Riders Daily Eicma

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THE GREATEST LIFESTYLE MOTORCYC L E M A G A Z I N E

CARLO TALAMO

L A F O L LI A DI UN GENIO CHI HA PORTATO L E HARLEY-DAVIDS ON ( E LA CALIFORNIA) IN ITALIA ERA UN INNOVATORE

UN UOMO COMPLES S O , DIFFICILE, FRAGI L E E BIZZARRO. MANCA DA 15 ANNI

GLI AMICI DELLA PRIMA ORA LO RACCONTANO. RITRATTO INTIMO DI UN VISIONARIO





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EDITORIALE

ADESSO CHE LE SPECIAL LE FA PURE MIO NONNO

MORENO PISTO

Non ho tempo

limite dentro di te. Questo era il prezzo

Troppo spesso penso di non farcela e poi

per non sentirsi omologato. Perché vogliono

qualcosa succede sempre

farci essere tutti uguali? Così ti chiedevi

Doveva essere così anche per te.

in una delle tue poesie a cui qui mi sto indegnamente ispirando.

Perché tu? Perché eri Riders prima che

Perché non vogliamo sentirci unici?

Riders venisse pensato

Già.

Perché avevi gusto, strategia, visione, perché più una cosa era imposta - dalle

Adesso che le special le fa pure mio nonno,

regole, dalla società, dal buon senso - più

che se non ti metti i calzini ti danno

te ne fregavi, e più eri irriverente e più

dell’hipster, adesso che più di prima devi

ti divertivi e più eri sconvolgente e più

essere inquadrabile, categorizzabile,

eri sublime

omologato altrimenti facebook ti blocca, Instagram ti banna, la pubblicità ti

Stare male, soffrire, essere inquieto era

scanna, il mercato ti scarta, adesso e

tutto ciò che c’era prima e tutto ciò che

proprio per questo è giusto parlare di te e

c’era dopo. Come capita ai tormentati. Per

di persone come te. Quelli che danzano con

fortuna che i tormenti vengono silenziati

la vita, le uniche persone che esistono per

da un motore, dalla notte, da una donna, da

quelli come noi, o sbaglio? I pazzi, sì,

una passione.

lo ha già detto qualcun altro: i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza,

Qual è la tua strada, amico?

i pazzi del tutto e subito, quelli che non

La strada del santo, la strada del pazzo,

sbadigliano mai e non dicono mai banalità

la strada dell'arcobaleno, la strada

ma bruciano, bruciano, bruciano come

dell'imbecille, qualsiasi strada.

favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e

Senza di te: le Harley sarebbero rimaste

nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra

inguardabili ancora per molto; qualcuno non

e tutti fanno: «Oooooh!»

si sarebbe comprato il primo paio di jeans; le special sarebbero arrivate dopo;

Ecco perché.

le emozioni dopo ancora A Carlo Talamo Tutto era estremo, tirato, portato al

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18 novembre 1952 - 29 ottobre 2002

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COSA FA RIDERS A MILANO DURANTE L’EICMA Dal 7 al 12 novembre Martedì 7 Evento Riders One Schott Night alle Officine Mermaid, via G.Thaon di Revel, 4 dalle 19 a mezzanotte DJ set by Chiara Barbarella

Mercoledì 8 Media partner all’evento Passion Party al Berloni store, Via Alberico Albricci, 8 Esposizione di moto special: Nerboruta e Mistral by South Garage

Giovedì 9 Evento The TOM Show Bike Exhibition by Riders al TOM, via Molino delle armi, angolo via della Chiusa Esposizione di 5 moto special: ECKILA by Moto Sumisura Spillo by Officine Mermaid Spillo 2 by Officine Mermaid Ciaparat by Milano Cafe Racers Faust by South Garage

Dal 7 al 12 novembre Riders Lounge al Tonsor Club, via Palermo, 15

Riders Lounge a Le Biciclette, via Giovanni Battista Torti, 2

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COSA FA RIDERS IN EICMA Riders sarà a EICMA con la Trattoria Riders. Ispirata alla Trattoria Bertamè – ristorante di Milano nato poco più di un anno fa a fianco della storica omonima officina, un posto perfetto per parlare di uomini, passioni e motori – la Trattoria Riders sarà presente nell’area MotoLive di EICMA e arredata con omaggi e rimandi al mondo delle officine e del racing, comprese due special: la Ugly Duck di Plan B Motorcycles e

QUANDO

7/12 NOVEMBRE DOVE

EICMA - AREA MOTOLIVE TONY CAIROLI

la prima flat track elettrica di Jambon Beurre. La Trattoria Riders sarà composta da una zona living e una zona ristorante dove, mentre saranno serviti i piatti preparati da Bertamè, gli ospiti si racconteranno assieme al direttore Moreno Pisto e al presentatore, il comico di Colorado Cafè e Zelig, Paolo Casiraghi e Matteo Adreani di The Reunion.

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Gli incontri con gli ospiti raggiungeranno anche chi non sarà presente in Fiera grazie alle dirette streaming con Facebook Live e alla copertura sui social di Riders e dei personaggi coinvolti. Tra gli ospiti presenti alla Trattoria Riders ci saranno Tony Cairoli, 9 volte campione del mondo di Motocross, Andrea Montovoli, attore e personaggio tv, Massimo Doris, amministratore

LA SPECIAL DI JAMBON BEURRE

delegato di Mediolanum, lo squadrone dei piloti della Dakar del team Honda HRC.

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CHI È L'UOMO DIETRO LA TRATTORIA RIDERS A EICMA PRIMA OFFICINA STORICA DI MILANO, POI ANCHE TRATTORIA. ADESSO, OGNI MESE, LOCATION DI UNA RUBRICA SU RIDERS, DOVE INTERVISTIAMO UN PERSONAGGIO DIETRO LE QUINTE. STAVOLTA A RACCONTARSI È PROPRIO LORENZO BERTAMÉ. CHE, DOPO AVER TRASFORMATO LA SUA VITA, HA TRASFORMATO IL NOSTRO STAND ALLA PIÙ GRANDE FIERA DI MOTO IN UNA VERA OSTERIA

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EICMA 7-12 NOVEMBRE -

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Passare da una chiave inglese a un cucchiaio non deve essere facile. Dai meccanici a camerieri e cuochi, dall’odore della benzina e dell’olio a piatti che trasmettono un’emozione. Questo è Lorenzo Bertamé, 45 anni, alto, robusto, uno che si vede che ha le spalle grosse, ma non per essere arrivato alla Serie B della pallanuoto ma perché è riuscito, da un’officina, a creare un mondo che comprende carrozzeria, show room e, da un anno, la trattoria. A Eicma sarà presente la Trattoria Riders, un luogo dove mangiare e fare due chiacchiere con ospiti di livello internazionale. Chi è Lorenzo Bertamè? «Sono nato a Milano, nella zona est della città, in una famiglia tranquilla. Mio padre è stato da sempre un appassionato di motori. Faceva il collaudatore per Lancia. Ho studiato ingegneria, poi per motivi di salute di mio padre non ho portato a termine il percorso». Che aveva già l’officina. «Dalla nascita fino all’università sono sempre stato nelle officine di mio padre, fra macchine e moto. A 14 anni ho avuto il mio primo motorino, era un Garelli Vip2. Nel giro di qualche tempo l’ho smontato, gli ho cambiato sella, carburatore e colore. Dopo sono passato a una Cagiva Aletta Oro, poi a 18 anni è stato il turno della Kawasaki

GPZ600». La pallanuoto è stata l’altra tua grande passione. «È stata una parte della mia vita, sono arrivato a giocare in Serie B. In giovane età le doti fisiche non erano al massimo, nuotavo lento ed ero un po’ paffutello. La determinazione, però, mi ha permesso di scalare le gerarchie, sono diventato titolare a 18 anni e da li è iniziata la svolta. Mi allenavo tre ore tutti i giorni. Ma a 30 anni ho deciso di lasciare. Certo, le entrate non mancavano, ma mi toglieva troppo. Mi ha insegnato molto a livello di perseveranza, di impegno e soprattutto nel porsi un obiettivo. Un giorno mi chiesero di passare in Serie A2, con due allenamenti al giorno. A quel punto ho deciso di dire basta. Non avevo più l’energia, era diventato troppo pesante. Non me ne sono mai pentito, ho sempre mollato le cose nel momento giusto». A 26 anni prendi in mano l’officina di famiglia. «All’inizio si è trattato di un’investitura ereditaria. Mio padre si ammalò, è stata una malattia lunga, di quattro anni. Quel periodo mi ha permesso di capire se era davvero la mia strada. L’ho presa in mano per dovere, la famiglia aveva bisogno. Il mio vero obiettivo non era lavorare sui motori, ero un ragazzotto di belle speranze e non avevo un’idea precisa di cosa avrei fatto da grande. Nella mia testa però l’officina c’è sempre

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stata, era una parte di me. Da necessità diventò una conseguenza. Lì conoscevo tutto, sapevo come si lavorava e come veniva gestita». Hai sempre visto l’attività di famiglia come un’ancora o volevi essere indipendente lavorativamente? «Ti dirò, fino a una certa età non ho avuto una forte determinazione professionale. Quando sono arrivato in officina non mi sono né lamentato né ho stappato champagne. Appena entrato ho iniziato a rompere i coglioni. Dovevamo evolverci: bisognava discostarsi dall’idea storica, e per certi versi obsoleta, dell’officina, del casino, dello sporco e delle donne nude sulle pareti. Il mio riferimento è sempre stato il concessionario. Non sarò mai uno di loro, ma a livello di standard di ordine, pulizia e metodicità dobbiamo essere così. Volevo preservare la tradizione, l’artigianalità, la passione di lavorare sui motori. Per farlo bisognava anche studiare. Finivo la sera in piscina e andavo a fare i corsi di elettronica e sui primi iniettori diesel dall’altra parte di Milano. Ci andavo in tuta, puzzavo, ma bisognava andare avanti. Le sfide mi piacciono, mi piace raggiungere un obiettivo per poi rimettere l’asticella ancora un po’ più avanti. Diciamo che mi sono fatto il culo per cercare di capire come stavano cambiando le cose». Da come ne parli non dev’essere stato semplice? «Lo scoglio più grande è stato mio padre. Si trattava di uno scontro generazionale, io volevo qualcosa in chiave più moderna ma parlavo con una persona che comunque aveva costruito tantissimo. Mi diceva sempre: la mia esperienza per te non vale niente, fatti la tua, mi spingeva a buttarmi, a informarmi, a capire. La filosofia del lavorare deve essere il made in Italy. Lavoriamo sui motori e sul cibo ma li trattiamo come un sarto tratta la sua stoffa. Il lavoro deve essere premiato dalla soddisfazione del cliente». Svolta personale. «A 35 anni mi sono successe tre cose che hanno completamente cambiato il mio modo di approcciarmi alla vita. La perdita di mio padre, la nascita di un figlio e la separazione. È stata la mia morte e la mia rinascita. C’è stato il fallimento della separazione, il lutto di mio padre, che per me era una figura molto importante, e la gioia di un figlio. Sono diventato un’altra persona. Dal ragazzo spensierato a uomo sotto tutti i punti di vista. È stata una seconda maturità. Ho ricostruito un po’ tutto, fino ad arrivare a creare il mondo Bertamè». Nel 2015 arriva la carrozzeria. «All’officina abbiamo aggiunto il tassello della carrozzeria. Nel frattempo siamo diventati anche centro revisioni. E poi nasce lo show room, un luogo camaleontico, che si trasforma, è stato premiato come negozio newyorkese da Anime Nascoste. Siamo diventati un punto di riferimento per chi cerca visibilità. Abbiamo fatto mostre di quadri e fotografie, l’obiettivo era stravolgere l’etichetta del negozio che vende auto e moto. Abbiamo esordito con una mostra di quadri con Guido Buganza, c’erano 600 persone». Arriviamo alla trattoria. «In officina mi è sempre piaciuto regalare una coccola al cliente, trattarlo bene, consigliarlo. Questa forma di

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coccolare i clienti è cresciuta con lo show room, dove offriamo prodotti, diamo visibilità e incuriosiamo chi entra. Con la trattoria facciamo capire ancora di più chi siamo. Come brand e come collocamento. Siamo gente di fatica, che non si risparmia, che lotta ogni giorno ore e ore. Per questo sono molto grato a chi lavora con me. Voglio che si mettano in gioco, che si spingano oltre. La difficoltà molte volte è trovare persone che vogliono unirsi con te per fare una traversata, con tante difficoltà e tante tempeste. L’equilibrio è quando c’è un’interesse comune: nel mio caso quello di crescere. La trattoria è sempre stato un sogno che è diventato un’opportunità. Diciamo che come per i motori, anche per il cibo, la passione c’è sempre stata. La scelta è nata principalmente a livello imprenditoriale. Avendo le due attività, l’una a venti metri dall’altra, non avrei mai digerito che qualcuno si mettesse fisicamente in mezzo. Volevo un posto easy e informale. Non mi piacciono i ristoranti impacchettati, o i cibi troppo arzigogolati. L’ambiente è spartano ma curato in ogni minimo dettaglio. Per questo devo ringraziare anche Marcello, di MBM, che si era proposto per darmi una mano ad arredare lo show room. L’affinità e i punti di vista in comune sono sfociati in una collaborazione che ha coinvolto anche la trattoria». A Milano c’è di tutto e di più. Come si sopravvive. Come si portano avanti tre attività? «Con la volontà di seguire da vicino tutto quello che succede. Serve determinazione e pazienza. Lo riesci a fare non lavorando con le persone che ti stanno vicino, ma collaborando. Costruiamo insieme un percorso». Cos’è per te oggi il mondo Bertamè? «Sto cercando di rappresentarlo con il nuovo sito online da poco. È ricerca, proporre al mondo l’esplorazione di me attraverso le passioni». E poi, come ti è cambiata la vita? «Con Titti. La mia vita è cambiata con lei. Ha dato un equilibrio alla mia follia di vita intensa e sregolata. Mi ha dato una dimensione più convenzionale. Tutte le energie che dedicavo alla vita le ho messe nel lavoro. La svolta su quel fronte arrivata con lei. È stato come chiudere un cerchio. Lei oggi è il mio braccio destro». Quest’anno è arrivato anche Eicma. «È un sogno raggiunto con passione e voglia di fare cose epiche, e un po’ folli, insieme agli amici di Riders. Per essere lì abbiamo fatto non uno, ma tre passi più lunghi della gamba, abbiamo messo insieme le energie e ci siamo riusciti. Ci sono stati molti ostacoli. Con Moreno, fin da subito, c’è stato affiatamento nel creare qualcosa di interessante con un budget limitato. Per certi aspetti siamo simili. Entrambi siamo abituati a vivere in un mondo dove tutto ha un prezzo e tutto è in funzione di un prezzo. La verità, però, è che le cose migliori nascono dalle idee. La determinazione e la voglia di metterti in gioco ti pagano anche senza una grande disponibilità. Abbiamo organizzato una cosa davvero figa. La settimana di Eicma sarà impegnativa e gratificante. La sera del 7 novembre ci sarà un evento con Riders e Schott alle Officine Mermaid e l’8 novembre saremo allo Store Berloni. E poi la trattoria in fiera... ».

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V9 BOBBER

LA RICERCA DELLA PERFEZIONE

U per

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n continuo perfezionamento.

tremare per la voglia di guidare in mezzo

più ampio cupolino. In questa nuova versio-

Una costante ricerca di ma-

a strade deserte sotto un tempo imper-

ne della V9 Roamer la definizione del det-

teriali, di idee, di tecnologia,

vio. Quello è il viaggio che Moto Guzzi

taglio e il design che valorizza le linee e le

sempre perseguendo il va-

ha sempre saputo reinterpretare, forte di

forme del motore bicilindrico da 850cc di

lore della autenticità che di-

una personalità unica. Non sai cosa potrà

cilindrata hanno raggiunto un livello altissi-

stingue ogni creazione di Moto Guzzi. Sono

succedere ma sai che qualsiasi cosa acca-

mo. Anche l’ampio utilizzo di materiali nobi-

questi gli obiettivi principali che rendono

drà sarai lì, a dare del gas e lasciando volare

li nella componentistica, come acciaio e al-

Moto Guzzi un marchio solido, amato e da

i pensieri fuori dal casco. Ed è quello che

luminio, completa il quadro per creare una

sempre unico nel suo genere. Da quando

ha voluto trasmettere il brand dell’Aquila di

moto dalle finiture curatissime e dal profilo

nel 1921 l’Aquila ha preso il volo non ha più

Mandello con la nuova configurazione del-

davvero accattivante. La Moto Guzzi V9

smesso di battere le ali. Sono tre le carat-

le Moto Guzzi V9 MY18, che si declina in

Roamer è la custom italiana realizzata per

teristiche imprescindibili di una moto di

V9 Roamer e V9 Bobber. La V9

Moto Guzzi: il design, personale e sinuo-

Roamer è la classica donna che

so, il motore bicilindrico trasversale a V

tutti vorrebbero: ha personalità,

di 90°, introdotto nel 1967 e il piacere di

è perfetta per viaggiare e sa an-

guida. La storia parla chiaro: successi, no-

che essere sportiva. Il perfezio-

vità, innovazione, estetica, tradizione e so-

namento, ed ecco che torniamo

prattutto cultura motociclista, quella su cui

alla continua ricerca di miglio-

si fonda l’azienda di Mandello. Moto come

rarsi, è dedicato soprattutto alle

la California oppure la Nevada hanno se-

percorrenze più lunghe grazie

gnato un’era e hanno aperto la strada ver-

ai nuovi ammortizzatori poste-

so quel sogno americano che è sempre lì,

riori, pensati per agevolare il

nel cassetto, pronto a esplodere e a farci

viaggio in coppia, e un nuovo e

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V 9 ROA M E R

CON L’ALLESTIMENTO MY18 SUI MODELLI V9 ROAMER E V9 BOBBER MOTO GUZZI SI RINNOVA E MOSTRA I RISULTATI DELLA SUA CONTINUA RICERCA IN TERMINI DI SVILUPPO, DESIGN E QUALITÀ DEI MATERIALI. LA V9 ROAMER È PERFETTA PER VIAGGIARE, ANCHE PER LUNGHE TRASFERTE, LA V9 BOBBER È LA MOTO NELLA SUA ESSENZA, LA SPORTIVITÀ. ENTRAMBE CON UN MOTORE CHE HA FATTO LA STORIA DEL BRAND E HA CREATO IL MITO DELLA MOTO CUSTOM IN ITALIA, IL BICILINDRICO A V DI 90° INTRODOTTO NEL 1967

i cittadini del mondo, per chi ama viaggia-

purezza del design e la sella monoposto,

MP, cioè la piattaforma multimediale che

re e godersi il paesaggio. Anche per questo

omaggiano il mondo dello sport. Comune

collega lo smartphone direttamente con

la posizione di guida ha assunto maggior

a Roamer e Bobber, il motore MY18, è stato

la moto. Un sistema capace di fornire una

spazio e abitabilità, studiata per miglio-

sviluppato per elevare al massimo la coppia

grande quantità di informazioni e dettagli

rare l’ergonomia e il comfort. La perfetta

per assicurare il pieno divertimento nella

sui nostri viaggi e soprattutto sulla nostra

discendente della mitica Moto Guzzi Ne-

guida su strada, assicurando ottima ripresa

moto, basterà scegliere quali parametri vi-

vada 750. L’aggiornamento della famiglia

sin dai bassi regimi. Parliamo di un motore

sualizzare nel menu e il MG-MP mostrerà i

V9 riguarda anche la versione Bobber.

Euro4 capace di erogare 55CV di potenza a

dati rilevati su ogni percorso. Tra le novità

Con questo modello Moto Guzzi vuole

6.250 giri/min e 62Nm di coppia a soli 3mi-

c’è anche la funzione Eco-Ride che aiuta a

trasmettere: l’essenzialità. Look grinto-

la giri. Un propulsore che ha carattere, friz-

limitare i consumi e verificare il risultato

so, linee decise e aggressive che, con la

zante e deciso al punto giusto per rendere

delle emissioni. Oltre al tracciamento della

eccitante qualsiasi esperienza

moto, che ci viene in soccorso nel caso ci

di guida. La nuova Moto Guzzi

scordassimo dove abbiamo parcheggiato,

V9 Bobber apre un nuovo seg-

la strumentazione elettronica ci permette,

mento per il brand, quello delle

attraverso il Grip Warning, di verificare in

bobber di serie di media cilin-

tempo reale il nostro andamento di guida

drata. Essenzialità e tradizione,

in base alle condizioni dell’asfalto: ghiac-

valori importantissimi per Moto

cio, pioggia, fango. Le versioni MY18 della

Guzzi, non significano rima-

V9 Roamer e V9 Bobber possono essere

nere ancorati al passato, anzi.

sintetizzate in poche parole: autenticità,

Moto Guzzi ha equipaggiato

qualità, stile, tecnologia e, soprattutto,

le sue nuove versioni V9 Roa-

cultura motociclistica. Sempre in conti-

mer e V9 Bobber con la MG-

nuo perfezionamento.

FREE

per

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STILE/1

HERD OF WOLVES

L’INNOVAZIONE ARRIVA QUANDO SI CREA QUALCOSA CHE NESSUNO HA MAI PENSATO PRIMA OPPURE QUANDO NESSUNO HA IL CORAGGIO DI PROVARCI DAVVERO. LA MASCHERINA DI HERD OF WOLVES, NELLE VERSIONI TERRA E OPAL, PRESENTA PER LA PRIMA VOLTA LA TECNOLOGIA MEMORY FORM, PER ADATTARSI PERFETTAMENTE ALLA FORMA DEL VISO DI OGNI MOTOCICLISTA

S

ono state proprio le interviste prodotte per il suo blog a dare a Michele la possibilità di conoscere vari tipi di tecniche lavorative, scelta e utilizzo di materiali, filosofie d’interpretazione, tanto da creare un vero e proprio database culturale. Da qui l’idea di realizzare una mascherina da moto innovativa, con finiture e materiali di qualità superiore. Ed è quindi grazie all’aiuto di Lisa Tavazzani, product manager del mondo della moda e del design che nasce la collezione Origin di Herd Of Wolves: tre modelli diversi di maschere. Alpine: occhialini ibridi che, da occhiale sport con asticelle classiche, diventano una mascherina con elastico, da usare anche sotto il casco. All’interno del frame – dalla linea ergonomica che segue la forma naturale del viso – tra la lente e la parte interna a contatto con la pelle, è presente uno spessore per il ricircolo dell’aria che rende l’occhiale anti-appannante in entrambe le versione (classico e mascherina). Terra: mascherina per l’offroad con gommatura interna a tre strati: interno rigido, una gomma memory form (per la prima volta in una mascherina) nello strato intermedio, ed esterno in soffice pile, oltre che airflow per anti-appannaggio con copertura in tessuto. Opal: mascherina tecnica dallo stile vintage/aviator con frame frontale in ottone verniciato, due gomme memory form interna ed esterna cucite a mano fra loro internamente, con un rivestimento in pelle applicato tramite termoformatura, processo che evita la presenza di sgradevoli pieghe e imperfezioni.

Ogni modello della linea Origin di Herd Of Wolves – completamente Made In Italy, dal logo sviluppato dal designer Massimo Farinatti, fino ai materiali utilizzati – include sia lenti classiche che lenti crepuscolari Zeiss, intercambiabili, e si presta a più utilizzi: dalla moto alla bici, fino alla vela e allo snowbording.

b Foto

di Matteo Gastel

Sotto, la mascherina Opal di Herd of Wolves, stile aviator. La prima ad avere la tecnologia memory form per adattarsi perfettamente al viso di ogni motociclista. A destra, tutti gli strati che compongono la mascherina Opal. Mercoledì 8 novembre, alle 18.00, verrà presentata ufficialmente da Officine Mermaid, in via Thaon de Revel, 4 a Milano.

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STILE/2

GLI OCCHIALI DI RIDERS

QUANDO DUE BRAND SI INCONTRANO E SI SCAMBIANO IDEE E COMPETENZE NON PUÒ CHE NASCERE QUALCOSA DI UNICO. ED È ESATTAMENTE QUELLO CHE È SUCCESSO CON RIDERS E HALLY & SON CHE HANNO CREATO I PRIMI OCCHIALI IDEATI DA MOTOCICLISTI PER I MOTOCICLISTI. LEGGERI, DINAMICI E STILOSI, THE GREATEST

H A L LY & S O N + R I D E R S= T H E G R E AT E ST

R

iders e Hally & Son si incontrano per dare sfogo a quello che sarebbe stato il più grande sogno di Mr. Hally: vedere i suoi occhiali indosso a un motociclista. Il progetto nasce dalla collaborazione di due brand votati allo stile e alla passione per i motori. È per questo che l’azienda Hally & Son ha realizzato i primi, e unici, occhiali firmati Riders che sono disponibili sul mercato a partire da settembre. E già centinaia di unità sono state vendute. Packaging di pregio, dedicato, unico con cordino portaocchiali in cuoio. Dopo il mondo superyacht e classic car, il brand eyewear Hally & Son dedica a Riders un modello proposto in limited edition offerto in 4 tinte. Per la colorazione di questo modello sono stati impiegati acetati striati di tonalità scure e Havana classiche. La collezione si chiama The

Greatest, proprio per citare il nuovo payoff della rivista: The Greatest Lifestyle Motorcycle Magazine. l nuovi occhiali di Riders sono stati presentati al Pitti Immagine Uomo di Firenze e sono stati parte integrante dell’ultimo Distinguished Gentleman’s Ride del 24 settembre, proprio nel mese in cui Riders ha compiuto dieci anni. I nuovi occhiali Riders sono leggeri, eleganti ed essenziali. Tutto ciò è reso possibile grazie al design dell’asta super light combinata con un frontale dalla forma retrò con ponte flessibile in metallo. Per conferire massima visibilità e grado di luce al motociclista, l’occhiale presenta anche la variante con lente fotocromatica. Di certo con questo look è difficile passare inosservati. Tradizione, funzionalità e stile: una limited edition disponibile dal mese di settembre per tutti i Riders.


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DESIGNED BY CARLOTTA CONCAS & TOMMASO TINO ©2017 MITCHUMM INDUSTRIES / RIDERS

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PER TUTTI È QUELLO DELLA NUMERO UNO, CHE IMPORTÒ LE HARLEY-DAVIDSON IN ITALIA. MA ERA MOLTO, MOLTO DI PIÙ. UN GENIO, UN PAZZO, UN INNOVATORE. SE NON CI FOSSE STATO LUI IL MONDO MOTO SAREBBE STATO UN ALTRO. QUESTA È LA STORIA DI UN UOMO FRAGILE CHE ANDAVA A UNA VELOCITÀ DIVERSA, COME SE DOVESSE BRUCIARE LA SUA ENERGIA IN MENO TEMPO DEGLI ALTRI. E COSÌ IN EFFETTI È STATO: CARLO TALAMO MANCA DA 15 ANNI. GLI AMICI DELLA PRIMA ORA RACCONTANO CHI ERA DAVVERO IL VISIONARIO CHE HA PORTATO LA CALIFORNIA IN ITALIA E L’ESUBERANZA A MILANO. SENZA CALZINI NÉ MUTANDE NÉ REGOLE: CARLO TALAMO

b Articolo

di Moreno Pisto

a Foto

di Giovanni Cabassi

UN AMICO STRANO 20

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In questa pagina, alcune poesie tratte dal libro intitolato Mi piacciono le pecore. E molto le galline. Oramai introvabile, celebra dieci anni di pubblicità HarleyDavidson. Qui a sinistra la dedica di Carlo Talamo a Giovanni Cabassi.

«QUALSIASI COSA FACESSE SI DEDICAVA AL 100X100, È STATO UNO DEI PRIMI IN ITALIA A USARE IL SURF. PASSÒ TUTTI I WEEKEND DELL’INVERNO DEL 79 SUL LAGO DI GARDA DA SOLO, CON UNA MUTA, IL CAPPELLO E I GUANTI DI LANA, IL PIUMINO MONCLER, A SURFARE» GIOVANNI CABASSI

Nella pagina a fianco, estate 84. Una pausa a Villa Monastero, in Sardegna. Piedi scalzi e mani sulla Honda XR500R.

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In questa pagina, in senso orario: estate dell'85, un pontile, una pasta asciutta, una birra (una delle poche che avrò bevuto nella sua vita) e Tuttomoto: ecco il suo modo di rilassarsi; Carlo e Liliana (sua moglie) in Grecia. Carlo si descriveva così: «Ho le spallucce a gruccia e un fisico da pollo»; in Sardegna, nell'85, windsurf e costume da donna...; Courmayeur, 1980, l'unico scatto in cui Carlo e Giovanni Cabassi, fotografo ufficiale del gruppo, sono ritratti insieme. Nella pagina a fianco, Carlo seduto su un ponte in Corsica nel 1984.

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«LUI ERA UN NOMADE, LUI A CASA NON CI STAVA MAI: ERA INQUIETO, FUGGIVA DA CHISSÀ COSA» GIANNI BRANCACCIO

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Trattoria del Drago, Milano, 1986. Carlo e Elena (moglie di Giovanni Cabassi). Nella pagina accanto, Carlo con casco Triumph e occhiali da donna.

«GLI STAVA STRETTO TUTTO, GLI STAVA STRETTO IL MONDO, ERA UNA PERSONA CON UNA GRANDE RIBOLLITA COSTANTE NELLO STOMACO. È COME QUANDO C’HAI UN FIGLIO DROGATO: DEVI STARGLI DIETRO UN PO’ E CERCARE DI TIRARLO FUORI MA CON CALMA, PERCHÉ SE LO PRENDI DI PETTO SE NE VA, ECCO LUI ERA COSÌ» GIANNI BRANCACCIO

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Carlo e Liliana in Camargue, 1985, l'anno prima del loro matrimonio. Nella pagina a fianco, con la sua (all'epoca) fidanzata Patrizia a Deiva Marina, nel 1981.

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«LUI DICEVA SEMPRE QUESTE COSE QUI: FAMO UNA MOTO CHE NON TIENE LA STRADA, CHE CE FREGA; OPPURE: FAMO UNA MOTO CHE NON FRENA, TANTO A CHE SERVE FRENARE. LUI ERA IL FAUTORE DELLA CONTROINDICAZIONE: SE C’ERA UNA REGOLA TE LA ROMPEVA SUBITO» MAURO RADAELLI m

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«COSA MANCA DI CARLO? MI MANCA QUANDO VADO A FARE I GIRI E MI FERMO A PARLARE, PERCHÉ QUANDO VAI IN MOTO PIÙ O MENO IL VIAGGIO È SEMPRE LA STESSA COSA, MA È QUANDO TI FERMI CHE CAPISCI VERAMENTE CON CHI STAI ANDANDO» GIANNI BRANCACCIO

Qui accanto la Triumph Trident 750 del 73 a 5 marce con telaio rialzato, una delle poche moto di proprietà di Carlo Talamo, adesso nel garage di Giovanni Cabassi. Sopra, il libretto. Nella pagina precedente, Carlo Talamo, prima di essere importatore e imprenditore è stato un tester. Su una pagina di giornale la sua prova del Benelli Caddy 50 (portato addirittura dentro un autobus).

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ominciamo da quello che non c’è. Questa non è una biografia, nemmeno ha la pretesa di raccontare tutto, tutto un uomo, una persona, questa è una parte, come è una parte di vita ciò che ha vissuto chi questa storia me l’ha raccontata. Innanzitutto, quindi, perdonatemi. Questa parte la scrivo con rispetto, riverenza ma con coraggio, perchè il protagonista merita questi tre atteggiamenti. E quello che non c’è, prima di ogni altra cosa, è lui: Carlo Talamo. Un genio, un folle, un visionario, un innovatore. Un amico strano, come lo ha definito Giovanni Cabassi quando ci siamo messi a sedere intorno a un tavolo per tornare indietro laddove la lingua batte sul dolore, la nostalgia e la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di unico. Oppure uno stronzo meraviglioso, come mi ha detto Mauro Radaelli. 29 ottobre 2002: Carlo Talamo non c’è da 15 anni. Per chi ama le moto, Carlo Talamo è soprattutto la Numero Uno, quello che per primo importò le Harley-Davidson in Italia. Una specie di leggenda. Perché la sua passione per le moto ha cambiato cultura e testa a tante, tantissime persone. Infatti sono in tanti, troppi, a sostenere di conoscerlo e a raccontare aneddoti sul suo conto. Però sotto la coltre dei ricordi è sempre rimasto un vuoto: chi è che lo conosceva davvero? Chi è che può descrivere non solo l’imprenditore, ma soprattutto l’uomo, con le sue fragilità? Sono sempre stato convinto che se fosse vissuto qualche anno in più a pensare un magazine di lifestyle motociclistico ci sarebbe arrivato lui. Gianni Brancaccio dice di sì, Cabassi dice di no. Perché Carlo, sostiene, non si faceva mai trovare dove gli altri pensavano di trovarlo. Tipico degli uomini contraddittori, complessi. E alla fine di tutta questa storia, alla fine delle telefonate fatte e di quelle che mi sono sentito di non fare, degli incontri avuti e di quelli rifiutati, l’idea che ho maturato è quella che Carlo Talamo, nel suo metro e settantanove, fosse più veloce, più veloce a bruciare il tempo, come se vivesse con una carica energetica superiore alla media, con quell’inquietudine lì che chissà da dove veramente arrivava e quell’ansia lì che non prometteva niente di buono. Fatto sta che chi davvero lo conosceva fa fatica a passare in via Niccolini, nella zona che adesso a Milano si chiama Chinatown, davanti a quelle che erano le vetrine della Numero Uno, fa fatica ad ascoltare la puntata su Radio24 che Enrico Ruggeri dedicò proprio a Talamo, troppe inesattezze, troppi ricordi che devono restare lì dove sono, troppe persone che parlano parlano e non sanno bene che dire, perché sono state comparse e si atteggiano da protagonisti.

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iovanni Cabassi è un uomo ruvido, storce gli angoli della bocca più volte quando parliamo di Carlo, si tocca il mento, guarda il vuoto, e si nota, che quello che non dice è più potente di quello che dice. Ci vuole rispetto, riverenza. Ci vuole coraggio. Cabassi aveva sempre una macchina fotografica con sé: sia per passione sia perché chi ha vissuto il primo Carlo in qualche modo lo sapeva, lo sentiva, in modo inconscio o magari no, di essere testimone di qualcosa di irrisolto, intenso e veloce, che sarebbe finito presto o tardi ma comunque improvvisamente. Tanto che quando è morto in autostrada tra Talamone e Ansedonia, a causa di una macchina che tagliava le siepi, tutte le persone sentite per questo pezzo - gli amici naif della primissima ora - dopo essere state avvertite dell’incidente non hanno chiesto «come», ma «dove». Perché era chiaro che Carlo sarebbe morto in moto. D’altronde erano tempi di moto senza traction control, e il traction control spesso mancava alla vita, erano tempi senza autovelox né troppe telecamere, ed era pure un’altra Milano. Cabassi è stato il primo milanese a conoscere Carlo, nel 1980. «A Milano, stava con quella che poi sarebbe diventata mia cognata Patrizia, che aveva delle amiche a Roma grazie alle quali si erano conosciuti… Avevo 23 anni, lui 5 di più. Ci siam visti la prima sera al teatro Carcano per uno spettacolo di Jango Edwards, che era un clown, che era anche Carlo, ed era un po’ tutti noi». È bastata la parola motociclet-

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ta per far accendere il feeling. «Faceva un freddo porco, era inverno, eravamo noi coi mezzi, lui in macchina. Lui nel 1980 era un pubblicitario, o meglio era potenzialmente un grande pubblicitario pur non avendo fatto alcuno studio per diventarlo. Aveva lavorato per la Fernet Branca e la OMSA, io gli avevo passato anche qualche altro lavoro di grafica o coordinamento immagine, ma sprattutto gli avevo prestato il mio box, che nel giro di una settimana era diventato un’officina, la sua officina, l’aveva attrezzato come fosse un meraviglioso piccolo locale, con riscaldamento illuminazione, tutto». La passione per la moto da dove arrivava? «Dal padre. Era una roba molto di famiglia. Per me invece così, da dentro, Nessuno aveva mai avuto una motocicletta eppure a 11 anni vivevo col muso schiacciato sulle vetrine di negozi di moto, una di quelle passioni che ce l’hai e punto. Quindi la parola motocicletta, quella sera, ha cambiato tutto. Sai, io son sempre stato un orso per cui ho sempre avuto piccoli gruppi di amici ma noi avevamo tutti le moto grosse, tutti o quasi tutti avevano fatto cross o fuoristrada, poi io ero l’unico sposato per cui facevo da rifugio peccatorio, perché la sera si faceva dove si va?, da me!, ché tutti vivevano coi genitori e Carlo aveva la casa troppo piccola». Carlo arrivava da una famiglia nobile decaduta. «La sua famiglia aveva un nome esteso, Talamo Fiboni Brancaccio di Castelnuovo, famiglia importante, del Sud. Quello che Carlo ci raccontava spesso era che un giorno il padre lo chiama e gli fa “figlio mio ti rammenti tutto quello che avevamo? Bene mi sono fatto fuori tutto perciò arrangiati” e da lì, ci diceva, “ho dovuto pensare a quello che dovevo fare domani”». Ma in quelle sere pre Numero Uno non ne parlava spesso. «Noi facevamo cose tipo alle 11 di sera “oh, dai, è aprile senti che profumo, cosa stiamo qua a fare?” e andavamo a farci il Penice, di notte. Poi io alle 6.30-7 ero in ufficio che mio padre con gli orari era fissato». Carlo era fissato con le passioni: «Qualsiasi cosa facesse si dedicava al 100x100, è stato uno dei primi in Italia a usare il surf, mi diceva Patrizia che tutti i weekend dell’inverno del 79 li passò sul lago di Garda da solo, con una muta, il cappello e i guanti di lana, il piumino Moncler, a surfare». Dall’anno successivo i weekend e le estati le passano insieme: Argentario nel 1981, Sardegna nell’82, ancora Sardegna nell’83. E dai racconti si avverte che l’impressione di vivere qualcosa di fugace, di strano, fosse così vivida, consapevole o meno: «Guidavamo Triumph, BMW, che lui era malato per l’R80 GS, io avevo un RS1000 che s’è comprato anche lui, poi un nostro carissimo amico, mio compagno di banco del liceo Gonzaga era il motorista di Abate, i motoscafi, è morto durante un weekend con Carlo… terribile, lo avevamo convinto noi a comprare un RS e lui diceva “ma se compro la moto mi schianto, mi ammazzo” e noi: ma figurati sei abituato ad andarti a schiantare in tutti i modi e invece lui è morto a 70 all’ora sulla bretella di Asti-lago di Garda… C’era un’indicazione stradale fatta male, per terra, lui, il Claudio stava messo troppo a sinistra e stava uscendo dall’autostrada e s’è preso una macchina addosso. Carlo ha salvato la vita alla sua ragazza, una freddezza impressionante, gli ha bloccato l’emorragia alla gamba, lui non c’era niente da fare, morto sul colpo. La cosa impressionante è che sono morti entrambi lo stesso giorno: il 29 di ottobre. Infatti dal 2002 io il 29 ottobre di ogni anno non prendo più la moto». Le date, i numeri : «Carlo è nato il 18 novembre 1952, mio figlio Martino è nato il 18 novembre dell’81… Lui, Carlo, era tutto contento. Diceva: “C’è qualcosa, c’è qualcosa”». E qualcosa c’era, molto più di qualcosa c’è stato: «Doveva trovare la sua strada Carlo, e la sua strada l’ha trovata, mettendo la passione per le motociclette al centro di tutto. Prima le provava per le riviste, anche Harley, perché ne aveva avuta una a Roma già nel 79. Nei primi anni 80 mi diceva “per pranzo passo” e se potevo, giacca e cravatta, uscivo dall’ufficio di mio padre a Milano Fiori, e si andava a provare la vecchia, al tempo la nuova, Elettra… dei cessi totali, ma ci divertivamo, ci divertivamo in quanto la Harley aveva una storia diversa alle spalle, erano scampagnate divertenti, con mezzi differenti da quelli che eravamo abituati ad usare all’epoca.

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Lui testava, scriveva articoli. Però queste cose gli stavano strette. Gli stava stretto tutto, gli stava stretto il mondo, era una persona con una grande ribollita costante nello stomaco». E più vai a investigare più scopri dettagli di una personalità complessa, guidata da inquietudini e istinto, racconti a registratore spento che affidano alla memoria poche immagini ma forti, di bicchieri rotti sui tavoli e puntati alla gola solo per costringere gli amici ad andare via da una discoteca, luogo che lui odiava, di ritorni in auto a velocità folle arrivando dove doveva arrivare senza però conoscerne la strada. Giovanni storce ancora la bocca: «Queste sono cose nostre, non c’entrano». Però racconta della Sardegna, era l’81 o l’82. «Certe volte ci aveva detto che gli piaceva la vela, ma era finita lì. Quella notte però siamo andati a riportare una barca dalla Costa Smeralda in una conca. Chi si millantava grande navigatore ci stava portando in Corsica, ed era uno che proprio riempiva le serate coi racconti di barche a vela. Carlo in silenzio, quasi dormendo, s’è alzato, ha tolto il comando a chi guidava, una cosa che in barca equivale a ammutinamento, l’altro lo ha guardato e Carlo gli ha detto: se dici ancora una parola e non ti vai a mettere laggiù, ti getto a mare. E in un’ora e mezza ha preso e ci ha portato esattamente dove dovevamo arrivare. Noi eravamo allibiti. Anche quando andavamo in moto ci faceva vedere i sorci verdi, però lui non diceva mai “io sono il più veloce”, aveva sempre quella faccia un po’ da scemo del villaggio. Tanto fu poco umile nel nome della concessionaria - Numero 1 - tanto era umile in questo».

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ua si apre un altro capitolo. «Intorno all’84 lui ha conosciuto Roberto Crepaldi e Max Brun e mi chiese se avessi voluto far parte di questo gruppetto per rilanciare questa fabbrica che ormai non esisteva più, che aveva una produzione vecchia e nessuna moto in giro, niente… ma allora lavoravo in Rinascente, ero scontento, avrei voluto dire di sì, ma ho detto Carlo mi dispiace manco lo chiedo a mio padre, avevo troppa roba in ballo, ci volevano troppi quattrini». E quei quattrini li ha trovati con i soci Crepaldi e Brun e da sua madre. «Siamo andati a prenderli insieme a Roma, un assegno». Crepaldi lavorava in Ferrari, Brun era direttore di produzione, ben inserito nel mondo pubblicitario, «aveva questa casa cinematografica che andava molto bene, conosceva gli art director, tutti i direttori creativi, è stato relativamente facile piazzare le prime Harley in quel mondo lì». Ma era Carlo l’operativo, stava lì dentro sempre, 365 giorni all’anno, sabati domeniche, pomeriggi sere notti a mettere a posto il magazzino, «e poi andavamo a mangiare al Vecchio Porco che prima si chiamava I tre cuochi, come due vecchi pensionati perché io ero separato, lui da solo». Il primo anno le Harley vendute furono tre, poi una decina, poi 25, e dal terzo anno cominciarono i volumi più grandi e le attività collaterali, tipo il raduno Pallequadre: «Era il primo weekend di dicembre e si partiva di notte, col freddo porco nero, però a lui andava benissimo perché il primo giorno andava a terra tanta gente che poi lui il lunedì si trovava l’officina piena». Poi cambiò l’approccio, il giro, Carlo passò a commerciare anche Triumph, Bentley, Lotus, le Catheram e cominciò a cambiare tanto. E chi ha lavorato con lui quegli anni ricorda la passione ma anche le sclerate, gli oggetti che Carlo tirava da una parte all’altra del negozio. Era difficile, Carlo, ma aveva un carisma che riempiva lo spazio intorno a sé. «Ma era una delle persone più affettuose che abbia mai conosciuto, volersi bene con gli amici è normale, ma con Carlo c’era qualcosa di più, di ancestrale. Con Carlo tutto era al di là: tanto era capace di spiaccicarti al muro, altre volte faceva dei gesti così profondi di affetto che ti spiazzavano. Lui aveva una capacità di affetto imponderabile». Mauro Radaelli sembra uno dei Rolling Stones: capelli lunghi raccolti in un codino, basette larghe, giacca di pelle rossa, voce consumata. Faceva lo scenografo ai tempi in cui ha conosciuto Talamo, anno del Signore 1982, fa lo scenografo oggi, per spettacoli teatrali, cinema e pubblicità (sua la scenografia de Il Capitale Umano di Virzì). «La verità?» dice. «La

verità è che Carlo era un genio ma era matto, un vero matto. O lo amavi o gli stavi lontano. Il venerdi, ore 14, poteva venire la Madonna, non c’era famiglia non c’erano cazzi e si partiva per dove Carlo decideva. C’era questo tipo di vassallaggio piacevole, per noi Carlo era il Vate. Non era democratica la cosa, lui era il capo, e noi fregnoni eravamo gli adepti». Radaelli ha la sua spiegazione del perché tutti nutrissero questa riverenza nei suoi confronti: «Aveva una marcia diversa. Intanto lui era romano e noi milanesi. Noi eravamo tutti rigidi, lui arrivava coi pantaloni corti, le Superga senza calze anche d’inverno, capisci che nell’82-83 uno così faceva colpo. Poi fra le tante sfumature bizzarre aveva un modo che ammaliava, solare, generoso, ma molto deciso e indagatore. Io avevo una Honda 1100 da sei mesi e lui in un’ora mi convinse a cambiarla e a comprare la sua, una Suzuki Katana che mi fece fare tutta nera carenata col cupolino nero così non potevo vedere attraverso. Un concetto assurdo no? Mi disse: te faccio ir cupolino e poi lo pitturamo così non ci vedi più niente. Lui diceva sempre queste cose qui: famo una moto che non tiene la strada, che c’è frega; oppure: famo una moto che non frena, tanto a che serve frenare. Lui era il fautore della controindicazione: se c’era una regola lui te la rompeva subito. Ogni settimana si presentava con una moto inguidabile preparata da lui. Quindi era affascinantissimo, mentre a Milano erano tutti un po’ noiosoni. Era sulla bocca di tutti, anche di chi non andava in moto. Pensa che metteva le Bentley su due ruote. A Parma andavamo a 230 in rettilineo, lui ha visto l’uscita e ha curvato a 190, solo che c’era la coda. Non so come ma si è infilato tra le auto e il guard rail. Mi sono visto morto, ma quando faceva ste cose nessuno aveva il coraggio di dirgli niente, le combinava talmente grosse che pareva un marziano e poi aveva quella cosa lì che capivi subito che di lui dovevi avere un certo timore». Cabassi apre la borsa, tira fuori il libro Cilindri bulloni e facce, una serie di ritratti dei primi proprietari di Harley, c’è pure il futuro ministro Lunardi, c’è pure un cane: «Era il mio, li portavo dalla sotto Siena, i pastori li buttavan via e io allora dissi “fermi! Quando ci sono le cucciolate mi avvisate”, e ne ho portati 36-37 a Milano, li regalavo agli amici, uno l’ho regalato a Carlo, l’unico bianco e nero uscito un po’ male e l’ha chiamata Elettra, morta in un incidente d’auto avuto con Crepaldi, il motore della Peugeout Turbo a 400 metri dalla macchina, loro nemmeno un graffio… sulla Cisa, in autostrada». Ma l’animo visionario di Carlo è stato chiaro a chiunque dal momento in cui ha cominciato a curare la comunicazione Harley-Davidson. «Ci siamo arrivati per piccoli pezzi, le prime foto non avevano nemmeno il nome della moto, magari avevano solo un serbatoio». Carlo diceva: non importa quale moto ti compri, l’importante è che te ne compri una. «Io ero entusiasta, io sono sempre stato un fautore delle cose dirompenti, cioè se la gente non lo capisce è meglio perché quelli che lo capiscono poi ti vengono a cercare». Cabassi dalla borsa estrae anche un libretto nero con una scritta nell’angolo basso, a destra, Mi piacciono le pecore e molto le galline. Il titolo è una frase di una delle poesie che scriveva sulle pubblicità, che poi sono state raccolte in questo libro di cui sono rimaste poche copie in giro. Che poi, più che poesie erano sensazioni, «le nostre sensazioni, di quando andavamo in moto e tiravi fuori la giacca e ti ricordavi le cose dell’adolescenza, il motorino…». Ha scritto cose molto belle, Carlo. Ha scritto cose molto tristi, anche. Leggerle adesso sanno di nostalgia: Non ce n’è più di riccioli biondi. Cado un po’ meno. Chissà dove riposa l’Italjet. E chissà dove sei finita pure tu. Non t’ho rivista più. Il Riccardone peserà mille chili. Sono rimasto io che ancora gioco coi motori. E poi m’è rimasto il culo.

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Dentro c’è tanta, tanta roba, c’è il rapporto difficile, forse inesistente da una certa età in poi, con i genitori, c’era che già da piccolo smontava gli orologi come poi avrebbe fatto con le moto solo per mettere quiete alla sua inquietudine, c’è la sua volontà di non omologarsi, per lui la Harley era un modo come un altro per ribellarsi, per guardare la realtà, una realtà che mica gli piaceva. Pare un sociologo qui: Milioni di automobili tutte uguali avanzano lungo le strade uguali di città uguali/Persone tutte uguali entrano in case uguali e fare cose uguali/E pensieri ed esistenze uguali/Perché durante gli ultimi trent’anni abbiamo accettato di vivere per costruire un mondo di uguali?/Ma che c’è di bello nella produzione di serie delle idee/Ma perché crescono le cose brutte e scompare la poesia?/Io non so dire perché ho ribrezzo per gli scarafaggi e sono attirato da ciò che è unico/Ecco perché un giorno, ancora con i calzoni corti, io amai una Harley-Davidson». A leggere questo passaggio non ci sono molte altre parole per descrivere ciò che è stato Carlo Talamo, anzi me ne viene in mente una sola. Pioniere. Il libro Cilindri bulloni e facce e molte delle sue pubblicità li ha impaginati Gianni Brancaccio, altro amico della primissima Numero Uno che con Talamo condivideva anche uno dei cognomi del padre. Gianni ha una Honda 450 del 70 mai importata in Italia, ha un casco con il grifone genoano sopra e una voce di gola, una risata sferzante. È un art director, ha lavorato per Moschino, Armani, altri brand e poi per magazine come Donna, Gioia, Grazia. «Un amico strano?» mi fa. «Io ti stavo per dire: Carlo era un amico difficile, di quelli non easy. Era molto complicato anche nella fase creativa, perché innanzitutto se lo ostacolavi ti mandava a fanculo, per fargli cambiare idea dovevi buttargliela lì, lasciarla decantare un po’ e dopo era lui che ti chiamava e diceva forse c’hai ragione… È come quando c’hai un figlio drogato: devi stargli dietro per un po’ e cercare di tirarlo fuori ma con calma, perchè se lo prendi di petto se ne va, ecco lui era così, cioè stare vicino a Carlo era un impegno perché era esageratamente carismatico ma aveva dei momenti di silenzio interminabili, magari ti guardava per ore e poi ti diceva tre robe, non era uno facile perché aveva un sacco di cose dentro, probabilmente a causa dei rapporti con i genitori». Eccolo qui il punto dolente. «Col padre aveva un rapporto pessimo. Si sono rivisti dopo anni quando ormai lui era già a Milano da tempo. Ogni tanto accennava al fatto che il padre e la madre lo avevano lasciato da una parte molto libero ma dall’altra anche molto solo». La libertà in effetti può essere un’esigenza o un modo per difendersi. E questa roba della solitudine gli è rimasta dentro. «E anche quando oramai lui era all’apice del suo successo, aveva tutto quello che voleva, ha comprato tutto quello che ha voluto, tutte le macchine tutte le moto, tutto, be’ noi andavamo tipo a mangiare la sera al ristorante al Vecchio Porco che era suo e lo trovavi da solo al tavolo… Lui era uno nomade, lui a casa non ci stava mai perché da solo solo, senza gente in giro non voleva starci, perchè era inquieto, fuggiva da quella roba lì». Radaelli ricorda: «Carlo raccontava sempre che suo papà stava a Punta Ala e aveva sempre sotto casa un motoscafo col pieno e una Ritmo col pieno. Stop. Ed era un messaggio: che la sua famiglia era sempre pronta a spostarsi da un momento all’altro».

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auro e Giovanni sono stati i suoi testimoni di nozze, a sorpresa: erano stati chiamati per andare a prendere un caffè e si sono ritrovati in Comune. Spiega Radaelli: «Carlo sembrava sempre sul punto di esplodere, gli dicevi qualcosa e pensavi: ora cambia, ora s’incazza. Carlo ti accompagnava a casa, spegneva il motore e dopo dieci minuti di silenzio faceva: non c’ho amici. Cazzo, rispondevo, e io chi sono? Io so’ solo, non c’ho amici, ripeteva. Gliel’ho sentita dire dal primo all’ultimo giorno che l’ho frequentato. In quel momento stava facendo crescere la Numero Uno, era nel pieno di una scomessa, aveva i soci, la Liliana e un gruppetto di compari che eravamo noi. E scelse un elemento testato da solida amicizia, Giovanni, e uno nuovo che prometteva bene, cioè io.

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Andammo con la Volvo di Carlo, Carlo era vestito di arancione, di viola e arancione, la Liliana aveva una giacca da baseball enorme, c’era il cane, Elettra, e andammo in Comune e lo sposò l’assessore rockettaro, Treves. Faceva un freddo boia, era l’86, e poi un anno dopo si sono lasciati, anche se ufficialmente non si sono mai separati». Carlo era fatto così, «tribolato sentimentalmente, incapace di continuare i rapporti».

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alamo aveva due anime dentro, che tra di loro combattevano. «Infatti tutti noi ci abbiamo litigato» dice Brancaccio. «Ma tutti eh, era più facile litigare che andare d’accordo con lui perché era come se volesse provare a vedere fin dove arrivavi ad essere suo amico, quindi ti stimolava con una roba che ti faceva incazzare, come un bambino fa con i genitori. Anche io sono stato anni senza sentirlo. Era un periodo che aveva cominciato a frequentare i ricchi di Montecarlo, ci siamo allontanati, ma sbagliava. Poi un giorno vado alla Numero Uno, metto la moto sul cavalletto, lui esce e ci abbracciamo, senza dire niente. Basta, ci era passato». Conferma, Radaelli: «Carlo aveva veramente un karma strano, noi facevamo di tutto per aiutarlo e lui faceva di tutto per non sentirci, era una dialettica folle, anche con sua mamma. Mi ricordo che non aveva ancora aperto la Numero Uno ed eravamo in giro con una Daf, una macchina olandese per gli handicappati, con i comandi al volante. Andiamo da un concessionario e c’era questa BMW coupé automatica, bellissima, Carlo tratta e la compra per tre milioni di lire. Poi chiama sua mamma: ma’ ho trovato la machina tua… Sua mamma era una di quelle che diceva: l’autostrada era piena di camìon, alla francese, per farti capire. Ah ma’, le diceva, ho trovato la tua auto, bella, bianca, se scoperchia così d’estate ci vai in giro, te la regalo io. Ma no Carletto, rispondeva sua madre. E Carlo: ma dai ma’ una volta che ti faccio un regalo. E lei insisteva: ma no, stai aprendo la tua attività, te li mando io. Va bene dai, ribatteva Carlo. Ma quanto costa?, gli chiese. E lui: 6 milioni! C’ha guadagnato 3 milioni, su sua madre… un genio senza Dio. Ero lì che ascoltavo e ho detto: ma no, dai, avrò capito male». E poi aveva dei picchi di rabbia incredibili. Brancaccio «Una volta nella casa di Donà delle Rose ha spaccato tutti gli smalti e i rossetti di sua moglie, poi ha preso una moto d’acqua, si è storto un ginocchio e poi col gesso ha preso la moto ed è tornato a casa, per poi ritornare dopo 2 giorni». Radaelli ne racconta un’altra: «Arriviamo in un albergo alle cinque del mattino. il portiere dell’albergo pretendeva che tutti dessimo la carta di identità prima di salire in camera, ma eravamo in 60. Carlo gli fa: dai ti lasciamo qui i documenti, noi andiamo a dormì e domani mattina ce li ridai. Il portiere non voleva, allora Carlo glielo ripete: te voi piglià ste cose e noi annamo a dormì. Io ero dietro di lui perché lo sapevo come sarebbe andata a finire. Quando il portiere disse ancora di no, Carlo saltò di là dal banco e gli mollò un cazzotto, menomale che io lo tirai dai fianchi e quello lì lo sfiorò e basta, prendendo poi il tavolo e rompendosi un dito. Mi diceva: Rada sei uno stronzo, m’hai tenuto, se no lo ammazzavo quello». Tutto questo era il contraltare della sua creatività. «Lo vedi anche dalle moto che faceva, forse lui è stato il primo vero customizzatore in Italia» dice Gianni. «Perchè le Harley arrivavano negli scatoloni di legno, e dentro c’erano queste moto invendibili, tutte le Harley arrivavano col manubrio a corna di bue, la sella terrificante tipo yankee, allora ste robe lui le smontava e le europeizzava, diciamo così. Le lavorava in questo buco in via Niccolini , all’inizio era proprio una vetrina e un buco, poi si è allargato finché ha creato un impero». Era un imprenditore illuminato, continua Gianni, aveva capito che per vendere le Harley doveva far finta di non venderle, «questa è stata la sua genialità, tu andavi lì alla Numero Uno, guardavi le moto e lui ti guardava un po’ in faccia e ti diceva: a te non te la do mica. Le ha fatte diventare aspirazionali, quindi alla fine sbavavi per averle. Le aveva vendute a quelle 10, 20, 30 persone che secondo lui erano quelle giuste e quella è stata la pubblicità iniziale. Adesso quelli lì si chiamerebbero influencer. Poi col tempo il giro si era allargato, ma mi ricordo che in quegli anni c’era gente che il

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primo paio di jeans se lo comprava a 50 anni perché poi se lo metteva la domenica per andarci in giro con la moto. Carlo aveva dato un prezzo alla libertà. Lui regalava una vita, lui ha portato la California prima a Milano, poi in Italia, pensa che c’era gente che lo copiava pure nel modo di vestire, c’era chi aveva smesso di indossare calzini e mutande perché lui non le portava, aveva questo carisma qui». La sua forza: veniva istintivo imitarlo: «Nell’88-89 metà degli harleysti giravano con le Superga senza calze» ride Radaelli. «Sembrava trasandato ma era tutto, tutto studiato, era da un lato naif, dall’altro uno stratega nato. In negozio un pomeriggio entra una cinese con quella macchinetta per infilare gli aghi. Lui la guardava con sufficienza: ma quanti ne hai, le chiese. Venti, rispose la cinese. Costavano 300 lire l’uno, Carlo glieli comprò tutte. E a tutti quelli che entravano gli imponeva di comprarle a 5mila lire l’una. In mezzora le aveva finite. In un negozio di Harley, capisci? Nessuno diceva di no a Carlo…».

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se Giovanni Cabassi di Carlo ne conserva la nostalgia, Brancaccio ne corserva la goliardia. «Era troppo fuori Carlo. Lui andava molto forte ed era molto bravo, e lui non te lo diceva ma toglieva la lampadina dello stop posteriore per non farti vedere quando frenava, questa è una roba da bastardi perchè già le Harley non frenavano mai… così tutte le volte che gli andavo dietro mi veniva la pelle d’oca, dicevo “porcatroia ma non frena mai sto qua”. Va’ che è una roba che devi essere bastardo nel cuore eheheh hai capito? e lui era così». Radaelli quasi ci muore per questo scherzo: «In Corsica io e lui ci staccamo dal gruppo per arrivare al porto un po’ prima e in questo rettilineo che porta al porto di Bastia, non ho visto che frenava e gli sono entrato dentro, mi s’è infilato il pedalino dietro nei raggi, ho fatto il giro della morte sopra la moto, la moto è cascata da una parte e si è incendiata, 17 milioni mi costò più 12 per rifarla, io mi sono spaccato spalla e gomito. Se si sentiva in colpa? Ma de che… Lui non aveva il senso della colpa, oppure si incolpava senza ragione. Te l’ho detto, era un Vate. Era l’uomo più ingiusto che sia mai esistito, anche nei confronti di se stesso, con picchi di generosità incredibili. Nella prima Eicma che abbiamo fatto Carlo mi commissiona gli stand H-D e Triumph. Io posiziono due prototipi su pedane girevoli che potevi osservare solo guardando attraverso delle finestre, contro ogni logica espositiva. Ma tutto va male: i finti mattoni crollano, le pedane facevano rumore. Io ero disperato, aspettavo solo il momento in cui mi avrebbe massacrato. L’ultimo giorno Carlo mi chiama e mi fa: ma di che ti preoccupi, può succedere, dovevamo provare meglio. Tutto questo davanti allo stand Peugeot, dove c’erano due cinquantini racing bellissimi. Carlo si alza, tratta l’acquisto e uno era per me... E poi lo spiegava così: io non lo so perché faccio certe cose, ma mi viene d’istinto. Lui all’inizio non pagava nessuno, perché riteneva ingiusto che qualcuno prendesse dei soldi, e quando io gli dicevo ma perché non paghi il carrozziere, lui mi rispondeva: perché no. Per lui era la prova provata che lo facevi col cuore, che credevi nella sua missione». Brancaccio ricorda le serate con Carlo quasi una a una. «Carlo aizzava, poi lasciava scatenare gli altri. Quando si andava in giro il giovedì sera per le trattorie eravamo delle teste di cazzo vere, mettevamo a ferro e fuoco i locali, era una roba imbarazzante. Lo sai che dopo anni sono andato in una trattoria in porta Genova e il proprietario mi ha riconosciuto e mi ha detto “Ma tu eri uno di quelli che andava in giro il giovedì sera con le Harley? Mi avete tirato una caraffa di vino rosso su un affresco…”. In cima al passo del Turchino c’è una trattoria, facevamo a gara nel lanciare le fette di prosciutto al soffitto e poi cronometravamo qual era quella che ci restava attaccata più a lungo. A un certo punto delle cene partivano le cotolette, ho visto Carlo in piedi che camminava sul tavolo scalciando i piatti, ubriaco… Ma delle cose da vergognarsi. Finite anche in rissa. Una volta in un albergo di Capo Noli abbiamo riempito una stanza di schiuma bianca con un estintore per fare uno scherzo a un amico. Un’altra ho pure messo il mio culo a disposizione». In che senso?

«In un ristorante mi sono abbassato i pantaloni e da lontano chi mi centrava con le fette di anguria vinceva. Carlo me ne avrà tirate una trentina, non mi ha mai preso». E dopo queste cene il delirio continuava in strada. «Eravamo talmente ubriachi che una volta qualcuno si fermò al semaforo e non mise i piedi per terra, andò giù di lato piatto, ti rendi conto? Un’altra successe questa, ché noi quando ci fermavamo al semaforo sgasavamo di brutto, ma poi, che vuoi, con le Harley partivi lento. Però c’era il figlio di un nostro amico che non lo sapeva: quando il semaforo diventò verde lui partì forte, il padre che era dietro di lui non se l’aspettava, scivolò, si aggrappò al figlio e caddero insieme, la moto per 30 metri andò dritta poi, zig zag, zig zag e andò a terra. Non riuscivo a parlare da quanto ridevo».

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uello che è rimasto di quei giovedi sera si chiama Achhiappocane, un motoclub mai registrato e una cena tra amici in una taverna di Affori, di proprietà di Nino Musumarra, dentista siciliano, uno di quelli a cui Carlo non disse: no, a te non te la vendo mica. Ci sono serbatoi, moto degli anni 50, una cucina, una tavolata. «Sono stato uno dei primi a comprare una Harley, nell’84» racconta Nino. «Le prime cene del giovedi sera con Carlo eravamo tipo in 12, i 12 apostoli, poi lui si è dovuto adeguare, da dieci moto è arrivato a venderne diecimila, da un negozio che era un piccolo magazzino e una vetrina è arrivato ad averne dieci, di vetrine. Allora è nata l’esigenza dell’Acchiappo, di ritrovarci sempre in pochi, i primi». Mangiamo orecchiette, pollo, cazzeggiamo. Chiedo: cosa vi manca di Carlo? Brancaccio: «Mi manca quando vado a fare i giri e mi fermo a parlare, perché quando vai in moto più o meno il viaggio è sempre la stessa cosa, ma è quando ti fermi che capisci veramente con chi stai andando». Carlo era un pazzo ok, ma si divertiva pure come un pazzo. Spiega ancora Cabassi: «Per me era un po’ Totò, un po’ Peter Seller. Diceva: stasera m’embriaco e magari lo faceva di Cointreau. Non aveva niente a che fare con lo stereotipo dell’harleysta che ben presto ci saremmo abituati a vedere. Nel 92 io non mi riconoscevo più in tutto quello e lui mi diceva: “tu non devi riconoscerti, tu sei tu e punto”». Frequentando la cena dell’Acchiappocane ho chiesto: ve lo vedreste adesso Carlo in mezzo a voi? Nino mi ha risposto senza pensarci: no. E ha ragione. Quelli come Carlo hanno fatto un patto con se stessi, col diavolo, con chissà chi poi: nella testa di chi l’ha conosciuti devono restare giovani, un po’ scemi e molto irriverenti. Liberi, forse liberi è la parola più corretta, come se la maturità si portasse dietro una nube di inquinamento alle cazzate e alla leggerezza, perché a raccontare i ricordi non si sfugge: la tristezza si incrocia sempre. E la tristezza fa subito vecchio, fa subito pesante. C’è chi trova sempre un appiglio, i figli, i nipoti, una passione. C’è chi invece passa, lascia il segno e fugge via. C’è chi cresce e ha il compito di passare il testimone e c’è chi vorrebbe crescere ma non ce la fa perché resterà sempre un bambino inquieto. C’è scritto pure su quel libretto nero, introvabile oramai, in una poesia: Pensavo fosse una cosa dei bambini. Smontare le cose. Invece no. Il mondo è diviso in due: quelli che smontano gli orologi e quelli che no. Io smontavo. Smonto ancora. Smonto tutto. Perché mi piace capire che ci sta nelle cose. Potessi smonterei anche le persone. Ma le persone non si lasciano smontare. Io smonto l’Harley.Qualche volta la porto alla Numero Uno a rimontarla e lì mi strillano come strillava mio padre. Non ho smesso di smontare. Non smetterò mai. Non voglio smettere. Voglio crescere e capire. Mi piace essere libero. Carlo Talamo, un amico strano.

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IO STAVO CON CARLO TALAMO IL PRIMO SHOW ROOM IN QUELLA ZONA CHE OGGI SI CHIAMA CHINATOWN, LA PRIMA CASA, LA CASA DOVE SI ERA TRASFERITO DOPO IL BOOM, IL RISTORANTE DIVENTATO SECONDO UFFICIO, IL BAR: ECCO I LUOGHI DI TALAMO A MILANO FOTOGRAFATI OGGI

Il primo show room della Numero Uno, nel 1986, in via Giovanni Battista Niccolini, a Milano. Davanti, le vetrine della prima officina.

Piazza Firenze, la casa in cui Carlo si è trasferito dopo quella in viale Piave.

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Il chioschetto di Sergio & Efisio in Corso Sempione, dov'era solito fermarsi Carlo Talamo. Qui si vedevano anche con i giovani di Radio Deejay, tra cui un certo Jovanotti, che poi si innamorò delle Harley, dell'America, scrisse Sei come la mia moto e cambiò la testa di migliaia di giovani.

Il Vecchio Porco, la trattoria di Carlo. Alle spalle dei tavoli sono ancora lĂŹ alcuni salvadanai a porcellino di H-D e altri oggetti portati alla trattoria da Carlo e dai suoi amici.

Le vetrine di Numero Uno. Ora diventato un negozio in piena ChinaTown.

Qui visse Carlo Talamo. Il portone di viale Piave 33, prima residenza milanese.

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LE 10 MOTO PIÙ FOLLI DELLA STORIA (E PER QUESTO PIÙ GENIALI E CORAGGIOSE)

È INCALCOLABILE IL NUMERO DI MOTO ORIGINALI, STRAVAGANTI E ASSURDE CHE SI SONO VISTE NELLA STORIA ULTRASECOLARE DELLA MOTO (E A EICMA PER ESEMPIO). MA PIÙ CHE GUARDARE A PEZZI UNICI, COME CERTE SPECIAL O IMPROBABILI CONCEPT FUTURISTICI CHE NON HANNO MAI MESSO LE RUOTE SULLA STRADA, ABBIAMO VOLUTO RACCONTARE UNA DECINA DI ESEMPI DI MOTO VERE. SI TRATTA DI MODELLI DESTINATI ALLA PRODUZIONE DI SERIE, MAGARI MINIMA, O CHE HANNO CORSO IN PISTA LASCIANDO IN QUALCHE MODO UN SEGNO, A VOLTE IMPORTANTE. MOTO CHE HANNO UNITO INTUIZIONE, CORAGGIO E A VOLTE LA SANA PAZZIA DEI PROGETTISTI CONTRO IL PENSIERO OMOLOGATO E NOIOSO. DAGLI ANNI VENTI A OGGI ECCO LA NOSTRA GALLERY

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Articolo di Maurizio Gissi

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1921 MEGOLA Gli anni Venti del secolo scorso hanno rappresentato nella storia della moto un periodo di eccezionale creatività. Fra tanti esempi di modelli concettualmente bizzarri un posto di rilievo lo occupa senza dubbio la tedesca Megola. Progettata da Fritz Cockerell, e costruita fra il 1921 e il 1925 in 500 esemplari (alcune fonti scrivono duemila), la Megola utilizzava un motore rotativo stellare a cinque cilindri di ispirazione aeronautica: aveva cilindrata di 640 cc e potenza di 14 cavalli a 5mila giri. Cockerell non era stato l’unico a guardare ai motori d’aereo della prima guerra mondiale per spingere una moto, ma la sua folle idea fu di piazzare il motore sulla ruota anteriore in modo che l’albero motore fosse in asse con il perno ruota; come accadeva insomma con le eliche degli aeroplani. Quando il motore partiva (si avviava a spinta o facendo girare a mano la ruota davanti, sollevata grazie al cavalletto), la moto avanzava. Ogni sei giri di albero motore la ruota ne compiva uno solo grazie a un semplice riduttore epicicloidale. All’estremità della forcella c’erano da un lato il carburatore e dall’altro il volano magnete. La lubrificazione era a perdita e all’occorrenza si premeva una specie di grossa siringa contenente olio. Non c’erano né cambio né frizione per cui a seconda

1921 NER-A-CAR delle strade che si percorrevano abitualmente si poteva scegliere il diametro della ruota più adatto a sviluppare il rapporto migliore. Con un cerchio da 740 mm di diametro una Megola Racing toccò i 143 orari nel 1923, quando il modello da turismo poteva raggiungere solo i 120 orari. Era facile accedere al motore poiché era tutto in vista, ma siccome sulla ruota davanti mancava lo spazio c’erano due freni (a pattino e a tamburo) spostati sulla ruota posteriore. Inoltre le camere d’aria erano a forma di salsicciotto così che per cambiarle o ripararle quando si forava – problema molto frequente sulle strade dell’epoca - non serviva smontare le ruote dalla moto. L’originalità non si fermava qui, perché il telaio era in acciaio stampato e nel trave centrale stava la benzina, le sospensioni erano a balestra, doppia dietro, e la sella era una specie di poltroncina. Il baricentro molto basso semplificava infatti la guida.

Dell’industria motociclistica statunitense conosciamo bene Harley-Davidson o Indian, ma in passato furono centinai i marchi attivi nel costruire ogni genere di veicolo a due ruote. Come la particolarissima creazione di Carl A. Neracher che aveva un passato di ingegnere automobilistico. Giocando con il suo nome chiamò il suo ibrido moto-scooter-auto (e il suo marchio) Ner-acar, tradotto: quasi un’automobile. Un progetto innovativo che venne finanziato dal re della rasatura Gillette. Era il 1921 quando la prima Ner-a-car arrivò in vendita al prezzo di 225 dollari. Si trattava di un mezzo totalmente diverso dalle altre moto nel suo concetto ispiratore, nella sua costruzione e nell’utilizzo. Voleva rivolgersi anche a motociclisti nuovi, alle donne e voleva essere un’alternativa economica all’auto grazie alla maggiore comodità e protezione di una moto, tanto che era pubblicizzata come un’automobile a due ruote (vi ricorda qualcosa?). Percorreva da 85 a 100 miglia per gallone alla velocità di 35 miglia orarie (57 km/h): un solo dollaro di spesa per 300 miglia. Pazzesco, soprattutto per l’epoca. Neracher collegò le ruote a due montanti laterali in lamiera stampata in modo da avere un telaio bassissimo e una posizione di guida con sella bassa e piedi avanti. La ruota anteriore adottava un innovativo mozzo sterzante di scuola automo-

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bilistica e il manubrio lo comandava tramite una tiranteria laterale. Per cui era facile da governare e molto stabile. Era particolarissima anche la trasmissione, con un originale variatore a due dischi di frizione disposti a 90 gradi: muovendone uno tramite una leva manuale si potevano variare i cinque rapporti. Il primo motore era un mono due tempi di soli 211 cc, ma sulle Ner-a-car costruite su licenza in Inghilterra – dove trovarono maggiore fortuna - passò a 348 cc, a una cambio a tre marce e a una velocità massima di 85 orari. Nel 1926, per carenza di vendite, la produzione si fermò sui due lati dell’Atlantico e fu la fine di un’idea follemente nuova.

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1924 BOHMERLAND Prima di essere soffocata dall’ingerenza sovietica l’industria motociclistica cecoslovacca diede esempio di enormi capacità. Basta

ricordare alcune anteprime come il motore quadricilindrico con trasmissione a catena della Laurin Klement (che diventerà Skoda) del 1905, le ruote in lega leggera che Yamaha scoprirà solo 50 anni dopo, o la distribuzione bialbero, oppure l’avviamento elettrico.

Una moto decisamente folle per i tempi fu la Böhmerland (terra di Boemia in tedesco) disegnata da Albin Liebisch e costruita fra il 1924 e il 1939. Se il motore era un mono 4 tempi di 603 cc e 16 cavalli (arrivò fino a 25) di architettura consueta, non lo stesso si poteva dire per il resto della moto. A partire dall’idea di base che era quella di avere una monoposto (che superava i 140 orari), una biposto, oppure una tre posti a seconda del telaio usato. Proprio la tre posti è stata la preferita fra il migliaio di esemplari prodotti. La considerevole lunghezza di tre metri era dominata da un vero e proprio telaio tubolare a traliccio che ricordava la struttura di un ponte. Spiccavano le ruote integrali in lega di alluminio, molto in anticipo sui tempi, la sospensione anteriore con molle estese invece che compresse,

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1955 MOTO GUZZI V8 il motore totalmente scoperto e i due serbatoi cilindrici della benzina sistemati ai lati della sella posteriore. Anche i colori contribuivano a rendere eccentrica questa moto che vide un’erede in una nuova versione 350 nel 1938. Ma un anno dopo la Böhmerland venne chiusa in ottemperanza del Piano Schell: una selezione delle industrie destinate alla fornitura di mezzi militari operata dalla Wehrmacht nei territori occupati. Fu così che Albin Liebisch non poté proseguire il suo progetto controcorrente.

Moto Guzzi 500 otto cilindri. Ovvero quando la genialità e il coraggio rasentano la follia tecnica. Questa straordinaria moto da gran premio è forse il più eclatante capolavoro motoristico nell’intera storia del motomondiale. Giulio Cesare Carcano - già autore delle Condor, Dondolino e Gambalunga da corsa - cominciò a progettare la 500 V8 nel 1954 resosi conto che per sconfiggere Gilera e MV Agusta a quattro cilindri serviva un motore più frazionato e diverso dal quadricilindrico Guzzi 500, con trasmissione ad albero, che fin ad allora aveva ottenuto poco. Il V8 di 90° di Carcano era disposto trasversalmente nel telaio che serviva a contenere il lubrificante e il liquido di raffreddamento. Il compatto bialbero con distribuzione a ingranaggi ricorreva non soltanto al raffreddamento a liquido, ma a tutte le migliori soluzioni costruttive disponibili all’epoca (il solo albero motore costava l’equivalente di 40mila euro attuali). Nella sua prima versione provata in pista nel 1955 il Guzzi V8 ruotava a ben 12mila giri. Aveva il cambio a sei marce, ma in gara capitò di usarne soltanto quattro o cinque vista l’erogazione piena del motore. Il problema non era tanto la potenza (forniva 72 cavalli per una velocità di 275 orari grazie alla carenatura a campana), quanto la solidità della ciclistica e l’affidabilità meccanica in assenza di materiali sufficientemente evoluti.

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La otto cilindri debuttò in gara nel 1956, ma la sua avventura terminò già l’anno dopo, ovvero quando la Moto Guzzi, assieme a Gilera e Mondial, firmò il famoso patto di astensione, lasciando il campo libero alla MV, che continuò a correre in forma fintamente privata. In Guzzi si stoppò così lo sviluppo di questo straordinario V8, e dunque anche l’arrivo della sua versione ridotta a 350 cc. Il frazionamento spinto venne successivamente sposato dalla Honda, dalle strepitose bialbero 50 bicilindrica e otto valvole del 1963, alla cinque cilindri 125 del 1965, passando per le sei cilindri 250 e 350 - in realtà 297 cc effettivi - del 1964. Pur avendo corso poco la Guzzi V8 resta una delle espressioni più estreme del motociclismo da corsa.



1975 QUASAR Come abbiamo già ricordato l’idea un po’ folle di un ibrido che unisca i pregi di una moto con quelli di un’auto c’è dagli albori della motorizzazione. A partire dalla due ruote russa Schilolovski del 1914 - con addirittura quattro posti e l’equilibrio garantito da un giroscopio - passando per la svizzera Peraves EcoMobile del 1983 e per finire con la recentissima tre ruote i-Road di Toyota messi in campo. Peraltro quasi tutti avari di risultati quando non fallimentari. Nel 1975 gli inglesi Malcom Newel e Ken Leaman iniziano a vendere a Bristol la loro Quasar: una moto monoposto con il tettuccio e il parabrezza (con regolare tergicristallo) per riparare dalle intemperie, la posizione di guida seduta con tanto di schienale e i piedi in avanti come su un’auto. In questo modo si abbassa il baricentro, la stabilità non soffre per il vento laterale grazie anche al lungo interasse e si migliora la guidabilità nonostante il peso arrivi a 318 kg. La carrozzeria è in vetroresina e il telaio tubolare d’acciaio prevede un roll bar di protezione superiore, la sospensione anteriore è a forcellone con sterzo indiretto e ci sono tre freni a disco per le ruote da 18 pollici. Il motore è una quattro cilindri di 848 cc impiegato sulle popolari utilitarie Reliant Robin capace di 41 cavalli: con un litro di benzina si percorrono 27 chilometri e la velocità massima sfiora i 175 orari.

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1979 HONDA NR500 La trasmissione finale è ad albero. Di questa versione ne sono stati costruiti solamente 21 esemplari fino al 1981. Successivamente Newell ha realizzato altri modelli con motori da moto (Suzuki GS 1000, Kawasaki 1300 sei cilindri, Honda VF750) passando poi alla Phasar motorizzata anche con il boxer Honda Gold Wing e il V2 Moto Guzzi. Anche in questo caso ne vennero però realizzati pochissimi esemplari, mentre il suo progetto di un tre ruote basculante non vide la luce perché Newell morì nel 1994 a soli 54 anni.

Quando Honda ritornò alle competizioni, dopo il ritiro del 1967, lo fece con un motore a quattro tempi. Una follia tecnica considerato che le 500 a due tempi erano in evidente vantaggio di potenza e non penalizzate nei consumi o nel peso, eventualità che avrebbe altrimenti dato qualche possibilità in più alla testardaggine Honda: si trattava di battere le GP a due tempi per mostrare la propria leadership. La faccenda era però molto complicata poiché oltre alla cilindrata identica non era possibile superare il frazionamento di quattro cilindri imposto dal regolamento tecnico: competere ad armi pari era insomma impossibile. In ogni caso sperimentando lo sperimentabile sull’intera moto e investendo ingenti risorse, Honda pensò di potercela fare. L’uovo di Colombo erano i pistoni ovali, con due bielle ciascuno e camere di combustione con otto valvole. Si rincorrevano insomma i vantaggi di un V8 pur con soli quattro cilindri. Il V4 di 100° progettato da Soichiro Irimajiri era in grado di ruotare oltre i 20mila giri, anche se l’obiettivo dei 130 cavalli non era stato raggiunto. Il telaio verteva su una inedita struttura monoscocca in lamiera di alluminio che integrava la carenatura, il forcellone era in asse con il pignone, la forcella rovesciata aveva le molle esterne e i radiatori erano disposti lateralmente. Montava ruote componibili Comstar, da 16 pollici,

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che riducevano il peso e abbassavano il baricentro della moto. Il debutto al GP di Gran Bretagna del 1979, con Mick Grant e Takazumi Katayama, fu un vero disastro visto che la moto faticava anche solo ad avviarsi: allora si partiva a spinta. Al Gran Premio di Francia la NR (che stava per New Racing ma venne storpiata in Never Run dai critici) non si qualificò nemmeno. L’anno dopo con la versione X1 si cambiò: telaio e forcella tradizionali (ovvero in tubi d’acciaio e steli normali), radiatore frontale e ruote da 18 pollici. Nel 1981 la potenza arrivò a 130 cavalli e qualche buon risultato arrivò dal campionato giapponese. Ad ogni modo il programma triennale non aveva dato i risultati sperati e la Honda si trovò davanti a un bivio. La storia è nota, scelse il motore a due tempi con il quale affrontò la stagione 1982 con l’iridato in carica Marco Lucchinelli. Affiancato da un certo Freddie Spencer il quale, con la NS a tre cilindri, ottenne nel 1983 il primo titolo mondiale Honda nella classe 500. Quando la follia diventa talento. Il progetto NR non venne accantonato, ritornò in cilindrata 750 per una partecipazione alla 24 Ore di Le Mans del 1987 e per equipaggiare l’ambiziosa e costosissima NR 750 di serie che debuttò al Tokyo Motor Show del 1989.


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1981 ELF-E Ancora una moto da corsa totalmente fuori dagli schemi e che deve la sua origine a due realtà estranee al mondo motociclistico in senso stretto. Il progetto venne finanziato dalla società petrolifera Elf (che aveva già sponsorizzato la Tyrrell P34 da Formula 1, quella con sei ruote...) e firmato da André De Cortanze che approcciò il tema moto da pista in chiave decisamente atipica. Dopo la parentesi Elf l’ingegnere francese è stato responsabile tecnico delle squadre F1 di Renault, Peugeot, Ligier, Sauber e Toyota. De Cortanze aveva fatto esperienza alla Alpine Renault, ricevuta carta bianca dalla Elf e con la mente libera dalle convenzioni abbandonò i concetti tecnici in voga: farlo su una moto da corsa richiese ancor più coraggio e mestiere. Un assaggio della sua idea lo diede nel 1978 con la Elf-X, spinta da un Yamaha 750 quadricilindrico a due tempi, ma fu con la Elf-e da endurance che ottenne buoni risultati: corse dal 1981 al 1983 e fu guidata anche Walter Villa che ne seguì lo sviluppo. Che cosa aveva di strano quella moto? Tutto a parte il motore Honda 1000 bialbero a quattro cilindri raffreddato ad aria, derivato dalla serie ma preparato dalla HRC. Mancava il telaio perché il motore aveva funzione portante per i due forcelloni monobraccio. A loro volta

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1991 BRITTEN V1000 con le sospensioni automobilistiche e le ruote a sbalzo in magnesio e a smontaggio ultra rapido. Il sistema di sterzo era meccanico con dispositivo di rotazione nel mozzo. Il serbatoio era posizionato sotto al motore per abbassare i pesi, i freni erano in carbonio (non si usavano ancora sulle 500 da GP) e i collettori di scarico correvano sopra la testata, sotto il finto serbatoio. Il monobraccio posteriore brevettato dalla Elf è stato poi rilevato dalla Honda per alcuni modelli di serie. La carenatura a copertura totale era senza soluzione di continuità e il pilota, isolato dall’aria di raffreddamento del motore, vi si inseriva formando un corpo unico con la moto e non mancava il doppio faro rettangolare anteriore. Questa linea estetica chiusa ha ispirato le prime Honda CBR 600 e 1000, la Ducati Paso, le Bimota DB1 e Tesi 1D, e altri modelli meno noti.

Di moto strane, esagerate o pazzesche, se ne sono sempre viste e ce ne saranno sempre, ma rendere funzionali e migliori delle soluzioni convenzionali le intuizioni apparentemente folli richiede ulteriori doti di genialità oltre a una passione sconfinata. Soprattutto quando si tratta di misurarsi in gara con moto partorite da efficienti e grandi reparti R&D. John Britten è stato forse l’ultimo autentico genio che la moto ha conosciuto. Nato della cittadina neozelandese di Christcurch nel 1950 si è laureato in ingegneria meccanica non prima di avere abbandonato la scuola, da ragazzo, a causa della dislessia. È cresciuto inseguendo il mito di piloti e costruttori connazionali famosi come Bruce McLaren e Burt Munro ed è stato capace di creare da zero quel capolavoro d’intuizione che è stata la V 1000 da corsa che porta il suo nome. Britten era un sognatore ma anche uno studioso di materiali innovativi, tanto che la casa che si costruì da solo era fatta con materiali di recupero. L’essere ingegnere, artigiano e conoscitore della tecnologia, oltre che ostinato e visionario come ogni neozelandese che si rispetti, lo portò a realizzare nel 1991 la V1000, una moto da corsa sofisticata e anticonvenzionale. Britten costruì in proprio l’intero motore V2

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partendo da testate da speedway, con valvole e bielle in titanio, iniezione sequenziale e montando infine un cambio Suzuki; il radiatore era montato sotto la sella (come si vide poi sulla Benelli Tornado a tre cilindri) e la moto era equipaggiata di acquisizioni dati. Il suo motore aveva funzione portante e riduceva il telaio a piccoli supporti secondari. Con la fibra di carbonio Britten fabbricò da sé la monoscocca superiore, le sospensioni (l’anteriore secondo lo schema Hossak al posto della solita forcella) e persino le ruote. Risultato: solo 138 kg di peso e 160 cavalli di potenza, meglio delle Ducati SBK di allora tanto per dare la misura. Arrivarono le vittorie nelle Battle of the Twin di Daytona, ad Assen e poi il titolo SBK neozelandese. Al TT del 1993 la V1000 staccò la più alta velocità massima. Di questa moto straordinaria ne sono stati costruiti solo dieci esemplari dopo il primo prototipo e alcuni di questi sono fortunatamente custoditi nei musei. Se un melanoma non lo avesse portato via all’età di 45 anni, la moto sportiva come la conosciamo forse sarebbe diversa. John Britten avrebbe probabilmente messo in discussione tanti altri concetti, evoluti ma applicati a schemi noti.


2000 MTT Y2K Ovvero metti il motore a turbina di un elicottero in una moto in grado di stracciare record in fatto di potenza, velocità e prezzo per una moto di serie. Facile a pensarlo, complicato da realizzare. Ed è quello che ha combinato Ted McIntire con la sua Marine Turbine Tecnologies in Luisiana. Costruita su ordinazione, questa supersportiva non ancora omologata in Europa è la prima a essere spinta da una turbina a gas: nella sua versione Y2K dell’anno 2000 montava un Rolls RoyceAllison 250-C18 da 320 cavalli (potenza fornita al regime di 52mila giri) capace di una coppia massima di 59 kgm. Motore che le ha permesso di raggiungere la velocità effettiva di 365 km/h in appena 15 secondi... Un fulmine. Accreditata della velocità massima di 402 orari era in vendita alla altrettanto folle cifra di 180mila dollari. La scocca in fibra di carbonio cela un telaio di alluminio al cui interno circolano i vari liquidi di servizio, mentre i due serbatoi carburante (gasolio o kerosene) sono da 34 e 6 litri, per un’autonomia che varia dai 90 ai 160 km. La trasmissione automatica è a due velocità e il peso è di 227 kg con il carburante, paragonabile a quello di una normale supersportiva. Dal 2006 MTT, che offre una garanzia

2003 DODGE TOMAHAWK a vita per le sue moto, propone il motore da 420 cavalli per la versione Streetfighter in vendita a 175mila dollari e attualmente sta sviluppando il modello 420-RR che dovrebbe arrivare a breve con una linea affinata, la possibilità di raggiungere i 420 orari e, forse, un’estetica migliore. Brembo è partner per i freni e Pirelli lo è per i pneumatici. Jay Leno, showman televisivo e proprietario di una vasta collezione di auto e moto, possiede la Y2K con telaio numero 002. Ha raccontato che guidarla spaventa a morte, ma assicura un piacere assoluto, e che in una sosta al semaforo il calore uscito dallo scarico della sua moto ha fuso il paraurti di un’automobile vicina.

Chissà se qualche casa automobilistica deciderà di dare vita al folle concept Dodge Tomahawk presentato dal centro stile Chrysler nel 2003. Una moto nata per impressionare tanto nella linea scultorea che nelle prestazioni esorbitanti. Un puro esercizio che non è mai andato oltre alla costruzione dei primi prototipi e che la crisi del gruppo americano di alcuni anni fa ha archiviato. Base di partenza è il motore V-10 di 90°, interamente in alluminio, di 8,3 litri di cilindrata prelevato dalla Viper SRT10 e accreditato di 500 cv a 5.600 giri per una velocità massima dichiarata di 480 km/h. In realtà nessuno ha mai guidato la Tomahawk fino a quel punto e c’è chi sostiene che non sarebbe possibile andare oltre i 150 all’ora, men che meno superare le 200 miglia senza che il piloti voli via in mancanza di un riparo aerodinamico. Di fatto nessun test serio è stato mai svolto e tutto resta in sospeso. Compresa l’intenzione di realizzarne una decina di esemplari da vendere a qualcosa come 550mila dollari l’uno. Comunque sia la Tomahawk sarà ricordata non solo per il design futuribile firmato da Mark Walters.

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Per esempio la moto usa l’imponente motore con cambio a due rapporti come elemento portante per le sospensioni, particolari anch’esse perché la Tomahawk monta due coppie di ruote gemellate (più della nuova Yamaha Niken). Un motivo estetico e tecnico vista potenza e peso in gioco. Le ruote sono basculanti e permettono alla moto un’inclinazione in curva di 45°, le posteriori adottano un forcellone monobraccio centrale con i cerchi da 20 pollici a sbalzo, mentre le anteriori sono articolate con due coppie di forcelloni monobraccio sovrapposti e con meccanismo di sterzo nei mozzi. I quattro freni a disco perimetrali misurano 500 mm di diametro e le pinze sono a sei pistoncini. Il peso non si conosce. È invece di 400 kg quello della francese Lazareth presentata quest’anno al Salone dell’Auto di Ginevra. Si chiama LM487 ed è un multiruota che ricorda la Tomahawk. Il motore è però un Maserati V8 di 7mila cc, da 470 cv e con 61 kgm di coppia. Di produzione, in questo caso, al momento non se ne è parla: anche la follia ha un limite.

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IL FUTURO CORRE VELOCE LA VERA NOVITÀ RACING DI QUESTO 2017? IL MONDIALE WSSP 300. PERCHÉ È UNA SCELTA DI CUI IL MONDO DELLE DERIVATE AVEVA BISOGNO. C’ERA NECESSITÀ DI CREARE UNA VERA ENTRY CLASS CHE RINGIOVANISSE L’AMBIENTE PORTANDO IN PISTA TANTI PILOTI UNDER 20. LA 300 È LA CATEGORIA PIÙ INTERESSANTE ANCHE PER LE PROSPETTIVE DI MERCATO DELLE SPORTIVE. TRA LACRIME AMARE, SORRISI STRAPPATI, PUGNI CHIUSI SUL PODIO, SINGHIOZZI DI GIOIA SOTTO I CASCHI E SCONFITTE ARRIVATE ALL’ULTIMA CURVA

a b Articolo

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e Foto di Raffaele Paolucci

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È STATA LA PRIMA DONNA A VINCERE UNA GARA NEL MONDIALE. STUDIA LEGGE E VUOLE CONTINUARE A FARLO MA ALLO STESSO TEMPO NON SMETTERÀ DI COLTIVARE IL SUO SOGNO

AN A CARRASCO SPAGNA - KAWASAKI

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a in moto da quando aveva tre anni. All’età di nove anni viene nominata Rider of the year da Planet Moto e in una stagione riesce nell’impresa di vincere tre campionati contemporaneamente. A quattordici è in 125 nel campionato spagnolo ed è la prima ragazza a prendere punti in quella categoria ritenuta all’epoca una delle più competitive in assoluto. Nel 2013 fa il salto nel mondiale di Moto3 col Team Calvo e al Gran Premio di Spagna è settima sulla griglia di partenza e ottava in gara. Fa altre due stagioni in Moto3 con fortune altalenanti e lo scorso anno decide di passare all’Europeo di Moto2. Quest’anno, in WSSP300 con il team ETG Racing, ha fatto la storia, vincendo la gara di Portimao dopo una gara tiratissima conclusa in volata. Per capirci: tra lei e il quinto classificato c’erano tre decimi di secondo. È la prima volta che una donna vince una gara ufficiale di un Mondiale. Molto concentrata con il team sullo sviluppo della sua Kawasaki, probabilmente inferiore rispetto alle altre moto presenti in griglia nella prima parte della stagione, ha lavorato duro migliorando decisamente nella seconda parte. In campionato ha chiuso all’ottavo posto con 59 punti. Ana ha le idee chiare in pista quanto fuori. Studia legge ed è fermamente decisa a proseguire gli studi. Ama la strada che ha scelto ed è molto concentrata nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Allo stesso modo ha bisogno di sentire che gli amici e la famiglia le sono vicini, per lei è indispensabile perché dice che la vita di un pilota non è per nulla facile e senza il supporto di chi ti sta vicino sarebbe tutto maledettamente più complicato.

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DORREN LOUREIRO

SUD AFRICA, YAMAHA

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orren Loureiro è nato in Portogallo ma risiede in Sud Africa. Ha iniziato la sua carriera europea nel 2015 partecipando alla European Junior Cup con Honda e quest’anno ha fatto parte dello schieramento della WSSP300, gareggiando per i colori del David Salom Junior Team. È stata una prima annata abbastanza complicata ma è riuscito a dimostrare il suo valore in pista, arrivando a ottenere buoni piazzamenti. A Misano ha sfiorato addirittura il podio, dimostrandosi uno dei più veloci. Non è riuscito ad andare oltre al nono posto al termine della prima stagione del WSSP 300, conquistando 59 punti come Ana Carrasco. La sua

A MISANO HA DATO SPETTACOLO MA NON È RIUSCITO A PRENDERSI IL PODIO. HA CHIUSO NONO IN STAGIONE MA PER LUI LE 300 SONO UN PO’ PICCOLE

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guida, come solo chi dedica attenzione e studio alla discpilina, è migliorata gran premio dopo gran premio e si dice soddisfatto della sua annata. Sa di correre in un campionato pieno di piloti competitivi, uno attaccato all’altro e gli piace l’idea che si possa ogni volta uscire sesti da una curva per ritrovarsi primi alla staccata della curva successiva. Lui gode così! Ha fatto fatica all’inizio per passare dalla 600, che usava lo scorso anno, a una moto piccola e meno potente come la 300, una categoria creata per i giovanissimi. Dorren sarebbe un po’ troppo alto per questa categoria e deve perciò seguire una dieta ferrea e allenarsi scrupolosamente, senza saltare mai il programma, per evitare di mettere su peso e penalizzare così le prestazioni della moto. Già non da primo della classe. «David Salom e i suoi ragazzi stanno facendo un gran lavoro, devo solo ringraziarli». Loureiro sa già come ricambiare il loro impegno. Sfruttare la scia per arrivare davanti alla staccata della curva dopo!


DA NIEL VALLE SPAGNA - YAMAHA YZF-R3

33 FACCIA DA BRAVO RAGAZZO MA IN PISTA NON CONCEDE UN METRO A NESSUNO. AL PRIMO ANNO IN 300 HA CHIUSO AL QUINTO POSTO

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ani Valle, madrileno, è uno dei pochi tra i piloti della categoria a essersi formato agonisticamente nel motocross per poi passare alla velocità all’età di 12 anni. Dopo tre stagioni di gare è in Moto3 nel campionato spagnolo dove lotta costantemente per i primi cinque posti. Da quest’anno il salto nel mondiale della WSSP300 dove è salito sul podio nella gara di Aragon. Nella prima gara del campionato spagnolo ha vinto partendo dalla pole. Studia e si allena al Centro de Alto Rendimiento di Madrid, una struttura in cui possono formarsi i migliori talenti dello sport spagnolo. Si definisce un ragazzo normale, tranquillo e molto socievole. Un po’ il contrario di quel che accade quando sale in moto dove tira fuori una grinta che sembra non appartenere a quella faccia. Ha una guida molto aggressiva, è forte in frenata e in sostanza è uno che non molla mai un solo metro al proprio avversario.

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CAMPIONE EUROPEO E OLANDESE, INSIEME AL PADRE CONDIVIDE IL PROGETTO RACE-KIDS PER INSEGNARE AI BAMBINI A CORRERE IN PISTA. HA CHIUSO LA STAGIONE AL SETTIMO POSTO

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ROBERT SCHOTMAN OLANDA - YAMAHA

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a già vinto parecchio Robert Schotman, corre da dodici anni e ha accumulato ormai una grande esperienza ma sorprende ugualmente la maturità che sembra dimostrare alla sua giovane età. Nel 2008 è stato campione europeo di minimoto, nel 2013 campione europeo Moriwaki Junior Cup 250, nel 2016 campione olandese KTM RC390 Cup. A 18 anni ha già cominciato a frequentare l’università e nel tempo libero insegna alla Race-Kids messa in piedi in Olanda con suo papà. Cioè, lui sta ancora lottando per diventare un pilota da gran premio ma già pensa al suo futuro e a quello dei bimbi a cui insegna come si sta in pista. Solo per questo meriterebbe di farcela. Schotman ha finito il campionato in settima posizione portando a casa anche due podi. L’inizio della WSSP300 per lui è stato complicato. Subito veloce, sia ad Aragon sia ad Assen ha lottato per la vittoria ma ha portato a casa solo un paio di cadute. Da lì in poi è migliorato molto e da Misano, dove ha portato la sua YZF-R3 in prima fila, le cose hanno cominciato a funzionare. Robert Schotman, come tutti gli altri ragazzi appartenenti al progetto bLU-cRU di Yamaha, gode anche dell’opportunità di effettuare una serie di Master Camp presso la VR46. Un programma fitto di impegni per cinque giorni di preparazione intensa, dalle minimoto ai kart per finire al flat track nel ranch di Valentino Rossi. Alle gare da quest’anno si presenta solo o al massimo con un amico. Dice che papà e mamma si stufano nei lunghi tempi di attesa dei weekend di gara e a casa ci sono comunque due sorelle da seguire. Mica si potrà dire che sto ragazzo non sappia il fatto suo…

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apoletano, corre in moto da dieci anni. A quattordici era già su una Yamaha R6 nel trofeo monomarca prima e nel campionato amatori poi. Ha corso le ultime due stagioni nella European Junior Cup e oggi fa parte del progetto Yamaha chiamato bLU-cRU. Corre per il team SK Racing e in classifica generale ha chiuso al secondo posto, staccato di una sola lunghezza da Marc Garcia. Sette podi e una vittoria in Germania il bottino di Alfonso Coppola al quale, se chiedete dei risultati di quest’anno vi

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ALFONSO COPPOLA

ALLA PRIMA STAGIONE DEL MONDIALE 300 HA CHIUSO AL SECONDO POSTO PER UN PUNTO. LA DELUSIONE È CONCRETA MA PUNTA DRITTO VERSO IL SUO OBIETTIVO, MOTOGP O SBK POCO IMPORTA: L’IMPORTANTE È ARRIVARE IN ALTO

ITALIA - YAMAHA

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risponderà che lui un’altra gara l’ha vinta. A Donington infatti è arrivato primo sotto la bandiera a scacchi dopo un acceso duello con lo spagnolo Mika Perez per subire in un secondo tempo la squalifica dalla gara. Vuole arrivare in alto Alfonso, MotoGP o SBK fa lo stesso. Un sogno lo ha già vissuto di persona incontrando Valentino Rossi, il campione a cui si ispira da sempre, al Master Camp della VR46 Academy. Il suo impegno per ora ruota attorno alle gare. Si allena in palestra, non sgarra con l’alimentazione e fa vita da atleta. Gli piace l’ambiente sportivo per cui il suo obiettivo è quello di rimanere a lavorare in questo mondo ripagando così gli sforzi fatti dai suoi genitori per farlo gareggiare. Si dichiara libero sentimentalmente, per ora dice che va bene così, niente relazioni fisse. Si gode la vita senza distrazione e con la testa dritta verso la prossima bandiera a scacchi.



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NELLA PISTA DELLE LEGGEN DE


VELOCISSIMA, DIFFICILE DA IMPARARE, NON PERDONA: IMOLA. UN NOSTRO PILOTA HA CORSO IL QUARTO MEETING IN PISTA ORGANIZZATO DALLA FEDERAZIONE IN DUE CATEGORIE. QUESTO È IL RACCONTO DEL SUO WEEKEND DI PASSIONE E VERITÀ

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Articolo di Riccardo Schiavotto

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Foto di Niccolò Rastrelli

a prima cosa che ti passa per la mente, quando esci per la prima volta dalla corsia box del circuito di Imola per immetterti in pista, non sono di certo le traiettorie migliori da percorrere, nonostante le ore di video su YouTube passate a memorizzarle. Né tantomeno con quale marcia affrontare la prima serie di curve del Tamburello. No, la prima cosa che pensi è che su questo asfalto sono passati TUTTI. Tutti i più grandi campioni del motor sport a due e a quattro ruote hanno gareggiato su questa pista, dandosele di brutto in sfide che sono ewntrate nella leggenda. Pensi alla 200 Miglia di Paul Smart, al weekend nero della Formula 1, fino ai sorpassi di Bayliss ed Edwards. La concentrazione torna subito, non appena si prende il Tamburello e si allunga successivamente fino alla Villeneuve, dove arriva l’ultimo brivido lungo la schiena prima di entrare, definitivamente, in trance agonistica, quando sul muretto a sinistra si intravede chiaramente il mazzo di fiori in memoria di Roland

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Sopra, Riccardo Schiavotto e Luca Pastorello (con il casco) che attendono rinforzi dai meccanici mentre il terzo pilota Markus Krenn cerca di serrare la staffa porta pedana allentatasi durante le prove ufficiali endurance del team austriaco di Hermann Ansorge. Nella pagina a fianco, la partenza della Honda Four 750 di Ruote Celeri nel Gruppo 5. La Honda di Ruote Celeri è stata modificata con carburatori CR da competizione, pistoni ad alta compressione, albero motore allegerito e bilanciato, accensione elettronica ignitech, peso ridotto sotto i 160 kg (di serie 220kg). Ruote Celeri ha presentato la versione Honda Four 650 alla festa dei 10 anni di Riders, la Riders10.

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SUDI, FATICHI, IMPRECHI E T’INCAZZI. QUANDO TI INFILI IL CASCO, PERÒ, CAMBIA TUTTO. CAMBIA LA TUA PROSPETTIVA, CAMBIANO OBIETTIVI ED EMOZIONI. A OGNI CURVA, A OGNI STACCATA, A OGNI SORPASSO RINGRAZI DI ESSERE IN SELLA E NON VORRESTI STARE DA NESSUN’ALTRA PARTE AL MONDO

Ratzenberger. Il menù di curve da lì in poi è da brividi: tornantino della Tosa, salitona fino alla Piratella - che compare solo dopo lo scollino a 150 metri - discesona fino alle Acque minerali, risalita fino alla variante alta e giù in picchiata fino alla Rivazza, infine variante bassa e traguardo. Detta così sembra semplice ma sbagliare la traiettoria anche di un metro sulla semicurva in discesa che porta alla Rivazza, significa puntare diritti contro al muretto a sinistra a gas spalancato, non esattamente piacevole. La staccata vera e propria della Rivazza - in discesa - è roba da accendere un cero al protettore delle forcelle a pacco a ogni giro. Così è Imola, velocissima, difficile da impare e allo stesso tempo non perdona l’errore. Nel paddock l’energia è alta: dopo quasi due anni la Federazione ha finalmente mantenuto la promessa organizzando il quarto Meeting in Pista proprio a Imola, facendo registrare il record di iscritti tra tutte le classi (c’erano più di 400 moto presenti). Le corse principali sono quelle che coinvolgono le moto d’epoca, tra cui il Gruppo 5 (gara secca su 10 giri, moto fino al 1983) e l’Endurance vintage sia italiano ed europeo (una gara lunga 4 ore, non proprio una passeggiata). I mezzi che arrivano da tutta Europa sono da bava alla bocca, mostri con quasi 40 anni da 140 cavalli alla ruota, spesso portati in gara da ex piloti di Superbike e tester di MotoGP (e infatti la gara Endurance se la aggiudicheranno i fratelli Guareschi su una Moto Guzzi). Ma quello che impressiona di più è l’impatto estetico delle soluzioni tecniche, che su mezzi da competizione sono per forza di cosa estremamente efficaci e necessariamente minimaliste. Viene da chiedersi perché le case motociclistiche - ma anche tanti preparatori - non guardino di più a questo

mondo per trarne ispirazione. Io gareggio nel gruppo 5, 10 giri secchi, se parti male sei fottuto. Corro con una Honda Four 750, la moto più vecchia in griglia, ormai a 45 primavere, ma grazie al tocco magico di Silvio Simeoni, titolare dell’officina SC Motor di Vicenza, arriva a 80 cavalli alla ruota per 158 kg di peso. Inoltre, riesco a ottenere un posto nell’Endurance, nel team austriaco di Hermann Ansorge, in sella a una Kawasaki Z750 del 1980, portata a 850cc di cilindrata. Una moto che compete nella Classic 1000 del campionato italiano. Nei primi turni di libere si cerca di imparare la pista, di guardare dove staccano gli altri e di mettere a punto la moto, è solo nel secondo turno che si spinge veramente. Peccato che la mia partenza non sia delle migliori: dopo qualche curva con la moto da endurance, mi sdraio nella ghiaia, da pivello. Era solamente il secondo giro, con le ruote fredde, prendo una traiettoria leggermente più larga di quella classica e probabilmente anche sporca, alla Piratella. La moto va in low side, scivolando sul carter sinistro e producendo una bella coda di scintille, che vanno prontamente a incendiare la benzina fuoriuscita per colpa del serbatoio troppo pieno. Io mi godo - si fa per dire - tutta la scena, caduto a mia volta dietro la moto. Fortunatamente le fiamme sono limitate ai soli carburatori e vengono spente prima di propagarsi al serbatoio. Al rientro ai box, mentre l’addetto al recupero scarica la moto dal cassone, mi infilo il casco nel timore di prendermi un pugno in faccia dai miei compagni di squadra. Il weekend prosegue, ma non riesco a trovare un buon passo continua a pagina 60

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Appena il giudice di gara abbassa la bandiera, dando il via, parte lo sprint a piedi fino alla moto, spenta. In poco tempo devi saltare in sella, accenderla, rilasciare la frizione e partire, cercando di evitare altri 50 piloti. Si chiama Partenza alla Le Mans, forse il momento più emozionante di tutta la gara. Nell’endurance non è fondamentale partire bene, c’è molto tempo per recuperare nel corso della gara, ma si cerca sin da subito di riprendere qualche posizione.

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PROVE LIBERE, CATEGORIA ENDURANCE VINTAGE. DOPO UN PAIO DI GIRI NON TROVO IL FEELING CON LE GOMME, ANCORA FREDDE, PRENDO UNA TRAIETTORIA TROPPO LARGA E BUM! MI SDRAIO NELLA GHIAIA. LA CODA DI SCINTILLE INIZIA A INCENDIARE LA BENZINA FUORIUSCITA DAL SERBATOIO. IO MI GODO LA SCENA COME FOSSE UN FILM DI MICHAEL BAY OPPURE FAST AND FURIOUS

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Suzuki GS1000, una delle moto che ha partecipato alla gara di Endurance in attesa di essere settata per scendere in pista nelle prove libere.

segue da pagina 57 nemmeno con la mia di moto, che stranamente consuma come un camion e fatica ad allungare sul dritto: perdo quasi 20 km/h di velocità massima allo speed trap rispetto ai più veloci della mia classe, che passano a oltre 200 orari. Come se non bastasse, appena ci allineiamo in griglia per la partenza inizia a piovere e nemmeno su tutta la pista, costringendoci per i primi giri a concentrarci sull’evitare tratti bagnati di circuito. Riesco a partire bene, ma con la pista bagnata non voglio prendere rischi e dopo un giro - complice anche il motore poco performante - perdo il gruppetto dei primi tre: Leardini su un Honda CB650 maggiorata a 750, Biffaroni e Gabellini entrambi su Ducati TT2. Nel frattempo il mio amico Cesare Ricci, che sul bagnato è un fenomeno, inizia a tallonarmi e al terzo giro mi supera. Riesco però a stargli sotto, la pista si sta asciugando e sull’asciutto posso buttarmi in piega sereno. La mia CB750 sarà anche la moto più vecchia e pesante della classe, ma è estremamente stabile e mi consente staccate al limite. Per qualche giro, infatti, Cesare e io iniziamo una bella lotta, lo passo regolarmente alla staccata della Tosa, mentre lui mi riprende nella discesa dopo la Piratella. Gli ultimi due giri riesco finalmente a prendere un discreto margine, quando sento la moto tirare all’indietro in piega, chiaro segnale di benzina agli sgoccioli. E infatti: taaac. Ci mancava: termino la benzina proprio all’ultimo giro, pur avendo fatto il pieno, e mentre occupo la quarta posizione. Si scoprirà più tardi che il tendicatena di distribuzione si era leggermente allentato, mandando a farsi benedire la fase di distribuzione, spiegando così la mancanza di potenza e i consumi anomali. Fortunatamente i meccanici austriaci fanno il miracolo e riescono a sistemare la moto per l’endurance. Il sabato dopo le prove sembrava dovessimo abbandonare tutto e invece la forcella - che inizialmente sembrava storta - si era semplicemente girata verso le piastre. Mi concedono il lusso della partenza a spiga, e parto decisamente bene. Per vincere le gare endurance per

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DOPO PIÙ DI TRE ORE DI GARA MI RENDO CONTO CHE SONO TERZO. NON SONO TRA I PIÙ VELOCI MA HO UN PASSO REGOLARE. È QUELLO CHE CONTA.MA IL DIO DEI MOTORI PRETENDE IL SUO SACRIFICIO MECCANICO: IL MOTORE DELLA MIA KAWASAKI Z750 DELL’80 SI FONDE A SOLI VENTI MINUTI DALLA FINE. UNA SFIGA DIETRO L’ALTRA, UNA BESTEMMIA DIETRO L’ALTRA MA ALLA FINE CI PENSI E TI RENDI CONTO CHE HAI GUIDATO SU UN CIRCUITO EPICO E ALLORA, FANCULO TUTTO IL RESTO prima cosa bisogna finirle, quindi mi regolo su un passo decente, ma senza esagerare. Dopo più di tre ore siamo terzi, non decisamente tra i più veloci in pista ma tra i più regolari, quando il dio della velocità richiede il suo sacrificio meccanico, facendoci fondere il motore a venti minuti dalla fine. Ancora? Che sfiga. La spia dell’olio mostrava un livello accettabile, ma dentro al motore non ce n’era più traccia. Un quantitativo di sfighe del genere in un solo weekend di gare non si era mai visto. Ma l’importante è pensare positivo ed essersi goduti al massimo la pista delle leggende.

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SOMMARIO / STAFF 18

LA STORIA DI CARLO TALAMO UN AMICO STRANO

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I PILOTI DEL MONDIALE 300 IL FUTURO CORRE VELOCEELOCE

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Moreno Pisto Editor in chief Fabio Fagnani Staff Editor

DAGLI ANNI 20 A OGGI LE 10 MOTO PIÙ FOLLI

Raffaele Paolucci, Maurizio Gissi

Elisa Anastasino Fashion Director Max Schenetti Photo Editor Stefano Temporin Art Director

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TESTI Riccardo Schiavotto,

FOTO Giovanni Cabassi, Raffaele Paolucci, Niccolò Rastrelli

Stefania Freri Grafica

ENDURANCE VINTAGE A IMOLA NELLA PISTA DELLE LEGGENDE

Eleonora Dal Prà Web Editor Laura Mandelli Redazione Alberto Cecotti Motorcycle Editor

Riders Italian Magazine è edito da Milano Fashion Library Srl Chairman Diego Valisi dvalisi@milanofashionlibrary.it Assistant publisher Prasanna Conti Tel. +39 02 58153.208 pconti@milanofashionlibrary.it Headquarter Corso Colombo 9 20144 Milano Tel. +39 02 83311200 info@milanofashionlibrary.it www.bibliotecadellamoda.it

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Responsabile testata Paola Cordone pcordone@milanofashionlibrary.it

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ISSN 1972-4136 © 2014 Milano Fashion Library Registrazione al trib. di Milano n. 96 del 20/02/2007

Centro e Sud Italia Augusto Iannini augusto.iannini@gmail.com

Per le immagini senza crediti l’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli. L’editore è a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti.

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