa riservare!”.
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BATHORY FOREVER
di Gianluca ‘Graz’ Grazioli
IL GRUPPO SVEDESE RACCONTA A METAL HAMMER I RETROSCENA DEL NUOVO DISCO “BLOT ILT TAUT”, UN TRIBUTO AGLI INDIMENTICATI BATHORY Fra i tantissimi gruppi di seconda fascia, che sono tali solo perché poco conosciuti dal pubblico della “massa” ovvero quella che si scalda solo se ci sono di mezzo i Maiden, i Metallica, i Dream Theater e giù di lì, ma che in realtà nulla hanno da invidiare ai “big”, senza dubbio gli Ereb Altor sono tra i miei preferiti: sin dal loro debutto “By Honour” pubblicato dalla sconosciutissima I Hate Records nel 2008, gli svedesi sono entrati prepotentemente nella mia mente e nel mio cuore, tramite un doom heavy metal dal sapore fortemente epico ed angoscioso che non poteva non richiamare alla mente i Bathory dei “viking albums”, ovvero “Hammerheart”, “Twilight of the Gods” e “Blood on Ice”, con qualche spruzzata del più estremo “Blood Fire Death”. Ed anche la discografia degli Ereb Altor ha vissuto fino ad oggi un’alternanza di momenti più classici con altri maggiormente inclinati verso una sorta di blackdeath
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metal, come ad esempio è stato l’ultimo album in studio “Nattramn” uscito nel 2015 per Cyclone Empire. Tuttavia i loro sostenitori non potevano non portare nel cuore un desiderio, quello che incidessero un tribute album dedicato ai Bathory, che più di una volta avevano coverizzato in sede live. E così, dopo tante insistenze, Mats e Ragnar, mente e cuore degli Ereb Altor ma anche dei più doomster Isole, ci hanno accontentato, sfornando un “Blot – Ilt Taut”, ovvero proprio “Blood Fire Death” in svedese antico, semplicemente straordinario: un vero tributo inteso come un omaggio, una celebrazione della persona di Quorthon e della sua musica immortale, lontano dall’es-
sere un’operazione commerciale. “We will do it from the heart”, e così è stato. Ereb Altor, testa e cuore. “In moltissime occasioni abbiamo avuto modo di parlare con il nostro pubblico, un sacco di ragazzi ci chiedeva come mai non avessimo mai registrato un pezzo della discografia dei Bathory. Moltissimi, quasi tutti tra questi, ci hanno detto che avevamo il giusto mood, che le rappresentavamo in maniera fedele e che eravamo eredi del loro retaggio. Badate bene, queste parole non provengono da noi, non ci permetteremmo mai di autodefinirci in maniera così stolta eredi di Quorthon! Queste parole del nostro pubblico hanno iniziato a danzare nella mia mente sempre più e così ci siamo chiesti. “ehi, dovremmo farlo proprio adesso per onorare il suo 50esimo compleanno?” Ok, so che il nostro disco non riuscirà ad uscire il 17 febbraio ma questa è una questione burocratica che va oltre il nostro control-
lo.. Inoltre ci siamo chiesti come avremmo potuto realizzare qualcosa di così…impegnativo! Dovremmo osare di penetrare i sacri territori dove i Bathory risiedono da sempre? La risposta è stata SI, noi affronteremo quei territori e lo faremo direttamente dal nostro CUORE! Quello che ne è uscito è un bel mix di spontaneità e ragionamento e tutto quello che posso dirti che ho goduto di ogni singolo minuto nel fare tutto questo. Lo abbiamo fatto a nostro modo, mettendoci tutto il nostro cuore, in ogni brano”. Senza dubbio un’operazione coraggiosa, un qualcosa di speciale, da celebrare anche tramite la scelta del formato che, a livello fisico, sarà unicamente quello dell’LP. “Volevamo realizzare qualcosa di speciale, limitato e fin dal principio eravamo tutti concordi nel realizzare un’uscita solo su 33 giri. Ci spiace molto per tutti i nostri fan che ormai, nel 2016, non posseggono più un giradischi ma d’altronde per tutti i figli “di internet” c’è sempre la versione in mp3, mentre la versione in vinile sarà perfetta per tutti i collezionisti”. Scelta del vinile davvero affascinante e
retrò ma che purtroppo ha probab i l me nt e limitato molto il minutaggio a disposizione degli Ereb Altor, costretti a tagliar via metà “Twilight of the Gods” e tantissimi altri brani emozionanti come “The Lake”, “One Rode to Asa Bay”, “Lake of Fire”, “Blood and Iron”. “L’altra faccia della stessa moneta purtroppo. La scelta di uscire in vinile ci ha obbligato a tagliare sui tempi. Volevamo che la qualità del sound fosse eccellente e per questo non abbiamo potuto abbondare col minutaggio”. 7 brani leggendari, 7 soli brani per rendere omaggio ad un’intera discografia, anzi ad un uomo. Una scelta compiuta dagli Ereb Altor che crediamo non debba essere stata affatto semplice. “Abbiamo considerato solo gli album classici, quelli che vanno dal primo fino a ‘Twilight of the Gods’, specialmente quelli epici sono più vicini al mio cuore quindi la scelta è stata quasi obbligata. Secondariamente, dai quei dischi è stato davvero duro sceglierne solo 7: ci siamo basati un po’ sui nostril gusti personali, a quali pezzi siamo da sempre maggiormente affezionati, sulla loro durata e sull’adattabilità di quelle canzone allo stile degli Ereb Altor. Ovviamente, infine, la varietà e la volontà di inserire I brani che avevamo già eseguito dal vivo davanti al nostro pubblico in questi anni. Indubbiamente siamo stati costretti a lasciar fuori delle composizioni che adoriamo, ma non c’era altra scelta”. Reintepretazioni a nostro avviso davvero azzeccate e personali, probabilemente sfocianti negli apici raggiunti da “Woman of Dark Desires”, resa in una veste meno aggressiva e più epica, e “Song to Hall Up High”, davvero toccante ed emozionante. “Ovviamente siamo fieri di ognuna di esse ma dovendo scegliere la preferita, a livello personale, non posso
che rispondere “Blood Fire Death”, non solo credo che abbiamo catturato il vibe epico dei Bathory ma è anche uno dei miei pezzi preferiti in assoluto di tutta la storia della musica”. Quorthon, una persona oscura e solare allo stesso tempo, così sfuggente ed enigmatico dal vivo quanto affascinante e magnetico fuori dalla vita privata. Personalmente ho avuto l’occa-
Ho conosciuto sua sorella per poco tempo l’anno scorso e ho il doppio LP arancione di Hammerheart autografato dal padre. Io credo che Quorthon sia stato un uomo con le capacità di preconizzare, credo fosse il suo talento più sviluppato. Ha esplorato nuovi territori e lo ha fatto con una pazzesca naturalezza di riuscire a creare certe atmosfere
sione di parlargli, solo per telefono, un paio di volte per delle interviste telefoniche ai tempi dei “Nordland”. E’ stato estremamente gentile e cordiale ma appariva piuttosto differente dal ragazzo che aveva scritto e suonato i “Viking albums”: non così “contento” di farsi intervistare, quasi timido, e piuttosto forzato dalle richieste dei suoi fans a dirigersi a 37/38 anni verso uno stile musicale che non sentiva più suo. “Non abbiamo mai avuto la fortuna di conoscerlo e questo sinceramente mi addolora.
con mezzi a dir poco basilari. Quorthon è stato un vero pioniere all’interno del metal estremo. Riguardo gli ultimi dischi, a mio parere è evidente che non è riuscito a metterci il cuore allo stesso modo di come aveva fatto con i classici. Sono album molto ben fatti ma si sente che manca qualcosa, almeno questo è ciò che penso io”. Non manca nulla invece al momento nei lavori degli Ereb Altor, anzi man mano che il tempo è passato è stata aumentata l’intensità e la violenza, come nel caso
dell’ultimo “Nattramn”, decisamente più estremo rispetto al loro standard abituale. “Nattramn” è stato il giusto passo da fare per noi, io guardo sempre al futuro, scrivo musica tutto il giorno, in ogni momento, è un processo senza fine. Il prossimo disco è già pronto, è tutto nella mia mente e quando troveremo il tempo e l’energia giuste inizieremo immediatamente le sessioni di registrazione. La direzione musicale che prenderemo è invece un segreto che al momento tengo per me”. Rimangono alcuni interrogativi sul futuro prossimo degli Ereb Altor mentre il presente
è più luminoso e certo che mai. Il tributo da loro avete registrato ha raggiunto pienamente il suo scopo, è un disco immenso, è un VERO TRIBUTO ad un grande musicista e tutti noi ascoltandolo possiamo sentire che è fatto non solo con le loro mani e le loro menti ma soprattutto con il loro cuore, e questo non può che renderci felici ed orgogliosi. “Una cosa abbiamo sempre tenuto a mente, I BATHORY SONO STATI E SEMPRE SARANNO CUORE ED ANIMA!!!”
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di Paky Orrasi Potete amarlo o odiarlo, ma la sua franchezza è quasi spiazzante.Essere onesto spesso ti rende vulnerabile, eppure a Jesse Leach non importa.La sua chiave artistica risiede nella verità e nel darsi tutto, donare tutto, ogni goccia di se stesso. Una mente creativa che oggi sa come gestire i suoi incubi. Una delle assunzioni più sbagliate del popolo metal è che siamo un popolo di depressoni. Ora, non neghiamolo, spesso e volentieri la nostra mente plana su pensieri piuttosto malinconici, ma non per questo meritiamo di essere visti come dei casi umani. Un paio di anni fa Devin Townsend mi disse che a suo parere i fan del metal siano uno dei popoli più sensibili. Concordai pienamente ed aggiunsi che noi siamo persone che riflettono, pensano sia al mondo che li circonda e specialmente al mondo che è dentro di noi. Pensare, riflettere, riconsiderare è parte di un processo creativo poiché si tende a cadere negli stati più profondi di depressione. Quindi quando vi accuseranno di essere un tantino depressi da oggi in poi rispondete che siete semplicemente creativi. Sebbene io non sia una
metalcore fan, rispetto la grande sensibilità di alcuni artisti del genere. La maniera in cui i testi non sono solamente parole
su un foglio, ma bensì la parte fondamentale di un pezzo. Jesse Leach è un esempio lampante di un artista che a causa, o grazie al suo volersi dare tutto, voler essere onesto e quindi scrivere testi schietti, deve spesso confrontarsi con dei suoi demoni.Il suo animo sensibile l’ha portato a
una lotta contro la depressione,, ma non l’ha nascosto, anzi ne ha fatto una chiave, uno strumento per espandere il suo estro creativo. Vista da fuori la vita di una
persona come Leach può apparire magnifica, tuttavia non è facile stare sempre su un tour bus, lontano dai veri affetti, e ogni giorno dover dare tutto se stesso sul palco. Leach lo sa bene, perché far fronte a quel mondo lo portò a doversi allontanare dalla band “Non mi sono mai trovato comodo a fare la vita di una rockstar”,
spiega Leach, “all’epoca quello stile di vita, sai uscite e vedere tanti posti e cose, essere socievole, bere un paio di drink non faceva per me , non ero in uno stato mentale per far fronte a quello stile di vita”. Fortunatamente, Leach superò le sue battaglie con la depressione e nel 2012 ritornò a far parte dei Killswitch Engage. La band ha poi rilasciato ‘Disarm The Descent’, che ha venduto circa 48.000 copie nella prima settimana di uscita, debuttando al n°7 della classifica del Billboard. Quell’album può essere visto come il riscatto di una uomo, maturato. Da quell’album arrivarono canzoni come ‘New Awakening’, che Jesse descrive come “un testo che dice di non vivere in paura, neanche di andare contro quello che generalmente si fa” .Eppure la depressione è un riff che ti circola in testa, che non ti piace e vuoi dimenticare. Si può scrivere qualcosa di migliore, puoi cercare di distrarti e togliertelo dalla testa, cambiare la progressione degli accordi, melodia ….ma alla fine anche se camuffato, quel particolare riff è lì, e se impari ad usarlo può essere un alleato.
E N O I Z A N R A L'INC H C A E L E S DI JES
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A Marzo uscirà ‘Incarnate’ il nuovo atteso album dei Killswitch Engage, un album che arriva dopo tre anni dal precedente “mi ha preso più tempo”, ammette Leach, “ma con la nostra band non puoi far finta, bisogna mettercela tutta e scrivere un album dando onestamente tutto quello che hai”. Questo nuovo lavoro ha ancora una volta messo alla prova Leach che, come al solito, non si nasconde e spiega: “Ad un punto questo album mi ha fatto quasi impazzire. Mia moglie quasi non mi riconosceva. Per un paio di settimane non ero me stesso. Ormai non dormivo neanche più, è stata dura perché la mia regola era dare qualcosa di vero, darmi tutto tramite i testi. Dare ai fan onestà vocalmente e liricamente”. Tuttavia ritornando a quella alleata, questa volta Leach ci ha spiegato che durante la scrittura di quest’album ha perseguito, cercato e in qualche maniera indotto se stesso ad entrare in una zona buia. “Stavolta, questo processo l’ho indotto in un certo senso, mi sono rinchiuso fra le montagne, e ho cercato autenticità ad ogni costo, fino a quando ho trovato qualcosa di vero; non è stato facile, sicuramente non divertente”. Molti potrebbero pensare che è un discorso di chi se la vuole un tantino tirare, e vuole fare l’artista, tuttavia abbiamo trovato realtà in quella voce malinconica, di chi seppur
sia felice di presentare la sua nuova creazione non può nascondere la tonalità che risiede solo nelle persone che hanno ben più volte percorso quel sentimento, e quasi come una cicatrice di guerra, anche se ora vivi in pace il segno è sempre lì. Alla fine Leach ha saputo manovrare questi sentimenti, come un abile burattinaio per portarci un album di tutto rispetto, con pezzi davvero degni di nota come quello che l’ha fatto sbloccare, ed è stata quasi una chiave per aprire finalmente quella porta e far scorrere l’incontro: “It Falls On Me, è stato il pezzo che mi ha fatto sbloccare, mi ha fatto letteralmente uscire fuori da questa situazione e si può capire nel testo, in quanto ci si chiede come mai era stata promessa la pace, ma ci si ritrova ancora qui, where is the peace that you promised me? Di una persona che non ha ricevuto la serenità promessa ma che ancora si sente morto dentro”. Il pezzo è altamente emozionante, un grido che non può essere finto. Le vocalità lo attestano e per gli amanti del genere sarà vissuta come un urlo catartico. Quando i pezzi sono così sentiti, vi sono
due categorie di artisti, nella prima anche le canzoni più sofferte, patite o semplicemente personali, una volta registrate, diventano in qualche senso di proprietà del pubblico, ci si riesce a distaccare e non emozionarsi durante l´esecuzione; vi sono invece artisti che, in qualche pezzo, non riescono a mettere le emozioni in panchina a beneficio dell’esecuzione, come ci spiega Leach: “a me capita spesso di emozionarmi sul palco, e ho lavorato molto, specialmente negli ultimi anni; sono stato li a meditare e a lavorare su questo problema perché, naturalmente, la voce si spezza e magari stecco perché spingo troppo”. E su questo album in particolare, se ci siano canzoni dove potrebbe correre questo “pericolo”, Leach commenta: “So che in questo dovrò lavorare molto su un paio di pezzi come ‘Cut Me Loose’, ‘It Falls On Me e Embrace The Journey…Upraised’”. Il viaggio di Jesse Leach non ha riguardato solo la sua depressione, ma anche lo spirito. Ad esempio gli abbiamo chiesto quanto questo uomo fosse
diverso da “Irreversal” pezzo tratto dal primissimo album ‘Killswitch Engage’ a riguardo commenta: “quasi non ricordavo quel pezzo, un pezzo che parlava della mia fede, molto è cambiato. Non ho la stessa visione sulla religione che avevo prima. Sono cresciuto molto e non ho paura di dire che vi sono tante cose nella religione organizzata a cui sono contrario”. Naturalmente la sua sensibilità e veridicità lo rendono una persona attaccabile, e in molti lo criticano, come altre band vicine al loro genere musicale; una delle critiche riguarda proprio l’emotività dei testi, ma Leach non si fa sfiorare da tutto ciò: “Mi attaccano, mi prendono magari per il culo, ma a me non mi interessa . Essere aperto ed onesto è l’unica maniera in cui so eseguire e scrivere. Tutto questo mito della rockstar non mi si adatta. Non m’importa se mi pensano debole. Io sono un artista, non una rock star”. E conclude con la migliore affermazione, per finire questo viaggio nella sua anima: “Per me esprimere una vera e onesta rappresentazione di me stesso e del mondo intorno a me è più importante che la mia vita”.
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THE STORY
L’evoluzione del Sogno di Alex Quero
Che vi piaccia o no (a me piace), i Dream Theater sono tra le band più influenti della storia del metal. Che vi piaccia o no (a me piace) quando il 99% della popolazione mondiale pensa al progressive metal pensa automaticamente ai Dream Theater. Che vi piaccia o no (io non sono ancora sicuro di quanto mi piaccia) i Dream Theater sono cambiati molto nel corso degli anni. Che vi piaccia o no (a me piace) in ogni disco dei Dream Theater uscito finora c’è stato qualcosa che valeva la pena ascoltare, cantare o suonare. Che vi piacciano o no i Dream Theater, comunque, questo articolo finirà su Metal Hammer di febbraio, dunque mettetevi l’anima in pace, godetevelo oppure saltatelo a piè pari. Lo scopo di queste righe è ripercorrere la storia di una band che non ha ancora perso la voglia di stupire. Può darsi che ne abbia perso la capacità (questa è un’altra storia), ma la voglia, quella no, quella è ancora lì intatta.
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È il 1985 quando la premiata ditta P&P (per gli amici Petrucci e Portnoy), insieme al buon John Myung, bassista di origini asiatiche che diventerà quasi un essere mitologico grazie alla propria imperscrutabilità, fonda i The Majesty. Partiti come trio, poco dopo imbarcano nel progetto il giovane tastierista Kevin Moore, talentuoso, controverso ma incredibilmente innovativo. Alla voce, dopo alcuni mesi con un certo Chris Collins, la band recluta l’italoamericano Charlie Dominici. Con questa formazione cambia il nome in Dream Theater e registra nel 1989 il primo vero disco: “When Dream and Day Unite”. Un album che non si è cagato nessuno finché non è diventato figo dire che “erano meglio i vecchi Dream Theater”. Eppure è un disco che ancora oggi merita attenzione e, a dire il vero, anche ai tempi avrebbe meritato sia una produzione che una promozione di maggior valore. Al suo interno si annoverano perle quali “A Fortune in Lies”, “The Ytse Jam” e la suite “The Killing Hand”: brani acerbi ma già in grado di mostrare le potenzialità dei giovani virgulti progressivi.
IMMAGINI & PAROLE Durante il tour di supporto al primo album, la band non è soddisfatta di Dominici, al quale dà il benservito prima di cominciare una lunghissima serie di provini che porta alla scelta di James LaBrie, singer canadese che donerà per sempre un’impronta inconfondibile alla musica dei Dream Theater. Con la nuova formazione, i Dream Theater realizzano in pochi mesi quello che da molti viene considerato uno dei dischi più importanti dell’intera storia della musica moderna: “Images & Words”. Le otto tracce dell’album ridefiniscono per sempre i canoni di un intero genere in meno di 60 minuti. Sarà l’aria, sarà l’acqua, sarà il caffè, fatto sta che i nostri prodi azzeccano tutto: il singolo da traino, le ballad, i brani più cattivi e quelli più intricati. Un disco da brividi che nessuno può permettersi di non avere in casa.
FACT: IL LOGO Il logo, Majesty, che appare sulla maggior parte del materiale prodotto dai Dream Theater deriva dallo stemma dell’anello di Maria Stuarda di Scozia. Rappresenta l’iniziale della sovrana (M) e si sovrappone a quella del marito, Francesco II di Spagna, in alfabeto greco (ovvero la phi).
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IL RISVEGLIO Nel 1994, a soli due anni di distanza dall’ultimo exploit, la band si ripete registrando “Awake”, altro disco di una bellezza sconvolgente. Un album completamente diverso dal precedente nei suoni, nelle melodie e nell’attitudine, per molti oscuro e per altri semplicemente malinconico, ma per tutti sicuramente splendido. Tuttavia, Moore, durante le session di registrazione, matura la saggia decisione di abbandonare una macchina da soldi in pieno avviamento per dedicarsi alla composizione di musica improbabile e fare il genio incompreso. I Dream Theater perdono così un pezzo da novanta assoluto, ma certo non frenano la propria corsa verso la consacrazione.
FACT: IL CUORE Il cuore in fiamme, che appaare sulle coperine di ‘Images and Words’ e ‘Live At The Marquee’ richiama l’immagine religiosa del Sacro Cuore di Gesù con l’aggiunta del filo spinato, che rappresenterebbero difficoltà e ostacoli che cingono forza e resistenza simboleggiati dall’organo stesso.
Sherinian Era Non si è mai capito se sia stata una scelta volusemplicemente bizzarra, fatto sta che la band Dream Theater fanno due cose molto diverse di circa 30 minuti dall’altisonante nome “A ing Into Infinity”. Il disco spiazza comparere, ancora oggi risulta tra gli album delle canzonette, se volete, ma che
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tamente temporanea, volutamente controcorrente o recluta alle tastiere Derek Sherinian. Con lui i ma entrambe affascinanti: pubblicano una suite Change Of Season” e fanno uscire l’album “Fallpletamente i fan della band e, a mio modesto più sottovalutati di sempre. Prog al servizio canzonette, ragazzi.
Metropolis pt.2 La carriera della band sembra ormai a un bivio: il cambiamento di stile ha deluso molti fan e i vari componenti sono impegnati in diversi progetti solisti. Proprio da questi arriva il rimpiazzo per Sherinian, ossia quel Jordan Rudess di cui Petrucci e Portnoy si innamorano perdutamente. La nuova formazione dà vita in pochi mesi a un capolavoro assoluto che risponde al nome di “Metropolis pt.2 – Scenes From A Memory”, il primo concept album della band, che consegna alla storia melodie immortali e riff memorabili e che chiude idealmente il cerchio della prima fase della carriera dei Dream Theater.
FACT: La copertina di Live scenes from ny ‘Live Scenes From New York doveva inizialmente uscire l’11 Settembre 2001 con una cover che rappresentava le Twin Towers avvolte dalle fiamme. Gli attentati terrostici che sconvolsero il mondo in quel giorno spinsero la band a spostare la release ed a cambiare la coperina del disco.
PHASE 2 - MATURITY Il secolo cambia, passano tre anni senza che nessuno decida di andarsene e nel 2002 esce “Six Degrees Of Inner Turbulence”, un doppio album che ancora oggi suscita sensazioni contrastanti. La prima parte vede fare capolino l’anima più metal dei Dream Theater, che da lì in avanti verrà parecchio approfondita, ma anche brani eterei, sperimentali, in quello che forse rimane il disco più “libero” mai fatto dai nostri eroi. La seconda parte è una suite di rara bellezza, che non colpisce al primo colpo ma dopo qualche ascolto mostra tutta la propria eleganza. C’è chi dice no, ma nonostante l’evidente cambiamento di stile i nostri ragazzi centrano un altro disco: non epocale ma degno di nota. Parlavamo dell’anima metal…ebbene, nel 2003, come un fulmine a ciel sereno, compare un album tamarrissimo che risponde al nome di “Train Of Thought”. All’alba di un nuovo secolo i Dream Theater decidono che si suona metallo. Fine. Quello che ne viene fuori è un disco con pretese altissime, che tuttavia delude buona parte dei fan e, fondamentalmente, rimane quasi abbozzato, come se avesse dovuto uscire a tutti i costi in fretta. Passano due anni e, regolarissimi come sempre, i nostri prodi sono pronti a regalarci un altro album, l’ambizioso “Octavarium”. Effettivamente, la genesi di questo disco va analizzata. Evidentemente, infatti, il lavoro è frutto di una schizofrenia totale all’interno della band, che forse comincia a non essere più molto allineata riguardola direzione musicale da seguire. Ad eccezione della suite di genesisiana (bel neologismo, non trovate?) memoria rappresentata dalla title-track, il resto delle canzoni sembra buttato lì un po’ a caso. Si va dal proseguimento della storia d’amore e odio tra Portnoy e la bottiglia all’apertura verso il rock del nuovo millennio (Muse, U2 e vari), dalla furia strumentale al progressive rock di classe. Dunque spunti interessanti ma, tirando le somme, un album incoerente e, ancora una volta, forse fatto uscire troppo in fretta rispetto alle reali esigenze.
NUBI OSCURE ALL’ORIZZONTE È il 2007 e nei Dream Theater tutto va ancora tutto bene: la band si produce nella scrittura e nella registrazione di “Systematic Chaos”, un album caratterizzato ancora una volta da alti e bassi. Tra strizzate d’occhio al mainstream e chitarrone cattivone (oltre alla prosecuzione della “12 Steps Suite”), a distanza di anni possiamo tranquillamente affermare che si tratta di un album davvero poco riuscito. Poco male, però, perché il successivo “Black Clouds And Silver Linings” riesce a fare anche peggio, regalandoci davvero poche cose da salvare, tra le quali un intero disco di b-sides composto da cover davvero ben fatto.
Fact:L'uscita di Portnoy Nell’estate 2010, Portnoy si mette ad ascoltare gli ultimi tre dischi. Effettivamente, pensa, non abbiamo fatto grandi cose, magari è meglio prendersi una pausa e ricaricare le batterie, perché possiamo fare molto di più a mente fredda. Un’idea niente male, che viene ovviamente presa malissimo da tutti gli altri: in un soffio Portnoy lascia i Dream Theater. Ebbene, amici, è bene che si ricordi, Mike Portnoy non può essere classificato “solo” come il batterista. Egli ha rappresentato l’anima, la vita e la legge di questa band, ma anche il pagliaccio che rendeva unici i live, oltre a quello che ha fatto innamorare centinaia e centinaia di ragazzini del suo strumento. Il fatto che senza di lui i Dream Theater siano cambiati per sempre non è una teoria, ma un dogma assoluto.
PHASE 3 - Mangini Era Uscito Portnoy, tutti si mostrano felici, liberi di esprimersi attraverso il songwriting e vogliosi di ricominciare. La verità, come in tutte le grandi storie, non la sapremo mai. Quello che sappiamo è che, per trovare il nuovo drummer, la band si affida ad un concorso “pubblico”, la cui fase finale viene ripresa e utilizzata per costruire una simpatica serie a puntate. Mentre io sbavo per la possibilità di vedere Marco Minnemann coi Theater, la band sceglie Mike Mangini. Fuori Mike e dentro Mike, dunque, mentre tra il 2011 e il 2013 escono “A Dramatic Turn Of Events” e “Dream Theater”, due dischi che metto insieme perché, se evidentemente mostrano un ritrovato entusiasmo per suoni più aperti e melodie di anziana memoria, mostrano anche parecchi limiti.
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Conclusione Giunti al 2016, anno di uscita del nuovo “The Astonishing”, i Dream Theater sono una band con 31 anni di storia, che merita tutto il rispetto possibile ma che deve effettivamente fare qualcosa di buono per dare slancio agli ultimi anni di carriera. Tra fan più o meno accaniti, haters più o meno simpatici e stampa di settore come sempre divisa, lo so che chi di voi è arrivato a leggere fino a qui lo ha fatto anche se sapeva a memoria tutta la storia. Perchè noi fan dei Dream Theater siamo così: sempre curiosi, sempre in attesa di una nuova emozione, sempre consapevoli del fatto che il prossimo disco potrebbe essere una schifezza ma anche un capolavoro. Non so cosa succederà nei prossimi mesi, anche se nutro qualche speranza sul nuovo album. Quello che posso consigliarvi è di goderveli finchè ci sono, perché band così ne nascono poche e, ormai, sembrano in via di estinzione. Lunga vita dunque ai nostri paladini, senza dimenticare chi ha dato tanto ai Dream Theater ma adesso vive su altri palchi.
Fact: IL Concept Il nuovo album “Tha Astonishing” è basato su una storia fantascientifica ambientata nel 2285, anno in cui l’Imperatore Nafaryus domina sul Great Northern Empire, una nazione dove non esiste musica se non il rumore metallico prodotto dai NOMACS. Nel piccolo villaggio di Ravenskill, l’esercito della resistenza si organizza sotto il comando di Arhys, il cui fratello, Gabriel, possiede il dono di creare musica e cantare. Proprio intorno a questo straordinario potere si sviluppa tutta la trama, in un alternarsi di colpi di scena, amori, morte, battaglie e rivelazioni, che porterà alla nascita di un nuovo mondo dove la musica tornerà finalmente ad essere presente nella vita di tutta l’umanità.
Gli Album imperdibili When Dream And Day Unite
Images & Words
Awake
A Change Of Seasons
Falling Into Infinity
Metropolis Pt.2
Six Degrees Of Inner Turbulence
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LA STORIA DELLA BAND ATTRAVE di Pippo ‘Sbranf’ Marino
‘When Dream And Day Unite’ (Mechanic) 1989 E’ il 1989 quando il quintetto di Hell’s Kitchen irrompe sul mercato musicale. La cover ci mostra un uomo, legato e terrorizzato, che sta per essere marchiato a fuoco con quello che da allora sarà l’inconfondibile simbolo della band: il Majesty Logo, simbolo ispirato a quello della regina Maria Stuarda. Curiosamente, il logo fu modificato e reso definitivo dal singer Charlie Dominici, che di lì a poco lascerà la band, non senza prima farselo tatuare sul braccio! Il logo contiene le tre lettere greche Phi, Mu e Lambda, e…. se osservate attentamente, è possibile riconoscervi tutte le lettere di Dominici, proprio il cognome del singer!
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‘Images And Words’ (Atlantic) 1992 Forse il più famoso album della band, che per la prima volta riporta il monicker in giallo, in alto al centro, cosa che vedremo succedere quasi sempre nelle prossime cover. Il nome della band è scritto con un font creato appositamente, e mai ufficialmente distribuito. Nella cover, inoltre, si può trovare un altro famoso simbolo dei primi anni dei DT: il cuore in fiamme circondato da spine, che campeggerà (tra l’altro) nel successivo Live at the Marquee e nel video di “Pull me Under”. Curiosità: il Majesty logo stavolta è incastonato in alto sul baldacchino del letto; in alto a sinistra si può vedere un passero volare in picchiata, riferimento alla frase “watch the sparrow falling” contenuta nella song “Pull me Under”. In basso a sinistra, una riproduzione di un vaso greco, omaggio esplicito al poeta J. Keats e alla sua “Ode on a Grecian Urn”, manifesto del romanticismo inglese. Fuori dalla finestra, una Glass Moon domina un cielo stellato. Ancora: la bambina in primo piano comparirà nel video di “Another Day”.
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ERSO LE COPERTINE DEI DISCHI
‘A Change Of Seasons’ (EastWest) 1995
‘Awake’ (Atlantic) 1994 Una delle copertine più oniriche e piene di riferimenti ai brani del cd. In ordine sparso: lo specchio (“The Mirror”), un orologio dentro la luna che segna le sei in punto (“6:00”), la tela di un ragno (“Caught in a Web”), una statua immobile in primo piano (“The Silent Man”). Stavolta, il Majesty Logo si trova per terra, sotto lo specchio.
Questa cover svela la sua vera natura se osservata insieme alla sua controparte sul retro: qui infatti campeggia un bambino in costume, giovane e sorridente, intento a giocare con la sabbia (il Majesty Logo è sul secchiello). Ma basta osservare con un attimo di attenzione, per accorgersi che non è sabbia, ma neve! L’affascinante dissonanza trova un senso guardando la back cover, dove campeggia un uomo anziano, seduto ed imbacuccato come fosse in montagna, ma che in realtà si trova su una spiaggia… Il tema del tempo che passa, e dell’attimo da cogliere mentre si è ancora in tempo, prima che le stagioni passino e sia troppo tardi, è inoltre rinforzato dalla rosa rossa, rigogliosa nella prima immagine, appassita nella seconda. La rosa è peraltro un riferimento alla poesia “To the Virgins, to Make Much of Time” dello scrittore inglese Robert Herrick, poesia citata all’interno della title track: gather ye rosebuds while ye may/ Old Time is still a-flying; / And this same flower that smiles today / To-morrow will be dying.
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LA STORIA DELLA BAND ATTRAVE ‘Falling Into Infinity’ (Elektra) 1997 L’album più controverso dei DT creerà scalpore sin dalla copertina, che abbandona temporaneamente il monicker tradizionale, in favore di un nuovo font. Mentre il Majesty Logo sopravvive per un pelo in basso al centro, è il famosissimo Storm Thorgerson (creatore, tra le altre, delle storiche copertine dei Pink Floyd) ad occuparsi stavolta di tutto l’artwork. La cover gioca con il simbolo dell’infinito, usando per analogia le due lenti di un binocolo, attraverso il quale l’osservatore guarda altri due uomini osservarsi da vicino, sospesi su due altissimi sgabelli in mezzo al mare.
‘Metropolis Pt.2 Scenes From A Memory’ (Elektra) 1999 Probabilmente la più famosa copertina dei DT, con il grande ritorno del monicker in giallo e dell’onnipresente Logo. Il suggestivo montaggio ci mostra il viso di un uomo, il Nicholas protagonista del concept album, come la somma di ricordi, volti, altre vite passate, in un collage di fotografie ed immagini che costruiscono il suo stesso viso. Evocativa ed un filo inquietante, sarà la cover perfetta per un album altrettanto maestoso ed affascinante.
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ERSO LE COPERTINE DEI DISCHI
‘Train Of Thought’ (Elektra) 2003 Quello che, nelle parole del batterista Mike Portnoy, sarebbe stato “il Black Album dei Dream Theater” sceglie proprio il bianco e nero per veicolare un’immagine inquietante, una sorta di incubo visivo, con uno stretto tunnel che porta ad una radura, al centro della quale campeggia un enorme occhio aperto. Fate attenzione proprio alla pupilla, è lì che stavolta si nasconde il Logo. Attenti anche ai corvi in volo in alto, li ritroveremo molto presto, all’interno di un altro artwork…
‘Six Degrees Of Inner Turbulence’ (Eastwest) 2002 Si cambia decisamente registro: la nuova cover assume tratti moderni, tra scarabocchi, graffiti e street art. Monicker in rosso e logo vagamente sbiadito in basso, la cover è solo la prima parte di un artwork affascinante, che veicola il senso di inquietudine e movimento frenetico che permea molte delle tracce dell’album.
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COVER T
LA STORIA DELLA BAND ATTRAVE
‘Octavarium’ (Atlantic) 2005 Sulla copertina e l’intero artwork dell’ottavo full length della band, potremmo spendere dieci pagine del nostro amato giornale… Portnoy, in pieno delirio cospirazionista, disseminerà infatti l’intero album di nuggets, riferimenti celati, simboli nascosti e quant’altro, innescando una sorta di caccia al tesoro tra i fans! All’apparenza ci troviamo davanti ad un paesaggio, con otto sfere di metallo (osservate l’immagine per intero, a libretto aperto) sospese in aria. L’immagine è peraltro stranamente tagliata in nero nella parte bassa, dove campeggia il monicker (il Logo stavolta è incastonato nell’ultima sfera), ed una donna dal lineamenti asiatici si china a sinistra, quasi a voler schivare la sfera. Cosa nasconde tutto questo? Adesso osservate di nuovo: i corvi neri sono tornati, stavolta volando con uno strano intervallo tra le sfere… Non è altro che un’ottava sul pianoforte, in cui le sfere rappresentano i tasti bianchi, i corvi quelli neri, disposti nella perfetta sequenza se partiamo dalla nota FA. Non a caso, le otto songs del disco saranno ognuna in una tonalità differente, partendo proprio da FA e proseguendo di tono in tono. La donna, invece, rappresenta la chiave di basso, detta anche chiave di FA (la posizione ricorda esattamente la forma della chiave di basso, ed il fatto che sia asiatica ricorda CHI suona il basso nella band… John Myung!). infine, il taglio in nero è esattamente ad un quinto della copertina: non è altro che l’ennesimo nugget riferito ad un pentagramma, in cui la banda nera rappresenta lo spazio tra le prime due linee, ossia esattamente dove si trova…. la nota FA.
‘Systematic Chaos’ (Roadrunner) 2007 Cambio completo di atmosfera: la nuova cover ci accoglie su un affollatissimo snodo stradale, in cui delle formiche sono intente a cercare la strada giusta. A sinistra, un segnale stradale riporta il Logo, sulla destra campeggia un lampione che verrà poi ripreso nella scenografia dei concerti. Fun fact: come spiega lo stesso Portnoy in una video-intervista dell’epoca, il lampione verrà strategicamente piazzato accanto al rig di John Petrucci, e con uno scopo: quando sul palco tutte le luci venivano spente, infatti, John poteva servirsi della flebile luce del lampione per riuscire a vedere la sua pedaliera, in modo da selezionare gli effetti senza fatica!
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TO COVER
ERSO LE COPERTINE DEI DISCHI
‘A Dramatic Turn Of Events’ (Roadrunner) 2011
‘Black Clouds & Silver Linings’ (Roadrunner) 2009 L’ultimo album dell’era Portnoy riprende la suggestione onirica di “Awake”, con un altro collage di immagini riferite ad alcune songs. Innanzitutto, il Majesty Logo torna prepotente a campeggiare sul pavimento di questa strana stanza. Possiamo così trovare il simbolo degli Illuminati sulla tela (“A Rite of Passage”), una bottiglia di vino rotta (“The Shattered Fortress”), un elefante con un pennello da pittore sui dei libri, spaventato da un topolino (simbolo del blocco dell’artista narrato in “Wither”), un bambino curioso guardare il cielo azzurro da una porta (simboleggia il bambino che si salva da un terribile incidente in “A Nightmare to Remember”), un corvo (simbolo di morte e lutto, “The Best of Times” parla proprio della morte del padre di Portnoy).
Titolo esplicativo del terremoto avvenuto in casa DT con la dipartita di Portnoy, la nuova cover ci porta via dall’oscurità della precedente e, quasi a volerne essere la continuazione, ci porta aldilà di quella porta, in un grande cielo azzurro, le cui nubi sono squarciate dall’ala di un aereo, con il Majesty Logo impresso sopra. Al centro della scena campeggia un equilibrista in bilico su una corda che rischia di spezzarsi, metafora perfetta del delicato momento attraversato dalla band. Fun facts: l’immagine ha subito ricordato a molti l’equilibrista sulla cover di “The 1st Chapter” dei Circus Maximus, pur essendo lievemente diversa; sul palco di Mike Mangini visibile nel dvd “Live at Luna Park”, potete trovare i guanti, il cappello e le bretelle dell’equilibrista!
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‘Dream Theater’ (Roadrunner) 2013 La cover dell’album autointitolato della band parla da sola: via tutto, zero fronzoli, via persino il monicker ufficiale: solo un’immagine del pianeta terra che emerge dal buio della notte, sul quale domina incontrastato un Majesty Logo enorme, metallico, peraltro in rilievo sulla cover. Essenziale ma d’impatto…
‘The Astonishing’ (Roadrunner) 2016 Ed eccoci arrivati all’ultimo “The Astonishing”; si recupera il monicker, mentre il Majesty Logo va ad adornare lo scafo dei NOMACS che fluttuano in cielo. Sullo sfondo, la capitale del Great Northern Empire, con il castello di Lord Nafaruys a dominare sulla città. Saranno le tante immagini contenute nel booklet, le mappe ed i ritratti dei personaggi, a completare un affresco di incredibile complessità, ma necessario per seguire con la giusta attenzione una storia complicata ed affascinante.
Il nuovo album dei Dream Theater, “The Astonishing”, porta sostanzialmente la firma di due persone. La prima, John Petrucci, è l’anima storica di questa band e, perso Mike Portnoy, rimane colui che più di tutti rappresenta il nome e il blasone del gruppo nel mondo. La seconda, Jordan Rudess, presentatosi ai fan con il monume nt a l e “Metropolis Pt.2 – Scenes From A Memory”, è un personaggio controverso, a volte amato a volte meno, che però questa volta è riuscito ad esprimere una creatività rara, mettendo il sigillo su quello che, a mio modesto parere, rientra di diritto tra i migliori lavori di sempre della band statunitense. È lo stesso Jordan Rudess, in un’amabile chiacchierata fatta all’inizio di
febbraio, ad ammettere che “fin dall’inizio abbiamo pensato di fare qualcosa di speciale. Solitamente ci chiudiamo in sala con tutto il gruppo per comporre, ma stavolta cercavamo qual-
lavorato nel modo giusto”. Tra le scelte inusuali anche quella di cambiare completamente l’approccio riservato alle parti orchestrali, che finora erano state gestite, sia nella composizione che nel-
cosa di più tranquillo, per poter lavorare con serenità sulla storia, sulla musica e su ogni aspetto. Quindi ci siamo trovati io e John Petrucci, con chitarre e tastiere, un computer e un ingegnere del suono. Per un po’ di giorni abbiamo lavorato in isolamento e credo che il risultato abbia premiato questa scelta, abbiamo
la realizzazione, proprio da Jordan Rudess. Questa volta i Dream Theater hanno lavorato con una vera orchestra: “La scelta è dipesa anche dalla storia del concept, che propone il confronto tra le macchine e l’uomo. Non volevamo che i suoni risultassero troppo elettronici, ma molto più naturali, quasi fossero materia organica,
viva. Ad esempio per registrare anche io ho usato un pianoforte a coda e un vero organo invece di riprodurre questi suoni con le tastiere. Ogni volta che abbiamo potuto abbiamo utilizzato veri strumenti. Devo ammettere che all’inizio non ero troppo contento, perchè amo realizzare le parti orchestrali, ma poi a poco a poco il mio entusiasmo è aumentato, soprattutto quando abbiamo cominciato a lavorare con David Campbell, un grande maestro. Io e John abbiamo lavorato in studio sui suoni portanti delle parti orchestrali, poi abbiamo dato tutto a Campbell e lui ha capito in pieno quello che cercavamo, trasformando le nostre idee in musica ma soprattutto realizzandole con tutti gli strumenti a disposizione dell’orchestra”. Le parole di Rudess ci portano a scoprire un’altra curiosità riguardo al nuovo album, ossia il fatto che i Dream Theater, forse per la prima volta in assoluto, si sono affidati completamente all’aiuto di validi collabora-
J o r d a n Ru d e s s
Solo al comando Opera, libro e teatro: i piani di Rudess per dominare il mondo
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di Alex Quero
tori e, oltre a Campbell per le parti orchestrali, un ruolo fondamentale ha giocato il produttore Richard Chycki, un “talento particolare, davvero mostruoso con la tecnologia, completamente a proprio agio con qualsiasi innovazione ma allo stesso tempo estremamente musicale. Non si limita a registrare e mixare la musica, ma entra nel merito delle cose, si immerge nel progetto, ci ha accompagnato dalle prime prove fino alla fine delle session. Non esagero quando dico che per registrare questo album Richard è stato il sesto membro dei Dream Theater, davvero un
Jordan Rudess che realizza un’opera rock, forse, un pensierino ad un adattamento teatrale per Broadway viene spontaneo. In realtà i Dream Theater sono andati già decisamente oltre: “Abbiamo pensato a diversi sviluppi per la storia! Abbiamo già iniziato a lavorare su un possibile libro, abbiamo pensato a un videogioco ma anche fatto qualche chiacchierata con dei registi per una trasposizione cinematografica. Il teatro è sicuramente un’opzione e mi piacerebbe molto vederla realizzata. Adesso però siamo molto concentrati sul tour, vedremo quali forme la
sionisti e gestendo le cose in autonomia. Sicuramente registreremo anche un live, ci teniamo molto, ma al momento non abbiamo ancora programmato nulla”. Dall’addio di Portnoy, bisogna ammettere che il ruolo di Rudess nei Dream Theater ha assunto sempre maggiore importanza, anche se gli occhi sono sempre stati puntati sul sostituto, Mike Mangini, che dopo alcuni anni e tre album sulle spalle oggi “rimane uno dei più grandi batteristi in circolazione, oltre ad essere una persona divertente e disponibile. Il suo arrivo ci ha aiutato tantissimo perchè tecni-
sempre il tempo di condividere dei momenti con me. In particolare, mi raccontava quello che visualizzava mentre scriveva le canzoni. Una volta stavo registrando il pianoforte e lui mi disse: suonala come se fossi in un locale francese, con l’aria carica di fumo, seduto a un vecchio pianoforte con le sole candele a farti luce... aveva sempre una storia pronta per tutto, è stato divertente lavorare con lui. Un aneddoto simpatico riguarda una delle session di registrazione: arrivo in studio e trovo due pianoforti, di cui uno bellissimo a coda e uno piccolo e un po’ malandato.
elemento in piu’ che ha contribuito alla buona riuscita del disco”. Costruire un’opera rock è un lavoro lungo e complesso, tanto che spesso e volentieri ci si affida a fonti di ispirazione più o meno vicine. A me, in particolare, alcuni passaggi hanno ricordato celebri musical, che credevo fossero citati in maniera più o meno velata, ma la smentita è netta e, in realtà, le fonti a cui la band ha attinto sono assolutamente le più classiche a cui si possa pensare, come “The Wall, Tommy e 2112. Anche i grandi musical come Jesus Christ Superstar, ma non ci sono citazioni volute o riferimenti diretti”. Certo, per un newyorkese come
nostra opera potrà assumere in futuro”. Il tour, che vedrà la band impegnata in ben quattro date italiane (17, 18 e 19 marzo a Milano, 20 marzo a Trieste), si annuncia come uno dei più spettacolari di sempre: “Stiamo partendo per Londra con una settimana di anticipo per concentrarci sulle prove, dovete aspettarvi uno show gigantesco. Tutto ciò che sarà nella coreografia, nei video, nel contorno alla musica è stato affidato ad una società canadese specializzata, che ci accompagnerà per tutto il tour. Anche in passato abbiamo fatto cose simili, più in piccolo, ma senza mai affidarci a dei grandi profes-
camente e musicalmente è forse il più preparato di tutti noi. Si è guadagnato il posto e oggi è assolutamente un membro della band a tutti gli effetti”. Il tastierista statunitense oggi ha alle spalle una carriera brillante, in cui ha avuto la possibilità di collaborare con tanti grandi artisti. Uno di questi, recentemente scomparso, ha sicuramente lasciato un segno non solo nel mondo della musica ma anche nel cuore di chi ci ha lavorato: David Bowie. “Che fosse un grande musicista lo sapete, ma era davvero una persona incredibile, un personaggio vero, sempre disponibile. Quando ho registrato per lui trovava
Io mi sedetti al pianoforte più bello, ma arrivò David e mi disse che avremmo registrato con l’altro. La cosa mi stupì parecchio ed ero anche un po’ dispiaciuto, ma lui mi disse che l’aveva accordato in maniera particolare. Mentre stavo per sedermi al pianoforte piccolo, entra il producer e chiede di registrare con il piano più bello. Dopo qualche minuto di discussione David ha sistemato i due pianoforti molto vicini, in modo che suonando il pianoforte a coda venissero sollecitate anche le corde dell’altro...il suono che ne uscì lo potete sentire nella canzone Slip Away”.
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STEVEN WILSON.
Nella mente dell’incantatore
di Paky Orrasi
Con “Hand. Cannot. Erase” Steven Wilson, si è confermato l’artista cult britannico più acclamato dalla critica e non solo. Al picco del suo successo abbiamo deciso di incontrarlo per fare un punto della situazione e parlare dei temi che lui continuamente affronta, come la sua vera battaglia contro gli “antisocial networks” ma anche sulla sua opinione riguardo allo stato del giornalismo musicale. Inoltre, abbiamo usato questa conversazione per ricordare Alec Wildey, un ragazzo morto di cancro a soli 26 anni che ha toccato entrambe le nostre vite. Credo fosse il 2005, era l’era di Myspace. Un giorno un ragazzo mi chiese di aggiungerlo tra i suoi contatti. Ricordo di aver aperto la sua pagina per controllare le sue preferenze musicali: tra i primi Porcupine Tree, seguito da Lunatic Soul, Anathema, Devin Townsend. L’aggiunsi. Non sono mai stata un’accanita coltivatrice di amicizie con persone mai incontrare e probabilmente che mai avrei incontrato. Alec era diverso. Non vi era assolutamente nulla di romantico semplicemente due amici che parlavano no stop di alternative rock e progressive rock. Inoltre tutti e due scrivevamo e avevamo pubblicato dei poemi. In quelle conversazioni trovai una persona vera e simile a me, un posto dove non sentirmi sola e differente. Sono certa che molti di voi lettori appassionati dei Porcupine Tree abbiano conosciuto Alec in qualche maniera, in quanto si è a lungo occupato dello Street team della band. Purtroppo nel 2013, la sera di Natale, Alec venne a sapere di avere un tumore al sistema linfatico, seguita poco dopo da una diagnosi aggiuntiva di cancro al fegato. La chemio non dava risultati, e quindi capendo di avere
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poco tempo Alec si mise in contatto con Steven Wilson chiedendogli di realizzare il suo sogno e mettere in musica uno dei sui poemi insieme con Mariusz Duda (Lunatic Soul). Wilson accettò subito, ma ad una condizione: Alec avrebbe dovuto lottare ed essere qui per ascoltare il risultato. La bestia di quel cancro lo portò via poche settimane dopo, un bastardo 25 agosto, Alec aveva 26 anni. Ho chiesto quindi a Wilson di darmi un suo personale ricordo di Alec “Alec era un ragazzo brillante, con un grande talento. L’ho incontrato solo una volta di persona, mi intervistò e mi colpì perché era giovane, credo un diciannovenne, ma talmente sensibile, articolato, comprensivo e profondo. Fui impressionato da lui, come persona e quando incontri una persona come lui, pensi che un ragazzo così sia destinato a una vita magnifica, creativa e che ispiri, ed è questo che rende la sua storia così profondamente triste. Ci siamo scritti per un po’, persino verso la fine lui non ha mai smesso di essere curioso riguardo musica e film. Sapeva di avere pochissimo tempo ma ancora mi chiedeva di raccomandargli musica e film e a sua volta lui mi suggeriva band e film.” Wilson mi ha raccontato di essersi identificato in lui, in quel ragazzo vedeva se stesso, poiché da piccolo anche lui preferiva
stare a casa e scoprire libri invece di giocare a calcio. E conclude “Il fatto che chiunque sia stato in contatto con lui abbia un´opinione così alta di questo ragazzo dimostra che lui fosse davvero incredibile”. Alec non fece in tempo ad ascoltare la sua poesia messa in musica da Wilson e Mariusz, tuttavia è straordinario che questi due artisti abbiano messo così tanto amore e devozione, e abbiano inciso quelle incredibili parole: “Sono addolorato che lui non abbia ascoltato il risultato, èd è un cliché dire che è quello che avrebbe voluto, ma so che in questo caso è vero”. Il risultato è emozionante, e vi sono poche parole aldilà di “incredibile” per descrivere “The Old Peace”, questo il titolo di questo pezzo altamente evocativo. Il ricavato è stato donato alle spese mediche di Alec e il resto è stato altresì devoluto a organizzazioni di beneficenza per gli affetti da cancro. Ed è così che colui che specialmente negli ultimi due anni è stato identificato come un genio ed eroe del progressive, acquista una dimensione totalmente umana. Di fronte non avevo un artista che si considera un bardo. La parola successo lo mette quasi a disagio: “Io non leggo quello che scrivono e la parola successo è relativa, io ancora sento che sto lottando, certo non come quando avevo 25 anni, ma
Alec Wildey ogni album o biglietto venduto è ancora una lotta perché non sono un artista mainstream. Chi non fa parte del mainstream deve lottare ogni giorno per far chi che la gente ascolti per più di trenta secondi. La mia musica ha bisogno di più tempo per essere capita”. Wilson sa benissimo che ora vende più facilmente di prima, ma giustamente lui nota “persino la band più generica heavy metal, senza nulla di nuovo o eccezionale può portare le stesse persone che porto io”. Lui di certo non si lamenta perché è uno dei pochi che riesce a vivere della sua musica senza mai compromettere la sua arte e sa che vi sono persone che mi considerano un artista significante come fa ben notare questo forse può essere per se chiamato successo. So che molti possono pensare che il suo ego sia sconfinato, ma wilson nota “Avere un ego è importante, e naturalmente serve se devo mettere il mio nome su un poster e andare sul palco ogni sera, so che la mia musica è in qualche maniera unica ma sono troppo vecchio per montarmi la testa, non sono un genio, Mozart lo era, lui ha scritto una sinfonia a dieci anni! Io sono capace in quello che faccio, li è la
differenza, oggi la parola genio viene buttata addosso a chi fa bene quello che sa fare, ma io non so fare tutto. Non nego che io sia lusingato ma sono contento di avere rispetto”. Quello che ho trovato interessante è vedere grandi titoli che contrappongono la parola nerd o geek a Hero. La rivista PROG in copertina ha titolato “from Geek to Hero”, ma la parola nerd or geek è un cliché che noi ascoltatori di musica genericamente chiamata progressive dobbiamo subirci, ma Wilson risolve l´argomento con il sarcasmo inglese: “Credo che la gente mi giudichi nerd perché ho gli occhiali, sono inglese e posso parlare, apparentemente per questo son chiamato nerd…mi han chiamato anche Harry Potter. Ma la cosa è questa, credo che nerd implichi anche qualche sorta di disfunzione sociale, e io non sono disfunzionale. Naturalmente vi sono dei cliché legati alla musica concettuale rock, del tipo ‘sei un nerd o ti piace la fantascienza’, alla quale io non sono interessato affatto”. Come ben fan notare i suoi testi sono inerenti a questo mondo, viaggia intorno a temi umani, quali perdita, amore, nostalgia. Scrive di persone e di se stesso,
non vi sono temi tipicamente considerati nerd “anche qui sta tutta nella definizione, se quello che faccio è considerato tale beh allora ne sono fiero”, conclude Wilson. Negli anni e specialmente con il suo progetto solista ha messo sempre più enfasi sui drammi umani, specialmente per quanto riguarda perdita di una persona di famiglia, tema che ricorre in molte delle sue canzoni, come ‘The Raven That Refused to Sing’, ‘Routine’ o la famosissima ‘Lazarus’ , sebbene sapessi che lui è un artista che parla poco dei lati più privati ho deciso di andare in fondo e capire perché questa fascinazione. La domanda credo l’abbia colto di sorpresa dopo qualche secondo di silenzio mi ha detto che doveva pensare a come rispondere, tuttavia dopo pochi secondi ha deciso di aprirsi ai nostro microfoni, rivelando una parte intima di se stesso: “Perdita per me non vuoi dire solo perdere una persona, ma anche la tua gioventù, tre cose sono connesse, perdita, rimpianto e nostalgia. La nostalgia è una grandissima parte della mia musica, nostalgia per chi non è più con me. La perdita di mio padre fu, come sarebbe per chiunque, davvero rilevante
e risultò in un album su storie che parlano del sovrannaturale, di fantasmi, io non credo nei fantasmi ma amo la metafora, sul come rapportarsi alla morte e fronteggiarla. La mortalità è terrificante e affascinante. Prendi il mondo del metal, si connette a un pubblico giovane ed è pieno di argomenti quali la morte, questo vuol dire che già da giovani siamo affascinati dalla morte…il motivo? È un carico enorme da portare sulle spalle. Tutto quello che fai è misurato con il fatto che prima o poi morirai. Quando perdi qualcuno come un padre te ne rendi ancora più conto, ad esempio, io sono il più vecchio della famiglia, mio padre è morto, ho un fratello più giovane e io non mi sento vecchio, tuttavia ti guardi e pensi: cazzo sei l’uomo più vecchio della tua famiglia e ti senti più vicino alla fine”. Steven racconta che trova difficile raffrontarsi a questi temi se non tramite la musica, che usa come un’esperienza catartica, molti pensano che lui sia un depressone, ma come puntualizza: “La mia musica è melanconica, ma attenzione, io non sono l’opposto e una delle ragioni è che esorcizzo quel lato di me tramite la musica”.
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non sono un genio, Mozart lo era, lui ha scrit to una sinfonia a dieci an ni. Io sono capace in qu ello che faccio.
Ph. Diana Nitschke
Altro tema importantissimo nella musica di Wilson, talmente importante da costruirci un concept album “Hand. Cannot.Erase” è l’uso della tecnologia e di quelli che lui chiama gli “antisocial network”. Quello che doveva risultare una democrazia, un’opportunità per tutti di scrivere o creare musica è risultato nel giornalismo in una catastrofe con tutti pronti a chiamarsi giornalisti, come Wilson nota: “Il problema è la proliferazione, nel caso della musica abbiamo troppa musica, troppe band è tutto così facile impari un programma e via puoi fare musica decente, cosa succede? Per chi
ascolta apre Spotify e non sa dove guardare, do dove iniziare, troppa musica! Vado a riascoltarmi i Led Zeppelin va! Perché alla fine ritorni a quello che a te è conosciuto a causa di questa eccessiva scelta” e riguardo a noi giornalisti aggiunge “Se andiamo ai giornalisti? Potenzialmente abbiamo in sei miliardi di giornalisti ora! Tutti possono andare su Amazon e scrivere una recensione e lo fanno! E io ti do totalmente ragione quando dici che l´idea del giornalismo musicale ottimo è stata compromessa, si è perso quel rispetto perché tutti pensano che la propria opinione vale più di quella
di un giornalista, invece il giornalismo musicale vero e fatto bene può ispirare”. Devo dire che è stato catartico ascoltare un simile artista diventare così animato sull’argomento giornalista e sottolineare “ci sono sempre stati giornalisti che iniziavano per passar tempo con la band, da sempre, anche negli anni settanta, ma almeno alla fine loro conoscevano il loro mestiere, erano scrittori” e credo che Wilson davvero riassuma il tutto, sia il problema nella musica che del giornalismo in maniera chiarissima “il problema è che oggi veri fotografi, giornalisti e musicisti non possono vivere
della propria arte perché vi saranno sempre altri che danno il loro lavoro gratis, quindi perché un giornale dovrebbe pagare le tue foto se le può avere a costo zero? L’arte della scrittura e della fotografia musicale è scomparsa, perché c’è sempre qualcuno che fa un lavoro decente gratis.” Da questo potete capire quanto sia importante supportare artisti validissimi come Wilson e magare supportare anche i vostri scribacchini che boccheggiano a fine mese per portarmi dentro l’arte che tutti voi amate, e farlo con passione ed integrità.
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Racconti e leggende della mitologia norrena sono argomenti che da sempre hanno suscitato un forte interesse nell’audience metallara. Tante sono state le band che, di album in album, hanno voluto dedicare uno spazio a questo tema sì interessante, ma altrettanto complicato, ma in pochi si sono azzardati nella difficile impresa di narrarne i fatti in un unico capitolo. Tra i tanti nobili eroi troviamo gli Amon Amarth che, proprio quest’anno, debutteranno con il loro primo e vero concept album. Seppur le più svariate voci circolate in rete affermassero il contrario, questo nuovo lavoro è a tutti gli effetti il primo concept partorito da Johan Hegg e soci: dal momento del suo annuncio, “Jomsviking”, il cui titolo immediatamente richiama i vichinghi di Jomsborg, mercenari scandinavi le cui gesta sono state narrate nelle più antiche saghe, sembra aver incuriosito i moltissimi fan dell’ensemble svedese ma di che cosa parla esattamente questo nono full length? Questa la piccola anteprima fornitaci direttamente dal nostro interlocutore, Olavi Mikkonen: “Abbiamo deciso di realizzare un concept album abbastanza presto e
abbiamo guardato al tutto più come ad una sorta di film, quindi la musica era pensata come ad una specie di colonna sonora. Questa era l’idea di base e in seguito Johan ha messo insieme la storia. Essa ruota sostanzialmente attorno a questo giovane ragazzo che accidentalmente uccide un uomo nel posto in cui vive, cerca di combattere per riavere la sua vita e decide di unirsi ai Jomsvikings che potremmo descrivere come i mercenari dell’era vichinga, una specie di soldati. Questo ragazzo si unisce a loro e sì, in sintesi racconta la sua storia, di come è diventato un guerriero e narra della sua vita”. Mettere insieme un concept album è un progetto ambizioso per qualsiasi musicista che si rispetti e, molto spesso, richiede uno studio molto a p p rofo n dito della materia che sarà poi presa in analisi per
la stesura di testi e la composizione della musica. Un processo lungo, impegnativo, proprio come ci viene sottolineato dal biondo chitarrista: “Certamente è stato faticoso perché devi pensare molto di più e fare dei piani. Se pensi di realizzare una canzone che narra di battaglie, devi entrare in quel mood, se qualcuno muore, devi sentire ed entrare in quella musica. Sì, è stato molto più impegnativo di una normale stesura di un brano! Sì, credo sia stato interessante e spero che i fan apprezzino la cosa nella sua interezza”. Già dalla spettacolare copertina ad opera di Tom Thiel, autore di alcuni degli artwork più belli della band, si delinea una parte di questa storia, come confermatoci dallo stesso musicista: “La copertina raffigura il protagonista della storia in età adulta, quando si è già unito ai vichinghi e lo vediamo nella battaglia finale, quando
ottiene la sua vendetta. Credo che sia una copertina figa, abbiamo cercato di preferire qualcosa di diverso. Non c’è fuoco, non c’è alcun logo in fiamme. È un’immagine interessante ed originale”. E per quel che riguardano le lyrics? La leggenda dei vichinghi di Jomsborg è stata raccontata più e più volte nei testi antichi islandesi e proprio questi manoscritti sembrano essere stati un punto di riferimento per Johan Hegg, il cui duro lavoro e studio hanno faticosamente portato alla nascita di questa nuova e attesa release; proprio p e r dare u n pic-
I R A N E C R E M I o n a iv r Ar METAL HAMMER VI PORTA ALLA SCOPERTA DEL PRIMO CONCEPT ALBUM DEI VICHINGHI SVEDESI di Arianna G. 52 METALHAMMER.IT
colo assaggio di ciò che ci verrà offerto con questo disco, gli svedesi hanno pensato di stuzzicare la loro fanbase presentando un piccolo video teaser di “First Kill”, di cui è stato in seguito realizzato un video musicale. A proposito di questo primo estratto, Mikkonen ci svela: “Credo che il brano sia il primo pezzo del disco che narra l’inizio della storia, quando il ragazzo è costretto a fuggire in seguito alla morte accidentale di questa persona. Per questo motivo la canzone si chiama “First Kill”. È da qui che prende vita la storia e penso che sia un buon primo estratto, perché è una canzone tipicamente in stile Amon Amarth”. Una storia il cui sviluppo sembra g i à appassionarci moltissi-
mo, ma perché aspettare così tanto per cimentarsi in una simile impresa? A detta del musicista, l’idea aveva già solleticato la curiosità della band in passato, nonostante l’assenza di una storia che potesse risultare forte ed accattivante: “In passato abbiamo composto dei concept che si sviluppavano solo in 3 o 4 brani, non avevamo mai esteso il discorso per un intero album… Credo che questa volta volessimo dimostrare qualcosa, voglio dire avevamo una storia da associare alla musica, il ché era qualcosa che non avevamo fatto in passato, per cui per noi è stato abbastanza impegnativo comporre le melodie e scrivere la musica per la storia, poiché la storia era già lì. Era molto interessante e credo che il processo creativo sia stato più impegnativo di altri. Credo che per noi, in quanto band, sia stato molto bello fare qualcosa di diverso, forse i fan non noteranno molte differenze ma per noi è stato diverso. Per noi è stato figo!”. Differenze forse i m percet-
tibili dagli scettici, ma piuttosto evidenti per chi ha da sempre seguito il percorso artistico della band. Se con “Deceiver of the Gods” i nostri si erano avvicinati a lidi più thrashy, come ci confermerà l’artista in sede d’intervista, con questo nuovo album gli svedesi si sono confrontati con un sound più bilanciato e solido, che sembra nuovamente tornare a quelle sonorità più heavy e death tanto care alla band, proprio come rivelatoci da Mikkosen: “Questa volta a livello musicale volevamo risultare più pesanti, più heavy e forse per qualche ragione volevamo essere anche più death metal melodico… qui c’è anche un riffing più heavy metal, più tradizionale. Non so, ovviamente c’è qualc o sa un po’
qui e un po’ là, ma alla fine non credo che vi sia molta differenza. Penso che sia il classico, tradizionale album in stile AmonAmarth, forse un po’ più cupo e forse un po’ più heavy metal!” Il disco, affidato alle mani esperte di Andy Sneap, il cui straordinario lavoro sembra spesso mettere la band a proprio agio, come riferitoci in maniera confidenziale dal nostro intervistato, vanta inoltre una super chicca che i molti fan della band certamente non si aspetteranno: la band ha, infatti, riservato alla propria fanbase un piccolo gioiellino rappresentato dalla collaborazione con la regina del metal per eccellenza, Doro Pesch. La cantante teutonica, autrice di una prestazione eccezionale nel brano “A Dream That Cannot Be”, ha aggiunto un tocco unico al sound degli svedesi e dello stesso parere sembra essere Olavi che così commenta questo lavoro di squadra: “Doro aggiunge qualcosa di unico alla nostra musica. Avevamo già una canzone che richiedeva una presenza femminile e Doro è stata la prima persona alla quale abbiamo pensato. È la regina
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dell’heavy metal, ha acconsentito a questa collaborazione e ci siamo divertiti in studio. Ha fatto un lavoro fantastico, credo che il risultato sia molto interessante e credo che quando Johan e Doro cantino insieme sia fottutamente grandioso!”. E che dire, invece, del lavoro svolto dietro le pelli da Tobias Gustafsson, qui in veste di guest session member in seguito alla dipartita di Fredrik Andersson? “L’abbiamo scelto poiché era un vecchio amico della band, lo conosciamo da anni e molto semplicemente volevamo rendere il tutto molto più semplice”, questa la dichiarazione di Mikkosen che così prosegue: “Volevamo registrare l’album con qualcuno di cui ci fidavamo e penso che sarebbe risultato difficile registrare il disco con qualche sconosciuto. Questa penso sia stata la ragione principale, è un batterista eccezionale e non potevamo chiedere di meglio!”.
Gli Amon Amarth non si sono certamente fatti mancare niente e l’arrivo di questo primo concept regalerà loro una nuova soddisfazione. Gli svedesi, però, hanno mai pensato di osare an-
cora di più, magari omaggiando colui che, in parte, ha fornito loro l’ispirazione per la scelta del nome della band? Un’idea, questa, che i molti fan de “Il Signore Degli Anelli” approverebbero senza battere ciglio, ma cosa ne pensa il musicista? “La ragione per la quale abbiamo scelto questo nome per la band è
perché suonava mistico e all’epoca pochissime persone erano a conoscenza dei manoscritti di Tolkien. Pensavamo, quindi, che potesse essere figo e questa è la ragione principale. Personalmente non ho mai apprez-
zato la roba scritta da Tolkien, non rientra nelle mie cose. Abbiamo scelto il nome solo perché suonava in maniera interessante e figa! Volevamo avere un nome vichingo e tutti i nomi che ci piacevano erano già stati presi, ehehee”. Beh, viva la sincerità!
Il disco, le cui premesse sembrano essere molto buone, verrà presentato in anteprima live durante la tranche primaverile che la band terrà in compagnia degli Entombed A.D. Una sorpresa della quale gli americani non potranno che essere entusiasti. E i fan europei, in particolar modo quelli italiani, quando potranno godere di questo vantaggio? A detta dello stesso musicista, il tutto potrebbe concretarsi già al termine dell’estate: “Abbiamo in programma di andare in tour in Europa dopo l’estate ma non è ancora stato annunciato nulla, lo faremo non appena sistemeremo tutto! Suoneremo in Italia! Ogni volta che veniamo nel vostro paese facciamo sempre degli show eccezionali!”. Nulla da temere, quindi! Gli Amon Amarth sono una di quelle band che mantengono la parola data e, dovessimo appellarci al Santo Odino, siamo certi gli svedesi non ci metteranno molto prima di strapparvi un grosso sorriso con un nuovo annuncio.
Guarda il video di "First Kill" su metalhammer.it 54 METALHAMMER.IT
Eppure nessuno mi toglie dalla mente che tra i più grandi fattori dello sputtanamento che il metal ha subito in queste ultime generazioni, passando da fenomeno culturale di alta qualità a puro intrattenimento delle masse più ignoranti e becere, tanto per capirsi quelle composte dagli stessi personaggi che guardano il grande fratello o “amici” della moglie del trichecone coi baffi, ci sia proprio un personaggio che del metal e dell’hard rock tutto ha pesantemente fatto la storia. Parlo di Ozzy Osbourne, che da icona, da leggenda sabbathiana ad una carriera solista pressoché perfetta, perlomeno fino al melodico ma ispiratissimo “The Ultimate Sin” ma comunque valida perlomeno anche con i successivi “No Rest for the Wicked” e “No More Tears”, ha distrutto tutto il distruttibile grazie a quello squallore commerciale a nome “The Osbournes”. Oltre a far parte di quella schiera di programmi che hanno reso la TV l’immondezzaio che è oggi, tra fiction, reality e false competizioni con tanto di opinionisti, cuochi, intenditori e “simone venture” varie, pipparosso pippa a più non posso, con “The Osbournes” è stata messa alla berlina, in cambio di vagonate e vagonate di dollari, l’immagine di un artista che ha scritto tra le pagine più belle della nostra amata musica, e con lui quella della sua famiglia, alla luce di questo costituita infine per tutti i telespettatori da un drogato ubriacone, una moglie manager arrivista e menefreghista e due figl i obesi e strafatti, tra le risate beote di un audi-
ence
abituata a grosse risate con programmi da palati fini come Zelig o Colorado, roba da brividi veri. “Tardi cantasti, gazzilloro mio”, dicono al mio paese, e le parole di oggi di quella famiglia suonano fuori tempo oltre che ridicole, con rimpianti e rammarichi di aver permesso delle riprese di un nucleo allo sbando, tra eccessi di alcool e droghe ed un’armonia mai esistita. E, tralasciando per un attimo il “dramma” degli Osbournes, più presi a contare soldi che a cercare la felicità, quello è stato anche un duro colpo all’immagine “metal” percepita dalla massa: quella massa che negli anni ’80 percepiva lo stereotipo del metallaro come cattivo, pericoloso, poco raccomandabile e quasi temibile e “rispettabile”, oggi lo percepiva come una macchietta da sbeffeggiare, ci rideva sopra, facendo stolte risate su quattro rincoglioniti inoffensivi, quasi giungendo alla conclusione “ah, questa famiglia di rimbambiti è la famiglia di una leggenda del metal?” Complimenti ad Ozzy per la distruzione a cui ha contribuito in larghissima misura, prima e durante lo sfacelo artistico a cui è andato inevitabilmente incontro tra telenovelas con i suoi compagni nei Black Sabbath e prestazioni dal vivo che sarebbe stato meglio evitare grazie ad una dorata e meritata pensione.
Che Dio abbia in gloria l’altro Dio, Ronnie James, impeccabile ed emozionante finchè la malattia ha piegato il suo fisico, ma non la sua leggenda e la sua voce eterna. Ma andiamo avanti, fino a giungere al cuore del discorso da cui abbiamo iniziato nello scorso numero: siamo partiti dalle mie memorie, quando passeggiando per la strada c o n s o t to-
braccio il mio LP appena acquistato o con la copia fresca di stampa di Metal Shock o Metal Hammer incrociavo capelloni vestiti con giubbino jeans chiaro, elasticizzati e Reebok Pump o chiodo nero ed anfibi, ed arriviamo a pochi giorni fa, quando il sottoscritto stava compilando delle news proprio per Metal Hammer, dopo aver inserito alcune schede biografiche con tanto di foto di alcune giovani band che vanno per la maggiore o che, ancor più gravemente, sono le uniche che ancora vendono delle cifre importanti. Oggi, e purtroppo lo dico con la morte nel cuore, non si scappa: o si passa da ragazzini vestiti come Fedez, con capelli improbabili, ingellati, che paiono presi dal peggior campionario dei truzzoni di Serie A di calcio, con zazzere e sfumature da impallidire tra camiciole e gilet d ’ o rd i na n z a a corredo di occhiali alla Frankie Hi
Nrg, oppure la chiave per aprire tutte le porte è quella di mettere una…cantante…dietro al microfono. Ho detto cantante per evitare querele, ma voi sostituite quella parola con l’altra prima definizione che vi viene in mente. Esatto, proprio quella. Dello “slut metal” e della pietra tombale che il fenomeno Babymetal (sigh!!!) ha ormai messo sull’heavy metal parleremo, con sdegno, nella prossima puntata, cercando di zigzagare tra le tentazioni di insultarle come loro stanno insultando un genere musicale con la loro “musica”. Intanto, ritengo che se nel 2016 forse nemmeno il 10% dei metallari riuscirebbe a distinguere in foto i Dear Jack dai Bury Tomorrow, band inglese che musicalmente in ogni caso apprezzo…beh, nel nostro heavy metal oggigiorno c’è qualche problema evidente. Vi giuro, ho le due immagini davanti mentre vi scrivo e devo controllare ogni volta i nomi per non confonderli. Poi magicamente tramite google immagini faccio un viaggetto indietro nel tempo, quando i giornali si compravano anche e soprattutto per riempire le proprie camerette di poster dei propri idioli e digitando… Testament 1987, Metallica 1985, Megadeth 1990... qui davvero mi prende male. Persino gli Iron Maiden, che dopo quegli spandex a strisce rosso-blu-nere orribilmente ritratti nell’immortale ed epocale “Live After Death” dovrebbero tacere per sempre per quanto riguarda questioni di look, a confronto di “eroi” britannici di oggi come Bring Me the Horizon o Asking Alexandria paiono i principi dell’eleganza e fierezza metallara. Sì, cari “ragazzi”, decisamente abbiamo sbagliato qualcosa. O proprio tutto. Ad majora.
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Abbiamo raggiunto Kee Marcello (ex Europe) di ritorno dai suoi recenti tour in UK/ India, per fare una chiacchierata a 360° su passato, presente e futuro. “Ne vengo da un anno molto impegnativo” esordisce Kee “al momento sto mixando un DVD live e un documentario live del mio tour in UK che uscirà entro il 2016. Sono tornato la dal Nagaland (India), ci siamo esibiti al Festival di Hornbill in Kisama, Kohima. E’ stato veramente un viaggio fenomenale e magico - mai provato niente di simile! Con gli Europe abbiamo girato un bel po’ nel Sud Est Asiatico, ma non mi aspettavo tale stupefacente accoglienza! Grazie a questo successo, i miei agenti stanno mettendo insieme un più ampio tour per il 2017. Sono già impaziente”. Visto che sei un tour, quando tornerai in Italia? “L’ultima volta sono venuto con Neil Murray (ex Whitesnake), che è il miglior bassista blues/rock con cui abbia mai suonato. Lo incontrai a Londra nel 1988 quando vivevo lì, ma allora ero negli Europe e lui nei Whitesnake, non abbiamo mai trovato il tempo di suonare insieme, fino alla scorsa estate. Meglio tardi che mai! Spero che potremo farlo di nuovo qualche volta.” Hai collaborato anche con altri artisti di fama mondiale: “Con Uli John Roth abbiamo suonato in diverse occasioni. Mi diverto davvero molto a suonare con lui e mi piace frequentarlo visto che non è solo un musicista incredibile, ma anche una persona affascinante, intelligente con un carattere riflessivo con cui mi piace intrattenere profonde discussioni sulla vita. Ho suonato anche con Ian Paice e Roger Glover, una volta con Michael Schenker, Ken Hensley (Uriah Heep) e Don Airey (Deep Purple), e infine con Rick Wakerman. Ogni volta è fantastico, ma il mio miglior ricordo (essendo un fan dei Deep Purple dagli anni 70) è stato
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quando ho avuto modo di essere il chitarrista/cantante (e quindi di “interpretare” sia Gillan che Blackmore!), nell’esecuzione di “Highway Star”, “Black Night” e “Smoke On The Water” con loro in un grande evento di Massimo Cellino in Sardegna! Questo è stato l’avverarsi di un vecchio sogno che avevo fin da ragazzino!” Non sono gli unici con cui ha lavorato, ricorda un tour Marcello/Mendoza/Terrana, “Abbiamo fatto un tour europeo qualche anno fa, ed è stato un’esperienza grandiosa. Sono dei musicisti strabilianti, musicalmente è stato assolutamente perfetto, ma verso la fine del tour hanno cominciato a odiarsi l’un l’altro. Durante una delle ultime esibizioni in Italia” Kee parla del concerto tenutosi al MEP di Sestri Levante il 26 novembre 2009: “Hanno iniziato ad azzuffarsi sul palco e se n e
sono andati nel bel mezzo dello show! Sono rimasto da solo sul palco e non sapevo davvero cosa dire. Tutti si sono accorti della lite e che se sono andati maledicendosi a vicenda! Improvvisamente mi è venuta un’idea. Mi sono avvicinato al microfono e ho detto al pubblico, con una voce molto calma: ‘Tutto ciò a cui avete assistito qui sul palco stasera è stato meticolosamente pianificato, questa è una recita!’. Non credo di aver ingannato nessuno, ma almeno ho insinuato il dubbio e ho guadagnato un po’ di tempo per andare dietro le quinte e vedere cosa stava succedendo. Dopo un po’, io e l’agente li abbiamo convinti a tornare sul palco per terminare il concerto.
Nonostante io voglia bene ad entrambi, non credo che sceglierò mai più quella particolare linea-up!”. Facciamo un salto indietro nella carriera musicale, partiamo dagli Easy Action: “Gli Easy Action erano una band incredibile. Nel 2006 abbiamo fatto una reunion per merito del bassista, Micael Grimm Magnusson, scomparso improvvisamente nel 2011, e questo ha mandato all’aria il progetto. Ci sarebbe sembrato sbagliato con-
Kee
F O K C RO
tinuare senza Micael. Ho avuto il piacere di diventare suo amico quando ho prodotto la sua band Super Groupies. Un musicista incredibile con una forza positiva che ha spinto me e Zinny Zan a riunire la band. Dio benedica la sua anima. Mi manca e penso a lui ogni giorno. Detto questo, noi (io e Zinny) abbiamo parlato di realizzare del materiale degli Easy Action in futuro, ma come dedica a Micael Grimm e alla sua
eredità musicale.” Nel 1985 ha lavorato a ‘Give An Helpin’ hand’ un progetto di beneficenza con molte band rock svedesi, compreso Joey Tempest: “La scena hard rock di Stoccolma non era enorme e nei rock club “Studion” e “Ritz” eravamo un po’ tutti in contatto. Lo Swedish Metal Aid è stata la prima volta che ho lavorato con Joey, anche se ci conoscevamo da prima. Io ero il produttore/chitarrista/tastierista e lui era il cantautore. Ci è subito piaciut o la-
Marcello
F
vorare insieme e il resto è storia.” Ed infatti l’anno dopo è entrato negli Europe: “Sono cambiate tutte le nostre vite, per il successo mondiale di ‘The Final Countdown’. Gli anni seguenti furono totalmente folli e suonavamo per tutto il mondo! Personalmente, tutto ciò mi ha reso ancora più famoso all’estero visto che ero già ben noto nell’ambiente in Svezia. Sono orgoglioso degli album realizzati con loro. Sul mio prossimo album cercherò in un certo senso di ripartire là da dove ho lasciato, ma con i suoni e la produzione odierni. Nessuno sta facendo più quel tipo di musica e voglio sentirla, quindi credo che dovrò farlo da solo!” E alla domanda se ascolta oppure no gli Europe: “No. Come ho appena detto, purtroppo nessuno sta più facendo quel tipo di musica, compresi gli Europe. Cre-
S E AG
AL A V I S U CL S E A T S I ESE D INTERV E V S ISTA EE R T R N A E T I S E H C PR , O T A S RO S U A T P U F A R L F I SU di Andrea Lami N O I Z A ANTICIP
do che le melodie siano scomparse dalla loro musica e non mi piace più la loro musica. Alcune cose vanno bene, ma si sente ormai come se la magia se ne fosse andata.” Passiamo oltre, dopo gli Europe hai fondato i Red Fun: “I Red Fun erano una band eccezionale con un buon album che purtroppo è andato dimenticato nel mezzo dell’era grunge. Avrebbe sicuramente meritato un destino migliore. Ma il vento del cambiamento è difficile da fermare. Per ironia della sorte, se l’album fosse stato pubblicato ora, avrebbe riscosso maggior successo”. Molte collaborazioni ne hanno segnato la carriera e altrettante gli sono rimaste nel cuore: “Credo di avere un sacco di quei progetti nel mio cuore. Se proprio devo nominarne uno ti direi “Sy Klopps Blues Band”. Neal Schon (Journey), Dave Dennis (Steve Miller Band) ed io alle chitarre, Ross Valerie (Journey) al basso, Prairie Prince (The Tubes) alla batteria, e il mio manager di allora, Herbie Herbert (che è anche stato il manager di Journey, Santana e Mr. Big), come voce solista!”. Sulle sue influenze musicali, Kee racconta: “ho diverse influenze musicali. Oltre ovviamente al Rock, Blues, Soul e al Punk ho suonato il Jazz, sia gli standard che la fusion. Ma io sono un rocker nel cuore e questo è ciò che voglio fare.” Riguardo al presente tempo fa parlò di due nuove band: Ünderwörld (con Augeri Donati Henryson) e Hardcore Trubadours: “Gli Ünderwörld sono una band che voglio davvero far decollare. Ma nella mia vita c’è un nemico implacabile chiamato tempo! Sono stato così occupato ultimamente e non posso portare avanti tutto insieme visto che ho la mia carriera solista, le mie altre attività più un progetto del tutto nuovo per conto mio. Abbiamo registrato tre canzoni che continuavano a gi-
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rarmi nella mente, ma sono solo un essere umano, a volte vorrei potermi clonare. Gli Hardcore Trubadours sono un altro progetto interessante. Suoniamo solo in acustico, ma questo non ci impedisce di fare canzoni rock.” C’è anche stato uno speciale in televisione con Christian L u n d quist: “Chris-
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tian Lundquist in Svezia è una celebrità ed è noto come “Kicken” (il calcio) grazie alle sue abilità nel Karate, ma non lasciarti trarre in inganno, lui è un tipo amorevole e affascinante e uno dei miei migliori amici. Abbiamo fatto uno show televisivo in cui io, Kicken e tre altre celebrità trascorrono una notte in un castello “stregato”, in compagnia di un medium famoso. Il mio ruolo era lo “scettico”, quello che preferisce, una soluzione scientifica degli eventi paranormali piuttosto che una spiegazione occulta. Tuttavia, la medium, Lena Ranehag, mi ha fatto cambiare idea visto che mi ha messo in contatto con mio padre (morto nel 1993) che mi parlato di
cose che nessuno conosce tranne noi due. È stata un’esperienza stupefacente!” Stoccolma, 2013, Rock Of Ages uno splendido spettacolo teatrale: “È stato un grande successo ed è durato per 2 anni in 3 città svedesi (Stoccolma, Göteborg e Helsingborg). Si è già parlato di rifarlo, ma purtroppo non so se riuscirò a trovare il tempo. Sarà uno di quei casi in cui devi scegliere tra due cose che ti interessano allo stesso modo. Dovendo scegliere tra Rock Of Ages o gli Ünderwörld, la scelta è facile: la mia musica con Steve Augeri, Virgil Donati e James Lomenzo verrebbe sicuramente prima di tutto.” La tua biografia in svedese, riusciremo mai a leggerla in italiano o in inglese? “Il problema è che “Rockstjärnan Gud Glömde” è risultato molto difficile da tradurre. Il mio modo di scrivere, una miscela dello slang di Stoccolma degli anni ‘80, stronzate in gergo del mondo della musica, e riferimenti a filosofi e astrofisici, mescolati con un assurdo senso dell’umorismo, rendono molto difficile la traduzione. Avrei potuto fare io stesso una versione in inglese, ma semplicemente non ne ho il tempo.” Riguardo ai progetti futuri: “Sono molto felice di dire che ho appena firmato un accordo con l’etichetta italiana Frontiers, con Serafino Perugino e Mario De Riso. Le nostre conversazioni sono state molto produttive e penso che l’idea che abbiamo per il nuovo album sia ottima. E’ come se stessi facendo un inizio completamente nuovo dai tempi di “Le Baron Boys” e lo stessi portando verso il futuro. Si tratta di un progetto molto melodico e credo che un sacco di fans degli Europe si sentiranno a proprio agio con le canzoni. Tuttavia, non è un “abbandono” dal mio stile e la gente che ha amato “Melon Demone Divine”, “Judas Kiss” e “Redux: Europe” riconoscerà il mio suono.”
L’EPOPEA DEI SAVATAGE di Pippo ‘Sbranf’ Marino
“Dietro il Sipario” racconta, con uno stile a metà strada tra il giornalistico e la pura passione da fan, l’epopea di una delle bands più travagliate, discusse, amate e sfortunate della storia del nostro amato heavy metal. Parliamo ovviamente dei Savatage. La band dei fratelli Oliva è da sempre oggetto di culto da parte di orde di fans in pura adorazione, nonostante, a conti fatti, i Sava non siano più attivi (almeno nella loro veste ufficiale) già dal 2003, se si eccettua la clamorosa loro partecipazione a Wacken 2015. Tutto questo, e moltissimo altro, troverete in questo libro, scritto, stampato ed impagi-
nato a regola d’arte. Dario Cattaneo, autore, stimato collega e grande appassionato dei Savatage, ci conduce per mano alla (ri)scoperta del combo floridiano, dalle origini sotto il monicker Avatar, all’improvviso cambio di nome; dai primi passi nel mondo del metal, al clamoroso successo; dall’incontro determinante con il produttore Paul O’Neill alla tragica morte di Criss, giù giù fino ai giorni nostri, tutto è narrato incastonando sapientemente esperienze personali, interviste esclusive che Dario ha tenuto con Jon Oliva, lo stesso Paul, Chris Caffery (tra i più loquaci) e tanti altri, attori o comprimari di una storia musicale tanto affascinante quanto complicata e, spesso, dolorosa. Il libro non dimentica tutto ciò che è poi nato dalle varie ‘costole’ dei Savatage, dai Doctor Butcher alla Trans Siberian Orchestra, passando per i Jon Oliva’s Pain, i Circle II Circle e molto altro, come peraltro rappresentato dalla bella sezione fotografica a colori posta al centro. Scritto con ordine e metodo, meticolosissimo nel riportare
ogni singolo episodio, eviscerando con dovizia di particolari la nascita, lo sviluppo, la registrazione e il tour per ogni singolo album, il libro ci permette anche di avere uno spaccato sulla vita familiare dei fratelli Oliva, sulle scorribande e i momenti più divertenti in tour, come anche il grande lutto che colpì l’intera famiglia Savatage, e le sue conseguenze, da quelle più visibili a quelle più inaspettate. Gran bella lettura, scorrevole e piacevole,
con piccoli box disseminati qua e là, dedicati a dipanare la storia dietro i concept della band, o a riportare aneddoti curiosi o particolarmente interessanti. “Dietro il Sipario” è un libro davvero ben fatto, che ci sentiamo di consigliare a tutti gli amanti dei Savatage, ma ancora di più a chi non li ha mai approfonditi davvero. Una storia di amore per la musica, di morte e redenzione, che meriterebbe… un libro!
Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Dietro Il Sipario. L’Epopea Dei Savatage Autore: Dario Cattaneo Collana: Gli Uragani 23 Pagine: 224 ISBN 978-88-96131-79-4 Prezzo: 20,00 Euro Acquistalo qui!
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
@ SHIPROCKED 2016 (18-22 GENNAIO)
Testo e Foto di Paky Orrasi
Ph. Shiprocked.com
Nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai su una nave a Miami: Shiprocked 2016 (Miami - Costa Maya, Messico) naturalmente sconosciuta in Europa ma che sembra essere stata pompata per bene come l’evento rock in America. Al timone della Norwegian Pearl i Finger Death Punch, la ciurma composta da band quali Seether, Halestorm, Hellyeah e Avatar. Ora, io ancora non ho ben capito chi ha pagato tutti quei soldi per essere lì, prezzo medio più di $1.000, perché il tutto è stato davvero deludente. Certo potrei dirvi che a bordo vi erano 13 bar (con cocktails preconfezionati), sembra che vi erano 19 posti dove nutrirsi, ma tutti con le stesse patatine fritte
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e bacon, una piscina all’aperto (quasi sempre chiusa), quattro vasche idromassaggio (troppo strette da contenere massino tre persone), una mini palestra
e un centro benessere costosissimo, connessione per un dollaro
al minuto che ho pagato ma che ahimè non funzionava quasi per nulla. Voi direte si ma
c’era la musica. Quello dipende dai gusti e vi posso dire ODINO BENEDICA L’EUROPA PER LA NOSTRA MUSICAL
METAL E HEAVY ROCK! Perché io non avevo idea di chi fossero la maggior parte delle band e dopo pochi minuti d’ascolto, da buona metalhead europea, sono scappata a nascondermi in un armadio, svegliandomi la notte sudata, fredda, con urla di vendetta che riecheggiavano nella mia testa sognando 70k Of Metal. Il peggio? Ogni band suonava ben due volte. Le esilaranti super metal attività includevano un giochino a premi per indovinare le sigle dei telefilm degli anni Ottanta, durante il quale io ho deciso di ubriacarmi, anche se per pagare i fancy cocktail preconfezionati dei tetrapak mi son dovuta tagliare una gamba. Credo che il top sia stato vedere tutti questi pericolosi metallari robusti e pelati seduti davanti uno
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schermo per giocare alla tombola…. L’attività che mi ha tenuta più occupata è stata aspettare il lentissimo ascensore, tra un’attesa e l’altra credo di essere invecchiata di qualche anno…non mi sarei mai aspettata di passare l’età pensionabile davanti a una porta che non si apriva mai. Ma andiamo alla musica. Gli Halestorm hanno aperto le danze sul Deck Stage, mentre Miami diventava più piccola e io mi pentivo già di essere andata. Ora, scherzi a parte, pur non essendo il mio genere ammetto che Lzzy Hale abbia una bella presenza scenica e una voce da rispettare. La band proveniente dalla Pennsylvania ha suonato pezzi del passato come “Rock Show” ma molti nuovi come “Mayhem”, “Apocalyptic”, e “Scream”, i quali marcano la diversità sonora della band. Naturalmente l’attenzione era tutta verso i 5FDP che hanno suonato nel teatro Star-
dust. Ai nuovi ”Jekyll e Hyde” e “Got Your Six” la band ha accompagnato pezzi quali “American Capitalist”, oltre ad un medley acustico. Il secondo giorno ha visto l’assalto dell’Europa e finalmente di un po’ di metal reale. La band più richiesta per questa crociera è stata alla fine portata a Miami a furor di popolo, ormai degli amici di Metal Hammer, gli Avatar. Johannes, il frontman, commenta “mi sono sentito un pesce fuor d’acqua, non era il nostro forum, troppe persone con gli occhiali al chiuso, ma la figata è che ho amato i nostri due shows, specialmente il secondo, quindi non sminuirei mai il tutto. Sono contento di essere stato lì e di essere andato in Messico per la prima volta”. Gli Avatar si sono dimostrati la band più discussa del festival, più seguita e che di certo ha raccolto nuovi fan. Hanno cen-
trato le due diverse atmosfere, il primo concerto sul palco maggiore, il Deck Stage, è stata una grande presentazione con una grande performance, anche se si suonava con un sole abbagliante. L´atmosfera era da festival. Il secondo show è stato migliore e non per la performance, credo che la formula abbia funzionato, in quanto essendo al chiuso e avendo il pubblico sia in platea che sulle scale, è stato un concerto sullo stile di un club, più appassionato e sentito. Il terzo giorno siamo piombati in un villaggio turistico in Messico. Dove la sottoscritta proveniente dai -20 gradi finlandesi e ha deciso di sdraiarsi al sole cocente e naturalmente scottarsi in pochi minuti. Il quarto e ultimo giorno di crociera ha visto, come se non bastasse già, il resto: le condizioni meteo pessime, caus-
ando la chiusura del Deck Stage; tuttavia i 5FDP non si sono fatti condizionare, e sebbene le onde rendessero pressoché impossibile stare in piedi, han tirato fuori due ottimi show uno dietro l´altro. Come ho detto e ripetuto questa non è stata una crociera dei sogni, troppe formazioni tra il punk e il rock, troppe cantanti platinate e con capelli rosa. I complimenti vanno all’unica band europea che ha letteralmente preso d’assalto quella nave. Tuttavia è stata un’esperienza e ritornata nella mia Finlandia la bufera di neve e il freddo gelido che mi aspettavano all’uscita dell’aeroporto sono stati quasi un tenero abbraccio malefico.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Marco Caforio Ph. Emanuela Giurano
@ Live CLUB (11 Febbraio 2016)
Sempre per amor di verità: “The Satanist” non è precisamente sul podio dei miei album preferiti della band polacca. Pur avendolo parzialmente rivalutato col passare del tempo, rimane a mio avviso un episodio ruffianotto e vastamente inferiore a capisaldi del calibro di “Demigod”, “Satanica” o “Thelema.6” (eccolo qui il podio). D’altro canto i giudizi della stampa specializzata, i riconoscimenti ottenuti e la risposta del pubblico -lo stesso Live è gremito in ogni ordine di posto- urlano una verità diametralmente opposta alla mia, ragion per cui la smetto di polemizzare e vedo di godermi il concerto, che è meglio. La parola d’ordine, più che “occultismo”, “misticismo”, “satanismo” e altre amenità assortite sembra essere “professionalità”. Inutile girarci attorno: ormai i Nostri hanno valicato i confini del metal estremo, e sono approdati in un campionato superiore in termini di budget, pubblico, sponsor e risonanza mediatica. Non leggetela necessariamente come una critica, bensì come la semplice constatazione di quanta preparazione vi sia dietro ogni singola data dei Behemoth: il palco, le luci, i filmati in bianco e nero, i vestiti di scena, gli effetti speciali, le stesse pose e i movimenti dei musicisti forniscono l’impressione di uno spettacolo minuziosamente studiato e sceneggiato come un film, dove la spontaneità non esiste e nulla è lasciato al caso.
Setlist
† Blow Your Trumpets Gabriel † furor Divinus † Messe Noire † Ora Pro Nobis Lucifer † Amen † The Satanist † Ben Sahar
† In the Absence of Light † O Father O Satan O Sun! † Pure Evil and Hate † Antichristian Phenomenon † Conquer All † Chant for Eschaton 2000
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Tutto ciò, lo si ribadisce, non si rivela affatto un male, posto che la compagine dell’Est Europa riesce in un sol colpo a: - superare brillantemente alcuni problemi all’impianto audio; - suonare di fila l’intero “The Satanist” senza far rimpiangere i classici (al netto di un momento di stanca all’altezza della doppietta “Ben Sahar”/”In the Absence Ov Light”, che continuano a convincermi poco); - conquistare i presenti in virtù di una prestazione mostruosa. Dal punto di vista esecutivo, infatti, siamo su livelli di eccellenza assoluta: la sezione ritmica fa semplicemente paura, con un Inferno ai limiti dell’onnipotenza; la coppia di chitarre macina che è un piacere e vanta un Nergal in ottima forma, anche vocalmente. Si potrà dunque disquisire sulla genuinità della band e su talune scelte di marketing (la mostra di Toxic Vision, la scatolina di ostie…), ma non sulla sua capacità di mettere in piedi uno show spettacolare sotto ogni punto di vista. Show a cui non mancano le chicche: al termine della prima fase dell’esibizione, sancita da “O Father O Satan O Sun!”, tocca alla preistorica “Pure Evil and Hate” (tratta dall’EP “And the Forests Dream Eternally”) fornire un salvifico refolo di puro sfogo black. Scelta inattesa e quanto mai azzeccata, dopo tre quarti d’ora dedicati a “The Satanist” e al suo sound ben più concettuale ed elaborato. Altrettanto felice il ripescaggio di “Antichristian Phenomenon” (a lungo assente dalle scalette live) e della splendida “Conquer All”, eseguita alla perfezione (per la cronaca: anch’io la suono benissimo, seppur con la Fender giocattolo di “Rock Band” per Playstation 3). Chiude il meraviglioso riff di “Chant for Eschaton 2000”, e nonostante la scarsa durata dello show -siamo sui 70 minuti- c’è posto solo per applausi e acclamazioni. Se Satana sia soddisfatto o meno dello spettacolo a lui dedicato non posso saperlo; di certo, pochi dei comuni mortali presenti stasera hanno lasciato il Live di Trezzo insoddisfatti. Io non sono tra questi, statene pur certi.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Andrea Martongelli Ph. NAMM Staff (namm.org)
Il Namm è meta di pellegrinaggio per gli adoratori degli strumenti musicali e per chi, perché no, vuole incontrare facilmente i propri idoli. All’interno della fiera si riversa la tipica atmosfera californiana si incarna nell’atteggiamento degli stessi musicisti, come direbbero gli americani si è tutti più “easy”. Capita di frequente di fermarsi vicino a uno stand o a una corsia e di fianco a te puoi riconoscere quattro o cinque personaggi famosi intenti a parlare di musica o dei fatti propri in un clima assolutamente rilassato. Al NAMM non esistono meet’n’greet, ci si incontra lungo i percorsi della fiera, ci si saluta, si parla del più e del meno con gente che fino al giorno prima potevi solamente ammirare nei booklet degli album e ad assistere a delle performance mozzafiato anche nelle zone circostanti la manifestazione. In più lo scopo del NAMM è di aggiornarsi sulle novità delle diverse case produttrici per il 2016, sia per ciò che è relativo alla tecnologia, ad esempio amplificatori microscopici che emettono un suono mostruoso, sia per gli strumenti in sé. Si scoprono così nuovi marchi che scelgono di sfidare i colossi per entrare nell’olimpo della musica, creando tutto ciò che è necessario per entrare nella mischia della battaglia.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
Quest’anno ho iniziato con un concerto a Fullerton, patria della Fender Guitars, allo Slide Bar, dove si è tenuta la NAMM Metal Jam 2016 che ha visto alcuni fra i maggiori nomi della nostra musica esibirsi sullo stesso palco per una nobile causa; tutti i fondi difatti sono stati devoluti alla lotta contro la sclerosi multipla. Serata infuocata con il locale ricolmo di gente, basti pensare che lo Slide Bar è un posto frequentato da volti noti dello showbiz ed è meta di tour di molte band metal. Il giovedì, primo giorno della fiera, si è entrati nel vivo. Ho avuto modo di vedere un sacco di innovazioni che verranno introdotte molto presto nel mercato, dagli strumenti ai computer fino ai plugin, e anche aggiornarmi riguardo ai metodi didattici applicabili anche nelle nostre scuole. Sono rimasto soddisfatto, ed è stato motivo di orgoglio, assistere alla presenza di diversi marchi italiani, dai più storici a quelli recenti, produttori di effetti a pedale, amplificatori, chitarre, bassi, ecc. Quindi un sacco di capatine ai miei endorsement per salutare tutti quelli che da anni mi supportano, sono stato nel frattempo intervistato da Dean Guitar TV da dove sono passati Dave Mustaine, Michael Amott, e via dicendo.
i a Dean Guitars TV
Andy Martongell
Alla fine di ogni giornata aveva luogo un concerto di artisti e band famosi. C’era veramente l’imbarazzo della scelta. Io ho assistito al concerto di Malmsteen all’Observatory di Santa Ana, al quale erano presenti molti grandi nomi della scena chitarristica internazionale come spettatori, e poi al Bonzo Bash 2016, dedicato a John Bonham dei Led Zeppelin, che vedeva tutti i migliori batteristi della scena rock susseguirsi sul palco, da Dave Lombardo a Mike Terrana, da Glen Sobel a Brian Tichy, e tanti altri. Poi c’è stato il Randy Rhoads Remember, dove sono stato invitato nel backstage dal mitico Michael Angelo Batio e rivedere così diversi amici, come Kiko Loureiro. Altro spettacolo è stato quello di Michael Landau, uno dei turnisti più famosi al mondo, al Baked Potato, club piccolo ma che propone sempre musica di qualità. Non mi sono poi fatto mancare le visite a Santa Monica e alle rinomate spiagge dei dintorni. Vivendo su Sunset Blvd. ho avuto modo di visitare il Rainbow Bar, circondato da fiori per ricordare il grande Lemmy. È stata una tappa toccante da fan storico dei Motörhead, avendoli visti dal vivo 22 volte, e mi ha colpito come è stata recepita la morte di un personaggio così importante per la nostra musica. Ci vediamo nel 2017!
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STORY di Roberto Alfieri Nello scorso numero di Metal Hammer avete potuto leggere la recensione di “Dystopia”, quindicesimo album in studio dei Megadeth, un deciso ritorno alle sonorità più propriamente thrash che ha scatenato i fans, dividendoli in due fazioni. Da una parte quelli entusiasti del disco, dall’altra i detrattori, che hanno gridato allo scandalo a causa di alcune recensioni che hanno osato tirare in ballo album importanti del passato del gruppo come metro di paragone. È quello che in genere succede quando una grande band, che ha segnato indelebilmente la storia del nostro genere music a l e preferito, tira fuori un nuovo lavoro. Ma i Megad e t h sono così fondamentali come tutti dicono? È giustificata la loro partecipazione al grande carrozzone mediatico del Big Four di qualche anno fa? Io direi decisamente di si, ma per capire meglio la loro importanza storica occorre fare un bel salto nel passato lungo più di trent’anni. È il 1983 quando un
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giovanissimo Dave Mustaine viene allontanato da una band esordiente che di lì a poco avrebbe cambiato definitivamente le sorti dell’heavy metal. Stiamo parlando naturalmente dei Metallica, nei quali Dave ha suonato dal 1981 all’83, appunto. La sua propensione per le droghe e il suo carattere litigioso, in particolare nei confronti di James Hetfield, furono la causa del suo licenziamento, avvenuto non senza polemiche che si sono trascinate per decenni. La cosa non sembra però aver demoralizzato il rosso crinito, che rimboccatosi le maniche mette su un nuovo gruppo. Dopo aver provato a suonare con diversi ragazzi incontra D a v e Ellefson, e da allora si instaura un rapporto di amore/odio tra i due che continua tuttora. Ci vogliono ben due anni di duro lavoro perché, nel 1985, veda finalmente la luce l’esordio della band, quel “Killing is my business… and business is good!” che pone le basi per una carriera devastante e che
presenta per la prima volta in copertina il bel faccione di Vic Rattlehead, mascotte che, al pari di Eddie dei Maiden, accompagnerà la band per (quasi) tutta la sua carriera. Pur se, per certi versi, ancora acerbo, si intuiscono le grandi potenzialità compositive di Mustaine, che recupera per l’occasione ‘Mechanix’, un brano che aveva scritto per i Metallica, finito poi sul loro esordio sotto mentite spoglie (originariamente era intitolato ‘The Mechanics’, poi il nome fu cambiato in ‘The Four Horseman’), qui riproposto con una foga e una cattiveria molto maggiori rispetto alla versione di Hetfield e soci. ‘Rattlehead’, ‘Skull Beneath The Skin’ e soprattutto la splendida ‘Looking Down The Cross’ hanno decisamente una marcia in più rispetto ai brani di tante altre band emergenti dell’epoca. Basta solo un anno perché la band tiri fuori il suo primo capolavoro, entrato di diritto negli annali della
storia del thrash: “Peace Sells… But Who’s Buying?”, che contiene perle come la titletrack, ‘Black Friday’, ‘Wake Up Dead’, ancora oggi punti forti della scaletta live della band. L’album è una pietra miliare non solo per la sua musica micidiale, ma anche perché contiene diversi testi pungenti di Mustaine, che affronta temi sociali, politici e di guerra. I suoi testi iniziano a diventare maturi e scomodi, cosa che porterà negli anni diversi problemi al singer. È il 1988 quando “So Far, So good… So What!” viene pubblicato. Album snobbato da molti, è in realtà un ottimo disco di thrash metal dall’alto tasso tecnico, e brani come ‘Liar’ o il capolavoro ‘In My Darkest Hour’, scritta due anni prima e dedicata all’amico Cliff Burton, sono lì a confermarlo. Il disco contiene inoltre ‘Hook In Mouth’, nella quale Dave si scaglia contro il P.M.R.C., un organo di censura molto in
voga in America in quegli anni. Si tratta di un album di transizione, ponte ideale tra “Peace Sells” e il secondo capolavoro assoluto del gruppo, “Rust In Peace”, pubblicato nel 1990 dopo l’ennesimo cambio di line up, un problema che da sempre affliggerà la band, sottoposta ai capricci e alla dittatura di Mustaine (perfino Ellefson non riuscirà ad esserne esente e verrà allontanato dal gruppo dal 2004 al 2009). L’entrata di Marty Friedman e di Nick Menza alza ulteriormente il tasso tecnico dei nostri, e questo permette a MegaDave di dare libero sfogo alla sua rabbia e alla sua creatività con quello che forse è e rimarrà sempre il loro album più completo e tecnico. ‘Tornado Of Souls’, ‘Holy wars… The Punishment Due’, ‘Hangar 18’, la stessa titletrack, ci consegnano una band stellare che non ha rivali degni di nota. La magia prosegue, pur se in maniera leggermente ridotta, con il successivo “Countdown To Extinction”, anche se, come è successo per i Metallica con la pubblicazione del “Black Album”, qualcosa inizia a cambiare. Le sonorità diventano sempre più melodiche, si inizia a strizzare l’occhio a MTV e ai
suoi video panettoni. Ciononostante l’album si assesta su un ottimo livello, cosa che non si può certo dire per il suo
successore, “Youthanasia”, la prima vera pietra dello scanda-
mance spente, forse proprio a causa della scarsa risposta dei
lo, che ha fatto perdere alla band molti dei suoi die hard fans. ‘A Tout Le Monde’ è il brano contro cui tutti puntano il dito, ma in generale tutto l’album presenta troppe tracce melodiche e segna un progressivo allontanamento dal thrash metal, processo reso ancora più evidente nel successivo “Cryptic Writings” e soprattutto in “Risk”, vera e proprio passo falso che ha segnato, oltre ad un ulteriore cambio di line up con l’allontanamento di Friedman, l’inizio del declino della band. I fans reagiscono male alle sonorità ai limiti del rock e soprattutto alle influenze quasi industrial, tanto in voga in quegli anni, e sono in molti a pensare che il decadimento del gruppo sia legato a stretta mandata alla conversione cristiana di Dave e alla sua disintossicazione d a l l e droghe. Il cambio radicale di vita ha inciso così profondamente sulla qualità della musica? Forse sì, forse no, fatto sta che questa cosa ha ripercussioni anche in sede live, dove il pubblico partecipa sempre meno e in maniera più fredda, e la band dà vita a perfor-
sostenitori. Accortosi del disastro creato, Mustaine prova un’inversione di tendenza con “The World Needs A Hero”, ma le cose continuano a non funzionare in quanto l’album è
privo di mordente, tant’è che l’anno successivo, approfittando di un suo problema al polso, MegaDave decide di stoppare le attività della band. Passano solo due anni e i Megadeth tornano sul mercato con “ T h e System H a s Failed”, primo album senza Ellefson al basso, e primo tentativo da parte di Dave di riportare la band ai fasti di un tempo. La cosa riesce solo in parte, in quanto l’album convince, sì, ma le mosse successive sono un susseguirsi di alti e bassi, con il frontman sempre più disorientato e il pub-
blico sempre più deluso da una produzione altalenante, lontana ormai anni luce dai fasti di una volta. Se “Endgame” e “Th1rt3en” vengono accolti da qualcuno con tiep i d o entusiasmo, non si può certo dire lo stesso per i deludenti “United Abominations” e “Super Collider”, che ci consegnano una band ormai allo sbando. È quindi questo il motivo principale per cui, pur non essendo un capolavoro al pari di “Peace Sells” o “Rust In Peace”, l’ottimo “Dystopia” è stato accolto con tutto questo entusiasmo da critica e pubblico, perché finalmente Mustaine ha messo da parte velleità sperimentali e tentazioni rock ed è tornato a fare quello per cui è nato, e cioè suonare thrash metal. Quindi, tornando a monte, meritano davvero i Megadeth di essere annoverati tra i grandi della scena musicale metal? Assolutamente si, nonostante gli alti e bassi di cui abbiamo parlato. E a dimostrarlo ci sono i milioni di dischi venduti, i numerosi dischi di platino conquistati, le migliaia e migliaia di persone collezionate in oltre trent’anni di carriera, il forte impatto iconografico di Vic Rattlehead, secondo forse solo ad Eddie e a l l o Snaggletooth dei Motorhead, ma, soprattutto, l’incredibile influenza che hanno avuto su decine e decine di band venute dopo di loro. Per tutte queste cose gli vanno r ic o no s c i u t i l’importanza storica e il solco profondo lasciato, specialmente dai primi sei album. Solco che soltanto pochissime altre band sono riuscite a tracciare così in profondità…
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D E A T H C H A M B E R COMEBACK
di Francesco Gozzi
I Brutality sono tornati, lunga vita ai Brutality. Mi rendo conto che il ritorno sulle scene di questa band di culto americana non sia stato pubblicizzato a dovere, d’altronde uscire a gennaio 2016 con il nuovo “Sea of Ignorance” su una minuscola etichetta greca, a distanza di 20 anni dal disco prece-
dente, non pone certo le basi per un come back in grande stile. Se poi contiamo che l’ultimo disco non è assolutamente all’altezza dei primi tre, viene da chiedersi: “perché spendere parole? Perché fare un piccolo approfondimento su di loro?”. Eppure, si potrebbe veramente creare una serie TV melodrammatica sui Brutality (bella for-
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za direte, ormai ci sono serie su tutto), ma davvero, spunti ed argomenti non mancherebbero di certo. Capisco bene che per chi è più giovane, questa band possa essere sfuggita, scappata, nascosta, coperta negli anni da
t o n ne l l a t e di spazzatura musicale fatta passare per imperdibile. Ascoltate me, l’unica cosa imperdibile sono i primi tre lavori di questa formazione, fondata a Tampa, culla del movimento death metal, proprio agli albori della scena, verso la fine del 1986. Cominciamo a viaggiare a ritroso. Dopo una serie di demo che nell’underground musicale cominciavano a diffondere in modo entu-
siasmante il malevolo verbo dei Brutality, questi ragazzi si sono purtroppo trovati a cambiare rapidamente parte della formazione, giusto un paio di settimane prima di entrare ai Mossiround Studios (e dove altrimenti?) per piantare la prima bandiera nella loro discografia, perdendo di colpo la carismatica figura di Larry Sapp (chitarra e voce, fondatore del gruppo assieme a Jeff Acres). I Brutality sono così giunti al debutto discografico potendo contare sul potente growl del nuovo entrato Scott Reigel e sulla coppia di talentuosi chitarristi Don Gates e Jay Fernandez (che già gravitavano nell’orbita della band in una delle sue tante incarnazioni), nonché sulla colonna Jeff Acres, riuscendo ugualmente a partorire un disco clamoroso: ‘Screams of Anguish’, un album che metteva subito in mostra uno stile unico e riconoscibile. Mentre le altre formazioni della Florida puntavano sulla cattiveria (Obituary), sul lato satanico della musica (Deicide), su forti reminiscenze thrash (Malevolent Creation), sulla malvagità e l’impatto (Morbid Angel), sulla tecni-
ca e sull’evoluzione (Death), o ancora sul lato progressivo e sperimentale della nostra musica (Cynic), ecco che il suono confezionato dai Brutality su “Screams of Anguish” era ancora diverso e riusciva a trovare la propria strada. Su questo disco l’impatto del death metal è sempre presente ma condito con una buona dose di tecnica, mai eccessiva e spesso usata per rendere più strutturate le canzoni, senza appesantirle in modo inutile, unendole poi a parti rallentate doomeggianti, intermezzi acustici - più propriamente nordeuropei -, e rasoiate di chitarra in grado di pennellare taglienti melodie. A questi elementi va aggiunto l’ottimo drumming di Jim Coker, capace di variazioni ritmiche perfette nel modellare l’impasto sonoro della band. Uscito grazie alla lungimirante Nuclear Blast, nonostante fosse stato accolto ottimamente tra gli amanti del metallo della morte, il pri-
mo disco dei Brutality soffriva di un problema non da poco, ovvero, la sua uscita in leggero ritardo rispetto ai lavori di quelle che diventeranno poi le band più rappresentative del genere. Un problema che li accomuna in parte agli immensi Monstrosity e ai Disincarnate. Continuando con ostinazione, attraverso diversi dissidi interni e giravolte nella line up (che hanno portato alla fuoriuscita di Jay Fernandez, rimpiazzato alla sei corde di Brian Hipp), i Brutality sono poi riusciti ad affinare le caratteristiche del loro suono, ad estremizzarle, condensandole in un concentrato musicale devastante: il secondo album “When the Sky Turns Black”, da molti considerato il vero capolavoro della band. Dopo aver poggiato solide basi con il primo disco, sarebbe stato stupido buttare tante idee alle ortiche, ed ecco che questo secondo lavoro del 1994 non ha avuto forse la stessa carica sconvolgente, spiazzante, del debut ma ha avuto il merito di riuscire a mettere a fuoco ancora meglio il songwriting della band, portandola al livello d’eccellenza di quei gruppi che in questo terreno -ancora per poco- dettavano legge. Ancora per poco ho detto, perché il periodo d’oro
del death metal era infatti agli sgoccioli. Alcune prove non ottime dei portabandiera del genere, unite al disinteresse generale dell’audience che inseguiva invece il sempre più popolare grunge (e le etichette
a nda vano di pari passo ai trend), restituivano la sensazione del terreno che cade sotto i piedi. In questo momento non facile, i Brutality si trovano ancora a fare i conti con una line up instabile, fatta di litigi, ritorni, chitarristi che se ne vanno; cambiano anche il logo e parte dell’immagine della band. D’altronde, senza mai svendersi, bisognava comunque apparire più allettanti in un marasma dominato da Pantera e cloni nascenti. In questo momento un po’ confuso, la band di Tampa entrerà nuovamente in studio, con una formazione a quattro, per registrare il suo
terzo e ultimo disco (almeno per vent’anni): “In Mourning”. Il nuovo Dana Walsh alla chitarra non sarà forse un campione, ma riesce ad amalgamarsi subito con il suono della band, la quale compone per il nuovo album alcune delle sue migliori canzoni. Purtroppo non tutto il disco non è sullo stesso grandioso livello dei due predecessori e risulta forse il meno convincente, pur avendo uno spessore assoluto. “In Mourning” sembra un disco più asciutto, diretto, una bordata di oscura cattiveria, senza quegli intermezzi acustici e quelle pause strumentali che riuscivano a colorare il suono in modo così seducente. Il tour promozionale, però, va male e il disco, nonostante la sua bontà, vende poco, l’etichetta perde interesse e la band, già con parecchi problemi, poco dopo si scioglie. I Brutality, a breve distanza, tenteranno di riunirsi ma senza fortuna. A questa situazione di incertezza ed abbandono, si aggiunge poi la morte per overdose del
chitarrista Brian Hipp. 2006. Gli anni passano, nel frattempo escono raccolte, demo, ma tutto sembra fermo fino a una nuova, timida reunion nel 2008, subito abortita per scarso interesse delle etichette e per le bizze di Jeff Aceres. Il leader-bassista sembra anche avere diversi problemi con un altro ex-membro della band, Larry Sapp, che nel frattempo viene addirittura creduto morto, mentre ha “solamente” deciso di asportare qualcosa di superfluo, diventare una bella signora e chiamarsi così Raine Arguelles Von Kiszka. Bum, colpo di scena. Le polemiche tra i due presunti amanti si susseguono poi nel silenzio assordante che li circonda, fino ad uno squarcio nel buio: nel 2013 la band si riforma nella sua line up originale (quella di “Screams of Anguish”) ed incide il promettente EP ‘Ruins of Humans’. La qualità di questa piccola registrazione è elevata, il suono eccellente e tutto lascia presupporre un ritorno in grande stile. Ritorno che è appena avvenuto (22 gennaio) con l’uscita di ‘Sea of Ignorance’, un disco -come dicevo in apertura- non eccezionale ma che ha il merito di spostare una piccola fetta di interesse verso i Brutality. Dopo tutti questi sconvolgimenti, non si può che elogiare la tenacia di questa sfortunata formazione che merita sicuramente un approfondimento perché come qualità, a dispetto di una fama mai raggiunta, siamo su livelli assoluti.
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di Beppe ‘Dopecity’ Caldarone Cari lettori e care lettrici, bentornati nel buio. Oggi nessun preambolo per introdurvi ad una pratica “rara” nel mondo estremo: il concept album. Il concept album è una idea che ha origini antiche nel
mondo della musica ed ha trovato il suo massimo sviluppo negli anni 70 soprattutto per opera delle grandi prog-rock band del periodo. Non è però, come abbiamo detto nell’introduzione a questa nuova sezione, un patrimonio solo di una certa parte del variopinto mondo della musica rock. Il concept album è, infatti, nel dna di molti musicisti metal, anche di coloro i quali sarebbero “insospettabili” da questo punto di vista. Prendete il black metal norvegese dei primi anni 90: quella scena è diventata “famosa” per tutta una serie di vicende extramusicali, che non starò qui a ripetervi, che ne hanno decretato il successo anche al di fuori dei patrii confini. In pochi si sono però veramente soffermati sul valore estetico
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di quella nuova proposta musicale, in pochi ne hanno colto lo spirito ribelle ed elitario, la forte carica rivoluzionaria e l’innegabile valore artistico. Il black non è solo stupido satanismo o facce pittate, è anche espressione artistica, spesso raffinata ed ammaliante. U n a espressione artistica che ha fatto di un nuovo modo di suonare il suo vessillo ma che ha avuto anche modo di manifestarsi attraverso le parole dei cantori nordici. Nella ribollente scena norvegese dei primi anni 90 un gruppo si è sempre distinto per il suo essere estraneo ad un genere pur appartenendovi in maniera forte. Parliamo dei lupi, parliamo degli Ulver. Il gruppo di Oslo si è distinto immediatamente per il suo approccio sognante alla materia black e per il taglio folk della sua musica, sebbene la sua proposta fosse comunque violenta ed abrasiva. L’esordio dei nostri è l’ormai leggendario “Bergtatt - Et Eeventyr i 5 Capitler”, un concept album. E di questo vi narreremo la storia, la storia di una antica leggenda norvegese il cui ri-
cordo si perde nella notte dei tempi ed il cui fascino rimane sempre vivo ed attuale. Capitolo I - “I Troldskog faren vild” (Sperduta nella foresta dei troll) Loro erano li che aspettavano il ritorno di Pige la ragazzina. Non sapevano che si era persa nella foresta, in una foresta oscura ai piedi della montagna. Lei, la ragazzina, era sola e come unico amico aveva il sentiero che la poteva condurre verso casa, ma il sentiero stava scomparendo sotto un alto manto di neve che si diffondeva tutto intorno. Non potevano le stelle aiutarla a trovare la via: le stelle n o n c’erano ed invece gli alberi davano il benvenuto a quest o fragi l e ospite, abbracciandolo e cantando per lei. Un canto triste. Un canto che nel cuore della montagna invocava il sangue cristiano, il sangue della ragazzina. Lei sapeva che non sarebbe sfuggita e che nessu-
no si sarebbe ricordato il suo nome. Pige sapeva anche un’altra cosa: dai ramoscelli degli alberi gocciava per lei il suo dolore, come il sangue gocciava dalla fronte di Cristo. Capitolo II - “Soelen gaaer bag Aase need” (Il sole tramonta dietro le colline) La ragazzina continuva a vagare tra le ombre sempre più lunghe ed ascoltava una voce proveniente da lontano, forse dal dolore che albergava nel suo cuore. Lei era sola e vedeva il sole sprofondare dietro la roccia. Non poteva trattenere le lacrime che, calde, le rigavano il volto implorandole di tornare a casa. L a c r i me di sofferenza. La ragazzina era stanca, non poteva continuare a camminare. Esausta, si era addormentata su un soffice tappeto di muschio mentre il silenzio cadeva sugli alberi ed un denso velo cadeva, invece, sui suoi sogni. Addio.
Dream Theater The Astonishing
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(Roadrunner) Me lo dovevano da 17 anni, finalmente ce l’hanno fatta. Era dai tempi di ‘Metropolis pt.2’ che aspettavo un disco dei Dream Theater in grado di farmi emozionare, sobbalzare, applaudire: con questo ‘The Astonishing’ i miei ragazzi riescono nell’arduo compito di scrivere quanto più si avvicina a un capolavoro, ovvero un bellissimo album. Certo, ci sono alcuni filler e alcune parti potevano essere evitate o accorciate, ma senza queste saremmo stati di fronte a qualcosa di epocale, da voto fuori scala. Sinceramente non ci speravo, anche perché i mesi passati dall’uscita dell’ultimo album (inizialmente accattivante ma durato solo qualche giorno nello stereo) e dalla fine dell’ultimo tour sono stati ben pochi. Invece evidentemente la band oggi è coesa (più che in passato, mi tocca ammetterlo anche se il mio amore per Mike Portnoy non è certo sopito), affiatata, in grado di mettere a frutto il tempo trascorso insieme per lavorare al meglio sulle composizioni. Le ore spese per dare vita a questa doppia opera si sentono tutte, a partire dalla storia (lascio alla vostra curiosità viaggiare sul web alla ricerca della simpatica trama), passando per i testi e finendo, ovviamente, per la musica. La cosa più importante è che in questo disco Jordan Rudess abbandona finalmente un buon 90% di tutti quegli orpelli inutili che avevano contribuito a rovinare diverse cose decenti degli ultimi lavori, tornando a
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suonare principalmente il pianoforte. Un’anima candida ma forte che impatta su tutto l’album e che, anche quando si trasforma in suono elettronico, difficilmente arriva a stancare o ad invadere il terreno riservato agli altri strumenti. John Petrucci conferma quanto invecchiare gli faccia bene, riuscendo ancora una volta ad offrire una prova maiuscola soprattutto a livello di assoli, dove la melodia e l’efficacia dominano rispetto alla tecnica. Mike Mangini fa un gran lavoro (forse meno in fase di mixaggio), ma un po’ in ombra, come quei mediani d’interdizione che non fanno notizia ma ti fanno vincere le partite. Stessa cosa si può dire di John Myung, che non farebbe notizia nemmeno se avesse un proprio giornale, nonostante la classe indiscussa e indiscutibile. Il vero mattatore di questo disco, però, è James LaBrie, che fornisce una prestazione vocale emozionante, matura, varia, quasi arrogante in quanto a perfezione. La sua efficacia sulle ballad non è mai stata in dubbio e spesso qui trova l’apoteosi totale, ma la capacità di raccontare una storia cantata come questa con trent’anni di carriera sulla groppa merita solo una lunga standing ovation. Bene, immagino vogliate anche sapere della musica, delle canzoni. Sarò sincero: non sono andato nemmeno a leggermi i titoli e credo di essere intorno al quindicesimo ascolto. ‘The Astonishing’ è un’opera da gustare nella sua interezza, un concept vero e proprio, in cui gli episodi si succedono uno
dietro l’altro (volendo tornare al concetto di canzone, comunque, questa volta si osserva una certa predilezione per le durate brevi) in un alternarsi di emozioni vere. Ovviamente abbiamo tre o quattro temi portanti che si ripetono e vengono più o meno approfonditi, ma la varietà di melodie e soluzioni è a mio parere molto più marcata che, tanto per prendere un concept a caso, in ‘Metropolis pt.2’. Scordatevi il prog metal intricato, le sette corde arrabbiate a tutti i costi, prendete i Dream Theater più melodici ed ispirati, un’orchestra in carne ed ossa e fategli fare due ore e mezza di musica: ecco cosa avete tra le mani. Un’opera progressive rock vera, sincera e sorprendente. Un disco da approfondire con attenzione, in cui ascolto dopo ascolto si scoprono colori e sfumature sempre nuove. Avere nelle orecchie questo album per chissà quanto e andare a gustarselo dal vivo (il prossimo tour prevede infatti la proposizione dell’intero ‘The Astonishing’) è un obbligo morale non solo per tutti i fan della band, ma anche per i veri amanti della musica, che possono solo ringraziare questi cinque arzilli uomini maturi per essere riusciti, smentendo ogni pronostico, a stupire ancora. Alex Quero
Anthrax For All Kings (Nuclear Blast)
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melodici ma sempre in chiave squisitamente ottantiana e, manco a dirlo, un Belladonna che è l’unico, vero, indiscusso cantante dei newyorkesi, con buona pace di Bush e fatta salva la storica intepretazione di Turbin nell’indimenticabile “Fistful of Metal”. Sin dall’iniziale “You Gotta Believe” si intuisce che Scott Ian ha corretto il tiro, si è chiuso in casa un mese rimettendo i vecchi LP della sua band, dal debutto fino a “Persistence” finchè non gli è ritornato chiaro in testa il motivo per cui era reputato al tempo uno dei chitarristi più carismatici e taglienti di tutto il panorama metal: lungi da noi reputare “For All Kings” un disco all’altezza di quelli ma senza dubbio si pone nettamente più in alto di tutti gli altri, grazie ad un mix di cattiveria, brani assolutamente catchy ma non scontati, una produzione come oggi ce ne sono sempre di meno e degli assoli trascinanti ed old style di Jonathan Donais degli Shadows Fall a cui non davo una lira e che invece fa fare una figura davvero barbina al buon ex Caggiano. La title track insieme all’epica “Breathing Lightning”, la rocciosa “Suzerain”, la lunga e cadenzata “Blood Ea-
gle Wins” con un lavoro di Donais alla solista davvero da brividi sono in assoluto gli episodi migliori ma in tutto il disco non ci sono momenti di stanca, anzi ci sono altri motivi per gioire, come nel cattivissimo singolo presentato in anteprima “Evil Twin” in cui Scott Ian disegna un riffs di cui sinceramente non lo ritenevo più capace da decenni, con un chorus che ci rituffa nel mosh più selvaggio di fine anni ’80, quando lo stage diving tra le folle gremite era semplicemente una normalità. A suggellare il tutto un Benante imperiale dietro la batteria, ma questa non è una novità, un Frank Bello sempre più bello che per me sarà sempre a salutarci dalle maioliche del suo cesso come nei retro copertina dei Metal Shock di metà anni ’90, e Belladonna che fa letteralmente decollare ogni nota del disco ed è una gioia sentirlo cantare nuovamente brani degni di questo nome, della sua band e della sua ugola. Il miglior disco che gli Anthrax potessero scrivere nel 2016. Gianluca ‘Graz’ Grazioli
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ormai non giustificano più l’apertura di un portafoglio sempre più martoriato. Pippo ‘Sbranf’Marino
EREB Altor BLOT ILT TAUT (CYCLONE EMPIRE) 83 Delain Lunar Prelude (Napalm)
BATHORY WAS AND WILL ALWAYS BE ABOUT HEART AND SOUL !!!!Questo è quanto declamato da Mats durante l’intervista realizzata pochi giorni fa con gli Ereb Altor, incredibile band svedese che dal 2008 ha inanellato una serie di splendidi album, dall’epico e doomy debutto “By Honour” fino all’ultimo e più estremo “Nattramn”, ma sempre dediti anima e cuore a quanto lasciatoci da Quorthon dei Bathory, da sempre fonte di ispirazione e modello primo di questi suoi connazionali che con la musica di “Hammerheart” e “Blood Fire Death” ci sono cresciuti. E così, spinti dalla richiesta di tanti loro fan, hanno registrato un disco tributo, o meglio un LP dato che questo sarà l’unico formato fisico disponibile oltre al digital download, completamente incentrato sui primi dischi dei Bathory e su quelli che tutti definiscono i “viking albums”. Certamente, la base da cui partire e su cui lavorare era già eccellente di suo ma a maggior ragione, proprio per questo, l’eventualità di fare disastri era dietro l’angolo ed invece gli Ereb Altor si sono superati, sono riusciti ad entrare perfettamente nella musica di Quorthon e a dargli una nuova veste ed una nuova dimensione, pur rispettandone perfettamente le atmosfere e quella capacità di essere “fuori dal tempo”. Non arriverò mai a dire che preferisco una loro versione a quella originale, ma bisogna ammettere che “Woman of Dark Desire” e “The Return of Darkness and Evil”, i brani più estremi dei sette scelti, scatenano un fascino inaspettato ed ammaliante sin dal primo ascolto, grazie alla cura ed all’interpretazione, sempre tirata ma anche epica e marziale, che i nostri hanno saputo conferire a due brani così primordiali e grezzi nella loro incisione originale. La stessa “Song to Hall Up High” è stata pesantemente rivista e trasformata da “unplugged” ad elettrica ed il risultato è ancora una volta mozzafiato, così come i due capolavori “A Fine Day to Die” e “Home of Once Brave”, ancora una volta apice della fierezza nordica e vero inno delle terre ricoperte da neve e ghiaccio. Chiudono “Twilight of the Gods”, purtroppo tagliata a metà per problemi di durata, e la conclusiva “Blood Fire Death”, dalla quale questo disco prende direttamente il nome, trasformandolo in svedese antico. Hail Quorthon! Gianluca ‘Graz’ Grazioli
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I Delain salutano l’inizio del nuovo anno con un EP, il qui presente “Lunar Prelude” che, a detta della band stessa, è da considerarsi una sorta di antipasto al full length, che sarebbe già in lavorazione. Cosa troviamo dentro questo EP, dunque? Fondamentalmente due nuove tracks: una è la carica ed elettronica “Suckerpunch”, che mostra un bel tiro e una band in forma e molto “Within Temptation” (d’altronde, la mamma è sempre la mamma…); l’altra è il mid-tempo “Turn the Lights Out”, carino e in pieno stile Delain, ma nulla per cui strapparsi le vesti. A completare il lotto c’è una nuova versione di “Don’t Let Go” ed altre quattro tracce live tutte tratte dall’ultimo (e deludente, per chi scrive) “The Human Contradiction”. Chiude il lotto una orchestrazione di “Suckerpunch” da ben due minuti e mezzo… Chiaramente la ragion d’essere di un EP del genere è quella di tenere i fans attivi e coinvolti, nell’attesa tra la fine del tour e la pubblicazione del nuovo album; gli anglofoni lo chiamano, con una sola parola, ‘teaser’, atto appunto a ‘stuzzicare’ la curiosità e l’attenzione. Prodotto più per i collezionisti ed i fan accaniti della band, visto che due singoli, per me,
Eleventh Hour Memory of a Lifetime Journey (Bakerteam) 74 Siamo così abituati a considerare Alessandro Del Vecchio un produttore e compositore di primo piano da quasi dimenticare le sue cospicue doti di esecutore. Un aspetto che il chitarrista Aldo Turini ha invece ben presente, tanto da affidargli le parti vocali di questo sfarzoso progetto artistico denominato Eleventh Hour. ‘Memory of a lifetime journey’ è, infatti, un lavoro di power-prog sinfonico dalle peculiarità piuttosto “cinematografiche”, con influssi che vanno da Fates Warning a Stratovarius, passando per Rhapsody e Ayreon. Stabiliti i confini stilistici, proseguiamo dicendo che anche lontano dal prediletto melodic-rock Del Vecchio ostenta subito le sue copiose qualità espressive e che pure nel resto della band è arduo fin dal primo ascolto ravvisare pecche tecnico-interpretative, mentre musicalmente la questione è un po’ più complessa. Sarà doveroso approfondire bene i 53 minuti del programma per entrare “davvero” in sintonia con strutture sonore parecchio enfatiche e
mutevoli e tuttavia non per questo eccessivamente ridondanti. Il disco conquista soprattutto grazie ad un approccio melodico dal notevole impatto emotivo, in grado di conferire un grip particolare alle atmosfere maggiormente passionali (con ‘Back to you’ mio personale best in class) e Hollywoodiane, ma anche capace di fare la differenza quando i brani diventano più veloci e possenti. Un esordio interessante, quindi, per un gruppo che può evolversi ulteriormente fornendo alla “causa” un contributo importante. Marco Aimasso
Temisto Temisto (Pulverised)
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Si presentano con un moniker forse risibile, ma sulle loro intenzioni ci scherzerei poco. I Temisto sono gli ennesimi newcomers dalla sempre gravida Svezia, una terra che non accenna a soste nel partorire valide band e che stavolta propone questi belligeranti death metallers 2.0. Nel loro debutto autotitolato, il gruppo (formato da soli due elementi) pesca a piene mani dal putrido suolo nordico, un terreno fatto di vecchio e blasfemo death metal, di quello grezzo e maleodorante, che viene qui elevato ad un livello successivo e contaminato col black. Vengono infatti inseriti nella trama sonora arpeggi,
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variazioni, passaggi atmosferici non immediati o scontati, elementi precisi che convivono perfettamente con la parte più grezza e caotica del sound. C’è della tecnica in ballo ma mai presentata con spocchia o superiorità, tutti i passaggi sono funzionali alle canzoni che rimangono nerissime ed incazzatissime, ma soprattutto convincenti. Persino i rallentamenti e le sporadiche parti più doomeggianti sono ben integrate, e vanno ad ispessire il contenuto facendo da contraltare alla pioggia di blast beat o al tupa tupa velocissimo che regna in altri brani. I Temisto si muovono tra primissimi At The Gates e Morbus Chron, tra Edge of Sanity ed Execration ma con una ruvidità maggiore, a volte è percepibile anche un alone di Darkthrone. L’album suona realmente sporco, come se fosse stato tenuto nel fango a maturare. La voce marcia (tra Van Drunen e il primo Tardy), gli echi, i riverberi, le esplosioni di rabbia e le accelerazioni stanno tutte al posto giusto ed è un piacere godere di tanto male. Francesco ‘Frank’ Gozzi
KIllswitch Engage Incarnate (Roadrunner)
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Non ho mai nascosto che io e il metalcore non siamo troppo vicini, tuttavia è un genere musicale che affascina, soprattutto i millenni-
als. Siete difatti voi a comprare musica più di noi vecchioni, siete voi a riempire gli stadi, e vi dico una cosa nel caso dei Killswitch Engage non vi do torto. ‘Incarnate’ è il nome della nuova fatica di questa band che dal Massachusetts ha stabilito le regole del gioco di uno stile che continua a riscuotere successi immensi. A marzo quindi potrete godervi il settimo album full-length della band (il secondo da quando Jesse Leach ha ripreso il timone). Il precedente lavoro Disarm The Descent, ricevette un tonfo di elogi e stabilì un trionfale ritorno per Jesse. ‘Incarnate’ è un album sofferto liricamente ed è più cupo. Sebbene la penna si sia inceppata, il risultato è davvero solido. Sia dal punto di vista lirico che musicale. “Strength Of The Mind” e “Hate By Design”, i due singoli che hanno anticipato l’album, sono un bel trailer: la prima groovy , bel riff e testimonia che Jesse ha ampliato i suoi vocals, personalmente ho apprezzato, pur non amando il genere, un pezzo dove le sei corde non perdono un colpo macchiandosi di rock. ‘Hate by Design’ vi riporterà in qualche modo alle radici della band e presenta non solo un coro che non vi lascerà per giorni, l’assolo di chitarra finale è apprezzabile, tuttavia avrei sperato per un diverso lavoro di armonie vocali. Il metalcore punta alle emozioni rovesciate addosso e ‘It Falls On Me’ è uno spettacolo nel genere: via ogni intro che gira intorno al tema, la disperazione di Jesse ti si rovescia diretto ed è tagliente, la scrittura di
questo pezzo è brillante, la chitarra quasi sembra spingere e lentamente affondare pian piano e spingere (come dice il pezzo) Jesse sulle sue ginocchia. La schiettezza di questo album e la reale armonia tra parole e musica mi ha conquistata. Eccitante ed emozionante, non il capolavoro musicale dell`anno, ma per i fan del genere, un album che dichiara il 2016 come una grande annata per questa band. Paky Orrasi
Redwest Crimson REnegade (Bakerteam)
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I milanesi Redwest (all’anagrafe “il Lurido”, “il Randagio”, “la Straniera” e “il Losco”) sono molto più seri di quello che vogliono far credere. Attivi dal 2009, questi musicisti ambiscono a ricreare le atmosfere morriconiane dei film di Sergio Leone in salsa heavy dando origine a un genere che è stato ribattezzato “spaghetti western metal”. Gli ingredienti ci sono tutti: rullanti dall’incedere marziale, voci femminili acute e lontanissime, arpeggi di chitarra dai tremoli furiosi, cori epici, inquietanti rintocchi di campane, aperture sinfoniche, scacciapensieri e melodie fischiate da pelle d’oca. Il risultato, soprattutto per l’indiscutibile capacità della formazione di saper scrivere ottime canzoni, è superlativo: i
Chthe'ilist Le Dernier Crepuscule (PROFUND LORE)
85
Un attimo di attenzione gente, qui abbiamo uno degli highlights del 2016, un disco fatto con intelligenza e come il Male comanda. Aprite gli occhi sugli Chthe’ilist (da pronunciarsi “K-tee-list”) nuova realtà proveniente dal Quebec ma con influenze musicali profondamente radicate nel nord europa. Fondato nel 2010 da due musicisti preparatissimi sotto l’aspetto tecnico (vengono dai Beyond Creation), il gruppo canadese va a riesumare la lezione di precursori come Demilich, Xysma, Abhorrance, primi Amorphis, fondendola con lo stile di Nocturnus e Pestilence, il tutto riproposto attraverso la loro personalità ed un piglio oscuro e malevolo. Le composizioni, quasi tutte di durata superiore ai sette minuti, sono articolate ma non celebrali e sono in grado di mescolare il vecchio death metal con il doom, ospitando anche elementi sinfonici (leggeri synth) per esaltare le atmosfere, creando più di una semplice alternanza, direi un effetto in divenire davvero ammaliante che sfocia spesso in assoli parecchio curati che donano respiro, senza allontanarsi dallo spirito dei brani. Queste parti solistiche non hanno uno schema fisso, utilizzano molte tecniche differenti, ma attenzione, non è un album da seghe a due mani per i maniaci della tecnica, è un album asfissiante, nero, apocalittico, prima di tutto. Il riffing delle chitarre è molto curato ed evolve continuamente cambiando umore alla canzone tra una battuta e l’altra, tra dissonanze, arpeggi ed attacchi frontali, supportato da un apporto ritmico sempre vario e preciso apprezzabile sempre più nel dettaglio con il susseguirsi degli ascolti. La registrazione è davvero cupa fangosa ed aiuta costruire quel clima da incubo lovercraftiano che la band vuole creare e, anche se i testi urlati dalle catacombali voci di Philippe e Claude (dal growl al pulito, all’effetto “corale”) non riprendono in toto gli scritti di H.P. Lovercraft, senz’altro come mood ci muoviamo su quei passi e l’ effetto mistico e tetro è garantito. Se già non sbavate, non li meritate. Franscesco ‘Frank’ Gozzi
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Anvil This is Anvil (SPV/STEAMHAMMER) 63
Non c’è nulla da spiegare, nulla da cambiare, va bene così. Il sedicesimo disco di Lips e soci contiene undici brani che non dicono nulla di nuovo ma si ascoltano con piacere; qualcuno è divertente e più riuscito, qualcun altro più noiosetto ed evitabile ma, se state leggendo, sapete benissimo di che musica parliamo. Gli Anvil sono tornati rinvigoriti dopo il tragicomico film del 2008 che ha rilanciato la loro carriera, ‘Jaggernaut of Justice’ è stato infatti un disco molto ben riuscito, ‘Hope in Hell” un pochino meno convincente, mentre il nuovo disco ha uno schema preciso e ripetitivo, poggia parecchio sulla buonissima prova alla batteria di Reiner, adeguatamente accompagnato alle quattro corde del nuovo innesto Chris Robertson. Il buon Lips non sfodera riff di prestigio, i suoi assoli sono sempre basilari e poco tecnici, la sua voce è quella che è ma nel complesso, questi brani riescono a strappare un sorriso e far muovere la testa in più di un’occasione. Il disco si apre con una canzone che potremmo definire “da marinai metallici”, ‘Daggers and Rum’ è un un mid tempo cadenzato e metallizzato simpatico, pieno di “yoh oh oh” pirateschi registrati in studio con l’aiuto dei fan della band, giusto per non smentire lo spirito goliardico che da sempre accompagna la band canadese. Si passa poi a ‘Up, Down, Sideway’ con i suoi molti stop and go in cui basso e batteria si scambiano il testimone, si prosegue con la sabbathiana ‘Gun Control’, la grintosa ‘Die For a Lie’, per arrivare al centro del disco con un paio di brani potenti e quadrati. Dopo la noiosa ‘Zombie Apocalypse’, torna un po’ di verve con la movimentata (e ripetitiva) ‘It’s Your Move’ per proseguire con ‘Ambushed’, canzone simile a ‘Jailbreak’ degli AC/DC. C’è spazio per un po’ di thrash con ‘Fire On The Highway’ (e la sua batteria sugli scudi) e la scoppiettante e quadrata ‘Run Like Hell’. Chiude la monocorde ‘Fogive Don’t Forget’ con cori che rimandano al primo brano. Nessuna sorpresa quindi, lo schema è sempre quello; più che su riff ficcanti o energici, gli Anvil puntano su mid tempo, ritornelli ripetuti che si piantano subito in testa e sulla buona potenza del drumming che però, non può fare miracoli. “Anvil, e sai cosa bevi”. Francesco ‘Frank’ Gozzi
ritornelli si stampano in testa e non se ne vanno più (penso a “Crimson Renegade”, “C. F. H.” o “Fire”), i momenti “divertenti” sono pregevoli diversivi che smorzano ulteriormente i toni già leggeri (“Bullet Rain”) e le citazioni più “spudorate” sono comunque ben rielaborate (“A Fistful Of Dollars”). A voler essere pignoli segnalo alcune licenze tastieristiche quasi “fuori tema” (“Morning Ghost” sa più de “Il Fantasma dell’Opera” che de “Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo”, così come “The Dreamcatcher” vira troppo verso lo “spacey”) e una produzione, a cura di Larsen Premoli, che alle mie orecchie valorizza troppo le chitarre. Queste sono però considerazioni molto soggettive che non influenzano la valutazione finale: “Crimson Renegade” è un signor disco. Gabriele Marangoni
Black Sabbath The End (BS Production)
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Due anni fa successe un mezzo miracolo, i Black Sabbath e Ozzy Osbourne pubblicarono il primo album in studio di nuovo insieme, l’ottimo “13”, a ben 35 anni dalla loro separazione ufficiale. Da allora le chiacchiere si sono susseguite sulla possibilità di pubblicare un ultimo album in studio. Per quanto mi riguarda avevo trovato toccante, quasi commovente, il modo
in cui “13” si chiudeva, al termine di “Dear father”, e cioè con gli stessi tuoni e le stesse campane che aprirono “Black Sabbath” nel 1970. Roba da pelle d’oca… Quando poi mi è capitato di ascoltare la versione estesa dell’album, contenente delle bonus track, questa magia è scomparsa. Beh, la stessa identica impressione l’ho avuta ascoltando questo nuovo EP, intitolato semplicemente “The End”, che per il momento non sarà messo in vendita ma sarà disponibile soltanto durante gli show del tour di addio. Si tratta di outtakes delle session di registrazione di “13”, e se non sono state inserite nell’album vi assicuro che un motivo ci sarà. Chiariamo, non sono brutti brani, ma è evidente che non ci troviamo al top come è successo invece per le tracce di “13”. Dei quattro inediti salverei la sola “Take me home”, più ispirata e variegata, mentre stenderei un velo pietoso sulle quattro tracce live presenti. La qualità audio è paragonabile ai bootleg degli anni ‘80, con la differenza che lì si trattava di prodotti amatoriali ‘rubati’ durante gli show, qui invece il tutto è stato pubblicato su una release ufficiale. Fermarsi alle famose campane e ai famosi tuoni avrebbe reso il tutto più magico e mistico, consacrandoli definitivamente nell’Olimpo del metal. Roberto ‘Dulnir’ Alfieri
Lost Society Braindead (Nuclear Blast)
53 È evidente che ultimamente la Finlandia e il thrash metal non vanno molto d’accordo. Dopo la delusione dell’anno scorso firmata Speedtrap, speravo di potermi rifare con i Lost Society, ma purtroppo così non è stato. Giunti ormai al terzo album, tutti e tre licenziati dalla Nuclear Blast, i quattro ragazzotti di Jyväskylä non riescono proprio a decollare. Dopo un esordio molto acerbo a cui è seguito un secondo lavoro appena sufficiente, continuano a non emergere dal calderone thrash metal. La loro proposta non colpisce, si assesta per lo più su mid tempo banali e ripetitivi, e solo raramente riescono a proporre qualcosa di interessante, come nel caso delle veloci “Mad Torture”, “Rage me up” e “Hangover Activator”. Se ad una proposta non entusiasmante aggiungiamo poi la voce sfiatata e poco incisiva del singer Samy Elbanna, la frittata è definitivamente fatta. La cosa che lascia più interdetti è che queste incertezze e questa pochezza compositiva potremmo aspettarcele da un gruppo all’esordio, di certo non da una band giunta alla terza prova in studio, e appare ancora più strano come possa la Nuclear Blast non accorgersi del flop che ha sotto con-
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tratto ormai dal 2013. Come purtroppo spesso accade ultimamente il packaging è accattivante, la produzione è bombastica, ma alla fine viene a mancare proprio la materia prima, e cioè l’aspetto compositivo. “Braindead” è un album che vi scivolerà addosso senza lasciarvi neanche un graffio, e questo, se permettete, a un disco thrash non posso farlo passare liscio… Roberto ‘Dulnir’ Alfieri
From Ashes To New Day One (Eleven Seven) 79 Tempo di nuove scoperte per il metalcore. Sul mercato internazionale si affacciano con prepotenza i From Ashes To New, sestetto statunitense che propone un -core misto di metal, rap ed elettronica. I giovani della Pennsylvania segnano così, sotto l’egida dell’importante Eleven Seven, il loro esordio con un album dal titolo emblematico: ‘Day One’. Genere non adatto ai cosiddetti defenders, si rivolge prevalentemente a un pubblico di fascia d’età 18-30, portando una ventata di freschezza in ambiente rock e, come definiscono gli stessi artisti sulla loro pagina facebook, una creazione di un rap-rock inedito che può allo stesso tempo esaltare coloro che si entusiasmano delle contaminazioni e allontanare gli amanti della tradizione. Già con l’opener, ‘Land
Of Make Believe’, i From Ashes To New presentano energicamente la loro idea di musica, un misto di orecchiabilità e aggressività che mescola un cantato rap a una base modern metal. Composizioni che prendono al primo ascolto quelle dei sei agguerriti americani, che mano a mano introducono elettronica (‘Farther From Home’) e puntano di volta in volta a catturare l’ascoltatore con pezzi ben studiati e mai scontati (‘Shadows’). Alcuni dei pezzi presenti in ‘Day One’ erano contenuti nell’EP ‘Downfall’ che ha anticipato l’uscita del debut e che ha riscosso numerosi consensi e ha dato modo alla band di crearsi una buona fanbase. Siamo sicuri che questo possa essere il primo capitolo di una lunga serie! Stefano Giorgianni
Last In Line Heavy Crown (Frontiers) E’ noto che in tempi di crisi sia frequente rivolgersi a Dio … non si 75 tratta di un’improvvisa folgorazione mistica, ma di un innocuo calembour atto a rilevare quanto sia radicata la nostalgia per i “classici” in un rockrama a corto di nuovi stimoli espressivi. Il momento è particolarmente favorevole al mai troppo compianto Ronnie James, omaggiato quasi in contemporanea da Resurrection Kings e da questi Last In
Line, formazioni titolate (con Vinny Appice nel ruolo di nobile trait d’union) ad accollarsi con autorità l’onerosa incombenza. La presenza del chitarrista (un grande Viv Campbell) e della sezione ritmica (un sentito R.I.P. per il veterano Jimmy Bain, anch’egli da poco scomparso) artefice dei primi tre dischi del mitico R.J. rende questo ‘Heavy crown’ una plausibile “continuazione” di quel percorso, e pone un immediato focus sul valente vocalist Andrew Freeman, capace di non cadere nel tranello di scimmiottare un’icona assoluta della fonazione modulata. Nonostante gli opportuni distinguo possiamo dunque dire che l’albo offre una credibile versione “aggiornata” di quei suoni e riesce ad apparire rigoroso senza essere fastidiosamente emulatorio. In questo modo, se “Devil in me” evoca una sensazione di déjà entendu vivida eppure appagante, ‘Starmaker’, ‘Burn this house down’, ‘Curse the day’ e ‘The sickness’ potrebbero finire per attrarre anche le generazioni dei millennials. I Last In Line guardano alla loro gloriosa storia senza facili autocompiacimenti … e non è poco. Marco Aimasso
Steven Wilson 4(KSCOPE) 1/2 80
I panorami sonori dipinti da Steven Wilson sono tra i lavori che assicurano all’ascoltatore un’esperienza di altissima validità artistica. ‘4½ ‘, il nuovo lavoro non è un full album, ma un ponte tra il precedente e il prossimo lavoro…quello che Wilson considera un extra, o mini album altre band potrebbero considerarlo il miglior lavoro nelle loro discografie. Sebbene il suono Wilson sia presente e identificabile, di certo queste canzoni mostrano un lato fresco e originale dell’artista. ‘My Book of Regrets’ chiaramente non avrebbe avuto senso nel precedente album, in qualche maniera si sarebbe separata da quell’atmosfera, quasi interrompendo il viaggio. In quasi dieci minuti vi ritroverete in una vera escursione musicale, con curve, torsioni e spirali inaspettati, con un ritmo dinamicamente fresco e accattivante. L´apertura dinamica, porcupiniana e con una strizzata di jazz mi ha soddisfatta. Wilson ha commentato che ‘Year of the Plague’ è uno dei suoi pezzi preferiti in assoluto, personalmente trovo che questo geniaccio non ne sbagli una, ma devo sicuramente ammettere che questo brano strumentale mi ha conquistata. ‘Happiness III’, fu scritta nello stesso periodo di ‘Deadwing’, uno dei capolavori marchiati Porcupine Tree, e vede ora la sua realizzazione, in quanto Steven credesse fosse troppo pop… Accattivante con dei vocals vivaci, aperti e modermi che vi faranno vedere un lato nuovo della sua voce. Ringraziamo infinitamente per averla realizzata. Segue ‘Sunday Rain Sets In’, strumentale anche questo ma totalmente opposto al precedente. Tre minuti di malinconia per affondare nella sublime turbulenza prog subito dopo, quando non te lo aspetti…proprio quando il tuo cervello era stato ipnotizzato dalla melodia. Questo pezzo potrebbe essere la colonna sonora di un incubo dal quale non vuoi svegliarti e che cambia stanza, trama improvvisamente. ‘Vermillioncore’, chiaramente dal periodo di ‘The Raven’, è un pezzo energico, e martellante guidato dal basso dall’inizio alla fine, senza dimenticare però nessuno, synths compresi e colpi di scena. Conclude questo lavoro ‘Don’t Hate Me’, nove minuti di frenesia dove la seconda voce appartiene a Ninet Tayeb. ‘4 ½’ è molto di più di un EP, e naturalmente non ci sorprendiamo. Paky Orrasi
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Magnum Sacred Blood ‘Divine’ Lies (SPV/STEAMHAMMER)
81 Inglorious Inglorious (Frontiers)
Dopo appena due anni dall’ennesimo capolavoro, ‘Escape from the Shadow Garden’, i Magnum tornano con la loro inarrivabile classe con un full-length dal titolo evocativo: ‘Sacred Blood, “Divine” Lies’. Saggi, instancabili, impeccabili, gli inglesi hanno abituato i fans a uscite con scadenza regolare, all’incirca biennale, colpendo di volta in volta il centro, riuscendo a creare delle composizioni che coinvolgono l’ascoltatore corpo e anima, trascinandolo in mondi creati all’occorrenza e ricamati sapientemente da mani oramai esperte nell’utilizzo della materia musicale. Il copione che segue questa nuova fatica è pressoché il medesimo della precedente, ovvero una successione di pezzi di qualità sopraffina con alternanze di momenti quieti e trionfi di sonorità rockeggianti che non scontenteranno di certo gli amanti del genere. Il sodalizio fra il songwriting di Tony Clarkin, vera e propria mente del successo dei Magnum, e dell’inconfondibile ugola di Bob Catley è quel che si può definire il segreto della riuscita degli album della band britannica. Dal trascinante rock dell’opener e title-track, alla maestosa ‘Crazy Old Mothers’, dominata da una suadente melodia di piano e dall’espressiva interpretazione del vocalist, passando per ‘Gipsy Queen’ che strizza un po’ l’occhio alle sonorità ottantiane e la successiva ‘Princess In Rags (The Cult)’ che ben si allaccia all’antecedente full-length, o per l’immancabile ballata ‘Your Dreams Won’t Die’, arrivando sino alla cadenzata, rocciosa e oscura ‘Quiet Rhapsody’ e alla ritmata e orecchiabile ‘Twelve Men Wise And Just’ i Magnum non accennano a voler far calare la qualità dei pezzi, tenendo l’ascoltatore incollato alla loro opera. Con ‘Sacred Blood, “Divine” Lies’ si conferma dunque ancora una volta, se ce ne fosse il bisogno, la qualità delle release dei britannici e la loro voglia di stupire il pubblico a dispetto della navigata e stellare carriera. Stefano Giorgianni
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Gli inglesi Inglorious hanno davvero tutte le carte in regola per fare molto bene nella scena hard-rock contemporanea, approcciando con sagacia la “storia” del genere e rendendola una materia “fresca” per tutte le generazioni di musicofili. Il primo aspetto a colpire durante l’ascolto di ‘Inglorious’ è l’ugola di Nathan James (Trans-Siberian Orchestra, Uli Jon Roth), educata sui registri di Coverdale, ma anche intrisa di un’incontenibile vitalità, figlia di “moderni” campioni della fonazione modulata come Jorn, Russell Allen e Chris Cornell. Un cantante eccellente messo in condizione di spiegare le sue doti tecnico-interpretative in undici brani pervasi di viscerale attitudine e innato buongusto, in grado di mettere d’accordo i fans di Deep Purple e Whitesnake (‘Until I die’, ‘Breakaway’, l’ardente ‘Holy water’, ‘Warning’ e le appena un po’ troppo “sfacciate” ‘Girl got a gun’ e ‘You’re mine’) con gli estimatori di Audioslave e Alter Bridge (‘High flying gypsy’, una sorta di Zeps per il terzo millennio e l’intensissima ‘Bleed for you’), senza dimenticare d’inebriare anche gli animi sensibili (‘Wake’, tra Heartland e FM) e dimostrare che si può essere parecchio creativi
anche muovendosi nei frequentati territori del “classico” (la title-track e ‘Unaware’, due gemme di grande suggestione emotiva in cui fanno capolino anche i Rainbow …). Un altro eccellente acquisto per il roster della Frontiers, sempre di più un cocktail ben assortito di rinomati veterani ed emergenti di valore. Marco Aimasso
Mightiest SiniSterra (Season of Mist)
66 Ci hanno messo ben 21 anni i tedeschi Mightiest a rilasciare il loro primo album. Un tempo lunghissimo che può significare, sostanzialmente, due cose: o grande sfortuna, o scarsa qualità. Dove sta la verità? A mio modo di vedere in una indefinibile via di mezzo. “SinisTerra”, pubblicato dalla Cyclone Empire, etichetta che già otto fa aveva dato alle stampe una raccolta di materiale molto vecchio dei Nostri, è un album di black metal “abbastanza” particolare: da un lato si sentono echi di Lunar Aurora ed Emperor, dall’altra chiare influenze dell’epic metal di scuola Manilla Road per un risultato finale che, al netto di una indubbia originalità, è piuttosto altalenante. Il gruppo tedesco, infatti, ha delle buone intuizioni, soprattutto quando è il lato epico
(stile anni ‘80) della sua musica a prendere il sopravvento, ma la lunghezza eccessiva dei brani, una certa monotonia di fondo ed una prova vocale non all’altezza, in particolare sulle tonalità pulite e stentoree, rendono la fruizione di questo disco una impresa non propriamente appagante. Resta il fatto, lo sottolineo, che “SinisTerra”, ha una sua personalità ed una sua precisa identità, cosa questa non da poco, ma da un gruppo che ha avuto così tanto tempo per focalizzare le sue idee, mi sarei aspettato certamente di più del semplice accontentarmi di buone melodie come accade in “Soular Eclipse” (la migliore del lotto con quel suo gusto battagliero) o nella title track... mi sarei aspettato, invece, maggiore qualità, dal momento che di talento qui, a mio avviso, ne abbiamo. Forse sarà per la prossima volta? Staremo a vedere. Beppe Caldarone
Obsidian Kingdom A Year With No Summer (Season of Mist)
71 Sospettavo che quegli scavezzacollo degli Obsidian Kingdom si sarebbero spinti ancora “oltre”, in un percorso sonoro contaminato e sperimentale come pochi altri nel panorama metal… e per una volta ci ho visto giusto: ‘A Year With No Summer’,
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se possibile, propone una miscela ancor più sfuggente di quanto osassi immaginare. A fornire definitiva conferma che il cordone ombelicale con le frange più virulente della nostra musica prediletta non è stato completamente reciso intervengono poi le comparsate: azzeccatissima quella di Attila Csihar sull’inquietante sfogo dal titolo ‘The Kandinsky Group’; addirittura rivelatrice quella di Kristoffer “Garm” Rygg degli Ulver su “10th April”, traccia dal sapore ambient che mi ha riportato la memoria ai tempi di ‘Perdition City’. A prevalere, nei 48 minuti scarsi di durata del platter, è dunque un intimismo sofferto e quasi mai urlato -davvero convincenti, sotto questo profilo, le clean vocals del già citato Rider G Omega-; intimismo veicolato attraverso canzoni sfuggenti, sorta d’instabile coacervo di anime musicali che ancora non hanno trovato sintesi definitiva. Se a ciò si aggiunge un’intelaiatura melodica tutt’altro che semplicistica ed un’assimilabilità non proprio istantanea, ecco che l’avvertimento ai lettori diviene doveroso: gli Obsidian Kingdom non sono affatto un gruppo per tutti i palati, e il loro nuovo ‘A Year With No Summer’ necessita di tempo per farsi apprezzare. Ma il potenziale c’è. Eccome. Marco Caforio
Adept Sleepless (Napalm)
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Ho sempre paura quando devo mettere le mani su un disco hardcore o post-hardcore. La mia repulsione per lo scream ostentato è ben nota, così come quella per ritmi forsennati senza una direzione precisa. E quel “post”..spesso foriero di sventura. Gli Adept mi sono arrivati con un marchio “post-hardcore” scritto in fronte da parte della Napalm Records, quando in realtà di hardcore negli svedesi c’è poco. ‘Sleepless’, quarto sforzo sulla distanza, è un mix di metalcore con una spruzzata di djent, almeno musicalmente parlando, mentre a livello di voce andiamo dalla solita melodia dei ritornelli alla furia delle strofe, a metà tra il growl e lo scream, quello sì di matrice hardcore. Album senza dubbio maturo, che è valso agli svedesi un contratto importante, senza dubbio pregno di qualità interessanti e di buona musica, anche se il sentore di già sentito aleggia pericoloso sulla maggior parte delle composizioni della band. Nessun grosso pericolo però, perchè la qualità del disco supera di gran lunga la poca originalità, risultando nel complesso più che sufficiente. Unica cosa che davvero ho poco sopportato sono le eccessive parti “chiacchierate”, che tolgono un po’ di enfasi e di ritmo all’album, ritmo che col
passare del tempo va un po’ in calando riguardo l’approcio aggressivo, in favore di uno più melodico. Adept in rampa di lancio quindi, grazie all’appoggio importante della Napalm, anche se almeno finora non al livello dei top di gamma del settore -core. Andrea ‘Gandy’ Perlini
Gehennah Too Loud To Live, To Drunk To Die (Metal Blade) 69 L’eredità del compianto Lemmy non è morta e probabilmente non morirà mai e i Gehennahne sono consapevoli. Hanno sfornato un album di Black’n’Roll ( anche se la categorizzazione va un po’ stretta, qui troviamo infatti brani di punk e rock’n’ roll unito alla velocità dell’heavy metal ) con 13 proiettili impazziti nei quali le vocals sono un ringhio fra Lemmy (e Cronos dei Venom) che parlano di alcool e di disagio sociale. “Too Loud To Live, To Drunk To Die “ scorre via fra linee di basso roboanti, cascate di riff a creare un impenetrabile muro sonoro, batteria col pilota automatico impostato su “fast”, ritmi serratissimi,solos ficcanti e vocals al vetriolo. I brani sono tutti tirati, spesso iniziano col classico fruscio del jack che si inserisce nel Marshall e poi la batteria che parte a mille. Certo, l’attitudine è sporca e
Obscura Akroasis (RELAPSE) 86
Dopo cinque lunghi anni dall’ultimo disco ‘Omnivium’ esce per la Relapse Records questa nuova opera ‘Akròasis’ dei teutonici Obscura. Questo tempo è servito principalmente all’unico superstite del gruppo originario, Steffen Kummerer, per ricostruire la band dopo gli abbandoni di tutti gli altri membri. L’ultimo lavoro della band aveva destato non poco clamore, e dato l’alto valore dei musicisti defezionari, c’era molta attesa sia sulla possibilità di una rinascita del gruppo che sull’orientamento musicale verso il quale la nuova band si sarebbe diretta. Kummerer è stato all’altezza del gravoso compito che lo attendeva e non solo è riuscito a trovare nuovi ottimi musicisti, ma è riuscito nell’impresa di creare un disco musicalmente ancora migliore del precedente. Il disco propone brani più classicamente classificabili come death metal tecnico e altri molto progressive dove si spazia su più territori sempre comunque legati al death metal ma con molte contaminazioni jazz e fusion. Al primo gruppo appartengono quei pezzi pieni di cambi di tempo, ottime ritmiche, basso indiavolato e break melodici con stupendi assoli di chitarra e voce corrosiva al punto giusto. Questi brani seguono le tipiche costruzioni sonore dei Death ai quali gli Obscura si ispirano. Al secondo gruppo appartengono invece quei pezzi che conducono in territori molto più progressive dove i tecnicismi e i virtuosismi, sempre trascinati da una vena creativa musicale coerente, richiamano alla mente le composizioni musicali dei Cynic di ‘Focus’. La complessità, l’alternanza e la cura certosina dei particolari presenti nei brani del disco lasciano spesso l’ascoltatore piacevolmente colpito. Il basso fretless e le chitarre eseguono virtuosismi senza mai perdere in melodia e bellezza sonora, i tecnicismi sono sempre a disposizione del discorso musicale e mai asettici e fini a se stessi. Tutto è al servizio della varietà, della creatività e dell’armonia musicale e in tutto questo discorso, la voce si sposa a perfezione con la musica. Il disco è nello stesso tempo solido, corposo, melodico e non presenta mai cedimenti. Enrico Mazziotta
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Rotting Christ Rituals (SEASON OF MIST) 81
Quello che sarebbe potuto essere il nuovo lavoro dei Rotting Christ lo avevo immaginato ascoltando i brani rilasciati in anteprima. Adesso, dopo aver ascoltato ripetutamente ‘Rituals’, quarto lavoro ad uscire per la Season of Mist, ho avuto la conferma che il senso ultimo di questo album sta proprio nel suo titolo. I dieci brani che lo compongono, infatti, non sono semplici canzoni, o meglio, non vanno interpretate come tali quanto piuttosto come veri e propri rituali che gli ateniesi officiano in onore delle proprie divinità e nel rispetto della loro tradizione. In questa occasione Sakis Tolis, mente unica dei Rotting Christ, si è concentrato, essenzialmente, su un aspetto della sua musica: le voci, i cori, i baccanali, gli intrecci vocali sono gli assoluti protagonisti di ‘Rituals’. Certo, c’è il black metal, c’è il death, c’è il doom (molto in questo caso), ma sono la maestosità, l’epicità e l’oscurità dei vocalizzi a dominare la scena in lungo ed in largo. Sakis, addirittura, rinuncia spesso a cantare. Al posto della sua voce ascoltiamo i cori oppure le voci dei numerosi ospiti, sia maschili che femminili, presenti nell’album. Quello che viene fuori è una manciata di brani stentorei, certamente autoreferenziali dal momento che dischi come ‘Aealo’ o ‘Theogonia’ sono ampiamente saccheggiati, oscuri e impressionanti come le meravigliose ‘Les litanies de satan’, cantata da un inquietante Vorph dei Samael, ‘For a voice like thunder’ o ‘Konx om pax’, vero e proprio inno da battaglia, sono la a testimoniare con evidente forza evocativa insieme a tutte le altre invocazioni. Sottolineato che sarà impresa ardua per il gruppo riproporre dal vivo un album del genere, considerata la sua complessità à la Therion, va detto che ancora una volta siamo al cospetto di un lavoro di classe cristallina e, soprattutto, con pochi paragoni nell’ambito estremo perchè come i Rotting Christ, con la loro intensità, il loro mix di imponenza e brutalità, il loro farti essere spettatore affascinato di fronte alle Termopili, ci sono solo i Rotting Christ e nessun altro. Sakis Tolis ha di certo guardato al suo passato (recente), si è ripetuto, ma ci ha riconsegnato l’ennesimo gioiello di un gruppo che non accenna a voler scendere dal suo trono oscuro. Beppe ‘Dopecity’ Caldarone
cattiva (sul booklet di presentazione i Gehennah definiscono questo loro nuovo full length come il ritorno della “ band meno talentuosa “ ), la produzione “grezza” come si addice al genere e le canzoni, diciamolo pure, si somigliano un po’ tutte, ma d’altronde i padri putativi certo non brillavano per originalita’, ma se sopravviverete ai 34 minuti di lunghezza (non ci sono highlight ma neanche momenti di stanca, tutti i pezzi scorrono con la velocità della luce), sarete soddisfatti, con le orecchie sanguinanti ed il collo dolente.Se volete fare del sano headbanging, questo “Too Loud To Live, To DrunkTo Die” fa proprio al caso vostro. Per true fans. Marco Pezza
Omnium Gatherum Grey Heavens (Lifeforce) 83 I gruppi finnici sono noti per la loro capacità di comporre musica melodica anche in contesti di musica estrema, ma gli Omnium Gatherum vanno al di là di ogni possibile limite. Pur mantenendo un punto di contatto con il death metal, se non altro per la presenza di una voce growl, hanno un senso della composizione melodica che stupisce anche l’ascoltatore non avvezzo al genere estremo. Gli Omnium Gatherum si definiscono una band che suona “Adult Oriented Death Metal”.
Ascoltando questo nuovo album ‘Grey Heavens’ devo dire che questa definizione gli calza a pennello. Il disco in questione dimostra una band matura musicalmente ad un livello tale da poter suonare una qualsiasi partitura rock. L’album è di una bellezza quasi indescrivibile. Ritmiche, assoli e virtuosismi accattivanti si susseguono in ogni brano, ma quello che più impressiona è la qualità dei suoni di chitarre e tastiere: dolcissimi, incantevoli e curati nei minimi particolari, sempre inseriti nel giusto contesto a creare atmosfere che rapiscono l’ascoltatore. Qualcuno potrà obiettare che la voce in growl di Jukka Pelkonen non sia adatta al contesto musicale degli Omnium Gatherum, ma io forse lascerei le cose come stanno, in fondo il cantante è molto bravo ad interpretare il mood di ogni brano e la sua voce è il filo che mantiene la band legata al death metal melodico. Indubbiamente una voce clean aprirebbe le porte del successo planetario alla band, però la esporrebbe a tutte quelle problematiche che, noi ascoltatori di nicchia, conosciamo molto bene, ossia il dover suonare ciò che impone il music business ai fini di lucro a danno della creatività e della libertà compositiva. Teniamo poi conto che nel loro paese una voce in growl o in scream non spaventa nessuno ed è accettata senza alcun problema dall’ascoltatore medio né più e né meno delle urla di protesta di un rapper. Enrico Mazziotta
Hardholz Herzinfarkt (Massacre)
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Gli Hardholz si erano formati nel 1984 quando ancora la Turingia si trovava nella Repubblica Democratica Tedesca, ma per realizzare il loro album d’esordio hanno dovuto andare ben oltre la caduta del muro di Berlino, dato che ‘Jäger und Gejagte’ risale al 1995. E praticamente lì si è poi fermato il loro percorso musicale, almeno sino a un paio di anni fa, quando in occasione del trentennale della band, tre dei membri originali hanno pensato bene di arruolare un nuovo cantante e di rimettersi in pista. Il risultato è il loro secondo album, dove sono recuperati alcuni brani dal loro esordio, che esce ora per la Massacre Records. Tuttavia i risultati ottenuti da ‘Herzinfarkt’ non sono quelli sperati. Un Heavy Metal dalle ritmiche serrate e modi ruvidi, anche per il cantato (non esaltante peraltro) in tedesco da parte di Kelle, che non pare essere in grado di provocare un ‘attacco di cuore’ e in realtà neanche qualche sussulto, visto che tranne pochi casi le canzoni sfilano via senza mostrare particolari attrattive e dichiaratamente demodé. Un trend spezzato dalla largamente acustica ‘Praeludium Wielandia’ e in questo difficilmente collocabile nell’economia del disco, ma anche dallo stru-
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mentale ‘Bonusdreck’ e soprattutto dalla conclusiva ‘Spiel Mir Das Lied Vom Tod’, nient’altro che la reinterpretazione della colonna sonora composta da Ennio Morricone per il film ‘C’era Una Volta il West’. Per un primo approccio proverei con la titletrack, per i suoi cambi di ritmo e chitarre spassionatamente maideniane, al più con ‘Hartholz’ e il basso di Der Hölzer in bella evidenza. Una nuova chance, non sfruttata a dovere. Sergio Rapetti
Enter Shikari Live & Acoustic at Alexandra Palace (Ambush Reality)
la sala ed ammalia i presenti. La performance è impreziosita dall’uso di strumenti a fiato, che dona a ‘One Of The Colour’ uno spessore emotivo particolare. ‘Apart’ e ‘Myopia’ non sono da meno e dimostrano l’amore che gli Enter Shikari ci mettono in questa esperienza per loro diversa ed unica. Lo raccontano bene negli spezzoni di intervista che intervallano lo show nel film-documentario dove gli stessi, abituati a piccoli club, si dicono lusingati nel potere avere accesso finalmente ad una venue più grande e di tutto rispetto. Questo ‘Live & Acoustic at Alexandra Palace’ è roba per cultori, i quali non resteranno delusi e vedranno gli Enter Shikari sotto una luce diversa e più densa, arricchita anche da nuove informazioni e curiosità. Adele Scotti
65 Alcuni fortunati amanti del gruppo inglese e vincitori di uno speciale concorso hanno assistito ad una performance acustica dei loro beniamini all’Alexandra Palace di Londra lo scorso dicembre. Ne è uscito un breve film-documentario accompagnato da un ep contenente tre pezzi eseguiti con eccellenza dalla band sul palco. Il teatro vittoriano ben si è prestato ad accogliere il rock commisto di Rou Reynolds e soci, che da sempre hanno la capacità di mescolare in modo alchemico folk, elettronica, rock sperimentale. In veste acustica spicca il talento vocale di Reynolds che gioca sull’intreccio di voci creando un pathos palpabile, che riempie
Suede Night Thoughts (Warner)
70 Tre anni di incubazione significano darsi il tempo di accarezzare la penombra e lasciar sedimentare le emozioni. Brett Anderson non è mai stato un tipo solare (basta ascoltare i suoi lavori solisti per rendersene conto), tanto che nei tempi dell’esplosione commerciale del grunge lui abbracciava tonalità alla Smiths e David Bowie, creando una commistione tra glam rock, post new wave e brit pop.
Ascoltare nel 2016 un disco degli Suede, dunque, non possiede più l’urgenza presente più di quattro lustri fa, ma è sempre un piacere. Brett Anderson oggi pacificato con la sua presunta bisessualità, sposato e padre di due figli, dovrebbe sfornare brani pregni di un indie rock casalingo, e invece no. La sua anima umbratile ed errante continua a sposare pensieri notturni e partorisce un album come ‘Night Thoughts’. Prodotto dall’amico Ed Buller, il disco adempie alle aspettative senza pero’ spiccare per innovazione, il che probabilmente per i fan degli Suede è un bene. Se la musica si attiene al trademark di fabbrica, le liriche ben rappresentano la maturità raggiunta dai membri del gruppo e trattano argomenti importanti quali la vita, la morte, l’amore e la disperazione. Per cui certe ritmiche dark (vedi ‘Ousiders’ e ‘Tightrope’) e new wave (‘When You Are Young’) ben si adattano al mood dell’album, che a tratti sa anche illuminarsi in un tiro più pop (‘No Tomorrow’, ‘Like Kids’). In certi momenti si sentono echi alla Placebo e ciò risulta paradossale visto che il combo di Molko ha citato gli Suede raggiungendo però numeri più alti da successo commerciale. Sarà la malinconia dei pezzi di Anderson a renderne l’appeal mai così esplosivo, ma forse ci siamo scordati che l’Inghilterra, nei primi anni ottanta, era soprattutto questa roba qui. Adele Scotti
AMON AMARTH Jomsviking (SONY) 76
Il truce vichingo sulla copertina del nuovo disco degli Amon Amarth segnala l’uscita di questa nuova fatica della band svedese. Diventati nel corso degli anni l’emblema del viking metal, i prodi guerrieri scandinavi scelgono questa volta, la prima nella loro carriera, la via del concept album. Costruito intorno alla leggendaria figura dei Vichinghi di Jomsborg, cruenti mercenari al soldo del miglior offerente durante il X sec. (presenti in diversi manoscritti antico-germanici), il full-length segue la linea stilistica di ‘Deceiver Of The Gods’, con un approccio che abbandona oramai totalmente l’estremo delle prime release e che abbraccia in maniera quasi definitiva il classic, salvo il cantanto in growl dello jarl del gruppo, il riconoscibilissimo Johan Hegg. Con ‘Jomsviking’ gli Amon Amarth tornano però a quella brutta abitudine, fatta di uscite dalla qualità altalenante che li contraddistingueva a cavallo del millennio, riuscendo a creare un disco sì di buona fattura, ma inferiore al precedente. Il songwriting dell’album in oggetto non sembra raggiungere i livelli ispirati della scorsa release, zoppicando in alcuni punti e ricordando da lontano ‘Surtur Rising’, un full-length accettabile ma in gran parte incompiuto. Per aprire la nuova opera la band sceglie ‘First Kill’, canzone rilasciata in anticipo con un video a supporto che punta tutto sulla potenza e sul chorus orecchiabile e trascinante; niente di trascendentale, un pezzo che verrà senza dubbi proposto in sede live per arringare le folle. Con ‘Wanderer’ il swedish death prende il sopravvento, tanto da poter confondere gli Amon Amarth con qualsiasi altra band di matrice svedese, o comunque scandinava. Con le successive ‘On A Sea Of Blood’ e ‘One Against All’ gli Amon Amarth si dimostrano in grado di tener alta l’attenzione, pur non eccellendo per la varietà delle composizioni. La forza e l’irruenza ci sono, la prova di Hegg è superlativa, però manca quel pizzico di memorabilità che renderebbe ‘Jomsviking’ un classico della discografia dei vichinghi. Composizione anthemiche si susseguono e si avvicendano (‘The Way Of The Viking’), alternate a sprazzi di classic di maideniana memoria (‘At Dawns First Light’) per un ascolto che risulta piacevole. Un album ben fatto, ma non il migliore degli Amon Amarth. Stefano Giorgianni
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AMMISSIONI DICHIARAZIONI RIVELAZIONI MEMORIE
MICHAEL MCKEEGAN (Therapy?) di Fabio Magliano
Quando hai capito che la musica sarebbe stata la tua vita? “Sono sempre stato affascinato dalla musica, anche grazie all’influenza dei miei fratelli che suonavano, e già a 11 anni coltivavo il sogno di diventare un giorno un musicista. Ho iniziato a suonare la chitarra a scuola in alcune band, poi quando ho saputo che Andy Cairns era alla ricerca di un bassista per il suo gruppo, mi sono proposto e subito c’è stato un grande feeling. Da qui è partito tutto” Sei cresciuto nell’Irlanda del Nord all’epoca del conflitto nordirlandese. Pensi che questa realtà abbia in qualche modo influenzato il tuo modo di vivere la musica? “Sicuramente cresci con una “fame” maggiore. Io sono abbastanza vecchio per aver vissuto, seppur marginalmente, gli anni nei quali il conflitto era più aspro. In quel periodo la paura era tanta, c’era il coprifuoco la sera, i gruppi evitavano di venire a suonare in Irlanda, le istituzioni si concentravano maggiormente sulla sicurezza lasciando da parte la promozione della musica e dell’arte in generale... Gli stimoli erano limitati, ma quello che filtrava ci giungeva amplificato, quindi se eri particolarmente recettivo potevi davvero immagazzinare tutto e tirare fuori da questi stimoli, da questi insegnamenti, qualcosa di personale” Il vostro ultimo disco, “Disquiet” è nuovamente andato in classifica nel Regno Unito e ha riscosso un buon successo un po’ ovunque. Allora non è vero che il rock è morto! “Guarda, da quando ho l’età della ragione sento dire che il rock è morto, eppure siamo tutti ancora qui. L’idea è che non ci sia un vero ricambio generazionale perchè tra le centinaia di band che il mercato ogni anno spaccia per new sensation, forse giusto un paio hanno qualcosa da dire realmente. Ma il pubblico, molto probabilmente, in questo bombardamento di nuove uscite è disorientato, persino infastidito, perde la voglia di esplorare, quindi finisce per rifugiarsi nell’”usato sicuro”, Black Sabbath, Ac/Dc, Led Zeppelin... e così facendo il rock non morirà mai” Pensi che una delle ragioni della longevità dei Therapy? Possa essere ricercata nella vostra capacità di mutare il vostro sound e non adagiarvi mai sulle mode del momento? “Non siamo mai stati legati ai clichè del rock, ho sempre pensato che fosse molto più importante seguire una propria strada piuttosto che cercare di scimmiottare questa o quella band. Il rock è sempre stato sinonimo di libertà, e se si viene imbrigliati in determinati schemi perchè quello è ciò che il fan del rock vuole, allora si va a tradire direttamente lo spirito di questo stile. La gente questo lo ha capito, ha apprezzato negli anni il nostro non volerci stereotipare ma voler mantenere una precisa identità. Nel corso della nostra carriera abbiamo inciso dischi
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molto vicini a certe matrici rock, ma abbiamo anche preso i nostri rischi e fatto scelte per molti azzardate. L’importante è sempre essere onesti con se stessi” Ci siamo incontrati la prima volta al Sonisphere di Knebworth dove vi siete confrontati con la realtà del grande festival. Ti trovi maggiormente a tuo agio in una realtà simile o in quella del club più piccolo e intimo? “Adoro la dimensione dei grandi festival perchè non solo ti offre la possibilità di metterti in mostra in un solo giorno davanti a un numero inimmaginabile di fan che, probabilmente, non arriverebbero a te in tutto un tour nei piccoli club, ma da fan spesso ti consente di assistere a delle esibizioni di gruppi che potrebbero rappresentare un unico su scala mondiale. Però non nego che mi piace anche intrufolarmi a festival più piccoli e contenuti, magari di settore, per scoprire nuovi gruppi, per studiare dove sta andando la musica... sono una persona molto curiosa, quindi spesso seguo il mio istinto e mi butto alla ricerca di qualcosa di nuovo che possa farmi vibrare” Le riviste musicali sono in crisi. Sono stati proprio i siti web a decretare la loro fine? “Io penso che sia sempre una questione di qualità. Se una rivista è fatta bene, io la compro le la leggo. L’ho sempre fatto e continuo a farlo. Sicuramente il modo di fare informazione è cambiato radicalmente nel corso degli anni, oggi la rete ti offre un accesso immediato alle notizie che prima era impensabile e che può essere una risorsa importante, però non vedo la rete come seria antagonista delle riviste, bensì uno strumento utile per completarle. Io personalmente passo buona parte della mia giornata a cercare notizie online o a guardarmi video al computer, però allo stesso tempo ho anche un paio di abbonamenti a delle riviste. Diciamo che là fuori i mezzi per ottenere notizie e informazioni sono sconfinati, sta alla tua intelligenza capire quali scegliere e come utilizzarli” E tra vinile e musica digitale per chi parteggi? “Io ho sempre apprezzato il vinile, lo considero un’opera d’arte, perchè per anni ha rappresentato l’essenza della musica e attorno ad esso ruotava un mondo intero. Però non sono un purista e tanto meno un bacchettone. La musica digitale c’è e funziona, e se può essere un mezzo per divulgare la tua arte attraverso le nuove generazioni, ben venga. Anche perchè io a casa di spazio per dischi e CD non ne ho più, quindi benedico gli MP3 e lo spazio che mi fanno risparmiare!”