Metal Hammer Italia - 03/2016

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SABATON NOVEMBRE MYRATH KVELERTAK Carri ARMATI TENEBROSO I RE DEL VENTI NORRENI DALLA SVEZIA

comeback

metal arabo

DELLA NOTTE

03/2016

+

DEFTONES

NOVITÀ

RITORNO BRUTALE

MurderArt

s l l a W OFcho i r e J CORE WILL NEVER DIE SPECIALE: 30 ANNI DI MASTER OF PUPPETS speciale prog ESCLUSIVA Jens bogren

ihsahn +

+ nosound + arti&mestieri



Hammer Highlights

WALLS OF JERICHO 24

DEVASTANTE HARDCORE Una pausa lunga otto anni per gli harcorer statunitensi, che tornano più carichi che mai con il nuovo full-lenght “No One Can Save You From Yourself”, un disco colmo di energia e di testi altamente significativi. Con loro si apre questo speciale dedicato al -core in diverse forme.

36

28

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DEFTONES

METALLICA

IHSAHN

All’annuncio di “Gore” la scena metallica si è preparata all’ennesimo capolavoro dei Deftones. Paky Orrasi intervista Abe Cunningham, batterista della band californiana, svelando i molti retroscena che hanno portato al concepimento di quest’ultima fatica discografica che oscilla fra grazia e violenza. C’è anche spazio per ricordare il compagno Chi Cheng, scomparso tre anni fa.

Trent’anni e non sentirli. Questo è quello che si pensa quando si fa partire il disco di “Master Of Puppets”, eppure ben tre decenni sono passati da quel 1986 che cambiò per sempre la storia del Thrash e del Metal tutto. Ve ne parla Marco “Marek” Palmacci con un articolo approfondito sull’album attraverso le parole di alcuni dei più famosi personaggi della scena metal internazionale.

Quando ognuno di noi pensa a Ihsahn l’immagine che appare nella mente riconduce immediatamente agli Emperor, ma il musicista che incontriamo oggi è un uomo diverso, un compositore raffinato che ha trovato la quadratura della sua musica. Il singolare “Arktis”, che richiama alla memoria il grande esploratore norvegese Fridtjof Nansen, si propone come uno dei dischi prog dell’anno.

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Hammer Highlights

32 Hacktivist

g

tron

S Stay

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Logical Terror

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Jens Bogren

NON CEDERE DI UN PASSO

È luogo comune affermare che il “3” sia il numero della verità. Il terzo album per una band è da sempre quello della conferma, della definitiva consacrazione; per noi di Metal Hammer il terzo numero vuole invece essere un semplice passo verso una crescita costante, suffragata da numeri che da un lato ci riempiono d’orgoglio e che dall’altro ci spingono a fare sempre di più. Un percorso di crescita che passa attraverso cambiamenti anche drastici ma necessari se si vuole onorare al meglio un nome glorioso come quello della nostra rivista. Ecco quindi che oggi salutiamo e ringraziamo sentitamente lo staff di Metal.it, nostro partner in questi anni, e diamo il benvenuto a Yader Lamberti e ai ragazzi di Rock & Metal In My Blood, che da subito hanno sposato con entusiasmo il nostro progetto e sin da questo numero ci hanno affiancato e supportato al 100%. Una collaborazione, quella con questo portale “enciclopedico”, che confidiamo possa consolidarsi nel tempo, portandoci a divenire insieme ad

esso un’unica identità, nella quale web e rivista vengono a fondersi in un tutt’uno, un’unica realtà nata con lo scopo di lavorare duramente con umiltà e viaggiare nella medesima direzione per consentire a Metal Hammer di ritornare a rivestire il ruolo che merita nel panorama metal tricolore. La strada è quella giusta, nuovi, motivatissimi collaboratori sin dal numero che vi apprestate a leggere hanno messo la loro passione al nostro servizio dato il loro prezioso contributo, promoter e addetti ai lavori ci stanno dando fiducia e ci stanno supportando dandoci la forza in questa nuova ripartenza, e tutto questo non fa che farci guardare con positività al futuro. Un futuro che avrà in serbo non poche sorprese. Presto il sito metalhammer.it

sarà nuovamente online consentendoci di fornire alla rivista il supporto web che merita, anche se si tratterà unicamente di una via di passaggio, verso un vero e proprio portale attualmente in fase di realizzazione, che finalmente darà dignità anche in rete al marchio Metal Hammer. Le sorprese, però, non finiscono qui, anche se nulla al momento vogliamo svelare… nulla di meglio, quindi, che rimanere collegati a noi con le antenne ben diritte, certi che ciò che è in divenire non vi lascerà indifferenti. Buon lavoro, quindi, a Stefano Giorgianni che anche in questo numero si è fatto in quattro (e forse anche qualcosa di più) per far sì che la rivista potesse vedere la luce e, soprattutto, potesse crescere esponenzialmente uscita dopo uscita, buon lavoro a tutto lo staff di Metal Hammer che con grande passione ha ancora una volta reso possibile tutto questo, e un grazie rinnovato a Yader e ai ragazzi di Rock & Metal In My Blood per aver accolto il nostro invito e aver sposato con dirompente entusiasmo un’avventura che, siamo tutti convinti, potrà portarci lontano e riservarci enormi soddisfazioni. Fabio Magliano

TUTTI I GIORNI NUOVI CONTENUTI vai al sito www.rockandmetalinmyblood.com 4 METALHAMMER.IT

RECENSIONI LIVE REPORT articoli Discografie Complete


TALES FROM BEYOND Sabaton 8

Hammer Core

Metal Rubriche

No Sound

Gli agguerriti svedesi pubblicano un nuovo live album “Heroes On Tour”

Odyssea 10

TELEGRAPH

DIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it

6

CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it

“Storm” è il ritorno degli Odyssea di Pier Gonnella dopo 12 anni di silenzio

Murder Art

A Perfect Day 11

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I devastanti carri armati svedesi tornano a farsi sentire con

Circle Of Burden

Arti e Mestieri

Continua l’articolo firmato dal mitico Tony Dolan con i suoi suggerimenti

NEWS EDITOR Stefano Giorgianni

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Novembre

Stay Brutal

14 Ci hanno fatto aspettare

ma non invano, ecco a voi “Ursa” dei Novembre

Myrath 16

56

“Legacy” è il nuovo capolavoro dei maestri dell’Oriental Metal

Hells Guardian 18

Trasferta nell’est europeo per i bresciani che ce la raccontano con la loro voce

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Eldritch

verbo in giro per il mondo, ecco “Nattersferd”

The Library

Sevi 22

I bulgari sono pronti a conquistare l’Europa con la nuova fatica discografica

60 52

Rock Tattoo

62

Live Report Blue Pills

Recensioni

Dream Theater

74 68

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Avantasia

Undressed

Bring Me The Horizon 82

70

72

GRAFICA Andrea Carlotti

HANNO COLLABORATO Angela Volpe, Barbara Volpi, Tony Dolan, Andrea Lami, Freddie Formis, Marco Lazzarini, Vincenzo Nicolello,Roberto Gallico

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20 Dopo anni a portare il

FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Emanuela Giurano

PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò

Metal Cinema

Kvelertak

Paky Orrasi paky@metalhammer.it Alessandra Mazzarella alessandra.mazzarella@metalhammer.it

Tony Dolan 13

REDAZIONE Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it

Finalmente un nuovo disco per gli A Perfect Day dopo l’abbandono di Tiranti

Raubtier 12

DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco

PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it COPERTINA Walls Of Jericho Photo courtesy of Napalm Records


TE

CI S U E V NUO

Walls of Jericho No One Can Save You From Yourslef

Napalm 25 Marzo

Deftones Gore Roadrunner 8 Aprile

A T E M . WWW

AXL DC La notizia è una di quelle che fa discutere. A seguito dei problemi all’udito del cantante Brian Johnson, costretto a rimanere lontano dai palchi per non aggravare una situazione che potrebbe portarlo alla sordità totale, la band australiana ha dichiarato che a sostiturire lo storico vocalist per i rimanenti concerti del tour sarà Axl Rose, che ha da poco ripreso l’attività con la line-up classica dei Guns N’ Roses. Tra i favorevoli, curiosi di vedere il singer statunitense alle prese coi pezzi degli AC/DC, e i contrari, convinti che ci potessero essere alternative assai migliori, la rete si sta dimostrando una fucina di opinioni contrastanti, un punto d’incontro che equivale a una bomba a orologeria. Nel frattempo Brian Johnson ha rilasciato un comunicato nel quale ha approfondito la sua situazione di salute, ringraziando i fans per il supporto che gli danno tutti i giorni, ma soprattutto precisando che non si sta ritirando e che non ha intenzione di farlo, oltre a essere ottimista per il futuro. Staremo a vedere!

Ihsahn Arktis Candlelight 8 Aprile

Rob ZOmbie The Electric WarlockAcid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser Universal 29 Aprile

Flash

Sixx AM Prayers For The Damned Eleven Seven 29 Aprile

Avatar Feathers&Flesh Another Century 13 Maggio

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T I . R E M LHAM

News

È stata annunciato il bill completo del Gods Of Metal, che si terrà il 2-3 Giugno all’Autodromo di Monza. Ecco i nomi dei gruppi: RAMMSTEIN The Shrine Korn Jeff Angell’s Megadeth Staticland Sixx AM Planet Hard Gamma Ray Overtures Halestorm

- Gli AVANTASIA hanno annunciato che il prossimo 24 aprile filmeranno a San Paolo (Brasile) un DVD/Bluray. Alcune delle riprese prima dello show verranno impiegato per la realizzazione del video del brano “Draconian Live”. - I KATATONIA faranno tappa a Milano il 10 ottobre prossimo per il tour di “The Falls Of Hearts”, disco in uscita il 20 maggio per Peaceville Records. È ancora da annunciare invece il gruppo di supporto. - Da tempo circolava la notizia dell’uscita di una edizione deluxe dell’album di debutto dei Death “Scream Bloody Gore”. La release è fissata al prossimo 20 maggio per Relapse. Molti i contenuti speciali presenti.


LEAVES' E

YES, CAMB

IO AL MIcr

ofono

È di qualche giorno fa una notizia che ha scosso i fans dei Leaves’ Eyes, il noto gruppo norvegese-germanico si è infatti separato dalla cantante Liv Kristine, a cui subentra la finlandese (ma residente a Londra) Elina Siirala. La decisione avviene dopo ben tredici anni di militanza della cantante, che ha dichiarato sul suo profilo facebook: “Non era mia intenzione che questo capitolo della mia vita si chiudesse così in fretta. La vita deve andare avanti. Per tutti noi”. Nel frattempo su internet è apparso il primo video con la nuova vocalist.

La morte del Principe Il mondo della musica è sconvolto dalla scomparsa dell’artista americano Prince. La notizia è giunta nel pomeriggio del 21 aprile. La pluripremiata popstar, una delle più note degli anni ‘80, è deceduta all’età di 57 anni.

Sixx AM, Annunciano la campagna #risentorise A pochissimo tempo dall’uscita del nuovo album “Vol.1 Prayers For The Damned”, i Sixx AM lanciano una campagna a sfondo sociale accompagnata dall’hashtag #risentorise. Una sorta di risveglio delle coscienze dei propri fans.

METALLICA, Live al Rasputin Music Store per il Record store day 2016 I Metallica hanno suonato allo storico negozio di dischi Rasputin per il Record Store Day 2016 dello scorso 16 aprile, evento per il quale erano stati nominati ambasciatori. Ecco a voi la scaletta del concerto: 01. Helpless (DIAMOND HEAD cover) 02. Hit The Lights 03. The Four Horsemen 04. Ride The Lightning

serj Tankian, video di "ari im shokag" dalla colonna sonora del film "1915" Solo un anno fa i System Of A Down giravano il mondo con il tour Wake Up The Souls per scuotere i governanti a riconoscere il Genocidio Armeno avvenuto all’inizio del secolo scorso. Ora Serj Tankian pubblica il video di “Ari Im Sokhag” (Vieni Usignolo Mio, canto popolare armeno), pezzo estratto dalla colonna sonora del film “1915”.

Flash

News

- I DIAMOND HEAD hanno reso disponibile in streaming il nuovo album eponimo, uscito il 22 aprile per Dissonance Production. Per ascoltarlo andate a questo indirizzo. - I RAGE si sono aggiunti al bill del Metal For Emergency festival, che si terrà il 15-16 luglio a Cenate Sotto (BG). La due giorni aveva già annunciato la presenza di gruppi come Angel Witch, Vision Divine, Rain e Teodasia. - Il cantante dei Lamb Of God, Randy Blythe, sta scrivendo un film-documentario intitolato “You, Me And A ‘63” assieme al regista e produttore Robb Fenn e al noto attore Billy Bob Thornton. La pellicola è incentrata su un viaggio on the road negli USA compiuto da Fenn su una Ford Thunderbird del 1963. - Brutto episodio di cui sono stati protagonisti i BELPHEGO. In Russia sono stati attaccati dal’attivista Vitalij Milonov, il quale ha sputato addosso al leader della band all’aeroporto di San Pietroburgo. L’episodio segue quello dell’espulsione dei Behemoth del 2014.

05. Fade To Black 06. Jump In The Fire 07. For Whom The Bell Tolls 08. Creeping Death 09. Metal Militia

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NUOVO LIVE ALBUM PER GLI AGGUERRITI SVEDESI PER CELEBRARE IL SUCCESSO DELL’ULTIMO “HEROES”!

EROI IN TOUR di Stefano Giorgianni Negli ultimi anni hanno messo a ferro e fuoco l’Europa con i loro pezzi carichi di energia e sono diventati uno dei gruppi di punta della Nuclear Blast. Stiamo ovviamente parlando dei Sabaton e del loro metallo da battaglia che da ben quindici anni assedia i maggiori festival europei, e che ha fatto passare i ragazzi di Falun da semplici comparse a headliner di tutto rispetto. Proprio quest’aumento di popolarità si può riscontrare nei live album che gli svedesi hanno rilasciato a scadenza quasi fissa dal 2011. In principio è stato il caratteristico ‘World War Live: Battle of the Baltic Sea’, poi la grande svolta con ‘Swedish Empire Live’ nel 2013, registrato per il tour di ‘Carolus Rex’ al Woodstock Festival in Polonia davanti a una folla impressionante che contava più di 600’000 spettatori. In questo 2016 esce ‘Heroes On Tour’ un doppio disco che celebra il successo dell’ultima fatica da studio e che immortala i Sabaton in due diverse esibizioni: una al celeberrimo Wacken Open Air e l’altra al loro festival, il Sabaton

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Open Air. Ne abbiamo parlato con il bassista Pär Sundström, assieme al vocalist Joakim Brodén l’unico rimasto della formazione originale. “Sono felicissimo di essere di nuovo qui con voi” esordisce “sto benissimo e abbiamo appena terminato il nostro bellissimo tour in Europa, ultimo spezzone del giro di concerti per ‘Heroes’. Ora inizieremo a

“e diverse cose sono successe fra le due release. Abbiamo accolto un nuovo batterista, scritto canzoni e creato un diverso stageset. Volevamo anche una diversità di show per i Sabaton e per questo abbiamo scelto due differenti concerti, perché noi non siamo gli stessi tutte le serate.”. Oltre ai palchi e al pubblico, anche le setlist sono dissimili e questo

lavorare a del nuovo materiale giorno e notte, e sicuramente a pianificare altre date.”. Ci concentriamo subito sul live album da poco uscito e chiediamo subito il motivo di una release dal vivo così ravvicinata al già mastodontico ‘Swedish Empire Live’: “Molta gente ce ne ha chiesto un altro” precisa Pär

perché “gli show dovevano essere differenti, e credo che abbiamo funzionato alla perfezione. Abbiamo anche notato in alcuni paesi dove i Sabaton non erano conosciuti chiedevano canzoni diverse dal solito, questo li aiutava a scoprire anche un lato diverso del nostro repertorio. Poi i live album

devono essere sempre nuovi, non proporre tutte le volte la stessa minestra”. Due serate, due grandi show e probabilmente emozioni diverse anche per i musicisti, che: “io per primo devo precisare di non amare le registrazioni dal vivo, poiché ogni minima cosa viene immortalata ufficialmente. A Wacken eravamo già stanchi per tutte le interviste fatte che siamo saliti sul palco esausti. Meno male che c’è stata la folla a tirarci su il morale.”. Nei dvd si può gustare anche un piccolo show con la Symphony Orchestra Prague, di cui Pär ci racconta: “È stato eccezionale. Abbiamo sempre voluto fare una cosa del genere e grazie al promoter di Rock in Vienna ci siamo riusciti! È stato fantastico suonare con loro e sono contento che lo show sia uscito così bene. Voglio senza dubbio ripetere l’esperienza in futuro!”. Passiamo poi allo stageset nominato in precedenza; i Sabaton hanno due carri armati con due nomi particolari, Audi e Walther, questo perché: “Avevano bisogno di un nome e li abbiamo scelti da alcuni


personaggi di ‘Heroes’. La canzone ‘To Hell And Back’ ha per protagonista Audie Murphy e questo è diventato il nome del primo carro. Quando ci siamo resi conto che uno solo non poteva passare da una parte all’altra del palco, ne abbiamo preso un altro. È leggermente diverso come forma e lo abbiamo chiamato Walther da Walther Wenck, eroe di ‘Hearts Of Iron’.”. La scelta di rilasciare ‘Heroes On Tour’ è probabilmente scaturita dal successo del disco da studio che: “è stato un trionfo internazionale e la band continua a crescere in popolarità. Siamo in giro da molto tempo ormai e abbiamo sempre fatto le cose alla nostra maniera, fino ad ora è andato tutto per il meglio e speriamo di ripetere il successo di ‘Heroes’. Sicuramente abbiamo molta pressione addosso.”. Sono passati due anni dall’uscita dell’album e, visto il buon risultato, chiediamo se cambierebbe qualcosa per migliorarlo ancor di più: “Non proprio. Ci sono però alcuni dettagli di ‘Inmate 4859’ che non sono usciti come volevamo. Avevamo in mente la voce di un bambino nel coro, ma abbiamo dovuto tagliarla. Delle altre posso dirmi orgoglioso.”. L’ultima che abbiamo intervistato Pär era il 2014, alla vigilia della pubblicazione di ‘Heroes’, momento in

I carri armati dovevano avere dei nomi e li abbiamo presi dai protagonisti di “Heroes”

cui la band stava cercando di raccogliere un buon seguito negli Stati Uniti. A distanza di due anni “la situazione è sicuramente cambiata” sottolinea “l’ultimo album ha fatto aumentare le vendite del 400% rispetto a primo e i 100 e più show che abbiamo suonato credo abbiano svolto un ruolo fondamentale. Ci stiamo facendo conoscere anche

negli USA e non abbiamo intenzione di arrenderci.”. In questo momento i Sabaton stanno preparando la nuova edizione del loro Open Air, che si terrà a Falun il prossimo agosto: “I preparativi stanno procedendo senza intoppi. Abbiamo già ingaggiato tutti i gruppi

Guarda il video live di "Resist And Bite"

e gli ultimi verranno annunciati a breve. Abbiamo iniziato anni fa con uno show di un giorno soltanto al chiuso e ora abbiamo un festival di tre all’aperto. Siamo molto soddisfatti.”. Terminiamo la chiacchierata con il bassista chiedendo qualche anticipazione sui nuovi pezzi: “Stiamo lavorando a diverse storie e sta diventando chiara l’idea. La prossima volta che parleremo vi dirò tutto e ci vedremo a Roma quest’estate per il nostro concerto. Non sono mai stato là e non vedo l’ora di andarci!”.

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di Fabio Magliano

Heroes Of The Storm

Dopo dodici anni di silenzio ritorna il progetto del chitarrista Pier Gonella che, circondato da una serie di grandi musicisti, da oggi vita all’eccellente ‘Storm’. Nati quasi per gioco agli albori del Nuovo Millennio per volontà del chitarrista ligure Pier Gonella per dar sfogo ad un suo amore verso un metal di stampo fortemente neoclassico e balzati agli onori della cronaca nel 2004 grazie ad un lavoro che, seppur acerbo, lasciava intravedere spunti interessanti tali da attirare critiche positive da un po’ ovunque, grazie anche alla performance vocale di un Roberto Tiranti sempre eccellente, gli Odyssea ritornano oggi sottoforma di “Progetto” con un nuovo lavoro, ‘Tears in Floods’ ancora una volta plasmato dal talentuoso duo ligure ma costruito pezzo su pezzo grazie all’aiuto di numerosi personaggi di spicco nella scena metal tricolore. Scorrendo i credits ci si può infatti imbattere in nomi illustri quali Alex De Rosso (Dokken), Giorgia Gueglio (Mastercastle), Stewe Vawmas, Andrea Ge, Peso e GL (Necrodeath), Alessio Spallarossa (Sadist), Franceso La Rosa, Alessandro Del Vecchio (Hardline, Edge of Forever), Alessandro Bissa (Vision Divine). Andrea De Paoli (Labyrinth), Mystheria, Anna Portalupi (Tarja Turunen, Hardline), Mattia Stancioiu (Crown Of Autumn) e Simone Mularoni (DGM) tanto per citarne alcuni. E poi ovviamente loro, Roberto Tiranti a dipingere con la sua voce linee vocali splendide melodie e Pier Gonella, virtuoso della sei corde nonchè mastermind del progetto che, come tale, ci porta alla scoperta dei “redivivi” Odyssea. “‘Tears in Floods’ uscì nel 2004 e nello stesso periodo io entrai nei Labyrinth spiega il chitarrista - Così cominciai a collaborare con Roberto Tiranti, che divenne il cantante degli Odyssea. Dopo aver ultimato i primi 4 brani sopraggiunsero tanti impegni per entrambi: Roberto continuò con Labyrinth poi intraprese la sua carriera solista fino alla pubblicazione del suo album ‘Sapere Aspettare’; io entrai nei Necrodeath, fondai i Mastercastle e mi dedicai alla mia struttura MusicArt. Così piuttosto che fare lavori affrettati preferimmo aspettare un periodo in cui poter ultimare il disco con calma. E finalmente con grande soddisfazione ci siamo riusciti. Oggi abbiamo semplicemente rimesso in pista un lavoro che era rimasto interrotto... Sono molto affezionato a quelle composizioni. All’epoca non avevo lo studio di registrazione e non c’erano gli stessi mezzi di adesso.

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Scrissi tutti i brani aiutandomi coi primi software che circolavano e nonostante ciò realizzai un demo dell’intero disco, a cui la voce di Roberto dava il tocco finale e rendendo tutto pronto per la registrazione del disco. Oggi ho potuto unire la buona volontà dell’epoca con l’esperienza accumulata in tutti questi anni”. Il risultato è ‘Storm’, un disco che va a riprendere non solo stilisticamente ma anche concettualmente quanto già mostrato dodici anni addietro da ‘Tears in Floods’ “Ho scritto i testi e le musiche di ‘Storm’ subito dopo l’uscita di ‘Tears in Floods’ per cui l’idea è stata proprio quella di continuare e migliorare

ulteriormente il lavoro - prosegue il chitarrista di Necrodeath e MasterCastle - Ci sono elementi in comune a partire dalla grafica. Le copertine sono caratterizzare da colori e paesaggi malinconici ed apocalittici, tuttavia nel primo album ho cercato di rappresentare la terra martoriata dal delirio dell’uomo, mentre nel secondo il grande albero che emerge dall’acqua vuole dare un messaggio positivo di rinascita. Stessa cosa per quanto riguarda i testi. Diciamo che dietro a una stesura semplice ed elementare ho cercato rappresentare questo ‘Storm’ che da il titolo al disco non come la tempesta di tuoni e fulmini, ma è l’energia ed il coraggio da tirar fuori quando è il momento giusto. Stilisticamente ‘Storm’ prosegue nel genere power metal di stampo “old school”

tuttavia abbraccia tanti elementi di musica elettronica nelle parti di tastiere, e tanti elementi di musica stoner o alternative nelle accordature e riff di chitarra”. Rispetto al disco di debutto costruito attorno ad un’entità molto simile ad una band. ‘Storm’ emerge subito per la sua natura di «figlio di un progetto», come quello che vi è oggi alle spalle degli Odyssea “Non si tratta di una vera e propria band - precisa Gonella - ma nello stesso tempo mi piace considerare tutti i musicisti coinvolti come parte del progetto e non come ospiti. Odyssea è e doveva essere una cosa diversa rispetto agli altri progetti in cui sono coinvolto. Così, passati 10 anni dal primo album ed essendo io già impegnato in maniera stabile in varie

b a n d (Mastercastle, Necrodeath, Vanexa, Verde Lauro etc) ho pensato di inserire una serie di musicisti con cui ho collaborato in questi 10 anni per le mie band, per la mia struttura musicale MusicArt,

o per altri progetti”. Tra i brani che maggiormente impressionano in questo nuovo lavoro, spicca la “Malmsteeniana” ‘Ride” “In questo pezzo ho inserito l’Adagio in Sol Minore di Albinoni - spiega - Il tema è molto noto e celebre per i chitarristi è la versione di Malmsteen che nel 1984 ha realizzando la melodia con la chitarra solista. La mia scommessa è stata trasformare la melodia principale in melodia vocale, e inserire le chitarre riarrangiare nell’accompagnamento, come ritmica hard rock insieme al basso e alla batteria. Così nella prima parte è la voce di Giorgia Gueglio sul tema di tastiere realizzato da Mistheria, nella seconda è Rob Tiranti, dove il testo è costruito in funzione della melodia stessa”. A ‘Galaxy’, sigla del cartone animato ‘Galaxy Express 999’ nonchè riadattata dagli Oliver Onions per il film di Bud Spencer ‘Bomber’ spetta invece il compito di “rompere gli schemi” come spiega il chitarrista “Ho sempre fatto molta attenzione a tutta la musica che incontro, non solo dai dischi, ma dalla televisione o da videogiochi. ‘Galaxy’ è un brano che mi è sempre rimasto impresso perchè sia come cartone animato che come sigla, ha un tono futuristico ed un pizzico di malinconia che si sposa molto bene a mio avviso con Odyssea. Col “MusicArt Project” infine mi sono trovato a coverizzare addirittura l’intero album “The Dark Side of The Moon” dei Pink Floyd!”


Assimilato l'abbandono di Roberto Tiranti, gli APD hanno saputo ritrovare se stessi e dare alla luce un lavoro eccellente come 'The Deafending Silence' che li rilancia alla grande. Fugati tutti i dubbi derivanti all’abbandono di Roberto Tiranti, tra gli artefici del successo del disco di debutto degli A Perfect Day, la band capitanata da Andrea Cantarelli ha saputo ricompattarsi, pescare il jolly con il talentuoso singer Marco Baruffetti e dare alla luce un nuovo lavoro, ‘The Deafending Silence’ che rilancia alla grande una band che nuova linfa ha portato e potrebbe ancora portare alla scena rock tricolore. Un disco dalla gestazione non semplice, nato dopo gli ottimi consensi giunti dal debut album ma, soprattutto, dopo la dipartita del cantante ligure che fuoco e fiamme aveva fatto dietro al microfono nell’omonimo disco, ed infatti il chitarrista Andrea Cantarelli confessa “Non nascondo che dopo la dipartita di Roberto avevo preso in considerazione di mettere la parola fine al progetto. Fortunatamente gli ottimi ritorni avuti, l’affezione che immediatamente molte persone hanno dimostrato nei confronti della band, e la voglia di proseguire un’avventura per me molto importante, hanno fatto si che ricominciassi a scrivere musica per APD. Sento questo progetto particolarmente “mio” sia per quanto riguarda la musica che per quanto riguarda i testi, di cui mi sono interamente occupato per la prima volta in carriera. Non credo che esista una dimora migliore di A Perfect Day, per me, e questa convinzione ha contribuito davvero molto in termini di motivazioni personali”. Una scommessa quella raccolta dalla band, come quella accolta dal nuovo cantante Marco Baruffetti, un nome forse poco noto al popolo metallico ma in possesso di un’ottima tecnica e di

un notevole bagaglio di esperienza figlio di anni spesi sui palchi di tutta Italia “Sostituire un cantante come Roberto credo sia davvero difficile – prosegue Andrea - La sua professionalità e la sua arte non si discutono, ovviamente a prescindere dai gusti personali. Ero certo però del grande contributo che Marco avrebbe portato alla band. Oltre ad essere un ottimo cantante è anche un grande chitarrista ed un musicista completo. Credo che il sound ne abbia giovato in termini di immediatezza. Marco ha la grande capacità di scrivere mel-

odie di altissimo livello, in grado di arrivare subito all’ascoltatore, ma al contempo mai banali o scontate. Rispetto al primo album credo che in “The Deafending Silence” si possa parlare davvero di canzoni e non di “semplici” composizioni. Spendo volentieri anche una parola per Gigi Andreone. Roberto, come molti di voi sapranno, era anche il bassista degli A Perfect Day. Gigi ha portato solidità in fase ritmica ed idee magnifiche, da grande musicista qual è. Mi ritengo fortunato, credo che almeno sulla carta, la nostra formazione, che si completa con

Alessandro Bissa alla batteria, sia davvero il meglio che mi potesse capitare”. Il risultato è ‘The Defending Silence’ un disco dalle mille sfaccettature, in grado di reggere egregiamente l’urto con il suo predecessore “Credo che “The Deafening Silence” sia la naturale prosecuzione del nostro primo album – spiega il chitarrista - Abbiamo cercato di non copiare noi stessi, ma al contempo abbiamo cercato di mantenere invariato il nostro stile musicale. Rispetto al primo

lavoro lo trovo più immediato, più “credibile”. Come nel primo ci sono molti elementi che meritano (questa la nostra speranza) di essere ascoltati, e non solo sentiti. “The Deafening Silence”, a mio modo di vedere, ha il pregio di poter colpire sin dal primo ascolto ed al contempo essere uno di quei dischi di riascoltare più e più volte, senza annoiare”. Gli fa eco Alessandro Bissa “Volendo generalizzare il nostro è un disco rock moderno, non riuscirei a trovare una collocazione più precisa, si rischierebb e l’etichettatura f e r o c e ”. Un rock che, a tratti,

finisce per sconfinare in un certo post grunge di scuola americana che va a donare una tinta in più al sound del gruppo “Non nascondo quanto mi sia appassionato ad artisti della scena post-grunge americana – spiega Andrea - Ma nell’album, se parliamo di influenze, credo si possa trovare un po’ di tutto, oltre a sonorità vicine a band come Alter Bridge, per citarne una su tutti. Dall’Hard Rock di stampo più classico, a gruppi come Fates Warning, Queensryche, In Flames, Iron Maiden e molti molti altri. Senza falsa modestia credo che la proposta musicale degli “A Perfect Day” sia abbastanza originale da far si che non venga vissuta come il clone di questa o quell’altra band, ma come una proposta univoca e con forte identità. Non so come possa svilupparsi il sound degli APD in futuro, di sicuro continueremo sulla scia dei primi due album”. Prosegue il bassista Gigi Andreone “Da ascoltatore del primo album e musicista nel secondo devo dire che Andrea e Marco hanno saputo creare un’ottima sinergia compositiva che ci ha consentito di suonare liberamente e portare all’interno delle tracce tutte le nostre influenze che vi garantisco spaziano nei più vari ambiti del Rock, personalmente amo molto band odierne come Alter Bridge e Black Stone Cherry e capi scuola quali Iron Maiden, AC/DC, Queensryche e Rush quindi riporto queste cose nel mio modo di suonare. Diventa quindi difficile anticipare l’evoluzione in questo senso delle composizioni, in generale cerchiamo di non porci entro limiti precisi e di fare del nostro meglio dal punto di vista espressivo”.

di Fabio Magliano

Un Deciso Ritorno

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Da quasi otto anni un vento di guerra soffia dalla cittadina svedese di Haparanda, ai confini della Finlandia. Divisioni imbattibili e temerarie di panzer scorrazzano su e già dalla penisola scandinava, radunando orde di metallari amanti del sound più duro e aggressivo. Ebbene, il comandante dei carri armati si chiama Pär Hulkoff (voce, chitarra) e i suoi compagni di plotone sono Jonas Kjellgren (basso) e Mattias “Buffeln” Lind (batteria), assieme formano i Raubtier, uno dei gruppi con il sound più riconoscibile dell’intera Scandinavia: “Lo definirei Panzer-rock” esordisce il frontman “Come una folk music con indosso un’armatura”. Queste sono le prime parole di Pär Hulkoff, che ha parlato con Metal Hammer del nuovo disco ‘Bärsärkagång’, uscito per Despotz Records. Spesso definiti come un incrocio fra Sabaton e Rammstein, i Raubtier hanno più in comune con i primi, amici di lunga data che hanno anche coverizzato un loro brano su ‘Carolus Rex’, ovvero ‘En Hjältes Väg’: “Credo sia una cover fantastica” puntualizza Hulkoff “mi sono un po’ scocciato perché ho dovuto partecipare alle registrazioni, credo che senza di me sarebbe potuta uscire molto meglio” chiude ridendo. La sua voce è spesso paragonata a quel-

la di Joakim Brodén, confronto del quale Pär pensa: “Credo sia bizzarro, Joakim è un grande, io sono solo un chitarrista che non è riuscito a trovare il cantante giusto per la sua band”. Fra una battuta e l’altra si passa al songwriting di quest’ultimo album, che segue sempre una linea specifica: “Solitamente scrivo le canzoni a casa, lontano da qualsiasi

forma di civiltà, solo con mia moglie e miei cani attorno. Ho bisogno di tranquillità e di molto tempo per leggere un sacco di letteratura. Ascolto anche tanta musica classica, da Wagner a Verdi, passando per Rossini, Beethoven e Paganini”. Nonostante ci sia della classica alla base degli ascolti di Hulkoff, la nuova release risulta più pesante rispetto alla precedente: “Ho puntato di più sui riff stavolta. Credo che il disco sia un po’ più thrashy e

volevo anche che si mischiasse col folk. Penso sia uno dei miei preferiti”. Un songwriting che sta quasi tutto sulle spalle del frontman: “Di solito faccio tutto da solo. In quest’occasione per i brani ‘Rebeller’ e ‘Från Norrland’ ho collaborato con Jonas Kjellgren, ma preferisco lavorare in autonomia.

La band riflette ciò che sta succedendo nella mia testa e credo sia difficile per altri capire quello che c’è dentro”. Passiamo quindi in rassegna alcuni dei brani più interessanti assieme a Pär. Per prima ‘Levande Död’, che a dispetto dei morti viventi del titolo parla di: “Vivere una vita come liberi pensatori, invece che come zombie. A volte mi meraviglio della quantità dell’odierna incapacità di pensare che sembra consumare la popolazione”. Poi c’è ‘Praetorian’ che a noi italiani suona un po’ familiare: “Thrash

vecchia scuola! Un tributo ai Venom e a quelle grandi band. I testi sono ispirati alle guardie imperiali dell’Impero Romano.” Avanti con ‘Röd Snö’: “Un’odissea nella valle del Torne in Svezia; un’oscura storia di cupidigia e assassinio fra la neve e il ghiaccio”. C’è anche spazio per il Cuor di Leone in ‘Lejonhjärta’: “Un po’ più neoclassica. Dedicata ai guerrieri che fronteggiano il pericolo per mantenere salda la pace dell’Occidente”. Una caratteristica dei Raubtier è quella di usare sempre la lingua madre per i loro album, cosa che “ci permette di mantenere il sound intatto ed è quello ciò che mi piace. Con altri progetti sperimenterò l’inglese di sicuro”. La guerra è sempre raffigurata sulle copertine, lo stesso Hulkoff era un soldato, anche se i messaggi che vengono trasmessi dalle canzoni sono all’opposto, si parla del mondo attuale e dei conflitti interni dell’individuo: “Scrivere musica è ciò che sento di dover fare per esprimermi, l’ho fatto prima e dopo l’esercito. Sto sempre dalla parte dei soldati e questo non cambierà mai”. Terminiamo con le ispirazioni principali per il frontman: “Prima di tutto la famiglia, poi la caccia con l’arco, i cani, la storia (vichinghi in particolare), le armi e le arti marziali”.

ARRIVANO I PANZER

di Stefano Giorgianni

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Notes from the

DARK SIDE di Tony Dolan

Nello scorso numero ci siamo lasciati con qualche riflessione sulla musica, su chi ci ama e chi ci odia, sui nostri obiettivi, sul credere in ciò che facciamo. Questa rubrica, o questi brevi pezzi in serie (come preferite), parlano di musica, però io ho lavorato anche nei film, in TV, a teatro, come attore, ho scritto musica per sistemi operativi di tutti i tipi, dall’iOs a Windows, per lungometraggi, sono stato direttore di produzione, ingegnere d’automazione, ho collaborato con la Royal Shakespeare Company come tecnico e attore, alle Olimpiadi, ad Hollywood con la 20th Century Fox, con la BBC, lo so, è un elenco lunghissimo, ma ho fatto molte cose al di là di quelle che conoscete voi con le mie band, i miei album autografi o anche i lavori come session man. Ci sono poi un sacco di cose che non scrivo, non per far finta di esser modesto e per dimostrarvi che figo che sono, ma perché ho viaggiato in lungo e in largo per ben trent’anni e ne ho viste di cose strane, eccome se ne ho viste. Credo di aver potuto assistere e valutare un’ampissima gamma di talenti fra la musica e il teatro e, se Metal Hammer me lo permetterà, vi parlerò lungo questi mesi della serie di persone che ho conosciuto e, perché no, di condividere un po’

di quel talento con voi. Spero di poter farvi scoprire molti musicisti e tanta grande musica, che vi potrà anche ispirare lungo il vostro percorso. Certo, non sarà facile, e in alcuni punti potrete pure non essere d’accordo con me, ma credo di potervi dare una mano nel capire come realizzare i vostri sogni. Il successo è là fuori che vi aspetta, andate e COGLIETELO! Per favore, dovete poi ricordare che il sacrificio è, e sarà, una buona fetta della vostra carriera, è parte del gioco, non potete e non dovete credere di riuscire ad acchiappare i vostri sogni senza sacrifici, però se sarete completamente

assuefatti dalla musica non sentirete la fatica e aspetterete il momento propizio per prendere ciò che vi spetta. Questo è Metal Hammer Italia, quindi per questa prima parte della mia rubrica starò nel vostro bel paese. Molti amici e tante grandi band sono italiane, e il mio amore per l’Italia (tra coloro che mi conoscono) non è certo segreto. Dai Death SS ai Bulldozer, ma anche altri grandi come Helligators, Eversin, Ultra Violence, Necrodeath, Extrema, Witches Of Doom e tanti che non ho lo spazio di nominare, una lista infinita di

talenti italiani che attraversano i più disparati generi del Metal. Bisogna dire che l’Italia è una fucina di talentuosi contributori del metallo, un paese orgoglioso con una storia gloriosa, del grande cibo, il vino e con un’eredità artistica invidiabile che ha ispirato artisti in tutto il mondo, dall’arte alla scultura, dall’architettura al teatro, dalla filosofia alla musica. Ha avuto i suoi giorni bui, come tutti su questo pianeta, ma il suo successo e il suo contributo all’arte vanno sempre celebrati.

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Era il 1990 quando gli italiani Novembre istituirono un nuovo vocabolario nel mondo del metal, fondendo gothic, doom e death in maniera unica. Dopo otto anni i paladini Italiani tornano a riaffermarsi.Abbiamo incontrato il leader Carmelo Orlando per fare il punto della situazione

Il Ritorno dei Profeti

di Paky Orrasi

Novembre, Katatonia, Anathema e Opeth si formarono nello stesso periodo e, come Mikael Åkerfeldt anni fa scrisse sul suo forum, di fatto sono band gemelle: formate esattamente nello stesso periodo, contraddistinte dalla stessa sensibilità artistica, e tutte registrarono il loro primo album presso lo studio Unisound di Dan Swanö, il quale di certo ha influenzato il suono di queste formazioni. Tuttavia dopo ben otto esemplari album nel 2007 la band cadde nel silenzio. Per otto anni ci siamo chiesti cosa stesse accadendo, se dovevamo considerare questa una pausa o un lunghissimo addio di una band che pian piano stava lasciandoci. Ora capiamo che il silenzio era dovuto a dubbi molto concreti “Sono stati anni in cui ho continuato a scrivere e registrare musica, anche se comunque non sapevo se saremmo mai tornati come Novembre”, spiega Carmelo Orlando, “o se avrei realizzato un altro progetto con un altro

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nome. Il motivo per cui ci siamo fermati era perché il mercato musicale stava crollando verticalmente e nonostante il nome dei Novembre cresceva, le vendite non crescevano proporzionalmente e questo ci dava parecchio fastidio.” Una lunga pausa che nasce quindi non da una crisi artistica ma da una realtà discografica che riesce ad annientare anche, o

specialmente, gli artisti più estrosi. Ora sembra che finalmente qualcosa stia cambiando e il mercato stia pian piano ricucendo i problemi dovuti al non sapere come far

fronte ai problemi creati da internet ”in questi otto, nove anni fortunatamente le cose sono cambiate” conferma Carmelo e aggiunge “adesso le case discografiche hanno dei modi per potersi difendere dalla pirateria. Adesso non c’è più il pericolo che l’album venga postato su internet non appena vengono

spediti promo ai giornalisti. E poi sinceramente avevo accumulato un po’ troppa musica e avevo veramente bisogno di pubblicare qualcosa, così ho contattato Massimiliano e ci siamo rimessi al la-

voro.” Sono certa che ritornare dopo tutti questi anni non sia un`impresa semplicissima, priva di dubbi o pressioni. Ma nel caso dei Novembre, Carmelo ci assicura che i fattori esterni alla loro musica non sono mai stati influenti “Abbiamo tanti difetti ma siamo abbastanza sicuri della nostra musica perciò non parlerei di pressione. Sicuramente posso dirti che c’era una sfida con noi stessi, avevamo veramente la determinazione di pubblicare un album migliore dei nostri album passati, era una cosa che c’eravamo prefissati. Ci rendiamo conto che non è facile perché in passato abbiamo pubblicato qualche album buono. Forse ci siamo riusciti, o no, lo diranno i posteri. Noi siamo soddisfatti.” Una sicurezza che arriva non da uno spirito arrogante ma bensì dai loro fan, davvero leali, i quali non hanno mai smesso scrivere, complimentarsi e chiedere di continuamente, nonostante l’assenza.


La costanza dei fan è astata alla fine ben premiata. Difatti I Novembre sono ritornati in grande stile con un nuovo album intitolato ‘URSA’, il quale ha portato questo sensibile artista ad approfondire ancora di più il baratro del subconscio, “quando pensi di avere scritto tutto quello che doveva essere scritto, quando pensi che sei riuscito a portare fuori tutto ciò che hai dentro, ti rendi conto che ci sono altre cose che non avevi considerato. Nuove osservazioni che non credevi potessero esserci” spiega Carmelo. Naturalmente la maturità ha influito su questa riflessione. Egli non è più il ventenne del primo album, ma come Carmelo afferma “Magari si tratta della rilettura di vecchie prospettive, rivisitate con gli occhi di oggi e arricchite da nuove esperienze. Il punto di vista che ho del mondo visto con gli occhi del quarantenne, messo a confronto con quello del 20enne. Due punti di vista che non sono del tutto dissimili, quello di oggi ha uno spettro piu ampio.” Una ricerca che ha portato Carmelo, a guardare alla realtà al difuori di se stesso, dove dice di aver visto lo squallore. ‘URSA’, è un album che parla dell’uccisione degli animali, ma non sprivo di speranza. Carmelo crede che questa violenza sia qualcosa che da qui a un tempo relativa-

mente breve potrà essere abolita del tutto e potrà essere vista alla stessa maniera in cui oggi vediamo la schiavitù dei neri d’America. Da animalista spero che lui abbia ragione e che la sua premonizione si realizzi, riguardo al suo animo profeta Carmelo commenta “E’ brutto sentirsi avanti nel tempo. Fare parte di quelle persone che percepiscono l’evoluzione

al di sopra.” Secondo Carmelo la nostra intelligenza razionale ed emotiva ci ha purtroppo distaccato dall’equilibrio del pianeta. A causa delle dinamiche della nostra intelligenza proviamo invidia e frustrazione, cose assenti nel mondo animale. Questa coscienza artistica è una delle cose che più mi ha affascinata dei Novembre. Apprezzo che siano artisti che possono

E’ brutto sentirsi avanti nel tempo. Fare parte di quelle persone che percepiscono l’evoluzione in maniera anticipata in maniera anticipata, perché comunque vivi in uno stato di guerra” e continua “Proviamo a immaginare cosa doveva provare un Tedesco con un briciolo di coscienza umana quando vedeva deportare i suoi vicini di casa ebrei e si rendeva conto che era un abominio. Ecco la stessa cosa succede a chi come me pensa che noi umani stiamo al di sotto degli animali e non

portare la loro riflessione sia dentro di se, come con ‘Materia’ un album che toccava orizzonti impalpabili, ma possano tramutare questa energia in sentimenti molto umani, quali aggressività e rabbia, come nell`album ‘The Blue’ . Carmelo descrive ‘URSA’ come “un senso di morte e distacco, un affievolirsi. Ma anche l’istinto di sopravvivenza. Un retrocedere

per poi riattaccare con sempre maggiore violenza.” Nell’album uno dei pezzi che ritengo più affascinanti è Annoluce, il quale lega generi diversi, andando da sonorità novecentesche a un metal attuale e passando dal classic rock. I passaggi sono unificati da atmosfere che legano le varie stanze in maniera levigata, e Il tutto è tenuto in piedi da un Tamburello “E’ anomalo nella sua figura perché il tamburello sostituisce il classico ritornello vocale, che non cè. Cè ma è senza voce ed è caratterizzato da questo tema medievaleggiante accompagnato da un tambourine”, spiega Carmelo. Inoltre in Annoluce troviamo Anders Nyström, uno dei fondatori dei Katatonia. Un’amicizia che,nasce tantissimi anni fa. Riguardo ai Katatonia Carmelo commenta “hanno avuto il merito di riuscire a elevare la scena gothic doom Inglese del 92, a un gradino più alto, cosa che con Paradise Lost, My Dying Bride, Anathema e Tiamat in circolazione, pareva impossibile. Hanno portato elementi di musica classica che prima non si erano mai sentiti e hanno portato la letteratura di questo genere ai picchi massimi mai toccati”. I Novembre sono ritornati in grande stile, e sembra che quasi non siano mai andati via.

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A ben cinque anni dall'ultimo 'Tales From the Sands', i tunisini Myrath tornano con un album denso di significati e dimostrano l'evoluzione del proprio sound. Ecco a voi 'Legacy'!

I Predestinati

di Stefano Giorgianni

Negli ultimi anni l'Oriental Metal sta raccogliendo proseliti in tutto il globo, complice una mescolanza di elementi di puro metallo e sonorità esotiche seducenti che hanno da sempre affascinato l'ascoltatore occidentale. Secondi solo agli Orphaned Land, i tunisini Myrath hanno ottenuto favore di critica e pubblico con i precedenti album e con questa nuova fatica, intitolata ‘Legacy’, si dimostrano pronti a fare il salto definitivo. Ne abbiamo parlato con il chitarrista Malek ben Arbia, reduce con la band dalla data milanese a supporto dei Symphony X dello scorso 3 Marzo: "Abbiamo appena terminato il tour europeo con i ragazzi dei Symphony X" esordisce Malek "uno dei nostri migliori tour senz'ombra di

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dubbio". Il nuovo album si chiama 'Legacy' e ha lo stesso significato di Myrath in arabo, ovvero 'eredità': "Il titolo per noi ha un'accezione particolare, è l'eredità del folklore tunisino, l'eredità della rivoluzione, ma anche del nostro padrino che è venuto a mancare tre anni fa". Una lunga pausa ha intervallato l'uscita di 'Legacy' e del precedente 'Tales Of The Sands', questo perché "abbiamo perso Ahmed ben Arbia, il nostro manager. Questa perdita ci ha costretto a ricostruire praticamente tutto, abbiamo avuto una specie di crollo. Non riuscivamo a trovare l'ispirazione ed è stato difficile tornare a scrivere canzoni. Ci siamo fermati per circa due anni" puntualizza il chitarrista "perché dovevamo metabolizza-

re il lutto". Nella pausa fra i due full-length in Tunisia c'è stata anche la rivoluzione che "non sappiamo se abbia influenzato il songwriting, forse inconsciamente. La vita nel nostro paese è stata difficile in questi anni, quindi abbiamo voluto concentrare tutto nella musica, il nostro disappunto, il nostro bisogno di libertà". Malek si concentra poi sul contenuto dei testi: "È stata la prima volta in assoluto che abbiamo lavorato con due parolieri, Aymen Jaouadi, il nostro storico lyricist, e Perrine Perez-Fuentes, che ha anche disegnato la copertina. Anche loro hanno perso i loro padri e volevano esprimere il sentimento con le loro parole. L'album parla essenzialmente della perdita di una persona cara,


ZOOM SULL’ARTWOrK Distante dai normali canoni del metal, l’artwork di ‘Legacy’ rappresenta la Mano di Miriam, la Hamsa, ovvero il numero cinque, simbolo nelle tre principali religioni monoteistiche, ma in primo luogo utilizzato dall’Islam utilizzato come amuleto, a protezione di influssi negativi e dal malocchio.

IL VIDEO DI "Believer” La clip è stata realizzata quasi interamente in post-produzione 3D e i finanziamenti sono stati ottenuti tramite crowdfunding su internet. Zaher Zorgati, il vocalist, aveva fatto appello ai fan per creare un video professionale come “Il Trono Di Spade” ed epico come “Prince Of Persia”

ma ci sono anche tracce epiche come 'The Unburnt'". Un songwriting che si è svolto, nonostante il cambiamento, nella maniera usuale: "Tutto parte con Kevin Codfert, il produttore, e Elyes, il nostro tastierista, che mettono assieme un po' di idee. Zaher, il vocalist, ascolta ciò che viene portato in studio per improntare le linee vocali e il resto della band aggiunge riff o propone modifiche. La parte più consistente sono gli arrangiamenti, che di solito occupano uno spazio di circa sei mesi". Malek ha già accennato all'artwork, prossimo argomento che vogliamo affrontare: "Volevamo qualcosa di forte e raffinato allo stesso tempo" precisa "volevamo che fosse differente da quello che si vede normalmente nel Metal e

che rappresentasse le nostre origini. Abbiamo quindi pensato alla Khamsa (la mano di Fatima, ndr.) integrata con il logo dei Myrath". La band è stata protagonista su internet di una campagna di crowdfunding per raccogliere i soldi del video di 'Believer', Malek dichiara a proposito: "Le etichette non investono più nelle band " sottolinea "Il mercato musicale non va bene ed è così che dobbiamo trovare altre risorse. Il crowdfunding può essere la soluzione, anche se spesso non funziona, bisogna avere una grande fanbase". La cifra raccolta è ammontata ai 10'000 euro, il che: "ci ha permesso di realizzare un video eccezionale, se non avessimo raggiunto una cifra alta avremmo cancellato piuttosto che

fare qualcosa di approssimativo. Le riprese sono durate tre giorni, la cui maggior parte davanti a uno schermo blu, per il chroma key, con il terreno ricoperto di sabbia. La post-produzione in 3D è stata sicuramente la più costosa, ma allo stesso tempo la cosa migliore". Per finire torniamo in Tunisia, agli inizi della carriera del gruppo: "Intraprendere la strada del Metal nel nostro paese è stato quasi impossibile. Non avevamo soldi, né strutture e nessuno nel music business che ci potesse aiutare. Kevin Codfert è stato fondamentale per esportare la nostra musica e per farci avere il primo contratto discografico, senza di lui non credo avessimo potuto arrivare sin qui".

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Rockin' IN THE EAST

di Freddie Formis

LA TOURNEE DEL GRUPPO ITALIANO IN RUSSIA E BIELORUSSIA RACCONTA DA LORO STESSI A Febbraio 2016 abbiamo avuto la possibilità di recarci in Russia e Bielorussia per seguire gli Amorphis in un mini-tour di tre date. L’intera esperienza si è rivelata a dir poco strabiliante; innanzitutto la possibilità di condividere il palco con una band di un certo calibro ci ha aperto gli occhi alla varietà del buisness musicale. Inoltre l’accoglienza calorosa dei fans e il riscontro positivo che abbiamo notato a fine concerti ci hanno stupito non poco. La prima data è stata a Mosca, al Volta Club. All’arrivo in terra Russa, ci siamo catapultati immediatamente in piazza Rossa, dove con fare da turisti abbiamo visitato un po’ i dintorni

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Con nostra grande sopresa abbiamo anche incrociato i rispettivi cantante e tastierista degli Amorphis, con i quali, dopo un attimo di esitazione, abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola. Al locale, dopo il sound-check, siamo saliti sul palco e abbiamo cercato di regalare al pubblico una buona performance; infatti la rezione è stata più che positiva, tant'è che tra qualche autografo e qualche foto inaspettati, abbiamo guadagnato qulalche nuovo fan.

Ovviamente, di tempo per riposare ce n'è stato ben poco; subito ci siamo rimessi in marcia per Minsk, Bielorussia. Sul van che ci è stato messo a disposizione, abbiamo passato circa mezza giornata, ma tra qualche chiacchera e qualche battuta, il tempo è passato abbastanza velocemente. Ancora una volta, ci siamo rimboccati le maniche e, dopo un frettoloso sound-check, siamo risaliti sul palco del Republic (tra l'altro, un bel locale con un ottimo impianto audio).

Anche qui, il pubblico si è rivelato eccezionale e, in un batter d'cchio, ci siamo rimessi in viaggio per la Russia, questa volta verso San Pietroburgo, al Club Zal. Questo locale, come il precedente di Minsk, è collocato in una posizione abbastanza periferica della città, quindi non abbiamo avuto troppe possibilità di visitare il centro. Purtroppo, in quest'ultima data abbiamo avuto un po' di problemi tecnici, ergo la performance da parte nostra non è stata delle migliori; nonostante ciò, ancora una volta, le reazioni del pubblico sono state ottime. Tra qualche birra in compagnia e qualche allegra chiaccherata abbiamo concluso al meglio anche questa serata. Terminato il concerto ci siamo recati in areoporto, dove abbiamo atteso la mattina per prendere l'aereo di ritorno in Italia. In conclusione, questa esperienza si è rivelata fondamentale per noi, sia dal punto di vista musicale che umano.

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STRETTA MORTALE

di Barbara Volpi

Il gruppo norvegese esce con il nuovo album 'Nattersferd' dopo tre anni di pausa dagli studi di registrazione, spesi in giro per il mondo a suonare per diffondere il proprio verbo. Situati oltre a qualsiasi angusta definizione di genere, i Kvelertak sanno portare la durezza heavy del suono un passo oltre la modernitA’, ed in un'epoca di revival scusate se E' poco. In Norvegia dove, si sa, il clima è freddo per gran parte dell’anno, le persone soprattutto giovani hanno trovato due soluzioni per scaldarsi: la prima è bere molto alcool, la seconda è quella di ascoltare i Kvelertak. No, non i ben più famosi Motorpsycho, ma proprio i Kvelertak, sestetto dal nome impronunciabile per qualsiasi bipede nato a Sud di Oslo (che letteralmente significa ‘stretta alla gola’). Quando la band esordì sulle scene nel 2010 con il disco omonimo venne accolta bene dalla critica, ma ancora di più dai fan, già avvezzi a vederli in giro per i club del paese con le loro febbricitanti e tostissime performance. In tempi in cui le etichette discografiche non mettono sotto contratto gli artisti a meno che questi

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non dimostrino di possedere già un cospicuo fan-base, l’entusiasmo del

pubblico vale moltissimo. E’ così che la band venne poi contattata dalla Roadrunner, per la quale sarebbe poi uscito il secondo album ‘Meir’. Ne sarebbe seguito un tour durato tre anni che ha portato il gruppo fino a qua, nel 2016, in cui viene partorito ‘Nattesferd’, un lavoro in cui si sente l’immediatezza e la

spontaneità del suono live. Ci dice il chitarrista Maciek Ofstad: “Quando tu sei in tour per quasi

tre anni accumuli tantissima adrenalina. È normale che una volta in studio questa venga scaricata nella musica e finisca all’interno dei brani. Non solo. Questo è un disco che è stato registrato praticamente in presa diretta e che quindi ha volutamene mantenuto un impatto live.

Le canzoni sono uscite con la loro peculiare personalità senza passaggi intermedi, sono scaturite sull’onda della spontaneità e della quasi totale improvvisazione. Non c’è pre-produzione e l’overdub è minimo. Siamo molto contenti del risultato. E’ un lavoro piuttosto nervoso e feroce, come lo siamo noi quando ci vedi sul palco”. Il terzo album è di solito molto importante per un gruppo, perché è un po’ quello che decreta la definitiva benedizione o sparizione. È quello che fa subito capire se la band è una meteora destinata a smaterializzarsi dopo i primi due shot o se ha dietro un backgound e un costrutto suscettibile di evoluzione e sviluppo, che la porta ad avere sempre qualche cosa da dire. “In questi ultimi anni siamo cresciuti molto come artisti e come persone. Abbiamo imparato cosa significa stare in tour, come funzionare in modo sinergico tra di noi e come dare il meglio sia sul palco che in studio


di registrazione. Credo che siamo riusciti a diventare tutti dei musicisti migliori rispetto al passato, e questo soprattutto perché ci teniamo a sorprendere in primis noi stessi”. Avendo trascorso tantissimo tempo insieme sul tour-bus e nelle camere d’albergo, Erlend Hjelvik e soci hanno imparato ad amalgamare le loro personalità, nessuna delle quali deve primeggiare sull’altra, tanto che ‘Nattesferd’ è scaturito da un processo prevalentemente collettivo. “Poiché abbiamo imparato a conoscerci e a gestirci in armonia, una volta in studio le canzoni sono uscite velocemente e senza sforzo, per cui alla fin fine in un mese il lavoro era finito, compreso di missaggio. Il fatto di averlo prodotto da soli ha accelerato ulteriormente i tempi perché non abbiamo dovuto né discutere, né mediare con qualcuno di esterno al gruppo”. Il risultato di tale approccio è quello di un effetto omogeneo ed organico, che fa apparire l’album quasi un concept, anche se dietro non esiste una vera e propria visione concettuale. “Ci piace definire questo disco come space-metal” continua a spiegarci Maciek. “Tutti i pezzi sono parecchio fluidi e cercano di trasportarti in un’altra dimensione, e tale caratteristica è proprio scaturita dal fatto che

IL VIDEO DI "1985” Primo singolo estratto da ‘Nattersferd’, ‘1985’ ha come protagonista una comunità di quattro persone al limite. Buona visione

noi musicisti con i nostri ego abbiamo cercato di starcene in disparte ed abbiamo lasciato parlare la musica, che ha seguito il suo corso esprimendosi attraverso le sue modalità”. Diciamocelo chiaro. I Kvelertak non fanno parte di quella categoria di gruppi spocchiosetti dediti all’art rock e i loro riferimenti al

tali. Siamo solamente un gruppo di amici che ama suonare insieme, divertirsi e distruggere le cose. Soprattutto in quest’ultima pratica ci siamo specializzati bene” taglia corto il nostro con una sonora risata. Considerando che molti gruppi norvegesi non riescono a farsi conoscere al di fuori del loro territorio,

All’inizio non avevamo neppure preventivato di arrivare così lontano. Volevamo suonare, bere, divertirci e basta. black metal non sono mai cerebrali ma piuttosto di pancia (niente ambient, niente drone, solo furente e selvaggio heavy metal). Neppure però possono venire assemblati all’interno del circo metalcore, dal quale si scostano per la loro ricerca di esplorazione sonora. Riguardo a questi sei norvegesi non si può dare nulla per scontato se non la loro onestà d’intenti e integrità d’azione. “Non ci piace ripeterci ma neppure perderci in elucubrazioni men-

è un onore per i Kvlertak essere riusciti a firmare per un’etichetta come la Roadrunner ed essere riusciti a sfondare anche all’estero. “All’inizio non avevamo neppure preventivato di arrivare così lontano. Volevamo suonare, bere, divertirci e basta. Poi, dopo il primo disco, ci venne detto che avevamo un tiro internazionale. Ora abbiamo toccato mezzo pianeta e non ci pare vero. Questo ci spinge a migliorarci in continuazione. Essere norvegesi non è un limite ma certamente non hai la strada spianata come se fossi inglese o americano. Devo ammettere che abbiamo avuto qualche momento di sconforto ma il nostro caro amico Kurt Ballou dei Converge è riuscito

a tirarci su e a restituirci fiducia. Lui è davvero una persona speciale, oltre che un gran talento. Ci ha insegnato a non considerare troppo chi ti critica o ti deve distruggere a prescindere, e a tirare diritto per la nostra strada”. Metalhead dichiarati, i Kvelertak si dicono ispirati non solamente dai Metallica e dai Mastodon, ma anche da tutto quello che li riguarda la vita di ogni giorno. “Nei nostri brani c’è l’amore , c’è la morte, ci sono gioia e dolore. Buttiamo nei brani tutta la gamma di emozioni ed esperienze che proviamo come esseri umani. Ovviamente la nostra vita è cambiata molto negli ultimi tempi. Alcuni di noi hanno dovuto sacrificare relazioni, amicizie e affetti, perché non riesci più ad essere presente e a coltivarle come dovresti. Ma poi, ogni volta che saliamo sul palco, la musica ci ripaga di tutto. Abbiamo suonato insieme ai nostri eroi di quando eravamo ragazzini e ciò è impagabile. Per ora ci va bene così, poi vedremo. Ora inizieremo le date dal vivo con il nuovo disco e non vediamo l’ora di capire quale sarà la risposta del pubblico. Saremo presenti a parecchi festival estivi. Siamo molto apprezzati anche negli Stati Uniti, un mercato tradizionalmente difficile per le band europee. Venire da un posto isolato come la Norvegia ed avercela fatta ci riempie di entusiasmo e, finché c’è questo, state sicuri che ci vedrete in giro ancora per parecchio tempo”.

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IL RITORNO DELLA BAND BULGARA CON IL NUOVO ALBUM “THE BATTLE NEVER ENDS”

MAI ESITARE!

I

n questo 2016 arriva il secondo album di una band ai più sconosciuta nel nostro paese, ma che dal 2010 si è guadagnata un buon seguito sia nel paese natale, la Bulgaria, che nel resto d’Europa. Stiamo parlando dei Sevi, gruppo alternative originario di Sofia, capitanato dalla carismatica vocalist Svetlana “Sevi” Bliznakova che conosce benissimo l’Italia, avendoci vissuto per diverso tempo. Manca poco più di un mese alla release del nuovo full-length, intitolato ‘The Battle Never Ends’, che verrà presentato nella capitale bulgare il 13 Maggio: “È un piacere essere qui con voi” esordisce Svetlana “Ora siamo in tour per le anteprime del nostro ultimo album e non vediamo l’ora di ritornare in Italia e presentare il CD ai nostri fan che ci aspettano.” Sì, perché i Sevi hanno già suonato nel Belpaese: “Noi amiamo l’Italia, è sempre un piacere tornare da voi. Abbiamo fatto due tour in passato, passando da Milano, Grosseto, Malesco, Trecenta, Ferrara tra il 2014 e il 2015 ed abbiamo trovato un pubblico caldo che ci aspetta anche quest’anno. Poi il caffè e la pizza sono cosi buoni solo in Italia, no?!”. Per iniziare chiediamo a Svetlana di presentare brevemente il gruppo, che “si è formato

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nel 2010 per volontà mia e del bassista Ralli Velinov. Cercavamo una maniera di presentare i nostri progetti musicali al mondo e abbiamo deciso che creare un gruppo rock sarebbe stato il modo migliore. Siamo poi riusciti a trovare il resto dei musicisti e a fondare i Sevi”. La conversazione si sposta poi sul contenuto dell’album in uscita: “Beh, come dice il titolo, raccontiamo del nostro bagaglio di esperien-

ze degli ultimi anni. Con il primo album del 2012 abbiamo rivolto la domanda ‘What Lies Beyond’ e ora parliamo di ciò che abbiamo vissuto sinora. Poi il disco parla delle battaglie che ognuno deve affrontare per fare ciò che vuole, le cose che ama, quelle che cerca, per la vita in genere. C’è una canzone, la title-track, che racchiude il messaggio dell’album”. Ci concentriamo in seguito sull’autore dei pezzi: “Di solito scrivo io sia i testi che la musica” afferma la cantante “ma ci sono anche

di Stefano Giorgianni

brani scritti da Ralli, il bassista. Una volta delineate le idee principali ci riuniamo in studio con l’intera band per gli arrangiamenti”. ‘The Battle Never Ends’ avrà anche qualche ospite speciale: “Il nostro amico Luca Princiotta (Doro, Clairvoyants) che ha registrato le chitarre sul pezzo ‘Destiny’. Marco Barusso (sound engineer dei Lacuna Coil) che si è occupato del mastering. Il chitarrista bulgaro Peter Bratanov ha suonato in un altro pezzo

e il produttore Beau Hill (Europe, Ratt) ha fatto il mix e il mastering”. Ad anticipare l’album è uscito il video del brano ‘Don’t Hesitate’, un susseguirsi di episodi umoristici: “Le riprese sono state curiose. Abbiamo trovato una vecchia fabbrica di ascensori quasi dismessa e un vecchio gancio mi tirava su e giù per gli effetti. Poi abbiamo filmato con un corvo nello zoo che ha mangiato persino le scarpe del regista. Un’esperienza stancante ma divertente. Ci

piace girare i video perché ogni volta entriamo in un ruolo diverso, è sempre un’emozione da ricordare”. Un pezzo che contiene un messaggio particolare, dettaglio da non trascurare mai per i Sevi: “ Per noi il messaggio che mandiamo alla gente con la nostra musica è molto importante. Questa è una delle canzoni importanti dell’album; parla dei sogni che non dobbiamo lasciare a causa delle perplessità. Dobbiamo essere come uccelli che volano senza paura e che non esitano mai”. La band è stata anche oggetto di un libro intitolato ‘The Price To Be Yourself’: “È una cosa che abbiamo realizzato per il nostro quinto compleanno. L’ha scritto un giornalista, Nikolay Hristov, ed è una grande intervista che racconta tutto ciò che succede ad un giovane artista durante le sue battaglie per emergere. Per il decimo anniversario forse uscirà la seconda parte, magari anche prima”. Quindi dovremmo aspettarci di vedere a breve i Sevi in Italia per il prossimo tour: “Torniamo a Settembre per presentare il nuovo album e abbiamo già alcune date al Nord, poi procederemo per la Svizzera e la Francia. Potete seguire l’aggiornamento delle date che viene pubblicato nel nostro sito ufficiale o su facebook”.



COVER STORY

WALLS OF JERICHO LI

I B A C A L P M I

di Stefano Giorgianni

DOPO OTTO ANNI TORNANO GLI STATUNITENSI WALLS OF JERICHO. UNA LUNGA PAUSA DOVUTA ALLA MATERNITÀ DELLA VOCALIST CANDACE KUCSULAIN, TORNATA ORA PIÙ FORTE CHE MAI E CHE OGGI SI CONCEDE AI NOSTRI MICROFONI PER PARLARE DELLA NUOVA FATICA ‘NO ONE CAN SAVE YOU FROM YOURSELF’. 24 METALHAMMER.IT


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oncretezza e solidità. Gli Walls Of Jericho appartengono alla passata generazione di hardcorer, un genere che si è sempre contraddistinto per i testi carichi di contenuti e per un sound diretto, senza fronzoli e lustrini. Negli anni la band capitanata dalla rocciosa singer Candace Kucsulain ha dovuto affrontare cambi di line-up, momenti di pausa che hanno minato la sopravvivenza del gruppo, ma i ragazzi di Detroit si sono sempre rialzati più forti di prima. In questo 2016 tornano rinvigoriti dopo ben otto anni di pausa, periodo durante il quale la vocalist si è dedicata alla famiglia e soprattutto alla maternità. Un segnale forte questo che vuole lanciare Metal Hammer, con un gruppo non molto conosciuto qui in Italia ma che ha molto da dare a chi concederà loro solo il tempo di qualche pezzo. Le prime parole di Candace ai nostri microfoni sono dedicati al monicker del gruppo, che alla maggior parte farà pensare ad un metal di matrice cristiana: “La band si formò professionalmente nel 1998, in precedenza esisteva un altro gruppo denominato Earthmover, nel quale militavano il nostro chitarrista Mike Hasty e il primo batterista Wes Keely. Quando questi si sciolsero vennero fondati gli Walls Of Jericho con l’entrata del bassista Aaron Ruby che faceva parte degli Universal Stomp”, esordisce la cantante, che poi precisa “Il nome fu discusso prima che io diventassi parte della band e ci furono diverse cose che portarono alla scelta. Innanzitutto Aaron menzionò la storia contenuta nella Bibbia della caduta delle mura dell’antica città di Gerico e, anche se non eravamo e non siamo un gruppo che tratta contenuti religiosi, ci siamo appassionati alla vicenda. In secondo luogo Mike legò il fatto al celebre disco di debutto degli Helloween ‘Walls Of Jericho’.” Quindi nessun risvolto religioso sulla scelta del monicker, solamente una predilezione per l’evento biblico e per il suono che sembrava combaciare alla perfezione con l’idea musicale del gruppo: “Niente a che fare con la religione in ogni caso. Nel corso del tempo ci siamo cimentati in argomenti

Mike legò il fatto al celebre disco di debutto degli Helloween ‘Walls Of Jericho’ sociali, politici e sicuramente personali, ma non abbiamo mai voluto entrare in contatto con il christian metal o cose del genere.” Una combinazione di due punti di vista differenti quindi, che portarono a una preferenza unanime, uno dei quali ha paradossalmente radici power: “Mike, uno dei membri più anziani del gruppo, è un tipo a cui piacciono diversi generi e il power è uno di questi”, puntualizza Candace. Gli Walls Of Jericho tornano con un nuovo disco dopo ben otto anni e la vocalist afferma che “devo assumermi tutte le responsabilità e dire che è colpa mia. La decisione è stata presa nel 2010 e avevamo superato i dieci anni di attività come gruppo, con quattro dischi da studio e moltissimi concerti alle spalle. Mi ero sposata e in quel momento puntavo molto sull’iniziare a fare una famiglia e, come tutti sanno, per le donne è un po’ più

Scritto nel nome Il monicker degli hardcorer è ispirato, come confessato nell’intervista, all’evento biblico della caduta della città di Gerico. Il nome del luogo proviene da un’antica lingua cananea e significa “profumato”. La città ora si trova in Cisgiordania (Palestina). Ai metallari la vicenda biblica è nota per il titolo del primo album degli Helloween ‘Walls Of Jericho’ (1985).

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Non mi piacciono solamente quelli che parlano di che usano i testi come contorno alla musica, che parlano di soldi e puttane

IL VIDEO DI 'Fight The Good Fight' Il video della quinta canzone dell’ultimo album ‘No One Can Save You From Yourself’ vede impegnata la vocalist degli Walls Of Jericho in uno dei suoi allenamenti. Candace Kucsulain è difatti una power-lifter professionista e prima di cimentarsi coi pesi provò anche la boxe, sport che ha recentemente ripreso per passione.

difficile quando si sceglie di cominciare a pensare a queste cose. Quando si rimane incita e si hanno dei bambini piccoli a casa, i tour diventano una cosa insormontabile, quindi siamo stati praticamente costretti a prenderci una pausa dall’attività”, poi continua, “abbiamo fatto passare un po’ di tempo, nel frattempo è nata mia figlia e pian piano abbiamo ricominciato per vedere se ero in grado di riprendere la vita di prima e di stare lontana dalla bambina. Abbiamo organizzato un paio di tour brevi, di modo che non dovessi stare via per più di dieci giorni e dopo un paio d’anni di prova abbiamo deciso che potevamo ricominciare e abbiamo iniziato a parlare di un nuovo album”. Un’interruzione richiesta dalla vita quindi e che ha messo alla prova la cantante quando è ritornata in attività: “Non nego che sia stato difficile creare questo disco. In passato scrivevo circa il 90% dei testi e con gli impegni famigliari non riuscivo a far combaciare le cose per far uscire le idee come avevo intenzione dovessero venire. È stata dura, dovevo trovare il giusto equilibrio fra famiglia e musica. Siamo poi giunti alla conclusione di dividerci gli impegni, Chris, l’altro chitarrista, ha scritto qualche testo e io gli altri. Ci sedevamo e parlavamo dell’argomento che quella determinata canzone doveva avere e siamo riusciti a concentrarci su diversi temi più che in passato.”. Nella storia degli Walls Of Jericho c’è stato anche un altro stop: “Ci siamo presi due periodi di pausa, ma non abbiamo mai comunicato lo scioglimento della band. La

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prima fu nel 2001, quando il nostro batterista originario Wes Keely aveva deciso di trasferirsi a Seattle e a quel punto ci siamo trovati senza un drummer adatto al gruppo e ci siamo fermati per circa un anno.” Si passa poi al nuovo disco, ‘No One Can Save You From Yourself’ e Candance ne spiega il significato: “La scelta del titolo di quest’album è molto personale. Quando decidi di fare qualcosa per te stesso o di diventare qualcosa nella tua vita o di fare un cambiamento importante, nessuno può farlo per te, sei solo contro te stesso. È un disco che può essere visto da diverse prospettive, riflessivo o aggressivo, ci sono moltissime sfumature che rappresentano una luce che appare nell’oscurità in un particolare momento buio della nostra esistenza, oppure il trattare e il combattere il dolore. Come sunto potrei dire che noi siamo i creatori, i salvatori o i distruttori di noi stessi.” Una delle tracce più potenti e d’impatto è ‘Relentless’, della quale la vocalist chiarisce: “Qualche anno fa abbiamo affrontato quello che si chiama il blocco dello scrittore e io sono diventata parte di un’organizzazione che si chiama Relentless. Ho capito che ognuno può fare qualcosa che può aiutare gli altri in maniera positiva ed è diventato una sorta di obiettivo anche nella mia vita. Ho preso d’esempio questa gente che era focalizzata su uno scopo nobile, come dar sostentamento alle persone malate di cancro o con altri problemi gravi. ‘Relentless’ è stata la prima canzone che ho scritto per ‘No One Can Save You From Yourself’ ed è stato due anni addietro rispetto alle altre. Per una causa così importante


‘The Bound Feed The Gagged’ 1999 Trustkill Records

‘All Hail The Dead’ 2004 Trustkill Records

tudine punk. Abbiamo una forte componente metal dal punto di vista sonoro, invece per quanto riguarda ai testi siamo molto più hardcore. Sicuramente quando gli Walls Of Jericho sono nati, nel 1998, facevamo parte della scena hardcore. A volte ci collocano nel metalcore per il nostro sound che in tante parti si avvicina al metal, noi però continuiamo a fare ciò che ci piace senza guardare all’etichetta che ci appiccicano addosso.”. E sui gusti personali: “Mi piacciono un po’ tutti i generi e rispetto tutti. Non mi piacciono solamente quelli che usano i testi come contorno alla musica, che non mettono sostanza nelle parole, che parlano di soldi e puttane. È importante che noi musicisti usiamo la nostra arte per mandare un messaggio al mondo. Nel Metal i miei preferiti sono Deicide, Anthrax, Iron Maiden e Meshuggah.” Sul finale qualche parola sul tour e un ricordo del Belpaese: “Stiamo pianificando il tour europeo e spero verremo anche in Italia. Ho grandi ricordi del vostro paese, quando abbiamo suonato in Italia una delle prime volte mi sono fatta anche un tatuaggio e mi accompagnarono su una Vespa fino al negozio. Un’esperienza abbastanza bizzarra.”.

‘With Devils Amongst Us All’ 2006 Trustkill Records

‘The American Dream’ 2008 Trustkill Records

‘No One Can Save You From Yourself’ 2016 Napalm Records

DISCOGRAFIA

abbiamo deciso di fare subito un lyric video, perché volevamo che le parole del pezzo fossero ben chiare all’ascoltatore.”. In questo caso è quindi più rilevante il testo che la musica: “Certo, bisogna sempre scrivere qualcosa che abbia sostanza, che trasmetta un’idea o un sentimento ed è quello a cui dovrebbe servire la musica normalmente. Dobbiamo ricordarci che la musica è anche terapia.”. In quasi vent’anni di carriera anche il sound degli Walls Of Jericho è mutato anche se “credo sia cambiato e in maniera diversa da come si può pensare. Nel corso degli album il ruolo dell’autore principale delle musiche ha subito variazioni, c’è stata una specie di interscambio. Il primo full-length è stato scritto prevalentemente da Mike, poi è arrivato Chris e hanno lavorato assieme al secondo disco, per quest’album Mike ha ripreso il ruolo principale. Il sound di One Can Save You From Yourself’ è cambiato nel senso che ci riporta indietro nel tempo, agli Walls Of Jericho originali. È più veloce, più thrash, più punk e credo fosse il momento giusto per una scelta del genere.”. Una commistione di generi contraddistingue inoltre la band e Candace riassume così :”Penso abbiamo un’atti-

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Una delle poche band ad esser sopravvissute all’era Nu Metal con onore, i Deftones sono arrivati al loro ottavo album ‘Gore’, tra aggressività e eleganza tipica del loro sound ma con un approccio al lavoro più rilassato. Di questo e altro abbiamo parlato con il batterista Abe Cunningham.

IN EQUILIBRIO TRA Grazia e VIOLENZA N

on molte band possono rispecchiarsi contemporaneamente nell’aggettivo cult e celebre, raramente queste due parole possono coesistere ed essere dimostrate o giustificate. Eppure questa band, che da Sacramento iniziò la sua ascesa 1988, rivela la propria unicità nel potersi descrivere con quest’antinomia.

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I Deftones non sono estranei alle opposizioni, difatti hanno influenzato altri artisti proprio grazie al loro specifico suono costruito con ponderate alternanze di irruenza e dolcezza. Il loro ultimo lavoro ‘Gore’ non trasgredisce, ma anzi rimarca le loro due anime. Un album che si è fatto attendere per vari motivi, non ultimo un problema

nella fase di mixaggio: “L’album doveva uscire prima, a Novembre. Ma eravamo in tour ed era davvero difficile concentrarsi. Nulla di drammatico, anzi fu la casa discografica a chiederci se avremmo preferito aspettare e quindi abbiamo preferito concentrarci sul tutto quando potevano essere nello studio” spiega Cunningham.

di Paky Orrasi Aldilà del tour i Deftones hanno deciso di cambiare le regole con questo album, e lavorare in modo diverso. Se andiamo a vedere la loro biografia possiamo notare che la band tra tour e album non si è mai fermata. Ora, avendo tutti una famiglia, hanno trovato un modo molto più rilassato di lavorare senza stressarsi e rimanere ispirati:


“Normalmente eravamo sempre di corsa, come sempre si prenotavano lo studio e quindi avevi un tempo determinato nel quale quasi forzarti nell’essere creativi” commenta Cunningham e spiega “Ora invece abbiamo lavorato sul disco un paio di settimane, poi siamo andati in tour, poi ritornavamo a scrivere una settimana e successivamente trascorrevamo del tempo con le nostre famiglie. Alternare il lavoro sul nuovo materiale a tour e vita privata è stato

davvero un successo, certo, ci abbiamo messo più tempo, ma ora l’album è qui e noi siamo sereni” . Una serenità che si è tramutata in musica inspirata, un album nel quale le idee sono state ben digerite e non affrettate. La voce della band, Chino Moreno, ha descritto questo album “come mettere oggetti differenti uno accanto all’altro”, e Abe spiega che questo è uno specchio di una band fatta di persone con similitudini ma specialmente diversità “se ci metti in una stanza lo vedi

subito, siamo fratelli, siamo una famiglia, abbiamo molto in comune, eppure molte volte non potremmo essere più differenti, ma sappiamo come utilizzare questa diversità e amalgamare le varie idee”. Una diversità che ha funzionato per ben 25 anni. Le han superate tutte, e come pochi hanno sopravvissuto nell’allontanarsi dalle referenze Nu Metal con ‘White Pony’ , la loro gemma discografica per eccellenza. Negli anni non si sono mai tirati indietro difronte a nuove

influenze amalgamando nuovi suoni nel loro unico timbro. Nel mondo in cui viviamo non è scontato mantenere la propria rilevanza, cullarsi sui precedenti successi non funziona più: “Siamo ancora qua, forse perché non ci pensiamo. Forse è lì la chiave, sono contento di sapere che ancora contiamo, e ne siamo a conoscenza ma non gli diamo peso. Cerchiamo sempre di mantenere alto lo spirito, di non abbatterci così da essere ancora felicissimi di quello che raggiungiamo e facciamo”, ci

Alternare il lavoro sul nuovo materiale a tour e vita privata è stato davvero un successo

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Dal titolo ti aspetteresti le peggiori cose, ma invece l’immagine è delicata, proprio come la nostra musica

L’artwork di ‘GORE’ Una contrapposizione di elementi che deriva dall’ascolto della musica dei Deftones. Una serie di sfumature del viola che si susseguono e si alternano mentre la le tracce si avvicendano, dal rosa, al rossastro sino al violaceo. La musica è anche colore e i Deftones hanno cercato di esprimerlo con questa strana scelta per la copertina.

spiega Cunningham. Seppure il loro successo sia enorme, lo spirito dei loro fan è tipicamente quello di una band cult. Basta passare pochi minuti sui social network per capire la passione estrema, la curiosità e antic-

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ipazione anomala che vi è su questo nuovo lavoro. Sin da quando la copertina è stata rivelata, i fan stanno impazzendo su varie teorie che giustificano quel, di nuovo, contrasto tra il titolo e la bellezza di questi fenicot-

teri dal colore rosa in volo, come spiega il batterista: “Dal titolo ti aspetteresti le peggiori cose, ma invece l’immagine è delicata, proprio come la nostra musica tra riff pesanti e bellezza, è il nostro marchio”. Gore,

ha anche un bell’ospite, Jerry Cantrell degli Alice in Chains: “Avevamo un pezzo, tutto funzionava alla grande, ma vi era un vuoto e abbiamo pensato che fosse lo spazio per un bel assolo di chitarra. Abbiamo molti amici quindi tra i nomi abbiamo pensato a Jerry, lui è fenomenale, quando suona riconosci subito che alla chitarra c’è lui e siamo amici da tantissimi anni, quindi è stato davvero bello collaborare con lui”, commenta


Cheng è parte di noi e lo sarà sempre. Anche se è andato via, io sento che è sempre con noi

In nome di CHENG Cunningham. Abe è davvero entusiasta di questo nuovo capitolo, ed è bello sentirlo sereno. Non sempre la loro storia è stata rosa come i pellicani che incorniciano la loro nuova musica. È il caso di ricordare che nel 2008 Chi Cheng, il loro bassista ebbe un gravissimo incidente stradale, che lo lascio in stato semi comatoso fino alla notte del 13 aprile 2013, quando l’artista perse la sua battaglia, Abe commosso e con la voce che si spezza lo ricorda così: “Cheng è parte

Il 13 aprile 2013 i Deftones subirono una tragica perdita, quella del bassista Chi Cheng. Il musicista fu vittima di un terribile incidente nel 2008 e rimase in coma per ben cinque anni prima di abbandonare per sempre questa vita. Nato nel 1970 a Stockton, Califonia, e di discendenza cinese, Chi non era solo un bassista, ma anche un appassionato di letteratura. Studiò Letteratura Inglese alla California State University e nonostante l’attività di musicista che lo teneva molto impegnato, continuò a esercitarsi nella poesia fino a pubblicare la raccolta “The Bamboo Parachute”. Chi era un buddista praticante e interessato alla storia delle religioni, soprattutto al taoismo e allo sciamanesimo.

di noi e lo sarà sempre. Anche se è andato via, io sento che è sempre con noi…fa male, fa male ogni giorno, ma è sempre con noi nella nostra musica… mi manca ogni giorno”. Forse anche questa intervis-

ta iniziata con l’entusiasmo e terminata in commozione fa di nuovo parte di quel mondo Deftones… dove la durezza del metal incontra la dolcezza del rock alternativo per creare una musica dove nero e rosa vivono in

simmetria. Vi lasciamo abbandonarvi in questo mare di sfumature che è ‘Gore’ e aspettiamo i vostri pareri, anche se siamo sicuri che questa nuova fatica non scontenterà i fans del quintetto californiano.

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FRA GLI ASTRI NASCENTI DEL RAPMETAL, GLI HACKTIVIST SI STANNO AFFERMANDO COME UNO DEI GRUPPI PIÙ SOLIDI IN CIRCOLAZIONE, FORTI DELLA MESCOLANZA DI GENERI DEL LORO SOUND E DELL’ATTIVISMO DEI TESTI.

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n questo speciale sul -core non potevamo evitare di inserire il rap metal, genere che ha origini ben più antiche d’oggi, ricordiamo ad esempio gli esperimenti dei Rage Against The Machine, oppure l’enorme successo dei Limp Bizkit ad inizio millennio, solo per fare due nomi. I protagonisti di questa intervista sono gli Hacktivist, giovane band britannica che mentre scriviamo sta percorrendo l’Europa in lungo e in larga per presentare l’ultimo album il full-length di debutto ‘Outside The Box’. I ragazzi sono passati anche in Italia, con date a Torino, Milano e Firenze che hanno radunato un buon numero di persone e hanno fatto conoscere i rapmetaller nel Belpaese. Abbiamo incontrato il bassista del gruppo, Josh Gurner, per scambiare due chiacchiere sulla storia degli Hacktivist e per introdurli al pubblico italiano: “Siamo l’uni-

ca crossover band inglese, credo”, esordisce, “è difficile collocarci in un qualsiasi genere perché non vogliamo metterci addosso alcuna etichetta e non ci piace racchiuderci in una sola varietà musicale, nemmeno in quello in cui gli altri vogliono inserirci. Abbiamo una così ampia gamma di influenze, dall’heavy al groove metal, dal grime all’hip hop fino al drum’n’bass e all’elettronica che l’unico modo per scoprire cosa suoniamo è quello di venire ai concerti.”. Josh ci motiva poi la scelta del nome Hacktivist: “Ci siamo formati al tempo dell’Occupy Movement e questo termine ha un sacco di

risvolti politici, così come il nostro approccio come band. Vogliamo usare la nostra posizione per promuovere un positivo cambiamento sociale e politico, oltre a essere in grado di vederlo sia nei media che nella propaganda solitamente di parte. Non siamo degli hackers di computer, ma rispettiamo il lavoro di gruppi come Anonymous e dell’attivismo non-violento.”. Ascoltando la loro musica si sente una grande commistione di elementi che derivano dal metal, dal -core, dal rap, dall’elettronica, a questo proposito Josh dichiara: “Organizziamo il songwriting più come un produttore di elettronica che come una band metal tradizionale. Mettia-

L’OCCUPY MOVEMENT Gli Hacktivist si sono formati nel 2011 quando l’Occupy Movement (Movimento di Occupazione), movimento di protesta internazionale che si scagliava contro le disuguaglianze economiche e sociali, dilagava in tutto il mondo. Una delle occupazioni più note, soprattutto per la copertura mediatica, fu quella dell’Occupy Wall Street, tenutasi nello Zuccotti Park di New York a partire dal 17 settembre di quell’anno. In Italia nell’ottobre successivo migliaia di persone si riunirono a Roma in occasione della giornata mondiale di protesta.

RIVOLTA SOCIALE di Stefano Giorgianni 32 METALHAMMER.IT


GUARDA IL VIDEO DI ‘BUSZY’

ZOOM SULL’ARTWORK Copertina molto particolare questa creata per ‘Outside The Box’. Un bambino in mezzo alle macerie che ha per mano un orsacchiotto di peluche è immobile di fronte a un enorme edificio che presenta il logo degli Hacktivist sulla facciata. Particolare che colpisce è senza dubbio la luce sopra il “palazzo degli Hacktivist”, mentre tutto intorno la città è consumata dagli scarichi inquinanti di alcune ciminiere. Il bambino ha un’unica possibilità di salvezza, ovvero varcare la porta che porta alla dimora della band. Artworl metafora dell’attivismo del gruppo inglese.

mo l’enfasi sul groove che deriva dai gruppi che ascoltiamo come Korn, Deftones, Limp Bizkit, ma anche dal dubstep. Combiniamo riff groovy-progressive con uno stile grime rap aggressivo, con un sottofondo elettronico. Come dicevo prima, se volete capire gli Hacktivist dovete per forza venire a un concerto!”. Il discorso si sposta sulla presentazione del debut album: “Abbiamo lavorato a un full-length dopo tre EP, mentre facevamo tour nella zona più ampia che potevamo coprire. Durante tutto questo tempo abbiamo raffinato il nostro sound e introdotto elementi nuovi e differenti. Vista la lunga durata che un disco permette abbiamo potuto presentare al meglio tutte le nostre influenze e il progresso del sound, mentre creavamo il marchio degli Hacktivist.”. Il bassista precisa poi la scelta del titolo: “Dare il titolo a un album è sempre difficile, ma ci piaceva ‘Outside The Box’ perché può essere interpretato in diverse maniere. Riflette la

Robert Glasper Experiment, sono veramente tantissimi da elencare. Durante questo tour abbiamo suonato con una band italiana che si chiama Damned Spring Fragrantia e devo dire che sono veramente in gamba.”. Josh si concentra poi sugli argomenti dei testi, che definisce “molto politici, ma rispetto agli EP abbiamo inserito anche qualcosa sull’importanza dell’unificazione della razza umana. Abbiamo colto l’opportunità per qualche riflessione personale che si rispecchia nei nostra filosofia di band nello scardinare le convenzioni e invita l’ascoltatore a pensare testi. C’è stato comunque spazio per qualche tema più leggero e divertente.”. Riguardo al in modo creativo.”. Riguardo ai gusti dei membri della band, viste le diverse influenze processo di songwriting: “Da sempre i nostri dischi sono stati autoprodotti da Tim in che si possono riscontrare nel sound degli Hacktivisti, Josh confessa: “Condividiamo lo casa propria. Solitamente registra ogni cosa che gli passa per la mente, poi delineiamo i stesso luogo di provenienza, ma un ampio pezzi. Una volta che l’idea generale è pronta, raggio di influenze individuali. Il paese è solida, ciascuno lavora sul perfezionare la piccolo, ma la scena musicale è abbastanpropria parte.”. Si sa, le band sono spesso za compatta. ‘J’, il rapper, non aveva mai in tour e Josh ci confessa il significato che ascoltato metal in precedenza, ma mentre ha per loro: “La vita on the road può essere registrava allo studio di Tim (chitarrista e voce pulita), ha sentito un demo e il nostro dura e stancante, ma anche grande fonte di gruppo è nato quel giorno! In generale tutta ispirazione. Vedere tutte quelle città differla band ascolta Deftones, Korn, Tesseract, e enti e incontrare gente fantastica, talvolta strana, ci spinge ad andare a vanti nel fare rapper come Skepta, Kano e Dizzee rascal. Nel tour bus, però, si possono sentire molti questo mestiere.”. Una band giovane ha anche molti progetti per il futuro, fra cui “mettersi generi musicali, dall’hip hop al funk, dal subito al lavoro per il nuovo album e sperijazz alla classica, dal punk al death metal mentare ancora di più! Speriamo di tornare fino, occasionalmente, al pop.”. Poi aggiunge sulle ispirazioni non metal: “Submotion in Italia a breve e convertire altra gente alla Orchestra, Noisia, Foreign Beggars, P Money, nostra musica!”.

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Dopo ben cinque anni di silenzio i Logical Terror tornano con un nuovo album e dimostrano di essere cresciuti notevolmente rispetto al già buon 'Almost Human'. Fra pochissimo tempo, esattamente il prossimo 6 maggio, rilasceranno 'Ashes Of Fate' per darkTunes, disco che accresce la qualità delle composizioni della band e dimostra che la commistione di generi è il punto forte dei modenesi. In questa speciale occasione Metal Hammer vi offre un'anteprima del full-length con un track-by-track, senza rivelare ovviamente troppo del suo succoso contenuto. Ten Thousand Falls L'impatto è immediato. I Logical Terror non perdono tempo in inutili intessiture sgargianti e scatenano l'inferno con un riffing monolitico ad opera dell'axeman Ash. Dopo venti secondi un ritmo da headbanging introduce un cantato pulito che pian piano si irruvidisce e dove trova spazio anche l'elettronica. Qualche secondo più tardi dello scoccare del minuto

si incontra il chorus, orecchiabile ma non ruffiano. La canzone ripercorre i dettami dell'album precedente con richiami a Fear Factory, Meshuggah e Soilwork, con linee melodiche che si intrecciano a un'aggressività ponderata. Buona la prima! The World Was Mine Inizio quieto per questa seconda traccia che vede la partecipazione del vocalist dei Soilwork Bjorn “Speed” Strid, ma il respiro che ci lasciano i Logical Terror è flebile. Un muro di suono si erge entro pochi secondi, ma l'approccio è differente rispetto al pezzo d'apertura. Il brano è irruente ma arioso e, in questo caso, le voci sono le assolute protagoniste con trame che si congiungono e si separano, creando un tappeto canoro in totale armonia. La delicata cadenza djent si confonde con bilanciati e puntuali sprazzi di melodia. Nowhere To Nowhere Un riffing meshuggiano apre il terzo

pezzo di 'Ashes Of Fate', però anche in questo brano lo stile muta, grazie soprattutto alla scelta dello stile del cantato non troppo spinto. Sorprende l'equilibrio con il quale la band modenese riesce a soppesare impetuosità e melodia e questa seconda fatica discografica ne è la prova. I chorus sono quasi sempre modellati su una particolare variazione di orecchiabilità, senza mai sfociare in quell'essere ruffiani di molte band moderne. Interessante è oltretutto l'intermezzo, verso i tre minuti, fra il prog e il jazz-fusion condotto dalla chitarra. Shattered Down Un momento evocativo, riflessivo è alla base di questa quarta traccia, che si dimostrerà meno sfrenata delle precedenti; una breve pausa per l'udito dell'ascoltatore. Da sottolineare però che non si tratta di una ballad, anzi, è graffiante pezzo cadenzato che introduce un lato alternativo dei Logical Terror. Potremmo dire che è il classico brano adatto alla

Ashes Of Fate track by track di Stefano Giorgianni

ESCLUSIVA

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rotazione in radio, adatto a tutti i tipi di audience, sicuramente mainstream. Ashes Of Fate Ecco arrivare la title-track, solitamente uno dei pezzi più attesi degli album e qui troviamo come ospite Jon Howard dei canadesi Threat Signal. Un pezzo metalcore in tutto e per tutto, velocissimo, senza ritegno, potremmo anche azzardare una sottile contaminazione di tardo-hardcore come gli Hatebreed. Dopo quaranta secondi il ritmo si spezza e si orienta maggiormente verso un death metal melodico con un chorus ammiccante e una sezione ritmica di sottofondo che miete vittime. È ovviamente John Howard il valore aggiunto di questa traccia e i Logical Terror lo sfruttano al meglio. Darkest Night L'atmosfera che ricamano i modenesi all'inizio è oscura, sembra quasi instaurarsi da un fumetto, piovosa, rugginosa. Anche qui il combo dispone accurata-

mente gli intervalli fra quiete e tempesta attraverso l'alternanza degli stili vocali, quasi fossimo nel mezzo di un temporale e i musicisti fossero coloro che decidono quando dispensare tuoni, lampi e fulmini. Un riff che ricorda il nu-metal dei primi 2000 rompe il copione della canzone intorno ai due minuti. Originale! The Long Descent Nuova linea di chitarra ad inaugurare il pezzo che si rivelerà un bel misto fra metalcore e melodic death, dove ad avere la meglio è la martellante sezione ritmica, una discesa negli inferi interrotta solamente dal chorus trascinante e che rimane facilmente impresso nella mente dell'ascoltatore. Ottimo è l'energico stacco sulla metà del brano, in classico stile Soilwork, e l'assolo imbastito su linee classiche. Another Day Gone La penultima traccia si lega quasi alla perfezione con la precedente. Un death

metal melodico d'ispirazione scandinava, quasi riconducibile ai mitologici In Flames, è alla base del pezzo, se non fosse per la, potremmo dire usuale, trasformazione che i Logical Terror attuano alle loro composizioni. Intorno al minuto e mezzo si può difatti apprezzare un cambio di ritmo molto vicino all'alternative, addirittura rock, per poi re-intraprendere il cammino sospeso in precedenza. Rivoluzionata! Coming Undone Era d'obbligo chiudere un disco vario come 'Ashes Of Fate' con una semi-ballad. Una linea di chitarra acustica coadiuvata dalle percussioni e da una voce delicata aprono il pezzo, anche in questo caso c'è una velata ombra degli (ultimi) In Flames, nonostante un approccio molto modern metal che rievoca diversi nomi attualmente in voga. Le distorsioni tenui e la giusta aggresività di 'Coming Undone' chiudono un disco che potrebbe piazzarsi nella top10 dei dischi italiani dell'anno.

Il Video di 'Ashes Of Fate" Pubblicato in anteprima esclusiva per l’Italia su Metal Hammer lo scorso novembre, potete qui rivedere il video della title-track con ospite Jon Howard (Treat Signal).

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MASTER OF PUPPETS di Marco “Marek” Palmacci “Master of Puppets ha sicuramente cambiato la mia vita, posso giurarlo. Avevo quattordici anni, quando uscì: ricordo che mi recai da ‘Walmart’ e.. ne rubai una copia in cassetta! Ho fregato Lars Ulrich prima di ‘Napster’! Scusami Lars.. ti voglio bene, ma amavo ed amo quel disco!”. Parole di un certo peso, rilasciate dal batterista Jeremy Spencer; membro storico dei Five Finger Death Punch, gruppo attivo da undici anni e fra i più rappresentativi della prima decade di questo nuovo millennio. Parole colme di nostalgia, simpatiche a tratti ma velate di un rispetto totale ed incondizionato, rivolte ad uno dei dischi maggiormente rappresentativi dell’intero movimento Metal. Passato, presente e futuro. Dichiarazioni alle quali fanno eco quelle di Clint Lowery, chitarrista membro dei Sevendust. Più esperti e navigati dei ..Death Punch, attivi sin dal 1994. “Un disco pionieristico. Ricordo che, quando ero un ragazzino, ‘Master of Puppets’ veniva sparato a tutto volume in qualsiasi festa io mi trovassi. Era in ogni stereo, tutti quanti lo ascoltavano!”. Entusiasta quanto

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il suo collega Jeremy, Clint ricorda dunque quanto il masterpiece dei ‘tallica fosse arrivato praticamente a chiunque, facendo breccia in ogni tipo di cuore. E non è un caso che le due citazioni d’apertura giungano da due musicisti non certo appartenenti ad un filone che (almeno oggi) definiremmo come “classic Heavy Metal”. Five Finger Death Punch e Sevendust sono infatti assimilabili alla corrente (cosiddetta) alternative, cioè quel tipo di Metal

fortemente influenzato dalla rivoluzione musicale dei ’90, giunto di conseguenza ad inglobare in esso stilemi tipici di molte e distinte correnti musicali. Un modo di concepire il Metal assai distante dal mood tipico degli ’80. Eppure, “Master Of Puppets” costituisce in questo caso un ponte d’oro, un tramite di vitale importanza.. un simbolo, capace di accomunare fra di loro musicisti anche molto diversi -per stile ed attitudinedai Metallica o dai gruppi contemporanei ai Four Horsemen. Diversi

Master of Puppets ha sicuramente cambiato la mia vita

-Jeremy Spencer

Five Finger Death Punch

ma non lontani anni luce, dato si che, rielaborando un noto proverbio, “tutte le strade” sembrano (effettivamente) portare al Burattinaio più famoso della Storia. Quel disco realizzato trent’anni fa, marchiato a fuoco nel cuore e nell’anima di musicisti anche giovani ed attuali. Del resto, provato e comprovato il clamore che “Master..” esercitò sulla sua contemporaneità, quella degli eighties, non ci si poteva certo aspettare un’onda destinata a scemare pian piano. Dagli “addetti ai lavori” ai neofiti, da chi mangiava pane e Metal sin dai primi ’80 a chi, proprio nel 1986, aveva appena cominciato a muovere i suoi primi passi nel mondo dell’acciaio pesante.. tutti amarono indistintamente quel disco. Senza eccezioni, proprio tutti. Se al compianto Cliff, se a James, Kirk e Lars avessero detto che, a distanza di più di vent’anni, intere generazioni di Metalheads avrebbero ricordato con le lacrime agli occhi un loro album, probabilmente non avrebbero creduto al loro interlocutore. Perché a parte le velleità “imprenditoriali” di Lars e la generale intraprendenza del


combo, i Metallica erano prima di tutto dei ragazzi amanti della birra e della buona musica. Un unicum reso assai migliore dalla compagnia degli amici. Sicuramente, avrebbero consacrato una pinta di Budweiser a chiunque avesse pronunciato loro un augurio di lunga e prospera carriera.. ma nulla di più. Del resto, le parole di Kirk furono abbastanza chiare sin da subito: “volevamo solo realizzare un altro disco.. non pensavamo che sarebbe divenuto così importante!”. Ed invece, eccoci qui; nel 2016, intenti a celebrare il trentennale di una colonna portante del nostro mondo, una delle uscite discografiche che per prime avrebbe concesso al mondo Metal di venire prepotentemente fuori dal proverbiale “guscio”. Di mostrare a tutti un nuovo mondo, un immaginario differente da quello proprio delle classifiche di vendita. Un disco che avrebbe svelato al grande pubblico quel sottobosco da tutti considerato “maledetto”, che avrebbe permesso al mondo Metal di sfavillare fiero e stoico al centro della piazza, circondato dallo stupore generale. Un album che avrebbe messo d’accordo tutti. Alzi la mano chiunque avrebbe il coraggio di negare certi meriti a “Master of Puppets”, all’unanimità riconosciuto come il capolavoro della discografia dei Metallica e, soprattutto, come uno dei primi veri trionfi del metallo pesante a

livello globale; giunto dopo una lunga serie di mutamenti e mutuato attraverso la voglia di migliorarsi, sempre e costantemente. Condizionato dal piglio proprio di un gruppo desideroso di crescere senza mai adagiarsi su di alcun alloro. “Master of Puppets”: l’apogeo, il coronamento di una carriera cominciata nel 1981 e giunta sino a quel 1986; l’anno del primo, vero, grandissimo trionfo dei Metallica. Il percorso che portò alla nascita del Burattinaio, c’è da dirlo, fu

sicuramente capacissimo di lasciar presagire a tutto l’ensemble (fan, discografici ecc.) che prima o dopo, qualcosa di grandioso, sarebbe effettivamente accaduto. Era cominciato tutto con il

viscerale ed aggressivo “Kill ‘em All”, seguito a ruota dal ragionato “Ride The Lightning”, disco il quale ci mostrò un gruppo in salute ma non più totalmente incline alla devastazione senza quartiere. “Ride..” ebbe difatti il grandissimo merito di presentarci i Metallica sotto un’importantissima veste, quella di musicisti certamente estremi ed irruenti, ma anche volenterosi di progredire, di non fossilizzarsi su di

un unico stilema. Un disco, “Ride..”, forgiato da un notevole gusto per la melodia e da passaggi ben più complessi ed ispirati. “Master Of Puppets”, il mondo ne fu testimone, fu di conseguenza il perfetto bilanciamento delle due anime

mostrate nei primi due dischi. Velocità e tecnica, amore per i colpi diretti ma anche per passaggi melodici e complessi. Un album che dunque lanciò la band nell’Olimpo della storia della musica. Dapprima per il suo successo commerciale, ed in seguito anche perché fu il primo disco della band a non veder più aleggiare su di esso lo spettro di Dave Mustaine. Il rosso e

talentuoso musicista (nel 1986 balzato anch’egli agli onori della cronaca grazie all’uscita del must “Peace Sells.. but who’s Buying?”), infatti, fece parte dei Metallica seppur per poco tempo; tanto bastò, comunque, per traghettare il gruppo verso lidi musicali che altrimenti sarebbero rimasti

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inesplorati. Il suo estro compositivo, la sua genialità, il suo approccio violento ma tecnico sulla sei corde.. un mix letale, che fece sicuramente in modo di ispirare Hetfield e Ulrich, i quali poterono attingere da Mustaine sviluppando diverse idee che vennero in seguito concretizzate anche senza la sua presenza nella band. Dave venne infatti cacciato dai Metallica, una “defenestrazione” che diede il via ad una delle diatribe più clamorose della storia del Metal. Mustaine, difatti, iniziò senza mezzi termini ad accusare i suoi colleghi di campare di rendita: il successo ottenuto con “Kill ‘em All” e “Ride The Lightning”, stando alle sue dichiarazioni dell’epoca, era merito suo nonché del suo estro compositivo. E Kirk Hammett, stando sempre alle parole al vetriolo di Dave, altro non era che un prestanome. Quei soli, quei riff.. molto del materiale proposto era 100% made in Mustaine. Ben si può capire quanto, per i giovani Metallica, quella situazione fosse stata sicuramente difficile da sopportare. Non ci è dato sapere se tutto questo comportò da parte del combo un impegno maggiore, o comunque funse da “molla”, da input definitivo per la creazione del loro capolavoro; sta di fatto che il successo planetario del gruppo di Los

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Pensai subito che mi sarebbe piaciuto essere l'ideatore di quel riff

-Kerry King Slayer

Angeles arrivò definitivamente con “Master Of Puppets”, il quale non vedeva comparire (in alcun modo o maniera) il nome di Dave Mustaine, se non tramite sterili polemiche presto spente (l’ammissione da parte di Hetfield che in “Leper Messiah” fosse presente qualche vecchissimo spunto “mustainiano”, ma nulla di più). I dubbi circa le reali potenzialità di James, Cliff, Lars e Kirk vennero dunque

diradati mediante la pubblicazione del masterpiece. I Four Horsemen dimostrarono subito quanto le loro doti fossero autentiche e squisitamente frutto del duro lavoro, della costanza, della pazienza e dell’incontenibile passione che nutrivano per il loro genere musicale. Per il quale e per la cui affermazione si stavano battendo come leoni. I numeri parlarono chiaro sin da subito: oltre ad

essere stato il primo album dei Metallica prodotto da una major (per la precisione l’ “Elektra Records”), fu contemporaneamente il primo disco Thrash Metal ad essere certificato dapprima disco d’oro ed in seguito disco di platino, fra le massime onorificenze concesse dall’industria discografica. Sei milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti, posizione 29 nella “Billboard 200” raggiunta in men che non si dica, un successo a dir poco plebiscitario capace di far scoppiare un’autentica “Metallica Mania”. Articoli, recensioni entusiaste, un successo senza quartiere; possiamo citare in tal senso le parole spese da Sue Cummings, giornalista all’epoca dei fatti in forze nella scuderia di “Spin”, noto magazine musicale e per un periodo diretto concorrente di “Rolling Stone”. La donna realizzò, per il numero di Agosto ’86 di “Spin”, un’esaustiva intervista / panoramica circa la carriera dei Nostri, soffermandosi particolarmente sul successo del loro terzo disco, tessendone le lodi in maniera certamente non velata: “E quindi, ‘Master of Puppets’ ha raggiunto l’oro. Il primo disco del suo genere a raggiungere questo obbiettivo! I metallari che seguono i Metallica sin dagli inizi, e che tutt’oggi non si perdono un loro concerto,


vedono tutto questo come una grande vittoria. Quella dei Metallica è musica giovane, realizzata da giovani per i giovani. Sono rimasti fedeli alla loro attitudine, lontana da quella accettata da MTV e per nulla AOR (genere di rock assai melodico ed orecchiabile, ndr). Hanno costruito una grande carriera prendendo le loro decisioni personalmente, mantenendo la loro integrità”. Non da meno furono i colleghi dei Four Horsemen, anch’essi prodighi di elogi e parole pregne di sincera ammirazione. Una manciata di anni fa, l’orgoglioso Kerry King non si trattenne certo dal considerare (anche alla luce del presente) “Master..” come un’autentica pietra miliare, dichiarando con oggettività e signorile compostezza quanto, effettivamente, il disco abbia suscitato un notevole ascendente sulla sua persona: “Senza ombra di dubbio, la mia canzone preferita dei Metallica è ‘Damage Inc.’, tratta da ‘Master of Puppets’. Mi ricordo quando il disco venne pubblicato ed io la ascoltai.. pensai subito

che mi sarebbe piaciuto essere l’ideatore di quel riff!!! Anche ‘Battery’ mi piace molto. Adoro quando James fa la sua comparsa, iniziando a cantare, sparando fuori le parole del testo!! Non c’è nulla di meglio.. è meraviglioso!!”. Queste le parole del nerboruto chitarrista, rilasciate per un’intervista apparsa in seguito su “Revolver”. Non meno coinvolti dalla roboante eco di “Master..” furono in seguito gli Anthrax, i quali tributarono anch’essi, ed a modo loro, il colossale album dei Four Horsemen. Basta ascoltare la loro pazza hit “I’m The Man”, per rendersene conto. Minuto 1:55 circa, e non serve aggiungere altro. E non è certo finita qui: leggenda vuole, che durante un programma radiofonico andato in onda per una radio texana, il compianto Dimebag Darrell avesse omaggiato il disco pro-

ponendo in diretta una sua versione del

mitico riff della titletrack, sotto richiesta di un ascoltatore. Un disco, “Master of Puppets”, divenuto famoso anche e soprattutto per due nomi che hanno gravitato attorno ad esso. Uno in maniera concreta, l’altro in maniera “velata”. Non è (tutt’oggi) un segreto il fatto che Kirk Hammett si rivolse nientemeno che a Joe Satriani per affinare le sue abilità in fase di registrazione delle parti di chitarra; come, altresì, non è vicenda sconosciuta il fatto che il produttore originale sarebbe dovuto essere il sempiterno Geddy Lee, master mind dei Rush e fra le personalità di spicco della storia del Prog. Rock. Stando alle dichiarazioni rilasciate dal buon Geddy per “Noisey”, ci sarebbe stato qualche scambio di parole, ma nulla più: “Posso dire che si, è quasi vero.. parlai un po’ con Lars,

cira la possibilità di collaborare. Lo incontrai in Inghilterra, ero amico del loro management. Successe poco prima che realizzassero ‘Master..’. Ma erano solo parole, non se ne fece nulla. Ricordo però che li vidi a Toronto, con il loro bassista originale. E mi piacquero un sacco”. Vista l’impossibilità di avere Geddy alla consolle, il disco si rivelò dunque il secondo album dei Metallica prodotto dal “pigmalione” Flemming Rasmussen, il cui lavoro venne molto apprezzato già in “Ride The Lightning”. Per la registrazione, quindi, i Four Horsemen decisero di volare nuovamente in Danimarca, raggiungendo la capitale Copenhagen, accasandosi presso i già noti “Sweet Silence Studio” del buon Flem. Il quale ben apprezzò il “perfezionismo” adottato dai suoi amici, volenterosi di fare in modo che il tutto risultasse preciso al millimetro, senza sbagliare nemmeno virgola. Del resto, per realizzare “Master of


Puppets”, i Metallica tradirono persino il loro credo nell’alcool, dichiarando d’esser stati completamente sobri durante tutto il processo di lavorazione del disco. Perfezionismo che sfociò anche nella volontà di affidarsi alla professionalità dell’amburghese Michael Wagener, il quale curò in via definitiva il mixing finale del masterpiece. Anche la scelta degli strumenti si rivelò particolarmente accurata e quasi scientifica: non molti sanno che, addirittura, Lars Ulrich decise di utilizzare un “S.L.P. Black Brass” griffato “Tama”, rullante preso in prestito nientemeno che da Rick Allen dei Def Leppard. La prova del nove circa la buona riuscita del disco, comunque, si ebbe quando la band venne chiamata a promuoverlo / diffonderlo; un album che venne, piuttosto che dalla pubblicazione di singoli o di videoclip, spinto da un’intensa attività live. Da Marzo ad Agosto dell’86 i Metallica ebbero l’occasione di dividere il palcoscenico nientemeno che con il leggendario Ozzy Osbourne,

Parlai un po’ con Lars, circa la possibilita di collaborare

-Geddy Lee Rush

all’epoca ex leader dei Black Sabbath. Suonare con un nome altisonante significò essere presenti in arene dalla grande capienza, e ciò permise ai Metallica di diffondere le loro nuove hit presso un pubblico numerosissimo. Canzoni che vennero accolte da un

e La gent che eraper venuta Ozzy sentirea andava casa dosi n e r p o c s fan dei ca Metalli

rich l U s r a -L a etallic M

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tripudio di fan adoranti e soprattutto risultarono ben accette anche da chi ancora non conosceva bene la band di Los Angeles. “La gente che era venuta per sentire Ozzy andava a casa scoprendosi fan dei Metallica!”, dichiarazione di Lars Ulrich perfettamente calzante e compendiante il grande successo che questo disco stava ottenendo. Uno stato di forma strepitoso, tristemente ed ingiustamente stroncato dalla tragica fatalità. Oltre che per i dischi d’oro e di platino, oltre che per i concerti nelle arene, oltre che per tutta una serie di motivi qui elencati, “Master of Puppets” passò tristemente alla storia anche per esser stato l’ultimo disco nel quale Cliff Burton avrebbe suonato, dato si che il bassista perì in un terribile incidente stradale avvenuto in Svezia. I Four Horsemen vennero infatti contattati per una tournee svedese sempre nel 1986, in virtù del grande successo ottenuto da “Master..” anche nel vecchio continente. Durante un viaggio notturno, il loro tour bus sbandò pericolosamente e l’autista perse il controllo del mezzo. Cliff, che aveva ottenuto il diritto di dormire accanto al finestrino (dopo aver vinto questa possibilità

in una partita a carte contro Hetfield), morì orribilmente schiacciato dall’autobus, quando esso si rovesciò. Gli altri, autista compreso, se la cavarono con poche escoriazioni. Non è mai stato chiaro se fosse stata colpa del ghiaccio o del fatto che l’autista fosse ubriaco. L’unica, amara certezza, è Cliff non è più con noi. Se da lassù ci guardi, se ancora vegli silenzioso sui suoi amici, non potremo mai saperlo.. sta di fatto che lui, così come i suoi compagni, in quel 1986 hanno regalato a tutti noi un sogno. Quello di poter riuscire arrivare lontano, di realizzare i propri desideri. Perché cosa c’è, dietro “Master of Puppets”, se non fiumi di rovente ed elettrica passione? Quella vera, sincera, genuina. Quella che ti fa vedere svariate situazioni con occhi differenti da quelli dalla massa, quella che rende un portone dorato ciò che i “normali” percepiscono solamente come una crepa stretta ed angusta. Cliff, Lars, James e Kirk, con la spensieratezza tipica della gioventù e la tenacia di autentici veterani, ebbero la possibilità di varcare quella soglia, percorrendo umilmente e con foga ogni gradino di quella lunga ed impervia scala che porta al successo. Che poi Burton abbia dovuto, per forza di cose, riprendere il suo cammino lungo la Stairway To Heaven, poco importa. Egli è ancora vivo. Nel cuore di tutti noi, quel cuore che ancora oggi riesce a vedere “Master of Puppets” per quel che veramente è stato, è e per sempre sarà: la vittoria della Passione sul Business, la definitiva consacrazione di un gruppo di amici partiti da una cantina e finiti, nell’arco di pochi anni, ad intrattenere intere arene a suon di Metal. Chi di voi non ha mai sognato di essere lì, su quel palco, un giorno? Forse, il più grande merito dei Metallica è stato proprio questo: averci dimostrato come, in effetti, tutto sia possibile. Se si è disposti a crederci fino alla fine, naturalmente.


MurderArt analisi degli artwork

Master of Puppets Un aspetto peculiare del terzo album dei Metallica, Master of Puppets, è dato dal fatto che l’evoluzione musicale che esso sottintende vada di pari passo con l’assimilazione di determinati canoni estetici, degnamente rappresentati nella sua immagine di copertina. Così come la musica dei Metallica è, di fatto, la rielaborazione (ed il superamento) in chiave americana di un certo hard rock britannico, con Mothörhead, Deep Purple e Balck Sabbath in testa, anche la cover art di Master of Puppets è inquadrabile in un connubio tra stilemi contemporanei europei ed americani. Tale connubio riguarda sia l’aspetto concettuale, dato dal soggetto, sia quello stilistico, ben più complesso e ricercato di quanto non sembri. La copertina di Master of Puppets nasce da un’idea dei Metallica stessi e del manager Peter Mensch, ma la sua realizzazione deriva dalla rielaborazione, soprattutto in chiave cromatica, dell’illustratore americano Don Brautigam, famoso per le sue collaborazioni con band come Anthrax, AC/ DC e Rolling Stones, ma anche multinazionali come la Pepsi e scrittori del calibro di Stephen King. La iniziali di Brautigam sono ravvisabili sull’angolo in basso a destra dell’opera da lui realizzata per i Metallica, “adagiate” su di un prato dai toni smorti e marroncini. Sul prato in questione poggia una distesa interminabile di croci bianche e squadrate, poste in contrapposizione ad un plumbeo cielo rosso sul quale svetta il nome della band. Agli angoli di quel cielo innaturalmente rosso è possi-

bile notare due grandi mani del medesimo colore, dalle cui dita discendono bianchi fili da burattinaio direttamente sulla distesa di tombe. Nello stile e nei colori di Brautigam, così come nella scelta del soggetto ideato dai Metallica stessi, è identificabile tanto l’influsso dell’arte povera europea, quanto quello del minimalismo americano. Per restare in casa nostra basti pensare alle installazioni di Alberto Burri, caratterizzate proprio dall’uso di forti contrasti, rossi accesi stemperati da neri e marroni; oppure a l l e o p e re del greco Ja n n i s Kounellis, caratterizzate da una certa monocromia ma anche da una predisposizione alla ripetizione sistematica di uno stesso soggetto, proprio come le croci di Master of Puppets. Tale ripetizione, tra l’altro, è ciò che lega l’arte povera al minimalismo statunitense, la cui matrice intrinseca, sulla copertina dei Metallica, è ravvisabile nella sintesi di dettagli e particolari che include anche la netta colorazione del soggetto. Un esempio di tale influsso culturale è l’opera

dell’americano Carl Andre, le cui sculture squadrate e granitiche, prive di fronzoli e sistematicamente “clonate” sullo scenario dell’esposizione, ricordano da vicino lo stile optato da Hetfield e Brautigam. Quanto alla matrice concettuale e politica del soggetto, l’origine culturale è antica e radicata. Innanzitutto vi è, come è ovvio, il teatro dei burattini, che nel novecento si era già evoluto in chiave sociale e metaforica grazie a maestri come Tadeusz Kantor, in Europa, e c e n tri di cultura come il Bread a n d Puppet Theatre, negli Stati Uniti. A l t ra notevole influenza è quella dell’itali a n o Collodi, la cui opera prima, Pinocchio, già di per se utilizza il tema dei burattini – quindi del burattinaio – in termini metaforici, sociali e politici. Master of Puppets non si limita, tuttavia, ad una semplice riproposizione delle metafore del Collodi o di astratte tematiche sociali, né ad essere un ponte tra tendenze stilistiche europee e statunitensi, ma diventa bensì specchio dell’attualità sociale americana (o perlomeno di ciò che nell’86 era attualità), parlando di una problematica allora

di Andrea Ortu

come oggi assai concreta e diffusa: la droga. In particolare: la cocaina. Mentre da noi, in Italia, a metà degli anni ’80 la droga “popolare” era ancora l’eroina, negli Stati Uniti ed in generale sull’intero continente americano andava spopolando da quasi dieci anni la cocaina, la cui proliferazione aveva fatto sì che essa compiesse il passaggio da “droga per ricchi” a “droga per tutti”, divenendo un vero e proprio flagello sociale. È proprio la dipendenza dalla droga, con tutte le sue inevitabili conseguenze, il tema principale della title track di Master of Puppets e, di conseguenza, della sua cover art. Si evince dunque che le mani che reggono i fili appartengono agli spacciatori, e che le croci rappresentano coloro che, abusando della droga, hanno perso la vita. L’attinenza tra il burattinaio, normalmente usato come metafora politica, e la droga, non è casuale. Nell’anno in cui uscì l’album dei Metallica, i baroni della cocaina, primo tra tutti il colombiano Pablo Escobar, venivano annoverati tra gli uomini più ricchi del mondo, e detenevano un potere immenso non solo nei loro paesi d’origine, ma anche negli Stati Uniti, fisiologicamente designati ad essere il principale mercato della cocaina. Gli uomini politici, i padroni delle multinazionali ed i baroni della droga diventano perciò non solo figure assimilabili tra loro, ma addirittura indistinguibili, rendendo Master of Puppets una consacrazione della vena anarchica dei primi Metallica e, contemporaneamente, del disagio sociale ed esistenziale che ne caratterizzava la poetica.

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Ihsahn ha sempre ha abbattuto i preconcetti assegnati alla musica Metal e non solo musicalmente. Chi in lui ricorda il proclamato satanista degli anni Novanta, sarebbe scioccato difronte alla realtà di questo compositore di quarant’anni. Ihsahn è lontano anni luce dal ventenne che fu, oggi chi ha la fortuna di incontrarlo si rende conto di avere di fronte un animo ed estremamente sensibile. Nel 2012 mi ritrovai a intervistarlo per la prima volta e rimasi sconcertata difronte a un artista visibilmente emozionato quando, ad esempio spiegava che alla fine Nietzsche, il filosofo dal volto allucinato, aveva un animo dolce ed era un artista. Forse gli occhi lucidi erano il risultato di uno rispecchiarsi nella dualità e incomprensione di cui Nietzsche fu tristemente vittima. Come Nietzsche insegna, “dal caos nace la bellezza” e dai tragici fatti e controversie degli anni Novanta Ihsahn è esplo-

so nello splendore di sei abum solisti che l`hanno portato a essere riconosciuto come un compositore sublime. “Arktis”, continua a confondere le regole del gioco, e di certo fan e non solo resteranno a bocca aperta innanzi alla direzione segnata da questa nuova perla. L’album si pone in posizione direttamente opposta al suo criptico predecessore ‘Das Seelenbrechen’ e va alla ricerca della scrittura più semplice. Il suo obiettivo era scrivere all’interno di strutture più tradizionali, dando comunque a ogni canzone una forte identità individuale. Ihsahn gioca con cori che ritornano, e va alla ricerca del buon vecchio riff. Premesso tutto questo non aspettatevi un album senza sorprese, capitomboli e meno ispirato. Composizione, letteralmente pianificate dall`estroso Ihsahn che svela ”Per ogni album io scrivo un framework, pianifico una struttura per

avere delle linee guida per me stesso, dove delineo cosa voglio per questo nuovo lavoro. Ed esempio per ‘Das Seelenbrechen’ avevo delineato molta improvvisazione, perché volevo un lavoro basato sulla estemporaneità. Per questo nuovo lavoro invece ho voluto lavorare sull’artigianalità della scrittura musicale andando alla base e approcciando il lavoro in maniera pop rock”. I fan hanno potuto ascoltare già il primo pezzo estrapolato da “Arktis” ‘Mass Darkness’, il quale dimostra davvero a cosa Ihsahn si riferisce quando parla di riandare a riscoprire il riff, e una struttura più semplice. Un pezzo che sorprenderà i fan, i quali ascolteranno una composizione che strizza l’occhio al più puro heavy metal con momenti alla Halloween, a riguardo Ihsahn commenta “Sono cresciuto negli anni Ottanta e ho sempre ammirato band quali Priest e Maiden per la struttura mu-

sicale semplice di verso, coro ponte. Anche nella musica pop il tutto ha una struttura e idea semplice ma la sfida è rendere quella forma interessante scegliendo cosa mettere in quella struttura. Per quest’album ho voluto creare ogni pezzo partendo da un’idea davvero chiara”. La differenza di base tra quest’album e i suoi precedenti sta nel costruire ogni canzone partendo da un singolo elemento e costruendo tutto intorno a quel singolo elemento, invece di mettere tantissimi elementi insieme e cercare di fargli star bene insieme. Ihsahn ci spiega che ad esempio “con il pezzo ‘South Winds’ la prima cosa dalla quale sono partito è la linea di basso, e quindi ho costruito il tutto intorno a esso. Per Until I Too Dissolve l`idea portante è il riff di chitarra anni ‘80 e da li ho creato il tutto”. Naturalmente questo artista non fa le cose più facili senza

Esploratore di nuovi territori di Paky Orrasi

Vegard Sverre Tveitan, conosciuto come Ihsahn, ha prima ridefinito il black metal con i leggendari Emperor e affermandosi in seguito come solista, confermandosi come uno dei compositori maggiormente estrosi, imprevedibili e raffinati nel Metal. Al microfono stupisce per essere umilissimo e sempre di buon umore. Anche questa volta disponibile a rispondere alle nostre domande riguardo ‘Arktis’, il suo nuovo singolare album.

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speciale prog nel grande schema dell`universo è insignificante, eppure così prezioso per noi, che abbiamo la possibilità di dargli un significato e una grande importanza con le vostre esperienze. Il nostro tempo non deve essere preso per scontato.” Ihsahn è un maestro nel dare così tanta profondità a ogni suo lavoro, mai nulla è scontato, mai nulla è li per caso. E lui non era il solo stregone di suoni a lavorare su quest’album, sul modello di “dio li fa e poi l’accoppia” Jens Bogren ha effettuato il mix. E cosa vi aspettate da un duo del genere? Hanno già lavorato insieme in passato e il risultato è stato ottimo. Jens è conosciuto nell’ambiente grazie al suo unico talento e stile. In quest’album ha reso ogni suono tagliente, dato quasi la sensazione di una tempesta di neve che ti taglia la pelle

un motivo, ritornare al cuore della scrittura musicale, ricercare la semplicità è una sfida per colui che non si è nutrito di cose semplici. Con gli Emperor, naturalmente, la composizione si teneva ben lontana dalla linearità e lo stesso è avvenuto col il suo progetto solista, nelle sue precedenti composizioni, molte volte enigmatiche, non sempre potevamo capire se egli avesse raggiunto quello che ricercava, mentre ora come dice lui stesso “il 95% della musica è fatta seguendo questa formula, le persone han così tante referenze e quindi ho dovuto sforzarmi e rendere questi tre quattro minuti importanti e interessanti. Questa è stata la mia sfida! Avevo davvero voglia di comporre qualcosa più corporeo, che ti spinga a muoverti e che ti catturi”. Sebbene Ihsahn abbia detto che era da tantissimo tempo che non si divertiva talmente tanto nello scrivere un album, questo lavoro non è divertente. In esso ritrovate tutta l’influenza filosofica, emotiva e sensibile dell’artista,

mentre, barcollando, cerchi di camminare. Sul genio targato Bogren Ihsahn commenta “è un privilegio lavorare con lui, quando iniziammo a lavorare insieme, per il mio terzo album, lo contattai perché amavo il suo lavoro con gli Opeth, ad esempio. Persino nel mio precedente album ‘Das Seelenbrechen’, un disco pazzo e stranissimo lui riuscì a fare un lavoro di mixer assurdo. Ora abbiamo così tanta esperienza l’uno dell’altro e la nostra comunicazione musicale funziona benissimo”. Parlando di Mr. Bogren posso darvi una piccola curiosità: Ihsahn ama il sassofono, mentre Jens non ci trovava nulla di attraente, tuttavia alla fine Ihsahn ha vinto e ha portato Bogren a apprezzare questo strumento, che tra l’altro ritorna in questo album. Ihsahn è riuscito ancora una volta a vincere la sua sfida, andando in territori da lui mai toccati, proprio come un esploratore davanti a un territorio affascinante ma dualmente pericoloso.

tuttavia credo che questa volta sia più immediata. Nel disco vi sono gli elementi tipici del suo mondo come dubbio, inettitudine, disperazione e frustrazione, tuttavia celebra la curiosità. Mi sono chiesta come la curiosità, un sentimento che è proiettato nel futuro, nella speranza, nella certezza di una risoluzione possa uscir fuori dalla disperazione e il nostro bardo Ihsahn spiega “Possono coesistere perché è tutto basato sulla dualità che risiede in ogni cosa. Prendi la parte visuale del lavoro, ispirata a Fridtjof Nansen, l`esploratore norvegese che viaggiò nel polo nord nel 1800, li vi è da una parte la lotta per sopravvivere dall`altra questo immenso universo con tutta ostilità. In questo il paradosso che qualcosa possa esistere in quelle condizioni. Da vedere è un paesaggio mozzafiato, uno dei miei preferiti, tuttavia è così sfavorevole agli esseri umani. Inoltre un altro paradosso a cui penso molto è il tempo. Il nostro tempo

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QUANDO SI PARLA DI PROGRESSIVE, UN NOME SPUNTA IN CONTINUAZIONE: JENS BOGREN, UNO DEI PIÙ RISPETTATI INGEGNERI, PRODUTTORI E MIXER. TANTI TRA I MIGLIORI ALBUM SFORNATI NEGLI ULTIMI 13 ANNI HANNO LA SUA FIRMA.

JENS BOGREN

ESCLUSIVA

di Paky Orrasi

Nella mente dell’artefice Oscurati dalla gloria che giustamente va ai musicisti, i produttori sono spesso trascurati e non esaltati come dovrebbero. Tuttavia, sono loro ad avere gran parte del destino di un album nelle mani. Come le leggende arturiane non sarebbero state le stesse senza Merlino, ‘Master of Puppets’ sarebbe diverso senza a Flemming Rasmussen. Tra i produttori moderni più interessanti vi è sicuramente Jens Bogren, nella sua discografia vi sono album che non solo hanno segnato capitoli della evoluzione metal moderno ma sono tra i più interessanti lavori di questo millennio.

masterizzazione del loro nuovo he ‘The Fall of Hearts’ “Loro sono un delle poche band che ha sopravvissuto alla transizione da Death Metal a un suono più moderno basato sulle tastiere”, spiega Bogren “se guardiamo ai Paradise Lost loro ci provarono con ‘One Second’ e ‘Host’ e ancora oggi vengono criticati per quei lavori. Il loro nuovo album è davvero ottimo e spero piaccia.”. Bogren oggi è un produttore che sebbene abbia lavorato con tantissime band diverse si ritrova ad essere amatissimo dai fan del post prog, e quindi ad esso legato “sia una coincidenza che una passione, perché sono

I FASCINATION STUDIOS SONO STATI APERTI NEL NOVEMBRE DEL 2001 Lo svedese Jens Bogren iniziò il suo viaggio tra i suoni alternativi come chitarrista in varie band, ad esempio Elusive Cure, una band che si rifaceva ai suoni goth dei Paradise Lost e progressive alla Dream Theater. Tuttavia la sua passione era nella creazione e miscelazione di suoni, finita la scuola nel 98 nel 2001 iniziò il vero viaggio con il suo studio Fascination Street Studios. Uno dei suoi primi lavori fu ‘Viva Emptiness’ dei Katatonia, con loro ho una lunga storia, difatti ha lavorato anche al mixaggio e

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cresciuto ascoltando band come i Dream Theater, Camel, Pink Floyd, Jethro Tul, Pain Of Salvation, Flower Kings, ma avevo anche una vena goth con Sisters of Mercy, quindi direi che Prog e Goth sono i generi con i quali mi sono formato.”. Se siete appassionati del genere Jens ha uno stile riconoscibile che ha sviluppato come molti dal cercare di ricopiare il suono dei suoi album preferiti, come ‘Draconian Times’ dei Paradise Lost “negli ultimi undici anni invece non ho riferimenti, ogni volta è

una battaglia. Ritorno più volte sul sound provando vari suoni di chitarra o batteria, fino a quando riesco a creare qualcosa che si adatta alla band; ora non posso più pensare che questo è il meglio che posso fare perché non ho quella specifica console , non funziona più. Nel mixing è diverso, dipende dalla band e quello che mi viene mandato, ma anche lì crei il tuo modo per creare il suono che vuoi e lasciare un’impronta maggiore ad esempio io ho la mia collezione di suoni di, quando creo qualcosa di interessante lo archivio così posso usarlo in futuro”. Naturalmente nel campo della produzione, oggi il tema più discusso è nastro contro Pro Tools. Bogren è un produttore sofisticato e scrupoloso, quindi sebbene dica di essere felice di essere cresciuto nell’era del nastro analogico e digitale, poiché ha imparato cosa sia la produzione, sottolinea “essendo puntiglioso i pro tools mi han reso il produttore che sono alla fine. Vedi dei produttori giovani che possono un po’ perdersi nel computer dimenticando la musica, tuttavia pro tools è uno strumento fenomenale uso ogni piccola sua sfumatura. Io faccio sempre tantissime riprese, e lavoro in un modo che col nastro sarebbe un compito lunghissimo e molto più costoso.”. Avendo lavorato su album talmente interessante Jens deve davvero pensare a quale sia il lavoro del quale va più fiero, come ci


speciale prog FASCINATION STUDIOS TOP 4

Opeth ‘Watershed’ 2008 Roadrunner Rec.

spiega il risultato finale è una cosa che dipende da tanti fattori “Sono molto orgoglioso dei lavori fatti con gli Opeth, ma lì è quasi barare in quanto sono dei musicisti talmente eccelsi che è difficile fallire. Con molte band invece ho dovuto lavorare di più per raggiungere quel risultato finale e quindi il mio impatto sull’album è stato più influente. Credo che se dovessi scegliere uno su tutti andrei su ‘The Great Cold Distance’, Katatonia. Forse perché è anche più vicino a un genere che amo.”. Uno dei progetti più complicati che sia passato tra le mani del nostro merlino dei suoni è ‘Deconstruction’ di The Devin Townsend Project. Devin è conosciuto per essere uno degli artisti che fa tutto da se, tuttavia questo particolare album era così macchinoso che persino il geniale Townsend ha dovuto chiedere aiuto “mi contattò e mi disse che doveva essere l’album più complesso mai creato…il che è magnifico che devi mixarlo, è stato il lavoro più complesso e difficile che io abbia mai fatto con una quantità di canali enorme e con la prerogativa che ogni strumento doveva essere più alto deli altri”, ci spiega divertito, “Ci lavorai due settimane e poi venne da me per una settimana per rivedere i volumi dei 250 canali e quindi avevo bisogno della sua visione. Andò tutto bene!Lui è aperto sul fatto di essere bipolare, il che vuol dire che ha i suoi giorni si e no, tuttavia nel periodo trascorso insieme era sereno. Lui è

Paradise Lost ‘Tragic Idol’ 2012 Avalon

un musicista fanstastico, volle rifare delle riprese quindi registrammo qualcosa e non ho mai visto una cosa del genere, nel momento in cui attacca ha vocalità magiche. Un lavoro duro, ma di certo una grande gioia.”. Con album talmente complessi come ‘Deconstruction’ la giusta produzione, mixaggio e masterizzazione è fondamentale, una mole di lavoro del genere viene spesso compromesso dalla nostra maniera di ascoltare la musica. Usando gli speaker di un pc avete solo l’illusione di ascoltare l’album, che inoltre compresso in mp3 perde tantissimo “è triste sicuramente, ma oggi la situazione è migliorata grazie a Apple e Spotify,

Devin Townsend ‘Deconstruction’ 2011 Century Media

Katatonia ‘Dead End Kings’ 2012 Peaceville Rec.

Non sempre un musicista riesce ad accettare un’opinione diversa”. Non dimentichiamo inoltre il lato vocale, chi produce il canto può davvero fare la differenza “ho dovuto imparare a cantare per spiegare a chi canta, ma magari è alle prime armi come cantare, non perdere il supporto e come fare un buon riscaldamento. È importante creare una buona atmosfera, ad esempio essere sicuro che non ci sia nessun altro intorno e spiengere un cantante. Dei cantanti sono fenomenali, ad esempio Fernando Ribeiro dei Moonspell, magari non il migliore tecnicamente parlando ma ha il giusto temperamento, se suggerisci qualcosa ti fa 200 riprese senza problema, ma vi sono altri devi considerarti fortunato se te ne fanno tre.”. Tuttavia oggi è più facile per

I FASCINATION STUDIOS SONO COMPOSTI DA DUE STUDI E LE BAND POSSONO RISIEDERVI DURANTE LE REGISTRAZIONI

inoltre vedo persone usare anche auricolari migliori rispetto al passato. Certo un album ascoltato su YouTube è praticamente un quinto dell’album originale, io ormai non ci penso più. Cerco di fare del mio meglio.”. Un lavoro che non è solo dietro una console, ma spesso prima di tutto nella mente di un artista, e in mondo dove si scontrano spesso ego fortissimi, il produttore deve essere anche una sorta di analista “un mio mentore disse che per 70% devi essere psicologo e 30% ingegnere”, spiega Bogren, “le persone spesso non pensano che un produttore debba avere la capacità di risolvere varie situazioni e di sapere come suggerire qualcosa, perché spesso può creare dei problemi se lavori con una band che ha idee forti.

Bogren, in quanto non è un produttore alle prime armi ma un nome con una discografia ben rispettata, quindi la sua opinione conta e viene seguita. Un curriculum che continua a crescere, tra un mese entrerà in studio con i Sepoltura. E Jens conclude questa chiacchierata dicendoci che la band più interessante con la quale ha lavorato sono gli Opeth ma la band che sta inseguendo per produrre? “Dream Theater, vorrei davvero lavorare con loro, siamo stati in trattative per i precedenti due album, sfortunatamente non è successo ma credo che per il prossimo potrei sperare”. E noi ci auguriamo di vedere questo merlino della produzione con gli Arthur del prog al più presto.

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In esilio nei paesaggi musicali di Paky Orrasi

Nella fantastica famiglia Kscope, troviamo un polistrumentista, produttore e compositore che considero un vero orgoglio italiano: Giancarlo Erra, creatore dei Nosound. Con lui abbiamo parlato della sua musica, e del significato ambiguo dell'aggettivo progressive. Essendo un’accanita ascoltatrice di band definite post progressive/post rock, molti mi chiedono di chiarire il significato del termine. Non è facile poiché trovo fastidioso imporre etichette all’arte, e credo che in tanti non reputino molte delle band definite post prog/post rock come band progressive e non han tutti i torti. Personalmente definisco artisti quali Anathema, Porcupine Tree, Lunatic Soul, Riverside o Katatonia musica concettuale, se vogliamo usare il termine post prog allora la mia personale interpretazione di questo termine è: l´espressione più artisticamente alta del rock. Un comune denominatore di queste band è la libertà del loro estro, esse modificano

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gli archetipi musicali conosciuti per istituire qualcosa di nuovo, trovano nuove chiavi d espressione e vanno dove nessuno è stato prima. Questa composizione musicale riesce a legare elementi considerati dissimili e in maniera profondamente artistica e raffinata. Su questa scia troviamo Giancarlo Erra, che reputo uno degli artisti non solo più raffinati e umili che io abbia intervistato ma anche un´eccezionale espressione del talento che i musicisti italiani possono offrire. Naturalmente Erra non ha potuto raggiungere i suoi obiettivi in Italia, e nel 2010 si è traferito in Inghilterra, una scelta voluta ma anche necessaria come lui stesso ci spiega “un

trasferiment o voluto perché comunque erano anni che lavoravo con persone in UK, sia per via d e l l a nostra casa discografica (Kscope) che per contatti artistici. Forzata perché la situazione Italiana era, per la musica ma non solo, già chiara diversi anni fa e sapevo non era la società, mentalità o paese adatti a me. Dopo quasi sei anni posso dire che è stata forse la scelta migliore della mia vita.” Difatti Erra è riuscito a trovare lì quello che in

Italia si può solo desiderare, ossia vivere d arte. Ha aperto il suo studio a Norfolk e da lì riesce anche a lavorare sulla sua band italiana, Nosound, nata per scrivere la musica che avrebbe voluto ascoltare e che negli anni si è evoluta a piccoli passi.


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Un’arte che è di certo sorprendente, e come dicevamo prima, osa e meraviglia. Uno dei loro dischi più amati è ‘Afterthough’ e musicalmente è pieno di piccoli momenti che non ti aspetti. Uno dei pezzi che ho più amato è “Wherever You Are”, Erra ci ha raccontato che quel pezzo, come la maggior parte dell’ album, è nato acustico “la parte di batteria proprio non esisteva e come spesso cerco poi di pensare cosa non mi aspetterei in un pezzo ma che mi sorprenderebbe/piacerebbe sentire se lo stessi ascoltando, e cosi quella parte di batteria è nata.” Queste piccole intuizioni musicali riescono a rendere la musica dei Nosound davvero intricante, affascinante e malinconica, in questo Erra è un mago. Credo che una dei motivi per il quale chi ama gli Anathema, ascolti Wilson, i Katatonia, Riverside, Lunatic Soul e Nosound sia la profondità degli artisti. Una profondità che spesso si svela in inquietudine, ma mai a se stessa. Erra come molti degli artisti prima citati riesce a scrivere nei momenti più tristi, mi sono chiesta se questa sia un’arma o un limite “sicuramente non un limite, rientra sempre nel discorso dei gusti ed attitudini personali” ci spiega Erra, “personalmente

quando sono felice la vita la vivo, non mi chiudo dentro ma la vivo ‘fuori’, con gli amici o con una passeggiata, un film, un libro, dedicandomi ai miei hobby, guardando il sole, il mare, la neve che cade. Mentre quando ho qualcosa che mi turba, ho bisogno di me stesso, di guardarmi dentro ed allo stesso tempo di fare un passo indietro per non essere travolto, e quindi è quando scrivo musica perché’non sono un grande comunicatore di emozioni a parole, e la musica è l’unico modo che conosco per tirare fuori da me stesso certe cose. E sono fortunato, come dico spesso, nel poter trasformare un qualcosa di ‘negativo’ tirandolo fuori da me stesso e facendolo diventare qualcosa di bello, di terapeutico per me e magari addirittura per chi ascolterà e lo condividerà’ con me attraverso le sue esperienze personali. Non riesco davvero ad immaginare nulla di piu’ profondo”. Anche questi nati da un lavoro non ortodosso e come i suoi compag-

ni d i band de s c r i v ono “prendi tutte le note in scala, un paio che stanno anche fuori e nessuno sano di mente si sognerebbe di metterci, e metticele dentro”. Erra crea i suoi soundscapes usando qualsiasi strumento in maniera non ortodossa, giudicando mai la tecnica bensì l’emozione. Sono stata sorpresa dal fatto che Erra non sia critico nei confronti del nuovo modo di promuovere musica “che sia facebook o spotify o tshirts, e’ parte del mio lavoro di artista adattarmi al mondo in cui vivo e cambiarlo da

dentro magari senza pretendere di imporre nulla.” È onestamente sbalorditivo il livello di umiltà di questo artista, he spesso viene sottovalutato e meriterebbe molti più ascoltatori “se mi sentissi poco valorizzato vorrebbe dire che forse mi sto sopravvalutando, mentre di carattere sono una persona che non si ferma mai e vuole sempre di piu’, per cui preferisco sempre sentirmi sottovalutato”. Erra è consapevole che la musica che egli propone sia non per tutti, bisogna voler ascoltare, richiede un investimento emotivo, e come sempre ripeto in questa società da fast food spesso i più non hanno voglia di investire tempo ed emozioni, quanti di noi non danno il tempo ad un pezzo su Spotify di terminare, alla seconda strofa cambiamo traccia. Un click e via. Io in questo click spero di avervi incuriosito, e che diate tempo ai Nosound, che tra l’altro stanno arrivando con molte novità . Erra proprio in questo momento sta terminando il lavoro sul nuovo album, un album che crede dividerà i fan “ma spero sarà scoperto da altre persone, e sono sicuro che la maggior parte dei nostri fan ci seguirà nella nostra evoluzione.”


Non solo prog metal in questo speciale targato Metal Hammer, ma anche quel progressive dal quale tutto e' partito, quella scuola italiana che negli anni Settanta ha rappresentato una ventata di freschezza anche su scala internazionale e che ancora oggi viene citata anche dalle band piu' pesanti quale fondamentale fonte di ispirazione. Una corrente che qui viene rappresentata dagli arti&mestieri, band seminale recentemente tornata alla carica con lo splendido “Universi Paralleli”, presentato a noi dal batterista Furio Chirico

immagini per un orecchio di Fabio Magliano

Insieme a PFM, Area, Banco del Mutuo Soccorso, Goblin, New Trolls e Le Orme, gli arti&mestieri hanno contribuito a scrivere pagine fondamentali per quel progressive tricolore ancora oggi venerato e ossequiato soprattutto fuori dai confini patrii. Ed è proprio all’estero che gli arti&mestieri, sulle ali del successo riscosso da lavori presto divenuti capisaldi di un prog che, pur strizzando marcatamente l’occhio al rock non disdegna divagazioni in chiave jazz e rimandi ad una melodia tutta mediterranea, come “Tilt”(1974) e “Giro Di Valzer Per Domani”(1975), hanno riscosso e stanno ancora oggi riscuotendo i maggiori consensi. Non a caso il quarantennale della band è stato celebrato attraverso un concerto/ evento a Tokyo, rigorosamente sold out, in compagnia dei partenopei Osanna, ed è nella

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terra del Sol Levante che è stato presentato in anteprima il nuovo “Universi Paralleli”, lavoro che non solo sancisce il ritorno sul mercato discografico della band dopo 15 anni di silenzio, ma segna anche la rinascita della Cramps Records, etichetta capace di scrivere la storia del progressive negli anni Settanta. Fulcro di questa nuova avventura targata arti&mestieri Gigi Venegoni, chitarrista, produttore nonchè co-fondatore del gruppo nei primi a n n i Set-

tanta, e il batterista Furio Chirico, musicista dal grande talento nonchè personaggio carismatico, già attivo negli anni con altre band seminali come I Ragazzi del Sole ma soprattutto i The Trip, gruppo italo-britannico che vide nella sua primissima incarnazione militare anche un tal Ritchie Blackmore...Ed è proprio il batterista torinese che, come un fiume in piena, ci porta alla scoperta di “Universi Paralleli”, già definito da pubblico e critica il “Tilt del ventunesimo secolo”. “Tutt i

riconoscono in “Tilt” il nostro capolavoro e non nego che, quando abbiamo iniziato a pensare al nuovo disco, il pensiero di comporre un secondo “Tilt” è stato forte - inizia a spiegare il batterista Non tanto da un punto di vista stilistico, perchè gli arti&mestieri non hanno mai voluto ripetersi e hanno sempre cercato di seguire strade nuove, quanto per il processo che aveva portato alla realizzazione di quello che, ad oggi, viene considerato il nostro capolavoro. C’è stato un grande sforzo creativo alla base di “Universi Paralleli”, tutta la band per oltre un anno ha lavorato in sincrono ottenendo un risultato che oggi sta riscuotendo ottimi consensi. Quando abbiamo iniziato a pensare al disco l’obiettivo era da un lato quello di dare vita a brani che


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a n dassero a ripescare quella che era l’anima storica della band, mentre dall’altro volevamo introdurre soluzioni nuove che ci consentissero di proiettare il sound degli arti&mestieri nel ventunesimo secolo. E’ in questa ottica che va letto l’inserimento il violino di Lautaro Acosta, che ci aveva caratterizzato negli anni ‘70 e che anche in questo disco è tornato ad essere protagonista, nonchè la fisarmonica di Piero Mortara che ha portato un ulteriore tocco di ricercatezza ai brani. E un ruolo importante lo hanno ricoperto anche le collaborazioni presenti in questo disco, come quella con Mel Collins, sassofonista dei King

Crimson (ma al lavoro, tra gli altri, anche con Rolling Stones, Phil Lynott, Cozy Powell, Uriah Heep, Roger Waters e Meat Loaf, Nda) nonchè nostro amico di vecchia data, e quella di Lino Vairetti, cantante degli Osanna (band partenopea tra i padri del prog rock italiano Nda) che in questo disco ci ha fatto dono di un brano e della sua interpretazione”. Un disco presentato in anteprima al The Best Of Italian Rock 2015 svoltosi a Tokyo nel giugno del 2015 quasi a rinsaldare un rapporto da sempre estremamente forte tra la band progressive tricolore e il popolo del Sol Levante “Il Giappone ricopre un

ruolo fondamentale per gli arti&mestieri - prosegue Chirico - non a caso “Universi Paralleli” è stato pubblicato inizialmente in questo Paese per la King Records, una major di altissimo livello, e Tokyo è stato teatro del concerto per i 40 anni del gruppo. Le ragioni di tanto attaccamento sono molteplici. Prima di tutto questo Paese fa registrare il 22% delle vendite discografiche a livello mondiale, quindi viene naturale se non indispensabile rivolgersi con un occhio di riguardo a quel mercato. Poi, non dimentichiamolo, il Giappone ha da sempre amato molto le produzioni italiane, di qualsiasi genere musicale ma in special modo il prog, quindi ci siamo sempre trovati a nostro agio in questa realtà, che ci ha sempre accolti con grande calore ed è stata di grande stimolo per il gruppo. Credo che la nostra forma stilistica che pesca in una determinata melodia mediterranea, guardando al rock progressivo ma allo stesso tempo al

jazz e ad altri stili, in qualche modo ci rendono unici e “appetibili” per un pubblico così attento e competente come quello giapponese. In Giappone viene messa davanti a tutto l’arte, la musica, e questa è la cosa importante. Non conta se sei una band giovane che tira 200 persone o una big band da 40.000 spettatori, in Giappone l’organizzazione che vi è alla base è uguale, ti trovi a interfacciarti con persone che lavorano affinchè tutto funzioni per il meglio e che alla fine possa portare un guadagno per tutti, perchè qui il denaro è importante quanto la cultura. Ecco

I testi di “Universi Paralleli” di Iano Nicolò «Premetto che non adoro “spiegare “ le canzoni. Credo che funzionino un po come le poesie… è l’alchimia delle parole scelte che deve suscitare delle sensazioni, in libera interpretazione. Ma ci sono alcuni punti che ci tengo vengano a conoscenza. 'Pachamama' è una canzone nata da un viaggio in Brasile nell’estate 2014, tramite amici che gestiscono una fondazione in una favela di Rio e Il centro dove lavora la mia compagna. La, ho incontrato “Eusebio” Pajé (curandero) Dua Busè, leader ultraottantenne degli Huni Kuin (Indios del ceppo Awà, Amazzonia dell’Acre), che ci hanno ospitato nel loro centro culturale Para Ti a Rio

de Janeiro. Ho avuto la possibilità di partecipare ad una loro cerimonia. Sono una delle ultime popolazioni dell’Amazzonia che custodiscono la conoscenza delle erbe e la tramandano SOLO VERBALMENTE! Ora, il disboscamento feroce dell’intera regione sta distruggendo tutto ciò che le capita a tiro: piante, animali, uomini. Nel maggio 2015 Eusebio viene assassinato dai disboscatori, sostenuti dal potere e dalle multinazionali…da qui l’idea (PachaMama) un deserto generato dall’uomo che porta il segno di Caino di stampo occidentale, con lo stesso obbiettivo di sempre… il conquistare e distruggere. Ho scoperto realtà che convivono, ma non si conoscono...

proiettate su traiettorie parallele. Da una parte il rispetto per la terra su cui viviamo, dall’altra la sete di potere e di conquista. Un dualismo così estremo che se venisse consapevolizzato potrebbe creare i limiti di un equilibrio. ''Pandora'': un altro dualismo, legato allo stesso viaggio; il Micro con Macro, il Santo con Sacro… la chiusura un po' “sambeira”. Ma anche un po' la voglia di staccarmi dal troppo cervellotico usando la magia della leggerezza dell’allegria. ''L’ultimo Imperatore'' è praticamente di Gigi, io sono solo intervenuto su alcune parole. ''Restare Immobile'': Il Metafisico, il momento in cui cerchi di fermare un attimo,

lo scatto di una foto che resta privo di vita se non del supporto, una pellicola o un monitor, quindi la carta su cui scrivi un concetto che potresti col passare del tempo non riconoscere più, quindi la memoria che ci riporta a quel momento come se fossimo restati fermi nello stesso posto… Ma altrove. ''Universi paralleli'' è un processo che ha consolidato tante mie riflessioni sulla vita e sulla morte che sto maturando ed elaborando. Che appaiono parallele ma nelle quali passiamo tutto il nostro tempo terreno. Poi…è tutto ancora da scoprire.

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perchè al concerto che abbiamo tenuto a Tokyo i biglietti costavano l’equivalente di 120 euro e nonostante questo la venue era sold out, ed ecco perchè ci siamo sentiti chiedere dal promoter se fossimo disposti ad ospitare una trentina di fan al nostro soundcheck, pronti a pagare circa 300 euro l’uno per vivere qualche canzone a contatto diretto con il gruppo. Se ci si ferma un istante a pensarci, non è un discorso meramente commerciale, ma è testimonianza di un rispetto totale che vi è nei confronti della band e della sua musica, da parte dei promoter e da parte dei fan. E la cosa, non la nego, è decisamente appagante”. “Universi Paralleli” segna il ritorno sulla scena discografica della band dopo 15 anni di relativo silenzio (si registra negli anni la pubblicazione di dischi live e di un EP), una rinascita in grande stile che va a cozzare con il termine “reunion” già utilizzato per contrassegnare il nuovo corso degli arti&mestieri “Non si può parlare di reunion perchè gli arti&mestieri non si sono mai sciolti - precisa subito Furio Chirico - Siamo tornati oggi dopo quindici anni con una pubblicazione inedita, ma in questi anni siamo sempre stati in circolazione, magari con “forme” differenti. Come musicisti siamo sempre stati aperti a collaborazioni diverse, non ci siamo mai tirati indietro e abbiamo sperimentato molto in tutto questo tempo, passando da formazioni più orientate verso il rock ad altre maggiormente rivolte al jazz a seconda delle situazioni. Però ho sempre considerato fondamentale per la band, dal punto di vista creativo, la collaborazione tra me e Gigi Venegoni, perchè è con lui che è partita nel 1974 questa splendida avventura chiamata arti&mestieri. E’ per questo che, insieme, dopo 15 anni, abbiamo sentito che era giunto il momento di tornare a comporre, attraverso un progetto concettualmente vicino a quello originale” Un progetto che riesce

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ad andare al di là di un d is c o r s o m e r a m e n t e musicale ma riesce ad andare a toccare l’arte in ogni sua c o r d a , “L’idea era quella di dare vita ad un progetto che andasse ad abbracciare

ogni forma d’arte - prosegue - perchè per quella che è la nostra concezione d’arte, era riduttivo limitarla unicamente alla musica. E’ per questo che abbiamo utilizzato in copertina una scultura dell’artista torinese Luigi Farina, che ben incarna il concetto di Universi Paralleli, così come significativa è la scultura di Alma Zappegni che abbiamo inserito all’interno, un’opera che è stata esposta anche a Parigi e che richiama anch’essa il concetto che è alla base di tutto il disco. Ma arte c’è anche negli scatti di Sergio Cippo, il fotografo torinese che ci ha se-

guito, nel lavoro del regista Michelangelo Dotta che ha curato il nostro video, e in quello di Iano Nicolò che non solo è il nostro cantante, ma è anche

un abilissimo grafico che ha curato tutto l’artwork del disco. Mi piace pensare che c’è arte in ogni piega di questo lavoro, ed è per questo che lo consideriamo così speciale”. Il ritorno sulle scene degli arti&mestieri, infine, sancisce la rinascita anche della Cramps Records, la storica etichetta italiana alla quale è legata buona parte della storia del prog rock italiano, avendo, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, prodotto artisti seminali come gli stessi arti&mestieri ma anche Area, Eugenio

Finardi, Alberto Camerini, Skiantos, Roberto Ciotti ed Electric Frankenstein. Una rinascita significativa e, perchè no? Un possibile nuovo punto di partenza per una scena ancora estremamente florida «La Cramps ha rappresentato per anni la musica nella sua declinazione più intellettuale, e spero che possa rappresentarla ancora in futuro - conclude Chirico - La Cramps non era solo un’etichetta discografica, era un movimento che confluiva nel jazz, nel prog, nella musica contemporanea che riusciva, in quegli anni, a tenere testa alla proposta anglosassone che al tempo andava per la maggiore. Gli arti&mestieri, così come gli Area, devono molto alla Cramps, perchè è stato grazie al suo supporto e alla sua fiducia se sono arrivate a godere di una credibilità a livello internazionale portando alla luce un modo nuovo di intendere il prog, con un approccio più caldo e dalla marcata declinazione mediterranea. Io ho fiducia che ci possa essere una nuova spinta in questo senso anche da parte della Cramps, là fuori ci sono band sulle quali vale la pena scommettere, a patto che gli addetti ai lavori, i produttori, i media...facciano tutti un passo indietro e vadano nuovamente al cuore della musica, districandosi in una bolgia di suoni e parole che nel mondo della musica, ultimamente ha prodotto parecchio caos”.


speciale prog

Percorsi trasversali di Fabio Magliano Nella nuova scena progressive tricolore c'è una realtà nuova che si sta via via facendo spazio e che, dopo alcuni brani gettati in pasto agli ascoltatori quali “biglietto da visita” ed in grado di ricevere ottimi consensi, è ora pronta al salto con la prima fatica discografica. Si tratta degli Ozora, nome nuovo ma alle spalle un bagaglio d'esperienza notevole, facendo parte della partita musicisti scafati come il batterista Danilo Sakko Saccotelli (Braindamage, The Oneira, Kiino, ZTN), Paolo Marre (Enslow/ Zenta K) a cui si sono aggiunti il cantante Syd (L'Inferno di Orfeo) e il bassista Luca Imerio. Una band “...nata dall’esigenza di non voler smettere di comporre e suonare musica originale, dalla consapevolezza umana e artistica di un’età più matura e trasversale” come sottolinea subito il batterista piemontese, che poi azzarda “In un momento storico sfavorevole alla musica e all’arte in generale, noi proviamo a dire la nostra con mentalità progressista e

cuore old school”. Un progetto che racchiude tutte le esperienze passate dei membri del gruppo, nella quale “si sentirà l’impeto dei Braindamage, il groove degli Enslow, il prog lirico dell’Inferno di Orfeo la sperimentazione delle altre Band nelle quali gravitiamo – prosegue Sakko – privando l'ascoltatore di ogni punto di riferimento, attingendo i membri del gruppo dalle più svariate influenze stilistiche, come Meshuggah, Tool, Deftones, The Police, Porcupine Tree, Timoria, Negazione, Mastodon, Iron Maiden, Cantautori Italiani, Tutto il Prog Italiano e straniero, Pantera, Radiohead, BlueVertigo, Slayer, Cynic, Death, Beatles, Ennio Morricone...” A livello discografico vi è, all'orizzonte, il disco di debutto “che è quasi pronto – come specifica il batterista - e

stiamo valutando gli studi e le collaborazioni per realizzarlo, sarà un percorso lungo e autonomo, probabilmente con più collaboratori. I primi responsi sono euforici e al contempo scettici proprio per la varietà e trasversalità del prodotto che non può essere inscatolato. Suppongo sarà più facile entrare nelle grazie di una bella e piccola bottega anziché stazionare in un Iper mercato”. Stilisticamente, pur mettendoci una sana dose di modestia, la band azzarda “Parlare di Novità e aspettative mi sembra presuntuoso. Ma sarà vario, violento, romantico, ostico e accessibile, con la sfida enorme della lingua Italiana che cozza coi conservatori e allarma chi non è avvezzo a sonorità tecniche e ricercate”. Intanto c'è la sfida live da affrontare

per rodarsi sul campo e rompere il ghiaccio “Il live è pronto per farci conoscere – prosegue Danilo - come gruppo spalla e dedicato a poche e mirate situazioni, poi siamo pronti a tutto e a divertirci ovunque ci sia apprezzamento e non uno slot da pagare. Ciò che offriamo dal vivo è la fedeltà e naturalezza di ciò che registriamo e l’imprevedibilità di momenti improvvisativi e inediti in base alla situazione, umore e condivisione col pubblico”. Quindi un pensiero in conclusione “Mai come ora suoniamo in un progetto che è ciò che vorremmo ascoltare noi stessi acquistando il CD di un nuovo gruppo. Vorremmo che la gente torni a concepire un Album intero, gustare dei particolari di un puzzle anziché fermarsi ad un singolo su spotify…in questo senso la nostra radice Prog è ben salda”. Per saperne di più: www.facebook.com/OZORAmusic

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"UNDERLYING ISSUES" È SOLO L'ULTIMO CAPITOLO DI UNA STORIA LUNGA 25 ANNI, CHE HA CONDOTTO GLI ELDRITCH A DIVENIRE UNO DEI PUNTI DI RIFERIMENTO DELLA SCENA PROG METAL TRICOLORE.

Something strong di Fabio Magliano 25 anni sui palchi di tutto il mondo, undici dischi incisi e una reputazione che è andata consolidandosi nel corso degli anni, sino a diventare un punto di riferimento per la scena prog metal italiana. Un’etichetta che ha marchiato a fuoco i toscani Eldritch, portandoli a mietere consensi un po’ ovunque e a calcare palchi prestigiosi in tutto il mondo, sino a guadagnarsi una ammirevole libertà

un determinato stile. E’ normale però che, appena metti le tastiere e tiri fuori qualche tecnicismo, questa etichetta salti fuori di prepotenza. Bene o male i gruppi prog si assomigliano un po’ tutti, a livello di progressione, di strutture, di accordi...gli Eldritch partono invece da una base tecno thrash, sulla falsa riga di Annihilator, Coroner... io poi sono cresciuto con Bon Jovi,

IL RAPPORTO MAI DECOLLATO CON IL GIAPPONE Non abbiamo un grande feeling con il Giappone siamo un caso raro perché a differenza di altre band che in quel Paese hanno trovato l’El Dorado, noi siamo sempre stati osteggiati perché ci accusano di scrivere melodie al loro orecchio stonate. In realtà noi usiamo di proposito delle progressioni di accordi inusuali, mischiamo maggiore e minore con degli sbalzi di tonalità che sono poco canonici...Chi vende tanto in Giappone conosce quel mercato, sa quali formule sono vincenti e le ripete ad hoc. Ma va bene così...preferiamo vendere 10.000 copie in tutto il mondo a persone che ci apprezzano per quello che siamo, piuttosto che 40.000 a fan che ci comprano perché gli ricordiamo i Dream Theater… artistica che si è sublimata nell’ultimo, fortunato “Underlying Issues”. Un’etichetta, il “prog metal” che pare però andare stretta al singer e leader storico del gruppo Terence Holler, che subito mette le cose in chiaro “Non ci ha mai fatto impazzire l’etichetta “prog metal” - afferma - anche perchè abbiamo sempre cercato di fare musica in libertà, senza per forza incanalarci in

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Fates Warning, Europe, Dokken…realtà molto distanti dall’universo progressive, ed infatti ho sempre cercato di comporre le mie melodie senza scimiottare i canoni del prog metal, che sono abbastanza omologati. Riconosco però che non siamo un gruppo metal canonico, certe soluzioni spiazzano l’ascoltatore,

quindi se dobbiamo essere incanalati nel filone prog metal, diciamo che il nostro è un prog un bel po’ aggressivo!”. Un sound che è andato mutando, evolvendosi album dopo album...un privilegio raro per una band, quella di poter sperimentare in totale libertà senza dover rendere conto a nessuno e, soprattutto, senza perdere in credibilità “Incidere dischi senza mai ripeterci è un privilegio che ci inorgoglisce, ma non è una cosa voluta. So per esperienza che ci sono gruppi che hanno inciso un disco di successo e che volutamente lo ripetono, ne copiano parti, ne riprendono altre...cercando di portare avanti il più possibile un disco che ha funzionato. Noi questo non lo faremo mai, perché nostro obiettivo è sempre stato quello di fare un disco “vero”. Solitamente Eugene mi manda la base, con tutte le parti strumentali incise, io mi metto davanti al PC, con una bottiglia di rum per sciogliere la tensione, e tiro giù le melodie, senza pensare a niente. Ogni disco è diverso perché ogni momento della vita è diverso. E in questo siamo fortunati, perché la Scarlet ci ha detto che siamo uno dei rarissimi casi di gruppo che, dopo 21 anni


speciale prog dal debutto discografico, è in crescita. Poi le recensioni dell’ultimo disco sono state tutte ottime, nessuno ci ha ancora detto che siamo vecchi e stanchi, quindi continuiamo su questa strada. Nonostante l’età le idee sono fresche. Il segreto è non pensare troppo e andare a mente libera”. Un’età che non ha impedito agli Eldritch di proseguire la loro corsa e che pare non volerne limitare l’operato “Io e Eugene Simone, che abbiamo fondato gli Eldritch dopo gli Zeus e con il quale suono da 27 anni, ci chiediamo spesso “chi ce lo fa fare”, ogni tanto facciamo anche la finta di dire basta, poi Eugene se ne esce con qualche grande riff, e la voglia ritorna come per incanto. Devo dire che noi siamo in una condizione privilegiata, perché Eugene ha lo studio professionale in casa, godiamo del rispetto delle label che ci pagano tutto...Non ci interessa vendere dischi, facciamo musica per noi ed abbiamo la fortuna che c’è molta gente che apprezza quello che facciamo”. Quei fan che hanno seguito la band applaudita in quanto gruppo emergente nella prima edizione del Gods Of Metal e che oggi la ritrovano etichettata come band storica nel panorama metal tricolore: “Ci inorgoglisce essere considerati un gruppo storico… - confessa Holler- mi dispiace solo per quelle persone che non ci seguono perché pensano che tutti i gruppi vecchi sono ormai passati, che non vanno più di moda...una presa di posizione che esula dalla qualità della nostra musica, non ci seguono perché siamo considerati sorpassati e basta… La cosa mi fa ridere, lo ammetto...penso a cosa si era detto al tempo di “El Nino”...quel disco fu stroncato, massacrato perché troppo moderno... mentre oggi è stato ristampato, è andato a ruba e tutti lo cercano.

Non voglio sembrare antipatico, ma posso tranquillamente dire che all’epoca eravamo forse troppo avanti per i tempi, mentre oggi siamo assolutamente attuali. E mi fa ancora più ridere pensare che magari chi ci snobba perché ci considera “vecchi” sbrodola dietro a gruppi di ragazzini che fanno musica che andava negli anni Settanta...ma chi se ne frega, a noi bastano i nostri fan e quello che ci stanno dando”. 25 anni di grandi soddisfazioni, che portano inevitabilmente a stilare un primo bilancio “Se guardo a quanto fatto in questi anni sono soddisfatto – afferma il singer toscano - Alla fine la musica mi ha reso una persona diversa, a livello personale mi ha fatto vivere situazioni che forse con un lavoro ordinario non avrei mai vissuto, ho avuto la fortuna di

nel complesso va bene così. Mi da solo fastidio quando qualcuno viene a dirmi che gli Eldritch sono un gruppo sottovalutato che avrebbero meritato di più, perché probabilmente se davvero è così è per colpa di chi ci dice quelle stesse cose, perché probabilmente non ha comprato il nostro CD, non ci ha supportati abbastanza e non ci ha aiutato ad uscire dalla nicchia”. Quindi un pensiero agli attestati di stima ricevuti nel corso degli anni da parte dei colleghi più illustri “La stima che i Dream Theater ci hanno manifestato è un attestato di stima che certamente ci gratifica. Ho avuto modo di parlare con Petrucci e Portnoy e so che hanno i nostri primi dischi e che li hanno apprezzati. E ci considerano dei pazzi! Mi hanno detto che quei virtuosismi che loro

PILLOLE DI FUTURO La prossima primavera uscirà di sicuro il nuovo disco. Ho attraversato un momento difficile dal punto di vista personale che mi ha invitato a smettere, poi vedo la gente che mi sta intorno, le persone che ci seguono e che amano quello che facciamo, e anche per rispetto a loro tengo duro e vado avanti. È un po’ come avere una bella donna ma trascurarla… Diciamo che per andare avanti ho cercato di canalizzare tutta la negatività della mia quotidianità nella musica, usandola di fatto come valvola di sfogo. Ci sono diverse canzoni che parlano di me e del mio vissuto. E posso dire che forse se non fosse stato per la musica avrei fatto una brutta fine, perché ci sono delle situazioni che ti possono portare alla depressione. Io invece ho sempre scaricato tutto nella musica e penso che continuerò a farlo fino a che ne avrò voglia. Come Eldritch non abbiamo vincoli, non abbiamo contratti per più dischi, quindi siamo liberi di fare ciò che vogliamo...la Scarlet ci sprona, e siamo fortunati che tutto funziona ancora bene.

suonare in tanti festival grossi, ho suonato allo Sweden Rock, a tre Gods Of Metal, al Prog Power in America, ho conosciuto artisti famosi, ricevuto attestati di stima da parte di veri mostri sacri come John Petrucci e Mike Portnoy...a livello di soddisfazioni ho avuto tanto e ne ho ancora. L’unico cruccio è non essermi arricchito con la musica, ma

portano in primo piano nei loro dischi, noi li nascondiamo magari sotto le parti vocali... tecnicismi che o sei un musicista o non le senti. Ma noi ce ne freghiamo, le facciamo per noi stessi, cambi assurdi difficilissimi da captare che inseriamo nelle strutture dei nostri brani perché siamo pazzi e basta”. Inevitabile un pensiero all’ultima fatica della band, quell’ “Underlying Issues” uscito nel 2015 e subito acclamato da pubblico e critica “Dei tre dischi usciti sino ad ora per Scarlet “Underlying Issues” è il migliore per critiche e vendite. Stiamo crescendo, e la cosa incredibile è che lo facciamo senza praticamente suonare dal vivo, perché dopo esperienze negative accumulate negli ultimi anni abbiamo deciso di dire basta. Onestamente siamo stufi di suonare davanti a 100 persone dopo 20 anni di carriera, magari con 3, 4 gruppi di spalla che ti portano ad esibirti alle due di notte...sono cose che non fanno più per noi, quindi abbiamo deciso di privilegiare la qualità della situazione alla quantità, magari scegliendo solo festival mirati piuttosto che lunghi tour che, alla fine, ti creano più disagi che non effettivi benefici”.

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di Marco “Marek” Palmacci Cari lettori e care lettrici, eccoci giunti nella terra dell’estremo! È con immenso piacere che vi porgo il benvenuto, apprestandomi a divenire il vostro personalissimo Virgilio (o Caronte, come più vi aggrada..) ed accingendomi quindi a guidarvi nel caos ultimo di decibel. All’interno delle tempeste sonore, dei testi scomodi, dei riff a motosega, della birra a fiumi. Il mondo ove ogni esagerazione è concessa, il mondo in cui se si suona “piano” non si è ben accetti. Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate! Si dice che i contesti come questo siano fortemente elitari, e risentano molto spesso della volontà dei loro protagonisti di voler rimanere effettivamente nell’ombra, non volendo mai avvicinarsi troppo alle luci della ribalta. Almeno per quel che mi riguarda, però, ritengo giustissimo che determinate re a l t à vengano quanto meno inserite in un contesto di spicco, una

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sorta di “esposizione” tutta per loro.. un modo per far vedere quanto il mondo del metallo pesante sia un autentico caleidoscopio di situazioni, di gruppi, di personalità. Informare per conoscere, conoscere per sapere, sapere per poter scegliere. Questa è la missione ultima di un organo di informazione, qualsiasi esso sia. Dunque, bando agli indugi ed apprestiamoci a partire, andando ad indagare nei meandri dell’underground, sbirciando avidamente in ogni angolo / cassetto / anfratto che riusciremo a trovare. La bussola indica la terra del Sol Levante, ovvero il Giappone. Zona del mondo che, di certo, non siamo soliti associare al Metal (Loudness ed X-Japan a parte); come reagireste, però, se vi dicessi che all’interno della Scena nipponica potreste

trovare fior fior di “casinisti” pronti a soddisfare ogni vostra insana voglia? Headbanging, pogo violento.. un’intera schiera di Samurai è pronta a sfoderare le sue spade (pardon, chitarre!) per farvi divertire come si deve. A cominciare dal folle Yasuyuki Suzuki, master mind dei velenosi Abigail e fautore del cosiddetto “street metal”. Autoproclamata la sua band come “la più malvagia di tutto il Giappone”, Yasuyuki ha desiderato incamerare nel suo “street metal” tutta quella serie di nobili influenze derivanti da autentici maestri quali Venom e Sodom, donando la vita ad un Thrash Metal rozzo e sporchissimo di Black. Riff sferraglianti, velocità folli, vocals disperate.. tutti trademark di una formazione che nel corso degli anni ha saputo regalarci dischi a dir poco esplosivi. A cominciare dai primissimi (“Intercourse

& Lust” e “Forever Street Metal Bitch”, rispettivamente datati 1996 e 2003, che consiglio a tutti di procurarsi!) sino ad arrivare ad episodi più recenti come “Sweet Baby Metal Slut” (2010). Essendo gli Abigail una band “di culto per cultisti”, inoltre, i maniaci del collezionismo avranno di che leccarsi i baffi, data l’immensa quantità di demo, EP, live album e Split che gli Abigail hanno rilasciato e continuano imperterriti a realizzare.


l a t u r B Stay di Trevor Ciao Tommy, benvenuto su Stay Brutal. Cosa stai combinando, Extrema e non solo? Ciao Trevor, a parte il preparare e seguire l’uscita del nuovo EP, sto scrivendo materiale per il nuovo album vero e proprio. Di recente sarete fuori con un nuovo ep, cosa ti aspetti? Oggi, nel 2016, quando ormai la discografia sembra un concetto superato. In che senso la discografia è un concetto superato? Non si fanno più dischi? Comunque, sì saremo entro breve, fuori con un nuovo Mini album, 5 songs + 2 live, ho sempre grosse aspettative riguardo la musica in generale. E’ un prodotto particolare avevamo delle songs che non erano mai state registrate, scritte nel 1987

ma mai registrate, lo abbiamo fatto e il risultato ci ha entusiasmato, così abbiamo deciso di farle uscire. Rimarrete meravigliati come musica scritta così tanto tempo fa suoni così attuale. Raccontami qualcosa della tua vita, il momento più alto della tua carriera, quello più basso, la gioia più grande, la delusione più grande. Il momento più alto è stato sicuramente il periodo che va dall’uscita di “Tension at the Seams” al tour di “The Positive Pressure of Injustice”, ci girava tutto benissimo. Un momento più basso in realtà non esiste, diciamo che rispetto al lavoro fatto non abbiamo mai raccolto più di tanto. Di gioie ne abbiamo vissute tantissime, come di delusioni, sarebbe ridicolo fare una lista. G l i Ex-

trema sono at-

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tivi da trent’anni, parlami di come hai visto cambiare il Metal nel nostro paese, dagli anni 80’ a oggi. Semplice negli anni 80’ non c’era nulla, e quando dico non c’era nulla intendo che c’erano poche serate, poche testate giornalistiche, c’era però tanta voglia di scoprire e di vivere la musica Metal. Oggi mi sembra un pò tutto plasticoso. Tu, come il sottoscritto, hai vissuto l’epoca del chiodo, del coprichiodo, delle risse tra paninari e metallari, dei concerti al Palatrussardi, delle orde di metalkids che si muovevano per andare ai concerti, quanto rimpiangi quell’epoca? Il menarsi per strada senza un reale motivo perché si era diversi non lo rimpiango per niente, anzi. Sicuramente quando ripenso a quegli anni penso alla spensieratezza e alla voglia di godere di ogni singolo secondo del nostro essere metallari. Ho la fortuna di avere un carattere che mi porta ad avere ancora quell’entusiasmo, ma non mi piace guardare al passato con rimpianto.

Reputo “Tension At The Seams”, il vostro primo full lenght, come uno dei picchi più alti del Metal nazionale, perché non vi siete più avvicinati a tali sonorità, o quantomeno perché vi siete spostati, musicalmente parlando? Nella nostra filosofia musicale ogni album è una storia a se, non ha senso ripetersi, abbiamo sempre cercato di esplorare e di aggiungere o togliere qualcosa alla nostra musica, questa cosa può piacere o meno, non abbiamo mai fatto album scadenti comunque. Anni fa siete stati la support band, in un tour di Vasco Rossi. C’era tensione? Com’è stato salire sul palco, davanti ad un pubblico che non era propriamente quello legato strettamente al Metal? Aneddoti? Curiosità?


Non è stato un tour, abbiamo fatto solo le prime due date del tour de “Gli Spari Sopra” allo stadio atleti d’Italia di Bergamo, in due giorni abbiamo suonato davanti a 90.000 persone. Il primo giorno è stato più tranquillo del secondo, i fan di Vasco sono un pò Talebani, ma direi che a parte qualche piccolo incidente ce la siamo cavata ala stragrande, anzi. Ho visto trattare Band Italiane peggio ai vari Festival “Rock/Metal” del tempo. Mi ricordo che non ci diedero da mangiare, ma durante il nostro show qualche fan esaltato ci lanciò sul palco panini e quant’altro, al posto di offenderci abbiamo ringraziato, ci avevano fornito senza volere Pranzo e cena. La curiosità più grande è che Vasco ci volle come band di apertura perché in quel periodo era invasato col Metal, e mi ricordo che prima del secondo show mi volle incontra-

re sotto il palco e mi disse “Grandi ragazzi, spaccate di brutto, voi siete veramente incazzati neri col mondo, che grande attitudine che avete”. A distanza di anni, come valuti l’esperienza con gli Articolo 31? Non credi che il pubblico Metal abbia frainteso? Non parlerei di pubblico del Metal, chi ha voluto fraintendere quelle songs è il classico Talebano che pensa che il metal sia una musica di nicchia che va tenuta ed ascoltata nei peggio anfratti bui nascosti e ghettizzati. Noi abbiamo avuto un’opportunità di fare sentire come suonavamo ad un pubblico più vasto, chi pensa che ci siamo arricchiti o svenduti con quelle songs si sbaglia di grosso. Riascoltando ancora oggi quei pezzi sono straconvinto che spacchino di brutto. Conosco bene Extrema, e il rapporto con l’amico GL, tra di voi c’è un forte legame, tuttavia non è sempre così facile tenerlo a freno, cosa mi dici? Si è

vero GL è per me un grande amico, ha delle uscite infelici certe volte, ma è il suo bello, con lui non ti annoi mai. E’ una persona che ha le sue idee e non ha timore di metterle in piazza, è sicuramente più vero e onesto del 90% delle persone in questo ambiente, da un certo punto di vista è ancora uno puro. Da uno dei massimi esponenti del Metal nazionale, come vedi la scena oggi? Cosa si dovrebbe cambiare secondo te? La scena Italiana non è da meno di molte altre scene locali in giro per il mondo, Io vi direi di frequentare di più i concerti anche di Band minori e al posto di criticare e fare tutti gli espertoni, di godere della musica e delle serate in quanto tali. A proposito di Metal nostrano, quali band ti hanno colpito positivamente negli ultimi anni? I Milanesi Destrage, hanno qualcosa i n più di mo l t i

altri. Infine, credi che il pubblico italiano sia sempre più esterofilo? Perché, sembra-

n o f u n z io na re solo i mega concerti, mancanza di cultura? Scena al collasso? O si cela altro? No quello dell’esterofilia è una roba che non regge molto, penso che la scena sia realmente al collasso, una volta ti dovevi guadagnare il diritto di salire su un palco, oggi sembra che tutti abbiano una band e ovviamente vogliono tutti suonare. Troppi concerti e troppi concerti inutili, capisco perché la gente voglia andare a vedere solo i grossi festival. E’ tutto amico mio, lascio a te l’ultima parola, un abbraccio e come sempre Un saluto a te amico, e ai lettori della tua rubrica, ci si vede on the Road per fare altri danni insieme che poi racconteremo fieri di averli fatti. IN ALTO IL NOSTRO SALUTO!

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di Stefano Giorgianni

Genio e follia. Ci stiamo per addentrare fra sentieri oscuri, nei torvi e algidi meandri della mente di uno degli indiscussi protagonisti della musica Metal e non solo. Robert Bartleh Cummings, meglio conosciuto come Rob Zombie, nasce Haverhill, una città della contea di Essex del Massachusetts, il 12 gennaio 1965. Figlio più grande di Robert e Louise Cummings, è il fratello maggiore di Michael David Cummings (colui che diventerà il cantante dei Powerman 5000). La seduzione dell’horror comincia presto a instillarsi nella testa del giovane, che poi dichiarerà di voler diventare un ibri-

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do fra Alice Cooper, Steven Spielberg, Bela Lugosi e Stan Lee. Mentre i genitori crescono la prole, lavorano in un parco di divertimenti, ma decidono di lasciare quell’attività dopo che scoppia una rivolta e il tendone va a fuoco. L’episodio segna profondamente il piccolo Robert, che dopo pochi anni rammenterà in un’intervista: “Tutti tiravano fuori pistole e si potevano sentire gli spari esplodere qua e là. Ricordo un tipo che conoscevamo, ci stava dicendo dove andare, un altro ar-

rivò e lo colpì in faccia con un martello, gli aprì la faccia a metà. I miei genitori fecero i bagagli in fretta e furia e ce ne andammo”. Già da questo piccolo frammento biografico si intuisce da dove proviene l’immaginario orrorifico che infesta il cinema di Rob Zombie, un uomo che ha fra le sue ispirazioni principali la letteratura di H.P. Lovecraft, un regista che squarta gli esseri viventi e fa scorrere sangue a fiumi nelle proprie pellicole ma che nella vita è vegetariano etico (ora vegano) da più di trent’anni e sostenitore della PETA per la tutela dei diritti degli animali; un personaggio eccentrico, visionario, probabilmente

l’erede contemporaneo dell’arte dell’horror. L’iconografia del regista è un viatico per le fobie della società americana ma non solo, un grumo di individui spaventati la cui psiche è vista attraverso la lente d’ingrandimento dei prodromi dell’orrore classico intriso, volente o nolente, di Metal; sì, perché il cinema di Zombie è inscindibile dalla nostra musica, da quella tutto ha avuto origine, dal momento in cui il ragazzo statunitense forma, nel 1985, gli White Zombie assieme alla sua fidanzata di quegli anni, Sean Yseult. Fra reminiscenze del cinema degli anni ‘30 (il nome del gruppo proviene difatti dal titolo del film con Bela Lugosi del 1932, trad-


otto in italiano come “L’Isola degli zombies”, di Victor Halperin) e un intruglio inidentificabile di generi che vanno dell’heavy al groove, dall’alternative al noise rock, per finire sul più probabile industrial, la musica della band di New York è un primo indizio dell’originalità e dell’estro dell’artista, che troverà il suo (forse vero) sfogo nella settima arte, pur con un occhio sempre rivolto alle colonne sonore dei suoi film, spesso inquietanti e opprimenti tanto quanto le immagini proiettate sullo schermo. L’anima di Rob Zombie si capisce essere quindi scissa, fra i suoi due amori (od ossessioni) più grandi, che sfociano nel 2003 in quello che è ancora uno dei suoi migliori lavori dietro la camera

da presa: “La Casa Dei 1 0 0 0 Corpi”. Una pellicola sconvolgente, un film d’exploitation sfrenato che a tratti tocca persino il confine della commedia, un lungometraggio che sembra rigurgitare tutte le paure e le costrizioni che albergavano nell’uomo, un mix di citazioni che vanno dalla leggendaria famiglia Sawyer di “Non Aprite Quella Porta” con un’attitudine da Rocky Horror Picture Show. Un film non facile da capire e da accettare ( lo dimostrano i giudizi della prim’ora della critica), ma che in realtà frutta a Zombie una già consistente fetta di adepti. La

regia di Rob Zombie si scopre così essere acida, mal digeribile, ma lo è in proporzione al suo esser irresistibile, senza dubbio esagerata e scorretta, ben strutturata e imprevedibile allo stesso tempo, uno spazio in cui risaltano il grottesco e la perdita della speranza sul cui sfondo c’è violenza coscienziosamente irragionevole. Certo è che questo primo film incide già un profondo solco che divide coloro che amano all’insania (mai termine fu più adatto) la mano del cineasta esordiente e la fazione che lo detesta e che

sempre più lo odierà. Poco da dire resta in questa conclusione, un primo passo nella selva oscura di un individuo che è riuscito in pochi anni ad accendere una miccia chi difficilmente si spegnerà. Fatto sta che siamo a pochi mesi dall’arrivo del nuovo capitolo cinematografico, “31”, una angosciante, e sicuramente purulenta e sanguinosa, escursione nel circo partorito dal genio (o follia) di Zombie che già qualche critica ha suscitato. Staremo a vedere. Alla prossima, sclerata!

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DICKINSON SOTTO LA LENTE di Stefano Giorgianni

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e una ad honorem in Musica che gli è stata conferita dallo stesso ateneo nel 2011. Aggiornata su tutti i fatti, Brigitte Schön chiama in causa lungo la sua analisi eventi storici (come la prima Guerra del Goldo in ‘1000 Points Of Light’ di “Balls To Picasso” e la corsa allo spazio della Guerra Fredda fra USA e URSS in ‘Space Race’ di “Skunkworks”), la fantascienza (in ‘Toltec 7 Arrival’ di “Accident Of Birth”), l’enigmatica figura dell’esoterista Aleister

Crowley (in ‘Starchildren’ di “Accident Of Birth” e in molte altre), reminiscenze letterarie da Shakespeare e artistiche da William Blake, che si scoprono essere le due ispirazioni più presenti nel lavoro solista dickinsoniano. In conclusione, “Bruce Dickinson Insights” si può annoverare fra i libri che non possono mancare nella collezione degli appassionati maideniani e soprattutto nello scrigno degli amanti di Bruce Dickinson.

Ph. Alice Ferrero

Parlare degli Iron Maiden e in particolare di Bruce Dickinson non è mai facile. Spesso ci si scontra con i fans di lunga data che venerano i loro idoli e non lasciano che questi siano sfiorati da critiche o da aberranti analisi. L’opera che Brigitte Schön, linguista e insegnante tedesca, presenta è, diciamolo da subito, al riparo da qualsiasi attacco, in quanto ella stessa fan della prima ora della Vergine di Ferro e soprattutto del leggendario vocalist. “Bruce Dickinson Insights”, questo il titolo del libro, è un’attenta, acuta e soggettiva analisi della carriera solista del cantante di Worksop, attraverso uno studio delle

fonti che hanno influenzato il concepimento dei i pezzi contenuti in tutti gli album da “Tattooed Millionaire” a “Tyranny Of Souls”. L’obiettivo che la Schön si era posta non era assolutamente facile da raggiungere, bisognava conoscere il Dickinson artista e uomo a tutto tondo, essere aggiornati sulla sue intime passioni e sulle sue influenze, scandagliare la biografia in cerca di indizi; ebbene, possiamo dire che l’autrice è riuscita in tutti questi compiti concependo un volume di facile lettura, dettagliato ma non pedante e soprattutto non imperniato su quell’arrogante sofismo che di frequente si riscontra nelle analisi critiche della musica di un qualsivoglia personaggio. Il problema primario che si erge come un muro di fronte allo scrittore quando si va a parlare di Bruce Dickinson è la sconfinata cultura di una persona che può dirsi cantautore, sceneggiatore, scrittore, conduttore radiofonico, pilota di linea, con una laurea in Storia conseguita nel 1979 alla Queen Mary, University of London

Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Bruce Dickinson Insights. An Interpretation Of His Solo Albums Autore: Brigitte Schön Editore: Matador Pagine: 212 ISBN: 978-1784625139 Prezzo: 9,99 £


EXTENDED EDITION

Ogni tanto capita, fra i malloppi di carte (per lo più virtuali) e volumi che arrivano in redazione, di trovare qualcosa di veramente m e r itevole e oggi siamo qui a parlarne. Negli ultimi anni la saggistica e critica musicale ha subito un’impennata di uscite, talvolta (e forse per la maggior parte) discutibili, però un giorno qualsiasi accade che, rovistando sbadatamente nella montagna di email “a scopo d’ignoranza”, si veda brillare una gemma di raro valore. Il libro di Alessandro Pomponi è da inserire in questa categoria, quella delle uscite imperdibili, quella degli accenti dell’orgoglio italico della ricerca armonica, oseremmo dire anche filologica (ammettendo l’etimologia del termine) per l’amore con cui l’autore si è prodigato nella sua indagine per nulla facile

e scontata. C’è del marcio oltre la Cortina, ebbene sì, peggio della Danimarca shakespeariana, una viscerale attività di band del sottosuolo, come direbbe Dostoevskij, “siamo arrivati al punto da considerare la vita vera quasi una fatica. E perché ci agitiamo tanto, perché facciamo gli stravaganti?”, scriveva lo scrittore russo, e quello che volevano, per cui si agitavano i gruppi dell’est europeo era la libertà di fare musica. In “Rock Oltre Cortina”, pubblicato da Tsunami Edizioni, si estraggono a forza le budella di un corpo malato, si mostra al pubblico che in quella massa informe di paesi ammutoliti, oltre quel limite invisibile fatto di costrizioni e amara, violenta censura c’era vita pulsante, un’anima ribelle fatta di tanti giovani rabbiosi, coscienziosamente

eversivi, convinti che il suono potesse rompere le catene dell’oppressione, dare voce a una genera z io ne c h e aveva ingoiato i carboni ardenti della nerboruta fornace comunista. Si scopre così che Beat, Prog e Psichedelia (ma non solo) penetrarono le fitte fessure della Cortina, che quei generi (ed anche altri) diedero vita a un meraviglioso giardino di gruppi dalla non comune bellezza e raffinatezza, a partire dall’art rock dei ceco - ma oggi diremmo - slovacchi Collegium Musicum, dal progressive dei conterranei Modrý Efekt (Blue Effect), passando per il

jazz rock dei polacchi SBB e del cantautore Czesław Niemen, e come non nominare gli straordinari ungheresi Omega, o evitare (per lasciarvi la c u r io s i t à ) di elencare la miriade d i gruppi della Germania dell’Est. Tantissimo materiale, a ogni riga una nuova scoperta, e al vertice di tutto c’è la preparazione di Alessandro Pomponi, senza la quale il volume non sarebbe riuscito così dettagliato e stimolante. In una parola: imprescindibile.

Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Rock Oltre Cortina. Beat, Prog, Psichedelia e altro nei paesi del Blocco Comunista - 1963-1978 Autore: Alessandro Pomponi Editore: Tsunami Pagine: 400 ISBN: 978-88-96131-84-8 Prezzo: 22,00 Euro Acquistalo qui!

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Segreti, consigli, curiosita' dal mondo del tatuaggio Su questo numero abbiamo il piacere di scambiare due chiacchiere con uno dei tatuatori più conosciuti in Italia per la sua dedizione verso il mondo horror, vuoi perché Clod The Ripper è un musicista che ha militato come bassista in svariate death metal band come Nobody, Gory Blister, Septycal Gorge, ecc ed attualmente come batterista di Modus Delicti e bassista dei Blasphemer, vuoi perché la sua arte è inconfondibile se pensiamo che riesce ad imprimere su pelle vere e proprie opere d’arti prettamente improntate su uno stile macabro e oscuro. Bene Clod inizio subito con il farti una domanda che può sembrare un po’ banale ma che può farti raccontare tanto… so che a volte trascorri del tempo in cimiteri, visiti location del tutto particolari ed ami tutto ciò che sia collegato al mondo oscuro come gli stessi horror movie e la musica estrema, ne trai fonte di ispirazione? Ciao Alex comincio col ringraziarti per le belle parole di presentazione, sono davvero onorato! Sì, effettivamente sono sempre andato alla ricerca di fonti d’ispirazione in luoghi quali cimiteri, ossari, piuttosto che cattedrali o musei; trovo grande energia e pace e la cosa non può che continuare a stimolarmi!

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Oltretutto ho la fortuna, di viaggiare molto, quindi cerco sempre di documentarmi sulla città che andrò a visitare, così da riuscire a scovare quei luoghi magari anche meno gettonati, ma più carichi di storia occulta e decadente!I film sono fonte d’ispirazione costante e tatuare personaggi di film horror mi riempie sempre di gioia! Per quanto riguarda la musica le copertine dei dischi metal regalano grandi perle d’arte gore e i testi sono spesso anch’essi un pozzo di nuove idee. Quando è nata la voglia di voler iniziare ad usare una macchinetta e cosa ti ha spinto a farti diventare uno dei tatuatori più famosi al mondo? Ti ringrazio nuovamente per annoverarmi tra i grandi nomi del panorama internazionale, ma credo di essere solo all’inizio di questa lunga strada... sempre che io riesca a percorrerla fino in fondo! In ogni caso all’età di circa 7 anni dissi una volta ai miei genitori che come secondo lavoro avrei voluto fare il tatuatore! Ero piccolino e non sapevo potesse essere una vera e propria professione, ma già mi affascinava l’idea! Più concretamente in età adolescenziale, avvicinandomi sempre più alla musica metal, rimasi rapito dall’immagine di questi musicisti ‘brutti e cattivi’ e pieni di tatuaggi, quindi decisi che volevo essere brutto e cattivo anche io e aiutare a far diventare brutto e cattivo chiunque volesse, tatuandolo! Milano City Ink è una delle realtà più conosciute in Italia, quando ne facevi parte sei finito su Dmax, oggi sei titolare del theINKfested House, uno studio tutto tuo, la tua presenza nelle convention più famose ormai ti ha reso una vera e propria icona nel mondo dell’horror tattoo, sei stato pubblicato su magazines e libri in tutto il mondo, cosa rappresenta per te tutto questo?

Non passa giorno che io non mi fermi a riflettere su dove sono arrivato, sulle soddisfazioni e gratificazioni che ricevo dopo ormai oltre 16 anni di professione... non so cosa dire, mi sento sempre come un neofita in questo ambiente ed ho sempre gli occhi che brillano! È una grande gioia per me ed ancora non ci credo! L’arte del tatuaggio ultimamente sta diventando una vera e propria moda e fortunatamente il tuo stile è destinato solo a grandi appassionati e intenditori che cercano di collezionare sulla propria pelle un pezzo unico e raro… come vedi questa evoluzione? Nessuno verrebbe mai a chiederti di tatuarsi una fragolina o anche tu sei vittima di richieste assurde dettate dalle mode? Personalmente non amo la piega che ha preso il mondo del tatuaggio a livello di mainstream! Tu sicuramente puoi capire cosa intendo... Provengo in tutto e per tutto dall’underground: musica, cinema e tatuaggi! Amo le sottoculture al ‘limite’ e vedere quanto ormai sia sdoganato e trendy il tattoo mi crea imbarazzo! Fortunatamente posso dirti che la mia clientela è davvero eccezionale e mi rende giorno dopo giorno orgoglioso delle mie scelte professionali! -Quanto è importante per te il mondo del tatuaggio e che emozioni si provano a saper imprimere sulla pelle dei capolavori come i tuoi? Io ti definirei l’H.R. Giger del tatuaggio italiano. Adesso esageri davvero... così mi imbarazzi... l’arte del tatuaggio è il mio mondo! La mia vita! Io senza di esso non esisterei o almeno in parte non esisterei, visto che anche la musica mi ha dato e continua a darmi tanto. Ad essere sincero io non sono mai completamente soddisfatto dei miei lavori, mi sembra sempre di non riuscire a

dare il massimo! Chiudiamo con una riflessione. Dobbiamo tutelare e rispettare questa arte, cosa mi diresti in merito a questo argomento? Basta tatuatori improvvisati! Se amate davvero i tatuaggi non buttatevi alla ceca a tatuare e rispettate quest’antica arte! Occhio anche ai super fenomeni da social network! Ringraziamo ancora Clod The Ripper per questa fantastica intervista. Alla prossima amici tatuati!!!

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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -

+PRISTINE @ LEgend Club (MI) (19 Febbraio 2016) Testo e Foto di Alice Ferrero

I Blues Pills, meritatamente supportati dal colosso Nuclear Blast , fanno breccia nuovamente con il loro caldo blues hard rock e voce soul sulla scena italiana venerdì 19 febbraio in un Legend Club di Milano riempito in ogni ordine di posto. Ad aprire le danze i norvegesi Pristine, band dalle sonorità rock psichedeliche, che restituendo con energia e passione quell’esperienza blues rock tipica degli anni Settanta, grazie alla figura carismatica della cantautrice Heide Solheim, trasportano l’intero Legend in mezzo a quel periodo, supportati anche da un pubblico in abbigliamento chiaramente vintage. E’ con “Carry Your Own Weight”, dal secondo disco “No Regret” che la scatenata cantante Heide, abbandonata a movimenti convulsi, ed il virtuoso chitarrista Espen Elverum Jakobsen aprono il concerto, coivolgendo immediatamente tutta la sala; seguono una serie di estratti dall’ultima fatica da studio “Reboot”, come “California”, una toccante “Don’t Save My Soul” eseguita con grande maestria solo da voce e chitarra, seguita da una pimpante “Bootie Call”. I quarantacinque minuti a loro disposizione passano letteralmente in un baleno, lasciando i nostri carichi e soddisfatti. Heide Solheim con la sua genuinità, sembra in una trance agonistica tale da rimanere quasi spiazzata dalla reazione del pubblico. Con questo genere nato oltre quarant’anni fa, emerge l’abilità del gruppo norvegese a proporre musica genuina e per nulla artefatta. Nonostante questo tipo di suono stia tornando in auge, con i Pristine percepiamo una certa onestà intellettuale nella loro proposta. I suoni baciano l’esibizione dei Pristine, i quali lanciati dai due leader della band – egregiamente appoggiati dalla sezione ritmica – si congedano dal pubblico meneghino con le nuove “Derek” e la romantica “All I Want Is You” ricevendo elogi ed applausi convinti da parte di tutti i presenti.


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Se Black Smotlist Blue Pills ke Bliss Astralpho No hope ne left for Gypsy me Dig In Elements High Clas and things Ain’t no s Woman Little Su change Yet to Fn Devilman ind

Risolti i tempi tecnici del cambio palco, è il turno degli headliner Blues Pills, giovane quartetto americano - svedese - francese, capace di creare un’atmosfera davvero unica, intensa, che ci conduce direttamente indietro al tempo delle “blue pillole” antenate come Fleetwood Mac, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Janis Joplin, catalizzato la voglia di retrò sulla scena rock degli ultimi anni. Con l’idea di prendere la musica soul e combinarla con il blues e il rock’n’roll, trasformano il loro sound in una nuova forza di energia pura. Grazie alla vitalità e la freschezza del loro angelo biondo Elin Larsson, dalla voce decisa, unita alle intense linee di basso, batteria e assoli di chitarra ben armonizzati con assoluta padronanza dal solo diciottenne Dorian Sorriaux, risultano caldi al punto giusto, anche con un solo album a disposizione e una manciata tra EP e singoli sin qui incisi. L’apertura del concerto è affidata a “Black Smoke”, “Bliss” ed “Astralphone, dove la performance dei Blues Pills appare sin da subito calda e coinvolgente. Segue “No Hope Left For Me” pezzo ricco di grinta e pathos, per poi sfociare nella cover “Gypsy”, che invita e conduce il pubblico a seguire una tarantolata Elin, che si muove sul palco scalza. “Elements And Things”, che dovrebbe trovare posto nel nuovo disco in uscita prima dell’estate, fa da preludio alla hit “High Class Woman” dal testo potente, pieno di emozioni, dove la voce jazz-soul di Elin spicca per la sua graffiante energia, seguita a ruota da “Ain’t No Change” e “Little Sun” che chiudono il set di fronte ad un pubblico visibilmente soddisfatto. Il primo bis è un altro pezzo che dovrebbe essere incluso nel prossimo lavoro intitolato “Yet To Find”, eseguito in acustico da Dorian ed Elin, seguito dalla potente “Devilman”, vero e proprio inno, che riesce a coivolgere tutta l’audience facendola cantare a squarciagola. I Blues Pills con la loro autenticità del suono ed il loro stile blues rock proiettato nel futuro, che rende omaggio ai fondatori della musica rock psichedelico / hard degli anni ‘60 e primi anni ‘70, ci hanno assolutamente catturati tutti, quindi non ci rimane che attendere con trepidazione il loro nuovo lavoro.

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KIllshot



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@ Teatro degli ARcimboldi (MI) di Marco Lazzarini (17 Marzo 2016) Testo Foto di Roberto Gallico Dream Theater, due parole che da molti anni a questa parte sono motivo di discussioni e battibecchi… ma contemporaneamente anche di emozioni e momenti di estasi: ognuno ha la sua diversa e colorita opinione sul combo americano, nessuno si è mai astenuto dal pronunciarla animatamente. L’unica

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certezza che mette d’accordo (quasi) tutti è identificabile in altre tre parole che, una volta accostate alle prime due, vanno inevitabilmente a risplendere di un’assoluta luce propria: queste sono ‘Images And Words’. Ma, una loro esibizione dal vivo dovrà essere sempre e comunque motivo di analisi, studio, apprendimento… e difficilmente potrà essere discussa. Ed è così anche (e soprattutto) in occasione del ritorno dei nostri in terra italica, questa volta con uno spettacolo appositamente studiato per i teatri: uno

spettacolo stupefacente, che guarda caso in lingua originale fa… ‘The Astonishing’! Il teatro Arcimboldi di Milano appare azzeccato per l’occasione, il palco ci viene subito mostrato nell’interezza del suo allestimento scenografico: nessun tendone, nessun telo nero a coprire la batteria, tutto ci appare subito per come sarà. Cinque grossi maxi schermi a led sul retro, altri piazzati sapientemente sulle pedane di tastiera e batteria: siamo pronti a goderci questo film musicale. Una voce profonda e gutturale introduce i NOMACS, i quali ap-


- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT paiono minacciosi sui led con i loro suoni distorti e robotici… ma finalmente eccoli: John, Mike, James, Jordan, e ancora John. Che lo spettacolo abbia inizio! La maestosa intro strumentale ci fa subito intuire l’ottimo stato di forma dei nostri, e per il momento la resa sonora è più che buona. Non possiamo dire lo stesso per l’ingresso di LaBrie: prima strofa mozzata a metà, causa malfunzionamento precoce del microfono. Dopo qualche brivido di troppo, il problema viene risolto. James sembra in forma, tiene il palco con la solita maestria, tralasciando momentaneamente il contatto diretto

Primo set Descent of the NOMACS Dystopian Overture The Gift of Music The Answer A Better Life Lord Nafaryus A Savior in the Square When Your Time Has Come Act of Faythe Three Days The Hovering Sojourn Brother, Can You Hear Me?

con il suo pubblico. Inutile stare a parlare della tecnica, della pulizia e della precisione dei restanti quattro strumentisti: chi può contestarli in questo? Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, noto con un goccio di rammarico quanto i nostri anno dopo anno siano sempre meno coinvolgenti dal punto di vista prettamente estetico. La scaletta ripercorre esattamente tutto l’ultimo album, atto dopo atto: è un gigantesco film musicale. Gli schermi a led ci mostrano i personaggi, riusciamo così

A Life Left Behind Ravenskill Chosen A Tempting Offer Digital Discord The X Aspect A New Beginning The Road to Revolution

a comprendere meglio gli sviluppi della storia: le emozioni sono veramente frequenti. L’ammirazione per quanto creato dai DT era già enorme, dopo questo spettacolo risulta definitiva: che capolavoro, amici miei! Siamo alla fine e finalmente, durante gli ultimi due brani, James invita tutti ad alzarsi e a cantare assieme a loro: e così termina questo enorme spettacolo, che ci mostra una band assolutamente non intenzionata ad appendere plettri e bacchette al chiodo: c’è ancora tantissima voglia di sorprendere e di creare. Complimenti sinceri!

Secondo set BIS 2285 Entr’acte Power Down Moment of Betrayal Astonishing Heaven’s Cove Begin Again The Path That Divides Machine Chatter The Walking Shadow My Last Farewell Losing Faythe Whispers on the Wind Hymn of a Thousand Voices METALHAMMER.IT Our New World

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@ ALCATRAZ (MI) (22 Marzo 2016) Foto di Emanuela Giurano La data di quest'anno dell'opera metal itinerante degli Avantasia era sicuramente una delle più attese e lo spettacolo cui si è assistito possiamo dire aver soddisfatto le attese dell'infuocato pubblico italiano. Il gruppo allestito per l'occasione da quello che è a tutti gli effetti il capitano del progetto, l'incontenibile e inesauribile Tobias Sammet, è veramente d'eccezione. Sono difatti presenti personaggi rinomati e voci storiche del panorama Metal, quali Michael Kiske, Oliver Hartmann, Amanda Sommerville, Sasha Paeth, Bob Catley, Eric Martin e Jørn Lande. Difficile assegnare un aggettivo a ognuno di queste celebrità della nostra musica, in quanto la loro presenza ha saputo persino sopperire ad alcuni difetti, se così si possono definire, a livello audio. Lo show inizia con 'Mystery Of A Blood Red Rose', estratta dall'ultimo album "Ghostlights", la scenografia è magniloquente, gli ascoltatori già in visibilio dopo pochi secondi. Sì, perché sarà il pubblico a fare la differenza in questo show, ad accompagnare l'esercito di Sammet verso l'inevitabile trionfo. Sullo sfondo

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l'artwork dell'album creato da Rodney Matthews (noto ai più per essere l'artefice delle cover dei Magnum, quindi nuovo intreccio fra Avantasia e lo storico gruppo britannico). L'Alcatraz trema sino alle fondamenta e le scosse non accennano a fermarsi per l'intera serata, complici anche la grande tenuta del palco dei protagonisti, su tutti il leggendario Michael Kiske, che delizia il pubblico con la sua partecipazione in 'Ghostlights'; a questo punto i fans sono estasiati, in successione arriva però un altro pezzo forte della serata Ronnie Atkins dei Pretty Maids per 'Invoke the Machine', per poi rivedere Kiske sul palco con Sammet per 'Unchain The Light'. Dopo una breve pausa entra un monumento della musica rock, Bob Catley, il cui timbro vocale è subito distinguibile e fa cambiare registro agli Avantasia. 'A Restless Heart And Obsidian Skies' e 'The Great Mystery' sono delle perle da conservare nella memoria degli spettatori. Con 'The Scarcrow' si assiste invece alla potenza di Lande, che irrompe come un fulmine a ciel sereno. I cantanti che si sono succeduti

sino a questo momento hanno cullato il pubblico, il norvegese al contrario lo sveglia con un'autorità vocale inaudita. Si susseguono poi sul palco Oliver Hartmann per 'The Watchmakers' Dream' e Eric Martin per 'What's Left Of Me', con due prestazioni molto buone e che continuano a rivoltare la serata, come fosse una vera opera teatrale. La suite 'The Wicked Symphony' è sconvolgente per l'ottima resa live e le scenografie sono altrettanto stupefacenti, oltre alle coreografie del coro formato da Amanda Somerville e Herbie Langhans. Come detto poco più in su l'unica pecca è l'audio, che talvolta manca di equilibrio e si è visto Sammet, più di una volta, inviare un messo della squadra al mixer per rimediare a questi sbalzi. La maggior parte di questi problemi si è riscontrata nella prima parte del concerto, assestandosi via via che lo show proseguiva. Magari i molti di voi presenti non l'avranno notato, anche se la situazione era abbastanza evidente. Questo però non ha rovinato né lo show né l'entusiasmo della gente, che ha supportato i suoi idoli fino alla fine.


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SETLIST 01. Mystery of a Blood Red Rose 02. Ghostlights (with Michael Kiske) 03. Invoke the Machine (with Ronnie Atkins) 04. Unchain the Light (with Ronnie Atkins and Michael Kiske) 05. A Restless Heart and Obsidian Skies (with Bob Catley) 06. The Great Mystery (with Bob Catley) 07. The Scarecrow (with Jørn Lande) 08. Lucifer (with Jørn Lande) 09. The Watchmakers’ Dream (with Oliver Hartmann) 10. What’s Left of Me (with Eric Martin) 11. The Wicked Symphony (with Oliver Hartmann, Jørn Lande, Amanda Somerville, Herbie Langhans and Eric Martin; without Tobias) 12. Draconian Love (with Herbie Langhans) 13. Farewell (with Amanda Somerville and Michael Kiske) 14. Stargazers (with Michael Kiske, Jørn Lande, Ronnie Atkins and Oliver Hartmann; without Tobias Sammet) 15. Shelter from the Rain (with Michael Kiske and Bob Catley) The Story Ain’t Over (with Bob Catley) 16. Let the Storm Descend Upon You (with Jørn Lande and Ronnie Atkins) 17. Promised Land (with Jørn Lande) 18. Prelude/Reach Out for the Light (with Michael Kiske) 19. Avantasia (with Michael Kiske) 20. Twisted Mind (with Eric Martin and Ronnie Atkins; without Tobias Sammet) 21. Dying for an Angel (with Eric Martin) Encore 22. Lost in Space (with Amanda Somerville) 23. Sign of the Cross / The Seven Angels (with everyone on stage)

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@ ALCATRAZ (MI) (8 APRILE 2016) Racconto fotografico Foto di Vincenzo Nicolello

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80 Walls Of Jericho No One Can Save You From Yourself (Napalm) Superare le avversità, i problemi che ci costringono ad abbandonare le nostre passioni, la nostra famiglia, la carriera che tanto a fatica ci siamo costruiti. Questo può essere il sunto del messaggio contenuto nel nuovo disco degli americani Walls Of Jericho, che dopo ben otto anni di assenza dalla scena gettano prepotentemente sul mercato questo “No One Can Save You From Yourself”, un concentrato di cattiveria e riflessione che si è già riservato un posto nella toplist degli album hardcore del 2016. Una lunga pausa dovuta alla maternità della cantante Candace Kucsulain, scatenata e massiccia ugola che riuscirebbe a mettere in ombra il vocalist più irruento, tornata in splendida forma dopo

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questi anni di inattività. Ad accompagnare la frontwoman c’è la solita line-up composta da Chris Rawson e Mike Hasty alle chitarre, Aaron Ruby al basso e Dustin Schoenhofer alla batteria, solidità di formazione che funge da fulcro per la riuscita del full-length. Gli Walls Of Jericho riprendono da dov’erano rimasti con “The American Dream” e, se possibile, si inoltrano in profondità in territorio hardcore, sbaragliando la concorrenza modaiola che vuole e cerca di imporre intrugli a loro non confacenti, e resuscitando il loro sound originario dei tempi di “The Bound Feed the Gagged” (2000). Non ci sono inutili pause a intervallare i pezzi di “No One Can Save You From Yourself”, solamente una strenua difesa

dell’aggressività, strumento ideale per veicolare il pensiero che la band vuole far arrivare agli ascoltatori, una dottrina di resistenza, un insegnamento di responsabilità per la nostra vista che ognuno deve raccogliere se di fronte al bivio della scelta. Così da “Illusion Of Safety” a “Forever Militant”, da “Fight The Good Fight” a “Cutbird”, fino alla notevole “Relentless” lo schiacciasassi degli Walls Of Jericho non si ferma, non vuole farlo, non deve farlo. Un disco scalmanato, non adatto a tutti i palati (specialmente ai delicati), ma con sottofondo testuale che risalta e offre spunti di meditazione. L’hardcore è anche questo, chapeau. Stefano Giorgianni


Deftones Gore (Roadrunner) I Deftones finalmente presentano il loro ottavo lavoro, ‘Gore’. L’album si è fatto aspettare poiché doveva uscire a Novembre. La band ha confessato di voler fare le cose con tranquillità questa volta e il risultato è basato su contrasti forti di violenza e bellezza, tra vibrazioni anni Ottanta e suoni moderni. Il mix di stili che incrociano la loro storia e introducono nuove influenze, mostrando quanto la band sia evoluta durante una carriera lunga e piena si sperimentazioni. Non fatevi ingannare dal titolo alquanto crudo, ma guardate la copertina per avere un’anticipazione di quello che vi aspetterà: fenicotteri rosa in volo. Il primo singolo

‘Prayers/Triangles’, seppure riesca a catturare ogni singola sfumatura che scorgerete nell’album, è un pezzo ben costruito su suoni molto atmosferici e trascinati sotto la voce di Chino Moreno, ora dolcissima, ora tagliente. Potrebbe sembrare che questo pezzo non avanzi come dovrebbe, ma ha il suo punto nell’interezza del lavoro. Qui, come nel resto dell’album, e in pieno stile Deftones, la parte testuale la fa da protagonista; oramai la poeticità di questa band è ben conosciuta. Se siete inclini alla vena più heavy della band, allora pezzi quali ‘Doomed User’, ‘Xenonle’, ‘(L)MIRL’ sono fatti per voi. Personalmente io prediligo momenti come ‘Prayers/

Triangles’ o ‘Phantom Bride’, quest’ultima tra le altre cose vede un ospite di tutto rispetto: Jerry Cantrell degli Alice In Chains. In conclusione credo che i Deftones possano progredire il loro stile e mutare i momenti più generici di ‘Gore’ in composizioni particolari. Posso essere altresì certa che i fan accaniti troveranno molte cose da amare in questo lavoro, altri potrebbero invece non essere completamente saziati da quest’ultima fatica. Questa è difatti l’impressione che l’album mi lascia, qualcosa manca per renderlo memorabile, anche se in se rimane solidissimo. Paky Orrasi

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Myrath Legacy (earMUSIC) 90 American Head Charge Tango Umbrella (Napalm)

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Passo decisivo per i Myrath verso l’Olimpo del metallo. A cinque anni dall’uscita del notevole ‘Tales Of The Sands’ i tunisini tornano con ‘Legacy’, un disco che esalta il sopraffino Oriental Metal di matrice sinfonica che da sempre contraddistingue la musica dei nordafricani. Un album con una genesi complicata, figlia della scomparsa del manager, che ha costretto la band a riorganizzarsi mettendo in pausa l’attività compositiva. Ma è dalle avversità che nascono i capolavori e ‘Legacy’ ne è la conferma, un’opera d’arte fortemente legata alle radici dei musicisti, quella possente componente folkloristica che in quest’ultima fatica viene in tutto e per tutto bilanciata con una giusta dose di metallo che non ha nulla da invidiare a mostri sacri come i Symphony X, con i quali i Myrath hanno da poco terminato un tour europeo di successo. Molte le tracce da segnalare per la qualità, a partire da ‘Believer’, vera opener del disco che subentra alla suggestiva intro ‘Jasmin’, un pezzo trascinante che può ergersi a manifesto dell’attuale sound del gruppo e del quale è stato realizzato un videoclip mozzafiato finanziato dai fans attraverso il crowdfunding. Con l’energica ‘Get Your Freedom Back’ i Myrath sembrano voler far menzione alla recente rivoluzione che ha avuto luogo nella loro madrepatria; dalle prime tracce si può apprezzare quanto la sintonia fra i componenti del gruppo sia oramai arrivata al suo culmine, una sinergia pressoché irraggiungibile e assai rara da riscontrare nelle band odierne. La sezione ritmica è praticamente perfetta e mai invadente; gli arrangiamenti di Elyes Bouchoucha sono la vera perle che accompagna tutte le composizioni, delicate in alcuni punti e sontuose in altri, una delizia per l’udito; le chitarre di Malek Ben Arbia sono invece aggressive al punto giusto e danno quella spinta in determinati brani che altrimenti sarebbe mancata. Il protagonista è però senza dubbio il cantante Zaher Zorgati, un connubio fra tradizione e modernità, a volte addirittura vicino a Russell Allen altre a Roy Khan. Menzione particolare per l’arabeggiante ‘Nobody’s Lives’. L’Oriental Metal ha dei nuovi re, celebriamoli. Stefano Giorgianni

Undici anni dopo il loro ultimo lavoro, gli American Head Charge tornano con “Tango Umbrella”,per Napalm Records.Per dare una generale indicazione orientativa sul genere, si pensi ai Meshuggah e agli Strapping Young Lad, con aggiunte melodiche. Azzeccata la scelta del primo brano ‘Let All The World Believe’, sicuramente uno dei più convincenti,con un intro elettronico che cede il passo a una martellante sezione ritmica e un ritornello riconoscibile al primo ascolto.‘Drowning Under Everything’ è apprezzabile per la ricerca di diversificazione compositiva,con l’alternanza di ritmiche e di stili vocali. In ‘Antidote’ spicca la sovraincisione di diverse voci, espediente utilizzato in tutto l’album, con armonizzazioni dissonanti. Non è del tutto chiaro se questa sia una precisa scelta stilistica per dare più corpo alla voce, se sia un tentativo di mascherare qualche lacuna oppure se sia solo un esperimento di suoni alternativi. ‘Sacred’ è un brano che richiama i Silverchair, assieme a ‘A King Among Men’, una ballata che però non riesce a decollare,così come il brano che chiude il disco. Nota di merito per i suoni delle chitarre, pesanti e pieni. Il tappeto ritmico

è solido e rassicurante, privo di virtuosismi;le linee di basso spiccano in alcuni brani,arricchendo e rendendo accattivante il sound. Con questo disco hanno gettato interessanti spunti di rinnovamento,che possono apparire inconsueti come affascinanti; la risposta dei fans sarà determinante per le future scelte della band. Angela Volpe

Joe Bonamass Blues Of Desperation (Mascot)

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Svolta rock per il bluesman Joe Bonamassa per questo nuovo album ‘Blues Of Desperation’. Un disco che mette il turbo, almeno alle orecchie di noi rocker, alla carriera del celebre musicista statunitense che sforna release con scadenza impressionante, alternando studio e live. Dopo aver recensito, due numeri fa, l’ultimo ‘Live At Radio City Music Hall’, che ha immortalato il chitarrista nel tempio della musica a stelle e strisce, ci troviamo sulla scrivania quest’ultima, notevole fatica discografica. Si sentiva già nell’aria che il buon Joe voleva dare una (probabilmente momentanea) sterzata alla sua direzione stilistica, implementando ancor di più il rock nelle sue composizioni, sempre con gusto, la leggiadria e la gran classe che lo contraddistinguono. Il disco si apre col vero e

proprio riffone bluesrock di ‘This Train’, una traccia movimentata nel classico stile di Bonamassa, ma sempre con quel po’ di energia in più menzionata in precedenza. I pezzi che colpiscono maggiormente sono però ‘Mountain Climbing’ e ‘Drive’, la prima è un trascinante e vigoroso hard rock dominata dalla sezione ritmica e dalla profonda voce dell’artista, la seconda è invece quieta, riflessiva, un brano che immortala l’attitudine on the road del bluesman di Utica. Non mancano tuttavia episodi tradizionali del sound bonamassiano come ‘No Good Place For The Lonely’ e l’acustica ‘The Valley Runs Low’. ‘Blues Of Desperation’ è un disco che potrà sicuramente trovare apprezzamento anche nell’audience metallica. Stefano Giorgianni

Doro Love’s Gone To Hell (Nuclear Blast)

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Trentaquattro anni sulle scene e non sentirli: Doro Pesch, iconica figura femminile del metal teutonico, continua a deliziare il suo nutrito seguito con una chicca di tutto rispetto: ‘Love’s Gone To Hell’ è un EP di sei tracce, volto a promuovere il nuovo, omonimo singolo, un brano potente e molto orecchiabile, lineare ma mai scontato. ‘Love’s Gone To Hell’ viene presentato in tre

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versioni diverse: quella ufficiale, quella radiofonica e la demo, meno riveduta e corretta ma estremamente interessante per autenticità e sentimento. Le tre tracce rimanenti sono più che semplici riempitivi. In ‘It Still Hurts’ Doro è accompagnata da un guest vocalist d’eccezione: Lemmy Kilmister, che in questa occasione fa sfoggio del suo lato più tenero in una struggente power ballad; tenendo a mente gli ultimi eventi, questo duetto sembra ancora più sentito e accorato, non faticherà di certo a toccare il cuore degli ascoltatori cresciuti a pane e vecchia scuola. Troviamo poi due performance live: il classico ‘Save My Soul’ e la più recente ‘Rock Till Death’, in cui la bionda vocalist divide il microfono con Hansi Kursch, potente voce dei Blind Guardian. Doro si conferma ancora una volta come un caposaldo del metal classico, il tempo non è riuscito a scalfire minimamente il suo magnetismo e il suo charme. ‘Love’s Gone To Hell’ è l’ennesima, ottima uscita della bella di Düsseldorf, un buon pezzo da aggiungere alla vostra collezione. Alessandra Mazzarella

Raubtier Barsarkagang (Despotz) 73 Il carro armato dei Raubtier non accenna ad arrestare la propria cor-

sa. Dopo il devastante ‘Pansargryning’ (2013), il trio svedese torna con questo ‘Bärsärkagång’ a dispensare violenza senza pietà. Il gruppo, capitanato dall’instancabile Pär Hulkoff, sceglie di reindirizzare lo stile dell’album più verso i primi dischi, lasciando grezze la maggior parte delle composizioni, puntando su in riffing ai limiti del thrash, diminuendo il comparto tastieristico e concentrando tutto sull’aggressività. Ne è esempio la title-track e opener, dove il rauco cantato di Hulkoff è supportato da una batteria mitragliante e da un sottile tappeto melodico fornito dalle tastiere. Ancor più solide sono le successive ‘Bothniablod’ e ‘Den Sista Kulan’, nelle quali l’approccio militaresco dei Raubtier si fa massiccio, soprattutto nella seconda, una traccia anthemica, una marcia verso l’inevitabile vittoria. Vicina all’industrial, altra faccia della medaglia degli svedesi, è ‘Levande Död’, mentre una delle migliori tracce si attesta essere ‘Genom Allt’, un pezzo simile agli ultimi Raubtier, orecchiabile e compatta con un chorus trionfante a spiccare. Mai scontata pure la stesura dei testi, punto forte di Hulkoff. Anche questa volta gli agguerriti svedesi hanno colpito nel segno, peccato solo per la scarsa diffusione della loro musica che siamo certi potrebbe raccogliere molti più adepti. Stefano Giorgianni

Lords Of Black II (FRONTIERS)

85 Kvelertak Nattesferd (Roadrunner)

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Sono passati tre anni da ‘Meir’ e i Kvelertak, giunti al terzo album, sono più in forma che mai. Sono sempre dei ragazzacci chiassosi, ma la maturità ha restituito loro qualcosa di più denso, corposo, come se la naturale irruenza adolescenziale sfociasse in una rabbia più adulta e strutturata. E’ come riuscire a canalizzare un mero impulso istintivo in una forma di comunicazione più efficace, diretta e modulata dal pensiero. ‘Nattesferd’ è innanzitutto un disco molto ben prodotto (anzi, auto-prodotto), che quindi presenta caratteristiche di precisione senza mancare di originalità. E’ un album d’impatto frontale, non omologato, non allineato a partire dal primo pezzo ‘Dendrofil For Yggdrasil’, dove l’ordito ritmico stringe in una morsa mentre il cantato indomito di Erlend Hjelvic infrange ogni barriera, scivolando dallo scream al metalcore. ‘1985’ cambia il registro alleggerendo un poco i toni, che però si riaddensano nefasti nella martellante ‘Bersekr’. La title-track è un capolavoro intricato di corti circuiti sonori e di riff epilettici che creano uno stato di tensione spinto sull’orlo del collasso nervoso. Perché queste belle facce da ragazzi norvegesi nascondono nell’intimo una brutalità

Grande sorpresa per i Lords Of Black, giunti con questa release al secondo full-length. Gli spagnoli lanciano sul mercato un disco di alta caratura tecnica e con brani che, pur rimanendo aggressivi al punto giusto, puntano anche sull’orecchiabilità. Ai più attenti non sarà inoltre sfuggito che il vocalist, Ronnie Romero, è stato scelto dall’immortale Ritchie Blackmore per riformare i Rainbow e un’ardua sfida attende il cantante cileno. Forse per questo motivo l’album dei Lords Of Black era molto atteso, per sentire quali fossero le reali capacità del vocalist e dobbiamo dire che, pur conoscendo già l’artista, in questo ‘II’ non delude di certo le aspettative. Lasciando giustamente da una parte le doti canore di Romero (troppo spesso e forse a ragione accostato al compianto Ronnie James Dio, anche se ci sarebbero miriadi di paragoni da proporre), tutti i Lords Of Black dimostrano di sapere il fatto loro. ‘II’ è quello che si può definire l’esatto bilanciamento fra melodia e aggressività, un heavy-power grintoso dove tutti svolgono il loro compito con precisione, a partire dal batterista e tastierista Andy C. Ottima anche l’esecuzione del tecnicissimo Tony Hernando e non spendiamo inutili commenti sulla prestazione di Romero, sul quale tutti i riflettori sono puntati. Da ‘Merciless’ a ‘Only One Life Away’, passando per ‘New World’s Coming’, sino ad arrivare a ‘Ghosts Of You’ i Lords Of Black dimostrano una compattezza invidiabile, un’esperienza che va oltre alle due sole prove da studio. Eccellente release, ora aspettiamo solo il live. Stefano Giorgianni

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Ihsahn Arktis (CANDLELIGHT) 79

Da quando Ihsahn ha iniziato il suo viaggio solista, il suo estro compositivo si è manifestato in una miriade di toni. Come ci ha raccontato, questa volta voleva intraprendere una nuova sfida, un album davvero antitetico all’enigmatico ‘Das Seelenbrechen’. Arktis, difatti, è un album che va nel cuore della scrittura musicale piú semplice, per quanto semplice possa descrivere un lavoro comunque Ihsahniano. La parte visuale è ispirata da Fridtjof Nansen, esploratore e scienziato norvegese ricordato, specialmente, per aver compiuto il primo attraversamento sugli sci della Groenlandia. La battaglia eroica di questo esploratore è presente nel sound di questo album, che anche grazie a un mix d’eccellenza fatto dal grande Jens Bogren, ha suoni che tagliano fortissimo, come la neve sulla pelle. Una sensazione che davvero perdura in questi pezzi. Il tono heavy metal di quest’album è presente già in ‘Mass Darkness’, un pezzo che potrebbe essere tratto da un lavoro di Priest o Halloween. Il lavoro di chitarra mi ricorda anche le sonorità targate Children of Bodom e gli stessi elementi anni ottanta abitano anche ‘Until I Too Dissolve’. Tuttavia la sorpresa più stupefacente è ‘South Winds’, dove un moderno synth loop vi porterà a ballare su Ihsahn, sì avete letto bene, un beat trascinante che mi ha spiazzata. Nella seconda parte dell’album troverete suoni e composizioni dove lo stile Ihsahn è senza dubbio più riconoscibile, anche il sassofono ritorna in questo lavoro, nello specifico in ‘Crooked Red Line’. Seguendo l’esempio di Nansen, Ihsahn ha esplorato territori a lui sconosciuti, le sue impronte sono ben visibili e trasformano un viaggio alla ricerca del cuore Heavy Metal in una spedizione che non tralascia quell’ardore che contraddistingue questo artista. Territori a tutti noti, come i suoni anni ottanta, che vengono ripercorsi e trasformati da uno dei migliori compositori che il popolo metal possa vantare. Paky Orrasi

nevrotica che in brani come ‘Heksebrann’ e ‘Ondskapens Galakse’ sfonda. Poi ci sono momenti di energia rock più pulita, ma nel complesso ‘Nattesferd’ è un tessuto complesso di fili elettrici scoperti pronti a definire trame sorprendenti con improvvisi incendi neuronali. Barbara Volpi

Tremonti DUST (Fret12 Rec.)

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Catene spezzate in primo piano,uno scenario deserto dove tutto è sui toni del rosso, persino il cielo, campeggiato da un volto con gli occhi aperti ma vuoti.Fin dalla copertina,“Dust”,terzo album dei Tremonti,registrato insieme a“Cauterize”(2015),evoca la vecchia scuola metal. Evidente anche a livello visivo il legame con l’album precedente,”Dust” è caratterizzato da un tappeto ritmico che non molla mai,tra speed metal, trash e heavy, accompagnato da melodie vocali che si avvicinano al power senza emularlo.La voce di Mark Tremonti,celebre chitarrista(Alter Bridge/ Creed),scalda tutti i dieci brani dell’album,alternandosi agli assoli che portano inevitabilmente la sua firma. Meritevole di menzione ‘The cage’,che cattura fin dall’intro di batteria e chitarra. L’ingresso della voce nei toni medio-alti sorprende,e lo sviluppo del pezzo è ottimamente strutturato. D’impronta

più trash l’intro di ‘Once dead’,che si fonde con una vena tendente al progressive nei ritornelli.Il disco termina con ‘Unable to see’,un pezzo profondo e intenso,con una melodia toccante nelle strofe e un ritornello catchy che canticchiamo quasi al primo ascolto.“Dust”è un album compatto,che non perde mai potenza,dove stili diversi si intrecciano sapientemente.Il calore della voce e della chitarra di Mark sublimano l’aspetto compositivo pressochè ineccepibile dei brani,interpretati con carattere da musicisti che meritano di essere nominati:Eric Friedman(chitarra ritmica),Garret Whitlock(batteria) e Wolfgang Van Halen(basso). Angela Volpe

Hell's Guardian Ex Adversis Resurgo (Nuclear Blast)

71 Raramente su Metal Hammer diamo spazio agli EP, complice l’enorme mole di uscite che ogni mese ci costringe a compiere una spietata selezione dei titoli da recensire. In questo caso però facciamo un’eccezione per una band italiana (e questo è un grande piacere e allo stesso tempo un onore) che sta crescendo a livello internazionale, guadagnandosi il favore della critica e del pubblico. Gli Hell’s Guardian avevano comunque già stupito con il debut ‘Follow Your

Fate’, col quale presentavano il loro melodic death ispirato ai grandi del genere, tentando comunque darne una lettura personale. A dar ragione al gruppo bresciano è stata anche la recente tourneé nell’est europeo con gli Amorphis, durante la quale i ragazzi si sono fatti valere rappresentando al meglio la scena italica. Passando a ‘Ex Adversis Resurgo’ abbiamo un EP di circa venticinque minuti con tre tracce inedite, due versioni live di pezzi contenuti nel primo full-length una piano version di ‘Follow Your Fate’. Dopo l’intro ‘Pagan Ritual’ si incontra la massiccia ‘Fire Of Persecution’, nella quale gli Hell’s Guardian ribadiscono il loro stile, un death con sfumature folk che continua il discorso improntato in ‘Follow Your Fate’. Dopo la buona prova nella title-track, arrivano le registrazioni live che dimostrano qual è la resa dal vivo del gruppo, una scelta coraggiosa per un gruppo poco più che esordiente. La traccia più interessante e di valore è probabilmente la piano version di ‘Follow Your Fate’, suggestiva e profonda. Una conferma e un bell’anticipo al prossimo album. Stefano Giorgianni

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Nemesea Uprise (Napalm)

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In uscita per Napalm Records “Uprise” il quarto album dei Nemesea, band che si colloca in un settore del gothic rock che sconfina nel pop sinfonico. La prima traccia ‘Hear me’ racchiude tutti i clichè del genere, e funziona. Il brano è trascinante quanto basta a invogliare l’ascolto dei pezzi successivi. Tutti i brani sono farciti d’influenze elettroniche, cori e armonizzazioni vocali rese interessanti dalla presenza di voci maschili. La prima ballata in cui ci s’imbatte è ‘Let it burn’, che inizia con un classico duetto piano/ voce e prosegue in un crescendo di ritmo, per sfociare in un coinvolgente ritornello a due voci. Un brano senza pretese tecniche ma ben scritto. Nel disco non mancano tratti romantici, intervallati da parti più cadenzate; alcuni pezzi però, come ‘Can’t believe it’ e ‘Light up the sky’ rischiano di suonare ripetitivi. Il sound è sostenuto dalle tastiere, che a tratti si accostano a sonorità elettroniche di fine anni ’90 e dalla voce limpida, perfettamente aderente al genere, che forse proprio per questo non regala grandi emozioni. Le composizioni sono piuttosto semplici e la struttura dei brani lineare, con melodie immediate, facili da ricordare e alle quali ci si

affeziona. L’intero album gira attorno alle stesse tonalità, senza picchi o cambi di registro in grado di sorprendere. La buona produzione discografica e l’armonia dei suoni rendono fluido l’ascolto di quest’album nel complesso gradevole, che potrà essere certamente apprezzato dagli amanti del genere. Angela Volpe

Moonsorrow Jumalten Aika (Century Media)

75 ‘Jumalten Aika’ è il settimo runo della saga discografica dei finlandesi Moonsorrow. In quasi settanta minuti di sanguinoso black metal ampiamente stemperato da numerose contaminazioni folk che partono dai flauti, passando per i raggelanti cori rituali, si sviluppa un’affascinante epopea in cui dei, lupi e uomini fanno il loro tempo e vanno incontro a un destino oscuro e incerto. Si può considerare questo album alla stregua di una laude alla mitologia finnica e, più in generale, alle radici della cultura scandinava. I forti richiami al canzoniere eddico e alla magia della terra dove non fa mai giorno ben si sposano con i caratteristici elementi della kantele music. La lingua scelta dai Moonsorrow per gridare, cantare e narrare le loro storie è come sempre il finlandese ma, consapevoli

delle difficoltà che i non nativi incontrerebbero nel cercare di sviscerare la materia dell’album, si sono premurati di garantire a tutti gli ascoltatori la possibilità di immergersi a fondo nella magica atmosfera di ‘Jumalten Aika’ fornendo un booklet completo della traduzione in inglese di tutti i testi. In conclusione, ‘Jumalten Aika’ è il naturale proseguimento dell’opera dei Moonsorrow; pur senza arricchire il sound della band, si dimostra comunque un lavoro di immenso valore, un ritratto così sacro, autentico ed oscuro del Nord che poteva essere concepito solo da qualcuno che ne vive e ne respira l’essenza. Alessandra Mazzarella

Caliban Gravity (Century Media)

70 ‘Gravity’ è il 14mo album per i tedeschi Caliban. In attività dal ‘97,la band ha aggiunto maggiori parti melodiche e implementato l’aggressività delle chitarre.’Gravity’si compone di 12 brani di puro metalcore, alcuni davvero trascinanti. È il caso di citare ‘Who I am’,che riassume tutte le virtù della band, dai potenti riff chitarristici,alla voce versatile di A. Dorner, alle pause inserite nei punti giusti per dare carica al brano. Talvolta sembra che il volume dei cori sia troppo basso

Novembre Ursa (PEACEVILLE) 80

Il lungo apparente torpore è finalmente terminato! Gli italiani Novembre, che non pubblicavano un album da ‘The Blue’ (2007) sono fritornati con il primo lavoro senza Giuseppe Orlando, un album che fan della band e accaniti attivisti per I diritti degli animali ameranno: URSA (che sta per Union des Républiques Socialistes Animales), il titolo prende spunto dal La fattoria degli animali, il celebre romanzo satirico scritto da George Orwell. Musicalmente la band, in origine ormeggiata al Doom, è stata una delle prime a fare quel salto e condurre il loro gothic e il doom su strade più eleganti, come i loro amici Katatonia. ‘Ursa’ è un buon album per ripresentare la band a vecchi e nuovi ascoltatori. In sé difatti vi sono sonorità e riff che riverberano i Novembre che ricordavamo. Come sempre la band coinvolge meravigliosamente vari stili andando aldilà di sistemi e stereotipi. Ad avere l’onere di farci riscoprire la band è il pezzo ‘Australis’, le atmosfere malinconiche si tingono di vari colori superfici sonore durante i quasi otto minuti del pezzo, sin da subito è chiaro che lo stile di mixaggio vede la voce come uno strumento che non deve coprire, bensì deve amalgamarsi con gli altri. Questo stile può essere amato o odiato, per quanto mi riguarda in band simili preferisco avere la voce totalmente immersa negli strumenti, in quanto sottolinea l’atmosfera e rende i paesaggi musicali misteriosi e onirici. Uno dei pezzi che vi salterà all’orecchio è di certo ‘Annoluce’, il quale si permea di una forte atmosfera katatoniesca, e non a caso vede il contributo di Anders Nyström. Non manca anche il tocco semplicemente strumentale con ‘Agathae’, con sonorità folk che ricordano le radici della band. Tirando le somme in ‘Ursa’ ritroverete I Novembre che amavamo, ma maturati sia musicalmente che liricamente. Dovremmo aspettare il rossimo lavoro per avere un’uniformità maggiore, ma per ora possiamo solo essere fieri che i maestri italiani siano riapparsi. Paky Orrasi

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Odyssea Storm (DIAMONDS PROD.) 72

Ritorno in grande stile per gli Odyssea, progetto nato agli albori del 2000 dal chitarrista Pier Gonella, attualmente in forza a Mastercastle e Necrodeath ma in passato alle prese con band di primissimo piano nel panorama metal tricolore, che a 12 anni dal disco di debutto “Tears In Floods” tornano a fare capolino sulle scene con un disco che difficilmente lascerà indifferenti. Per questo nuovo capitolo del progetto il musicista ligure si circonda di un nutrito stuolo di musicisti prelevati dalle più influenti band italiane, rinsalda il sodalizio con l’amico Roberto Tiranti e, forte di un valore tecnico di eccelsa fattura, da alle luce un disco dinamico, piacevole, costruito su un power melodico che, se da un lato porta alla luce l’inclinazione neoclassica di Gonella, dall’altro lascia trasparire un gusto per la melodia che sulla lunga distanza farà la differenza. Impressionante, come detto, la lista dei musicisti coinvolti nel progetto Odyssea: si va dagli ex compagni nei Labyrinth Alessandro Bissa, Andrea De Paoli e Mattia Stancioiu ad Alessandro Del Vecchio, da Alex De Rosso a Giorgia Gueglio, partner nei Mastercastle, e poi ancora Steve Vawmas, Simone Mularoni dei DGM, Peso dei Necrodeath, Mysteria, Anna Portalupi, Andrea Ge, Dick Laurent e Davide Dell’Orto...Una squadra vincente e lo si intuisce già dall’opener “No Compromise”, un pezzo dal marcato sapore power impreziosito da un lavoro vocale eccelso di Tiranti, che qui si conferma in forma eccellente. Ma è tutto il disco a scivolare via gradevole, tra echi power abbastanza canonici come “Freedom” e altri brani più sorprendenti, come “Ice”, traccia dal vago sapore gothic contrassegnata dalla bella voce di Giorgia Gueglio, “Ride” che va a riprendere il celebre “Adagio” di Albinoni prima di sciogliersi in un pezzo puramente power, la robusta “Tears Of The Rain” marchiata dallo strepitoso drumming di Peso, “Apocalypse Pt. 2” nel quale Gonella può dare sfogo a tutta la sua classe chitarristica e compositiva, e la cover di “Galaxy”, sigla del cartone animato “Galaxy Express 999” che qui forse parte come gioco ma va tramutandosi ascolto dopo ascolto in uno dei piatti forti del disco. Un lavoro che si è fatto attendere per undici lunghi anni ma che, alla fine, non deluderà le aspettative. Fabio Magliano

rispetto al resto e per questo non raggiunge un grande effetto scenico, ma potrebbe essere una scelta di produzione per non rischiare di emulare lo stile di altre band metalcore in voga. La maggior parte dei testi sono un incitamento a riscoprire la propria forza interiore, altri toccano temi sociali:solidarietà, tolleranza, lotta contro i pregiudizi. Il testo di ‘The Ocean’s heart’ è un inno contro la brutalità della caccia alle balene. Questo brano si avvale inoltre della voce di A. White-Gluz(Arch Enemy). ‘Broken’ è forse la traccia dove la melodia si fa più piacevole,visto anche il tema sentimentale trattato,mentre in ‘Left for dead’ e in ‘Walk alone’ esplode la durezza del suono,sostenuto e rafforzato dalla doppia cassa di P. Grun. ‘Crystal skies’ è particolarmente pesante,cadenzata e dark come l’argomento che tratta:la lotta contro la dipendenza dalle droghe. I Caliban hanno inserito anche un pezzo nella loro lingua madre,che risulta convincente,addolcito dalla presenza di cori femminili. Angela Volpe

Hacktivist Outside The Box (UNFD Rec.) 77 Terremoto metallico quello provocato dagli Hacktivist, giovane band inglese dedita a un rapcore che mescola

metal, elettronica e, soprattutto protesta. Formatisi durante l’Occupy Movement del 2011 che tanto scompiglio ha provocato nelle maggiori città del mondo, i ragazzi del Buckinghamshire arrivano al primo full-length dopo un EP autointitolato del 2013 e spiazzano per la freschezza della loro proposta. Banale dire che sopra tutti spicca il cantato di Jermaine “J” Hurley, un vero e proprio rapper prestato al metal. Per farvi un’idea del sound degli Hacktivist (anche se è veramente difficile definirlo) è un misto di Limp Bizkit, Korn, un riffing djent che molto deve agli alfieri del genere, i Meshuggah, con un sostrato testuale importante, dove il gruppo si concentra su temi come l’anarchia, le teorie cospirative, la corruzione che alberga nei governi, la pirateria informatica, l’oppressione della gente comune schiacciata dall’egoismo dei governanti e su difficile tematiche socio-economiche in generale. Un disco aggressivo in superficie e solido in profondità questo “Outside The Box”, dove l’impegno delle parole (solitamente legato a generi come rap e punk) si fonde con l’irruenza del Metal con un risultato di sicura compattezza e di buona quadratura sonora. Gli Hacktivist dimostrano dunque di aver già delle solide basi da cui partire e, se non si sbugiarderanno, avranno modo di diffondere la loro voce e il loro messaggio nel mondo. Promossi! Stefano Giorgianni

A Perfect Day The Deafening Silence (Scarlet)

77 Non è mai facile per una band, rimpiazzare il proprio cantante. Un’impresa che diventa ancor più ardua se il cantante in questione ha la classe e il carisma di Roberto Tiranti, uno dei talenti più fulgidi partoriti dalla scena metal tricolore. E’ qui, allora, che emerge la tenacia e il fiuto della band, che all’alternativa di fermare la sua corsa decide di proseguire estraendo dal cilindro un nuovo singer capace di non far rimpiangere il cantante defezionario. Questa è la strada intrapresa, con successo, dagli A Perfect Day, band nata nel 2012 sulla spinta di Andrea Cantarelli, Alessandro Bissa e, appunto, Roberto Tiranti, per dar sfogo ad un mai celato amore per l’hard rock di questo trio nato in seno ai Labyrinth. “The Deafening Silence” vede la band cambiare fisionomia, con l’inserimento del bassista Gigi Andreone già con gli Odd Dimension e del cantante/chitarrista Marco Baruffetti, vede il sound mutare, progredire canzone dopo canzone senza mai perdere in intensità e il gruppo consolidare finalmente la propria identità. Tutti i riflettori sono inevitabilmente puntati su Baruffetti, singer forse meno virtuoso di Tiranti ma dalla voce ugualmente calda e dall’ottima tecnica, che ben

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si sposa con il taglio modern-rock dei brani che compongono questo lavoro. Prova lampante ne è il primo singolo “In The Name Of God” che in alcuni frangenti lascia emergere venature post grunge tipiche degli Alter Bridge, ma a colpire è l’audacia del gruppo, che invece che rifugiarsi in soluzioni “sicure” si lancia in voli arditi come “Before My Eyes” nella quale fa capolino l’elettronica, la sperimentale “Angel” nella quale Baruffetti si lascia andare in un inusuale lavoro vocale, la possente “Angel Annihilation”, uno dei brani più duri dell’intero lavoro, che va a bilanciare la dolcezza della ballad “The Age Of Innocence”. Nel complesso un lavoro ispirato, fresco, che dimostra come la band, dopo aver assorbito senza traumi l’abbandono del talentuoso Tiranti, sia stata abile nel ripartire inaugurando un nuovo corso che potrebbe riservare non poche, piacevoli soddisfazioni. Fabio Magliano

Sabaton Heroes On Tour (Nuclear Blast)

76 Inarrestabile. Questo è l’aggettivo che si potrebbe adoperare per definire la carriera dei Sabaton negli ultimi anni, un’incontenibile ascesa verso il vertice dell’Olimpo del metallo, una corsa incessante verso nuovi traguardi,

un assalto a nuovi paesi da conquistare a suon di riff e chorus arrembanti. I ragazzi di Falun sono cresciuti e a dimostrarlo c’è il successo degli ultimi due album da studio, “Carolus Rex” (2012) e “Heroes” (2014), ma soprattutto le due release live, “Swedish Empire Live” (2013) e il presente “Heroes On Tour”. È raro vedere un disco dal vivo uscire a così poca distanza, se questo non volesse significare qualcosa in particolare, e questo sembra proprio il caso dei Sabaton. Fra un consistente cambio di line-up nel 2012 ( con l’abbandono dei due axeman e del batterista) e la popolarità acquisita grazie all’ultima fatica da studio, gli svedesi hanno saputo superare le avversità e rimettersi in sesto in un batter d’occhio, tornando più forti di prima e conquistando i palchi più importanti d’Europa oltre a consolidare un proprio Open Air nella città natale. “Heroes On Tour” è a tutti gli effetti la riprova che gli scandinavi non scherzano, che la loro intenzione non è quella di fermarsi qui e adagiarsi sugli allori. Fra vecchi successi e pezzi più recenti potete quindi assaporarvi gli show dello scorso anno al Wacken Open Air e al Sabaton Open Air, gustandovi lo spettacolo del gruppo e le accattivanti scenografie con al centro i due carri armati. Una release immancabile per i fans e da consigliare agli amanti del power metal. Stefano Giorgianni

Headless Melt The Ice Away (MIGHTY MUSIC) 82 Mob Rules Tales From Beyond (SPV/Steamhammer)

73 Strana sensazione provoca questo disco dei Mob Rules, storica formazione tedesca formata nel 1994, che ha quindi oltrepassato i vent’anni d’esistenza. Gli album della band capitanata da Klaus Dirks sono sempre stati delle uscite di qualità, magari non eccelse, ma che hanno raccolto di volta in volta buone valutazioni da parte della critica e un altrettanto favorevole riscontro da parte del pubblico. Questo “Tales From Beyond” è un disco strano, di alta caratura, ma che contiene quel sapore di “già sentito” che spesso fa storcere il naso ai recensori. Da tempo l’approccio stilistico è cambiato e nel corso delle release si è potuto sentire quanto abbiano voluto calcare maggiormente su un’elaborata struttura delle composizioni, spingendo meno sull’acceleratore e ripercorrendo, in tutti i sensi, la strada degli Iron Maiden. Il nome della Vergine di Ferro non è qui nominato invano, poiché spesso le chitarre sembrano ricalcare le linee intessute dalle asce maideniane e partorite dal genio di Steve Harris. Da ‘Dykemaster’s Tale’ tutto sembra riportare ai leggendari inglesi e questo potrebbe essere un vantaggio oppure un grosso rischio, il tutto dipende dai gusti dell’ascoltatore. Da provare! Stefano Giorgianni

Nuovo progetto cui aderisce Göran Edman, il celebre cantante svedese che i più di voi conosceranno per aver militato nella band del leggendario Yngwie J. Malmsteen per ben due dischi: “Eclipse” (1990) e “Fire & Ice” (1992). Questa volta il vocalist ha scelto di unirsi a un combo totalmente italiano, composto da Walter Cianciusi (chitarre), Dario Parente (chitarre), Domenico Di Girolamo (basso) e Enrico Cianciusi (batteria), che formano gli Headless, un gruppo che dimostra una grande maturità frutto di un’esperienza ventennale, sin dal debutto con l’EP “Future to Past” (1996). Propositori di un progressive metal a forti tinte hard rock, gli abruzzesi escono con quest’ultimo convincente full-length, intitolato “Melt The Ice Away”, che viene pubblicato dopo “Growing Apart” (2013), disco che ha permesso ai musicisti di suonare accanto a nomi blasonati come Skid Row, Queensrÿche, Fates Warning, Candlemass e Don Airey. Un album che cresce di ascolto in ascolto, il giusto connubio fra tecnica e melodia, dove il sound di una band rodata si incastra alla perfezione con la sublime voce di Edman, per un risultato che non scontenterà di sicuro gli amanti del metal classico e dell’hard rock. Un inizio grintoso e armonioso con ‘So Much Of A Bore’, durante la quale tutti i componenti degli Headless si distinguono, grazie anche all’ottima produzione e al mastering ad opera di Peter Doell effettuato presso gli Universal Mastering Studios di Hollywood (California), cede il passo alla seguente ‘Good Luck Resized’, traccia trascinante e orecchiabile, pronta per essere lanciata in radio. Lungo l’ascolto si incontrano anche momenti più quieti, come in ‘Frame’, dove la voce di Edman si libra dolcemente sulle placide acque del tappeto sonoro imbastito dalle chitarre di Cianciusi e Parente. Da citare anche la rocciosa ‘Shortage’, la rabbiosa ‘A Senseless Roaring Machine’ e l’energica ‘ Stillness of the Heart’. In conclusione, “Melt The Ice Away” è un album che non può mancare nella collezione dei più affezionati rocker. Stefano Giorgianni

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AMMISSIONI DICHIARAZIONI RIVELAZIONI MEMORIE

Brad Gillis (Night Ranger) di Fabio Magliano Ph. Alice Ferrero

Quali pensi siano stati i musicisti che più hanno contribuito alla tua formazione chitarristica? “Le mie tre principali influenze sono stati Jimi Henrix, Jimmy Page e Jeff Back. Il mio grande rammarico è stato quello di aver diviso negli anni il palco con alcuni dei più grandi musicisti rock del Pianeta ma di non aver mai avuto modo di incrociarmi con questi idoli, però ancora oggi sono la mia principale fonte di ispirazione e continuo a nutrire un grandissimo rispetto per tutto quello che hanno fatto per la musica” Nel corso della tua carriera hai comunque avuto l’onore di dividere il palco con altri mostri sacri, su tutti Ozzy Osbourne. Quale pensi sia la lezione più importante che hai appreso da queste collaborazioni? “Ho imparato quanto sia importante il sentimento, il gusto e la dinamica nelle ritmiche in tutto quello che si suona. Confrontandomi con grandi chitarristi e musicisti di talento ho avuto modo di affinare questo aspetto della musica. Penso che tutti questi musicisti abbiano rappresentato la scintilla che in me ha acceso la voglia di andare a fondo, di guardarmi dentro e di lavorare per creare un mio stile personale” Quale pensi sia la caratteristica principale che ti caratterizza e che ti ha portato a diventare quello che sei? “La positività. Pensare positivo non solo mi permette di svegliarmi tutte le mattine con il sorriso sulle labbra, ma mi aiuta quando lavoro a stare concentrato su quello che devo fare e a tirare fuori sempre il meglio da ogni situazione” Ormai sei in circolazione da 40 anni. Qual’è il segreto per sopravvivere così a lungo sulle scene? “Prima di tutto saper lavorare con le persone giuste e sceglierti bene i compagni di viaggio. Quindi è fondamentale avere una grande fiducia in te stesso, sempre, in ogni occasione. Ho attraversato momenti esaltanti negli anni Ottanta, nei quali ti pareva realmente di essere il padrone del mondo. Ora questo è scemato ma l’entusiasmo è sempre lo stesso, Ho solo cambiato prospettiva...Ora sono più attento in quello che faccio, mi guardo attorno, osservo quello che succede nel mondo e, soprattutto, cerco di divertirmi il più possibile on stage” Quale pensi sia il momento più alto toccato nel corso della tua carriera? “Quello che sto vivendo! Mai guardarsi indietro, sarebbe inutile. Oggi suono tantissimo dal vivo, compongo buona musica e mi diverto come non mi sono mai divertito. In un certo senso sono riuscito a fermare il tempo, e questa è la cosa più importante. Ogni giorno benedico il cielo per stare così bene e sentirmi ancora così forte”

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E c’è un momento che vorresti cancellare dalla tua memoria? “L’ho già fatto, l’ho già cancellato. E infatti oggi ricordo solo i momenti belli” Se dovessi scegliere tre canzoni tra quelle che hai composto in questi anni, che più ti rappresentano, quali sceglieresti? “Senza dubbio “Sister Christian” perché è la canzone che per la prima volta ci ha portati al top nel 1984. Direi poi “Don’t Tell Me” perché ci ha messi faccia a faccia con il vero music business, ed infine “Rock In America” perché ci ha consacrati come una delle più importanti rock band americane” In questi 40 anni hai avuto la possibilità di esibirti in ogni angolo del Globo. Qual’è il posto che più ti affascina e nel quale ti piacerebbe vivere? “La California, senza ombra di dubbio, perché è sempre stata la mia casa. Mio padre è stato un pilota di una delle maggiori linee aeree americane e ha avuto modo di girare costantemente tutto il mondo. Mi raccontava che quando avevo 12 anni gli capitò di vedere la Bay Area dall’alto e realizzò come questo fosse il miglior posto al mondo per viverci. Io se si esclude Honolulu dove sono nato, non ho mai vissuto in altri posti, la California è la mia casa, San Francisco e Los Angeles sono i posti migliori dove fare musica e divertirsi… non penso mi vedrei a vivere in nessun altro posto al mondo” Come hai visto cambiare la scena e l’audience da quando hai iniziato a suonare ad oggi? “L’ho vista cambiare ma non in modo negativo come si potrebbe pensare. Oggi ci sono tanti giovani che vengono ai nostri concerti, e cantano insieme a noi le nostre canzoni. I loro genitori sono stati bravi a portarli ai nostri concerti, a farli crescere con la nostra musica garantendoci un buon ricambio generazionale. Grazie a giochi come Guitar Hero e Rock Band, poi, in tutto il mondo i giovani hanno iniziato a apprezzare la bellezza degli assoli di chitarra e hanno avuto la spinta per venire a riscoprire la chitarra nella sua vera essenza” E tu, a livello di aspettative, quanto sei cambiato? “Molto direi. Negli anni Ottanta il successo è stato fulminante e abbiamo vissuto una corsa entusiasmante sulle scene. Oggi c’è molto di più da lavorare, siamo maturati e più consapevoli di quello che dobbiamo fare. Prima eravamo più incoscienti, oggi affrontiamo ogni cosa come se fosse una sfida da vincere, e non nego che trovo la situazione molto stimolante”.


(Cuneo)

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