Metal Hammer Italia - 04/2016

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Katatonia / Suidakra / Avatar / Neurosis / Volbeat 04/2016

ESCLUSIVA a

LIve in Vienn

K C O R L E D I DANNATI Speciale Female Italian Metal Lacuna Coil + Exilia + Belladonna

REPORT



Hammer Highlights

SIXX A.M. 32

HARD ROCK GODS I Sixx A.M. arrivano in questo 2016 più pronti che mai a scuotere la scena rock e metal internazionale. Con “Prayers For The Damned Vol.1” si candidano a imporsi come la hard rock band dell’anno, forti della passione e della totale dedizione che DJ Ashba e Nikki Sixx hanno riposto nel gruppo. In più c’è l’ugola di James Michael, che abbiamo incontrato al Gods Of Metal.

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LACUNA COIL

GODS OF METAL

IRON MAIDEN

“Delirium”, questo il titolo che i Lacuna Coil hanno scelto per il nuovo full-length. Un album maturo, potente e carico di significati, diverso nella forma e nei contenuti non solo dall’ultimo “Broken Crown Halo”, anche da tutte le precedenti fatiche della band meneghina. Metal Hammer si è recato a Milano per parlarne con i due cantanti, Cristina Scabbia e Andrea Ferro.

Diciassettesima edizione per il festival Metal più popolare d’Italia, che mancava da ben quattro anni dopo i fasti e i bei ricordi che ci ha lasciato nelle edizioni passate. Metal Hammer si è recato con una nutrita delegazione lo scorso 2 giugno per assistere a questa nuova data del Gods Of Metal. Curiosi di sapere com’è andata? Scopritelo attraverso le parole e le immagini della nostra redazione.

Trasferta austriaca per Metal Hammer Italia che si reca a Vienna per testare la condizione del sestetto britannico prima della calata in terra italica. Uno show memorabile è quello che vi racconta il direttore Alex Ventriglia, con un gruppo in forma eccezionale e un Bruce Dickinson che, reduce dalla brutta avventura in fatto di salute, si è dimostrato carico come un cassa di dinamite.

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Hammer Highlights

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F Rock

Katatonia

Avatar

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Neurosis

L'Evoluzione Del Martello

Metal Hammer è un cantiere aperto. Un progetto nato dal nulla, o meglio, da un’idea che andava a stravolgere radicalmente la concezione tradizionale di quella che per anni è stata la rivista metal di riferimento in Italia, per andarsi poi a plasmare uscita dopo uscita sino a raggiungere una forma ben delineata. Un progetto che sta mutando giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, e la crescita a livello redazionale, insieme ai numeri eccellenti che la rivista online sta facendo registrare, ci sta facendo capire che la strada che abbiamo intrapreso è quella giusta. Una crescita redazionale che in questa uscita si è andata ad arricchire di tre nuovi innesti “di peso” che hanno portato qualità ed esperienza al team e che potranno dare una spinta in più ad un progetto che ha davanti a sé decine di idee interessanti e, perché no? Un po’ folli da inseguire. Come redazione vogliamo dare il benvenuto a Roberto Villani, un vero pezzo da novanta della fotografia musicale italiana, un fotografo che non

ha certo bisogno di presentazioni avendo negli anni i sui scatti impreziosito riviste importanti come Il Mucchio Selvaggio, Rumore, Metal Shock, Thunder Magazine, Chitarre... sino a venire scelto da Vasco Rossi quale suo fotografo ufficiale. Un curriculum di tutto rispetto per un artista della fotografia che con grande umiltà ha sposato il progetto Metal Hammer buttandosi a capofitto sin da questo numero, e i risultati potete ben vederli sfogliando la rivista. Dopo un lungo corteggiamento e non pochi tentennamenti ha ceduto alle nostre lusinghe Andrea Schwarz, un giornalista con anni di esperienza alle spalle maturata nelle redazioni di Distortion, Rock Hard, e il suo entusiasmo già da questo mese ha consentito alla rivista di mettere ancor più carne al fuoco, con risultati

davvero soddisfacenti. Ma un saluto enorme carico di significati vogliamo rivolgerlo a Alex Ventriglia, il cui ritorno alla “casa madre” rappresenta una simbolica chiusura del cerchio. Dopo anni di sana e leale rivalità, mosso dalla volontà di ritornare a sentire quelle vibrazioni che, a cavallo tra i Novanta e il Duemila, avevano portato Metal Hammer ad essere la rivista metal leader in Italia, riconosciuta ed apprezzata sia a livello italiano che internazionale, Alex ha deciso di accogliere la sfida, mettendo i suoi trent’anni di esperienza al servizio di quella creatura che, con lui al timone, aveva vissuto il suo massimo splendore. Oggi possiamo affermare con orgoglio che Alex è nuovamente con noi, al timone di una rivista che vuole continuare a crescere per offrire al lettore un modo nuovo ma non sicuramente meno intrigante, di concepire la rivista metal. Il percorso è ancora lungo, il sito internet che a breve sarà online arriverà a darci una mano importante mentre solo oliando a dovere gli ingranaggi riusciremo ad arrivare a dare una cadenza regolare alle uscite, ma siamo certi che la strada sia quella giusta e la nostra crescita costante. Noi ci crediamo profondamente, e voi? Fabio Magliano

TUTTI I GIORNI NUOVI CONTENUTI vai al sito www.rockandmetalinmyblood.com 4 METALHAMMER.IT

RECENSIONI LIVE REPORT articoli Discografie Complete


TALES FROM BEYOND SUidakra 10

Hammer Core

Metal Rubriche

SIxx A.m. dal gods

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TELEGRAPH

DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it

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VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it

“Realms Of Odoric” è il nuovo disco della band tedesca, scopritelo con noi

Grand Magus

DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco

Entriamo nel reame degli svedesi con l’ultima fatica “Sword Songs”

Rock Tattoo

GoJIRA

CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it

14 Tornano i francesi con un album che sta seducendo tutta Europa

HEadless 15

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La formazione italiana torna con “Melt The Ice Away”, sempre con Göran Edman

Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it

Exilia

Progspective

Paky Orrasi paky@metalhammer.it

THE SIDH 16

Folk, metal, elettronica? Tutto questo e anche di più nella musica dei The Sidh

Alessandra Mazzarella alessandra.mazzarella@metalhammer.it

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TED POLEY 18

Il simpatico Ted Poley parla del suo nuovo album ai microfoni di Metal Hammer

NEWS EDITOR Stefano Giorgianni

Stay Brutal

Logical Terror 22 Dopo il track-by-track dello scorso numero ora la band parla di “Ashes Of Fate”

Jelly Jam 23

John Myung un uomo di poche parole? Ricredetevi assieme a noi

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FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it

Belladonna

The Library

Emanuela Giurano GRAFICA Andrea Carlotti

Volbeat 24 Gli olandesi presentano il

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notevole “Seal The Deal & Let’s Boogie”

Overtures

PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò

RECENSIONI

26 Hanno da poco aperto il

Gods Of Metal, ora ci parlano del loro “Artifacts”

Sunstorm

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30 Joe Lynn Turner ci intro-

HANNO COLLABORATO Andrea Schwarz, Angela Volpe, Barbara Volpi, Andrea Lami, Trevor, Alex “Necrotorture” Manco PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it

duce a “Edge Of Tomorrow” del progetto Sunstorm

Live Report Roadburn 2016

2Cellos

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MUSE

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REDAZIONE

Wildfest 2016

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TE

CI S U E V NUO

Trick Or Treat Rabbits Hills Pt 2 Frontiers 8 Luglio

T I . R E M LHAM

Revocation Great Is Our Sin Metal Blade 22 Luglio

A T E (?) M . W h t i W m s W ro li Addio ag

ae

Witherscape The Northern Sanctuary Century Media 22 Luglio

Carnifex slow Death Nuclear Blast 5 Agosto

La notizia è una di quelle che scuote il mondo del rock e del metal tutto. Steven Tyler, storica ugola degli Aerosmith, ha annunciato il tour d’addio del gruppo statunitense. La notizia è stata data durante il programma radiofonico “The Howard Stern Show” su SiriusXM e conferma le voci che erano girate già lo scorso aprile. Tyler aveva difatti prospettato un possibile tour d’addio nel 2017 e ora sembra esserci la certezza della notizia. Dobbiamo prepararci a dire addio a degli altri mostri del rock?

Flash News

Blues Pills Lady In Gold Nuclear Blast 5 Agosto

Sabaton The Last Stand Nuclear Blast 19 agosto

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- Gli AIRBOURNE hanno reso noto il titolo del prossimo album. “Breakin’ Outta Hell” uscirà nei mesi autunnali per Spinefarm Records, la produzione è di Bob Marlette. La CONVERSE ha annunciato che sarà disponibile un nuovo modello di CHUCK TAYLOR con all’interno un pedale wah-wah. La preparazione della calzatura è durata anni ed è stata progettata assieme alle aziende Critical Mass e Cute Circuits. Qui sopra potete guardare un’anteprima.

- MYRKUR ha annunciato la release il 19 agosto di un nuovo EP intitolato “Mausoleum”, saranno presenti versioni acustiche di tracce tratte da “M” e due pezzi inediti con Håvard (ex-ULVER). - La band statunitense AGALLOCH ha comunicato lo scioglimento della band per motivi personali. Alcuni membri del gruppo, fra cui il chitarrista Don Anderson, hanno rivelato di essere già al lavoro su del nuovo materiale che sarà presentato sotto un nome ancora non specificato


Delain, an

nunciato il

Gli olandesi DELAIN hanno pubblicato i dettagli del full-length seguito dell’EP “Lunar Prelude”. L’album si intitolerà “Moonbathers” ed è stato masterizzato dal vincitore di un Grammy Award Ted Jensen. Al disco ha partecipato anche la cantante degli Arch Enemy Alissa WhiteGluz nella traccia ‘Hands Of Gold’.

nuovo disc

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Ecco la tracklist: 1. Hands Of Gold 2. The Glory and the Scum 3. Suckerpunch 4. The Hurricane 5. Chrysalis – The Last Breath 6. Fire With Fire 7. Pendulum 8. Danse Macabre 9. Scandal 10. Turn the Lights Out 11. The Monarch

Flash News crucified barbara, si sciolgono

La chitarra di master La ditta di strumenti musicali ESP ha annunciato un modello di chitarra in edizione limitata per celebrare il 30o anniversario del disco “Master Of Puppets” dei Metallica. Saranno disponibili solo 400 esemplari.

Mayhem, video di "watchers" da "esoteric warfare" I norvegesi Mayhem, storici rappresentati del Black Metal, hanno pubblicato il video della canzone “Watchers” tratta dall’ultimo full-length “Esoteric Warfare”. Recentemente il gruppo ha suonato per intero il debut “De Mysteriis Dom Sathanas” del 1994, si attendono notizie su una ripetizione di questo raro evento.

- I VADER hanno annunciato lo slittamento della pubblicazione del nuovo album previsto in origine per il 23 settembre per Nuclear Blast. L’uscita è stata spostata al 4 novembre. - I GRAVE DIGGER hanno comunicato la data d’uscita del prossimo disco. Il full-length uscirà il 13 gennaio 2017 per Napalm Records.

Il gruppo svedese Crucified Barbara ha comunicato lo scioglimento e ha ringraziato i fan per il supporto dato dal 1998 sino ad ora.

Kiss, "kiss rock Vegas" in uscita il prossimo 26 agosto per eagle rock entertainment I Kiss hanno annunciato l’uscita di una nuova release dal vivo per il 26 agosto. Si tratta di “KISS Rock Vegas”, video registrato durante gli show all’Hard Rock Hotel di Las Vegas nel 2014. La tracklist: 01. Detroit Rock City 02. Creatures Of The Night 03. Psycho Circus 04. Parasite 05. War Machine 06. Tears Are Falling 07. Deuce 08. Lick It Up 09. I Love It Loud

- Gli IN FLAMES hanno firmato con Nuclear Blast Records. Il gruppo farà uscire con l’etichetta un nuovo DVD live entro la fine dell’anno. - Il 14 ottobre su Cruz Del Sur Records sarà disponibile il nuovo full-length dei SACRED STEEL che marca i venti anni di carriera del gruppo. Il disco si intitolerà “Heavy Metal Sacrifice” ed è stato prodotto dalla stessa band assieme a Christian Schmid. - I LED ZEPPELIN avrebbero rifiutato 14 milioni di dollari per esibirsi in due date al Desert Trip Festival (California). Lo show prevede altri nomi importanti come Paul McCartney, i Rolling Stones, Neil Young, e Bob Dylan. A rispondere negativamente sembra sia stato il vocalist Robert Plant.

10. Hell Or Halleluja & Tommy Solo 11. God Of Thunder 12. Do You Love Me 13. Love Gun 14. Black Diamond 15. Shout It Out Loud 16. Rock And Roll All Night

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le a ic s u M g n a B Big di Paky Orrasi

Dopo il lodatissimo "Dead End Kings", I Katatonia, avanguardie del lato scuro del progressive, ritornano con il loro decimo album: "The Fall Of Hearts". Una nuova seducente escursione che vi portera' tra le dune di elementi classicamente katatoniani e nuovi territori sinora inesplorati. Il viaggio musicale dei Katatonia è di certo uno dei percorsi più appassionanti del metal contemporaneo. Difatti, la band è riuscita dapprima a incarnare il Doom-Death emerso nei primi anni ´90 in Europa, sull’onda di band quali i Paradise Lost, e in seguito si è superata andando oltre ed evolvendo. Un’operazione non scontata, come abbiamo in precedenza affermato nell’intervista a Jens Bogren (vedi 03/2016). Con lui abbiamo difatti ricordato che i Katatonia in questo sono unici, dove altre band hanno fallito, “questa transizione per noi è stata molto graduale e naturale”, spiega Renkse, “il passaggio è avvenuto suono dopo suono e mai conscio. Il che è stato utile per la nostra carriera. Invece di forzare qualcosa, abbiamo solo seguito una naturale evoluzione passo dopo passo ed è questo

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che ci ha probabilmente permesso di avere successo”. Nel 1998 “Discouraged Ones” fu probabilmente l’inizio verso il

loro suono melancolico, dinamico ma non per questo meno heavy. Album dopo album la scrittura dei pezzi è stata affidata sempre di più a Renske, colui che difatti oggi scrive la maggior parte del materiale. Proprio per questo il suono

dei Katatonia fa conflagrare le caratteristiche che ritroviamo in questo artista dall’aspetto aspro, archetipicamente death metal, ma sensibile e con una delle voci più evocative del genere. “Io scrivo la maggior parte dei pezzi, ma ad esempio Anders in quest’album ha scritto di più rispetto agli ultimi lavori. Abbiamo collaborato tantissimo” ci spiega Renke, “generalmente scrivo inizialmente le idee nel mio

piccolo studio casalingo con chitarra o tastiera e quando ho qualcosa che secondo me è buona ci lavoro di più e la mando a Anders. Ci aiutiamo molto anche perché abbiamo la stessa idea riguardo al nostro suono”. Oggi la scrittura di Renske è riconoscibile, specialmente alcune caratteristiche che fanno

parte di una formula magica che nei Katatonia funziona, ma probabilmente altrove non avrebbe un gran senso. Ad esempio, una delle costanti è saltare l’intro, che naturalmente è presente anche nel nuovissimo The Fall Of Hearts, come in “Takeover”, primo pezzo del nuovo album e nella successiva “Serein”, “Mi piace andare direttamente nella sensazione di un pezzo. È una scelta, voglio essere diretto” ci conferma Renske. L’album tuttavia non è solo un ritorno alla inquieta spiaggia sonora dei Katatonia, vi sono novità, come ad esempio l’ennesimo cambio di formazione. “The Fall Of Hearts” è il primo lavoro con il nuovo batterista Daniel “Mojjo” Moilanen e con l’aggiunta del chitarrista recentemente reclutato Roger Öjersson (Tiamat), il quale è arrivato in tempo per cospargere alcuni assoli; Renske ci ha spiegato che è stato importante lasciare la propria impronta su questi pezzi, in modo da sentirsi parte non solo dell’album ma anche della band. Nuovo batterista, fantastico lavoro, parte ritmica fantastica. “Il nuovo chitarrista, Roger, è arrivato a fine scrittura, quindi ha registrato solo degli assoli perché volevamo che si sentisse parte di questo lavoro e della


Guarda il Lyric video di “Old Heart Falls”

band.” Il nuovo batterista, non era estraneo al gruppo, con loro ha suonato già da un po’ di tempo, ma è in questo lavoro che possiamo conoscere la sua vera stoffa. Daniel è un musicista tecnicamente eccellente e immensamente versatile e come ci ha spiegato Renske la band ha incoraggiato il suo estro “la sua batteria prende così tante direzioni ed è imponente ma anche molto jazzy, quindi lui ha portato in tavola nuova energia. Grazie a lui non abbiamo avuto nessun limite nel songwriting”. Moilanen arriva per sostituire Daniel Liljekvist, il quale ha dovuto fare fronte a una scelta che ogni musicista si ritrova a dover prendere: questo lavoro è spesso forzatamente egoista, la famiglia si deve adattare e cercare di ruotare intorno a questa scelta di vita “personalmente è una costante lotta interna. Rispetto la sua decisione, posso capirla perché ho famiglia e

molte volte ti senti un egoista. Ma d’altra parte ho lavorato così tanto per arrivare dove siamo ora. In questo momento devo continuare, ho così tanta musica dentro e sono fortunato, mia moglie mi supporta tantissimo e i bimbi ormai sono abituati a un papà che ogni tanto va via. Non vuol dire che sia meno dura, quando sono in tour penso sempre alla mia famiglia e fa male”, confessa Renske.

ha portato gli svedesi attraverso Europa nel maggio 2014. Renske descrive questo tour come l’esperienza che “mai come prima mi ha portato vicino alla musica, all’interno, nell’animo della scrittura musicale. Fare questi concerti, dove abbiamo suonato esclusivamente versioni svestite dei nostri pezzi, mi ha di certo dato nuove visioni”. Come potete capire Renske è ben che inspirato, e lo potrete notare anche nei testi. Lui, divertito, ci ha confessato di essere perfezionista quando si tratta della parte testuale. Ed è

Quest’album è caratterizzato dalla parola “cuore”, che ritorna e per questo lo definisco un album molto umano, basato su sentimenti reali Questa marea di musica si ritrova tutta in questo nuovo album, che arriva dopo tantissime sperimentazioni acustiche, ‘Dethroned & Uncrowned’ prima e specialmente ‘Sanctitude’, una splendida cimelio che racchiude il tour unplugged & e riarrangiato che

visibile, solo una persona che ha cura di questa parte, spesso trascurata, di un album può scrivere dei testi che sono in tutto e per tutto poesie. In quest’album, uno dei versi che mi ha più colpita nella sua semplicità è “for every dream that is left behind I take

a bow”, contenuto nel pezzo ‘Old Heart Falls’: “Quando inizio a pensare alle linee vocali generalmente improvviso e canto qualsiasi cosa mi venga in mente e in quel momento non è importante cosa stia pronunciando, ma vi sono sempre delle parole o delle frasi che invece mi colpiscono e diventano la fondazione del tempo definitivo”, spiega Renske, “faccio questo poiché è importante vedere quali sono le parole che arrivano quando per la prima volta canto su un nuovo pezzo, è la prima impressione suggerita dalla musica. Quest’album è caratterizzato dalla parola cuore, che ritorna e per questo lo definisco un album molto umano, basato su sentimenti reali”. Questo nuovo album, seppur riparta da “Dead End Kings” (2012) è stato sicuramente arricchito da questa esperienza. In esso sono confluite emozioni e contrasti che probabilmente sono sempre esistite nei Katatonia, ma ora finalmente prendono un posto ordinato nella loro musica, insomma in “The Fall Of Hearts” troverete i Katatonia che amate, ma dopo un sognato Big Bang musicale. Non a caso questo è il decimo album “è un grande fiore, un bellissimo fiore che appunto è finalmente esploso e contiene tantissimi elementi che infine trovano ordine e posto nella nostra scrittura”.

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Il regno di odoric ci accoglie con le sue leggende nel nuovo disco dei tedeschi. ce ne ha parlato il frontman arkadius!

NEL REGNO DI ODORIC

di Alessandra Mazzarella

Entrare nella testa di un uomo pieno di inventiva come Arkadius Antonik è sempre un’esperienza interessante. Musicalmente impegnato su diversi fronti, coraggioso nelle sue scelte e assolutamente orgoglioso e innamorato di ogni sua creatura, Arkadius spinge ancora più lontano i limiti dei suoi SuidAkrA con il dodicesimo album della loro discografia, “Realms Of Odoric”. Nella genesi di quest’album non poteva mancare il contributo, stavolta più essenziale che mai, dell’artista belga Kris Verwimp: “La storia di “Realms Of Odoric” è stata scritta da Kris Verwimp nel 1996, quando pubblicò l’albo a fumetti “Odoric: Wall Of Doom”. Kris ha creato un intero universo fantasy, popolato da diverse tribù e teatro di grandi avventure di cui Odoric, il personaggio principale, è protagonista. Dopo l’uscita del fumetto,

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Kris non ha più lavorato a questo progetto ma il desiderio di far continuare la storia è rimasto. Nel 2013 io e Kris abbiamo riportato in vita Odoric con una collaborazione, che porta proprio il nome di “Realms Of Odoric”, in cui i

miei arrangiamenti orchestrali vengono combinati alle sue illustrazioni. In seguito ho pensato di sfruttare questo concept anche con i SuidAkrA, visto che

mi avrebbe dato la possibilità di sperimentare e comporre qualcosa di nuovo e diverso. Quest’anno il primo album della trilogia di Odoric targato SuidAkrA ha visto la luce”. Il

progetto orchestrale con Kris Verwimp e il nuovo album dei SuidAkrA portano lo stesso nome ma differiscono per il concetto di fondo: “L’album orchestrale del progetto con Kris Verwimp era volto ad illustrare

gli eventi e le battaglie della Prima Era, mentre questo nuovo album dei SuidAkrA è concentrato sui personaggi che ne fanno parte. Una scelta logica, visto che le differenze strutturali tra i pezzi orchestrali e quelli metal rendono questi ultimi più congeniali alla caratterizzazione piuttosto che alla narrazione” spiega Arkadius. “Ogni canzone dell’album è il ritratto di un diverso personaggio o di una tribù e sarà impregnata di un’atmosfera tutta sua. Ad esempio la ballata “Braving The End” è dedicata alla moglie di Odoric, “Lion Of Darcania” al comandante dei soldati darcaniani, perciò il sound è più feroce ed epico; i pezzi che parlano delle tribù hanno un retrogusto orientale, ci dicono qualcosa in più sul popolo in oggetto. I dettagli sono tanti, tutti da scoprire”.


Guarda il video di “Pictish pride”

Ciò che mi ha fatto avvicinare al metal è stata la pesantezza del sound, per questo non apprezzo quei progetti con voce lirica femminile, per me non sono metal “Realms Of Odoric” è forse l’album più complesso della storia dei SuidAkrA. Se già con “Eternal Defiance” Arkadius aveva cominciato a lasciare indizi sulla sua intenzione di sperimentare con le orchestrazioni, con questo nuovo lavoro abbiamo una vera e propria dichiarazione d’intenti: “Dopo oltre vent’anni in questo ambiente, mi risulta difficile creare qualcosa che mi soddisfi come musicista e autore. Molte band fanno le stesse cose per anni anche quando cercano di uscire fuori dal loro seminato e, onestamente, mi annoiano. La mia band ha il costante bisogno di tirare fuori qualcosa di nuovo, che non sia già stato fatto in precedenza”, commenta Arkadius, non senza una punta d’orgoglio. “Nel corso degli anni il nucleo centrale dei SuidAkrA, costituito da me e Lars, è rimasto stabile

nonostante i cambi di formazione; come musicisti siamo “accordati” in maniera diversa ma è proprio questa diversità a dare alla band il suo tipico sound. Quando lavoriamo sul nuovo materiale preferiamo andare a sentimento: non lavoriamo solo con la testa, abbiamo bisogno di provare quella particolare sensazione per essere sicuri di avere in mano qualcosa di valido. Abbiamo sempre lavorato sulle nostre capacità compositive e questo ci ha portati a produrre musica sempre più complessa col passare del tempo. A volte abbiamo quasi più difficoltà nel comporre un pezzo semplice che sia anche intrigante per l’ascoltatore piuttosto che qualcosa di più artefatto e costruito”. Per descrivere un intero mondo c’è bisogno di complessità, specie se il creatore di quel mondo è

una persona esigente e attenta ai dettagli come Kris Verwimp: “C’è sempre stato un legame speciale tra Kris e i SuidAkrA. Nel 1999 Kris ha creato la prima copertina per un nostro album, quella di “Lays From Afar”, e da allora si è occupato di tutti i nostri artwork (eccezion fatta per “Signs For The Fallen” e “Command To Charge” ndr). Da quando Marcel (Schoenen, ndr) ha lasciato la band, si è anche occupato dei concept e dei testi degli album. Ormai Kris non è solo un semplice amico, è il quinto membro della mia band. Ascolta i nostri demo e ci dà ottimi suggerimenti, instrada la direzione compositiva affinché combaci con le storie dei testi che scrive. Lo ammiro moltissimo, mette il cuore in tutto ciò che fa. Disegna fino alle tre, le quattro del mattino e poi va a lavorare, è infaticabile”. Gli ospiti di quest’album sono volti noti a chi segue il lavoro di Arkadius: oltre all’immancabile Tina Stabel, troviamo anche Sascha Aßbach, vocalist dei Fall Of Carthage, la band di Arkadius e Martin Buchwalter, batterista dei Perzonal War, e Metti Zimmer, voce e chitarra della band di Buchwalter: “Non li chiamerei ospiti. Ovviamente, per questioni logistiche, non c’è altro modo di chiamarli ma hanno contribuito moltissimo alla riuscita dell’album, non solo cantando ma anche partecipando alla stesura dei testi. Tina è un altro membro ad honorem della band. Ovviamente, essendo un’insegnante, non può seguirci in tour ma a volte riusciamo a portarla con noi in sede live. Il suo contributo in “Realms Of Odoric” è stato essenziale, visto che quasi tutte le parti di cantato melodico sono sue. Fall of Carthage, SuidAkrA e Perzonal War sono tre realtà strettamente interconnesse. Avere Sascha e Metti in studio è stato come riunire la famiglia, quel che ne è venuto fuori ha dato grande soddisfazione a tutti noi”. Tina Stabel è un pilastro della realtà dei SuidAkrA: in una scena dominata da soprani lirici, la voce di Tina svetta con la sua

energia e il suo timbro graffiante, dimostrando che non servono i sovracuti per incantare le folle: “Ciò che mi ha fatto avvicinare al metal è stata la pesantezza del sound, per questo non apprezzo quei progetti con voce lirica femminile, per me non sono metal”. Ma Tina è diversa, Arkadius ci tiene a sottolinearlo: “Tina è la mia eccezione: quando l’ho sentita cantare per la prima volta sono rimasto sinceramente colpito, la ragazza ha carattere da vendere! Per non parlare della sua versatilità: sa abbellire una ballad senza acuti inutili e allo stesso tempo ha la grinta necessaria per i pezzi più pesanti e veloci, “Undaunted” è una prova lampante del suo talento: la canzone parla di una guerriera che cerca vendetta dopo il massacro della sua famiglia e la resa emotiva è perfetta”. Tina e Arkadius non condividono lo stesso background: “Tina è una cantante blues. Quando ha cominciato a collaborare noi era completamente estranea alla scena metal ed è una cosa che adoro di lei. Non le importa cantare per una band death metal, lei canta perché ama farlo e basta”. L’eterogeneità della proposta musicale dei SuidAkrA ha portato spesso la critica ad avere pareri discordanti sui loro lavori, specialmente per le difficoltà che si incontrano nel dare loro una specifica etichetta; Arkadius non si cura di certe inezie, la soddisfazione personale è la cosa più importante: “Gran parte dei critici musicali tende a ragionare per categorie; per me la musica non dovrebbe sottostare a classificazioni. Quando vengo criticato perché il mio lavoro non è abbastanza vicino a questo o quest’altro genere francamente me ne infischio. Risentirsi per certe critiche è una perdita di tempo. L’unica cosa di cui m’importa è che la mia band sia ancora in piedi dopo tutti questi anni e che ci siano persone che con la loro dedizione sono in grado di restituirmi l’energia che investo in questo mio progetto”.

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ar svedesi del metal Nuovo disco per le st lle spade ci conduce classico. il canto de o e i grand magus hann ch o gi ag vi o ov nu l ne coltiamoli! intessuto per noi. as

e d a p S e l Cantino Portatori sani di heavy metal classico, amanti dei riff reboanti e delle storie epiche delle terre del Nord, i Grand Magus calcano le scene da più di quindici anni e hanno all’attivo sette ottimi titoli che hanno fatto la gioia degli amanti del metal degli albori. È JB Christofferson a parlare di “Sword Songs”, il nuovo album della band: “Due anni fa abbiamo fatto uscire “Triumph And Power”, poi c’è stato il tour e qualche festival. Avremmo dovuto cominciare a fare qualcosa per la prossima uscita ma non avevamo idee, perciò abbiamo aspettato un po’ di più, fatto qualche altro concerto e infine

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ho cominciato a scrivere a Maggio dell’anno scorso. A ottobre siamo entrati in studio, abbiamo registrato per due mesi. Volevamo tirare fuori un album più aggressivo e intenso di “Triumph And Power”. Abbiamo cercato di metterci un po’ di ferocia in più”. Ascoltando “Sword Songs” è impossibile non cogliere dei riferimenti ai titani del metal, JB lo conferma: “Molte band influiscono sul nostro lavoro: Black Sabbath, Deep Purple, Saxon, Judas Priest… Ma anche i Bathory del periodo più viking

e ovviamente i Manowar, anche se i nostri testi vengono da un’angolazione un po’ più personale. Quando ero bambino, mio padre mi raccontava queste storie prima di mettermi a letto. Sono storie che hanno un grande valore e che sono sopravvissute per secoli, storie della nostra terra, della nostra gente, della natura e del rapporto che abbiamo con essa. Sono storie che vanno ben oltre le mere battaglie. “Varangian” parla della guardia variaga, in cui militavano soprattutto mer-

di Alessandra Mazzarella

cenari scandinavi al soldo dell’imperatore bizantino. Quando li definiamo “Defenders of steel” non si tratta solo di servire al pubblico uno stereotipo da metal classico, ma anche di celebrare la storia di questi guerrieri e trasmettere un’immagine di forza. È la stessa cosa che ho provato quando ho ascoltato i Manowar per la prima volta”. Quando si trattano figure o avvenimenti molto famosi nei propri testi c’è sempre il rischio di perpetrare qualche stereotipo in nome della resa del proprio lavoro, alcune band ci hanno costruito la propria fortu-


Guarda il lyric video di “varangian”

Sword TracklisSongs t 1. Freja ’ 2. Vara s Choice 3. Forg ngian Crowneed in Iron 4. Born d in Steel Dog of B For Battle (Bl 5. Mast rocéliande) ack 6. Last er Of The Land 7. Fros One To Fall 8. Hugr t And Fire 9. Ever (Instrumenta Battle y Day There’s l) To Fight A

na; per JB la cosa è relativamente importante: “Siamo tutti diversi e ci esprimiamo in modi diversi. Non ho un vero e proprio parere da esprimere sulle band che trattano la nostra mitologia. Ce ne sono alcune che mi piacciono molto, altre invece no, lo trovo perfettamente normale. Quello che facciamo noi ci viene dal cuore e tanto basta… Alla fine non è una lezione di storia, non stiamo lì a giudicare come vengono trattate certe tematiche, ma una cosa da dire in proposito ce l’ho: la maggior parte delle band che si ispirano alla mitologia nordica parlano solo e soltanto degli uomini quando

invece le donne hanno un ruolo fondamentale nelle nostre storie. Nel nostro album abbiamo due canzoni dedicate a due figure femminili essenziali: Freja e Angrboða. Non bisognerebbe dimenticarsi di personaggi così importanti”. Il sound dei Grand Magus è cambiato considerevolmente tra l’esordio della band e i giorni nostri; un cambiamento dettato dall’entusiasmo e non dalla ricerca di un target di pubblico più vasto: “Quando abbiamo cominciato eravamo molto influenzati da band come i Black Sabbath ma anche dalle band doom inglesi come i Cathedral, e

si sente distintamente nei nostri primi due album. Andando in tour però ci siamo resi conto che i pezzi più veloci ed heavy erano più divertenti da suonare rispetto a quelli più lenti e vicini al doom. È così che nel terzo album ci siamo avvicinati a sound più classici, come quello dei Manowar e dei Judas Priest”, racconta JB, “in quel momento abbiamo trovato il nostro stile e l’abbiamo mantenuto fino ad oggi, anche se ovviamente abbiamo mantenuto un minimo di quella pesantezza tipica del doom”. Visto che la band ha già dimostrato di saper cambiare pelle

senza grosse difficoltà, potrebbe essere legittimo aspettarsi un’altra brusca virata stilistica. JB non è d’accordo, anzi, ci tiene a far sapere che i Grand Magus stanno bene con la loro attuale immagine, quella più vicina alla componente personale della band: “Ognuno dei nostri album è il riflesso di ciò che siamo (o eravamo) come persone e come musicisti e per questo non credo che ce ne sia uno uguale all’altro. Il cambiamento è inevitabile, non per questo un giorno inizieremo a suonare jazz o musica per ascensori, semplicemente ci concentreremo su ciò che ci viene meglio”.

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Dietro al successo di una band c’è sempre qualcuno che ha avuto il coraggio di pensare in grande e fuori dagli schemi: nel caso dei Gojira questo qualcuno è Joe Duplantier, che riesce a far convivere dentro di sé una personalità imprenditrice e una artistica senza creare conflitti d’interesse. Calmo e posato, Joe parla con piacere di “Magma”, nuovo lavoro della band, concepito a quattro anni di distanza dall’ultimo “L’Enfant Sauvage”: “Abbiamo avviato i lavori per questo album con il massimo dell’apertura mentale. Noi siamo una band metal per definizione ma prima di questo siamo musicisti e stavolta abbiamo deciso di allontanarci un tantino da quella definizione per provare qualcosa di diverso e direi che ci siamo riusciti”. Un altro album, un altro titolo nella discografia dei Gojira che in qualche modo richiama la potenza della natura, anche se in realtà il collegamento di fondo è più materiale che ideologico: “Il nome dell’album è venuto fuori durante una jam session: stavamo improvvisando ed è stato mio fratello Mario a sceglierlo per una canzone in particolare; per decidere i titoli ci facciamo guidare principalmente dalle sensazioni che la musica ci trasmette e in quel caso l’idea era di qualcosa di viscoso e bollente”. “Magma” non si distingue dai suoi predecessori solo per il taglio che strizza l’occhio

all’avantgarde ma anche perché è il primo album prodotto nel Silver Cord Studio, lo studio di registrazione fatto costruire da Joe, un progetto di cui va molto orgoglioso: “È stato pazzesco ma assolutamente necessario: sapevamo di aver bisogno di uno spazio creativo tutto nostro. Mi sono trasferito a New York qualche anno fa perché è una città che adoro ed è una fonte costante d’ispirazione; ho trovato un posticino non

troppo caro e ho deciso di costruire lì il mio studio. Per fortuna ho avuto il supporto degli amici, della band e della compagnia discografica e con i soldi che avremmo usato per pagare le registrazioni in un’altra struttura ho costruito il Silver Cord. È stata una decisione lungimirante, in futuro non dovremo rivolgerci a nessun altro per i nostri album, sarà tutto “fatto in casa” ”. Osservando la tracklist di Magma salta all’occhio una

curiosa coincidenza: il titolo del secondo brano, Silvera, richiama fortemente il nome del Silver Cord; quando si chiedono delucidazioni in merito, Joe non nasconde una punta di sincera sorpresa: “È voluto, assolutamente voluto” conferma. “Mi fa piacere constatare che qualcuno se ne sia accorto. “Silvera” porta questo titolo perché è stato il primo pezzo che

abbiamo improvvisato nello studio, quindi abbiamo deciso di dargli un nome che ne richiamasse l’origine”. “Magma” manifesta un cambiamento importante nella produzione dei Gojira, che in questa occasione hanno tagliato sulla lunghezza per proporre un album più compatto e di facile assimilazione: “Avevamo bisogno di puntare a pezzi più brevi, non per pigrizia ma per ragioni pratiche: non abbiamo mai prodotto album che potessero essere ascoltati tutti d’un fiato. Ora l’ascoltatore si troverà per le mani qualcosa di più digeribile, con

un formato simile a quello di album di grande successo come “Master Of Puppets”. Joe cerca di spiegare meglio il suo punto di vista con qualche metafora gastronomica: “Una canzone breve è come una bruschetta, un tramezzino, un dolcetto; una canzone lunga è come un pranzo di matrimonio con tante portate. Un album breve è più diretto, ti invoglia ad ascoltarlo all’infinito; un album lungo richiede un approccio mentale diverso, è un viaggio epico. Sono formati che apprezzo in egual misura ma per una volta abbiamo deciso di puntare sul corto”. Il 2016 segna un traguardo importante per i Gojira: vent’anni insieme come band, senza mai un cambio di formazione. Quale sarà il segreto della loro coesione umana? Lo stesso Joe non sa per certo dove sia il trucco: “Forse perché abbiamo rispetto di noi stessi e degli altri e siamo tutti salutisti: ci svegliamo presto al mattino, beviamo molta acqua, non ci ubriachiamo, non ci droghiamo”. Joe ci tiene a sottolineare questa informazione: “non ci droghiamo assolutamente. Cerchiamo di comunicare il più possibile, se c’è un problema ne parliamo e lo risolviamo, cosa che in band i cui componenti si ubriacano e si drogano non succede. Non parlano, preferiscono bere piuttosto che risolvere i contrasti. La comunicazione è la chiave di tutto”.

rancesi IL Ritorno dei f ole del secondo le par Duplantier frontman Joe

o t n e L o c A Fuo

di Alessandra Mazzarella

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iani i metaller ital er p o c is d o v Nuo le barriere e t t u t e er g n a pronti a infr

di Stefano Giorgianni

ROMPERE IL GHIACCIO Sono passati solo tre anni dal buonissimo “Growing Apart” e il gruppo capitanato dagli axeman Walter Cianciusi e Dario Parente torna con un disco ancor più solido, arricchito dalla voce di colui che oramai è l’insostituibile ugola della formazione italica, il mitico Göran Edman. Tra melodie intessute su un tappeto di hard rock e heavy classico con sfumature prog, gli Headless presentano il nuovo “Melt The Ice Away”, che promette di rompere il ghiaccio fra la band e una fetta più grande del pubblico del nostro paese. Una band che non ha bisogno di presentazioni essendosi “formati agli inizi degli anni ’90” esordisce Dario che continua “ma alla fine di quel decennio io e Walter abbiamo preso strade diverse, sostanzialmente per dedicare più tempo allo studio della musica.”. Il gruppo si riunisce e si consolida nel 2011, anno in cui Edman entra in pianta stabile, assieme a “Enrico Cianciusi (batteria) e Domenico Di Girolamo (basso), che in realtà gravitano attorno alla band sin dagli esordi ed in questo nuovo album, “Melt The Ice Away”, hanno fornito il loro contributo essenziale. Oggi gli Headless sono quindi una vera e propria band costituita da cinque elementi.”. Un gruppo che debuttò comunque nel 1996, ma che “all’epoca eravamo solo degli adolescenti innamorati della musica Heavy Metal” precisa Dario “non eravamo molto

preparati come strumentisti tuttavia eravamo mossi da una sincera passione per questo genere musicale. Dalla metà degli anni ‘90 in poi abbiamo lavorato duramente cercando di raggiungere una preparazione professionale. Conserviamo comunque un bel ricordo di quel periodo” puntualizza il chitarrista. Incuriosisce il sodalizio con Edman, di cui Walter ricorda: “In passato non abbiamo mai avuto un vero e proprio vocalist. Ero io a tentare di ricoprire parallelamente il ruolo

di chitarrista e quello di cantante. Nel 2011, al momento della rinascita degli Headless, abbiamo deciso di dare un taglio estremamente professionale al come-back album. Così abbiamo provato a contattare Göran. All’inizio ci siamo presentati timidamente come suoi fan. Pian pianino abbiamo scoperto di avere molte affinità dal punto di vista musicale. Negli anni è nata anche una sincera e profonda amicizia con lui. Lo abbiamo

quasi convinto a trasferirsi in pianta stabile nella nostra cittadina! Vedrete...”. Il tour di “Growing Apart” ha dato la possibilità agli Headless di supportare molti dei loro idoli, come Fates Warning e Skid Row, di cui Dario racconta: “Ovviamente è stata una esperienza incredibile. È stato meraviglioso poter ascoltare i nostri idoli musicali tutte le sere e condividere con loro il palco ed il backstage ascoltando

molte road-stories ed imparando da loro molti trucchi del mestiere. Con Jim Matheos dei Fates Warning ad esempio è nata una bella amicizia quindi è stato naturale invitarlo a suonare un assolo nel nostro brano ‘Frame’. Quel momento del disco necessitava veramente della sua firma, della sua classe. Tra l’altro Walter e Jim continuano a sentirsi quotidianamente. Da poco hanno realizzato insieme la trascrizione integrale delle parti di chitarra dell’album “A Pleasant Shade of Gray” dei

Fates Warning. Il libro è uscito qualche mese fa.” Del nuovo album invece Dario sottolinea che “durante il lungo tour europeo abbiamo iniziato a discutere sulla direzione musicale da seguire nel nuovo album ed abbiamo deciso deliberatamente di provare a scrivere brani maggiormente aggressivi ma anche più diretti, più facili da memorizzare dopo un primo ascolto” e Walter aggiunge “anche perché abbiamo riflettuto profondamente su quanto siano effettivamente cambiate le modalità di fruizione della musica negli ultimi tempi. Nella cultura dello streaming il primo ascolto deve risultare vincente!”. Sull’apporto di Edman Walter afferma: “Göran è a tutti gli effetti un membro della band. In questo nuovo album ha partecipato attivamente alla stesura dei brani occupandosi prevalentemente delle linee melodiche dei brani e di tutti gli arrangiamenti vocali. Ha poi curato molti testi. Ovviamente essendo un musicista di una certa caratura ha suggerito anche diverse soluzioni musicali secondo il proprio gusto.”. Imminenti sono invece le notizie sul prossimo tour: “Proprio in questi giorni, parallelamente alla promozione dell’album, stiamo pianificando il tour europeo di supporto al nuovo album. Abbiamo grosse sorprese per i nostri fan. A breve annunceremo le date so… stay tuned!!!”.

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Non sono metal, e neppure rock. Almeno non nell'accezione piu' classica del termine. Eppure sanno conquistare tutti, da chi ama il folk a chi ama l'elettronica a chi sbava dietro l'hard rock. PerchE' sono unici, folli, sicuramente coraggiosi nel miscelare con grande naturalezza i generi piu disperati senza pero' mai perdere di vista le sonorita, il fascino e le vibrazioni della cultura celtica. Signore e signori, benvenuti nel fantastico mondo dei The Sidh

Sopra il livello medio di Fabio Magliano

A volte capita di imbattersi in un’entità che veleggia su quel sottilissimo filo che separa il mondo del rock da tutto il resto, il cui impatto sonoro ed emotivo è di tale intensità da farti andare oltre i clichè del genere, di farti scrollare le spalle se non ci sono doppiacassa, cavalcate chitarristiche e cantato in growl e goderti semplicemente in totale libertà una proposta sonora fresca, originale, fuori da ogni schema. Come quella dei The Sidh, una band unica nel suo genere, quattro ragazzi di diversa estrazione stilistica e provenienza, legati dal comune amore per la musica celtica ed in possesso di una voglia di sperimentare incredibile, almeno in considerazione della loro giovane età. Sal Pagliaro, il chitarrista, da radici puramente hard rock e metal ha evoluto il proprio genere verso il prog e il fusion; il bassista Michael Subet dopo aver assaporato l’hard rock con i The Crack si è via via avvicinato a sonorità più psichedeliche; Federico Melato è una scheggia impazzita, tra batteria, percussioni, piano e infusioni elettroniche, ma l’autentico tratto distintivo è rappresentato da Iain

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Alexander Marr, folletto ligure/ scozzese autore con cornamusa scozzese, whistles e flauto di tutte quelle parti comunemente occupate dalla voce. Il risultato è esplosivo, tanto da portare i The Sidh a collaborare con nomi noti del genere folk celtico, dalla violinista Lindsey Stirling al gaitero Hevia, incidendo due album (‘Follow The Flow’ e ‘Nitro’), un EP (‘Fianna) e conquistando

pubblici sempre crescenti in Italia e in Europa, complice brani accattivanti e mai scontati. Perchè nel mondo dei The Sidh ogni pezzo è un ardito mosaico, nel quale ogni tassello, anche quello apparentemente avulso dal contesto va ad incastrarsi alla perfezione e con assolu-

ta naturalezza. Ecco quindi che su basi tipicamente celtiche vanno a intrecciarsi passaggi rock, jazz, metal, folk, elettronici sino a ricreare un quadro perfetto ed unico nel suo genere “Non è semplice miscelare generi diversi – afferma Iain Alexander Marr - Quello che sembra naturale all’ascolto è frutto di un processo abbastanza lungo fatto di

continui compromessi. Spesso si parte da qualcosa di molto articolato e si inizia a togliere roba sino a che tutto sembra essere lineare e, appunto, naturale. Ovviamente ognuno cerca di metterci del suo in questo, ed in base al tipo di brano si da di volta in volta più o meno spazio ai singoli interventi stru-

mentali di ognuno”. Un melting pot sonoro figlio della differente estrazione stilistica dei quattro membri dei The Sidh, che portando le loro influenze nella musica del gruppo, contribuiscono alla nascita di un sound decisamente originale “Le rispettive basi stilistiche sono molto differenti – continua Iain - Tutti e quattro (chi da più tempo e chi recentemente) apprezziamo ovviamente le sonorità celtiche, irish, bretoni ed affini. Io personalmente provengo dal mondo rap ed hiphop. Federico è il “truzzo” della band, da sempre appassionato di musica elettronica in ogni sua declinazione. Sal proviene da un passato nel metal e progressive, mentre Mike viene dal mondo ska-punk. Ma a parte questo, attualmente ognuno dei quattro ascolta praticamente di tutto. L’ascolto è fonte di ispirazione e cerchiamo sempre nuovi stimoli”. Un sound in costante evoluzione quello dei The Sidh, nato come ardita rivisitazione di classiche melodie celtiche ma destinato presto a lasciare spazio a pezzi completamente inediti ed originali “I primi brani dei Sidh – spiega-


no i quattro - praticamente quasi tutto il primo album (‘Follow The Flow’), sono stati riarrangiamenti in chiave moderna di tunes tradizionali irish o bretoni. C’era un’oggettiva necessità di partire da qualcosa di noto, aggiungerci qualcosa di mai fatto prima, e vedere che effetto faceva sulla gente. Da ‘I’m Just a Sidh In Ireland’ in poi è stato abbandonato totalmente il mondo trad per dedicarci esclusivamente a materiale inedito e poter esplorare anche altri porti non necessariamente affini alla musica celtica”. Peculiarità della proposta sonora di questo interessantissimo quartetto è la sua natura strumentale. A parte una sporadica collaborazione con il rapper vicentino Zeth Castle, infatti, il cantato difficilmente troverà spazio in un pezzo dei The Sidh. E le ragioni sono molteplici, così sintetizzate dalla band “Le parole veicolano il messaggio, esplicitano un concetto – spiegano - Vincolano l’ascoltatore a quanto raccontato. La musica strumentale regala sensazioni ed emozioni che sono

differenti per ognuno di noi. Le storie raccontate e le emozioni sono differenti, e tante quante sono gli ascoltatori. Ognuno percepisce qualcosa di diverso, ognuno interpreta la musica come meglio crede. E’ un linguaggio universale, che tutti possono capire, comprendere e degustare. Le parole creano barriere, linguistiche e concettuali, che vincolerebbero in varie maniere il nostro sound”. Altra caratteristica fondamentale è la ricerca costante di melodie formato “trapano” destinate a conficcarsi nella testa dell’ascoltatore sin dal primo ascolto “Le melodie sono sempre, nel nostro caso, frutto di ispirazione – spiegano - Non sono studiate. Al massimo sono rifinite nei dettagli durante il lavoro di arrangiamento di un brano, ma non c’è quasi mai la ricerca della melodia ottimale. Semplice ispirazione del momento. Magari sei li che guidi, o stai facendo qualcosa in casa e ti viene in mente una linea melodica che potrebbe essere interessante da sviluppare, e per

La musica strumentale regala sensazioni ed emozioni che sono differenti per ognuno di noi. non dimenticarla la registri al volo col cellulare suonandola o canticchiandola”. Melodie che trovano spazio in abbondanza nell’ultimo lavoro ‘Nitro’, album che rispetto al disco d’esordio datato 2010 palesa una crescita artistica strabiliante “La differenza con il primo EP ‘Fianna’ è quasi abissale - confermano - E’ rimasta intatta la voglia di stupire. Ma siamo cresciuti professionalmente, umanamente, i gusti si sono evoluti, il processo creativo si è raffinato, ora sappiamo un po’ di più cosa poter fare e cosa è meglio evitare. Abbiamo incontrato molte persone sulla nostra strada, che ci hanno trasmesso la loro esperienza e ci hanno aiutato a crescere. Ma è solo l’inizio, c’è ancora tantissimo da fare. Per crescere e migliorare c’è sempre tempo, non ci sentiremo mai “arrivati”, anche perchè in realtà non c’è un ben preciso obiettivo da raggiungere. Vogliamo continuare a divertirci noi in prima persona con quello che facciamo, sperando che piaccia sempre anche a chi ci ascolta e ci sostiene”. Ma divertirsi non è

sempre facile soprattutto se si gira con un fardello ingombrante sulle spalle, come quello caricato loro da un “mostro sacro” come Hevia che, ascoltandoli, non ha esitato ad affermare “... The Future has Arrived!”. Eppure i quattro paiono non avvertire pressione da cotanta investitura, proseguendo come se niente fosse nel loro percorso “Le parole di Hevia, pronunciate all’inizio della carriera dei Sidh, ci hanno fatto capire che quello che stavamo facendo era positivo ed avrebbe potuto suscitare interesse. Come dicevamo prima non ci sentiamo legati esclusivamente alla musica celtica, e gli ultimi lavori stanno prendendo anche strade ben differenti, c’è così tanto da sperimentare che è folle legarsi ad un solo genere. C’è di sicuro la pressione di fare qualcosa che risulti essere sempre nuovo, mai sentito, di reinventarci ogni volta e non essere ripetitivi”.Chi non ha paura di osare può andare alla scoperta di questa band attraverso il sito www.thesidh.it e chissà che una piacevole sorpresa non sia lì, ad aspettarvi, a distanza di un click.

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Faccia a faccia con il simpatico Ted Poley, cantante dei Danger Danger attualmente alle prese con il suo progetto solista con il quale ha recentemente visto la luce “Beyond the fate”

e r e d n e tt a ò u Il Destino p

Torna a far parlare di sè, dopo le splendida apparizioni prima al Frontiers Rock Festival con I Danger Danger, poi in veste solista ed infine dopo l’ultima data al Druso (BG) il cantante Ted Poley che oggi, grazie alla collaborazione nata con la label partenopea. da alla luce “Beyond the fate” il suo terzo lavoro solista, se si escludono i due greatest hits, che vede la luce dopo ben nove anni di distanza dal

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precedente “Smile” e le domande da fare a Ted sono molte, partendo dalle motivazioni di questa assenza prolungata “dopo aver parlato con Serafino della Frontiers di fare un album nuovo, ho pensato che fosse il momento giusto per farlo, così ho accettato”. Andando nello specifico e parlando delle canzoni che compongono l’album, fa strano vedere come le canzoni non siano composte dal cantante statunitense, che nello

specifico afferma “io amo il modo di scrivere del fratelli Martin, entrambi provenienti dai Vega, questa è la ragione della mia scelta” ed allo stesso tempo stupisce favorevolmente vedere al suo fianco validissimi musicisti italiani come Alessandro Del Vecchio, Mario Percudani ed Anna Portalupi “Li amo. Ho suonato con loro e sono stato molto contento di sapere che loro avrebbero suonato nel mio album solista. La

di Andrea Lami

loro performance è stata splendida” continuando ad ascoltare l’album non possiamo non soffermarci sul duetto registrato con Issa, duetto al quale abbiamo già assistito dal vivo sul palco del Frontiers Rock Festival II edizione anno 2015 “io volevo fortemente un duetto con una grande cantante, così gliel’ho chiesto e lei mi ha risposto di si. Il risultato finale è grandioso. Le nostre due voci insieme sono fantastiche”.


Guarda il video di “higher”

Beyond Tracklisthe fate t 1. Let’s S 2. Ever tart Someth 3. Hand ything We Are ing 4. The Ps Of Love 5. Star erfect Crime 6. Highe s 7. Wher r 8. You We I Lost You Cryin’ on’t See Me 9. We A 10. Sire re Young 11. Ben ns eath Th e Stars

Visto il nuovo materiale appena pubblicato, il richiamo del palco e del tour è quantomai forte “Sono sempre contento di suonare dal vivo ed ho già aggiunto alcune delle nuove canzoni nella mia setlist, sarà divertente” una notizia che non può non fare piacere, visto che il cantante dei Danger Danger è uno dei frontman più talentuosi in circolazione specialmente in chiave live, soprattutto per quel legale che riesce

a creare con il suo pubblico “Io amo i miei fan, pensa che ho deciso di fare un video nel quale loro sono ospiti, video che ho registrato in Italia a novembre dell’anno scorso”. Ritornando al disco, colpisce molto la cover dell’album “è stata una mia idea, ho solo pensato un mucchio di spazzatura sulla luca,

televisori rotti, ma alcuni del quali magicamente ancora funzionanti che mostrano qualcosa di me” tra i quali c’è un disegno di Ted che rappresenta la canzone “Bang Bang” dei Danger Danger ed è proprio di quello che parliamo, vista la recente pubblicazione di “Beyond the Fate” e del progetto “The Defiants”, molto probabilmente la sua band madre sarà ferma “No. Attual-

mente stiamo suonando ancora, i nostri progetti sono un qualcosa di al di fuori rispetto a quella che è la nostra attività principale” quindi chiudiamo l’intervista parlando dei vari progetti personali (Bone Machine, Melodica, Pleasure Dome) “quelle band, quei progetti sono finiti, a volte suonare una canzone di quelle band, li riporta in vita. Io ho amato tanto i Bone Machine, è stato uno dei miei progetti preferiti”.

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Arriva per gli svedesi il momento della verita' con un nuovo album basato su una fiaba scritta dal frontman, ne abbiamo parlato proprio con lui! Il ritorno del pazzo clown svedese e dei suoi compari di avventura non avrebbe potuto essere più (agro-)dolce. Dopo aver affrontato la dura realtà della vita con “Hail To The Apocalypse”, il gruppo scandinavo ha deciso di compiere un importante passo avanti per la carriera, ovvero di sfondare il muro del concept. Gli Avatar hanno scelto di sbattere dolcemente verso questo limite invisibile, di decidere in maniera arguta dove orientare il proprio futuro, di perdersi nei meandri della fantasia attraverso una storia da loro inventata, senza cliché o stereotipi imposti. “Feathers & Flesh” è dunque l’album della maturità di una band che ha oramai un rodaggio di quindici anni alle spalle e di folle sottomesse alla loro follia, era il momento adatto per dare il colpo finale all’audience internazionale. “L’ambizione di scrivere un concept è

venuta prima, era il momento per noi di raggiungere un livello superiore, di compiere uno step avanti, dovevamo solo capire come” esordisce il vocalist Johannes Eckerström “poi abbiamo iniziato a pensare a

come realizzarlo, quale doveva essere l’idea alla base di tutto. Avevamo sicuramente molti modelli davanti e non volevamo seguire certi esempi banali, come parlare di draghi o prendere ispirazione dalla letteratura fantastica di

massa. Ho cominciato poi a considerare le fiabe, tenendone in considerazione alcune che eravamo abituati ad ascoltare da bambini, invertendone però la prospettiva.” Alla base del disco c’è un poema autografo del frontman con protagonisti degli animali con caratteristiche capovolte rispetto a quel che siamo abitualmente portati a immaginare. Come curiosità chiediamo a Johannes se la sua scel-

ta di vita, alimentare ed etica, c’entri qualcosa con l’idea di fondare il concept sugli animali: “Il veganismo fa parte sicuramente della mia vita e non si tratta solamente di alimentazione. Si basa tutto sul rispetto verso le altre forme di vita. Negli ultimi anni ho sviluppato una grande passione per i volatili, cosa

che probabilmente deriva anche da mio padre che ha sempre amato gli uccelli. Riguardo all’album potrebbe esserci una connessione fra l’idea iniziale e il veganismo, ma non si tratta comunque di una storia che si incentra su questa concezione, anche perché il protagonista del poema è un gufo, che è un animale esclusivamente carnivoro.” Una delle peculiarità della storia è quella delle prospettive invertite, di una visione capovolta degli animali scelti da Johannes per il suo poema: “Non volevamo adoperare gli archetipi esistenti. Nel folklore il gufo è peraltro connesso a Satana e nella storia è fondamentale il fatto che sia un cacciatore notturno. Si tratta sempre dello scontro fra luci e ombre, ovviamente niente relativo al black metal o al celebrare l’oscurità in per se stessa.” In opposizione, nel ruolo di antagonista c’è uno dei volatili più rappresentativi della storia dell’umanità: “L’aquila è la luce, la portatrice di luce, è stata anche usata come simbolo da molte nazioni e da molti leader mondiali per la sua maestosità, talvolta mascherata da arroganza.” Nel corso degli

e n r a C e Piume

di Stefano Giorgianni

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Dopo i primi versi ho capito che non si poteva continuare con sky e fly, la cosa si stava facendo seria. Guarda il video di “The Eagle Has Landed”

eventi il gufo incontra altri rappresentanti della natura, che sono intesi da Johannes come gradi per un’acquisizione d’esperienza per il protagonista: “Gli altri animali rappresentano diverse emozioni e caratteristiche umane. Il tutto è disposto in un percorso di accrescimento e di cambiamento dell’individuo. Il protagonista inizia ad esempio come un individualista, poi avviene l’incontro con le api, che sono un collettivo, tutte lavorano per il bene comune ed è l’opposto del pensiero del gufo, che pensa unicamente per se stessa.” Si sa, ogni fiaba ha una morale e anche quella degli Avatar ne sottintende una, ovvero quella di apprendere dai nostri errori e dal non fermarsi sulla superficialità, continuare a sviluppare noi stessi per far progredire il mondo: “La tecnologia ci dà la grande possibilità di istruirci di giorno in giorno, di diventare sempre più colti, di capire cosa ci succede attorno. Credo che coltivare se stessi sia già un primo passo per risolvere un problema che affligge la comunità intera.” Da autore della fiaba Jo-

hannes ha avuto le sue ispirazioni e gli facciamo qualche nome, dei quali ci dice: “Tolkien ha avuto una grande influenza nella mia formazione e nella mia vita e credo l’abbia avuta per chiunque abbia provato a creare un mondo artificiale. Lui aveva iniziato con le lingue e poi ha pian piano costruito un universo. Il mio mondo è una praticamente una foresta dove grande importanza la hanno i personaggi. Altri nomi che potrei farti sono “La Divina Commedia” di Dante, l’Edda di Snorri poiché la mia storia è un poema, anche se ora non vorrei sembrare pretenzioso o snob come un poeta letterato e il problema delle rime devo dire che non è stato di poco conto. Dopo i primi versi ho capito che non si poteva continuare con sky e fly, la cosa si stava facendo seria.”. Dalla penna allo strumento ci sono sempre delle difficoltà, e questa volta si sono accresciute a causa della complessità della storia e dell’impossibilità di modificarla o tagliarla per incastrarla sulle note: “Adattare il poema alla

musica continuava la sfida che ci eravamo posti. Però la band era oramai rodata e sapevamo quello che dovevamo fare. Quando si crea un album e si incontrano problemi nell’arrangiare un pezzo che magari non si riesce a far coincidere con il testo, lo si può mettere da parte a fine giornata e passare ad altro o rielaborarlo totalmente. Questa volta non si poteva fare, non si potevano scartare canzoni o parte del poema, ad esempio la parte in cui l’aquila fa il suo ingresso non si può togliere o cambiare. Dovevamo realmente capire come plasmare i brani e in che direzione dovevano andare. Io ho dato il mio apporto anche musicalmente, con qualche riff, ma meno del solito perché ero alle prese col poema. Ero insomma immerso nel mio ruolo di vocalist e di paroliere.” Spesso le storie hanno un seguito e nonostante il finale tragico chiediamo a Johannes se potremmo rivedere la sua foresta in futuro: “Non credo al momento, non solo per la morte del gufo, ma anche perché non so se sono il tipo da continuare con un’altra storia che possa combaci-

are con questa, non come sequel in maniera diretta comunque.”. Gli Avatar hanno lavorato con la celebre Sylvia Massy per questo album e ci svelano che “è grandiosa. Non conoscevamo molti produttori e avevamo provato con altri che ci avevano risposto negativamente. Sylvia è molto professionale e passionale nel suo lavoro, lei ama fare questo e lo dimostra apertamente. È raro trovare tutte le caratteristiche che lei possiede in una sola persona. Ama sperimentare, è sempre pronta a suggerire e a volte sembra uno scienziato pazzo. Conosce a perfezione la tecnologia e sa aiutare nei momenti di difficoltà.”. Produttrice di successo ha lavorato con molte band e la preferita di Johannes è “i System Of A Down, anche se lei non ha lavorato in quell’album credo che ‘Mesmerize’ sia stato un capolavoro che abbia influenzato non solo noi, ma un sacco di band. Sono stato letteralmente sedotto da quell’album.”. Come ultima cosa il vocalist ci tiene a far sapere che “torneremo in Italia per qualche data dopo le sole due del precedente tour, quindi tenetevi pronti!”.

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Approfondiamo il contenuto del disco dei logical terror dopo il track by track dello scorso numero

o n i t s e D l e d eneri

C I Logical Terror tornano sulla scena con il nuovo album “Ashes of fate”, a cinque anni di distanza dal precedente “Almost Human” e lo fanno alla grande. “Ashes of fate” spiazza per la potenza dei suoni, determinata anche da scelte originali che fanno la differenza. “La scelta di registrare con un’accordatura diversa è stata fatta per ottenere un sound più potente e scuro rispetto al suo predecessore, quindi abbiamo osato utilizzando la otto corde e basso a cinque accordati in F#.” - ci spiega Julius Sic, la voce growl dei Logical Terror - “è stato tutt’altro che semplice suonare i nuovi brani con questo set-up, però siamo molto soddisfatti del muro di suoni ottenuto, se vogliamo dirlo, abbiamo dato una strizzatino d’occhio al filone djent, pur non snaturando il nostro modo di scrivere e arrangiare dei Logical Terror.” Con queste premesse così elevate si teme però che dal vivo non si riesca a sortire lo stesso effetto, ma i Logical Terror ci hanno già pensato: “Abbiamo un set-up live diverso che ripropone a grandi linee gli stessi suoni utilizzati in studio, stiamo lavorando molto per riportare on stage le stesse sfumature e atmosfere create in fase di recording. Suonare i nuovi brani dal vivo richiede concentrazione e precisione, ma allo stesso

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tempo ci diverte molto e non vediamo l’ora di portare il nuovo materiale on stage, speriamo in una buona reazione da parte del pubblico.” Altro elemento decisamente d’impatto immediato è la cover dell’album, articolata e oscura, che suggerisce un impronta industrial, opera di Keerych Luminokaya, già noto per le grafiche dei Meshuggah. “L’idea era di rappresentare il passaggio tra la vita e la morte in qualcosa che raffigurasse l’asse temporale del ciclo di vita, da qui

la struttura a clessidra con accorgimenti sui dettagli, per renderla il più accattivante possibile.” Il risultato è davvero accattivante, più raffinato della cover di “Almost Human” ma con una certa continuità e ciò si rispecchia anche nella musica dei LT, così come conferma Julius: “Abbiamo mantenuto lo stile peculiare della band, due voci principali, riffing compatto e

potente, e melodie, ma allo stesso tempo abbiamo cambiato vestito e modo nell’interpretare questi aspetti. Sin da subito ci siamo preposti di scrivere un album più oscuro per certi aspetti, più sinfonico e meno electro industrial per altri, volevamo un’aria diversa, ma la nostra identità non è cambiata.” “Ashes of fate” si avvale anche di un paio di collaborazioni davvero azzeccate: “Nella

seconda traccia ‘The world was mine’ troviamo Bjorn Strid dei Soilwork, gli abbiamo lasciato carta bianca, così da permettergli di esprimersi al meglio. Non volevamo porgli limiti e il risultato è stato ottimo. Nella title-track, ‘Ashes of Fate’, troviamo invece Jon Howard, dei Canadesi Threat Signal. Era forte il desiderio di coinvolgerlo nel nuovo album, e siamo riusciti nell’impresa, Jon ha contribuito a personalizzare la

di Angela Volpe

melodia, rivisitandola nel suo stile, e questo ha permesso al brano di raggiungere un livello davvero alto.” Ed è certamente questo livello che ha destato l’interesse dell’etichetta tedesca darkTunes con la quale la band ha firmato: “Siamo certamente soddisfatti di essere stati apprezzati da una label straniera in un paese sul quale puntiamo parecchio, avere un appoggio di questo tipo ci da garanzie di maggior visibilità. Sono già usciti tre video, ne abbiamo un quarto in programma, e con darkTunes stiamo cercando di gestire e programmare le cose cercando di fare una selezione accurata dei canali dove spingere il nuovo album.” Con un prodotto così valido, le aspettative sono piuttosto elevate e sembra che i Logical Terror abbiano quanto serve per spopolare in Italia e all’estero. “Speriamo in entrambe, ovviamente riuscire a destare maggiore interesse a casa nostra è il primo pensiero, ma è ovvio che essere usciti con una label straniera in Europa, ci fa sperare di poter essere apprezzati fuori dai confini nazionali. Per noi sarebbe un bel traguardo ottenere visibilità in Germania, è una sfida e un bel confronto. Il destino, per un gioco di parole, è anche il soggetto del nostro album -letteralmente ‘Ceneri del destino’ma ci auguriamo che il nostro non siano le ceneri!”


la più semplice arriva e ti scuote bisogna registrala. Per me questa è il vero supporto della scrittura” Myung spiega e aggiunge “inoltre il segreto è scrivere qualcosa che vuoi riascoltare e riascoltare senza annoiarti e “Profit” ha queste qualità. Ho pensato a questo nella mia quando ho doto il mio contributo”. Questa band tocca probabilmente il lato più umano di questo fenomenale artista, lo si avverte e non e segnò un grande ritorno. Ora solo più volte ha affermato con il nuovo album “Profit”, la “non potrei immaginare di band ha deciso finalmente di non avere questa band, è una andare in tour per proporvi live valvola di sfogo davvero unica pezzi che vi sorprenderanno per me”. Tuttavia quando il “non fatevi ingannare dalla successo di una band aumenlunghezza, sebbene i pezzi ta, molte volte può portare a siano sui tre minuti” avvisa dover convenire alle regole del Myung “i pezzi sono brevi, ma commercio (ad esempio quando quando arrivi alla fine di ogni scrivere andare in tour). Questo pezzo vi renderete conto che potrebbe danneggiare quella è successo di tutto. La parte libertà che è probabilmente la testuale è interessantissima matrice dell’estro targato Jelly e ogni pezzo vi porterà in un Jam. Eppure Myung non vede bel viaggio”. Un viaggio com- questo rischio, da persona sagposto anche di idee per anni gia ha raggiunto un traguardo collezionate da questo colosso al quale tutti aspiriamo, una del basso, che a molti appare filosofia di vita a cui tutti silente e distaccato ma che si dovremmo arrivare prima o poi svela come un musicista che “In passato quando ho inconvede al centro della scrittura trato un ostacolo, o mi sono un elemento: emozione “la ritrovato in una situazione cosa più interessante per me stretta naturalmente ha porè che tutti possono scrivtato dello stress, ma ora sono ere una serie di note ma se arrivato a voler vivere la mia suonando non ti appassiona, vita senza vedere in questi non ti suscita alcun sentimen- avvenimenti un problema. to allora non è musica. Per Ora vedo qualsiasi situazione questo quando un’idea, anche come uno sviluppo della mia

The Jelly Jam :John Myung (Dream Theater), Rod Morgenstein (Dixie Dregs, Winger) e Ty Tabor (King’s X) – presenta il nuovo album album ‘Profit’ , un lavoro epico che li portera' per la prima volta sui palchi di tutto il mondo. Se siete tra chi guarda a Mr. Myung come un uomo di pochissime parole, ricredetevi infedeli! Ai nostri microfoni abbiamo trovato un uomo che non sta zitto un attimo. Come me, sono certa, che molti di voi stiano pensando a dove il bassista dei Dream Theater trovi voglia tempo ed energia artistica per una seconda progressive band “per me avere una diversa valvola di sfogo inspira, perché ogni album ha uno spazio limitato e quindi non può contenere ogni esperienza. È liberatorio, quindi, avere un secondo canale dove esprimersi perché ti apre una miriade di opportunità. Devo dire che Jelly Jam seppure non sia commercialmente conosciuta sia ormai uno spazio davvero speciale. È puramente magico la maniera in cui io Ty e Rob siamo in sintonia” spiega Myung. Il primo album della band “The Jelly Jam” è stato rilasciato nel 2002, seguito nel 2004 di “The Jelly Jam 22”. A causa d’impegni con le rispettive band solo nel 2011 uscì il quarto album “Shall We Descend”, il quale fu acclamato da pubblico e critica

L'Arrivo dei Profeti

vita, da guardare positivamente. Se Jelly Jam arriverà a un gran successo, dovremmo organizzarci ma certamente è uno scenario grandioso”. Questo modo di guardare alla vita, è rispecchiato in questo concept album. Sebbene si parli di una lotta tra il progresso a tutti i costi, che non bada ai danni che questo porterà nel futuro, finisce in una nota positiva. “Profit” è un viaggio eroico di un profeta che, ispirato da un profondo senso di responsabilità, si imbarca in una missione per cercare di salvare il mondo, e aprire gli occhi di coloro che non vedono. La lezione finale ci ha spiegato Myung è quella di capire che tutto può essere cambiato e salvato se si desidera davvero e se si rimane forti. Egli naturalmente è ben collaudato su come scrivere un concept grazie ai Dream Theater che del lavoro concettuale han fatto una vera arte e su come sia differente scrivere un concept con i Jelly Jam band ci spiega “con i Dream Theater la storia viene prima e poi scriviamo la musica. “Profit” non doveva essere un concept, difatti abbiamo scritto la musica e quando nello scrivere i testi mi sono reso conto che avevamo una storia. Quindi il procedimento è stato molto diverso, in quanto non vi era una struttura concettuale quando abbiamo iniziato a lavorare su “Profit.”.

di Paky Orrasi METALHAMMER.IT 23


BALLA COL DIAVOLO

A TRE anni da "Outlaw Gentlemen & Shady Ladies” il gruppo danese torna coi motori al massimo con un nuovo roboante album. ne abbiamo parlato con jon larsen! Forti di una proposta musicale vicina ai gusti di molti pur rimanendo sopra le righe, nel corso degli anni i Volbeat si sono guadagnati un posto di tutto rispetto nel firmamento metal e la fedeltà assoluta di un immenso stuolo di fans. “Seal The Deal And Let’s Boogie” è la loro ultima, eccellente fatica ed è il batterista Jon Larsen a raccontarcene la nascita: “ “Seal The Deal And Let’s Boogie” è nato come nascono praticamente tutti gli album. Michael (Poulsen, vocalist e chitarrista della band, ndr) ha iniziato a scrivere i testi e a documentarsi

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su tutto ciò che è tipico di New Orleans: ha letto libri, guardato documentari e seguito

serie televisive, così ha trovato l’ispirazione. Dopodiché abbiamo portato il materiale

in studio et voilà, ecco un nuovo album”. Sono diverse le figure che hanno un posto sotto l’occhio di bue in “Seal The Deal And Let’s Boogie” e forse la più conosciuta è quella di Marie Laveau, recentemente

portata sul piccolo schermo da Angela Bassett in “American Horror Story: Coven”, la serie che ha ispirato maggiormente Michael Poulsen durante la

di Alessandra Mazzarella

stesura del concept. Jon ammette candidamente di sapere molto poco sulla celebre maga voodoo: “Tutto ciò che so sul suo conto l’ho imparato guardando “American Horror Story”. Nella serie Marie Laveau è una sacerdotessa molto potente, una figura misteriosa e intrigante, sicuramente degna di una canzone”. “Seal The Deal And Let’s Boogie” è stato ampiamente annunciato da tre singoli, scelti con estrema perizia: “Quando ci hanno chiesto di pubblicare dei singoli dal nuovo album, la scelta per il primo pezzo è stata la più logica a livello di marketing: abbiamo scelto “For Evigt”, la canzone con il ritornello in danese, per venire incontro al nostro mercato nazionale, senza contare che è forse il brano più pop e ac-


cattivante di “Seal The Deal And Let’s Boogie”. Con “The Devil’s Bleeding Crown” non eravamo altrettanto sicuri ma sono stati gli americani a chiedercela, specialmente per farla passare in radio, perché non accontentarli? Per “Seal The Deal” alzo le mani, non ho idea del perché sia stata scelta come terzo singolo. Forse perché è up-tempo, perché è vicina allo stile punk, a quello dei Ramones, dei Motörhead, almeno secondo me. Sicuramente è un brano diverso dagli altri due”. Tra i numerosi successi dei Volbeat spicca anche una nomination ai Grammy del 2014 con il singolo “Room 24”, in cui King Diamond ha prestato la sua voce: “Qualche anno fa eravamo in tour negli Stati Uniti e alcuni dei nostri roadie avevano lavorato per King Diamond ai tempi, perciò ogni volta che passavamo da Dallas, dove abita lui, veniva a salutarci e fare quattro chiacchiere in danese, tanto per cambiare. Essendo suoi grandi fan per noi è stato un vero onore passare del tempo con lui a scambiarci aneddoti davanti a un caffè. Michael ne ha approfittato, si è fatto coraggio e gli ha detto di avere questa idea per una canzone,

chiedendogli poi se avrebbe potuto fargli piacere prendervi parte. King per fortuna è stato entusiasta dell’idea, ha scritto le sue parti di testo e le ha registrate negli USA: è così che è nata “Room 24” ”. Recentemente i Volbeat si sono separati dal bassista Anders Kjølholm e a sostituirlo c’è qualcuno di familiare ai fan della band, Kaspar Boye Larsen: “ Conosciamo Kaspar da molti anni. Ci ha fatto da turnista nel 2006, durante un tour europeo in cui ha sostituito Anders; ci siamo trovati molto bene con lui e quando abbiamo avuto bisogno di un nuovo bassista è stata la prima persona a cui abbiamo pensato”. Macinando chilometri, producendo dischi di immenso successo e collaborando con personaggi illustri, i Volbeat hanno già trascorso quindici anni insieme: “È proprio vero che il tempo vola” dice Jon, faticando a realizzare quanto tempo sia passato da quando i Volbeat erano solo un’idea: “ sicuramente gli impegni lo fanno passare più in fretta. Probabilmente ci aspettano almeno tre anni sulla strada, anzi, ce lo auguriamo. Certo che se quando ho cominciato

qualcuno mi avesse detto che avrei suonato davanti a enormi folle e prodotto dischi d’oro e di platino, gli avrei chiesto di che droga si fosse fatto. Non ci saremmo mai aspettati di raggiungere certi livelli di grandezza e siamo estremamente soddisfatti di ciò che abbiamo fatto ma ci sono ancora tanti obiettivi da raggiungere. Non avremmo potuto fare niente diversamente, se siamo arrivati a questo punto è perché abbiamo passato interi anni in tour; ci sono voluti fatica e sacrifici ma ha funzionato”.

Guarda il video di “Devil’s Bleeding Crown”

Certo che se quando ho e cominciato qualcuno mi avess nti detto che avrei suonato dava chi a enormi folle e prodotto dis iesto ch ei vr a li g , no ti a pl i d e ro d’o di che droga si fosse fatto. METALHAMMER.IT 25


Preziosi Artefatti Negli anni gli Overtures hanno riscosso crescenti consensi e apprezzamenti dal pubblico italiano ed estero e quest’anno saliranno sul palco del Gods of Metal. Il nuovo album “Artifacts” si presenta fin dalla cover con un’idea di fondo che esula dalla pura composizione musicale: un’enorme lampadina sospesa in aria e un funambolo in equilibrio su una corda della quale non vediamo le estremità. Ne abbiamo parlato con Michele Guaitoli, voce della band. “L’uomo moderno è schiavo della tecnologia, mossa dall’elettricità. Computer, telefonini, mezzi di trasporto, console, televisioni. Siamo schiavi della corrente elettrica, rappresentata dalla lampadina.” Il concept vuole quindi rappresentare la falsità del mondo fittizio dei social, dove ci si veste di stereotipi, camminando sul filo di una realtà astratta dalla quale si può precipitare per finire come la figura raggomitolata nella parte inferiore dell’immagine. Guaitoli tuttavia precisa che “non si può parlare di un concept album vero e proprio perché non narra una storia, ma in una maniera o nell’altra, dal video alla copertina alle nostre foto, e ovviamente partendo da testi e musiche, tutto vuole essere un invito all’ascoltatore/ lettore a soffermarsi sul mondo attuale e su come lo stiamo

vivendo. ‘Artifacts’, la seconda traccia, title-track e singolo sul quale abbiamo scelto di impostare anche il videoclip ufficiale, è un po’ il manifesto del tema principale. Oggi viviamo in una società basata sull’indifferenza e la distanza, sull’immagine telematica dell’essere umano; mentre la carne decade e la lotta per creare una nostra distorta

realtà in cui siamo onnipotenti e immortali, è persa in partenza.” “Artifacts” quindi si propone con un album impegnato dal punto di vista dei contenuti, ma è stato anche molto impegnativo dal punto di vista compositivo e di produzione, come ci racconta Michele: “Credo che in assoluto sia stato il disco per il quale abbiamo speso più tempo per registrare, non per difficoltà, ma per cura dei dettagli. È stato un lavoro davvero lungo.” Questa maggiore cura dei

aperto il La band che ha si confessa gods of metal er a metal hamm

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dettagli probabilmente è stata determinata anche dalla grande volontà della band di migliorarsi, in considerazione anche del fatto che il disco precedente “Entering The Maze” era stato ottimamente accolto dalla critica e dal pubblico. Viene spontaneo chiedersi se gli Overtures temano il confronto.

”‘Entering the Maze’ è stato un disco che ci ha davvero dato tante soddisfazioni. Ha ricevuto delle recensioni importanti e ci ha portato in giro per l’Europa permettendoci di suonare praticamente ovunque, ma non pensiamo al confronto. Noi scriviamo in maniera molto spontanea e non facciamo altro che cercare di perfezionarci e migliorarci, con tanta autocritica.” Tuttavia viene spontaneo chiedersi come “Artifacts” possa differenziarsi dai lavori precedenti. “‘Entering the Maze’ era un disco più aggressivo, più

di Angela Volpe

cupo, più triste, ma con brani con strutture più semplici ed un riffing meno tecnico. ‘Rebirth’, il disco precedente, era d’impronta decisamente più classica e tendente al power metal, con più allegria e brio. “Artifacts” è la giusta evoluzione di questi due album. Ci sono molti tratti che riprendono qualcosa di “Rebirth”, con dei ritornelli e un mood a volte più disteso e meno cupo, mentre il songwriting è diventato più complesso e vario, sfociando addirittura nel progressive, un processo che era iniziato appunto in ‘Entering the Maze’ e che con ‘Artifacts’ trova una sua personalità ed un suo stile ben definito. Alcune recensioni hanno già definito il disco un mix tra gli Avantasia e i Symphony X o un disco che giace tra il Power sinfonico ed il progressive più spinto. Direi che queste definizioni rispecchiano bene anche quella che è la nostra visione di noi stessi. Siamo in quel limbo tra il power e il prog, che aggiunge cattiveria al power puro ma toglie meccanicità e matematicità al prog puro. Quello di cui siamo certi è che tutti i nostri album sono il frutto di un lavoro appassionato e sono il miglior risultato che con le nostre capacità potevamo dare. Se poi il nostro 200% non piacerà, noi avremo la coscienza a posto nel dire che abbiamo dato il meglio.”



e h c i s s o T e Not di Barbara Volpi

Al Roadburn Festival abbiamo ascoltato in anteprima il nuovo album dei Neuro� sis che uscira' per la Neurot Recordings probabilmente in autunno. Non ci e' stato anticipato nulla, neppure i titoli. Abbiamo lasciato che parlasse la musica (sempre imperiosa, surreale, oscura) e per il resto ci siamo dati appuntamento tra qualche mese. Scott Kelly è un omone con il barbone da boscaiolo e lo sguardo gentile. Davvero ad incontrarlo non si capisce come possa concepire una musica malata, virulenta e platealmente ammorbata come quella dei suoi Neurosis, band con trent’anni di vita che ha anticipato praticamente tutto ed ispirato le generazioni di musicisti a venire. Vederla dal vivo è un’esperienza psico-fisica di incredibile intensità e possenza. Essa ti sa trasportare in altre galassie, dove le eterne forze del bene e del male combattono battaglie abissali. Anche quest’ultimo album di cui Scott preferisce non parlare

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fino ai tempi ufficiali della promozione, è una sorta di colonna sonora di un possibile fantasmagorico film di fanta-

scienza. Ciò che sorprende e che tali allucinazioni sensoriali possano essere

sputate fuori dalle viscere di un uomo apparentemente così mite, che sul palco però, insieme a Steve Von Till e agli altri, sa trasmutarsi in un drago dell’apocalisse sonora. Cio’ che Kelly ci anticipa è che anche per quest’ultimo lavoro la band ha seguito sempre lo stesso iter creativo. “Di solito prendiamo spunto dal nostro passato, dal livello che abbiamo raggiunto attraverso l’album precedente e lo spostiamo un passo oltre. Ci troviamo tra noi e cerchiamo di delineare un

orizzonte nuovo da esplorare, dopo di che lasciamo che le idee si sviluppino spontaneamente attraverso la musica”. Trent’anni di

onorata carriera sono più di un matrimonio che ha raggiunto il traguardo invidiabile delle nozze d’argento. Com’è possibile stare per così tanti anni all’interno della stesso gruppo sopravvivendo ai cambiamenti epocali e personali senza implodere? Ci dice Scott: ”E’ molto importante darsi lo spazio di evolversi e sperimentare anche al di fuori della band, ad esempio con progetti collaterali. Credo che sia il segreto per le relazioni durature anche nella vita privata, che senza ossigeno soffocano. Poi, quando decidiamo di tornare insieme e ci troviamo nella stessa stanza, la vecchia alchimia è sempre lì, inalterata. Per cui è sempre un piacere fare dischi con i Neurosis. Ci conosciamo molto bene,


Credo che se non avessi avuto la musica per incanalare un certo tipo di oscurità che domina il mio inconscio, probabilmente sarei finito ricoverato in un reparto psichiatrico o in carcere. sappiamo cosa aspettarci gli uni dagli altri, quindi il processo creativo avviene naturalmente”. Fatto sta che questo combo di Oakland ha partorito negli anni musica stupefacente, con un approccio praticamente avanguardistico che ha aperto una strada. “Tre decenni fa eravamo molto giovani ed inesperti, ma con le idee ben chiare su come avremmo voluto essere e sul fatto che ci sarebbe piaciuto sviluppare un concetto sonoro diverso da ciò che ascoltavamo in giro. Malgrado ciò, impiegammo un paio di anni per arrivare al punto che ci interessava raggiungere. Io avevo queste visioni in mente, ma dovevo trovare il modo giusto per trasporle in suono. Ho una mente piuttosto contorta, che riesce a partorire incubi surreali. Credo che se non avessi avuto la musica per incanalare un certo tipo di oscurità che domina il

mio inconscio, probabilmente sarei finito ricoverato in un reparto psichiatrico o in carcere. In questo senso la musica è veramente un strumento terapeutico potente. Essa è stata la mia salvezza. Ora ho anche mia moglie e i miei figli che mi costringono a stare con i piedi per terra. Essere in una band, passare dallo studio di registrazione ai tour, ti porta a fare una vita sconnessa dalla realtà. Non è un’esistenza sana. La famiglia mi riporta alle cose vere della vita e al senso di responsabilità”. Così Scott, per trovare un luogo di pace, si è trasferito dalla California all’Oregon, dove può garantire a se stesso e ai suoi figli un ambiente più salutare. “Abito in un posto bellissimo a contatto con la natura situato a qualche ora da Portland. Camminare tra le montagne, in mezzo ai boschi e poter stare vicino agli animali è il mio modo per ritrovarmi e mantenermi sano dentro, è la mia forma di depurazione dopo aver passato mesi nel folle mondo del rock n’roll”. Anche la musica come la natura può essere però una grande strumento taumaturgico.“Credo che la musica

mi abbia insegnato una certa forma di spiritualità difficile da spiegare a parole. Mi ha guidato verso una profonda conoscenza del lato nascosto dell’esistenza, oserei dire occulto. Ad un livello personale credo di avere ancora molte lezioni da imparare, devo lavorare ancora tanto per diventare una persona migliore. Ci sono molto demoni che giacciono dentro di me e so che affrontarli e l’unico modo per trascenderli, e scrivere canzoni e suonare è l’unica via che conosco per manifestare questo processo”. Tra i vari progetti collaterali a cui Scott ha partecipato spiccano gli Shrinebuilder, un album solo omonimo fatto uscire da questo super-gruppo formato con Wino, Al Cisneros, Dale Crover e Toshi Kasai, che sarebbe bello riascoltare presto. “Gli Shrinebuilder sono stati un progetto estemporaneo e non credo che si riformeranno. Piuttosto mi piace dedicare del tempo ai miei progetti solisti, perché tutto risulta molto più semplice. Siamo solo io e la chitarra e non devo fare compromessi. Cimentarmi da solo, a mia totale responsabilità, mi ha aiutato a diventare un musicista migliore, a crescere dal punto di vista tecnico, perché a quel punto non hai più la band a cui appoggiarti, e neppure ti puoi nascondere dietro alle pesantezza di riff e alle distorsioni. Sei costretto a metterti a nudo. La musica scaturisce ancora dallo stesso luogo ma per per esprimerla devi essere in un differente stato d’animo, più calmo e totalmente onesto”. Guru in carne ed ossa per un’intera progenie di musicisti, Scott Kelly non si sente un pioniere e neppure vuole gli onori dovuti ai maestri iniziatici. “Credo che la musica basti a descrivere se stessa e che un

musicista debba mantenersi umile rispetto al suo mistero e alla sua forza. Tuttavia se potessi essere utile alle nuove generazioni in qualche modo, ne sarei felice”. Lontano dalla psicosi neuronale dei Neurosis Scott è un family-man che ama fare sport e guardare la tv. “Mi piace anche leggere anche se adesso, con l’avanzare degli anni, mi addormento ogni volta che tengo un libro in mano” spiega ridendo. Contrariamente al suo aspetto un po’ rude, egli è un uomo colto, che segue anche i fatti di attualità e politica e che ha da dire la sua sulle prossime elezioni americane. “La campagna per le elezioni presidenziali sono un totale disastro con Donald Trump. Mi piacerebbe se vincesse Bernie Sanders, ma sono sicuro che l’ordine precostituito, le corporazioni, non lasceranno che ciò avvenga. Certo, dovesse trionfare Trump, gli Stati Uniti si troverebbero davvero catapultati in un’era di regressione medioevale. Non credo che vincerà, ma con gli Americani non si può mai dire. Anche Ronald Reagan era un idiota e tutti dicevano che era impossibile prendesse voti e poi ce lo siamo trovati come presidente per otto anni, e prima d’allora era stato anche il governatore dello stato in cui vivevo”. Nell’era reaganiana Kelly era già attivo con i Neurosis e cercava di estrinsecare il lato oscuro di quella pancia americana che Reagan ci teneva a negare, con il suo edonismo costruito su una politica neo-liberista fatta a spese delle classi più deboli. “Non credo che la musica possa cambiare il mondo, ma magari serve a veicolare certi valori. Io ai miei figli insegno ad essere gentile, umile. e a trattare gli altri con rispetto. Sembrano cose banali, ma nel mondo deviante in cui viviamo non lo sono affatto”.

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TEMPESTA DI FUOCO Faccia a faccia con un’autentica icona del rock. Il singer Joe Lynn Turner ci porta alla scoperta di “Edge of Tomorrow”, quarto lavoro in studio dei suoi Sunstorm, in un affascinante viaggio tra passato e futuro.

‘Edge of tomorrow’ è il titolo del quarto lavoro firmato Sunstorm, “all star band” attiva dal 2005 sotto le ali protettrici della “nostra” Frontiers, guidata dalla mitica ugola di Joe Lynn Turner. E l’occasione per approfondire il discorso “Edge Of Tomorrow” direttamente con un cantante che ha fatto la storia del rock è troppo ghiotta per lasciarcela scappare. Dopo tutto la sua voce ha impreziosito lavori di Rainbow (“Difficult do Cure”, “Straight between the eyes”, “Bent Out Of Shape” e “Final Vinyl”), Yngwie Malmsteen

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di Andrea Lami

(“Odyssey”, “Trial By Fire”, ed “Inspiration”), Deep Purple (“Slaves & Masters”) senza dimenticare le partecipazioni a progetti interessanti quali Brazen Abbot & Nikolo Kotzev o le collaborazioni con artisti quali John Waite, Michael Bolton, TNT, Stuart Smith, M.S.G., Blackmore’s Night, Eddie Ojeda o Avantasia, ai quali si aggiunge una ricca carriera solista composta ad oggi da una decina di album più qualche live ed EP. Ci troviamo di fronte ad un’icona mondiale dell’hard rock che ha voluto raccontarci un po’ il suo ultimo lavoro “Le canzoni contenute nell’ultimo Sunstorm sono tutte molto forti – spiega In questo album, a differenza del passato, ho avuto il pieno controllo di tutti i brani. Il produttore Alessandro Del Vecchio si è mostrato subito disponibile a seguire la direzione musicale che io avevo in mente. Dopo aver creato uno “scheletro” delle canzoni ci abbiamo lavorato insieme.” Un disco la cui direzione stilistica era già saldamente nella mente del suo “creatore” al momento dell’entrata in studio, sintomo di una “chiarezza di idee” non indifferente “Dopo l’album “Rated X” volevo tornare indietro e comporre più materiale melodico – afferma - Volevo che quest’album suonasse più forte e più pesante e che non avesse quei richiami agli anni ‘80 come


nei precedenti album. Credo che questo sia il migliore dei quattro album registrati a nome Sunstorm, più pesante, ma senza perdere l’integrità, io lo definisco metal melodico” Dal punto di vista lirico, invece, l’ex Rainbow ha voluto lasciare ampio spazio all’interpretazione dell’ascoltatore, a conferma di una certa “libertà interpretativa” di ogni brano “Sinceramente preferisco che ogni ascoltatore interpreti i testi in maniera assolutamente libera, questo perché le interpretazioni sono sempre varie. Posso solo dire che la title track “Edge Of Tomorrow” parla dell’apocalisse che sta accadendo in questo momento e della situazione geopolitica attuale.” La poliedricità del cantante fa si che sorga il dubbio, al momento di comporre un brano, se questo suoni meglio per un lavoro solista piuttosto che per una band come i Sunstorm, ma anche in questo caso il singer svela l’arcano con grande disponibilità “Non c’è una regola precisa – spiega - quando scrivo una canzone o quando mi mandano una canzone posso pensare che potrebbe andare bene per Sunstorm o per un mio album solista. Per esempio in questo album molte canzoni sono state scritte da altri. Di solito nei miei album solisti scrivo tutto io.” Un’affermazione che lascia ben capire l’”apertura” del cantante verso collaborazioni esterne, ed infatti lui stesso precisa “Sono sempre molto disponibile ad eventuali collaborazioni, attualmente sono concentrato sui miei prossimi show che non ci ho ancora pensato, fortunatamente ho collaborato con molti artisti di fama internazionale ma ce ne sono tanti con cui non ho avuto l’opportunità di lavorare.” Fatta chiarezza sulla genesi del nuovo disco dei Sunstorm, il discorso scivola sulla “nascita” di Joe Lynn Turner

cantante, e anche in questo caso in singer statunitense spiega “...per la verità io sono nato come chitarrista ed ogni tanto, quando posso, suono la chitarra. Ho capito di voler diventare un cantante quando sono andato a vedere Grand Funk a New York e sono stato catturato dalla voce di Mark Farner. E’ stato lì ho deciso.” nonché trampolino di lancio per una carriera che lo ha visto dietro i microfoni di Rainbow, Malmsteen e Deep Purple “... tutte esperienze che mi hanno insegnato molto. Suonare al Madison Square Garden con i Rainbow è stato il mio modo di dimostrare alla mia famiglia che come cantante avevo un certo valore. Richie è sempre stato un burlone, avrei un sacco di storie che potrei raccontare, ci si potrebbe scrivere un libro.” che a noi piacerebbe sicuramente leggere, Blackmore ancora oggi è circondato dal un alone di mistero, sempre parlando di Blackmore e quindi dei Deep Purple “suonare con loro è stato un sogno che diventa realtà, ho sempre suonato le loro cover, quindi è stato come la chiusura di un cerchio. Con i Purple abbiamo suonato in tantissimi posti nei quali molti altri artisti avevano paura di suonare per colpa della guerra, questo ha reso il tour memorabile.” Come memorabile è stata senza dubbio la parentesi alla corte di “sua maestà” Malmsteen “Con Yngwie abbiamo fatto un album bellissimo ed abbiamo suonato davanti a tan-

tissima gente in Russia, forse quello è stato uno dei miei highligh”. Grande disco, eccellente tour, a dimostrazione di come queste due dimensioni facciano parte a pieno della natura di questo straordinario cantante “amo entrambe le cose – confessa candidamente - in pratica non smetto mai di comporre, neanche in tour, quando sono a casa registro. Andare in tour è bello perché posso toccare con mano la

Quest’album è caratterizzato dalla parola “cuore”, che riis n efi d lo o st ue q r pe e a rn to co un album molto umano, basato su sentimenti reali

passione dei fan che alla fine è ciò che ti fa andare avanti. Io li ringrazio per il loro supporto”. Infine uno sguardo al progetto Rated X e all’attività solista di Mr. Turner “stiamo discutendo alcune cose - svela - e se tutto andrà bene sarò a suonare in USA, Bulgaria, Finlandia, Svezia, Norvegia ed in qualche festival in UK. Tenete sott’occhio il mio sito e la mia pagina facebook per essere sempre informati”.

Guarda il video di “Edge Of Tomorrow”

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ORA CHE NIKKI SIXX NON È PIÙ IMPEGNATO CON I MÖTLEY CRÜE, E CHE DJ ASHBA HA LASCIATO I GUNS N’ ROSES, I SIXX: A.M. HANNO FINALMENTE LA POSSIBILITÀ DI SFONDARE. LA BAND È AFFAMATA E SI NOTA! LO SCORSO APRILE È USCITO IL PRIMO DEI DUE DISCHI GIÀ BELLI CHE PRONTI PER I FAN: “PRAYERS FOR THE DAMNED VOL.1” CHE, PROMETTONO, LI PORTERÀ 24 MESI IN TOUR. INSOMMA, LA BAND VUOLE RECUPERARE IL TEMPO PERSO. DI QUESTO MA ANCHE DELLA SUA IMMENSA CREATIVITÀ ABBIAMO PARLANTO CON DJ ASHBA.

COVER STORY

i t a n n a d i r e p e r e i h Preg di Paky Orrasi

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j Ashba è la rappresentazione di un sogno contemporaneo, dove non ci sono speranze ma certezze. Un sogno prettamente americano, nel quale puoi essere chi vuoi, ma arte e imprenditoria coabitano per realizzare le proprie ambizioni in maniera concreta. Eppure questa concretezza inizia come ogni tradizionale favola, dove il nostro eroe era predestinato al successo. A otto anni, decise di lavorare in una piantagione di mais per comprarsi la sua prima chitarra e durante il viaggio in bus, da casa al campo, incontrò il suo Merlino: un chitarrista di una band locale che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell´inspirare Dj Ashba “Avevamo un coltellino e lui incideva tre buchi nel retro del bus e diceva, ad esempio, che quello era un La Maggiore e di andare a casa e fare pratica. Ogni giorno m’insegnava un nuovo accordo ed io non vedevo l’ora di essere a casa e suonarlo. Ancora ricordo quando messi le dita in posizione per suonare il primo … wow pelle d’oca. Naturalmente ero felice di andare a lavoro sapendo che avrei imparato un nuovo accordo”, ricorda Dj Ashba. Immagino cosa pensi quel chitarrista oggi, se stia seguendo l’esplosiva carriera di questo musicista. Un excursus musicale che l’ha

portato a una lunga carriera solista e con varie band prima di approdare sulla spiaggia di una delle più amate, celebri e influenti al mondo: i Guns N’ Roses. Sulla carta Dj Ashba arrivò a sostituire Robin Rinck, ma nell’immaginario di tutti si sa che il suo paragone sarebbe stato il mitico Slash. Eppure quest’artista è riuscito a conquistare tutti, grazie, non solo al suo talento, ma anche a una personalità che malgrado successo e ricchezza è probabilmente ancora su quei campi. Difatti questo chitarrista è stimato per essere gentile, alla mano e pronto a parlare con ogni fan che si avvicini. Seppure i Guns siano il palco che ogni chitarrista sogna, qualcosa mancava, quel qualcosa consisteva nel non potersi esprimere come avrebbe voluto con i Sixx:A.M., band formata nel 2007 da Nikki Sixx, DJ Ashba, and James Michael: “Devo essere onesto, sono incredibilmente onorato di aver fatto parte dei Guns per quasi sette anni, un viaggio incredibile, tuttavia durante uno degli show sold-out con i Sixx:A.M. ho capito che dovevo prendere questa decisione, che stavo facendo qualcosa di sbagliato e non stavo seguendo il mio cuore. Non so quante persone avrebbero avuto il coraggio di lasciare una band talmente importante per dedicarsi a quello che davvero avevano nel cuore. Quando suoni le tue canzoni, è diverso! La maniera in cui connetti con la musica e con le persone è tutta un’altra storia. Vedere i fan in lacrime, perché non sapevano se ti avrebbero rivisto con i Sixx: A.M., questo mi ha fatto finalmente decidere di dedicarmi solo alla mia band”, spiega Dj Ashba. Tempistica perfetta, ora che Nikki Sixx non è più alle prese con la mitologica creatura Mötley Crüe, i Sixx:A.M, band rilegata ad essere side project per così tanto tempo, possono avere tutto il tempo, energia e artisticità che meritano. La band seppure sia una delle poche ad aver fatto centro nell´unire tradizione e contemporaneità non ha avuto la possibilità di iniziare a catturare i palchi di tutto il mondo, ma il 2016 è il

Avevamo u n coltellino e lui incideva tre buchi nel ret ro del bus e dic eva, ad esem pio, che quello er a un La Ma ggiore e di a ndare a cas ae fare pratica.

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Sono incredibilmente onorato di aver fatto parte dei Guns per quasi sette anni... tuttavia durante uno degli show sold-out con i SixxA.M. ho capito che dovevo prendere questa decisione definitivo incipit dal quale può emergere . Il che vuol dire una vera liberazione artistica per Dj Ashba “è una tale liberazione, mi sento finalmente in potere di essere chi voglio, vado a dormire soddisfatto, so che ho scritto musica che può dare speranza e inspirare qualcuno. È una bella sensazione”, ci confessa. A dimostrazione di ciò non solo ad aprile è arrivato il quinto album, “Prayers for the Damned” ma questo lavoro è il primo volume un album doppio che ha annunciato un tour di ben 24 mesi, chi credeva che Nikki Sixx non volesse stare più on the road, sbagliava di grosso. La band ha finalmente avuto tempo di sperimentare e vedere cosa funzionasse sul palco, e quale canzone fosse meglio percepita dai

fan, e specialmente di ascoltare i desideri del loro pubblico e probabilmente a livello inconscio di fare un doppio album e un lunghissimo tour per recuperare il tempo perduto: “Abbiamo deciso di dedicare la nostra vita a questa band, e non solo di fare un nuovo album e un tour ma di mettere fuori due lavori che fossero connessi ma che potessero star da soli. Sono dieci anni che esistiamo, tuttavia non siamo mai riusciti a dedicarci a questa musica, quindi certo abbiamo voluto recuperare! Mi sono divertito tantissimo, il risultato è musica positiva e che mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova sulla chitarra, e ho pure sperimentato tantissimo. Siamo davvero felici che i fan non ci abbiamo permesso di non essere una band, sono stati sempre con noi. Hanno telefonato a ogni radio, promosso ogni nota ed è grazie a loro che siamo qui, noi eravamo solo degli amici che suonavano assieme ma i fan ci hanno reso una band”. L’entusiasmo che ci trasmette DJ Ashba è tangibile nel primo volume di questo lungo lavoro, un suono aggressivo, tra vintage heavy rock e totale modernità, ma specialmente una chiamata ad alzarsi per cambiare le cose che non ci stanno bene. Dj Ashba ci ha spiegato che non

Un sedicenne al concerto dei Motley Crue Ashba a sedici anni andò al suo primo concerto: Mötley Crüe. Lui racconta che quella notte decise che ce l’avrebbe fatta a sfondare nella musica, poiché loro erano sul quel palco davanti ai suoi occhi, era vero e reale. Quell'adolescente non avrebbe mai immaginato che non solo avrebbe collaborato con loro, ma che avrebbe formato i SIXX:A.M con Nikki Sixx.

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The Heroin Diaries Soundtrack Fu The Heroin Diaries Soundtrack il debutto dei Sixx: A.M. Non un normale album ma la colonna sonora all'autobiografia di Nikki Sixx intitolata “The Heroin Diaries: A Year in the Life of a Shattered Rock Star”, incentrata sulla grave dipendenza da eroina del bassista. Una dipendenza che Il 23 dicembre 1987, lo portò persino ad essere dichiarato morto.

vogliono essere politici ma non indossano i paraocchi, la loro musica vive nel 2016 e non trasmette le problematiche ma le soluzioni, con potenti riff che automaticamente ti fanno alzare dalla sedia dell’alienato per scoprirti vincitore. Questo è chiaro in ‘Rise’, il primo singolo che è un ottimo trailer per questo lavoro “non importa quanto sia piccolo il cambiamento che personalmente puoi attuare, quello che conta è iniziare a far sentire la tua voce, è una chiamata per ricordare che siamo uniti piano piano il mondo può cambiare” spiega Dj Ashba, e continua “il rock può ancora cambiare il mondo, la musica è il linguaggio più potente al mondo, perché connette tutti, non importa che parli spagnolo o inglese, è una lingua comune che non cambia mai e questo messaggio è contenuto in questo album con messaggi forti e importanti”. Ed è vero, al primo ascolto sei portato a credere a questo messaggio. Forse proprio perché ha la trasparenza e la passione di musicisti quali Dj Ashba, così autentico che non riesci a credere che parli di qualcosa con un’agenda altra che ispirarti. Parliamoci chiaro, persone come Nikki Sixx non hanno proprio bisogno di soldi, il che rende tutto più autentico. Questa è il motivo per il quale un pezzo come ‘Rise’ non viene percepito come una singolo scritto per essere accattivante e far soldi, ma come una valvola

di sfogo sincera o come dice lui stesso “‘Rise’, come il resto del lavoro è stata scritta spontaneamente, dal cuore, per questo la nostra musica connette con l’ascoltatore è sincera, non un modo per arricchirsi”. Al di là del messaggio vi è anche una composizione che va a ritrovare i suoni heavy della band, unendo quello che DJ Ashba ci ha descritto come la bellezza che esiste nel buio e nella luce, la necessità di abbandonarsi nell’oscurità per rinascere nel chiarore. La bellezza questo chitarrista la vede chiaramente in tutte le cose, e, come la versione rock e contemporanea di un dandy, egli eleva l’estetica a uno stile di vita, trovando la bellezza in varie forme di arte. Dj Ashba non è solo un chitarrista, egli ha da sempre lavorato sul design della bellezza e della personalizzazione, il suo gusto

Guarda il Lyric video di 'Rise'

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non è solo visibile nelle chitarre da lui firmate, o nella linea di berretti; la sua esplosiva creatività si riassume in due aziende: la Ashba Media, Inc., della quale gestisce la parte riguardante l’arte e la Ashbaland, Inc., di cui gestisce il lato musicale delle cose. Inoltre, lo scorso 7 aprile Ashba ha aperto il suo primo negozio di vestiti Ashba Clothing allo Stratosphere di Las Vegas, Nevada “sono sempre stato una persona enormemente creativa”, spiega Ashba, “aldilà delle mie aziende che appunto di occupano di design e tutto quello che naviga tra arte e musica ho aperto il primo negozio di abbigliamento, questo è stato un lavoro di otto anni, volevo che tutto fosse perfetto per presentarlo ai fan che mi hanno sostenuto in questi anni. Tutto è stato designato da me, ogni singolo pezzo. Non voglio fermarmi a un semplice negozio ma voglio far di tutto per avere eventi interessanti”. Una tale creatività viene sicuramente da un animo sensibile, ho avuto modo di incontrare Ashba dopo un

concerto dei Guns a Helsinki e sperimentare di prima persona quanto sia gentile, e amabile non solo con i giornalisti ma specialmente con i suoi fan ricordando ogni loro singolo nome, è evidente che questa persona che vive nell’eccentrico mondo del rock e in una città come Las Vegas abbia trovato la sua personale formula per non essere abbagliato da un mondo dove spesso apparenza e futilità prendono la mano “Sai cosa? Io non mi dimentico da dove vengo e come sono stato cresciuto. La mia famiglia è molto cristiana, senza dischi e io sono grato ai fan che mi permettono di vivere la mia vita facendo quello che amo, non lo prendo mai nulla per scontato. Loro sono la mia casa discografica, sono fantastici e hanno sempre fatto di tutto per supportarmi.

l i o l o c c i p a i s o t n a u e q t n a e t r m l o a p n non im nto che perso è a t e n o m c a i he c camb o l l e u q e c , e o r v a u a u tt t a l e puoi a r ti n e s r a f a e r a i z i n i

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Comprando la mia musica, venendo ai concerti vestiti con i miei abiti, io posso esprimermi grazie a loro quindi non mi vedrai mai in giro come uno che si crede chissà chi” ci spiega Ashba e inoltre aggiunge “ho avuto la possibilità di incontrare persone estremamente famose e importanti che sono talmente alla mano come Neil Diamond, ad esempio, che è una tale ispirazione per me per quanto gentile e alla mano sia. Specialmente ho incontrato persone che non erano nessuno al confronto e sono stati degli stronzi con me e io ricordo benissimo come mi sono sentito, per questo non farò mai una cosa del genere a un mio fan”. Noi ci auguriamo il meglio per questa band che finalmente è pronta a invadere il mondo con musica che inspira, riff mai scontati ed energia incontrollabile.

L'arte del business americano Ashba è un perfetto esempio di come gli artisti possono vivere della propria arte trasformando tutto in oro. Maestri assoluti i Kiss. Difatti l’arte diventa ottimo business in linea con la propria visione e senza compromettere il valore e validità artistica. Ashba Clothing è il nuovo progetto del chitarrista. Il suo negozio comprende una vasta linea di abbigliamento per uomo, donna e persino bambino. Il tutto ideato da lui. Difatti i suoi berretti o le sue magliette rispecchiano il suo stile unico che lui puntualmente indossa, come il suo ormai celebre berretto nero con cuciture asimmetriche bianche. I fan possono ordinare dal sito www.ashbaclothing.com, ma se siete abbastanza fortunati da andare in vacanza a Las Vegas potete visitare il negozio allo STRATOSPHERE TOWER SHOPS, aperto dalle 10.00 alle 22.00 (10am-10pm). Questo è solo una piccola parte della Ashba Enterprises che include Ashba Media e Ashba Clothing, Build a Bernie e Naty. Riguardo al suo successo come imprenditore Ashba commenta “Ho sempre guardato a persone di successo e ho imparato dai loro errori. Loro hanno avuto successo per un motivo e quindi imparare da altri imprenditori, è il modo migliore. Non si può avere paura di correre rischi, bisogna seguire il proprio istinto. Non si deve avere paura di fallire perché non c’è successo senza il fallimento. Il mio più grande consiglio è mai guardare se stessi come solo un musicista. E ‘sempre importante creare altri guadagni”.

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Se Nikki Sixx è il fulcro della band, la scintilla dalla quale è divampato l’incendio, il nome sugli album e la faccia sulle copertine, e DJ Ashba il geniale folletto cresciuto tra BulletBoys e Beautiful Creatures e definitivamente maturato alla corte di Axl Rose, James Michael nell’universo Sixx A.M è senza dubbio la sorpresa più clamorosa. Abituato a lavorare nell’ombra come produttore (tra le sue mani sono passati personaggi come Scorpions, Meat Loaf, Alanis

ESCLUSIVA o Maglian di Fabio errero eF Ph. Alic

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Morissette, Sammy Hagar, Motley Crue, Papa Roach tanto per citarne alcuni...), nelle vesti di singer ha saputo lasciare tutti a bocca aperta grazie ad una classe cristallina, ad un timbro caldo che sa emozionare ma allo stesso tempo graffiare quando la tensione cresce di intensità. Un singer eccellente balzato agli onori della cronaca dieci anni or sono con lo stupendo ‘The Heroin Diaries Soundtrack’, ed in grado di ripetersi album dopo album mantenendo sempre standard altissimi sino all’ultimo ‘Prayers For The Damned’, lavoro che, sorprendentemente, come candidamente ammesso da un disponibilissimo Mi-

chael, viene per la prima volta inciso con la reale concezione dei Sixx A.M come vera band “Quando ci siamo trovati ad incidere ‘The Heroin Diaries Soundtrack’ non avevamo assolutamente l’intenzione di dare un seguito a questo disco, semplicemente perché non eravamo una band, ma un semplice progetto, quindi lo abbiamo inciso in totale libertà, senza avvertire la minima pressione esterna - confessa rilassato nel backstage del Gods Of Metal - Quello che poi è successo è semplice: ‘Life is Beautifull’ è diventata una vera hit, ha avuto un successo incredibile, ed in quel momento ci siamo guardati, stupiti, e abbiamo realizzato che eravamo agli occhi di tutti una band. Prima di incidere quel disco non avevamo neppure un nome, dopo l’esplosione di quel brano ci siamo resi conto che avremmo dovuto avere un nome, un’immagine e tutte quelle cose strettamente connesse con una vera band. Quando abbiamo inciso il primo lavoro, eravamo in una posizione privilegiata, perché quando nessuno si aspetta nulla da te, non hai niente da perdere e puoi lavorare in totale libertà. La cosa si è iniziata a fare interessante dopo il tourbillon scatenato da ‘The Heroin Diaries Soundtrack’ , perché dopo un successo così inaspettato devi per forza fermarti e iniziare a pensare a ciò che dovrai fare, inizi a pianificare cose che prima non avevi pensato, e soprattutto inizi a sentire lo stimolo di registrare un nuovo album inizialmente non previsto. ‘This Is Gonna Hurt’, il nostro secondo lavoro, è nato proprio così, e a differenza del primo lavoro sì, abbiamo “subito” una sorta di conflitto interiore tra ciò che volevamo essere e ciò che avremmo dovuto suonare su questo album. Alla fine abbiamo risolto aggrappandoci al piacere di fare musica insieme, e al pensiero che i fan volessero sentire qualcosa di nuovo da noi.

Abbiamo allora iniziato a esplorare noi stessi, ciò che siamo, ciò che vogliamo... siamo andato molto a fondo e il risultato è un disco molto aggressivo, sicuramente più del precedente. Però continuava a mancarci qualcosa. Dopo ‘This Is Gonna Hurt’ non siamo andati in tour, e questo lo abbiamo avvertito, perché ora eravamo una vera band ma non una touring band, ed abbiamo mantenuto questa condizione anche con il successivo ‘Modern Vintage’”. L’ultimo passo verso la definitiva acquisizione dell’identità di band è ‘Prayers For The Damned’, il cui primo capitolo è stato da poco dato in pasto ai fan “... il disco che ci porta ad un livello superiore, perché ha un tour pianificato alle spalle, ha una vera band alle spalle... - prosegue il cantante - è il lavoro nel quale ogni tassello dei Sixx A.M si trova perfettamente al suo posto. E’ una condizione che ci entusiasma, siamo tutti eccitati per questo, e penso che venga riflesso in quello che suoniamo. Quando metti su questo disco puoi sentire perfettamente che alle sue spalle c’è una band vera, focalizzata su quello che deve suonare, consapevole di quello che deve essere il proprio sound. Se vogliamo fare un parallelo tra i due dischi, posso dire che ‘The Heroin Diaries’ è stato il disco che ha creato la chimica tra di noi e ci ha fatto capire che avremmo potuto intraprendere un percorso artistico insieme, mentre il nostro ultimo lavoro è il risultato di 10 anni spesi insieme ed è il figlio di una realtà ormai consolidata”. Una dimensione di band che, per venire consolidata, è dovuta passare anche attraverso la convivenza tra tre personalità dal grande carisma e dal particolare ego, una condizione spesso fatale per molti gruppi ma, come afferma il cantante, autentico punto di forza del gruppo “L’amicizia è l’elemento più importante per i Sixx A.M. Spesso la causa principale per lo scioglimento di una band è l’impossibilità di gestire l’ego dei singoli componenti, che con il crescere del successo va a rendere impossibile la convivenza tra i membri del


l'importanza di essere una star col cuore Lo spessore umano dei Sixx A.M si è manifestato a pieno nel corso del Gods Of Metal, quando la band ha voluto espressamente incontrare Stefano Savi, il ragazzo “erroneamente” sfigurato con l’acido da Martina Levato e Alexander Boettcher, due folli già condannati in primo grado. Stefano, un 27enne dal grande coraggio e dall’eccezionale forza d’animo, durante un’intervista a Le Iene, aveva espresso il desiderio di incontrare il suo musicista preferito Dj Ashba, ed il suo idolo lo ha accontentato. Questo il racconto dell’ex chitarrista dei GNR “Un giorno mia moglie Nati mi ha mostrato l’intervista di un ragazzo rimasto sfigurato per colpa di due ragazzi che gli hanno gettato l’acido in faccia. ‘perché mi fai vedere questo?’ ho chiesto a mia moglie? ‘Guarda’ mi ha risposto. E andando avanti nell’intervista questo ragazzo così cordiale dopo aver raccontato la sua drammatica storia con una forza straordinaria, ha detto che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Ho guardato mia moglie, e entrambi avevamo le lacrime agli occhi, perché è tremendo vedere questo bellissimo ragazzo con la vita stravolta per un errore di altri due ragazzi. Quindi ci siamo messi li, abbiamo inciso un video messaggio per lui, e lo avremo ospite quando andremo a suonare a Milano”. E così è stato. Stefano ha potuto incontrare la band nel backstage e ha assistito allo show dal palco, con i Sixx A.M che gli hanno dedicato ‘When We Were Gods’. perché la grandezza delle persone, la si vede soprattutto dai piccoli gesti.

gruppo. Per noi il processo è stato in un certo senso inverso: tutti noi abbiamo assaporato il grande successo con le nostre esperienze precedenti, mentre con i Sixx A.M abbiamo compiuto il percorso a ritroso, ritrovando la chimica tipica di una band all’esordio, nel quale regna il confronto costante tra di noi, su ogni cosa. Ecco, forse il nostro segreto è che, prima di tutto, siamo tre amici e la musica è solo la conseguenza di questo rapporto”. Musica che oggi sfocia in ‘Prayers For The Damned, un disco che, dopo le atmosfere “d’annata” del lavoro precedente, attua un deciso cambio di tendenza riportando la band, da un punto di vista sonoro, su quei territori che fecero le fortune di ‘The Heroin Diaries’ “’Modern Vintage’ lo considero un album molto

importante per noi, perché in questo disco noi spieghiamo perché abbiamo iniziato a suonare e comporre - spiega - Dentro ci sono riferimenti a tutte le nostre influenze... Queen, Thin Lizzy, Elton John, ... tutti quei gruppi che ci hanno influenzato e che ci hanno accompagnato nella nostra crescita artistica. ‘Modern Vintage’ è stato un passaggio necessario per la band, ma dovevamo andare oltre. L’”oltre” ci è stato indicato dal pubblico nel corso di alcuni concerti che abbiamo tenuto per promuovere quel disco. I fan sono letteralmente usciti di testa quando abbiamo suonato i nostri pezzi più aggressivi, e anche noi abbiamo ricevuto vibrazioni positive suonando quei pezzi... forse perché sono quelli che meglio rendono dal vivo, ed avendo noi finalmente raggiunto quella dimensione di touring band che prima ci era mancata, abbiamo pensato fosse giusto porre l’accento sul lato più aggressivo del nostro sound”. Se il sound è mutato, almeno rispetto al disco precedente, i messaggi lanciati dai Sixx A.M continuano a muoversi sui binari di un’evidente positività, con temi quali la rinascita e la risurrezione a fare sempre bella mostra di sè “La speranza, la rinascita, sono temi che ci stanno da sempre molto a cuore. Se si pensa, tutto è nato da un libro, ‘The Heroin Diaries’

incentrato proprio sulla rinascita di una persona caduta nel baratro dell’eroina, quindi viene da sè che la nostra discografia sia ricca di incitamenti a non mollare, ad andare sempre avanti, a non abbattersi davanti alle avversità. ‘Life Is Beautiful’, ‘This Is Gonna Hurt’, ‘Stars’, ‘Skin’, ‘When We Were Gods’, ‘Rise’ sono pezzi che parlano di speranza in modo molto diretto, ma tutta la nostra discografia ruota attorno a brani decisamente positivi. I temi che trattiamo non sono mai banali e spesso vanno a toccare argomenti delicati, controversi, eppure anche in questi casi abbiamo cercato di fare emergere sempre la bellezza, che è presente. Sempre. Anche nelle situazioni più difficili. Bisogna solo avere la lucidità per saperla vedere. La stessa strada la abbiamo seguita per ‘Prayers For The Damned’: in America siamo alle porte di una delle elezioni più difficili della nostra storia, la campagna elettorale è forse una delle più ciniche alle quali abbia mai assistito e la sensazione è che si stia andando incontro ad un periodo buio per l’America e per questo, pur non essendo mai stati una band politicizzata, abbiamo sentito il bisogno di lanciare dei messaggi di speranza. In ‘Prayers For The Damned’ c’è sempre l’eterna lotta tra il bene ed il mare, ma a emergere sono sempre messaggi di redenzione, di rinascita, di unione per riuscire a trovare la soluzione ai problemi”. Caratteristica di ‘Prayers For The Damned’ è poi la sua natura di album doppio, con il primo volume in distribuzione da fine aprile e il secondo di prossima pubblicazione. Una

decisione che spesso è stata criticata quando attuata da altri gruppi, ma necessaria almeno stando alle parole del biondo singer “Il disco doppio è la prima conseguenza di quella dimensione di band finalmente ritrovata - spiega - L’assenza dai palchi non nego che un po’ ci pesava, quindi il nostro pensiero è sempre stato quello di dire “se non possiamo dare un tour ai nostri fan, diamo loro più musica possibile”, quindi abbiamo sempre composto moltissimo. Quando la situazione finalmente si è sbloccata, nell’aprile dello scorso anno ci siamo seduti al tavolino e ci siamo detti “perché non buttiamo fuori quanta più musica possibile in modo da prepararci il terreno per i futuri show?” E così abbiamo deciso di uscire con un album doppio, o meglio, con due lavori da fare uscire in tempi abbastanza ristretti. E’ il modo migliore per fare vedere al pubblico chi sono oggi i Sixx A.M e, perché no? Invitarli ad andare a riscoprire le nostre prime produzioni che, per assenza di tour, non sono mai state promosse realmente a dovere. Mi rendo conto che operazioni come queste nel tempo hanno fatto un po’ discutere perché spesso il secondo album è stato assemblato con scarti della produzione principale e la qualità finiva per non essere elevatissima, ma in questo caso credo che il processo lavorativo sia stato differente, perché noi essendo stati per anni una band puramente da studio, ci siamo potuti concentrare unicamente sulla fase compositiva curandone ogni dettaglio e gli standard elevati dei lavori sin qui incisi penso siano evidenti”.

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I LACUNA COIL CI INVITANO A ENTRARE NEL LABIRINTO DELLA MENTE DEL LORO “DELIRIUM”, NUOVO FULL-LENGTH CHE MARCA I VENT’ANNI DALL’INCISIONE DEL PRIMO DEMO. CI PARLANO DI QUEST’ULTIMA FATICA I VOCALIST CRISTINA SCABBIA E ANDREA FERRO.

IL DeLIrIO DeLLA MenTE di Angela Volpe

I

Lacuna Coil sono in attività dal 1994, se consideriamo gli Ep di debutto; nel 1998 il primo full-length album, “In A Reverie” per Century Media, al quale sono seguiti “Comalies”, “Karmacode”, “Shallow Life”, “Dark Adrenaline” e “Broken crown halo”. Fieri di successi come ‘Heaven’s A Lie’, premiata nel 2005 all’Indipendent Music Award come migliore canzone hard rock/metal, nominati all’Mtv Europe Music Awards nel 2006 come Best Italian Act, senza contare le ottime posizioni ottenute nella Billboard americana. Tutto questo fa di loro una delle band italiane più conosciute e affermate oltre i confini nazionali e dopo soli due anni dall’ultimo lavoro tornano

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con “Delirium”, un album sul quale la band ha lavorato con passione e attenzione ai dettagli. Se agli inizi della loro carriera il genere dei Lacuna Coil poteva identificarsi nel goth metal, nel corso degli anni la band ha inserito elementi sempre nuovi, dalle melodie sinfoniche di “Comalies” agli elementi nu-metal di “Karmacode” e l’ultimo album si preannuncia come un’ulteriore evoluzione in tal senso. “Più che un nuovo capitolo dei Lacuna Coil, “Delirium” è proprio un libro nuovo. - conferma Cristina Scabbia, la voce storica della band, assieme a quella di Andrea Ferro - sicuramente questo è il disco più heavy che abbiamo mai prodotto, sia per la

musica che per le parti in growl di Andrea.” Il primo grande cambiamento subito percepibile al primo ascolto di “Delirium” è proprio la maggiore presenza di parti in growl, che sono state potenziate. “Inoltre abbiamo avuto dei recenti cambi di lineup, con l’ingresso ufficiale di Ryan Folden alla batteria, anche se ci seguiva da alcuni anni. Il batterista è il motore della band e il suo apporto ha contribuito alla creazione del nuovo sound”, spiega Cristina. ’impronta del sound heavy di “Delirium” è inoltre lo

L

specchio della tematica di fondo a cui si ispira l’album, quella dei sanatori e delle sofferenze causate da malattie mentali: “Tutto è partito dalla parola Delirium, stavamo lavorando sulla musica, proprio in fase di scrittura della canzone che da il nome all’album e questa parola ci ha aperto un mondo, abbiamo capito su quale tematica volevamo improntare l’album”. È un tema certamente dark e molto serio, che la band ha voluto trattare adeguatamente, come conferma Cristina: “Non volevamo che se ne parlasse in


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DeLirium TraCKList 01. The House Of Sham e 02. Broken Things 03. Delirium 04. Blood, Tears, Dust 05. Downfall 06. Take Me Home 07. You Love Me ‘Cau se I Hate You 08. Ghost In The Mist 09. My Demons 10. Claustrophobia 11. Ultima Ratio

modo superficiale o ridicolizzare l’argomento.” Entrambi i cantanti, le cui voci alternate e fuse insieme sono da sempre la peculiarità dei Lacuna Coil, si sono calati personalmente in queste realtà. “Abbiamo visitato dei manicomi abbandonati nella zona di Milano e strutture odierne funzionanti, purtroppo anche per vicissitudini personali. Per motivi familiari mi sono trovata vicina a strutture mediche nelle quali ho conosciuto i pazienti, il tipo di medicamenti e terapie a cui venivano sottoposti. Sono espe-

rienze pesanti da affrontare e che fanno paura, anche perché c’è poca conoscenza in materia. È un mondo ignoto, nel quale non possiamo entrare.” Andrea aggiunge: “Ci premeva avere un approccio reale al problema, abbiamo visto molte foto di pazienti che ci hanno colpito profondamente. I loro sguardi erano vuoti, assenti, innaturali perché fuori dal controllo della mente. Aveva quindi più senso attenersi alla realtà, perché quelle foto vere erano molto più spaventose dei film ambientati nei manicomi.” Precisiamo però

che i testi dei brani di “Delirium” non sono medical report, esprimono piuttosto il disagio e la sofferenza che pervade questi ambienti. Cristina precisa che: “Più che il punto di vista medico, sul quale logicamente non siamo preparati in modo scientifico, per noi era importante esprimere le nostre sensazioni riguardo la tematica, per come l’abbiamo vissuta e percepita.” C’è quindi un lavoro interiore in “Delirium”, che pervade la musica oltre che i testi. Con alle spalle una carriera così ricca e incanalata verso uno stile preciso, viene da chiedersi come si riesca a trovare nuovi spunti per comporre. “Non abbiamo mai frenato la nostra ispirazi-

one – afferma Cristina - ci siamo sentiti liberi di spingere sull’acceleratore e di andare fino in fondo in qualsiasi direzione ci sembrava appropriata per la realizzazione dell’album. Se la canzone nasceva in maniera heavy seguivamo quella linea, se un brano aveva un’impronta più malata e strana lasciavamo che si sviluppasse in quel modo.” È davvero importante per un musicista riuscire a distaccarsi dalle critiche e comporre senza la preoccupazione di voler compiacere un pubblico. “Amiamo i nostri fans, ai quali dobbiamo molto, ma non siamo un team di lavoro che deve scrivere una canzone pop per scalare le classifiche, cerchiamo di esprimere

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Guarda il lyric video di “The House Of Shame”

la nostra arte in maniera onesta senza preoccuparci dei commenti che vengono dall’esterno, ritengo che quando si presenta un lavoro onesto il pubblico lo capisca e lo apprezzi.” Anche Andrea Ferro conferma che i precedenti album dei Lacuna Coil non pesano e non influenzano il loro presente. “È naturale che le caratteristiche principali del gruppo rimangano invariate, ma non ci siamo lasciati condizionare, abbiamo lavorato senza pensare all’identità specifica dei Lacuna Coil, abbiamo adottato un approccio più fresco, quasi come si fa agli inizi della carriera, abbandonando per un attimo consapevolezza e aspettative, e questo ha fatto

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sì che “Delirium” risultasse un disco diverso dagli altri.” La peculiarità di “Delirium” sta proprio nell’essere un album con un’atmosfera unitaria, palpabile, quasi fosse un luogo fisico e tangibile. Cristina lo commenta così: “Più che un disco, “Delirium” è un luogo di raccoglimento. Di proposito abbiamo fatto in modo che non ci fosse una canzone che spiccasse più delle altre. L’album deve essere ascoltato nella sua totalità. La canzone di apertura e quella di chiusura sono emblematiche, inizia con ‘The House Of Shame’ e termina con ‘Ultima Ratio’, che rappresenta idealmente una sorta di fuga da questo manicomio che ci siamo immag-

inati ma anche in senso lato da se stessi. È un disco molto profondo.” Anche le immagini selezionate per cover e booklet rispecchiano alla perfezione il sanatorio all’interno del quale si sviluppano le melodie. “Le immagini sono state studiate appositamente con determinati colori e in un ambiente molto asettico per rappresentare le nostre idee. Abbiamo cercato di creare un immaginario in modo che l’ascoltatore non solo sentisse la musica ma la vedesse.” In questo senso, i

Lacuna Coil hanno centrato appieno l’obiettivo, anche con l’aiuto di testi molto descrittivi e con un tappeto avvolgente di suoni che dà proprio l’impressione di trovarsi in un luogo chiuso ben preciso. È certamente un disco che rende molto bene se lo si ascolta a occhi chiusi, in macchina o in una stanza, ma i Lacuna Coil, da sempre, sono fatti per il palcoscenico. Si sono esibiti al Wacken, al Gods of Metal, a Tokyo, in Australia e in numerose città d’Europa e del mondo e sicuramente li vedremo presto di


Female Metal

nuovo on stage, dovranno quindi trovare un modo per trasporre l’ambiente così particolare e oscuro di “Delirium” sul palco. “Stiamo studiando una parte visiva, avremo di sicuro nuove scenografie, nuovi abiti di scena. Sarà senza dubbio difficile interpretare il senso di inquietudine che pervade “Delirium”, la situazione live per forza di cose non consente questo tipo di raccoglimento. Inoltre dovremo incorporare le vecchie canzoni alle nuove cercando di rendere il tutto omogeneo,

ma abbiamo molte idee e ci lavoreremo per rendere tutto al meglio.” Prendiamo le parole di Cristina come una promessa, perché se c’è un merito che occorre attribuire ai Lacuna Coil è la tenacia. Hanno da sempre presentato la loro musica a testa alta, sfidando il mercato musicale italiano, ignorando le critiche facili e mantenendo la loro personalità e la voglia di suonare e proporsi. Soprattutto, i Lacuna Coil hanno superato i dissensi raccolti dal pubblico italiano del metal, spesso pregiudizievoli e

dettati da fattori che esulano dal puro ambito musicale. “Culturalmente, in Italia il metal è sempre stato un settore un po’ chiuso ed è un peccato – asserisce Cristina – Mi spiace che l’Italia si chiuda in se stessa, è sintomatico di una scena che non vuole crescere. È una sorta di auto protezione che però diventa auto castrazione, perché non permette ad altri gruppi validi di emergere e avere una carriera come la nostra. Manca quell’apertura mentale che consentirebbe al genere metal di essere rispettato e riconosciuto a livello popolare, come succede in altri paesi, dove viene trattato allo stesso livello degli altri. L’Italia tende

a proteggere questo genere e a volte, il troppo amore soffoca; questo purtroppo porta all’auto distruzione.” Si potrebbe dibattere a lungo sulla cultura musicale di massa in Italia, dominata da canzonette scritte a tavolino per divenire delle hit e conquistare le radio. È sempre facile puntare il dito, sputare giudizi, paragonare i connazionali a band più conosciute a livello mondiale (perché si sa, “l’erba del vicino è sempre più verde”), ma quando si parla di musicisti che da vent’anni propongono la loro arte con passione, ciò di cui si dovrebbe tener conto è la perseveranza, quella cosa che da senso alla musica e valore alla vita.

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DA UN GRANDE DOLORE NASCE UN GRANDE ALBUM. E’ UNA FORMULA CINICA MA CHE (PURTROPPO) FUNZIONA DA SEMPRE PER MASHA ED I SUOI EXILIA, CHE DA GRANDI TRAGEDIE PERSONALI HANNO SEMPRE SAPUTO TIRARE FUORI ALBUM ECCELLENTI. L’ULTIMO DEI QUALI È IL SORPRENDENTE ‘PURITY’, LAVORO IN GRADO DI RISCUOTERE UN SORPRENDENTE SUCCESSO PUR MANTENENDO INALTERATA LA COERENZA DEL GRUPPO.

Searching for Purity di Fabio Magliano

“For every time you think your lost - For every raindrop that will hurt -For every butterfly tha falls - Fly high butterfly” recita una delle canzoni più celebri degli Exilia. Masha è una farfalla sulle cui ali di gocce di pioggia ne sono cadute tante. Troppe. Più di quante una persona normale avrebbe potuto sopportare. Ed invece ha sempre trovato la forza per rialzare la testa, puntare in alto e ripartire, con qualche ferita in più sulla pelle e nell’anima. Perché la cantante milanese, nel nome della coerenza artistica, ha saputo partire dalle tragedie servitele con cinica puntualità dalla vita, per trarne ispirazione da riversare nella propria musica, facendo si che ogni album prodotto rappresenti non solo una valvola di sfogo per i suoi drammi, ma una sorta di araba fenice che la vede ogni volta rinascere, se possibile più forte

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e arrabbiata di prima, senza mai perdere di vista quella purezza artistica che ne ha sempre scandito l’esistenza. Una coerenza che, con la band all’apice del successo, singoli in classifica in Germania, brani inseriti in importanti soundtrack e tour europei di un certo spessore, l’ha portata a voltare le spalle alla prospettiva di un successo sicuro, pur di mantenere la propria integrità e una visione della musica difesa per anni con le unghie e con i denti: “Io faccio questa musica per scappare dai cliché, poi con il tempo mi sono resa conto che ero a mia volta ingabbiata, perché anche il mondo del metal è fatto di parametri. Io che scappavo dai luoghi comuni e poi mi trovo a vivere nei parametri “perché se non fai così per il pubblico metal non va bene...”. “Non alzi pù le corna al cielo? Non vai bene per il metal...”. Ci è

voluto del tempo ma ora sono libera. E se oggi solo cinque persone ascoltano la mia musica, sono cinque persone che mi vogliono veramente per quello che sono. Io mi ricordo ancora benissimo l’incontro con il mio publisher che mi dice “Tu, alla gente, vai bene se fai così: muovi i tuoi cazzo di dreads, alza le corna al cielo, metti due slogan e siamo a posto. Non ti muovere da lì”. Io di tutta risposta ovviamente ho fatto il contrario. Come ricordo quello che voleva che fossi più femminile, più sexy, con un servizio fotografico creato apposta...A quel punto puoi scegliere che strada prendere, consapevole che se svolti e vai contromano non avrai più le facilitazioni che avevi di là, perchè sino a quando sei un prodotto che sanno come vedere va bene, altrimenti non perdono tempo a cercare di creare un canale per


Female MEtal te per venderti meglio. Io sono stata al tavolo con persone di un certo spessore, gente che ha tirato fuori Paradise Lost, Rammstein, Guano Apes, e una cosa che mi sono sentita dire da questi personaggi è stato “tu pensa a pettinarti bene, che al resto ci pensiamo noi”. Io a tutto questo ho rinunciato, perché la mia libertà viene prima di tutto”. Una libertà pagata a caro prezzo, visto che la band, nei primi anni del 2000 tra gli esempi più belli di metal italiano da esportazione al pari di Lacuna Coil, Rhapsody e Labyrinth, si è trovata per scelta propria a passare da un importante contratto con una major al mondo delle indie, dove la visibilità inevitabilmente diminuisce e le difficoltà aumentano nonostante standard qualitativi sempre elevati “Exilia ha avuto una major nel 2004 ma ora sono oltre dieci anni che non abbiamo una grande label alle spalle – spiega Masha - quindi tutto quello che arriva è il risultato di un team di persone che, con me, lavorano per un progetto comune. Avere oggi sempre 300/400 persone agli show senza le copertine dei giornali, senza le super promozioni è figlio del fatto che la gente ha compreso il mio messaggio e ci sta seguendo perché ama la nostra musica a prescindere, non perché abbiamo pagine pubblicitarie sui principali magazine europei. Noi abbiamo una bella fanbase, abbiamo sempre lavorato bene ma sono 10 anni che non abbiamo una major, il che vuol dire che se ‘Stop Playing God’ ha fatto 500.000 visualizzazioni è perché Sony/ BMG dietro ci ha spinti molto, da indipenden-

te arrivare a fare 50/70.000 contatti è già un grande successo. Non posso neppure provare a mettermi a paragonare le mie produzioni, perché è ovvio che tutti acclamerebbero ‘Unleashed’… certo sarebbe interessante vedere dove arriverebbe ‘She’s Not Me’ con la promozione radiofonica di ‘Stop Playng God’. Cosa ottengo oggi so che è una verità, perché non arriva dal “comprare un prodotto” ma da chi segue veramente quello che fai e lo apprezza”. L’ultimo capitolo di questo percorso artistico e umano, porta il titolo di ‘Purity’, album uscito nel 2015 che lascia trasparire una evidente mutazione, sonora e di immagine, nella band. Un cambiamento profondo, come spiega la stessa cantante “Mi sembra di avere fatto il giro di 360° con ‘Purity’, come se questo disco fosse l’amico di ‘Rightstide Up’ come evoluzione. Io quando ero sul palco avevo delle visioni, di qualcuno, o di qualcosa, di un avvenimento, di una persona...sono cose mie interiori, e questa era la mia bussola per capire che era tutto ok. Io ancora sento attraverso la musica, sento l’aldilà, sento le sensazioni, e capivo che andava tutto bene. Però questo non avveniva da parecchio tempo, perché c’è stato un avvenimento molto grave nella mia vita recentemente, che ha preceduto l’uscita del disco. Ho fatto fatica a finire ‘Purity’ perché sono stati tanti giorni neri, poi però quando sono salita sul palco l’ultima volta sono ritornate delle visioni e mi sono sentita nuovamente quella ragazza che voleva

...anche il mondo del metal è fatto di parametri. Io che scappavo dai luoghi comuni e poi mi trovo a vivere nei parametri. METALHAMMER.IT 45


Guarda il video di “She’s Not Me”

fare ‘Unleashed’, che aveva delle idee in testa che parevano essere scomparse sopraffatte dal dolore. Perché quando vieni sommersa dal dolore è vero che puoi sfogarlo suonando, ma è anche vero che il dolore ha la capacità di confondere tutto, non sai più se stai bene qui, se saresti stata giusta da un’altra parte, se gli errori che hai fatto in fondo sono stati buoni per te o se invece hai sbagliato tutto, quindi a volte il dolore ti fa fare dei passi che non sempre sono quelli giusti. Mi è sembrato di ritrovare un po’ di me, perché qualcosa si era un po’ vanificato. Io non mi vergogno a dirlo, fa parte dell’essere artista. Chi è umano, sa che nel dolore a volte si perde, non si vince sempre, non c’è sempre una fenice che risorgerà, ci sono anche persone che si perdono per un po’ di tempo e, se hanno fortuna, si ritroveranno”. Un disco quindi nato ancora una volta da una condizione di dolore, di sofferenza, ma che ha ugualmente saputo emergere riscuotendo un discreto successo” ‘Bliss’, il primo singolo, ha ottenuto un ottimo successo con grande sorpresa da parte nostra, visto che l’album offriva soluzioni sonore differenti rispetto al passato. Io vado nella scrittura in base a quello che ho vissuto negli anni recenti, il disco è il frutto di un’esperienza maturata negli ultimi anni.

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E’ impossibile per me fare un disco tipico dal momento che non lo faccio pensando ad un parametro classico. Non ripeto all’infinito la formula di ‘Stop Playing God’ perché so che funziona, prendendo per il culo ogni volta 50.000 persone. Lo possono fare gli Ac/Dc che hanno studiato una formula certificata da un successo planetario e possono permetterselo, ma noi che non abbiamo responsi di questo tipo, da una parte abbiamo la sfiga di non avere questo successo, dall’altra abbiamo la libertà di poterci muovere nella direzione indicata dal nostro io interiore, dal momento che chi scrive è un artista e non un burattino”. Dal punto di vista sonoro, determinante al fine della realizzazione di ‘Purity’ è stata l’esperienza americana degli Exilia “Andare in America, in questi tre anni che sono passati, mi ha contaminato tantissimo – spiega Masha - Mentre ‘Decode’ l’ho scritto tutto in Germania e si sente, perché suona più quadrato ed ha un gusto tipicamente tedesco, con rullanti molto fuori, cassa fuori...’Purity’ è nato dalla prima esperienza in America, dalla scelta di soluzioni più open, meno chiusure, una maggiore componente rock impiantata su una struttura tipicamente Exilia rivolta ad un discorso maggiormente metal. Per me era necessario farlo perché volevo capire se potevo esprimere una parte di me che non è emersa per molto tempo. Oggi, alla luce di tutto ciò, dopo che sono tornata dalla Germania, ho sentito la voglia di scrivere il nuovo album degli Exilia che non era assolutamente in programma, perché volevo fermarmi un po’. Ed invece quando sono tornata mi è venuto questo desiderio, perché io vado a sensazioni e quando ero sul palco ho sentito l’esigenza di toccare delle tematiche diverse. Non so ancora quali saranno, però mi è venuta voglia. Non pensavo di scrivere un album degli Exilia

perché volevo concentrarmi su un progetto che ho intenzione di realizzare prima della mia dipartita da questo pianeta, ovvero incidere un album in italiano firmato con il mio nome, sulla scia di cose alternative rock perché ho voglia di sfruttare la mia lingua, quindi volevo concentrarmi su questo, perché la lingua italiana è impegnativa. E’ difficile avere delle metriche interessanti, tutto suona un po’ banalotto, quindi fare un buon disco in italiano è una sfida tosta, deve avere sostanza, credibilità nel suono...E invece quando sono tornata, siccome sul palco mi sono divertita molto, ho ricevuto un buon feedback, una buona rinfrescata da tante cose che sono successe, che mi hanno dato motivazioni e la voglia di fare qualcosa di nuovo”. Presto, troppo presto, però, per dare una scadenza temporale al successore di ‘Purity’ “...perché a me piace lasciare che ci sia il tempo necessario perché le cose facciano il loro corso – conclude la cantante - Io sono una persona che è in grado di scrivere dieci brani al giorno senza problema, però questo non significa niente, perché magari per Exilia otto di quei brani non vanno bene, oppure più incrementi la scrittura e più ti avvicini ad un concetto, ed allora cavalchi l’onda per avere un album che abbia il suo carattere, la sua autenticità, un suo modo... ‘Purity’ non è stato solo un cambio di suono, è stato un cambio di copertina, un cambio di concetto... è stata la ricerca della purezza in un certo senso, no compromise... cercare di restare molto poveri ma molto veri, perchè con quello ce ne andiamo da qua. La sedia d’oro del re rimane vuota e noi finiamo comunque sotto terra, quindi era il mio invito alla purezza prima di tutto, perché se io non sono quella cosa li ma mi ci vesto, sto facendo un grande errore con la mia anima”.


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Symphony in black

di Fabio Magliano

“THE ORCHESTRAL ALBUM” È L’ENNESIMO GIOIELLO FIRMATO DAI BELLADONNA, PIONIERI DEL ROCK NOIR CAPACI DI DARE VITA AD UN LAVORO SINFONICO GRAZIE AL SUPPORTO DEI FEDELISSIMI FAN, PRONTI A SCOMMETTERE A SCATOLA CHIUSA SUL TALENTO DI LUANA CARAFFA, DANI MACCHI E DEI LORO COMPAGNI D’AVVENTURA. I romani Belladonna, portacolori del rock noir, sono da sempre un’entità unica nel suo genere, almeno nel mondo del metal. Numeri da record su Myspace tali da suscitare l’interesse delle televisioni nazionali pronti a dedicare loro più di un servizio, menzioni ai Grammy Award, show in compagnia della “divina” Dita Von Teese e di spalla a band come Staind, Nine Inch Nails, Korn, Mars Volta e Duff McKagan’s Loaded, collaborazioni di prestigio come quella con il pianista Michael Nyman...e poi ancora copertine di prestigiose riviste, partecipazioni a colonne sonore e spot televisivi, tour europei e statunitensi degni da rockstar

fanno da contraltare ad una dimensione almeno in Italia ancora da band di culto. Una condizione che pare non interessare il gruppo, che imperterrito prosegue nel suo percorso di crescita artistica, che oggi lo ha portato a realizzare “The Orchestral Album”, lavoro suonato insieme ad un’orchestra sinfonica composta da musicisti nell’orbita di Ennio Morricone diretti dalla direttrice kazaka Angelina Yershova. Un disco che ha un sapore tutto particolare, perché realizzato attraverso una campagna di crowdfunding chiamata “We have a dream”, con una schiera di fan affezionati pronti a scommettere a scatola chiusa sulla loro musica,

consentendo di fatto alla band di realizzare il proprio sogno. Ed infatti la bella Luana afferma “... un disco dal sapore unico che diventa ogni volta più intenso quando queste persone ci esprimono il loro amore ed entusiasmo, e il loro sentirsi parte di questo progetto. Quando ci è capitato di riflettere sull’opportunità di lanciare una campagna di crowdfunding abbiamo pensato alle cose che avremmo amato fare ma che erano ardue da realizzare per ragioni di budget. E come sempre volevamo fare un qualcosa che non avesse scopi commerciali ma che servisse ad onorare l’amore che nutriamo per la musica... ed è così che poter suonare i nostri brani insieme ad un’orchestra è finito in cima alla lista dei nostri sogni. Vedere questo sogno realizzato ci riempie il cuore di gioia e di gratitudine per tutti coloro che ci hanno sostenuto”. Ecco quindi che alcuni dei brani più celebri del repertorio della band capitolina sono stati ripresi e riletti in chiave orchestrale, donando alla fine loro una veste completamente inedita “Ci siamo lasciati ispirare

dalla visione di un qualcosa che potesse sorprendere noi stessi alla fine di questo viaggio... - continua la cantante - un po’ come quando hai un’intuizione, la segui e alla fine scopri che ti ha portato nel posto giusto”. Una veste, quella orchestrale, che in qualche modo va a stravolgere completamente quella dimensione minimalista dei brani che negli anni ha fatto la fortuna dei Belladonna, una scommessa, se vogliamo, che non ha però intaccato la natura stessa del sound del gruppo “In realtà è stravolgendo tutto che il minimalismo si è fatto ancora più audace – sottolinea la cantante - Solitamente gli album rock orchestrali sono registrati eseguendo i brani così come sono sempre stati e aggiungendo l’orchestra. “The Orchestral Album” invece è una fusione vera e propria tra orchestra e rock band, attraverso arrangiamenti che congiungono queste parti in modo da renderle un tutt’uno organico”. Un ruolo cardine in questo lavoro è rivestito dalla compositrice, pianista, produttrice e direttrice d’orchestra Angelina Yershova, la

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cui esperienza si è rivelata fondamentale per la buona riuscita dell’album “Io e Angelina pur provenendo da estrazioni ed esperienze musicali diversissime fra loro abbiamo sempre avuto una connessione artistica molto forte e di natura simbiotica – racconta il chitarrista Dani Macchi - e per anni lei è stata da dietro le quinte una preziosissima fonte di ispirazione e aiuto nelle precedenti produzioni dei Belladonna. Personalmente la ritengo un genio musicale assoluto e sono stato onoratissimo quando ha accettato la proposta di realizzare con noi quest’album. C’è moltissimo di Angelina nel disco, visto che la nostra visione di come volevamo fosse questo album è stata sin da subito condivisa e creata assieme a lei, tant’è che abbiamo assolutamente voluto che fosse citata nella copertina dell’album. Oltre a curare gli arrangiamenti e a dirigere l’orchestra Angelina ha anche prodotto artisticamente e missato l’album assieme a me, quindi direi che questo album è senz’altro anche figlio suo!”. In un percorso stilistico in costante evoluzione, la realizzazione di un album simile fa sorgere la

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domanda su come possa ulteriormente evolvesi il sound della band in futuro, in considerazione del fatto che per molte band il disco orchestrale rappresenta un punto d’arrivo. Un dubbio che neppure la band riesce al momento a fugare, almeno stando alle parole di Luana

facendo musica”. Con il disco realizzato e in grado di riscuotere ottimi consensi, nasce per i Belladonna il problema della sua promozione live, e a tal proposito Dani afferma “A dire il vero la nostra intenzione originaria era di realizzare questo album senza poi dargli alcun tipo di seguito

come sempre volevamo fare un qualcosa che non avesse scopi commerciali ma che servisse ad onorare l’amore che nutriamo per la musica “Sicuramente faremo tesoro di tutto ciò che è stato appreso durante quest’esperienza che per noi è stata veramente speciale sotto molteplici aspetti... non è possibile prevedere ora quale sarà il suo impatto a livello stilistico e compositivo, sono cose che scopriremo sul campo,

concertistico. Ma tali e tante sono state le richieste in tal senso che credo che prima o poi porteremo queste versioni orchestrali dei brani anche in un contesto live!”. Una dimensione, quella del palco, che in questi anni è stata centellinata dai Belladonna, decisamente prolifici

in studio ma dal vivo più orientati verso show selezionati piuttosto che estenuanti tour. Una decisione che la cantante spiega così “In passato abbiamo fatto molti tour in Europa, USA e anche qui in Italia ma nell’ultimo periodo siamo stati presi sia dal lavoro su “The Orchestral Album” che da quello relativo al prossimo album - che sarà il quinto album di inediti dei Belladonna - di prossima uscita. Stiamo inoltre lavorando a dei progetti che al momento siamo costretti a tenere segretissimi! Ma senz’altro contiamo e speriamo di tornare in tour al più presto”. Anche perché la curiosità attorno ai Belladonna continua a farsi ogni mese più forte, una band anomala, adorata dalla critica, osannata all’estero ma come spesso accade, relegata in patria ancora alla dimensione di band di culto “Per noi l’unica cosa che conta è continuare a fare la nostra musica senza alcuni compromessi con case discografiche, produttori, media o con il gusto o la moda imperante del momento – dribla sapientemente Dani - E siamo enormemente felici ogni qual volta scopriamo la nostra musica ha saputo emozionare - poi che accada con


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cento o centomila persone non fa alcuna differenza per noi: siamo musicisti, non accaparratori di successo”. Tra i “fenomeni” verificatisi in questi anni attorno all’universo Belladonna, la citazione da parte di Vince Neil nella sua autobiografia, pronto ad inserire il combo italiano tra le band che maggiormente si sono ispirate ai Crue nel periodo recente. Almeno un azzardo, visto le proposte sonore diametralmente opposte, ed infatti Dani prontamente afferma “Dei Motley Crue più che altro ci ha ispirato

la versione Leathur Records del loro primo album: un album registrato in pochi giorni e praticamente dal vivo, come tutti i nostri album e come quasi tutti i dischi rock che amiamo”. Quindi Luana aggiunte “Comunque non riteniamo di esserci mai voluti ispirare a qualcuno - almeno volutamente - però senz’altro il mondo a cui ci sentiamo più di appartenere musicalmente parlando è il mondo musicale antecedente al 1980”. Ed un altro evento che ha del clamoroso, è l’inclusione

di Dani tra gli autori della colonna sonora dell’ultimo film di Michael Moore “Where To Invade Next” . A tal proposito il chitarrista orgoglioso afferma: “ll passaparola che da sempre ha fatto arrivare la musica della nostra band in tutto il mondo recentemente ha portato anche l’Universal Pictures a Los Angeles a

scegliere un brano dei Belladonna (“The God Below”) per sonorizzare lo spot tv mondiale del loro film d’animazione “Minions”. E il fatto che mi sia stato commissionata della musica per il film di Michael Moore - così come accadde per il trailer Instagram del film della 20th Century Fox “Fantastici Quattro” lo scorso anno, di cui mi venne commissionato il jingle - è sì, totalmente connesso con l’attenzione di cui i Belladonna stanno godendo nell’industria di Hollywood al momento”.

Guarda il trailer di “The Orchestral Album”

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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -

Testo di Fabio Magliano, Barbara Volpi, Andrea Lami Foto di Alice Ferrero

@ Autodromo di Monza 2 giugno 2016

S

arà anche un numero nefasto, il 17, ma della diciassettesima edizione del Gods Of Metal, quella del gran ritorno dopo quattro anni di assenza dalle scene, si può dire di tutto fuorchè sia stata infausta. Già solo per il meteo per una volta sbeffeggiato, con i cicloni, le tempeste e gli uragani annunciati alla vigilia sconfitti da un sole che, a tratti, ha picchiato decisamente duro. Poi certo, a cercare il pelo nell'uovo con quella tendenza tutta italiana di criticare sempre e comunque, ci si può attaccare alla carenza di zone d'ombra (o di riparo dalle piogge di cui sopra), ad una proposta gastronomica troppo cara e troppo limitata per un evento di questa portata (in questo senso l'Italia ancora tanto ha da imparare dai festival esteri) o una viabilità precaria che ha tenuto gli spettatori bloccati per quasi tre ore nei parcheggi dell'autodromo (la carta del “caro biglietto” è sempre buona, ma anche qui si potrebbe discutere), ciò non toglie che, anche rapportato con le edizioni passate, per location, risposta del pubblico, organizzazione e qualità delle band coinvolte, il Gods Of Metal 2016 può andare in archivio con voti ampiamente sopra la sufficienza. Dopo i fasti dell'edizione 2012 che aveva visto il Gods Of Metal riunire per quattro giorni sul palco di Rho il meglio della scena hard'n'heavy tra Manowar, Guns'n'Roses, Ozzy e Motley Crue (giusto per citare gli headliner) in un ideale congedo dalle scene dopo 16 anni in chiaro/scuro, il più celebre festival metal dello Stivale ritorna alla sua formula originaria, quella che lo aveva tenuto a battesimo nel lontano 1997, ovvero una sola giornata divisa tra mostri sacri e gruppi rampanti, complice la defezione dei Kiss inizialmente previsti per la seconda giornata di festival. Ciò che è cambiata rispetto al 1997 è la scena , ed ecco quindi il bill del GOM farsi più vario, tra nomi storici ancora intenti a tenere alta la fiamma del metallo e gruppi dediti a sonorità più moderne, in un patchwork sonoro che, alla fine, non ha scontentato nessuno.

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Overture Il compito di aprire le danze, come da tradizione con il parterre popolato da un pugno di intrepidi decisi a viversi il festival nella sua interezza, spetta agli OVERTURES, band che con 'Artifacts' ha recentemente posto un nuovo, convincente tassello ad un percorso artistico avviato nell'ormai lontano 2003. La band di Gorizia ha poco più di venti minuti per scaldare i presenti, e ci riesce affidandosi ad un power metal di stampo teutonico ben amalgamato con divagazioni prog che molto dicono sulla preparazione tecnica dei «nostri». Lo show prende il là con 'Repentance', brano cui spetta il compito di aprire anche l'ultima fatica discografica della band, seguito a ruota dalla title track del nuovo album e da 'Go(L)d', traccia maggiormente orientata verso l'hard rock, quindi chiusura affidata allo splendido 'Fly Angel', singolo tratto da 'Rebirth' che consente al gruppo friulano di chiudere la sua performance con un punto esclamativo.

Planethard I milanesi PLANETHARD, alla terza apparizione sul palco del Gods Of Metal, dimostrano di avere messo a frutto i concerti tenuti negli anni di spalla a veri mostri sacri del metal come Motorhead, Scorpions, Europe, White Lion, Gotthard e Y&T, tenendo il palco con autorevolezza e coinvolgendo un pubblico sempre crescente con venticinque minuti di hard rock moderno, aggressivo e fortemente contaminato da tutto ciò che in tempi non sospetti ci è giunto da Oltre Oceano. Tutti gli occhi sono puntati sul singer Alberto Zampolli, sostituto del defezionario Davide Merletto, ed il cantante, già gettato nella mischia per lo show di spalla agli Scorpions al Forum risponde alla grande con una prova grintosa sin dalle prime battute. Il gruppo lombardo, con l’ultimo lavoro ‘Now’ ha salutato l’hard rock degli esordi per abbracciare una proposta più varia ed elaborata, giocata su chitarre di stampo thrash, melodie tipiche di un rock moderno a stelle e strisce e passaggi più tecnici di scuola progressive. Il tutto ben orchestrato da Marco D’Andrea, cuore e mente della band che sul palco brianzolo dà sfoggio di tutta la sua preparazione tecnica. L’apertura è affidata a ‘The One’ tratta da ‘Now’, brano diretto e potente che fa subito entrare i presenti nel giusto mood, quindi spazio a ‘Ride Away’, un altro pezzo robusto tratto da ‘No Deal’, cui fa seguito la granitica ‘This World’. ‘Play Harder’ e ‘Underworld’ pescati dall’ultimo lavoro, mostrano come Zampolli possa senza problemi non far rimpiangere il suo predecessore e la partecipazione del pubblico, sparuto ma già discretamente coinvolto, non fa che sottolineare la positiva prova dei PlanetHard.

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JEff Angel’s Staticlad Il primo tocco «esotico» al festival lo danno i JEFF ANGELL’S STATICLAND, terzetto di Seattle che ha come tratto distintivo la presenza dietro il microfono di Jeff Angell, già attivo con Post Stardom Depression, The Missionary Position ma soprattutto Walking Papers con Duff McKagan. Un po’ pochino per tenere alta la tensione dell’ascoltatore dopo una fisiologica curiosità iniziale, ed ecco quindi che la mezz’ora a disposizione del trio americano scivola via con una manciata di pezzi estratti dall’omonimo album di debutto, dall’opener ‘Everything Is Wrong’ a ‘High Score’, da ‘Phantom Limb’ a ‘I’ll Find You’ passando per ‘Freak’, ‘The Edge’ e la conclusiva ‘Never Look Back’, brani costruiti su un rock blues dalle tinte psichedeliche senza troppi fronzoli (sul palco chitarra, tastiere e batteria mentre il basso viene affidato a parti registrate), a tratti melodico, a tratti sguaiato, mai realmente in grado di solleticare la nostra attenzione.

The Shrine Un discorso che potrebbe essere benissimo fatto anche per i THE SHRINE da Los Angeles, seppure le coordinate sonore siano opposte rispetto quanto proposto in precedenza dai loro connazionali. Il terzetto, alle prese con la promozione dell’ultimo ‘Rare Breed’ e forte di un’immagine d’altri tempi, tra baffoni e zazzere settantiane, vomita su un pubblico più preoccupato di un’inaspettata abbronzatura che non di ciò che accade sul palco tonnellate di rock grezzo e selvaggio, sin troppo derivativo e privo di spunti realmente interessanti. Per carità, il concerto scivola via liscio, tra riff sguaiati, atmosfere stradaiole, vocals al catrame, il tutto racchiuso in un certo disordine tipicamente punk, alcune soluzioni maggiormente rivolte all’hard rock degli anni Settanta risultano persino piacevoli, nulla però che giustifichi la presenza di questa band su questo palco. Alle 14, la sfida tra opening act Italia - USA si conclude in sostanziale parità.

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Halestorm E’ con gli HALESTORM che il festival finalmente decolla, portando in scena il primo highlight del festival. Al gruppo della Pennsylvania guidato dalla dirompente Elizabeth “Lzzy” Hale piace vincere facile ed eccolo quindi aggredire il pubblico con ‘Apocalyptic’ il primo singolo estratto dall’ultimo lavoro ‘Into The Wild Life’ e la risposta dei presenti, finalmente, non si fa attendere. Dopo tutto la carta giocata dal quartetto di Red Lion è quella vincente, un hard rock abbastanza moderno, carico di melodia, facili hooks, discreta potenza e presenza scenica da urlo, con Arejay Hale a fare evoluzioni dietro le pelli e la sorellina terribile Lzzy a catalizzare su di sè l’attenzione come il più scafato degli animali da palcoscenico. Tanta attitudine, grinta a volontà, e giù tutte d’un fiato le varie ‘Love Bites’, ‘Mz. Hyde’, ‘I Am The Fire’, ‘Sick Individual’ prima che si tiri un po’ il fiato con ‘Amen’ e ‘Scream’. La corsa riprende però immediata splendidamente orchestrata dalla bella cantante che gioca con il pubblico dimostrando a più riprese di tenerlo saldamente in mano, guidandolo attraverso la potente ‘Mayhem’, la malata ‘Freak Like Me’ e la conclusiva ‘I Miss The Misery’, un autentico inno che qui viene dilatato per la gioia di chi ha seguito il gruppo sin dagli esordi e di chi, con questo show, si è trovato a contatto per la prima volta con una band che sta portando linfa nuova alla scena hard rock a stelle e strisce.

Gamma ray Ci va una secchiata d’acqua gelata per domare l’incendio scatenato dagli Halestorm e, sfortunatamente, a tirarcela sono i GAMMA RAY, insieme ai Megadeth unica band della giornata a portare in scena il metal più tradizionale, attesi da chi a ragione affida ad essi una fetta importante della storia dell’heavy metal europeo, ma autori di un set decisamente sotto tono, che poche speranze concede al futuro. Gli annetti sulle spalle di Kay Hansen iniziano a farsi pesanti, anni ed anni passati ad urlare dietro ad un microfono si fanno sentire e non è un caso se, dopo un attacco a singhiozzo con ‘Heaven Can Wait’ le redini, almeno da un punto di vista vocale, vengono prese da Frank Beck, un buon gregario ma nulla di più. I suoni non sempre impeccabili non aiutano la buona riuscita dello show, e ad uscirne penalizzate sono soprattutto batteria e chitarre, che mai emergono come dovrebbero. Fortunatamente per il gruppo teutonico, dove non ci arriva la forma ci arriva l’esperienza, nonchè una manciata di pezzi tirati appositamente fuori dal cilindro per la gioia dei fan italiani. ‘I Want Out’ pescata dalla discografia degli Helloween genera entusiasmo ai piedi del palco grazie ad un chorus che ha fatto la storia del power melodico, così come la più recente ‘Master Of Confusion’ e le coinvolgenti ‘Rebellion In A Dreamland’ e ‘Man On A Mission’. Spetta ad una divertente ‘Send Me A Sign’ chiudere su ritmi forsennati uno show onesto, ma non abbastanza per chi ha amato la band di Kay Hansen sin dai suoi primi vagiti e qui ne intravede un inevitabile declino.

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Sixx A.m. Non convince a pieno neppure la prima su suolo europeo dei SIXX:AM, e dire che le aspettative per la band capitanata da Nikki Sixx erano alle stelle. Troppo forse, così come alto era il rischio di rimanere alla fine delusi. Perchè il valore dei membri del gruppo è assoluto, partendo dal leader dei Motley Crue, passando per l’ex ascia dei Guns’n’Roses Dj Ashba sino ad arrivare allo strepitoso cantante James Michael, così come di prim’ordine è la produzione discografica della band (‘The Heroin Diaries Soundtrack’ per chi scrive è uno dei migliori dischi hard rock usciti negli ultimi 15 anni mentre l’ultimo ‘Prayers For The Damned’ è nel suo piccolo un gioiellino). Una produzione eccellente che, forse, è uscita penalizzata dallo show ridotto del GOM. L’apertura è affidata a ‘This Is Gonna Hurt’, pezzo esplosivo in possesso di un chorus irresistibile studiato ad hoc per il live, così come ‘Rise’, il primo singolo estratto da ‘Prayers’. E come è prevedibile a farla da padrona è proprio l’ultima produzione, tra una non eccelsa ‘When We Were Gods’ dedicata a Stefano Savi, vittima del «duo dell’acido» ospite della band a bordo palco, ‘Everything Went To Hell’ e la title track accolte, a dire il vero, in modo abbastanza tiepido dai presenti, sino ad arrivare agli album più vecchi, rappresentati da ‘Lies Of Beautiful People’, da una ‘Stars’ sin troppo ruffiana e dalla conclusiva ‘Life Is Beautiful’, brano clamoroso a rappresentare il troppo sacrificato disco d’esordio. Un concerto nel quale James Michael si è confermato un vero animale da palcoscenico mentre i due compagni ben interagivano aizzando una folla forse ancora poco pronta ad una simile proposta sonora, uno show discreto anche se la sensazione è che, per godere della vera essenza dei Sixx:AM sia necessario attendere una loro prova sulla lunga distanza.

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MEgadeth Ammetto che avere visto Dave Mustaine sciabattare per il backstage a mo’ di Ozzy, a braccetto con la moglie e avvolto in un piumino nonostante il caldo mi aveva creato non pochi timori in vista dello show dei MEGADETH, ed invece sarà stato pizzicato in un momento di defiance, perchè quello che sale sul palco del Gods Of Metal alle 18.30 è tutto fuorchè un vecchio leone in disarmo. I ‘deth sono una delle note liete del festival, la loro ora e un quarto a disposizione scivola via liscia, senza fronzoli, senza inutili svolazzi. Sostanza, tanta sostanza, e non poca commozione quando alla fine Mustaine ricorda tra gli applausi Nick Menza. Ma è tutto ciò che c’è in mezzo che realmente conta, con un MegaDave preciso e costantemente «sul pezzo», ben supportato da un Kiko Loureiro in forma smagliante e da un Dave Ellefson preciso come un metronomo. Non c’è tempo per le parole inutili, giusto un breve intro e l’inferno si scatena ai piedi del palco con ‘Hangar 18’, quindi per i nostalgici ecco sparate subito ‘Wake Up Dead’ e ‘In My Darkest Hour’. Un’apertura con il botto che lascia subito intendere che quello che ci aspetta non sarà uno show normale, ed infatti eccoci subito proiettati sulle montagne russe temporali, con un vorticoso alternarsi tra pezzi più datati ed altri figli della produzione più recente, da ‘TheThreat Is Real’ a ‘Post American World’, da ‘Sweating Bullets’ a ‘Trust’. La temperatura cresce a dismisura quando l’inconfondibile riff di ‘Symphony Of Destruction’ viene sparato sull’autodromo in tutta la sua potenza, un delirio che si tramuta in inferno con ‘Peace Sells’, con tanto di comparsata di Vic Rattlehead sul palco, a precedere la monumentale ‘ Holy Wars… The Punishment Due’, cui spetta il compito di chiudere uno show incredibilmente intenso e per alcuni versi sorprendente.

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KORN Il crescendo finale del Gods Of Metal 2016 passa obbligatoriamente per i KORN, il gruppo più discusso tra i fan più integralisti e da chi, ancora nel 2016, non è in grado di superare la stupida barriera mentale del metal/non metal. I Korn avranno passato fasi discutibili, attuato scelte stilistiche spiazzanti, ma almeno dal vivo sono ancora una macchina da guerra, e se la condizione fisica li sorregge, sono ancora in grado di fare male. La scelta poi di attingere a piene mani dalla produzione più datata (e sicuramente quella più ispirata) alla lunga si rivelerà azzeccatissima, almeno a giudicare dall’onda umana che segue con crescente trasporto lo show della band di Bakersfield ai piedi del palco. Fredda, potrà essere definita la performance del gruppo, ma la fama non è mai stata quella della party band, il chirurgico cinismo che ha sempre permeato le atmosfere dei brani soprattutto più vecchi ritorna sul palco lombardo, con Head che a tratti pare tarantolato, Munky leggermente più distaccato ma sempre in possesso di un gran carisma, Fieldy come al solito abbastanza tamarro ma aggressivo come ai bei tempi e poi ovviamente Jonathan Davis, i cui demoni interiori si saranno pure sopiti a discapito di quella furia primordiale che ne aveva contraddistinto le primissime performance, ma che ora, ripulito ed educato, può contare su una maturazione vocale che non può che giovare allo show. Che attacca come solito con ‘Blind’ per poi addentrarsi zigzagando tra i pezzi più datati, da ‘Right Now’ a ‘Here To Stay’, con qualche puntata verso la produzione più recente qui rappresentata da ‘Narcissistic Cannibal’. E’ però un caso isolato, visto che si ritorna subito a picchiare duro sui vecchi classici, con ‘Falling Away From Me’ e quella ‘Shots And Ladders’ come da tradizione proposta con l’attacco di cornamusa e con la svirgolata su ‘One’ dei Metallica. Da qui inizia una corsa a rotta di collo con ‘Did My Time’, ‘Got The Life’ e la conclusiva ‘Freak On A Leash’, brani che hanno marchiato a fuoco la storia del nu-metal, che forse non sarà metal al 100%, ma che questa sera ha fatto ballare e divertire come e più di tanti gruppi duri e puri.

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Rammstein E arriva il momento degli headliner, quei RAMMSTEIN capaci dal vivo di proporre spettacoli la cui produzione scenica può competere con gli storici show di Ac/Dc e Kiss, accompagnando lo spettatore in un circo cinico e spietato, scandito da quei ritmi crucchi che martellano dall’inizio alla fine contribuendo a infondere un ulteriore senso di disagio. C’è attesa per il gruppo berlinese, tanto che fan da ogni parte d’Europa si sono mobilitati per non perdersi una nota di quello che, c’è da scommetterci, sarà uno show incendiario, in ogni senso. E non è un caso se, allo scadere del countdown, sono fuochi d’artificio quelli che alle spalle del palco salutano l’inizio del concerto, scandito dalle note sulfuree di un Lorenz solitario in tenuta da Guantanamo, prima che Kruspe e Landers facciano la comparsa calati dall’alto su piattaforme che rientrano nel contesto post-industriale della scenografia. L’ultimo a fare l’ingresso sul palco, a passo di tip-tap è Till Lindemann, che prima fa esplodere il suo cilindro, quindi attacca con la nuova ‘Ramm 4’, un pezzo auto-celebrativo composto con i titoli dei brani della band che esplode nel chorus ‘Ya-Nein-Rammstein’. Con ‘Reise Reise’ è il palco formato Tetris a diventare protagonista, con blocchi di luci a scendere sulla band. Nota dopo nota si entra nell’incubo del gruppo, con tutte quelle trovate conosciute e attese che puntualmente si palesano mandando il pubblico in visibilio, dalle fiammate di ‘Keine Lust’ ai lanciafiamme di ‘Feur Frei’ sino al siparietto tra Till e Lorenz, con questi sottomesso, costretto a coricarsi in una vasca sulla quale, dall’alto il sadico singer riversa una cascata di scintille con l’unico risultato di trasformare il tastierista in un’esplosione di paillette e brillantini. Assistendo ad uno show dei Rammstein si ha l’impressione di essere al cospetto di una macchina perfetta, ogni elemento si muove con sincrono impeccabile, tutto è esattamente dove deve essere, con una quadratura, scenica e sonora, di chiaro stampo tedesco. L’ironia, sadica, cinica che permea da sempre le canzoni del gruppo emerge prepotentemente anche nel corso dello spettacolo, dove gli effetti speciali sono protagonisti ma sempre e comunque funzionali alla musica. ‘Ich Will’ e ‘Du Hast’, quest’ultima con gran finale pirotecnico e palco che letteralmente salta in aria dopo un dardo infuocato scoccato da Till riescono a far cantare anche chi il tedesco non lo mastica proprio, mentre la chiusura affidata alla cover dei Depeche Mode ‘Stripped’ spiazza non poco. Il bis vede il cantante volteggiare sullo stage in versione angelo in una versione mozzafiato di ‘Engel’, mentre il sipario si chiude su ‘Sonne’, che in tutta la sua imponenza pone il sigillo ad un Gods Of Metal decisamente positivo. Alla faccia del 17, per buona pace degli inguaribili bastian contrari.

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@ 013 - Tillburg (N) (15-16 Aprile 2016) Testo di Barbara Volpi Foto di Erik Luyten

E' anche quest'anno è giunta l'ora dell'imperdibile appuntamento olandese per gli appassionati degli stili doom, stoner, sludge, heavy psych e hard rock. Il Roadburn nel 2016 festeggia il suo ventesimo compleanno e, considerando che era nato in sordina come un evento per pochi eletti, ora può coronare il sogno di essere assurto a uno dei migliori happening internazionali del genere. Merito degli organizzatori che ci hanno sempre creduto anche quando le acque parevano andare contro (i Desert Fest londinese e berlinese non hanno aiutato) e di un pubblico di affezionati che sa che l'amichevole atmosfera di Tilburg (quattro venue distribuite in una ridente cittadina all'improvviso invasa da cappelloni barbuti di ogni tipo) è difficile da replicare altrove. La line-up era talmente ricca che l'unico problema è stato quello di riuscire a vedere gruppi che spesso suonavano in contemporanea o, addirittura, a vederli del tutto visto che per entrare in venue piccole come Het Patronaat ed Extase c'erano code che iniziavano due ore prima della performance e manco si aveva la sicurezza di riuscire ad entrare.

Metal Rock

Roadburn

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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Il venerdì gli echi del giorno prima non si erano ancora stemperati: nell'aria vibravano i riti sacrificali al dio Pan dei Cult Of Occult, gli accordi cosmici degli eccelsi Oranssi Pazuzu, le sfumature umbratili dei Cult Of Luna, oltre che le note di “Gothic” suonato dai Paradise Lost. L'eclettico mix sonoro dai toni cupi si apre con l'epitome della tragedia greca dei nostri giorni Diamanda Galas, presenza scenica inquietante e voce da paura la cui esibizione abbonda di auto- referenzialità, ma questo è il personaggio, prendere o lasciare (e nello spoken word del giorno successivo, una specie di dialogo-intervista con una giornalista inglese, la nostra bella tenebrosa denota qualche segno di auto-indulgente squilibrio da 'vecchia ed eccentrica signora'). Impossibilitata a smaterializzarmi per assistere ai concerti singoli di Steve Von Till e Scott Kelly (two Neurosis è meglio che one), un applauso per i portoghesi Sinistro, meritevoli di una densità minimale in quell'orgia festivaliera di suoni eclatanti. I With The Dead di Lee Dorrian non hanno deluso davvero nessuno, probabilmente perché il doom si inspessisce con il tempo, diventa più corposo e nel contempo esistenzialista, come la profetica figura di lui sul palco.

Oranss

i Pazuz u

se Lost

i Parad

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L’Islanda e la Scandinavia, che in questa edizione fanno da padrone, si rivelano ancora una volta regine dell’occultismo con i finlandesi Dark Buddha Rising, persi negli spazi oscuri tra una nota e l’altra che le sostanza psicotrope dilatano fino a creare delle voragini surreali. Giusto il tempo per tenersi ancora in piedi sulle proprie gambe e andare a supervisionare quel folletto improbabile che è Bobby Liebling, dinoccolato su tacchi altissimi, che ancora spacca le ossa con i suoi Pentagram, una band seminale che ad oggi resta una garanzia. Ma il rituale messianico della serata è la magia black metal degli Ulfsmessa, collaborazione degli Misthyrming (Artists in Residence del Roadburn 2016) con i Naora, i Grafir e i Nylp. L’esibizione ha però i difetti dell’improvvisazione, i musicisti appaiono poco amalgamati e quindi le voci dall’oltretomba spesso si risvegliano per portare l’ascoltatore giù nella gravità dell’imperfetto mondo reale. Imperfetto ma sempre emotivamente intenso, almeno in questo caso. Il giorno successivo tutto è pronto per l’Apocalisse. I Neurosis, con i loro trent’anni suonati di carriera sulle spalle, sono il main-act e per le strade si aggirano ormai spettri reduci da tre giorni di alcool e droga.

Misthyrming

elly Scott K

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I massicci boscaioli di Seattle Brothers Of The Sonic Cloth massacrano con una scure sonica l’aria impastata di sonno del pomeriggio, mentre i Tau Cross violentano il torpore con un suono rock diretto, frontale, energetico. L’attesa comunque è tutta per i Converge/Blood Moon dove Jacob Bannon e Kurt Ballou si unsicono a Steven Brodsky, Steve Von Till, Chelsea Wolfe e Ben Chisholm, in cui quindi il combo originale sa incantare con la solita forza d’urto sputata fuori dalle viscere infarcita per l’occasione con venature dark e melodiche, nonché con ballate che sfiorano l’industrial con grazia, come fanno le tastiere sulla struttura ritmica di base. Bannon con Chelsea Wolfe si rivela un crooner di talento i cui picchi vocali sanno andare ben oltre ai soliti registri cui i Converge ci hanno abituati. Il gruppo belga degli Amenra si è esibito invece in un set acustico in cui il loro post-rock è trasmutato in una sorta di ipnotica litania vagamente monocorde, adatta ad incantare i loro adepti, a far sentire le vibrazioni pesanti dei La Muerte che suonavano accanto e a preparare gli animi per l’entrata trionfale dei Neurosis.

Converge

NEUROSIS

Che dire di quest’ultimi? No words. Essi restano i maestri assoluti nel costruire universi paralleli sempre spinti sull’orlo del collasso, nell’ordire abissi fagocitanti da cui lasciarsi inghiottire per dimenticare la propria umana caducità. C’è un qualcosa di trascendente ed immortale nella ferocia con cui il bene affronta il male in ogni loro pezzo. E’ l’eterna immutata battaglia che si esplica negli epici pezzi tratti dal loro intero repertorio, quelli di “Souls At Zero” tra tutti. Dopo di loro anche gli eccellenti Blood Ceremony appaiono quasi naive, con la bella Alia O’Brien nelle vesti di sacerdotessa, e se non ci fosse lei chissà se il gruppo canadese avrebbe lo stesso numero di benemeriti seguaci. I Neurosis usciranno con il nuovo album (sentito in anteprima da Metal Hammer) in autunno. Nel frattempo tutti gli altri, dopo la maratona di questi tre giorni, riprendono a stirare i muscoli perché l’aprile 2017 è alle porte e chi partecipa al Roadburn è oramai il membro di una comunità transnazionale che ogni anno rinnova il suo idioma, il suo credo e il suo verbo.

ROadburn 2017

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Ph. Alice Ferrero

LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Metal Hammer Italia ha anticipato le mosse degli Iron Maiden salendo al Rock in Wien Festival, durante il quale tutto e' stato spazzato via all’arrivo del sestetto britannico, il quale ci è apparso mai domo e in forma scintillante, con un Bruce Dickinson letteralmente straripante! Va detto: ci attende qualcosa di veramente grosso, nel corso delle loro tre date italiane di fine luglio… Testo e Foto di Alex Ventriglia

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mente trovo avvincente per la sua Book Of Souls’(un album che personal ‘The con do mon il ta del disco), tutto di e ifich Dopo aver sbancato le class efacente se consideriamo l’ampia dura scorrevolezza direi sbalorditiva, stup una per tto attu sopr ma tiva, posi freschezza com concertistica in corso. i assoluti trionfatori della stagione ato un sold-out dietro gli Iron Maiden già si annunciano qual Souls World Tour ha subito collezion Of Book The il da, Flori le, erda ricano Laud Fort a so ovunque, lungo l’iniziale tragitto ame Inaugurato il 24 febbraio scor following di cui la Vergine di Ferro gode o nuovo inat di e sterm da lo Cana visto ile, si Bras nder a, atte o ntin l’altro, come lecit ador, Costa Rica, Cile, Arge Salv El ico, Mess i, Unit i Stat a di in Prim irsi esib al Forum di Los Angeles. che ha portato Steve Harris & Co. ad Square Garden e due clamorosi show ison Mad ese e york infin new osi al a tand atin spos punt e a Zelanda e Australia, Stati Uniti, con l’immancabile o poi sempre più verticalmente, Nuov dend scen , Cina e pone Giap nte, Orie dirigersi ad estremo Town e Johannesburg. di conquista, la preda da in Sud Africa, tenendo due date a Cape opa da cui provengono il loro territorio l’Eur è te, inen Cont mo hissi vecc il è Ma adesso, dalla fine di maggio, iare verso la Gloria. Imperitura. esattamente nnico ha ripreso, indisturbato, a marc una tournée lunga ed impegnativa, cacciare, e lo storico six-piece brita Vienna. La prima cinquina europea di rna. Luce no un record ino. iliro Berl stab e fa i era t’ann Bavi di tren aco già Dortmund, Mon ria, i Maiden che addirittura mate della isti anov stak i entic minacciare da (aut e essere talmente stressant come vuole la tradizione maideniana Powerslave World Tour, che si rivelò tico ieris pion mo agosto con 4 dicia il e i tico ders chiu odon ); tournée che, prima di dietro l’altro grazie al mast ento tanto vicina allo scioglimento! mom quel Forum di in um e com iolan mai Med , al o band lugli della 22 l’esistenza stessa per tre imperdibili concerti: il a Itali in ri Nost i rterà ripo ta la Air, idera Open vasta da essere cons lo speciale show al tedesco Wacken a Piazza dell’Unità d’Italia, talmente nific mag nella te, re Tries valo a r 26 il unge e a aggi Rom storico che non potrà non Milano, il 24 al Sonisphere di un location dal grandissimo fascino dire a vale , mare sul i ciars affac ad più estesa d’Europa da Bruce Dickinson. all’esibizione della truppa capitanata

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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Rullo di tamburi, con gli Iron Maiden sbarcati dal monumentale Ed Force One e ciliegina sulla torta bella guarnita già di per sé, headliner di lusso per la giornata finale del Rock in Wien, scortati da un pugno di conferme (bravissimi Nightwish, Gojira e The Vintage Caravan, peccato per quest’ultimi, suonare alle 13 non è mai il massimo…) e da qualche incredibile colpo a vuoto (Tremonti, i noiosissimi In Extremo, ma specialmente Zakk Wylde che, con i suoi assoli interminabili e un piglio un filino pretenzioso , ha appesantito il tutto. ‘Book Of Shadows II’ è tra gli album dell’anno, lo ribadisco, ma a Vienna è suonato tremendamente fiacco…). Frega assai poco se ci si mette anche Giove Pluvio a far le bizze, dopo esser stato buono praticamen te per tutto il weekend, ma lì, assiepati nelle prime fila, circondati da fans provenienti da ogni parte del mondo (con Messico ed Uruguay a contendersi con Serbia e Grecia l’esotico primato), si capisce immediatamente che l’evento è di quelli importanti. Sono le 21, minuto più, minuto meno, quando parte l’intro ‘Doctor, Doctor’ degli UFO e rivitalizza d’incanto la bagnata platea, bramosa di omaggiare i propri beniamini. Opening-track dello show, ‘If Eternity Should Fail’, brano che ci proietta all’istante dentro il sedicesimo studio-albu m degli Iron Maiden, dentro le sue atmosfere cariche di gloria millenaria, seguita a ruota da ‘Speed Of Light’, coppia d’apertura in grado di restituirci una band che, probabilmente, è l’unica in circolazione a mostrarsi così appassionata e coesa, talmente soddisfatta di essere se stessa da farlo percepire fin nei dettagli più infinitesimali. Ho perso il conto delle volte che ho visto i Maiden, ma l’entusiasm o di stasera erano anni che non lo provavo, al cospetto di una formazione che sfodera uno stato di forma fenomenale, in primis è Bruce Dickinson a rapire lo sguardo, catturando l’attenzione generale grazie a una carica dirompente e al suo fare istrionico, tipico del suo personaggio. La solenne ‘Children Of The Damned’ è la prima concessione allo spirito del passato, provata e riprovata durante il soundcheck del mattino, prima della quadra giusta, e siamo già tutti in trance agonistica, non appena Bruce Bruce fa salire la sua voce, finalmente calda e fremente!

asso nella manica, marchiando sia ‘Tears on si rivela, una volta ancora, l’autentico Sams dei man front l’ex la il suo ieri, pens i brutt i Scongiurati live, con il pubblico a cantare a squarciago un brano questo direi perfetto nell’ottica ’, Black rapThe Maya à And civilt Red la ‘The con e che n’ ment Clow A ideal Of Egitto a fondersi er’ e suggestiva ‘Powerslave’, con l’Antico suggestioni ano evoc en Maid i quali contagioso ritornello. Arcigna ‘The Troop dalle idi piram e le scenografia, di grande impatto le torrette del comico… presentata dai fondali e dalla bellissima con Dickinson una battaglia che ha quasi giare ingag ad , solito del ro burbe più forse , Eddie e i suoi ritmi arriva o do estiv quan sugg e it speci incip tre, sinis Souls’, con il suo ata al Barone Rosso, mentre ‘The Book Of speciale, o giorn un poi è oggi rista Compatta ed istintiva ‘Death Or Glory’, dedic batte s-McBrain in prima linea. Per il Harri duo il con a, serat della ight dediche e highl cori o marziali, è l’ennesim biandolo affettuosamente con sfotte, ma l’audience consola Nicko ricam lo po’ un Bruce che il letale o, è leann non comp altri imo finale 64es è il suo l stardom. Il suggello musicisti più veri e sinceri dell’intero meta te, è gigan to forma in Eddie di tanto augurali e tanto, tanto calore, per uno dei ‘Fear Of The Dark’ e ‘Iron Maiden’, con ’, Name Thy Be wed ‘Hallo di ‘The uto: nome al assol e hat-trick del fuoriclass il primo degli encore risponde il banco è saltato. Definitivamente. E se che o subit o enziam altrim realiz , ano polsi i spieg re si non trema roba da far il patto col diavolo, ciazione di idee: questi hanno davvero fatto l’asso fare gli con ssimo fare facili che t’, a Beas mo The abbia Of che er Numb onta, ogni volta aristocratico, con il quale sempre ci si confr delle ti l’energia straripante e lo spirito solido, Years’ a colpire gli animi, ovverossia una ed ‘Wast o ttutt sopra è ma ers’, Broth d ‘Bloo con venprima o suoi i edan a cong salut si band quali Iron Maiden. I set-list maideniana, con cui la ritornata prepotentemente in voga nella ’, Time lice In semp re una ewhe che ‘Som più di é olo perch simb ni Già, canzo categoria superiore. paghi nonostante un concerto di eccelsa ticinquemila deliranti fans, di certo non una lectio magistralis… live performance, quella viennese è stata

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@ Arena di Verona (Vr) (11 maggio 2016) Testo e Foto di Stefano Giorgianni e Sofi Hakobyan

Maledizione che freddo! Ebbene sì, mai mi è capitato in vita di varcare la soglia dell’Arena di Verona con la felpa e il giubbino di pelle chiuso. Invece accade anche questo nella città scaligera il 12 maggio 2016, quando sul palco sono pronti a esibirsi i 2 Cellos, giovane duo sloveno-croato (anche se si è abituati a considerarli solamente croati) che sta raccogliendo consensi in ogni parte del globo con il loro misto di classica e rock. A dir la verità qualche dubbio lo avevo prima di vedere lo spettacolo di violoncellisti, al secolo Luka Šulić e Stjepan Hauser, perché i pareri contrastanti di rockers miei conoscenti che hanno assistito ai loro show mi hanno avvertito in ambo i sensi, ovvero “ti annoierai a morte”/”ti divertirai come un bambino nel paese dei balocchi”. Va beh, armato di tutto punto con preghiere sciamaniche contro la pioggia mi reco all’anfiteatro romano deciso a sfidare i detrattori (d’altronde scrive uno che adora il genere proposto da David Garrett, che così lontano dai 2 Cellos proprio non è). Inizio poi a farmi qualche domanda fra me e me: “Quinto anno di carriera e già in Arena, allora... Da qualche reality non sono usciti, quindi devono esser bravi sul serio”.

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Il pensiero ha per fortuna trovato accoglimento nella prestazione del duo, che riuscendo ad alternare in maniera sapiente accenni alla musica classica (soprattutto durante la prima parte del concerto) e rielaborazioni di brani emblematici del rock/metal portano a casa uno show di tutto rispetto con tre encore chiamati a gran voce dal pubblico. Tra i pezzi proposti in avvio ”Oblivion”di Astor Piazzolla, ”Gabriel’s oboe” di Ennio Morricone (che tutti ricordiamo nella colonna sonora del film “The Mission” con Robert De Niro), “Viva la vida” dei Coldplay, ”Shape of my heart” di Sting, ”Resistance” dei Muse, ”With or without you” degli U2, brani conosciuti del pop-rock insomma, fino a un omaggio a Michael Jackson con ”Human nature” e ”Smooth criminal”.

Però si sa, il cuore del metallaro è duro a scaldarsi, questo avviene in concomitanza dell’entrata del piccolo ma tempestoso drummer Dušan Kranjc, che con “Thunderstruck” degli AC/DC comincia a scaldare l’atmosfera e la infuocherà con ”Shook me all night long” e ”Highway to hell” sempre dei giganti australiani. Ci sarà spazio anche per i Nirvana (”Smells like teen spirit”), i Rolling Stones (”Satisfaction”), ma è il primo encore con ”The trooper” degli Iron Maiden, ”Whole lotta love” dei Led Zeppelin e ”Back in black” degli AC/DC a rendere di più. Lo show si chiude in tranquillità con Johann Sebastian Bach e ”Fields of gold” di Sting. Insomma, concerto godibile anche per noi di Metal Hammer, sarebbe però curioso sentire i 2 Cellos proporre qualche loro inedito in aggiunta alle ben eseguite cover.

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@ FORUM (MI) (21 maggio 2016) Testo e Foto di Roberto Villani

Non c’è storia e neanche l’ombra di ogni ragionevole dubbio, per dirla in termini giuridici e da aula di tribunale. I Muse sono a tutti gli effetti i Queen del nuovo millennio, avendo ereditato di diritto il trono rimasto vacante dopo la prematura scomparsa di Freddie Mercury in quel malinconico novembre 1991. Ve lo dice uno che i Queen li ha amati, vissuti, ascoltati e, soprattutto, visti dal vivo per ben quattro volte nel loro momento di più alto splendore in termini di creatività e vena artistica e mi riferisco al periodo che intercorre tra il 1977 ed il 1982. Nessuno, ribadisco, nessuno è riuscito meglio dei Muse ad incarnare e metabolizzare l’arte di coniugare la drammaticità e la maestosità di certe arie ispirate alla musica barocca e sinfonica, alla pura essenza del rock’n’roll d’impatto, quasi glam, che fu una prerogativa del successo clamoroso di album seminali dei Queen, quali ‘Sheer Heart Attack’ e ‘A Night At The Opera’. Forse solo gli U2 di metà anni Ottanta ebbero lo stesso impatto devastante nello show business, ma quello che passano oggi i Muse è un qualcosa di unico e, al momento, irripetibile.

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Matt Bellamy è un folletto indiavolato che domina in lungo e in largo uno stage aperto a 360 °, tra il delirio di migliaia di fans adoranti, i quali urlano a squarciagola ogni pezzo che esce dalla sua bocca e dagli altoparlanti del Forum, in quella che è l’ultima data del tour a supporto dell’album ‘Drones’, tour aperto allo Stadio Olimpico di Monaco il 29 maggio dello scorso anno, al Rockavaria Festival insieme a Metallica, Judas Priest e Kiss (e noi di Metal Hammer eravamo presenti anche in quell’occasione…). Oltre a suonare la chitarra in maniera divina, alternando riff taglienti come lame di rasoio, a passaggi di una raffinatezza da far impallidire tanti improbabili guitar heroes, Bellamy ha il grande dono o talento, chiamatelo come volete, di scrivere canzoni che ti si appiccicano addosso e che non puoi più fare a meno di canticchiare, vita natural durante… E’ vero che i Muse attingono da tante grandi band del passato senza ricalcarne nessuna in particolare, a parte i miei accostamenti “di cuore” ai già citati Queen, ma è altrettanto inequivocabile che il gigantesco drone, che a metà concerto inizia a volteggiare all’interno dell’arena milanese, è un richiamo neanche tanto velato all’unico ed ineguagliabile dirigibile della storia del rock, quello dei Led Zeppelin . Uno show incredibile e altamente spettacolare questo di Milano, dall’impatto visivo e sonoro devastante, in cui le canzoni del nuovo album, prodotto da quella vecchia volpe di John “ Mutt” Lange , l’hanno fatta da padrone, con ‘Mercy ‘ e ‘Psycho’ elette a superstar della serata, ma dove hanno trovato spazio anche le celeberrime hit di un recente passato, tutto da incorniciare. E’ mancata solo ‘We Are The Champions… Of The World’, ma è come se ci fosse stata…

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KIllshot Foto di Roberto Villani



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n e g r e b s d r a @ Gera

6 1 0 2 io g g a m [Belgio] 21 Testo e Foto di Andrea Lami

Celluli

te Star

L’idea di partire in tour con gli Hell In The Club è nata, dopo aver seguito tutto il percorso della band e dopo averne apprezzato le qualità musicali ed umane. Un tour nato non certo sotto i migliori auspci perchè quando, di primissima mattina, all’aeroporto, problemi al desk ci fanno perdere l’aereo, l’avventura pare finita ancora prima di essere iniziata. La scossa giunge dalla risposta dell’organizzatore del festival al nostro messaggio di scuse per il volo perso. “La possibilità che voi non veniate al festival non è una opzione accettabile. Vi stiamo aspettando”. Carichi come delle molle prenotiamo un altro volo, ci spostiamo (con i mezzi e portandoci gli strumenti a mano) da Malpensa a Linate ed alle 12 si vola. Arriviamo in Belgio sul filo del rasoio, tanto che approdiamo alla location appena mezz’ora prima dell’esibizione delle nostre compagne di viaggio Cellulite Star, che alle 16.35 possono prendere posto sul palco. L’emozione mista paura di sbagliare per la fretta era tangibile, tanto che ci sono voluti almeno due pezzi per vedere le ragazze (e la tensione) sciogliersi sul palco e finalmente qualche sorriso è spuntato. Se si pensa che solo dieci minuti prima eravamo tutti sul furgone, si capisce l’impresa che abbiamo realizzato! Quando siamo arrivati nella location, praticamente sotto al palco non c’era nessuno e questo ha preoccupato un po’ tutti, ma invece con l’inizio dello show delle band, il pubblico è arrivato ed a iniziato a partecipare. Come sempre c’è stato un momento di studio vicendevole e poi è iniziato il divertimento. A fine show il banchetto del merchandise delle Cellulite Star è stato letteralmente preso d’assalto tanto che i cd sono stati venduti tutti.

NGS

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Si spengono le luci (tra un set e l’altro vengono accese ovunque) e si riparte con i New Generation Superstar che con il loro Rock’n’Roll con influenze punk hanno fatto divertire, non proprio tutti perché parte di esso è rimasto fuori a prendere un po’ d’aria fresca. Il cantante esteticamente un po’ ricorda quello dei Backyard Babies ma lo stile proposto è opposto rispetto a quello del gruppo finlandese. I Wildheart prendono possesso del palco e, a quanto capisco, la band è della zona, vista sia la partecipazione che la lingua parlata dai musicisti con botta e risposta del pubblico. Una manciata di brani con personalità e una dose di melodia che convince anche più dei precedenti New Generation Superstar. Chiude il set una cover dei Whitesnake forse un po’ troppo abusata ma sempre piacevole da ascoltare.

WILDHEART


- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT . Una band da riascoltare e da approfondire. I Knock Out Kaine partono a bomba con un tiro esagerato che spiazza un pochino e che risulta vincente sin da subito. Il cantante ci racconta che questo è il terzo concerto nella terza nazione in tre giorni ma neanche la stanchezza può fermare il rock’n’roll. Anche il loro set si volatilizza senza infamia e senza lode.

KNOCK O UT KAINE Finalmente tocca agli Hell In The Club. Non è per il fatto che abbiamo diviso il viaggio con la band, ma il trasporto del pubblico è palese tanto che le transenne vengono praticamente spostate e la gente poga ad ogni pezzo; il merito va anche ad un brano come “Le circle des horreurs” che è esplosivo. La carica di questo quartetto è letale. Le canzoni che compongono la scaletta (“Proud”, “Natural Born Rocker”, “Shadow Of The Monster” “Enjoy The Ride”) sono state scelte accuratamente e sembrano pallottole sparate da un tiratore scelto, visto che fanno tutte centro. Particolarmente apprezzato “Devil on my shouder”, il brano che ha letteralmente fatto saltare in aria la location. Ogni canzone è un inno al divertimento, tutti saltano, ridono, cantano e ballano. Uno spettacolo nello spettacolo. Finisce il loro show e la gente torna all’angolo del merchandise per accaparrarsi una copia di ogni album.

HELL IN THE CLU B

t

men The Treat

Siamo quasi arrivati al termine del festival quando salgono sul palco i The Treatment, aggiunti all’ultimo per riempire un bill reso più scarno dal forfait delle Crucified Barbara. Ho avuto modo di apprezzare questa band al Frontiers Rock Festival a fine aprile e, riconosciute le qualità del cantante (che proviene da “The Voice UK” ennesimo talent show) dopo questa seconda esibizione, risulta chiaro che la band sa stare bene sul palco, merito anche delle tournèe in apertura di Alice Cooper/Motley Crue/Kiss/Steel Panther però non hanno i pezzi che ti rimangono in testa.

Chiudono un festival letteralmente riuscito i Crazy Lixx altra band che conosciamo alla perfezione, sia per le loro esibizioni che per la loro discografia, oltre al fatto che da questa band è passato tale Vic Zino attualmente chitarrista degli Hardcore Superstar. La novità in seno alla band è l’ingresso del chitarrista Jens Lundren (ex Bai Bang) che abbiamo avuto occasione di conoscere e vedere dal vivo più volte, un chitarrista decisamente bravo e capace. La band risulta affiatata e le canzoni come “Hell Raising Woman”, “Riot Avenue”, “Heroes Are Forever” ma soprattutto “21 til I Die”, ottengono un’ottima risposta. E’ da un po’ che sostengo che i Crazy Lixx siano pronti per fare il grande salto, la serata di questa sera ne è la ennesima conferma.

CRAZY LIX X

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Segreti, consigli, curiosita' dal mondo del tatuaggio

di Alex “Necrotorture”Manco

Il rock, il metallo, sono generi musicali a cui dobbiamo tanto, ci hanno cresciuto, ci hanno regalato emozioni, ci hanno lasciato ricordi ed è da anni ormai che, vuoi per attitudine o vuoi per moda, in tanti si macchiano di inchiostro rendendo i propri corpi delle vere e proprie tele del rock! Il tatuaggio è sempre stato un segno di ribellione, un modello di trasgressione, un segno di appartenenza al nostro mondo… quel mondo fatto di capelli lunghi, jeans strappati, chiodo e maglia nera! Oggi più che mai il tatuaggio ha rag-

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giunto livelli altissimi in campo artistico, veri e propri capolavori a base di inchiostro mostrano su pelle i volti noti delle leggende del rock e gli album preferiti dei metal heads! Ormai non esiste più nessun limite a questa fantastica arte, tatuatori da tutto il mondo possiedono doti incredibili, quello che magari vent’anni fa era difficile da realizzare oggi è possibile soprattutto nell’ambito del realismo dove sembra di avere un qualcosa di incredibilmente reale sul proprio corpo! Sfumature, ombre, colori accesi, tecniche elevate e tanta ma tanta passione fanno si che oggi si possano re-

alizzare delle vere e proprie opere d’arte, pensate esistono tantissimi collezionisti di tatuaggi, cioè coloro che aspettano liste d’attesa infinite per avere un “pezzo” realizzato da noti artisti provenienti da tutto il mondo come il gettonatissimo A.D. Pancho dalla Polonia che ha realizzato uno strepitoso James Hatfield, l’italiano Riccardo Bottino con un coloratissimo Ozzy Osbourne, l’italiana Silvia Pretto con uno stupendo Freddy Mercury, l’ital-

iano Giovanni Speranza con un collage fatto di grandi idoli della storia del rock, lo spagnolo Pedro José Pérez Gonzalez con l’indimenticabile Lemmy ed infine l’ucraino Dmitriy Samohin con un iper realistico Ronne james Dio, tutti artisti riconosciuti a livello mondiale per cui vale la pena aspettare anni per un appuntamento e chiedere un mutuo in banca per pagarsi un’opera d’arte come queste!



ProgSpective di Andrea Schwarz

Dal vocabolario Garzanti “si dice di genere musicale nato in Inghilterra alla fine degli anni Sessanta del Novecento, caratterizzato dalla commistione di numerosi generi (p.e. rock, folk, jazz, blues) e dalla sperimentazione di nuove forme musicali”. Ma il prog non è, e non potrà mai esserlo, una semplice citazione etimologica. Il prog è innanzitutto passione, cuore, sperimentazioni sonore, atmosfere emozionanti accompagnate da tecnicismi a volte esasperati (ed esasperanti) ma se al servizio della Musica riescono a dare al tutto un sapore unico. Il prog è una forma musicale aperta che ha vissuto durante la sua storia momenti gloriosi, ha partorito bands che hanno fatto la Storia della Musica (non solo prog) che a distanza di anni riescono ancora a fare proseliti ed emozionare nuove generazioni di fans. Certo, non sempre quello che è stato prodotto può e deve necessariamente meritarsi la menzione speciale di capolavoro. Ma questo succede in tutte le forme d’Arte. Quando si pensa al prog i

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primi pensieri vanno ai grandi del genere come Yes, Genesis, Kansas, Jethro Tull, King Crimson, Rush, Gentle Giant. E nel nostro Paese il prog ha certamente avuto esponenti che di questa forma musicale hanno scritto capitoli importanti come la Premiata Forneria Mar-

coni, Banco del Mutuo Soccorso, New Trolls, Area, Le Orme solo per citarne alcuni. Tutti gruppi per i quali non basterebbe un’intera enciclopedia per parlarne in maniera esaustiva rendendo pienamente omaggio alla loro carica innovativa sotto il profilo musicale e scenico on stage. Ma

perché parlare di prog rock su queste pagine? Perchè il prog ha subito negli anni influenze diversissime lasciandosi contaminare talvolta dal jazz, a volte dalla musica barocca in un’evoluzione continua ed inarrestabile. Ed anche il metal ha avuto un ruo-

lo non trascurabile in questo percorso forgiando il cosiddetto prog metal, “contenitore” dentro il quale nel corso degli anni si sono sviluppati tantissimi stili diversi. Ed in tutto questo certamente la comparsa nella scena musicale di una band come i Dream Theater ha avuto un ruolo fondamentale che

ormai tutti riconoscono. E pensare che anche loro, dopo il debutto rappresentato da “When Dream and Day Unite” (prodotto da un “certo” Terry Date) hanno rischiato di essere per così dire “defenestrati” dall’allora etichetta MCA sul finire degli anni ottanta (acquistata dalla Universal prima e passata poi sotto l’egida della Geffen). Nonostante brani del calibro di “A Fortune in Lies”, “The Ytse Jam”, “The Killing Hand”, nel 1989 in pochi si accorsero della bravura tecnico compositiva del quintetto statunitense. Fino a quando non pubblicarono un disco pressoché perfetto come “Images & Words”. Annus Domini 1992. Da allora, da gruppo semisconosciuto a stelle internazionali considerati dai più i padri del prog metal, loro che vedevano nei Rush un modello inimitabile sono riusciti a ritagliarsi un importante spazio nella storia del prog. Certo, gli appassionati del genere potrebbero (a ragione) obiettare che prima dei Dream Theater sia i Queensryche con “Operation Mindcrime” sia i


Fates Warning con “Perfect Symmetry” e “Parallels” tracciarono la via che Petrucci & Co. ricalcarono dopo qualche anno. Ma decisamente con un altro effet- to a dir poco deflagrante. Da quel momento l’industria discografica ed il grande pubblico, intento ad ubriacarsi con il grun-

ge di bands altrettanto seminali nel loro ambito come Alice In Chains / Soundgarden / Pearl Jam, si accorsero che il prog dopo essersi nel corso della sua storia contaminato con il jazz ed altre forme musicali, era pronto ad un’altra svolta: la contaminazione con il metal. Non mancò quindi il fiorire in lungo ed in largo di orde di bands che si buttarono sul carrozzone sperando di potersi ritagliare un posto al sole mentre anche le etichette fiutarono l’affare alla ricerca della nuova big sensation del genere. Verso la metà degli anni novanta nacque in Germania la Inside Out Music mentre negli Usa la Magna Carta di Mike Varney e Peter Morticelli si tuffarono in questo nuovo mercato con alterni risultati anche se alcune produzioni che entrambe le etichette pubblicarono in quegli anni sono ancora oggi apprezzabili e godibili a distanza di vent’anni dalla loro pubblicazione. Su Magna Carta imperversavano bands quali Magellan (capitanati dai fratelli Gardner) fortemente influenzati da un prog classicheggiante a lá Yes (“Hours of Restoration” (1991) e “Impending Ascension” del 1994) così come i Cairo dell’omonimo devutto datato 1994 e “Conflict and Dreams”

del 1998, anch’essi influenzati da Yes ed Emerson/Lake/Palmer - Genesis dove le tastiere di Mark Robertson rappresentavano il loro trademark. Menzione di merito per gli Shadow Gallery

di Brendt Allman/Carl Cadden-James e del troppo poco compianto Mike Baker autori di una discografia esigua ma di altissima qualità: basti pensare ad autentici capolavori come il concept album “Tyranny” del 1998 con il loro prog tecnico ma ricco di cori / melodie ariose degne dei migliori Queen e gli originali inserti di flauto traverso (passati poi negli ultimi anni sotto l’egidia Inside Out). Da ricordare i due album “The Great Divide” (1999) e “Liberation” (2001) degli Ice Age che, nonostante la qualitá delle composizioni influenzate da bands come Saga/Styx/Kansas/Rush non li fece conoscere al grande pubblico. Stessa sorte per i Dali’s Dilemma che fin dalla copertina Zappa-esque del loro unico album “Manifesto for Futur-

ism” edito nel lontano 1998 del mastermind e tastierista Matt Guillory (anni dopo fido compagno musicale nella carriera solista di James LaBrie) si rifanno stilisticamente (rielaborando il tutto) ai Dream Theater così come ai

Queensryche di “Operation...”. Magna Carta inoltre riuscì in quegli anni a produrre progetti musicali composti da Trent Gardner con risultati a dir poco eccellenti. Basti pensare ai due dischi editi come Explorer’s Club (l’omonimo debutto del 1998 e “Raising the Mammoth” del 2002) oppure l’affascinante “The Absolute Man -Leonardo” incentrato sulla figura del grande Maestro. In entrambi i casi i musicisti che eseguirono i brani non hanno bisogno di presentazioni: Billy Sheehan, Terry Bozzio, Steve Howe, Steve Walsh, Kerry Livgren, Marty Friedman, John Pe t r uc c i solo per citare alcuni nomi. Dall’altro lato invece riunirono grandi musicisti in superbands create per l’occ a s io ne c o m e Liquid Tension Experiment (Portnoy, Levin, Rudess, Petrucci), Bozzio/Levin/Stevens, Bozzio/Sheehan e con risultati piú che godibili. Parallelamente in Europa, nasce nel 1996 una nuova etichetta che raccoglierà il meglio della produzione prog metal di quegli anni: Inside Out. Sono gli anni in cui questa intraprendente casa discografica indipendente pubblica dischi di Vanden Plas (“The God Thing” del 1997 e “Beyond Daylight” del 2002 tra i loro titoli più riusciti), “Break” degli americani Enchant sempre nel 1998 ed il tecnicismo dei Threshold di “Critical Mass” (1998) e “Subsurface” (2002). A questo bisogna aggiungere la scoperta di autentici astri nascenti del genere come Pain of Salvation (“One Hour by

the Concrete Lake” sempre del 1998 e “The Perfect Element - Part I” nel 2000) senza dimenticare di sottolineare di aver tenuto a battesimo un “piccolo” capolavoro come “The Divine Wings of Tragedy” dei Symphony X (1997) che ancora oggi deliziano le orecchie degli appassionati del genere (e non solo). In ultimo bisogna ricordare la bravura compositiva degli olandesi Elegy che ebbero la sfortuna di pubblicare i loro dischi con etichette (quali T&T prima e Noise poi) che non credettero pienamente nelle loro capacità e (grandi) potenzialità. Ma questa band pubblicò del godibilissimo prog metal in “Labyrinth of Dreams”, “Supremacy” e nel loro indiscusso capolavoro, il concept album “Manifestation of Fear” nel 1998. In ultimissimo, perchè non menzionare l’iper tecnicismo dei tedeschi Sieges Even dei

fratelli Holzwarth? “Steps” (1990), “Sophisticated” (1994) ed “Uneven” (1997) tra i loro titoli più riusciti. Cosa rimane ad oggi di quella scena? Certamente non moltissimo tranne i cosiddetti gruppi storici come i già citati Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas, Fates Warning, Shadow Gallery, Queensryche ed all’orizzonte non si vedono moltissime bands che possano raccoglierne l’eredità tranne rare eccezioni (Redemption, DGM, Circus Maximus, Haken). L’invito è quello di andare a riscoprire alcuni di questi titoli per chi sente quel periodo ancora come contemporaneo per ovvie ragioni anagrafiche ed una scoperta invece per chi non ha mai avuto la tentazione di avvicinarsi in maniera più approfondita a questa affascinante forma d’Arte.

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l a t u r B Stay di Trevor Dopo giorni di sole, è arrivata, finalmente la pioggia, peccato che abbia scelto il giorno della nostra partenza. Dopo due ore di autostrada, da Genova a Orio al Serio, e due ore di volo, siamo in Polonia. A Varsavia, contro ogni pronostico, fa molto caldo. È giovedì 12 maggio, da qui parte il nostro tour, che ci porterà per 32 giorni in giro per buona parte dell’Est Europa. Il pubblico polacco, all’interno della suggestiva cornice dell’Harenda Club si dimostra molto caldo, ci spinge e ci supporta per tutto l’intero show. Siamo felici nel vedere che le prime file conoscono e cantano le nostre canzoni. ‘One thousand memories’,

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‘Season in Silence’, ‘Tearing away’ e la consueta chiusura con ‘Sometimes They come back’, sono sorrette dal livore dei presenti. Soddisfatti per il risultato del primo show, i promoter ci accompagnano alla stazione ferroviaria della capitale polacca, da lì un confortevole treno ad alta velocità ci porterà a Minsk, in Bielorussia, alla volta del secondo concerto. I posti letto sono siti in confortevoli cabine da quattro ma, nonostante la mia richiesta, i miei compagni di band non mi fanno dormire al piano superiore. Arrivati in Bielorussia, complice il ritardo, veniamo portati di- rettamente al Brugge Club. Si tratta di un locale in centro, una città dove vige ancora il regime comunista, dove tutto appare molto ordinato e dove le persone h a n n o voglia di ridere e divertirsi. Il nostro s h o w sembra non esaurirsi com-

p l ic e il pubblico che richiede ancora un paio di bis. Dopo il meet & greet concordato con l’agenzia e il promoter locale, ci dirigiamo alla volta della stazione ferroviaria; i letti delle cabine stanno diventando sempre più la nostra casa. Un treno ci porterà dalla Bielorussia in Russia, tredici show nella terra dello Zar, il primo di questi nella capitale. Quando apriamo gli occhi siamo già in Russia, nell’impero di 18 milioni di abitanti. Noto subito i tratti di una città diventata sempre più cosmopolita, che ha deciso di abbandonare parte delle sue affascinanti origini, tuttavia un giro mattutino nell’imponente Piazza Rossa ci fa rivivere le maestose sensazioni di anni addietro. Il concerto a Mosca rispecchia le nostre previsioni, il pubblico è caldo, siamo davvero orgogliosi nel vedere che anche i ragazzi più giovani si ricordano e cantano insieme a me brani quali ‘Sometimes They come back’, ‘Tribe’, ‘Christmas Beat’, venuti alla luce ormai vent’anni fa. Dopo la capitale Mosca, ci attende un altro concerto molto

i m portante, quello a San Pietroburgo. Per chi ancora non ha visitato questa bellissima città, inutile dire che vi consigli di farlo quanto prima: i suoi canali, la sua cattedrale, l’Hermitage e i ponti che all’una di notte, come per magia, si aprono, sono cose che fanno sgranare gli occhi. Prima il Moskva Hall a Mosca e dopo il Club Zal a San Pietroburgo mi confermano l’attenzione che gli addetti ai lavori hanno per i club, davvero molto belli, con palchi medio- grandi e con impianti potenti, a dimostrare che la voglia di far musica esiste ancora. Attraverso youtube e facebook possiamo dare i giudizi alle nostre serate, i fan non esitano nel postare singole canzoni o addirittura l’intero concerto ad alta definizione... la tecnologia…


Dopo a v e r l a s ciato San Pietroburgo, in prima serata ci attende il volo per Murmansk, città nel nord ovest della Russia a un tiro di schioppo dalla Norvegia. Atterriamo tra le imponenti foreste tipiche dei luoghi; è decisamente più freddo, ai lati della strada i postumi dell’ultima nevicata, dai 24° di Mosca ai 4° di Murmansk, poco male, siamo bestie. Essendo un naturalista convinto, apprezzo molto la vegetazione, i boschi di conifere, quello che mi lascia perplesso sono i palazzoni a fianco. Tuttavia la situazione in quest’ultimi anni, economicamente, sembra essere migliorata anche fuori dalle città più grandi. Il concerto di Murmansk non tradisce le aspettative, il pubblico è caldo e ancora una volta mi rendo conto di quanto la musica può essere magica. Ma è già tempo di cambiare rotta, ancora una volta, attraverso la linea ferroviaria. Chi crede che la vita del musicista sia solo soddisfazione e bagni di folla si sbaglia; ci sono momenti duri, di sacrificio. Nella notte si viaggia per Niznyi Novgorod. Il concerto è fissato al Crazy Train, un locale legato molto all’underground, gestito da giovani ragazzi che provano a far vivere la città. Nel pubblico notiamo molti ragazzi

di giovane età e vecchie glorie, con su tshirt dei Death e Morbid Angel. Non ci sono soste, i tour in Russia sono davvero provanti, la logistica e le distanze siderali non aiutano. Arrivati a Kyrov, ad attenderci il promoter della serata, un biker gentile che gestisce il Black Rose, locale sito ai lati del centro città. Ad accompagnarci due band locali e come di consueto, i nostri amici polacchi Thy Disease, un’ottima band, autori di un Death Metal industriale. Con questi ultimi il rapporto è davvero molto buono, non c’è problema di alcun tipo, si tratta di ragazzi molto professionali e abituati alla vita on the road. Dopo aver salutato i nostri amici bikers ci aspetta un viaggio di 15 ore, treno+pullman, alla volta della bellissima Yekaterinburg. Suggestivi paesaggi, simili al mostro Trentino. Siamo sui monti Urali, tra boschi di conifere e un inaspettato caldo mediterraneo. Lungo il tragitto da segnalare l’intoppo di una gomma bucata, fortuna che l’autista riesce a portare il mezzo fino alla prima area parcheggio, visto la velocità con cui si muovono i mezzi in strada, non sarebbe stato molto saggio cambiare il pneumatico a lato della strada stessa. 15 ore di viaggio e approdiamo a Yekaterinburg, città di 1.500.000 abitanti, molto moderna e più vicina ai gusti occidentali. I nostri nervi sono a fior di pelle,

complice la stanchezza, con Andy ci mandiamo a spigolare anche se, dopo un attimo, ritorna tutto come prima. Siamo di scena al Nirvana, un locale nel centro della bella Yekaterinburg. Il nostro arrivo è stato posticipato, salta il soundcheck: poco male, il nostro tecnico del suono Adrian è molto preparato e dopo le prime note di ‘The devil riding the evil steed’, i suoni sono sistemati. Fa piacere vedere che sotto il palco il pubblico conosce e canta le tue canzoni. Dopo un veloce meet & greet carichiamo i mezzi del nostro backline e bagagli personali, un treno ci porterà da Yekaterinburg a Tyumen, in Siberia. Al momento di preparare la valigia in Italia, il mio pensiero andava proprio alla Siberia e alla scelta di portare una giacca per affrontare i climi rigidi: mi sbagliavo. Fa molto caldo e una quantità di fastidiose zanzare mettono a dura prova la nostra pazienza. Sono stanco e provato, tuttavia la voglia di fare musica è sempre viva e anche il concerto di Tyumen scorre via liscio. Nonostante la situazione economica non certo delle

migliori, arrivati a meno di metà tour il merchandise è stato dimezzato. Dopo il concerto i promoter locali ci accompagnano all’hotel. Al primo piano ci sono sauna e piscina, peccato che la vodka russa e altri liquori entrano nel cuore dei nostri amici polacchi e non solo; la piscina diventa presto una divertente cornice, tra improbabili tuffi, risate, urli e un paio di lampade a bordo piscina andate in pezzi. Pagato il danno, è già tempo di ripartire, si torna a Yekaterinburg, un paio di giorni di day-off precedono la seconda parte del tour, ma di questo vi parlerò la prossima volta. In alto il nostro saluto!

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SHOCKING METAL di Fabio Magliano

Francesco Ceccamea è un pazzo. O forse semplicemente un incosciente. Nel 2008 è balzato agli onori della cronaca per aver pubblicato un romanzo, ‘Silenzi Vietati’, nei quali metteva in piazza con tanto di nomi e cognomi i fatti intimi dei suoi compaesani. Un romanzo che gli valse articoli sui giornali, passaggi televisivi e radiofonici, riconoscimenti in importanti premi letterari ma anche l’ira feroce dei suoi concittadini. Si è quindi lanciato nel mondo del web con Sdangher, un blog dissacratorio dove teorizza a ruota libera di cavalli, metal e pornografia. Il tutto caratterizzato da uno stile ironico, tagliente e sottilmente cinico, che lo rende uno delle penne più interessanti e geniali tra le “nuove leve”. Ecco quindi che l’idea di un libro da lui scritto sulla storia del giornalismo metal in Italia mi è parsa subito decisamente interessante, per l’ar-

gomento trattato e per lo stile di chi andava a trattare questo tema. Peccato che il libro mostri presto la corda, facendo affiorare abbastanza velocemente una fastidiosa sensazione di “voglio ma non posso”. Chiamato a fare da “collante” tra gli interventi di penne più o meno note nel panorama giornalistico tricolore, Ceccamea finisce presto per deragliare rendendo la storia di una scena che, partendo dalle prime fanzine era riuscita a partorire riviste in grado di far registrare numeri anche importanti negli anni Novanta con cinque, sei riviste a contendersi lo scettro di regina del mercato, unicamente una sorta di faccia a faccia tra lo storico H/M e Metal Shock. Un libro nel quale l’autore, amante viscerale delle riviste metal, esprime le sue opinioni personali più o meno condivisibili, ma che fa sorgere più di un punto interrogativo riguardo la completezza dell’opera davanti all’assenza di figure che di questa scena sono state parte attiva e importante, nonché di riviste che, a modo loro, hanno negli anni fatto parlare di sé. Se Francesco Pascoletti, una penna che prima con Metal Shock e quindi con Psycho ha formato decine di aspiranti giornalisti con il suo taglio ironico e vagamente provocatorio, e che ancora tiene alto l’onore della carta stampata in edicola con Classix e Classix Metal recita la parte del leone dissertando su tutto e tutti, ed altri nomi noti come Beppe Riva, Vincenzo Barone, Giancarlo Trombetti, Alex Ventriglia, Gianni Della Cioppa, Sandro Buti e Luca Signorelli dicono la loro con interventi più

o meno frequenti, a spiccare è l’assenza di personaggi che con altrettanto peso e soprattutto passione hanno contribuito a dare dignità ai giornali metal, in un’epoca in cui internet non esisteva, le distanze tra giornalista e artista erano siderali, in cui scrivere una monografia di un gruppo senza l’ausilio di “mamma Wikipedia” richiedeva un lavoro di ricerca mostruoso e mandare in stampa ogni mese una rivista rappresentava un impegno titanico. Spicca (e fa male, almeno per la “famiglia” Metal Hammer) l’assenza di Claudio Cubito, colui che questo marchio lo ha portato in Italia insieme a Luca Signorelli, sorprende l’assenza di Barbara Caserta, di Luca Fassina e della combriccola di Hard!, una rivista forse un po’ mainstream ma che piaceva, soprattutto se si era adolescenti e si era affezionati di Nirvana e Guns’n’Roses, stupisce l’assenza di Rock Hard, a conti fatti l’unico mensile metal a tenere ancora oggi duro in edicola, e mancano all’appello altri personaggi che avrebbero avuto peso e dignità per dire la loro, da Luca Bosio con il suo controverso Distortion a Paolo Piccini, Stefano Cerati e Klaus Byron, da Carmelo Giordano, uno dei fotografi simbolo di quegli anni a Gianluca Grazioli, uno dei primi a credere nelle potenzialità di internet… Qualcosa più che semplici dimenticanze, perché vanno a rendere forzat-

amente incompleto un percorso iniziato tra mille difficoltà negli anni Settanta e giunto sino ad oggi. Ecco quindi che, quel “La storia del giornalismo metallaro in Italia” sparato in copertina finisce alla lunga per rappresentare un peso per un libro forse più rivolto alla ricerca del gossip e della “zizzania” tra le parti (la storia di Metal Hammer avviata con il parere di un collega che afferma “...la rivista non mi è mai piaciuta molto” e più concentrata sugli anni della crisi e dei problemi editoriali che non sugli anni in cui rappresentava un punto di riferimento per il giornalismo metal italiano, lascia alquanto l’amaro in bocca), che non al far riaffiorare la storia vera in cui i “pionieri” erano dei veri “eroi”, magari sviscerando aneddoti, racconti, curiosità che bene o male chiunque abbia bazzicato e bazzichi per le redazioni dei giornali conserva in un cassetto, e che forse sarebbero stati più interessanti delle nove pagine dedicate alla figura di Aldo Luigi Mancusi e agli ultimi anni di Metal Shock. Un libro che alla lunga sa di occasione persa, e che probabilmente con maggiore obiettività da parte dell’autore (e un pizzico di disponibilità da parte di quei colleghi che hanno mancato l’invito di Ceccamea) avrebbe potuto offrire al lettore uno spaccato interessante di una scena che, a modo suo, ha fatto realmente storia.

Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Shocking Metal. La storia del giornalismo metallaro in Italia. Autore: Francesco Ceccamea Editore: Crac Edizioni Pagine: 238 ISBN 9788897389293 Prezzo: 15,00 Euro

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Sixx A.M. Prayers For The Damned Vol.1 (Eleven Seven)

Nikki Sixx (basso), DJ Ashba (chitarre), e James Michael (voce) registrarono la colonna sonora di “The Heroin Diaries” nel 2007, autobiografia di Nikki Sixx riunendosi in Sixx: A.M, considerato appunto un progetto, a cui dedicare il tempo libero. Probabilmente non erano preparati alla risposta dei fan, difatti il seguente album “This Is Gonna Hurt” riscosse un successo incredibile. Nonostante ciò a causa degli impegni di Sixx, con Mötley Crüe e Ashba con Guns N’ Roses, la band non fu portata sul palco fino al 2012. Finalmente le stelle, è il caso di dirlo, si sono allineate e non solo in un nuovo doppio album, il primo volume “Prayers for the Damned (Vol. 1)”, appunto appena uscito, ma in una promessa esorbitante: 24 mesi on the road. Se pensavate che Sixx volesse ritirarsi in pattine davanti a un focolare sbagliavate alla grande! Difatti la band non è mai stata così affamata e i tre musicisti, probabilmente, non hanno mai avuto così tanta voglia di dedicarsi a questa band. Ashba ai nostri microfoni è apparso esaltatissimo e non ha tutti i torti, in quanto “Prayers for the Damned (Vol. 1)” è un gran

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lavoro di heavy rock all’americana, nel quale la sua chitarra non ha risparmiato nulla. L’album è inoltre il primo a includere il batterista Dustin Steinke (ex di Bleeker Ridge), Amber VanBuskirk e Melissa Harding ai cori…insomma una band al completo. Il disco rispecchia questa energia e voglia di conquistare il mondo, di non lasciarsi piegare dai potenti, onestamente ho sempre considerato queste tematiche abusate, ma in questo caso la loro felicità di portare questa band a livelli altissimi mi suggerisce che queste parole non sono populiste ma sentite. ‘Rise’ è il primo pezzo e anche il primo singolo, naturalmente tutta all’insegna di riff pesanti e un groove pazzesco, un pezzo che fa alzare anche una noiosa ascoltatrice di progressive come la sottoscritta. Il brano è un perfetto uncino che ti cattura e ti fa star lì fino all’undicesimo pezzo. L’intro di ‘You Have Come to the Right Place’ continua il lavoro della precedente, dove Ashba mostra quanto onestamente non vedeva l’ora di chiamare i Sixx: A.M come la sua unica band, tuttavia personalmente trovo che il pezzo sia più scontato rispetto al precedente. Tuttavia ‘I’m Sick’ personal-

mente riconquista tutta la mia attenzione, la voce di Michael ha lo spazio per dimostrare tutto il suo potenziale, e seppure il lavoro di Sixx sia eccezionale, è ancora la chitarra ha firmare l’emotività e sottolineare il messaggio. L’album non è solo heavy rock accattivante, vi sono anche sfumature più emotive quali ‘Prayers for the Damned’, che dando appunto il titolo al lavoro si propone come una sintesi e un momento di riflessione dopo il fragore della prima parte. Quello che personalmente ho amato in questo album è come l’album apre e chiude i giochi, atmosfericamente antitetica a ‘Rise’, ‘Rise of the Melancholy Empire’ è in parte una ballata triste che apre con piano e chitarra prettamente malincolica ma ben presto si trasforma in qualcosa di diverso, il pezzo è una continua lotta tra momenti tristi e graffianti e decisamente heavy, la chitarra è terribilmente narratrice e trascina, graffia, taglia. Questo pezzo è quello che davvero merita il voto. Grande protagonista Ashba con una chitarra che da strumento durante tutti i pezzi diventa la vera voce di questa band. Paky Orrasi


Lacuna Coil Delirium (Century Media/Sony)

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Dopo quasi vent’anni di carriera, i Lacuna Coil si sono messi in gioco con “Delirium”, rinnovando la loro energia e il loro stile, sviluppando una sorta di concept album dove tutte le tracce sono accumunate dallo stesso tema e dalla medesima atmosfera. La band ha lavorato per rendere i suoni più pesanti, con prevalenza di parti cantate in growl da Andrea Ferro, fiancheggiato ovviamente dalla vincitrice del Femal Metal Voices Fest Award (per l’album ‘Dark Adrenaline’) nel 2012, Cristina Scabbia. “Delirium” tratta il tema serio e oscuro dei sanatori e oltre che nei testi, si respira nelle composizioni. Si ha l’impressione di trovarsi in un ambiente di sofferenza, talvolta quasi claustrofobico, dove regna un certo disagio di fondo. In alcuni brani, la voce di Cristina sembra emergere dall’oscurità, in linee vocali che talvolta appaiono come lamenti provenienti da altre dimensioni, in perfetto accordo con l’idea dell’album. ‘The House Of Shame’, in

apertura, dà subito l’idea della nuova impronta che la band ha voluto dare a “Delirium”, mentre in ‘Ghost In The Mist’ ritroviamo riassunte le caratteristiche che hanno reso famosi i Lacuna Coil nel mondo: una strofa trascinante, sostenuta da un tappeto ritmico martellante, l’alternanza di growl e voce pulita, un ritornello dolce e malinconico. Non che fosse necessario, ma “Delirium” è l’ennesima prova della bravura tecnica di Cristina, che risplende in pezzi come ‘My Demons’. I Lacuna Coil sono conosciuti musicalmente per le loro ritmiche mid-tempo, le importanti linee di chitarra e il contrasto tra la vocalità maschile e aggressiva a quella femminile e più leggera. Tutto questo ha da sempre caratterizzato il sound dei Lacuna Coil, ma ascoltando “Delirium” si avverte una vena più heavy, linee di basso più presenti (osando, si potrebbe dire quasi alla Korn) e un’orchestralità non abusata, ma utilizzata in maniera intelligente. Non c’è in

“Delirium” un brano d’impatto come ‘Heaven’s a lie’, forse il pezzo che più di altri ha reso famosi i Lacuna Coil nel mondo, ma ciò si configura come una precisa scelta della band. Infatti, le tracce di “Delirium” sono legate l’una all’altra sia musicalmente che concettualmente e per questo motivo non ve n’è una che predomina sulle altre. I nostri connazionali hanno voluto sviluppare un album che avesse senso ascoltato dall’inizio alla fine, distanziandosi dai precedenti lavori per struttura, suono e intenzione, senza però snaturare o rinnegare le peculiarità che da sempre hanno caratterizzato i Lacuna Coil. C’è del nuovo quindi, in “Delirium”, certamente la ricerca di nuove sonorità, ma anche e soprattutto nell’atteggiamento con cui la band si propone. L’ultimo album dei Lacuna Coil è forse il più profondo, intimo e personale che la band abbia realizzato finora. Angela Volpe

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Motorhead Clean Your Cock

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(UDR/Warner) Fa male, fa un male fottuto guardare questo DVD, dopo che, a dicembre scorso, Lemmy ci ha lasciati soli. Direi quasi irrimediabilmente soli, se pensiamo ai mostri che ci attendono all’angolo della strada, ai traditori che ti tendono, ingannevoli, la mano mentre stringono il coltello nell’altra, a tutti quei rappresentanti odierni di un metal-stardom che noi, inguaribili romantici, stentiamo a riconoscere. Si fa ancor più dura, se a mancare sono appunto personalità del calibro di Ian Fraser Kilmister, la cui filosofia musicale e anche di vita restano dogmi imprescindibili per ognuno di noi che fa del metallo pe(n)sante la sua regola esistenziale. Il groppo in gola è davvero arduo buttarlo giù, e questo già alle prime avvisaglie di ‘Clean Your Clock’, autentico testamento audiovisivo che vede la band alle prese con due concerti sold-out tenuti a Monaco di Baviera, il 20 e 21 novembre 2015, battute finali di una tournée europea travagliata, con troppe ombre e purtroppo flebili luci, dato l’altalenante stato di salute di Lemmy che ha complicato non poco i piani continentali dei Motörhead. Ma Lemmy è Lemmy, figurati se c’è qualcuno che può decidere per lui, e con spirito indomito e sprezzante dei dolori che lo tormentano, proprio all’interno del gremitissimo Zenith piazza la sua zampata definitiva, suggellando con una performance di buon livello l’atto finale, di una carriera quarantennale che andrà a

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spegnersi solo un mese più tardi, a causa del tragico epilogo che noi tutti sappiamo… La set-list illustrata su ‘Clean Your Clock’ è di quelle classiche, con un’apertura al fulmicotone per via di evergreen dello stampo di ‘Bomber’, ‘Stay Clean’ e ‘Metropolis’, tanto per ribadire al nemico che, di qui, non si passa, lasciando il testimone a ‘When The Sky Comes Looking For You’ – suona tremendamente profetico l’unico brano estratto da ‘Bad Magic’, l’ottimo ed ultimo studio-album pubblicato l’estate scorsa dallo storico three-piece – e a una notevolissima versione di ‘Over The Top’, tra un Lemmy in vena di battute, pungente e meno tirato del solito, e la chitarra di Phil Campbell in gran spolvero. Un po’ al ralenty è invece la prova complessiva di ‘The Chase Is Better Than The Catch’, prima di ‘Lost Woman Blues’, cavallo di battaglia di ‘Aftershock’ e tra gli highlights dell’intero show monacense, quasi fosse una fase di riscaldamento in vista dello sprint conclusivo. Se ‘Rock It’ tuona vibrante e coriacea, il primordiale fascino di ‘Orgasmatron’ rimane immutato, anthem immortale da annoverare tra i totem assoluti dei Motörhead che vogliamo ricordare! Mikkey Dee è chiamato prepotentemente all’appello su ‘Doctor Rock’, con un grande assolo dei suoi tanto per ribadire di che pasta è fatto, l’eccellente propulsore ritmico di origine scandinava oggi appena assoldato dagli Scorpions per una tournée

negli States. Grazie a ‘Just ‘Cos You Got The Power’e al manifesto ‘No Class’, colpi potenti e bene assestati, la performance dei tre appare solida e convincente, pure Lemmy lo sa, nonostante i suoi gravissimi acciacchi, tra un sardonico ghigno di soddisfazione e quella voglia fremente di non fermarsi mai, pur di conceder tutto se stesso al rock’n’roll, unico e grandissimo amore di Mr. Kilmister. Le ultime immagini di ‘Clean Your Clock’ ci restituiscono una band che getta il cuore oltre l’ostacolo serrando le fila con l’immancabile ‘Ace Of Spades’. Prima del definitivo commiato, con il frastuono del leggendario bombardiere a monopolizzare l’attenzione, sull’onda emotiva di una ‘Overkill’ dal sapore acre, ma intenso. Come ho già scritto altrove, senza Lemmy più niente è come prima, non lo sarà mai, ci manca terribilmente troppo questo eroe della nostra eterna passione, la sua dipartita è stato un dramma autentico, e soltanto oggi si cominciano a raccogliere i cocci dell’immancabile elaborazione del lutto. Detto questo, ‘Clean Your Clock’ può anche sembrare un’operazione di marketing discutibile, forse indelicata vista la tempestività dell’uscita, ma per una volta provo a vederla diversamente, poiché sulle assi del palcoscenico dello Zenith Lemmy si congeda idealmente dai suoi fans, consegnando loro le sue ultime, definitive stille di energia e sudore… A legend will never die. Alex Ventriglia


Destruction Under Attack

70

(Nuclear Blast/Warner) I teutonici Destruction non hanno certo bisogno di grandi presentazioni, la loro ultradecennale carriera li ha visti protagonisti dal lontano 1984 (“Sentence of Death”) fino ai giorni nostri ad eccezione della loro produzione tra il 1994 ed il 1998 che la band stessa tende a non riconoscere, quasi non fossero stati loro i fautori di quelle produzioni (ed a ragione visto l’atipico e moderno “The Least Successful Human Cannonball” del ‘98). Grazie al loro solido sound ed a testi che trattano tematiche sociali, politiche, religiose i Destruction tornano sulle

scene con l’ennesimo disco schiacciasassi, una garanzia per tutti i loro fans e per gli amanti del thrash metal europeo di cui la band è stata tra gli esponenti di spicco fin dagli inizi. Come si evince fin dal titolo, ci troviamo “sotto attacco” a partire dalla prima traccia, quella title track scelta emblematicamente come singolo/video che ci accompagna nei suoi sei minuti in un turbinio di martellanti e gustose parti ritmiche così come avviene anche in altri highlights come ‘Dethroned’ e ‘Getting Used to Evil’ con il suo intro semiacustico, un perfetto mix tra

Death Angel The evil Divide

atmosfere diaboliche e sfuriate elettriche alternate ad un refrain malignamente accattivante e cadenzato. Intendiamoci: niente di nuovo sotto il sole, nessuna novità stilistica ma quello che il combo tedesco propone è suonato e prodotto maledettamente bene. Un disco per qualcuno di mestiere, un po’ troppo omogeneo, ma alla fine di ripetuti ascolti rimane la sensazione di esserci imbattuti in un album che non farà acquistare nuove fette di pubblico ma che risulta essere godibile ed onesto. Andrea Schwarz

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(Nuclear Blast/Warner) Nello sport come nella musica ci sono alcuni casi in cui il motto “squadra che vince non si cambia”. E per i Death Angel di “The Evil Divide” questa definizione calza a pennello. Ormai giunti al terzo album consecutivo con la stessa formazione e lo stesso produttore (Joe Suecof) il quintetto a stelle e strisce produce uno dei migliori dischi della loro ormai ventennale carriera. Ormai, dopo tanti anni di onorata carriera i Death Angel non devono dimostrare niente a nessuno lasciandosi alle spalle l’eredità pesante di autentici masterpieces come “The Ultra-Violence”, “Frolic Through the Park”, “Act III”. E, come ormai stanno facendo dal lontano 2004 con “The Art of Dying”, a ragione Mark Osegue-

da e soci guardano al presente pubblicando dischi di ottima fattura. “The Evil Divide” continua questo percorso di crescita iniziato appunto con “ The Art…” nel 2004 dopo aver praticamente disertato le scene per tutti gli anni novanta. Ed è a partire dall’opener ‘The Moth’ che si capisce subito che qui si fa sul serio. Senza fronzoli e troppi convenevoli i Death Angel spingono l’acceleratore in maniera sapiente ma con costanza, basta ascoltare ‘Hatred United, United Hate’ (primo singolo/video estratto), ‘Hell to Pay’, ‘Breakaway’, ‘The Electric Cell’ facendo sobbalzare dalla sedia tutti i thrasher maniacs! “Lost” rende giustizia alla loro capacità di suonare su ritmi più cadenzati e, per così dire, me-

lodici mentre in “Father of Lies” ci presenta tratti più progressivi con i suoi innumerevoli cambi ritmici e di atmosfera. ‘It Can’t Be This’ e ‘Let the Pieces Fall’ mostrano il loro lato più heavy, tutti i brani sono un perfetto connubio tra heavy riff, vocals pulite ma sempre aggressive e melodie di chitarra che si stampano in testa fin dai primi ascolti. Più il tempo passa e più il sound della band diventa solido ed affascinante, “The Evil Divide” indubbiamente trionfa come uno dei migliori albums thrash metal albums di questo primo semestre ridando fasto a questo genere musicale che sta rivivendo ultimamente i fasti dei gloriosi anni ottanta. Andrea Schwarz

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ascolto. Angela Volpe

Belladonna

sui ritmi del mid-tempo. Si differenziano un pochino brani tipo “Blue Dog” e “All The Way” che sono leggermente più veloci e la ballad “Since You’re Gone”. Come detto non siamo di fronte ad un disco brutto, ma pensando ai musicisti coinvolti, ci si aspettava qualcosa di più. Andrea Lami

The Orchestral Album (Autoprodotto)

88 Otep Generation Doom (Napalm/ 73 Audioglobe)

I Belladonna non sono una band comune, e lo hanno dimostrato nell’arco della loro carriera. Una carriera che li ha visto confrontarsi con mostri sacri del rock, esibirsi in luoghi di culto, prendere parte a soundtrack e trailer di importanti produzioni cinematografiche, riscuotere consensi soprattutto al di fuori dei confini patrii a fronte di lavori sempre di elevato valore artistico, senza però riuscire mai a scrollarsi di dosso una sorta di etichetta di band di culto. Poco male, perchè di fan che li seguono ce ne sono, e tanti. Affezionati al punto da scommettere a scatola chiusa sulla band capitolina e a consentirle di realizzare quello che forse è il disco più ambizioso sin qui prodotto. ‘The Orchestral Album’ inciso insieme ad un’orchestra composta da musicisti nell’orbita del Maestro Morricone, diretta da Angelina Yershova, vede alcuni dei brani più celebri dei Belladonna riarrangiati in chiave orchestrale, in un perfetto connubio tra rock e classico, con il sound sempre suggestivo della band che, in questa nuova veste, emerge ulteriormente in tutto il suo fascino. ‘Beyond The Realm Of Reason’ in questo senso è un piccolo gioiello, nel quale il lato rock del gruppo viene bilanciato alla perfezione dal lavoro dell’orchestra, portando alla luce una band che non esce trasfigurata da questo “esperimento” ma rimane sè stessa, con tutte quelle peculiarità che l’hanno resa famosa nel tempo, con però una marcia in più. Ma la bellezza del disco risiede anche nella incantevole ‘Morpheus’, nella solenne ‘Maria Spelterini’, o ancora in ‘Wonderlust’, una piccola gemma alla quale questa nuova veste dona una nuova vita. ‘The Orchestral Album’ è un autentico viaggio attraverso tutte quelle emozioni che i Belladonna da sempre dispensano con la loro musica, malinconia, romanticismo, inquietudine, dolcezza, rabbia, dolcezza, in un vortice emotivo dal quale è realmente impossibile non venire contagiati. Un nuovo gioiello di cui andare fieri, come band e come italiani. Fabio Magliano

Con la vastità della scena musicale, difficilmente ci s’imbatte in qualcosa di sorprendente. “Generation Doom” è un album che lascia sbalorditi. Gli Otep tornano tre anni dopo l’ultimo lavoro, sotto etichetta Napalm Records. Dodici tracce nu metal martellanti, che non si perdono in raffinatezze. ‘Feeding fanzy’, con quel pianto di bambino in lontananza suggerisce un’atmosfera horror, inquietante. ‘Equal right, equal left’ si distingue per la componente elettronica e ‘God is a gun’ è un viaggio delirante e visionario. Gli Otep riescono anche a divertire con la esilarante la cover di ‘Royals’ di Lorde con il ritornello in growl. Il cantato di Otep Shamaya passa dal rap al growl per assumere tinte melodiche, ad esempio in ‘Lie’. Lo stile di questo album rispetto ai precedenti è forse più moderno, con qualche esperimento melodico. Sembra tuttavia che gli Otep diano il meglio su terreni pesanti, difficile immaginare un’evoluzione melodica della band, anche se pare che con questo disco abbiano voluto gettare qualche base. Non ci si aspetti da “Generation Doom” finezza compositiva o ricercatezza, ma semplice potenza, con un impatto diretto che colpisce al primo

Phantom 5 Phantom 5 (Frontiers)

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Partiamo a descrivere questa nuova avventura targato Frontiers, nata principalmente dall’unione di due cantanti tedeschi, al secolo: Michael Voss (Casanova, Mad Max, Bonfire) e Claus Lessmann (Bonfire) i quali hanno deciso di collaborare per creare questo nuovo progetto. Gli altri strumenti sono stati affidati rispettivamente: la chitarra a Robby Boebel (Frontline), il basso a Francis Buchholz (ex Scorpions) e la batteria ad Axel Kruse (Jaded Heart). Le coordinate musicali sono sempre quelle dell’hard rock di matrice teutonica che viaggiano come all’interno di due binari chiamati Bonfire e Casanova. Quindi perfettamente in linea con quello che ci si poteva aspettare da questi due personaggi. La voce principale è affidata a Claus Lessmann, mentre Michael Voss si occupa dei cori. Con questi cinque assi tra le mani, la partita dovrebbe essere praticamente vinta, ma non è così. Le canzoni che compongono l’album sono piacevoli, ben suonate, ben prodotte (e ci mancherebbe direte voi), ma purtroppo si somigliano un po’ tutte perché più o meno viaggiano tutte

Grand Magus Sword Songs (Nuclear Blast/ Warner)

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Abbiamo visto (o meglio, sentito) il sound dei Grand Magus evolversi nel corso degli anni, partendo dal doom per poi percorrere un sentiero più ampio e battuto, quello del metal classico. Questo cambiamento sembra aver funzionato alla perfezione per il trio di Stoccolma, che nel corso della sua storia ha consegnato nelle mani del pubblico produzioni di grande coerenza e qualità. Una tradizione che viene portata avanti anche da questo ultimo lavoro, “Sword Songs”. Le tematiche, facili da evincere se si ha una minima familiarità con la discografia dei Grand Magus o anche semplicemente dando un’occhiata alla copertina dell’album, rientrano tutte nella comfort zone della band: guerrieri, battaglie e mitologia scandinava; giocare in casa è una scelta poco coraggiosa ma in questo caso funziona: “Sword Songs” è un concentrato

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di riff trascinanti, linee melodiche orecchiabili all’inverosimile e testi che strizzano l’occhio alla tradizione dei Manowar, per la gioia di tutti gli ascoltatori della vecchia scuola. Ciliegina sulla torta: il timbro vocale unico e inconfondibile di JB Christofferson, che fa di lui uno dei vocalist più iconici della scena metal odierna. In linea di massima, “Sword Songs” è un album di ottima fattura, un concentrato di passione ed energia, ma da una band col potenziale dei Grand Magus ci aspetta qualcosa di più. La fiducia c’è, sarà il tempo a dirci se il loro percorso prenderà qualche altra deviazione; è già successo una volta, mai dire mai. Alessandra Mazzarella

Overtures Artifacts (Sleaszy Rider)

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“Artifacts” è il quarto album degli Overtures, band friulana sotto etichetta Sleaszy Rider Records. La produzione del disco è davvero curata e si potrebbe dire al di sopra della media, questo lo rende piacevole da ascoltare e sicuramente apprezzabile. Si percepisce fin da subito la qualità dell’impegno profuso dalla band nella composizione e arrangiamento dei dieci pezzi di cui è composto l’album. Le sonorità sono articolate, un intreccio di heavy, prog e power fusi in-

sieme. Al primo ascolto spiccano gli elementi più classici, determinati in particolar modo dal cantato di Michele Guaitoli, assoli ben incastrati e una base ritmica precisissima. La tecnica dei musicisti non toglie però calore al sound, che si esprime in diverse modalità. Dalla raffinata ed elegante ‘Unshared worlds’, una traccia suggestiva per la quale è stato pubblicato un lyric video, a ‘Angry animals’, un brano più spinto dove esplode in maniera più viva la personalità degli Overtures. Di connotazione marcatamente più epica ‘Gold’ e ‘As candles we burn’. Alcune tracce sono state arricchite da synt e moog, utilizzati con molta oculatezza e buon gusto. In “Artifacts” è stata inserita una bonus track, si tratta di ‘Savior’, brano di punta del precedente album “Entering the maze”, in una veste nuova. Nonostante le influenze di genere, gli Overtures hanno realizzato un prodotto decisamente valido, meritevole di ascolto. Angela Volpe

Dust Bolt Mass Confusion (Napalm/ 60 Audioglobe) Son tempi strani, nella quotidianità come nella musica. Le mode vanno e vengono, tornano e ritornano, a volte ci sono generi musicali che vengono ripresi a dis-

tanza di anni da bands che quel particolare stile non lo hanno vissuto direttamente anche se ne sono rimasti ugualmente affascinati. I Dust Bolt indubbiamente fanno parte di questa categoria di bands che, seppur giovanissimi producono dischi fortemente influenzati da un genere non più sulla cresta dell’onda come più di vent’anni fa. Il quartetto tedesco di Landsberg am Lech la lezione dei grandi Maestri del genere come Slayer - Exodus Metallica - Kreator l’ha imparata ed assimilata molto bene evitando “furbescamente” di rielabolarla in maniera più personale. La produzione è essenziale, lineare, senza inutili fronzoli lasciando il palcoscenico alle undici tracce di “Mass Confusion” che viene pubblicato a distanza di due anni dal precedente “Awake the Riot”. I Dust Bolt si prodigano in tutti i modi di incanalare la loro violenza sonora alla ricerca del giusto groove ed atmosfera (vedasi la title track dove troviamo epiche sfuriate sonore alternate ad altre maggiormente cadenzate in pieno Bay Area style). Altri highlights sono rappresentate da “Turned to Grey”, “Allergy” e “Masters of War” mentre da dimenticare la ballata elettrica “Exit”, priva di ispirazione ed abbastanza scontata e prevedibile nel suo sviluppo compositivo. “Mass Confusion” non farà certo gridare al miracolo per originalità ma potrebbe strappare qualche sorriso ai nostalgici del buon vecchio thrash, l’età è dalla parte dei nostri che nel proseguo della carriera potrebbero stupirci con albums a “maggiore

Flotsam&Jetsam Flotsam&jetsam (AFM/AUDIOGLOBE)

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Ci sono gruppi che nonostante abbiano scritto “una manciata di gran bei dischi” e che abbiano assaporato per qualche tempo il grande successo di pubblico e critica sono sempre rimasti un pò in ombra, quasi relegati al ruolo di comprimari. Ma che non si sono mai dati per vinti sfornando dischi su dischi con alterne fortune. I Flotsam & Jetsam non sfuggono a questo identikit, con una line up rinnovata nuovamente per ⅗ ed a distanza di ben quattro anni dall’ultima fatica discografica ritornano sulle scene con un album a dir poco dirompente. Granitici. Ispirati. Old school. Questi gli aggettivi che vengono in mente subito dopo essersi accostati a questo omonimo album, scelta che sembra legare ancor di più i brani ai loro esordi rappresentati da dischi seminali come “Doomsday for the Deceiver” e “No Place for Disgrace”. Il sound è meno variegato rispetto a dischi come “Drift” o “The Cold” ma decisamente più accattivante ed a “presa rapida” fin dal primo ascolto. La voce di Erik A. ‘AK’ Knutson è sempre istrionica ed ispirata mentre il duo chitarristico Steve Conley / Michael Gilbert ha sfornato le migliori armonizzazioni e riff che il quintetto americano abbia prodotto negli ultimi anni supportato da una base ritmica che è la loro marcia in più, il fiore all’occhiello di tutto l’album. Lasciatevi ammaliare dalla potenza di “Life is a Mess”, “Taser”, “Time to Go”, autentiche chicche per le quali ogni amante dello speed/thrash andrà in visibilio! “Verge of Tragedy” ha un groove meno sfrontato mentre “Forbidden Territories” e “Creeper” hanno meno impatto ma presentano un grande lavoro di intarsi ritmici e vocali. Flotsam & Jetsam è un killer album, uno di quei dischi ai quali ti accosti con un pò di superficialità non aspettandosi niente di particolare ma fin dal primo ascolto questo approccio cambia totalmente trovando notevoli spunti interessanti, primo fra tutti l’aver ritrovato una band con la sua verve originaria che farà felice tutti i loro fans della prima ora. E questa è una gran bella notizia, anche per chi li ha sempre e solo considerati “la ex band di Jason Newsted”. Flotsam & Jetsam, non lasciatevolo sfuggire, non ve ne pentirete. Andrea Schwarz

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tasso d’interesse”. Andrea Schwarz

Volbeat Seal The Deal And Let’s Boogie (UNIVERSAL)

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Logical Terror Ashes Of Fate (darkTunes) 74

A tre anni dal fortunato “Outlaw Gentlemen & Shady Ladies” i danesi Volbeat tornano con “Seal The Deal And Let’s Boogie”, che prende le distanze dallo stile tendente al western del suo predecessore per avvicinarsi ad un tema completamente diverso: il voodoo. L’ispirazione di fondo per quest’album è il sound della Louisiana, patria della magia nera e del southern rock. I Volbeat riescono a mescolare cori gospel, melodie blues e linee vocali dal sentore rétro che strizzano l’occhio al rockabilly con un riffing heavy semplice ma efficace. Con certi esperimenti il fallimento è spesso dietro l’angolo ma non è questo il caso: “Seal The Deal And Let’s Boogie” è un album fatto di pezzi di immediata assimilazione, ricchi di sfumature ma di una semplicità quasi disarmante. Il pregio principale di questo lavoro è l’immensa fruibilità dei brani proposti: accattivanti e incredibilmente orecchiabili come qualunque tormentone estivo ma totalmente privi di quella dozzinale banalità: un paio di ascolti sono sufficienti per creare dipendenza, non se ne ha mai abbastanza. Tralasciando i singoli, che sintetizzano appieno l’essenza dell’album, una traccia che merita una menzione speciale è “Black Rose”, in cui Michael Poulsen duetta con Danko Jones in un trionfo di boogie metal troppo spassoso per essere vero. “Seal The Deal And Let’s Boogie” è il disco perfetto per l’estate: fresco, originale, divertente, che lo cantiate a squarciagola con gli amici o lo balliate nella solitudine della vostra stanza, sarà comunque il compagno ideale di molte ore liete. Alessandra Mazzarella

Cinque anni dopo “Almost Human” i Logical Terror pubblicano “Ashes of fate” per l’etichetta tedesca darkTunes. I nove pezzi di “Ashes of fate” sono davvero un concentrato di potenza, che conquistano fin dalla prima traccia, ‘Ten thousand falls’, che apre con il suono massiccio della chitarra otto corde di Giulio Gualtieri, sostenuto e riempito dal basso di Roberto Pivanti. Il video pensato per questo brano richiama alla guerra e in effetti, la melodia del ritornello, pur nella sua ruvidità, dettata dalla voce graffiante di Emiliano Gozzi in alternanza al growl di Julius Morse Sic, ha un qualcosa di struggente che ben si lega alle immagini proposte nel videoclip. Questo primo brano si può prendere ad esempio per descrivere lo stile dei Logical Terror: la composizione e le strutture ben congegnate combinano in modo fluido parti heavy, riffing alla Dino Cazares (chitarrista dei Fear Factory e altri gruppi death/grind/industrial) a melodie davvero coinvolgenti. Certamente da menzionare anche la seconda in scaletta ‘The world was mine’, che ospita Björn Strid, cantante dei Soilwork, nota band melodic death metal svedese

con la quale i Logical Terror hanno condiviso il palcoscenico. La voce del singer svedese arricchisce ulteriormente il pezzo, già di per sé molto accattivante. E siccome non c’è due senza tre, anche la terza traccia di “Ashes of fate” non delude. ‘Nowhere to nowhere’, oltre a essere decisamente un brano da headbanging, con interessanti spunti compositivi, esplode in un ritornello aggressivo quanto orchestrale. La title track è un brano a dir poco esaltante, enfatizzato dalla partecipazione di Jon Howard, dei Canadesi Threat Signal ed è praticamente impossibile restare immobili o impassibili.E come se la musica non fosse abbastanza, l’artwork dell’album porta la firma di Keerych Luminokaya, artista Indiano conosciuto per la sua collaborazione con i Meshuggah. Il quintetto emiliano ha riunito in “Ashes of fate” davvero tutti gli elementi necessari per produrre un disco energico, che appassiona e si ascolta con piacere. Angela Volpe

Sunstorm Edge Of Tomorrow (Frontiers)

65

Come back da parte dei Sunstorm di Joe Lynn Turner, personaggio che non serve presentarvi viste le sue partecipazioni in band come Rainbow, Deep Purple, Malmsteen, per non dimenticare le preziose

collaborazioni con Glenn Hughes o l’aver preso parte all’ambizioso progetto di Nikolo Kotzev che risponde al nome di Brazen Abbot. Oggi ci troviamo tra le mani il quarto lavoro per questa band. Come sempre il tutto gravita intorno al nome/personaggio di Joe Lynn Turner, assistito ancora una volta da un team italiano composto da Francesco Jovino alla batteria (ex U.D.O. ed attualmente Primal Fear), Nik Mazzucconi al basso (Matt Filippini’s Moonstone Project, Mister X ed altri), Simone Mularoni alle chitarre (DGM, EmpYros) ed Alessandro Del Vecchio (Edge Of Forever, Voodoo Circle ed Hardline) alle tastiere/hammond e cori. Le canzoni che compongono questa ultima fatica suonano fresche e gradevoli merito sicuramente dell’abilità dei musicisti che ne fanno parte. Mancano gli highlight, il pezzo trascinante, il singolo, chiamiamolo così. “Don’t Walk Away From A Goodbye” posta in apertura ci si avvicina parecchio a ciò che cerchiamo ma manca ancora un qualcosa. “Heart Of The Storm” con il suo ritmo indiavolato mi ha ricordato i migliori House Of Lords, non male, proprio non male. Turner non deve dimostrare più niente a nessuno, parla la sua carriera, qui in ogni caso ci mostra la sua ottima forma. Decisamente in evidenza il lavoro chitarristico di Mularoni. Andrea Lami

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Tamas Katai Slower Structures (Autoprodotto)

83

Gli estimatori dell’avantgarde a tinte fosche conosceranno sicuramente il nome di Tamás Kátai, la mente dietro al brillante progetto Thy Catafalque. Tutte le menti illuminate necessitano di numerose valvole di sfogo per la loro creatività e Kátai non fa eccezione. Non ci troviamo davanti ad un mero costruttore di elaborati incubi sonori: la testa e le mani di quest’uomo producono strumenti di tortura emotiva come anche di intenso piacere. Se con Thy Catafalque Kátai si diletta nel creare scenari degni del più vivido dei sogni lucidi, con “Slower Structures”, album firmato con il suo nome, cambia completamente registro e ci mostra un lato di sé molto più vicino al reale e al concreto. Tracce molto brevi, perlopiù duetti di pianoforte e contrabbasso occasionalmente impreziositi da qualche effetto. L’acqua è il filo d’Arianna di questo lavoro: la troviamo in gran parte dei titoli, la sentiamo prendere corpo nei cromatismi e nelle finezze tecniche. A circa due terzi dell’album si torna prepotentemente alle atmosfere a cui Thy Catafalque ci ha abituato: una voce di bambina su nastro e inquietanti sussurri infestano la traccia “Polymer C90” ma l’acqua accorre in aiuto dell’ascoltatore,

spazzando via l’oscurità per sfociare nella scintillante “Hydrangea Blue”, accompagnandolo fino alla fine del disco. “Slower Structures” è un lavoro brillante, una sospensione di luminosa serenità in un universo da incubo, un album imperdibile e disponibile gratuitamente o ad offerta libera su Bandcamp. Alessandra Mazzarella

Vega Who We Are (Frontiers)

75

Quarto album in studio anche per i Vega, band inglese che da ormai sei anni ci regala ottimi produzioni. I precedenti tre lavori ci avevano sorpreso per la qualità e, non fosse bastato questo, la loro esibizione al Frontiers Rock Festival, ce l’ha confermato. Il quintetto torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, prodotto e mixato da Harry Hess (Harem Scarem). “Explode” apre le danze, con un ritmo indiavolato ed un giro di tastiera davvero bello. “Every Little Monster” contiene un chorus ruffiano che vi si appiccicherà al cervello come un chewin-gum sotto la suola degli stivali. Un altro ritornello decisamente (con)vincente è quello di “Saving Grace” merito anche degli “eo eo”. “Hurt So Bad” posta in chiusura prosegue sulla rotta segnata, melodia interessante con cori canticchiabili fin da subito. “Nothin Is Forever”

è un lentone di quelli fatti bene, dove il testo si sposa all’atmosfera costruita dalla musica. Ormai è di moda essere vegetariani/vegani in difesa degli animali, noi non vi chiediamo di cambiare la vostra dieta alimentare, non ci interessa cosa mangiate e quanto amate gli animali, se amate la musica buona, diventerete anche voi vegani a pieno titolo. A promozione dell’album, la band aprirà le date inglesi dei Magnum e si esibirà in vari festival, tra cui il Steelhouse Festival insieme a BLUES PILLS, FASTWAY, THE DARKNESS, senza dimenticare che si esibiranno dalle nostre parti e più precisamente al Grind House Club di Padova l’1 ottobre, quindi ci vediamo lì. Andrea Lami

Scorpion Child Acid Roulette (Nuclear Blast/ 55 Warner) Nati nel Texas dieci anni or sono, gli Scorpion Child, conosciuti anche semplicemente come i “The child”, hanno dato alla luce un album, un ep e qualche singolo, che gli ha permesso di arrivare a firmare un contratto con la Nuclear Blast per merito anche del lavoro svolto con produttore Chris “Frenchie” Smith (nominato al Grammy) ed per aver raggiunto la 26° posizione della classifica Billboard Heatseeker ma soprattutto dopo che il singolo “Polygon

Katatonia The Fall Of Hearts (PEACEVILLE) 90

Nonostante io sia una fan dei Katatonia sin dal primo album, non di certo ho sempre gridato alla loro perfezione discografica. Tuttavia, “The Falls of Hearts” è la coronazione di un itinerario musicale, durante il quale i Katatonia hanno sfidato ogni retorica e percorso una tortuosa strada stilistica per esplodere in quello che Renkse ha definito “un bellissimo fiore che è sbocciato, il compimento di quello che probabilmente avevamo in noi, elementi inconsci che finalmente sono apparsi in questo album”. Il decimo lavoro della band svedese non potrebbe essere riassunto in maniera migliore. Dopo un percorso acustico Renske e company hanno ripreso dal 2012, non dimenticando la lezione assimilata durante l’esecuzione dei pezzi denudatati, ossia un’intima vicinanza con la loro musica. In quest’album ritroviamo l’uso di astuzie prettamente katatoniane, quali evitare l’intro, per spingere l’ascoltatore nell’abisso del loro mondo senza preparativi. Il loro universo è difatti spiazzante e la voce di Renske vuole cattura senza preavvisi. ‘Takeover’ e ‘Serein’ aprono l’album proprio in questo modo, con voce coinvolgente, e commovente di Renkse, che non ha bisogno d’aggiungere nessun effetto alle sue corde vocali, la sua è una voce davvero unica nel genere; la potenza è nella capacità di dissolversi tra gli strumenti, di raggiungere emozioni che molti hanno paura di avvertire. Un lavoro che racchiude tutti le nuance di questa band, dicevamo e difatti anche firma heavy e progressive è ben presente in pezzi quali ‘Serac’, dove l’unione di riff di chitarra molto tecnici, fantasie ritmiche con una batteria impressionante presenta una band che con l’aggiunta di Öjersson e Moilanen non ha alcun margine e può varcare ogni regola. Quest’album è un lavoro magistrale che seppur intrigato riesce facilmente a scivolare nel subconscio di chi ascolta e lo fa senza sforzi, proprio come la loro evoluzione. Per anni gli elementi multi-stilistici di questi svedesi hanno pulsato, affiorando a intervalli ma ora l’esplosione è avvenuta e tutto ha preso ordine. “The Falls Of Hearts” è una nuova pietra angolare con tutti i suoni cupi tipici della band ma subliminati dal lavoro melodico e una matrice progressive. Paky Orrasi

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Avatar Feathers&Flesh (ANOTHER CENTURY/SONY) 85

Il sole splende e un animale si staglia nel cielo con una sola missione: spegnere il sole. Questa è la sfida che gli Avatar impongono al protagonista del loro primo concept, un antitetico gufo opportunista e testardo che dovrà vedersela con un sacco di altri animali e affrontare mille peripezie, prima di incorrere nel funesto finale. La band svedese arriva in questo 2016 con un solo scopo, fare il passo decisivo, quello della maturità e, a dirla sin da subito, ci riesce ampiamente. Il clown pazzo, all’anagrafe Johannes Eckerström, è riuscito nel suo intento impiegando intelletto e non poca fatica nel plasmare la storia che sta alla base di “Feathers & Flesh” e, assieme ai suoi musicanti, a trasporla in musica senza snaturare il sound del gruppo. In un concept è sempre un peccato mortale segnalare quali sono le tracce highlight, perché un disco come questo va ascoltato dall’inizio alla fine, senza interruzioni, come si fa da molti anni a questa parte con “Nightfall In Middle-Earth” dei Blind Guardian. Chissà perché il paragone con questo storico album mi viene scontato, potrà sembrarvi un’eresia, ma dal mio punto di vista non lo è. La complessità di concezione c’è tutta e le aspettative dei fans degli svedesi sono sicuramente alle stelle, anche per quel che riguarda la messa in scena live di “Feathers & Flesh”, che mi auguro essere spettacolare tanto quanto lo è la musica al suo interno. Tecnica, cuore, sangue e tempo stanno dietro a questa fatica, c’è da giurarci, e la produzione magistrale ad opera di Sylvia Massy non fa altro che aggiungere benzina al fuoco di un lavora che mi auguro non si spenga così facilmente. Chapeau! Stefano Giorgianni

Of Eyes” è diventato il singolo della settimana (il 25 giugno 2013). Le sonorità della band prendono a piene mani dalla musica anni 70 quando band come Led Zeppelin, Rainbow, Deep Purple erano i maggiori esponenti del genere al quale hanno unito un po’ di rock psichedelico. La band ruota intorno alla figura del cantante Aryn Jonathan Black anche perché durante gli anni gli altri membri sono stati praticamente sostituiti tutti. Si parte con “She Sing I Kill”con un cantato molto Plantiano per passare a “Reaper’s Danse” la cui struttura ricorda i Deep Purple, “Tower Grove” sembra essere figlia della famosissima “Long Live Rock’n’Roll” singolo dei Rainbow e “Might Be Your Man” si avvicina a “Mistreated” dei Deep Purple. Il problema di queste band che si rifanno a certe sonorità è che le band che le hanno create e rese famose oggi sono pietre miliari e quindi avvicinarsi a questi brani può mostrare una sorta di carenza di personalità. Dopo dieci anni di attività, il contratto con la Nuclear Blast, anche se con poco materiale all’attivo, mi aspettavo decisamente un po’ di più. Andrea Lami

Sfregio Stronzi (Autoprodotto) 80 Canto del cigno anche per gli Sfregio che

chiudono la loro storia con la pubblicazione di “Stronzi”, terzo ed ultimo album della band ligure nata un po’ per scherzo e che, a seguito del grande consenso ricevuto un po’ da tutti, hanno pubblicato album e suonato un po’ ovunque. La caratteristica principale degli Sfregio è sempre stata la sfrontatezza e la genuinità. Questi quattro rocker sono esattamente come ve li immaginerete leggendo i testi di queste canzoni. Credibilità. C’è molta credibilità in questo progetto, si parla di sbronze, di fumare, di scopare, insomma c’è di tutto come sempre, passando per le denunce di quello che abbiamo sotto gli occhi, problemi come la pedofilia nella chiesa (“Pretofilia”) o il leccaculismo diffuso ovunque (“Anilingus”) per arrivare a chi si approfitta per proprio interesse della passione dei vari musicisti (“Stronzi”). Chiude l’album il bluesaccio “Porno Alcoolic Thrash’n’Blues” l’unico episodio un po’ più tranquillo, anche se il testo non parla di sofferenza, come classico del blues, tutt’altro. Il genere proposto è stato dagli Sfregio definito Porno Alcoolic Thrash’n’Roll ed effettivamente c’è tutto in questa definizione, forse manca una punta di punk. Salutiamo ancora una volta la band e ciò che abbiamo in mano resterà per sempre a testimoniare quello che questi quattro barboni sono riusciti a fare. Grazie per le risate e per le serate passate insieme. PS L’album è frutto del crowdfunding, ma ne esistono ancora delle copie, contattate il

Grinder su FB (https:// www.facebook.com/roby. grinder) ma fate veloci. Edizione in numero limitato che, chissà, magari tra qualche tempo potrà aumentare il suo valore. Andrea Lami

Terrorway The Second (Bakerteam)

60

I nostrani Terrorway, come ben si intuisce dall’emblematico titolo, arrivano ad incidere con “The second” il loro secondo album a distanza di ben tre anni dal precedente debutto. Questo nuovo album presenta il nuovo arrivato Andrea Orrù dietro il microfono ma con poche novità sostanziali rispetto alla precedente produzione. I loro modelli di riferimento continuano ad essere bands come Strapping Young Lad, Meshuggah e Dillinger Escape Plan anche se qui i ritmi si fanno più lenti e cadenzati, il sound che pervade le undici tracce presenti è troppo spesso derivativo lasciando poco spazio ad una personale rivisitazione nonostante la grande tecnica che il quartetto è in grado di sfoggiare. Il disco risulta essere fin troppo omogeneo e privo di quel cuore e forza ispiratrice che possa elevare i Terrorway una spanna sopra le miriadi di bands dedite al genere e che possa renderne godibile l’ascolto senza, ogni tanto, schiacciare il tasto forward per ascoltare il brano successivo in scaletta. Certo non

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si può obiettare il fatto che il quartetto non ci abbia messo tutta la volontà necessaria per far sì che “The Second” possa essere ricordato nei prossimi anni a venire, tecnicamente ineccepibili ma senza quella ispirazione e voglia di sperimentare che li avrebbe certamente distinti nel turbinio e corto circuito delle innumerevoli quotidiane uscite discografiche. Da rivedere. Andrea Schwarz

Sevi The Battle Never Ends (Autoprodotto)

75 Seconda fatica per i bulgari SEVI che immettono sul mercato il seguito di “What Lies Beyond” (2012), continuando a diffondere quello che loro stessi definiscono “heart-rock” per esaltare la passione e il cuore che mettono nei pezzi. La band composta da Svetlana “Sevi” Bliznakova (voce), Rally Velinov (basso), Temelko Temelkov (chitarra), Pavlin Ivanov (batteria) e Dessy Markova (keyboards, backing vocals) propone un hard rock, con sprizzate di metal e arrangiamenti, che non sarà sgradito agli amanti del genere. Il disco si apre con un pezzo che potete ascoltare su internet, essendo stato lanciato come anticipazione con video annesso, “Don’t Hesitate”, che fa risaltare la voce della frontwoman e la

melodia che accompagna tutte le composizioni della band; un brano da rotazione in radio. Così in tracce come “Screw You, Honey”, “Bitter Of Taste”, “Supernatural”, “Goodbye”, “Destiny” e “On My Own” si intuisce l’attaccamento al rock classico della band bulgara, che non sfigurerebbe nel passaggio in trasmissione radiofoniche, anche commerciali per l’orecchiabilità dei pezzi. Rock di qualità e dal cuore. Promossi! Stefano Giorgianni

Vade aratro Il Vomere di Bronzo (Andromeda Relix)

70 Bel colpo questo dell’attenta Andromeda Relix che propone una band assolutamente fuori dagli schemi. A voi, amanti del metallo campagnolo o agreste, è dedicato questo disco dei Vade Aratro, come si definiscono loro “una piccola orchestra” formata da tre elementi, oserei dire incontenibili. “Il Vomere di Bronzo”, questo il titolo del fulllength di un trio formato da Marcello Magoni (voce, chitarra, basso, percussioni, organo e scalpello da scultore) dei Malnàtt, Federico Negrini (basso e voce), Riccardo Balboni (batteria). Tre pazzi insomma, che picchiano come folli fabbri faziosi e cantano, ovviamente in italiano, le “belle canzoni di una volta” in salsa thrash e altri cinquecentodue ge-

neri che si fanno fatica ad annoverare in questo ristretto spazio. Nel disco dei Vade Aratro ci sono tradizioni, antiche memorie ripercorse sul filo del pentagramma, da ‘Maiale’ a ‘Brusa la Vecia’, pezzi nominati non a caso per la distanza del sound che li separa, così come la strumentale ‘Tsocs’, una melodia parrocchiale della Settimana Santa metallizzata per l’occasione. Disco originale e curioso senza discussioni. Da provare per tutti. Stefano Giorgianni

Ted Poley Beyond The Fate (Frontiers)

85

Galetotto fu il Frontiers Rock Festival 2015 e coloro che lo organizzarono. L’anno scorso Ted Poley fu uno dei protagonisti dell’edizione insieme ad una band tutta italiana. I vertici della Frontiers, catturati da quella esibizione hanno deciso di puntare sul questo cavallo vincente e gli hanno costruito tutto intorno una squadra di prima grandezza (composta da Alessandro Del Vecchio batteria tastiere e cori; Anna Portalupi basso; Mario Percudani chitarra) capace di dare alla luce undici brani di ottima fattura. Anche se il songwriting è stato affidato ai fratelli Tom e James dei Vega, le canzoni suonano tutte molto Danger Danger oriented. Ne sono una dimostrazione l’allegra

Suidakra Realms of Odoric (AFM/AUDIOGLOBE)

89

Per chi segue i diversi progetti di Arkadius Antonik la svolta repentina che il sound dei SuidAkrA ha subito in questo nuovo capitolo della loro discografia era praticamente annunciata. Gli indizi erano ovunque: negli arrangiamenti orchestrali del progetto messo in piedi con l’artista Kris Verwimp, nei passaggi sinfonici dell’album del 2013 “Eternal Defiance”, perfino in quel sentore orientaleggiante che permea il debut album dei Fall Of Carthage. In questo nuovo album, “Realms Of Odoric”, Arkadius ha scommesso con se stesso e ha vinto: il concept ideato da Kris Vewimp prende vita con una commistione ponderata di passaggi d’orchestra e sano death metal. E funziona perfettamente, in barba a tutti coloro che avevano storto il naso davanti agli archi nell’album precedente.“Realms Of Odoric” è strutturalmente complesso, ricchissimo di dettagli ed estremamente variegato a livello compositivo. Il sound da folk celtico viene parzialmente accantonato per dare spazio a linee melodiche e strumenti esotici che richiamano l’Oriente. Gli elementi sinfonici danno sapore, costruiscono l’atmosfera, collegano i movimenti dei brani, descrivono gli ambienti in cui i personaggi del regno di Odoric si muovono e ne riflettono gli stati d’animo: a dispetto di quella grande fetta di critica che ha visto l’introduzione di sezioni orchestrali nella musica dei SuidAkrA come una minaccia all’integrità e alla pesantezza della band, il risultato finale è magnifico: la potenza e l’imponenza del sound sono state magnificate proprio dalla componente sinfonica, che abbraccia il death metal senza prevaricarlo, in un perfetto equilibrio delle parti. Un altro punto chiave del successo di quest’album sta nei guest vocalist: oltre all’immancabile Tina Stabel, che in questa occasione ha avuto modo di brillare su gran parte delle tracce, hanno prestato la propria voce anche Metti Zimmer (Perzonal War) e Sascha Aßbach, che in “Braving The End” duetta con Tina in quello che è il momento più toccante dell’album. “Realms Of Odoric” è il perfetto coronamento di vent’anni di carriera, un prodotto che solo una grande band poteva creare. Imperdibile. Alessandra Mazzarella

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Jelly Jam Feathers&Flesh (MASCOT/EDEL) 85

Con Ty Tabor (King’s X), John Myung (Dream Theater), Rod Morgenstein (The Dixie Dregs, Winger) la cretura Jelly Jam vantauna famiglia regale. Ma l’ggettivo supergroup non sempre è equivalente a musica sentita, emozionante e specialmente di grande qualità. I Jelly Jam non danno per scontato il loro successo e arrivano con un nuovo album “Profit”, un concept album non deciso a tavolino, un viaggio non solo musicale ma anche narrativo che si è naturalmente scritto da sé. Narrativamente “Profit” è un viaggio dove i brani seguono l’avventura eroica del Profeta, ove la sua determinazione vuole aprire gli occhi di chi non vede un mondo che sta andando in rovina a cause della smania di potere. Questo lavoro musicalmente si dimostra una perfetta colonna sonora che rileva, sorregge e arricchisce ogni capitolo. Con brani tra i tre e cinque minuti, “Profit” va aldilà dei clichè progressive mantenendo alta la tensione e musicalità concettuale in un matrimonio sonoro tra The Beatles e Genesis, questo è il prog che più amo. Inoltre la passione di Myung si rivela in ogni nuance, l’estrosità del suo basso si libera e assume ancora maggiore personalità rispetto al lavoro con i Dream Theater, difatti è proprio lui a sottolineare quanto liberatoria sia l’esperienza targata The Jelly Jam. Gli amanti del classic prog si ritroveranno a casa e inoltre l’album riesce a unire un’accessibilità sonora che sedurrà anche chi ha riserve sul genere. Paky Orrasi

“Everything We Are”, la divertente “Hands Of Love”, senza dimenticare “Highes” e “Let’s Start Something” i due singoli estratti. “The Perfect Crime” consolida l’intesa tra Poley ed Issa, iniziata proprio sul palco del Frontiers e confermata oggi su cd. Un hard rock melodico che tanto era di moda nella fine degli anni 80/ inizio anni 90 che ancora oggi raccoglie a sé un gran numero di fan. Chiude l’album la ballad “Beneath The Star” dolce, intima, toccante e melodica quanto basta per farvela cantare. Accogliamo a braccia aperte il ritorno di Ted e speriamo che, complici i suoi musicisti, possa tornare ancora a calcare i palchi italiani, frontman come lui sono rari ed è sempre un piacere incontrarli. Andrea Lami

passione da un gruppo che di strada davanti ne ha molta. La cura che si scorge da pezzi come “Leave Me Here” o “The Gate Of Time” non è per nulla scontata se si pensa che “Palindromia” è l’opera prima dei Fatal Destiny, che in ogni tratto evidenziano i loro pregi, a partire dalla sezione ritmica composta da Nicolò Dalla Valentina e Filippo Zamboni per passare ai riff e alle melodie dell’ascia di Riccardo Castelletti e alle atmosfere e agli arrangiamenti dell’ospite Alessandro Bertoni. Pregevole anche la prova del vocalist Andrea Zamboni, anche se a volte soffocato dal poderoso suono degli strumenti, che sembra ergersi un muro di suono talvolta invalicabile. Nota per le tastiere che sono state registrate agli studi di Derek Sherinian, cui lo stesso Bertoni sembra a tratti ispirarsi. Insomma, buona la prima, aspettiamo il seguito. Stefano Giorgianni

Fatal Destiny Palindromia (Andromeda Relix)

70 Prima cosa che salta all’occhio del disco dei Fatal Destiny è l’artwork. Un metallaro attento non può evitare di notare la mano di Felipe Machado (Blind Guardian, Rhapsody of Fire, Rage, Iron Savior) sulla copertina di questo disco d’esordio dei veronesi. Alla base del sound della giovane band c’è un prog metal raffinato, colmo di sfumature e melodie ricercate; otto tracce scritte con

Kaipa Remaster Cds (Season Of Mist/ Audioglobe)

70

I Kaipa, dal loro ritorno sulle scene del 2002 con “Notes From The Past”, hanno ritrovato una verve creativa di tutto rispetto sia qualitativamente che quantitativamente avendo realizzato ben 7 albums in studio ed una antologia nel 2005 che raccoglieva i loro primi 2 lavori.

Ed oggi è la volta dei loro 3 album successivi, tutta la loro produzione fino al 1982, anno del loro scioglimento. Ci troviamo di fronte quindi alle riedizioni rimasterizzate di “Solo “(1978), “Haender” (1980) e “Nattdjurstid” (1982): si notano subito i suoni e le soluzioni artistiche un pò datate ma bisogna considerare il contesto e gli anni in cui questi 3 albums sono stati originariamente pubblicati. E’ bello poter riapprezzare probabilmente il loro lavoro più completo, quel “Solo” in cui le parti strumentali la fanno da padrone dove l’estro di Roine Stolt è messo in risalto a tal punto da notare molte similitudini che accompagnano la sua produzione odierna con i Flower Kings. “Haender” invece è il primo disco senza l’apporto del defezionario Stolt e se ne denota subito la mancanza, le coordinate sonore si rifanno al primo Peter Gabriel solista e ad una versione più dark degli Abba, disco alquanto mediocre il cui ascolto si fa un pò troppo faticoso. Il terzo ed ultimo album della serie, “Nattdjurstid” continua la loro fase discendente presentando un sound synth/elettro-pop vicino alle sonorità dei Talking Heads. Insomma, una buona notizia la riedizione di “Solo” caldamente consigliata a tutti gli amanti del prog mentre avremmo fatto a meno delle riedizioni dei dischi peggiori della loro intera discografia. Andrea Schwarz

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prima, sensazione che si ha anche in “Beast Above Man”, “The Eternal Eclipse”, nella sinistra “As I Ascend” e nella imponente title-track. Imperdibile! Stefano Giorgianni

imporsi nei prossimi anni come baluardo del genere. Nel mentre non perdetevi questo “Scars and Crosses” se volete farvi trascinare in fondo al barile dell’anima. Stefano Giorgianni

High Fighter Scars And Crosses (Svart Rec.)

Mortillery Shapeshifter (Napalm/ Audioglobe)

Debutto tosto questo degli High Fighter, propositori di un genere abbastanza difficile da inquadrare, sulla strada dello sludge, stoner, doom e altri generi maledettamente sani. Registrato ai RAMA Studio di Mannheim sotto la supervisione di Jens Siefert (Ahab, The Hirsch Effect, Fjørt) con il mix curato da Toshi Kasai (Melvins, Big Business), questo “Scars and Crosses”, che succede all’EP “The Goat Ritual”, si pone come un psichedelico viaggio nell’intimo umano, fra le cicatrici della persona e le croci che albeggiano nel dubbioso cielo dell’esistenza, elementi ben rappresentati nell’artwork di Dominic Sohor. Al di là del cosciente songwriting, primeggia la versatilità vocale della vocalist Mona Miluski, capace di destreggiarsi nel pulito e nello scream ad esempio in “Darkest Days” e nella potente “The Gatekeeper”. Un gruppo gli High Fighter che riscuoterà senza dubbio consensi fra gli amanti dello stoner/sludge e che ha le capacità per

I Mortillery giungono con “Shapeshifter” al loro terzo disco su Napalm che li mise sotto contratto nel 2012 dopo gli ottimi riscontri del loro primo full length. . Son passati ben tre anni dalla loro ultima fatica discografica ma non ce se ne accorge minimamente. Le coordinate stilistiche che hanno contraddistinto la loro precedente produzione la troviamo ripresentata su queste 12 tracce (compresa la cover dei Motorhead “Shine”), uno speed thrash old school ed essenziale. Come la produzione, non ci troviamo di fronte ad un suono iper compresso come si è troppo spesso abituati ad ascoltare ma è bene sottolineare che ben di meglio avremmo potuto aspettarci in tal senso viste le moderne tecnologie. Soluzioni sonore un pò ripetitive e scolastiche piene di irruenza che però poco lasciano nell’attonito ascoltatore, la commistione di voci graffianti alternati a buoni vocalizzi in stile classic metal della frontman Cara McCutchen è apprezzabile anche se alla lunga è ripetitiva e stancante.

Tanzwut Schreib Es Mit blut (AFM/AUDIOGLOBE)

80

Dark Fortress Where Shadows Forever Reign (Century Media/ Sony) 80 L’inferno in terra non è mai stato così dolce. Quando si parla di Black Metal, la Scandinavia è il crogiolo pullulante da dove tutto ha avuto origine e ad ogni uscita di Dark Funeral (o di qualche altro gruppo storico), quel diavoletto che alberga nella maggior parte degli appassionati si risveglia. “Where Shadows Forever Reign” è in questo senso uno dei dischi più attesi di questo 2016 e dobbiamo dire che non ha deluso le aspettative. Certo, l’abbandono del vocalist Emperor Magus Caligula aveva fatto un po’ temere, ma Lord Ahriman aveva rassicurato tutti e ci aveva preparati ad accogliere questa nuova fatica come la discesa di un anticristo. Bene precisare che non si è di fronte a una rivoluzione che sconvolgerà il genere, ammesso che ciò sia possibile, però “Where Shadows Forever Reign” si piazzerà senza alcun dubbio fra migliori uscite Black di quest’anno. Andreas “Heljarmadr” Vingbäck assolve il suo compito alla grande, riuscendo a non far rimpiangere Caligula, pur essendo lievemente meno potente del predecessore. L’impatto dell’opener “Unchain My Soul” è la riprova che i Dark Funeral sono tornati più assatanati di

70

55 Negli ultimi anni quello delle associazioni improbabili sembra essere diventato un trend di punta: i Tanzwut ci dimostrano di essere al passo con i tempi portando avanti anche con “Schreib Es Mit Blut”, il loro decimo album, l’antitetico binomio industrial/ mittelalter. Funziona? Certo che sì: Teufel e soci presentano un album basato sui contrasti, tanto oscuro nelle tematiche quanto divertente nell’atmosfera, in cui le sonorità sintetiche tipiche dell’industrial vengono amabilmente mitigate da strumenti e melodie folk. “Schreib Es Mit Blut” è abbastanza consistente nella durata (quindici brani, bonus track inclusa) ma facilmente digeribile e riccamente variegato nello stile: ci si districa tra brani a stampo più heavy come la titletrack “Schreib Es Mit Blut”, passando per creazioni non esattamente originali come l’esilarante “Hahnenkampf”, rivisitazione in chiave Tanzwut della popolare canzonetta per bambini “Le Coq Est Mort”; una menzione particolare spetta a “Stille Wasser”, una ballad solida e di grande spessore nella sua delicatezza; diversa da tutto il resto dell’album, è un dolcissimo spartiacque posizionato proprio al centro della tracklist e viene riproposta, con la partecipazione di Liv Kristine ( ex Leaves’ Eyes), come traccia extra. “Schreib Es Mit Blut” è l’album ideale per chi necessita di una botta di vita nella sua discografia e non ha paura di sperimentare; una chicca da non perdere. Alessandra Mazzarella

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KIllshot Foto di Alice Ferrero




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