Riders Dakar

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RIDERS MAGAZINE

SPECIAL FREE ISSUE

THE GREATEST LIFESTYLE MOTORCYCLE MAGAZINE

FREE ISSUE

OCEAN DAKAR STORIE DAL RALLY PIÙ DURO DELLA STORIA

+SWANK RALLY ON ICE & SURF ESTREMO IN OLANDA






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Tucano Urbano. In moto, sempre in moto. Pioggia, vento, gelo, traffico. Sono le condizioni più estreme a rendere le esperienze straordinarie. Con il doppio guanto super termico TETRIS, il piacere è infinito. • Guanto esterno a 4 dita, con anulare e mignolo uniti per garantire comfort termico e protezione, senza limitare la sensibilità sui comandi. • Guanto interno termico a 5 dita, 100% impermeabile e traspirante grazie al sistema HYDROSCUD®; garantisce la massima destrezza ed è dotato di alloggiamento per scaldino chimico sul dorso. • La compatibilità touch screen, il taglio extra lungo sul polso e la doppia regolazione antiscalzamento ne aumentano il comfort e la praticità. • L’omologazione moto prEN 13594:2015-CE ne garantisce il livello di sicurezza.*

tucanourbano.com *L’omologazione si riferisce all’utilizzo come doppio guanto.

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GENNAIO 2018

MOTOR BIKE EXPO VERONA

EDITORIALE

Essere Riders è un’altra storia. La Dakar è un’altra storia. E di storie che sfidano il senso del limite abbiamo riempito questo Free Riders, lo speciale che esce proprio nei giorni in cui l’edizione 2018 sta per finire (e in occasione del Motorbike Expo di Verona). Storie di anime in lotta che cercano un motivo per rendere onore alla vita, tanto che il motivo di vita per loro diventa quasi sempre più importante della vita stessa. Come la storia di Lorenzo Piolini, che si è imbucato alla Dakar perché tutto è possibile, non ci sono scuse o giustificazioni che tengano, tanto che la sua esperienza meriterebbe un film sull’eterno bisogno umano di scoprire, esplorare, gli altri e il mondo, che sono solo un modo per arrivare al fondo di se stessi. La storia di MaMORENO PISTO rian Chytka, fotografo di 28 anni che sulle spalle oltre alla sua macchina fotografica si porta il peso di già sei Dakar. E poi le storie dei surfisti del mare del Nord. on parleremo della vecchia Dakar, è storia. Non importa il successo, la carriera, l’ultimo modello E con tutto sto presente, quelli che iniziano del Mac, il 4G, a loro importa esclusivamente trovare sempre i discorsi con «ah, una volta, ah, ai un modo per vivere davanti a quei quattro chilometri miei tempi», che per una volta facciano lo di spiaggia per essere lì, ogni volta che l’onda giusta sforzo di non propinarci le stesse solite lamentele. arriva.

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Non racconteremo di quanto era vera quella lì, in Afri- Tutto questo, e la Dakar prima e più di ogni altra cosa, ca, e di quanto invece questa qui in Sud America e bla non è soltanto metafora di vita, non è metafora di nienbla bla... Astenersi nostalgici, evitiamo il vecchiume. te. È - rappresenta - la storia dell’umanità. Il nomadismo. L’avventura. L’adattamento. La trasgressione che Trasgredire significa andare oltre. serve per andare oltre. «Ti trascina negli abissi della E chi non accetta le novità è lentamente destinato a disperazione nutrendosi delle tue speranze, per poi rifarsi da parte. Chi non sa sostenere gli imprevisti si portarti in superficie dandoti nuovamente la possibilimetta comodo a guardare la tv o uno smartphone o al tà di sfidare la sorte». Non è metafora di niente questa massimo vada a farsi un viaggio tutto compreso, prima cosa. È l’essenza. È tutto. È. Punto. classe, hotel prenotati e pasti caldi. #RIDERSMAGAZINE #WEATHERISFORPUSSY

NESSUNA METAFORA 9


WHAT

COSA FAREMO AL MOTOR BIKE EXPO

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ome da tradizione, il nuovo anno per gli appassionati e gli addetti ai lavori del mondo moto non può iniziare senza una fuga a Verona. No, Romeo e Giulietta non c’entrano, si va per il Motor Bike Expo. Un evento che ha il compito di aprire le porte alla nuova stagione e, quest’anno, promette di essere davvero eccezionale, con più di 160mila visitatori previsti per l’edizione che festeggia il decimo anno di attività. E noi cosa faremo? Riders sarà presente all’esposizione veronese con uno stand al padiglione 4, in cui troverete un desk informativo e un photoset dove scattarvi foto e selfie circondati dalle cover che hanno fatto la storia del magazine di lifestyle motociclistico e che l’hanno reso unico. Allo stand troverete anche tre moto pazzesche: la Ducati Ugly Duck di Plan B Motorcycles, la Blue Racer di Libner Racing e la Furiosa di FCR Original. E avrete la possibilità di acquistare l’ultimo numero, Ri-

MOTOR BIKE EXPO VERONA

ders 110, quello con le interviste ad Andrea Iannone e alla coppia di attori Francesco Montanari e Vinicio Marchioni con il quale abbiamo realizzato il cortometraggio dal titolo Brotherhood che trovate sulla nostra pagina facebook. Oltre allo stand, Riders sarà partner di The Reunion Cafè, il format ideato dall’organizzatore dell’omonimo evento di Matteo Adreani che, nel suo salotto, riceverà ospiti ed esponenti del mondo moto che si racconteranno in diretta streaming sulla pagina facebook di The Reunion e di Riders. Finita qui? Non direi visto che quello che avete tra le mani è il nostro freepress dedicato alla 40ª edizione della Dakar, un evento pazzesco, una gara unica che cambia la vita e che ti lascia sognare. Ah, ovviamente dovrete postare le vostre foto sui social e usare gli hashtag:

#RIDERSMAGAZINE #WEATHERISFORPUSSY

Tony Cairoli, nove volte campione del mondo di motocross e protagonista nel numero di Riders di gennaio, The Warriors Issue. Nella foto, Tony davanti al cover wall con tutte le copertine del magazine accanto alla Trattoria Riders allestita a Eicma. Nella prossima stagione, che inizierà il 25 marzo in Spagna, Tony vuole una sola cosa: il decimo titolo.

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WHERE

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COSA BERE, VEDERE E MANGIARE A VERONA DURANTE IL MOTOR BIKE EXPO

MOTOR BIKE EXPO VERONA

L'Arena? Palazzo Maffei? Palazzo della Gran Guardia? No, grazie ma no. A Verona, dal 18 al 21 gennaio, ci sarà il Motor Bike Expo. Ma questo lo sapete già, quello che non sapete, forse, è dove andare una volta usciti. Bar, ristoranti, piazze, negozi. Ecco i nostri consigli per vivere la città fuori dalla fiera.

1. PIAZZA DELLE ERBE

La si chiama Mamma Erbe, dove tutto nasce e tutto muore. È la piazza centrale del centro storico. Se vai a bere a Verona, prima o poi finisci qui ed è per questo che Piazza delle Erbe è amata e odiata da veronesi perché, alla fine, non c'è serata che non termini lì, da Mamma Erbe.

2. RISTORANTE LOCANDA CASTELVECCHIO CORSO CASTELVECCHIO, 21/A

È il posto in cui mangiare uno dei migliori bolliti con Pearà della città. L’arredamento, unico, è una miscela irripetibile di oggetti delle più disparate provenienze. Piatti, bicchieri e posate sono spaiati: tutti pezzi unici d’antiquariato. Costa un po’ ma ne vale la pena.

3. CAFFÈ TUBINO CORSO PORTA BORSARI, 15

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Un’istituzione a Verona. Si entra, si beve un caffè in piedi e si esce. Se ne avete voglia, aspettate che si liberi una delle quattro sedie presenti al suo interno, sedetevi ed ordinate un viennese. Servita con panna montata e scaglie di cioccolato vi rimetterà in sesto anima e corpo.

4. BAR ARCHIVIO VIA ROSA, 3

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5. SCIÒ' RUM VIA SANT'ALESSIO, 46

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C’è sempre un po’ di coda fuori da questo bar: lo spazio al suo interno è piccolo e chi è riuscito ad entrare sta soltanto aspettando da bere. Qui ogni cocktail è preparato come il più prezioso degli intrugli, servito in bicchieri speciali e adornato con guarnizioni che ne esaltano il sapore. Frequentatissimo.

Già dal nome capisci che 'sto posto qui ti darà delle gioie. Infatti, tutti i migliori amanti del bere di qualità sanno che qui, da Carlo, il gestore milanese del locale, si beve, tanto e bene. Il locale è fuori dal centro storico della città, si trova tra Ponte Garibaldi e Ponte Pietra, ed è un punto di riferimento per la movida notturna veronese. È famoso soprattutto perché sta aperto fino a tardi e molte delle notti della maggior parte dei veronesi finiscono proprio qui, spesso da ubriachi.

6. YARD RESTAURANT CORSO CAVOUR, 17A

Un originale Airstream degli anni Settanta portato direttamente dagli States, filari di luci che scendono dai soffitti e grandi piante. Se volete bere e mangiare qualcosa di buono ma siete di fretta, questo è quello che fa per voi.

7. OWL AND SONS LARGO PERLAR, 12

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È uno di quei posti in cui devi esserci stato almeno una volta nella vita se vuoi davvero dire di essere un motociclista. Il negozio d'abbigliamento si trova vicino a Verona Sud, quindi vicino alla fiera MBE. Sia la linea maschile, sia quella femminile sono create e prodotte direttamente da loro che, soprattutto per l'uomo, hanno uno stile che richiama e omaggia il mondo delle special e degli States degli anni Quaranta e Cinquanta.

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PROVE

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MOTOR BIKE EXPO VERONA

NEGLI ANNI SETTANTA LE CASE GIAPPONESI LANCIARONO SUL MERCATO DELLE VERE BOMBE CHE CAMBIARONO LA STORIA DELLA MOTO. COME LA KAWASAKI Z1 900 BIALBERO, AMBITA DAGLI SMANETTONI, DAGLI ESIBIZIONISTI E DA QUALCHE RAPINATORE. OGGI RITORNA, SEMPRE CON IL SERBATOIO A GOCCIA, LA GRAFICA BICOLORE, L’IRRINUNCIABILE FARO TONDO E LA CODA ALL’INSÙ. SEMBRA DA APERITIVO MA FIN QUANDO È SPENTA. ROBA DA URLO Prova e Testo di Alberto Cecotti

L'EPOCA DELLE ROOTS BIKE N

egli anni Settanta le Case giapponesi lanciarono sul mercato delle vere bombe di prestazioni che cambiarono la storia della moto. Tra le perle ci fu la Kawasaki Z1900 bialbero, che divenne ben presto ambita dagli smanettoni veri e spregiudicati, ma anche dagli esibizionisti da bar e, probabilmente, fu gettonata da qualche rapinatore… Anche oggi è un pezzo molto ricercato, ma difficile da trovare e a prezzi da capogiro. La sua rievocazione la voleva il mercato, la acclamavano i nostalgici e gli appassionati di lifestyle legato alla moto: si può dire che sia stata disegnata e configurata dalle tendenze di oggi. Affascinante miscela tra stile classico e contenuti d’avanguardia, tipo i gruppi ottici moderni e altri dettagli che davvero sono davvero notevoli. Il serbatoio a goccia ha un’estetica irresistibile, insieme alla sua grafica bicolore che riprende fedelmente gli accostametici cromatici della Z1 originale. Irrinunciabile il faro tondo (ma a led) con cornice cromata e la coda all’insù, proprio come ai tempi. Bello il cruscotto con i due elementi circolari analogici e inserto digitale, negli involucri cromati come pure il manubrio tubolare. Per motivi tecnici l’impianto scarico è quattro in uno, ma la forma del terminale è bella compatta, non stona. Tocco romantico per la sella trapuntata con la cinghia di appiglio per il passeggero. Il moderno quattro in linea Kawa di 948 cc è un bialbero DOHC 16 valvole, dotato di nuovi carter laterali e testate alettate per richiamare esteticamente il raffreddamento ad aria.Ovviamente

il sistema è a liquido. Il motore è stato smussato ma resta comunque molto buono: 111 cavalli a 8.500 giri anzichè i 125 cavalli della cugina cattiva e aggressiva Z900. Il valore di coppia massima è invece rimasto invariato, ha 10 kgm ma è espresso a 6.500 giri anzichè 7.700. In sostanza si è puntato a incrementare il tiro sotto ai 7mila giri a scapito, ma solo di poco, del vigore agli alti regimi. Particolare e atipica la scelta di dotare la RS del controllo di trazione quando non è presente sulle sportive di Casa come la Z900 e la Z1000. Come telaio ritroviamo il traliccio in tubi d’acciaio della Z900 a cui è stato modificata la zona reggisella, con un piano che aumenta fino a 835 mm da terra, rispetto ai 795 originali. Anche il manubrio più alto e largo rende l’impostazione meno caricata sull’avantreno. Confermato il forcellone, il reparto sospensioni, presenta una forcella sportiva upside down da 41 mm pluriregolabile (addirittura più che sulla Z) e l’ammortizzatore Horizontal Back-Link anch’esso regolabile, con immutata escursione ruota da 140 mm. Diverso invece l’impianto freni, tutto firmato da Nissin, con inediti dischi da 300 mm e pinze radiali monoblocco anteriori (dietro da 250 mm). Le ruote, entrambe da 17 pollici, sono su cerchi a razze meno appariscenti possibile, ma ovviamente i raggi erano improponibili per le attuali prestazioni. Il peso della RS cresce di 5 chilogrammi rispetto alla Z base: 215 kg in ordine di marcia. RS sta per retro sport e in sella a questa Kawasaki si sta proprio come le naked sportive di allora, più comodi rispetto alle corrispondenti

attuali. L’aspetto modaiolo la fa apparire come moto da aperitivo, che lo è anche ma fino a quando è spenta. In azione sfodera un’indole inaspettata. Il motore allunga un po’ meno di quello della Z moderna e ai medi, inaspettatamente più forte e corposo. Detto ciò ben venga il controllo di trazione regolabile K-TRC (assente sulla Z900), perché pesta duro, la RS, quando si spalanca. La rapportatura più corta gli ha conferito un carattere più deciso, seppur volutamente meno incisivo agli alti regimi: diciamo che il bello è fino ai 8mila giri, poi sale ancora parecchio ma la spinta cala. Si guida come una naked normale, con dislivelli più comodi ma con verve in abbondanza su ciclistica decisamente onesta, coerente e adeguata. E frena pure bene, niente da dire. Ti senti sempre sicuro anche esagerando un po’. Non è leggera ma si conduce molto bene sul misto, in virtù di una buona distribuzione dei pesi, perciò è tutto sommato piuttosto agile. Le vibrazioni sono davvero contenute. Le Dunlop GPR-300 nelle misure 120/70 e 180/55 non tradiscono le aspettative sul fronte turistico ma mostrano qualche limite forzando il passo con piglio sportivo. La nuova Kawasaki Z900RS c’è in tre colorazioni: nera detta Metallic Spark Black a 11.790 euro, verde ed ebano (Matte Covert Green/Flat Ebony) a 11.990; arancione e marrone (Candytone Brown/Candytone Orange) a 12.090 euro. Mediamente costa circa 3mila euro in più della Z900. Occhio anche alla versione Cafe, in arrivo a marzo in verde Kawasaki racing a 12.290 euro. Roba da urlo.

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SCHEDA TECNICA

PNEUMATICI

Motore quattro cilindri in linea

Anteriore 120/70ZR17 M/C (58W)

raffreddato a liquido, 4 tempi

Posteriore 180/55ZR17 M/C (73W)

Cilindrata 948 cm³ Rapporto di compressione 10.8:1

DIMENSIONI

Potenza massima 82 kW {111 CV} / 8,500 rpm

L x L x A: 2,100 x 865 x 1,150 mm

Coppia massima 98.5 N•m {10 kgf•m} / 6,500 rpm

Interasse 1.470 mm

Cambio 6 velocità

Avancorsa 98 mm

Trasmissione finale a catena

Altezza sella 835 mm Capacità serbatoio 17 litri

FRENI

Peso in ordine di marcia 215 kg

Anteriori doppi dischi semi-flottanti da 300 mm. Pinza: doppia ad attacco radiale, monoblocco a 4

ACCESSORI

pistoncini opposti

Sella ERGO-FIT (-35mm altezza)

Freni, posteriori Disco singolo da 250 mm. Pinza: a

Manopole riscaldabili, cavalletto centrale e relativa

singolo pistoncino

maniglia di appiglio per issare la moto, maniglie appiglio per passeggero

SOSPENSIONI

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Anteriore forcella rovesciata da 41 mm regolabile

PERSONALIZZAZIONE ESTETICA E FINITURA

nell’idraulica e nel precarico

stemma serbatoio, protezioni, coperchi per gli

Posteriore Back-link orizzontale regolabile

indicatori di direzione, per gli strumenti e i tappi

nell’idraulica e nel precarico

forcella, cupolino più esteso e protezioni per ruota

Telaio a traliccio tubolare in acciaio

anteriore e telaio.


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LA VITA PER UNO SCATTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 L'IMBUCATO DELLE DUNE.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 SOLO CONTRO IL DESERTO .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 Testi di Eleonora Dal PrÃ

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LA VITA PER UNO SCATTO Foto di Marian Chytka

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arian Chytka ha 28 anni, è un fotografo della Repubblica Ceca ed è diventato uno dei veterani della Dakar. Dietro a uno scatto ci sono ore di preparazione, di pazienza, di chilometri macinati senza sapere dove stai andando. E poi la disperata ricerca di una connessione per inviare le foto ai clienti perché, per loro, laggiù la connessione è dio. Ha creato MCH Photo, la sua società che negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione, passando da essere l’unico professionista dietro la camera, arrivando a collaborare con altri cinque fotografi. Partecipa a tutti gli eventi più interessanti del panaroma motoristico ma quella che ama di più è la Dakar: l’ha fatta sei volte. Qual è stata la tua prima Dakar? «La mia prima Dakar, nel 2010, è stata completamente diversa dalle altre. È stato molto più facile perché l’ho vissuta più come spettatore che come fotografo. Quell’anno sono andato lì solo perché mio fratello era in gara nella categoria auto in un team ceco e io l’ho raggiunto all’ultimo minuto per fotografarlo. Avevo bisogno di scattare foto di una sola macchina e, se non avessi portato a casa nulla, non sarebbe stato un grosso problema dal momento che c’erano anche altri ragazzi con me che fotografavano. Quella volta si può dire che non fossi un fotografo professionista, ero più un ragazzo con una macchina fotografica che stava cercando di scattare qualche foto. Non avevo bisogno di svegliarmi presto, guidare da qualche parte in cerca di una zona dove appostarmi, aspettare tutte le moto, le auto, i camion, salta-

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re in macchina, modificare centinaia d’immagini e cercare di capire come inviarle. Aspettavo il passaggio delle auto, a volte nemmeno tutte. Non avevamo fretta perché mio fratello stava guidando il T2 quindi era abbastanza indietro. Durante quell’esperienza ho scattato poche foto, le ho ritoccate un po’ e non mi sono nemmeno preoccupato di inviarle o meno. Quando avevo la fortuna di trovare una linea wifi le inviavo, altrimenti lo facevo il giorno dopo o quello dopo ancora. Quell’anno ho avuto il tempo di fermarmi per una bella bistecca, un tuffo in piscina, una cena con la gente del posto, andare in un bar e fare una serie di cose che ora non posso di certo fare». Perché hai iniziato a fare il fotografo davvero... «Nel 2011 quando ho iniziato a partecipare agli eventi della Coppa del Mondo FIA e lentamente ho cominciato a costruire il marchio e il mio nome in quel settore. Ero uno studente di giurisprudenza ed era un bel lavoro part time: uscivo dalla scuola e dal mondo dei libri per coltivare una passione. Ho avuto la fortuna di guadagnare un po’ di soldi scattando, ideale per uno studente. Non l’ho progettato, ma stava diventando sempre più grande e a un certo punto sapevo che non avrei più fatto legge. Ho finito l’università, ho un master in giurisprudenza, ma non l’ho mai usato (tranne contro chi ha abusato delle mie foto... ). La mia seconda Dakar è stata nel 2013, quando ho scattato delle foto da solo, affittando un posto in una macchina. Avevo 23 anni ed è stato un po’ difficile convincere i clienti che ero in grado di farlo. Alla fine sono stati davvero felici e sapevo di essere arrivato al pun-

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«LA PRIMA VOLTA CHE HO FATTO LA DAKAR, ERA IL 2010, AVEVO IL TEMPO DI FERMARMI, GUARDAMI INTORNO, FARE UN TUFFO IN PISCINA, CENARE CON CALMA E POI DORMIRE. POI HO INIZIATO A FARE IL FOTOGRAFO DI MESTIERE ED È CAMBIATO TUTTO. TRE ORE DI SONNO E 700 CHILOMETRI AL GIORNO»

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Marian Chytka a soli 28 anni è considerato uno dei veterani della fotografia della recente Dakar. Ha iniziato nel 2010 e poi non si è più fermato, anche se fisicamente la Dakar è un evento stancante: «Per uscirne indenne devi prepararti tutto l’anno e fare altri eventi più piccoli, palestra, allenarti. Sempre». Nella pagina precedente, a destra, Xavier de Soultrait in una delle prove speciali con la sua Yamaha.

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to di svolta e, soprattutto, che avrei voluto tornare alla Dakar anche gli anni successivi. Nel 2014 ho noleggiato una macchina, ho portato con me mio fratello e altri due ragazzi. Molte cose sono cambiate dal 2010 e non è più una vacanza. Con clienti come Peugeot Sport, MINI, Toyota, Honda HRC, Yamaha e tanti altri, la faccenda sta diventando molto seria e ho molte responsabilità. Adesso altro che piscina o posticipare l’invio delle foto». Come ci si prepara a un evento del genere? «La preparazione per la Dakar si svolge durante tutto l’anno e non riguarda solo la manifestazione stessa. Io cerco di fare più eventi possibili, dalla Coppa del Mondo FIA al Campionato Mondiale FIM nei raduni cross country per mantenere i clienti felici e per trovarne di nuovi per il prossimo anno. Se lavorassi solo alla Dakar sarebbe molto più difficile riuscire a trovare nuovi clienti. La cosa difficile è soddisfare i clienti e dimostrare che sono la persona giusta per questo lavoro. E poi per fare la Dakar bisogna preparare la macchina, ma ovviamente non lo faccio da solo. Ho bisogno di qualcuno che pensi a tutte le questioni meccaniche e porti l’auto in perfette condizioni. È la parte più importante dell’attrezzatura della Dakar. Ho cinque telecamere con me, quindi se qualcuna si danneggia ho sempre un backup, ma non ho una macchina di supporto. La macchina deve avere un rollbar e molti altri elementi, principalmente di sicurezza. La uso solo alla Dakar, il resto dell’anno non guido mai. La Dakar è la ragione per cui l’ho comprata. È una manifestazione molto costosa, in quanto è necessario pagare tutti gli accrediti, i voli,

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gli hotel. E la macchina. Normalmente costa circa diecimila euro a persona e ora siamo in quattro. Devo anche pagare i ragazzi che lavorano per me. Se non ci sei dentro è difficile immaginare quanto sia faticoso, economicamente, arrivare a una manifestazione come questa. Io pago tutte le spese da solo e ho clienti che pagano per le foto, non per le mie spese e devo anche organizzare la mia copertura mediatica. Non solo dove verranno pubblicate le mie foto, ma anche alcuni articoli, interviste su di me, quindi mantengo lo sponsor soddisfatto. Non parliamo nemmeno di gestire i social media, il sito web, il blog». Insomma, un casino... «C’è molto impegno solo per permettersi di andare alla Dakar. Ho anche bisogno di portare la mia macchina a novembre in Francia per imbarcarla per il Sudamerica. Non parliamo poi delle riunioni, conferenze Skype, centinaia di email. Non si tratta solo di essere lì, a scattare, c’è un lavoro dietro enorme. Penso non ci sia una condizione più difficile che essere un fotografo alla Dakar. Si dice che sia il rally più duro al mondo. Lo è certamente per i concorrenti, ma penso che a volte sia ancora più difficile per noi». Perché? «Noi fotografi dobbiamo svegliarci molto prima dei concorrenti perché non ci permettono di entrare in prova speciale più tardi di un’ora prima della partenza. Di solito andiamo lì due, tre ore prima delle in modo da essere sicuri di trovare un posto. Guidiamo nella notte, diciamo per 400 chilometri, troviamo qualche angolo dove scattare foto, ci rimaniamo

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«PENSO NON CI SIA UNA CONDIZIONE PIÙ DIFFICILE CHE ESSERE UN FOTOGRAFO ALLA DAKAR. SI DICE CHE SIA IL RALLY PIÙ DURO AL MONDO. LO È CERTAMENTE PER I CONCORRENTI, MA PENSO CHE A VOLTE SIA ANCORA PIÙ DIFFICILE PER NOI»

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«MENTRE GUIDIAMO NON POSSIAMO PERCORRERE PIÙ DI 110 CHILOMETRI ORARI, IN BOLIVIA ADDIRITTURA 80. NON IMPORTA SE È UN'AUTOSTRADA O NO. QUESTA È LA REGOLA PIÙ FOLLE DI TUTTO IL RALLY E CI COMPLICA MOLTO LA VITA. LE ORE CHE PERDIAMO PER STRADA SONO QUELLE IN CUI POTREMMO DORMIRE»

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per ore e poi fotografiamo moto, quad, auto, camion e chilometri di deserto. Abbiamo poche informazioni sul percorso in modo da non divulgarle ai team. Quindi non è solo difficile trovare buoni punti per scattare, ma anche il modo di uscire dal tracciato. Mentre guidiamo non possiamo percorrere più di 110 chilometri orari, in Bolivia addirittura 80. Non importa se è un’autostrada o no. Questa è la regola più folle e stupida di tutto il rally e ci complica molto la vita. Fa una grande differenza viaggiare per 800 chilometri a 130 o 80 orari, le ore che perdiamo per strada sono quelle in cui potremmo dormire. È molto stancante e guidare agli 80 all’ora nella notte, dopo una settimana senza riposo, non aiuta. Se guidi più veloce è più facile mantenere la concentrazione. Poi usciti dal tracciato bisogna scaricare le foto, ordinarle, modificarle mentre stiamo guidando e spedirle il prima possibile, il che è una vera impresa in Sudamerica. La connessione è dio». E quando dormite? «Poche ore. Torniamo al bivacco molto tardi, cena veloce, raccogliamo informazioni per il giorno dopo, pianifichiamo la giornata, scattiamo qualche foto nel bivacco, facciamo una doccia fredda e andiamo a dormire per qualche ora, tre se ci va di lusso e poi fuori di nuovo. Tre ore al giorno di media di sonno e circa 700 chilometri al giorno di strada. Scattiamo circa 120 foto al giorno (probabilmente anche di più) e questo per due settimane di seguito». Ma sapete già dove scattare o ogni giorno è una ricerca continua? «Abbiamo pochissime informazioni sulla traccia e su dove

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posizionarci per fare le foto. Di solito ci suggeriscono alcuni punti fotografici, ma spesso non si tratta mai dei posti migliori. Quindi ci affidiamo ai consigli di altri fotografi, gente del posto, concorrenti, oppure andiamo all’inizio della speciale, seguiamo il roadbook e proviamo a trovare un buon posto. Di conseguenza dobbiamo essere bravi nella navigazione e nella guida ed essere in grado di riparare la macchina se necessario». E sei sempre riuscito a trovare la strada giusta? «È una fortuna che mio fratello abbia corso la Dakar tre volte come concorrente. E quindi sapevo dove andare. Ora lui guida la macchina per la maggior parte del tempo e, se c’è qualcosa che non va, è anche in grado di ripararla. Non potrei farcela da solo. Alla Dakar 2018 siamo un gruppo di quattro fotografi. Tre nelle speciali e uno solo nei bivacchi. È importante stare lì per catturare al meglio lo stile di vita dei piloti quando non sono in gara e fotografare le prime moto che potrebbero arrivare al bivacco quando siamo ancora in pista». È questo che ami della Dakar? «La Dakar è sicuramente l’evento più difficile ma anche il più importante e affascinante di tutto l’anno. Devi assolutamente amarlo, e ti rimane dentro, quasi come una droga e quindi torni di nuovo lì, non dormi, ti siedi per ore in posti scomodissimi con temperature di 50 gradi, piuttosto che a quattromila metri di altitudine ma, anche se sono sempre esausto, non ho mai pensato di smettere. Le emozioni e l’avventura spazzano via la fatica e ogni volta pianifico per l’anno successivo subito dopo la fine della Dakar».

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I fotografi si svegliano e partono prima dei partecipanti delle prove perché passano ore prima di trovare i punti per scattare: «Abbiamo pochissime informazioni sulla traccia e su dove posizionarci. Ci suggeriscono alcuni punti fotografici, ma spesso non si tratta mai dei posti migliori. Dobbiamo affidarci ai consigli di altri fotografi, gente del posto, concorrenti oppure andiamo all’inizio della speciale, seguiamo il roadbook e proviamo a trovare un buon posto». Nella foto in basso, Laia Sanz con la KTM.


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Lorenzo Piolini, 27 anni, milanese, una Honda Africa Twin del 1990, sua coetanea. Insieme hanno affrontato un viaggio, folle e coraggioso: partire con lo scopo di entrare alla Dakar (2015) da imbucato, senza aiuti, senza conoscenze, senza pass, solo con la voglia di partecipare al più grande evento per il mondo dei motori, un po' di fortuna e con una faccia tosta.

L'IMBUCATO DELLE DUNE Foto di Lorenzo Piolini

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ndare oltre: è questo il significato, derivato dal latino, della parola trasgressione. Una tendenza insita nell’uomo, che ha sempre provato a superare i propri limiti. Anche quando si è innamorati, si fanno cose che vanno oltre i consueti comportamenti, fino a compiere azioni sorprendenti. Di amore travolgente si parla anche in questo caso e, più precisamente, di un’attrazione fortissima per la più grande delle avventure, che da quasi quarant’anni affascina generazioni di romantici cercatori di sensazioni forti e prove estreme, la Dakar. Dal dicembre del 1978, quando Thierry Sabine ha dato origine alla più seducente delle competizioni, il rally raid per antonomasia è si cambiato, ma non ha perso il suo fascino: incantare con la sua avvincente imprevedibilità. Certo, la Dakar non è alla portata di tutti, né dal punto di vista fisico né da quello economico e, anche per questo, è destinata a rimanere un sogno irraggiungibile ai più. Ma c’è anche chi ha avuto il fegato di aggirare gli ostacoli. È il caso, unico e irripetibile, del milanese Lorenzo Piolini, cresciuto col mito della Parigi-Dakar e diventato, grazie a questo esempio, un motociclista viaggiatore. Con la sua coetanea Africa Twin ha collezionato esperienze su e giù per il mondo, merito dell’avventura che ha nel sangue e dell’incoscienza impetuosa dei suoi vent’anni. La spavalderia di partire per destinazioni sconosciute, la temerarietà di essere pronto ad accettare ogni tipo d’imprevisto. Solo lui, la moto e la tenda. Ecco come questo esploratore segaligno dall’espressione beffarda ha sempre affrontato la vita.

A un certo punto, però, ha deciso di puntare più in alto. Quando i viaggi in solitaria sono all’ordine del giorno, bisogna alzare la posta. E, per gli esploratori su due ruote come te, il sogno proibito ha un solo nome: Dakar. «Esattamente. Nonostante la Dakar sia sempre stata il mio sogno, mi rendevo conto che, in questo periodo della mia vita, non avrei potuto in nessun modo avvicinarmici, sia perché la mia preparazione fisica non era all’altezza di una prova così estrema, sia perché non avrei potuto permettermelo sotto l’aspetto economico. Perciò, mentre stavo progettando un viaggio in Sudamerica, ho pensato che se avessi voluto scoprire da vicino la Dakar, avrei dovuto fare una follia. Ero disposto a tutto pur di toccare con mano quella che per me è sempre stata una leggenda. Dunque, ecco che la pulsione a trasgredire mi arriva in soccorso. L’idea era sconvolgente ed eccitante allo stesso tempo, un’impresa impossibile, che nessuno prima d’ora aveva mai osato mettere in atto: partecipare al rally come abusivo». Come ti sei organizzato? «Mancava poco all’inizio della Dakar 2015, quella che avrebbe attraversato Argentina, Bolivia e Cile, quindi, per prima cosa, ho pensato a camuffare la moto per destare meno sospetti. Così, mentre ero ancora in Italia, ho preso spunto dalle primissime foto disponibili sul web e ho riprodotto fedelmente gli adesivi ufficiali di gara, ricostruendo intuitivamente dimensioni e caratteristiche, e li ho applicati alla moto, tabella porta-numero compresa, dopodiché ho pensato a spedirla in Sudamerica. Nonostante la gara

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«VOLEVO PROVARCI. E ALLORA UN GIORNO HO INIZIATO STUDIARMI UN PIANO. HO INIZIATO METTENDO GLI ADESIVI DELLA DAKAR SULLA MOTO, MI SONO INFORMATO E POI L'HO SPEDITA IN SUDAMERICA. UNA VOLTA LÌ, È STATO UN CASINO». . .

prendesse il via da Buenos Aires, ho mandato la moto a Valparaíso, in Cile, perché lì, in base alle poche informazioni che possedevo, sarebbe dovuto essere più semplice sdoganarla. Cazzata! Una volta a Valparaíso ho dovuto affrontare le prime grane. Forse perché, per risparmiare, avevo spedito la moto senza appoggiarmi a un’agenzia, forse perché non era provvista di assicurazione, tant’è che mancava l’autorizzazione per ritirarla. Viaggiando mi è capitato spesso di dover far fronte a imprevisti come questo e così, fortunatamente, ho imparato a improvvisare. In questo caso mi è bastato fare amicizia con un operaio del porto per prendere in prestito divisa ed elmetto ed entrare a ritirare la cassa di persona». Rispetto alla missione che avevi in mente, questo è niente. Il problema era avvicinarti al rally senza dare nell’occhio e, soprattutto, senza fare errori: un passo falso e sarebbe saltato tutto. «Eh sì. Infatti una volta arrivato a Buenos Aires mi sono sistemato in un ostello, dove mi sono rifugiato per pianificare l’attacco. La prima mossa da fare era dirigersi a Technopolis, l’immensa area in cui avevano luogo le verifiche tecniche e amministrative. Mancavano un paio di giorni alla partenza e la zona era gremita di piloti, meccanici, persone dell’organizzazione, tutti indaffarati a registrarsi ed esaminare i mezzi iscritti alla gara. Era la situazione ideale per approcciarmi alla grande macchina organizzativa, sia per carpire informazioni utili, sia per iniziare a studiare l’ambiente. Idea stroncata sul nascere dalle guardie che,

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vedendomi sprovvisto di accredito, mi hanno impedito di varcare l’ingresso». E poi? Come hai fatto? «Parlando con il personale all’ingresso di Technopolis sono riuscito a scoprire alcune informazioni molto importanti. È stato in quell’occasione che ho realizzato che il mio ostacolo era non avere il pass. La conversazione mi era stata utile anche per ottenere dati precisi su quali sarebbero stati gli orari del giorno seguente e l’ingresso esatto da dove sarebbero passati i piloti. Sono tornato in ostello per rimanere in disparte fino al giorno seguente, momento in cui sono riuscito a infilarmi nella carovana che entrava nel bivacco». Technopolis è un’area enorme, una specie di città invasa da centinaia di mezzi in gara e camion d’assistenza, meccanici, piloti, team, una grande baraonda rumorosa e concitata, che non si ferma neanche di notte. Come hai pensato di procedere? «La confusione ha creato la condizione ideale per prendere la moto, tutta preparata con gli adesivi ufficiali, e per intrufolarmi come un vero concorrente. Così ho fatto e, incredibilemnte, la missione era compiuta. Ero dentro. La mia intuizione si era rivelata vincente al punto che, più tardi, vedendomi senza braccialetto dell’accredito, un addetto della sicurezza me ne aveva addirittura procurato uno, raccomandadomi di non smarrirlo nuovamente. Da quel momento non avevo più nulla da temere. Il braccialetto era il mio lasciapassare verso il mito, e io ce l’aveva fatta, ero dentro. Però ho iniziato a ragionare su quello che

avevo fatto, e da un trionfo si è trasformato in un momento di ansia e di stress. E adesso? Mi chiedevo. Mentre la vita in quel microcosmo procedeva convulsa, io era solo, senza conoscenze, senza cibo, né una tenda dove passare la notte. L’indomani sarebbe iniziata la gara e non avevo nulla con me. Forse io per primo non credevo che sarei riuscito a farla franca. Sono uscito a tutto gas e sono tornato in ostello per preparare una sacca di sopravvivenza con il necessario per affrontare la Dakar 2015. L’indomani, prima dell’alba, con quattro attrezzi, una borsa e una tenda legati sulla moto, ho lasciato l’ostello per recarmi in prossimità del parco chiuso e attendere che i piloti ritirassero le moto e, a quel punto, unirmi a loro e partire». Ma come hai fatto a iniziare la gara? «Non avendo il roadbook, l’unica cosa da fare era seguire il gruppo attraverso la prima tappa, prova speciale compresa, anche se non interamente poiché, se fossi rimasto indietro, avrei dovuto sudare per oltrepassare il varco del bivacco. Tagliare il percorso è stato indispensabile per arrivare alla fine della tappa insieme al resto del gruppo e mimetizzarmi, ancora una volta, tra i concorrenti. E proprio lì, circondato dalle altre moto, ho notato l’insolita presenza di un altro bicilindrico. Si trattava di una KTM 1290, chiaramente non ammessa dal regolamento dakariano, che non accetta cilindrate superiori a 450 cc. Io e l’altro motociclista ci sorridiamo, ci togliamo il casco e iniziamo a parlare. L’altro era Eric Verhoef, un olandese con alle spalle dieci Dakar in moto e due in macchina, espressione bonaria, sorriso entusiasta e sguardo sognante».


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«ARRIVATO A VALPARAISO È BASTATO FARE AMICIZIA CON UN OPERAIO DEL PORTO PER PRENDERE IN PRESTITO DIVISA ED ELMETTO ED ENTRARE A RITIRARE LA MOTO DI PERSONA. UNA VOLTA DENTRO ALLA DAKAR MI SONO ACCORTO CHE FORSE STAVO FACENDO QUALCOSA PIÙ GRANDE DI ME. NON AVEVO NULLA, NÉ ROADBOOK, NÉ AMICI, NÉ RIFORNIMENTI. SOLI, IO E LE DUNE, FINCHÉ NON HO INCONTRATO ERIC». . .

Ma che cosa ci faceva lì? «Ufficialmente stava seguendo la gara come inviato per raccontarla in un blog, ma gli occhi tradivano le sue vere intenzioni: era lì semplicemente perché gli mancava in modo insopportabile. Un altro innamorato pazzo come me che agiva guidato dalla passione per l’avventura, che si trovava nel bivacco senza parlare una parola di spagnolo e, da pilota vero com’era, completamente disorientato a causa della mancanza dei classici strumenti forniti dall’organizzazione, quali roadbook e GPS. Se non altro, io il GPS lo avevo. Dopo il confronto iniziale abbiamo convenuto che la cosa più intelligente da fare fosse muoversi insieme, per sopperire reciprocamente alle rispettive lacune. È stato così che io, fino a quel momento limitato nelle conoscenze, sono stato introdotto nell’ambiente dal veterano Eric che, conoscendo logiche e persone della Dakar, non aveva problemi a inserirsi e, in cambio, riceveva da me tutto il supporto logistico che ero in grado di offrirgli». Dunque l’incontro con Eric è stato decisivo… «Assolutamente. Grazie a lui, fin dal primo giorno, ho avuto le porte spalancate dal momento che lui lì era di casa, e conosceva bene uomini dell’organizzazione e piloti. Il mio carattere, poi, ha fatto il resto. Sono uno che riesce a essere simpatico e a fare conoscenza in maniera naturale con tutti. Il mio carattere è quello che mi ha spinto a fare questa pazzia e a girare il mondo con la mia moto». E gli altri concorrenti avevano capito che ti eri imbucato? «Chiaramente sì. Ai concorrenti è bastato uno sguardo

per rendersi conto che la mia Africa Twin del 1990 non era iscritta alla gara, e io non ho mai fatto mistero ai piloti della mia avventura da imbucato, cosa che mi ha fatto guadagnare, sorprendentemente, l’appoggio di tutti che, non vedendomi come un rivale, mi hanno ulteriormente aiutato a conquistarmi la permanenza all’interno del villaggio dakariano. Curiosamente, invece, una moto così diversa da tutte le altre non destava nessun sospetto agli occhi degli addetti alla sicurezza che presidiavano l’ingresso del bivacco. In Sudamerica, per mia grande fortuna, modelli come il mio non sono diffusi per cui i sorveglianti, nel vedere una moto ricoperta di adesivi e numero di gara, deducevano automaticamente che fossi un concorrente come tutti gli altri. Oltrepassato lo scoglio dell’ingresso, infatti, tutte le sere mi dirigevo solerte e sicuro verso uno dei tanti team con cui avevo fatto amicizia e, sceso dalla moto, mi muovevo indisturbato indossando la t-shirt di qualche squadra, senza correre più nessun rischio, anzi, acquisendo sicurezza giorno dopo giorno». Ma se il problema principale, ovvero penetrare nel villaggio, era ormai stato superato, come gestivi la giornata? Eri praticamente un fantasma, se avessi avuto problemi con la moto o se ti fossi infortunato, nessuno ti avrebbe cercato, nessuno ti avrebbe soccorso. «Appunto. Era indispensabile, di conseguenza, scegliere un approccio conservativo per non incappare in pericolosi imprevisti. C’è da dire che la mia Africa Twin, seppur datata, era stata preparata minuziosamente per l’occasione,

aggiornando quello che il tempo aveva reso obsoleto, migliorandone resistenza e prestazioni sotto ogni punto di vista, dal motore, all’impianto elettrico, alla carena, per un risultato performante e sportivo. Un lavoro completo, arricchito da un tocco finale: l’amuleto himalayano che mi accompagna in ogni avventura dal 2012! Inoltre, nell’infausta eventualità di essere scoperto, avrei dovuto essere pronto a schizzare via in qualunque momento, quindi portavo sempre con me tutto ciò che possedevo – una mini borsa, una tenda striminzita, e una cassettina degli attrezzi. Se qualcosa fosse andato storto, sarei sparito senza lasciare traccia. In generale, comunque, non essendo iscritto, dovevo sempre augurarmi che qualcuno mi fornisse un pass giornaliero, quello destinato ai visitatori. Vivevo alla giornata e, seppur integrato, ogni giorno dovevo ripetere le stesse azioni sperando per il meglio: varcare la soglia, raggiungere gli amici, e procurarmi un nuovo braccialetto per guadagnarmi l’ingresso il giorno seguente. Comunque, nonostante la situazione fosse imprevedibile e aleatoria, col passare dei giorni sono riuscito addirittura a ottenere le tracce e i punti GPS da un team di fotografi che, tutte le mattine, mi passava sottobanco queste informazioni impagabili che consentivano, a me ed Eric, di essere decisamente indipendenti, senza dover costantemente seguire i piloti per non sbagliare strada. Anche se ho cercato di frenarmi un po’ per evitare danni e infortuni, in molti momenti il cervello si spegneva e aprivo il gas senza pensare troppo alle conseguenze. Viaggiare in due, c’è da dire, era rassicurante

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«Ai concorrenti è bastato uno sguardo per rendersi conto che la mia Africa Twin del 1990 non era iscritta alla gara, e io non ho mai fatto mistero ai piloti della mia avventura da imbucato, cosa che mi ha fatto guadagnare, sorprendentemente, l’appoggio di tutti che, non vedendomi come un rivale, mi hanno ulteriormente aiutato a conquistarmi la permanenza all’interno del villaggio dakariano. Ma dovevo essere pronto a schizzare via in qualunque momento, quindi portavo sempre con me tutto ciò che possedevo - una mini borsa, una tenda striminzita e una cassettina degli attrezzi. Se qualcosa fosse andato storto, sarei sparito senza lasciare traccia».

ed esaltante allo stesso tempo, soprattutto perché stavo condividendo l’avventura con un dakariano vero, un gran manico, che in sella alla sua moto volava. E comunque, ok la prudenza, ma i ritmi erano quelli di un rally, bisognava accelerare. Non è stata una passeggiata. L’adrenalina invadeva tutto il mio corpo, e lì ho realmente compreso, per la prima volta, il significato della parola rally: tratte lunghissime, velocità molto elevate rispetto a quelle a cui ero abituato, e una prova più che altro di resistenza». Un’occasione per testare il tuo livello di preparazione, con le tue abilità e i tuoi limiti, e capire se sei pronto ad affrontare davvero una Dakar. «Sotto questo aspetto mi è servita tantissimo. Mi sono reso conto che non è una cosa da prendere alla leggera, richiede una preparazione mirata da pianificare mesi prima. In questo momento non sono pronto ma, seguendo un programma di allenamento sì, senza dubbio, riuscirei a portarla a termine. Inoltre ho imparato come gestire una gara di questo tipo, dove non bisogna dare tutto subito, ma dosare velocità, forza e tecnica, in un equilibrio strategico da amministrare per due settimane consecutive. Devo ammettere che, affrontata così, la Dakar è stata godimento puro. C’era l’ansia di essere beccato, è vero, però durante il giorno avevo la serenità che un pilota in gara non può concedersi, perché non avevo lo stress di essere eliminato. Mi gustavo gli scenari dell’Argentina, restavo sbalordito di fronte al Salar de Uyuni nella parte boliviana del percorso, mi lasciavo affascinare dalla bellezza ambrata delle dune

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nel deserto cileno di Atacama. La sera, inoltre, mi godevo il bivacco chiacchierando con i meccanici di fronte a una birra ghiacciata, e ascoltando le storie eroiche dei piloti. Sebbene mancasse l’aspetto agonistico, sono certo di aver assimilato lo spirito della Dakar in tutte le sue sfaccettature». Dopo averla seguita da tutta la vita, a cominciare da quella africana, che cosa pensi di questa nuova Dakar che in molti criticano, ti ha deluso? «Assolutamente no, né dal punto di vista paesaggistico, né da quello della durezza del percorso. Ho parlato con molti piloti ed ex piloti e ciò che mi sono sentito ripetere più spesso è che la differenza principale sta nel fatto che in Africa, al termine della speciale, anche il trasferimento era su sabbia, quindi bisognava ancora guadagnarsi il bivacco. Diversamente, in Sudamerica, una volta finito il tratto cronometrato, è tutto asfalto, e questo cambia un po’ le cose. Ma per il resto ci sono elementi che non erano presenti in Africa, come le altitudini a 4mila metri, il deserto di sale in Bolivia, svariate tipologie di terreno che in Africa non s’incontravano, insomma ci sono difficoltà differenti». Quindi si può stabilire che una Dakar sia più difficile dell’altra? «In generale no, non credo che quella dei giorni nostri sia più facile, sicuramente è un po’ diversa, perché guidare sulla sabbia a 4mila metri di altitudine è una cosa devastante, che in Africa non si potrà mai provare e, per contro, sicuramente ci sono altri elementi che la rendono meno im-

pegnativa di quella africana. Indubbiamente si è evoluta, ma la magia che ti pervade è autentica e assolutamente ti cambia la vita. Ti cambia tutto. E nonostante di devastante e sei esausto, è quasi una droga». L’esperienza di Lorenzo, così proibita e affascinante, in realtà è la conferma di quell’aspetto che ogni dakariano conosce bene, e corrobora la tesi secondo cui la Dakar, a differenza di qualunque altra competizione, non è semplicemente una gara, bensì un’avventura. Lo dimostra il fatto che pur non avendo provato la componente competitiva, ha comunque interiorizzato lo spirito insito nella Dakar, vivendolo in ogni più profondo aspetto. Quello della stanchezza devastante dopo una giornata di fatiche, della preoccupazione costante di rompere il mezzo, dell’angoscia da cui si viene assaliti quando qualcosa nella navigazione non torna. Ma anche del sollievo indescrivibile alla fine di ogni tappa, dello stupore fanciullesco di fronte alle meraviglie della natura, dell’orgoglio misto a incredulità nel momento in cui si sale sul podio dopo averla portata a termine. Vivere la Dakar significa entrare a far parte di un mondo a sé, in cui la sua aura misteriosa e leggendaria attrae personaggi fuori dall’ordinario, alla ricerca di sensazioni ad alto contenuto emotivo. Uomini con storie eccezionali, che hanno intrecciato le loro vite con l’avventura, collezionando esperienze uniche e senza tempo, proprio come quel fuoco che la anima, immutato, fin da quel lontano dicembre del 1978.


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SOLO CONTRO IL DESERTO Foto di Cristiano Barni

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rovate a immaginare una cassa da 35 per 45 per 80 centimetri. Sono queste le dimensioni della cassa contenente utensili, ricambi e speranze dei piloti della Malle Moto, quelli che corrono la Dakar senza assistenza, senza meccanici, senza aiuto. Quelli che partono per una gara, già di per sé molto dura, senza contare sull’ausilio di niente e nessuno, reggendo ritmi intensissimi e privandosi del sonno, per vivere l’esperienza più appagante ed estrema. La categoria camion cassa è quella scelta, inizialmente, per mancanza di budget da motociclisti che non possono permettersi d’iscriversi al rally in modo organizzato ma che poi, come sta accadendo sempre più, si rendono conto che questa modalità racchiude in sé il vero spirito della Dakar, quello che rimanda alle indimenticate edizioni africane, quando non c’erano i mezzi e le possibilità dei giorni nostri. È la Dakar di quelli veri, di quelli duri, i privati cui l’organizzazione mette a diposizione solo un camion in cui caricare una cassa da 80 litri, una borsa con gli effetti personali e due gomme. Tutto qui. Manuel Lucchese lo sa bene: in lui la passione per questa leggendaria manifestazione sportiva è incontenibile, tanto da essere riuscito a disputarla quattro volte, dimostrando che la determinazione supera ogni tipo di ostacolo e la forza motivazionale può portarti ovunque tu voglia. Veronese, classe 1988, Manuel è uno dei ventuno motociclisti che hanno affrontato la Dakar 2017 nella categoria Malle Moto, vivendo l’avventura più autentica. Niente camper in cui dormire como-

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damente al riparo dalle intemperie, niente riposo mentre i meccanici si occupano della moto: «Dopo la tappa la giornata per me era ancora lunga perché, quando arrivavo al bivacco nel tardo pomeriggio, dovevo mettermi subito a lavorare sulla moto. Ogni giorno la regolare manutenzione richiedeva come minimo due ore di tempo, da svolgere in un’area specifica e controllata, poiché nessun altro aveva il permesso di toccare la moto. Il camion scaricava la cassa, sotto il sole o sotto la pioggia battente non importava, si doveva lavorare lì». Manuel, che nella scorsa stagione della Dakar ha chiuso al quinto posto di categoria e cinquantunesimo assoluto, non nasconde un velo di delusione e amarezza per non aver ottenuto un risultato migliore. Secondo il suo parere di pilota, infatti, l’edizione dakariana del 2017 non è stata molto dura: «Ovviamente le difficoltà ci sono state, per gli orari, l’altitudine e i lunghi trasferimenti, ma a livello tecnico è stata facile. I numerosi tagli al percorso e le due tappe annullate hanno ridotto considerevolmente i chilometri complessivi delle prove speciali che, unite alla prima e all’ultima tappa con tratti selettivi cortissimi, hanno reso la Dakar 2017 un rally di sole otto tappe. E poi, fatta eccezione per una trentina di chilometri a Tupiza, in Bolivia, non ci sono state dune. Queste, oltre a essere la vera essenza della Dakar, rappresentano anche la parte più complicata da superare, tant’è che sono state la causa, negli anni passati, di molti ritiri e di molti incidenti. Il percorso che abbiamo trovato lungo i tre Paesi sudamericani che hanno ospitato il rally – Para-

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I PILOTI DELLA MALLE MOTO SONO QUELLI VERI, QUELLI DURI, QUELLI CHE PARTECIPANO ALLA DAKAR SENZA UN'ASSISTENZA, PASSANDO IL LORO, POCO, TEMPO LIBERO AD AGGIUSTARE, OGNI SERA, LA PROPRIA MOTO, COME MANUEL LUCCHESE CHE NEL 2017 È ARRIVATO TRA I PRIMI 50 PARTECIPANTI

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«AFFRONTANDO LA DAKAR HO CAPITO UNA COSA, PER FAR FRONTE A TUTTE LE DIFFICOLTÀ HAI BISOGNO DI TRE STRUMENTI: FASCETTE, NASTRO ADESIVO AMERICANO E FIL DI FERRO»

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Nella pagina accanto, Manuel Lucchese, nato nel 1988, preso a smanettare con la sua cassa 35x45x80, nel bivacco per aggiustare la sua Yamaha WR450F del 2012.

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guay, Bolivia e Argentina – era soprattutto caratterizzato da veloci sterrati e greti di fiume, niente a che vedere con le durissime dune del Cile e del Perù, in cui si trovava anche molto fesh fesh. Che per chi non è avvezzo è una temibile sabbia del deserto finissima, appiccicosa e molto volatile. È stata dura indubbiamente ma a livello tecnico è stata un’edizione facile». La Malle Moto, tuttavia, aumenta considerevolmente il livello di difficoltà in termini di stanchezza fisica e stress psicologico, e insegna a ingegnarsi per sfruttare al meglio le risorse limitate che si hanno a disposizione: «Ho imparato che per cavarsela servono principalmente tre cose: fascette, nastro adesivo americano e fil di ferro. Questi tre semplici oggetti possono fare la differenza e risolvere la maggior parte dei problemi che ti si presentano. Chiaramente durante le speciali devi stare molto attento a non cadere, perché questo significherebbe provocare dei danni ingenti con il rischio di non avere il tempo e la possibilità di risolverli. Questo modo di affrontare la gara è una vera e propria filosofia, tant’è che è scelta sempre più spesso anche da piloti professionisti che, dopo varie partecipazioni, vogliono alzare la posta per aumentare il livello di difficoltà. Per quanto sia stremante, la Dakar così affrontata regala un appagamento e una soddisfazione impareggiabili. La consapevolezza di aver portato a termine un’avventura così importante e insidiosa contando solamente sulle proprie forze e capacità, è una sensazione che ripaga interamente da ogni tipo di sacrificio. Sono felice di aver dimostrato che si può parte-

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cipare con una moto di serie e posizionarsi nei primi 50 dell’assoluta. Io sono partito con una Yamaha WR450F del 2012 tutta di serie – fatta eccezione per due serbatoi, una marmitta e gli strumenti per la navigazione – che si è rivelata molto affidabile. L’unica pecca riguardava la velocità massima, che non mi consentiva di andare oltre i 140 chilometri orari e che, in un rally così veloce, mi ha penalizzato molto, poiché correvo a 30 chilometri all’ora in meno della maggior parte delle altre moto. In compenso, però, ero molto competitivo nei settori tecnici, anche se purtroppo sono stati pochi». Manuel Lucchese è senza dubbio uno dei piloti più risoluti e appassionati, che ha fatto della Dakar uno stile di vita e un’ispirazione continua, attraverso la quale ha affinato le sue doti di pilota e comunicatore, tanto da raccogliere la cifra necessaria per la sua prima partecipazione, nel 2012, attraverso un’attività di crowdfunding: «Tutti mi dicevano che la Dakar è troppo dispendiosa, soprattutto per un ragazzo della mia età. Io ho deciso di dimostrare alla gente, specialmente ai giovani, che tutto è possibile attraverso la determinazione, la forza di volontà e il sacrificio. La Dakar è qualcosa di speciale, è un’entità strana che ti prende e ti sconvolge. Ogni volta è un’avventura nuova, con le sue difficoltà sempre differenti e la sua imprevedibilità che si spinge oltre ogni previsione. Ti trascina negli abissi della disperazione nutrendosi delle tue speranze, per poi riportarti in superficie dandoti nuovamente la possibilità di sfidare la sorte, alla stregua di una marea».


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GHIACCIO E FANGO, ASSURDITÀ E SUDORE, POTENZA E AGILITÀ. LO SWANK RALLY ON ICE, CHE SI È SVOLTO A RIVA VAL DOBBIA MARTEDÌ 16 GENNAIO, È L'EVENTO DI DEUS EX MACHINA CHE OGNI ANNO ACCOGLIE FOLLI MOTOCICLISTI CHE SI SFIDANO SU MOTO VINTAGE, ENDURO, REGOLARITÀ, INAPPROPRIATE, MA SEMPRE TASSELLATE. VE LO RACCONTIAMO CON UN REPORTAGE FOTOGRAFICO, INUTILE AGGIUNGERE PAROLE

ICE BUCKET CHALLENGE Foto di Marco Campelli

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Lo Swank Rally on Ice è un evento creato da Deus Ex

Nella pagina accanto, un concorrente ha partecipato

Machina e l'invito è riservato. Quest'anno si è svolto

con una minimoto di provenienza cinese, 110 cc di

il 16 gennaio a Riva Val Dobbia, Alagna Valsesia con

cilindrata e 4 tempi. Si può guidare tutto sulla neve,

un'affluenza di circa 60 partecipanti.

basta saperlo fare...

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AJS Stormer 250 del 1970, particolarità: motore 2 tempi Willer con cambio separato, forcellone con regolazione catena su fulcro telaio, mozzi conici, forcella a perno avanzato. Una rarità di questi tempi. Nella pagina accanto, padre e figlio sul sidecar che condividono la passione per i motori, e per la neve.

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LO SWANK RALLY È UN CAMPIONATO NON COMPETITIVO. NEL 2017 LE TAPPE SONO STATE QUATTRO: AL MILANO RUMBLE (A SESTO SAN GIOVANNI), AL THE REUNION (ALL'AUTODROMO DI MONZA), AL WILDAYS (ALL'AUTODROMO DI VARANO) E, L'ULTIMA, AD ARSAGO SEPRIO (ALL'EX CIRCUITO PRIVATO DEL FAST CROSS)


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SCHEVENINGEN, OLANDA, 4 CHILOMETRI DI SPIAGGIA DOVE SURFISTI ASSATANATI DI ADRENALINA SI LANCIANO CONTRO L’ACQUA GELIDA, ONDE DI QUASI TRE METRI CHE ARRIVANO DALLA SCOZIA E TEMPESTE INCAZZATE DALLA NORVEGIA E DALL’ISLANDA. C’È CHI SI È INVENTATO VIGILE DEL FUOCO E CHI PANINARO PER STARE LÌ ED ESSERE PRONTO OGNI VOLTA CHE L’ONDA GIUSTA ARRIVA. QUESTE SONO LE LORO STORIE Foto di Enrico Salvadori

Testo di Stefania Romani

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Un pezzo dei quattro chilometri della spiaggia di Scheveningen, il sobborgo marittimo della città di Den Haag. Negli ultimi anni, e nella stagione invernale, il posto è diventato una delle mete preferite dei surfisti di tutta Europa.

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Quest’anno, l’uomo in Maglia Rosa è stato uno di Maastricht. Un olandese il Giro non lo aveva mai vinto, nelle tappe a 2.800 metri si è lasciato dietro pure i colombiani delle Ande. Prima o poi doveva succedere, perché Tom Dumoulin è uno di quelli che nelle gambe ha centinaia di chilometri fatti ogni santo giorno sotto un tempo infernale. La bufera è casa sua, un po’ come per tutti i fiamminghi, una razza che dà il meglio di sé in condizioni estreme. Sarà per questo che i surfisti nordici non hanno solo in testa le barriere coralline della Florida o di Bali. Da queste parti, l’obiettivo è nel Mar de Plata in Argentina, sono le onde delle Lofoten nel Circolo Polare Artico, o quelle dell’Alaska nell’arcipelago vulcanico delle Aleutine. Sono ragazzi assatanati di adrenalina che fanno un surf hardcore, nomadando alla ricerca dell’onda perfetta in posti maledettamente imperfetti, ancora meglio se sotto zero e con qualche orca nei paraggi. Tra loro, 12mila sono olandesi, e nel clan dei nordic surfer almeno 400 vivono a Scheveningen, a mezz’ora di tram dal centro di Den Haag. Già da un po’ di anni, in contest internazionali come il Lacanau Pro che si svolge sulla costa francese dell’Atlantico, o il Dutch Surf Championship, circolano nomi di professionisti che rappresentano il tricolore rosso, bianco e blu, tipo Kaspar Hamminga, Ray van Eijk e Yannick de Jager. Poi certo, anche loro si divertono a svernare nelle calde acque di Messico e Indonesia, magari buttandoci anche dentro una tappa a Oahu nelle Hawaii, a fare i kamikaze tra le famigerate onde del Banzai Pipeline. D’inverno però, è nel Mare del Nord che vogliono fiondarsi. Devi avere physique du rôle per indossare alle sette del mattino una muta mezza congelata spessa cinque millimetri, quando fuori ci sono due gradi e in acqua quattro. La sensazione di congelamento è qualcosa di brutale, cominci a perdere sensibilità alle labbra, il sangue non scorre più nelle vene, ti pisci continuamente addosso. Entri in uno stato zen ipotermico, ma un surfista che è nato qui preferirà, sempre e comunque, avere sopra la testa un cielo viola pronto a scaricare neve, piuttosto che passare quei tre mesetti estivi dove il mare è piatto, e sulla spiaggia di Scheveningen ci va giusto a farsi una corsetta. È la località per vacanze low cost più popolare dei Paesi Bassi (gli olandesi coi soldi hanno il cottage tra le dune di Ouddorp). Il sobborgo marittimo è un frullato di atmosfere balneari romagnole, affogate in salsa pop polinesiana. La promenade di quattro chilometri, con un po’ troppo costruito dietro, comincia con un Pier di fine anni Cinquanta, da cui puoi buttarti in bungee jumping per 80 euro, se ne aggiungi 30 hai pure la foto ricordo e una t-shirt. Ci sono poi gli immancabili chioschi di fish & chips, un paio di casinò, sale bingo e micro negozi di vari souvenir kitsch. Lungo la spiaggia, dove anche ad agosto di gente in acqua se ne vede poca, parte un’infilata di bungalow in puro Tiki style con baristi in camicia hawaiana, orchidee di plastica, palme piantate nella spiaggia e totem Maori all’entrata per creare angolini caraibici. Hanno nomi che richiamano

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RIDERS MAGAZINE

C’È CHI FA L’ISTRUTTORE PER PORTARSI A CASA POCO PIÚ DI CENTO EURO AL GIORNO PER INSEGNARE MOSSE DI BACINO E DI PIEDI A BIMBETTI E ADOLESCENTI CHE SOGNANO DI DIVENTARE SILVER SURFER

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GENNAIO 2018

SURF ESTREMO

Julian Yoshi, 31 anni,

tentato di fare carriera

nel suo laboratorio JY

nel surf in Francia.

Surfboards aperto a

Fallito il tentativo, è

Scheveningen. I ragazzi

tornato a Scheveningen, ha

vanno da un artigiano come

aperto un bistrot (ritrovo

Julian per farsi costruire

di molti surfisti), e

in esclusiva e su misura

continua a fare surf ogni

la tavola che vogliono

volta che può; sotto, Un

visto che le tavole dei

gruppo di surfisti sulle

produttori più importanti

dune di Schevenigen.

sono costose e quelle

Come tutti quelli che

asiatiche fanno schifo.

amano questo sport, per

Nella pagina accanto,

guadagnare d’estate

sopra, Boris Vermolen, 44

fanno gli istruttori di

anni, con la sua longboard

surf a tempo pieno. Nel

Single Fin 8.0 in legno di

loro caso lavorano nella

balsa che si è costruito

l’Hart Beach Quiksilver

da solo. Da giovane, ha

Surfschool.

WAVES

l’esotico del Sud Pacifico... Waikiki Bar, Waimea Bay, El Niño e Aloha. Poi sui tavolini di bambù si ritorna alla dura realtà, mangiando aringhe affumicate con cetriolini sottaceto e merluzzo fritto serviti in noci di cocco, con l’onnipresente colonna sonora ibizenca dei Cafè del Mar. Ci sono anche tre scuole di surf con baretto annesso. Ci lavorano i surfisti che, per arrotondare la borsa di studio passata dal Governo, friggono dalla mattina alla sera pancake allo sciroppo d’acero farcite con squintalate di banane, con un occhio fisso all’App sul cellulare del bollettino di venti e maree, tanto se arrivano quelle giuste, una shortboard è sempre pronta sotto il bancone. C’è anche chi fa l’istruttore, e in posti come l’Hart Beach Quiksilver Surfschool portano a casa fino a cento euro al giorno per insegnare mosse di bacino e piedi a bimbetti e adolescenti che sognano di diventare Silver Surfer. Poi, anche a Scheveningen finalmente l’estate finisce. I turisti sloggiano, i pupazzi delle polinesiane spariscono dai beach bar che chiudono la stagione. E sulla spiaggia deserta, si aspetta soltanto la mareggiata perfetta. «Non avremo le mega swell del Pacifico, ma da ottobre a marzo anche il Mare del Nord ci porta la sua bella endorfina. La Scozia ci regala onde di due metri e mezzo, ma sono le tempeste incazzate che arrivano da Norvegia e Islanda che aspettiamo tutti... quelle scatenano sequenze di onde che durano tre giorni di fila» spiega Rik Uiterwijk, 52 anni, uno che se non avesse l’odore di salsedine sotto il naso, non uscirebbe nemmeno di casa. Da 25 anni fa il vigile del fuoco nella squadra di soccorso in mare: «Ho trovato il lavoro più bello del mondo, mi pagano per girare con un pick-up carico di tavole da surf e fare salvataggi. La caserma è a dieci minuti dalla spiaggia, se non sono di turno e c’è il vento giusto da Nord-Ovest, schizzo subito in acqua». Superato il porto, il litorale si trasforma nelle dune di Westduinpark, un’area protetta dove oltre a volpi, vacche delle Highlands scozzesi e usignoli, sparsi qui e là sono rimasti i bunker costruiti dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Qui, in un’ex stazione radio militare, c’è il surf lab di Julian Yoshi, 31 anni. Ha cominciato a surfare quando ne aveva 12, «dieci anni fa eravamo in quattro gatti a cercar onde, ci incontravamo sul molo con in mano dei ridicoli sandwich di polistirolo orientale. Non si trovava una tavola decente». Per anni le ha riparate per conto d’altri, poi Julian si è rotto le palle di «merda cinese e tailandese che si polverizza solo a guardarla». Così ha aperto, dentro un posto anti-squatting, JY Surfboards, un’officina vecchia scuola di tavole Made in Holland dove continua a riparare tavole asiatiche, ma realizza anche con materiali biodegradabili fantastiche: «Twin-fin Fish a coda doppia, sono shortboard stile anni Settanta perfette per le onde piccole che abbiamo qui. Ogni tavola è unica, impossibile replicarla. Non avrà la precisione industriale, ma mi piace così, è tutto ciò che non è Hong Kong. Le profilo con una specie di traforo che mi sono costruito. Faccio tutto come una volta, con calma: qualche carezza con la carta vetrata per definire punta e coda, un leggero foglio di fibra di vetro, e poi una pennellata con il colore fatto sul momento, a occhio, che un computer non potrà mai riprodurre e che non ritroverò mai più». Uno degli storici amici d’onda di Julian è Boris Vermolen, 44 anni, faccia alla Gérard Depardieu ventenne. Boris è il classico surfista che ha capito in fretta che mai avrebbe avuto dietro il culo la Red Bull a pagargli le bollette. Così si è inventato un lavoro per stare comunque vicino al mare. E allora cosa c’è di più bello che dar da mangiare ai surfisti? Pane e carne… è quasi qualcosa di sacro. Tanto arrivano tutti sempre alla stessa ora, mattino presto e tramonto, gli prepari un hamburger, e nel mezzo, hai tutto il tempo per surfare pure tu. Boris ha passato una vita sull’Atlantico a fare il cuoco nei baretti sulla spiaggia di Biarritz, cucinando per i grandi del surf come Tom Carroll, Mark Occhilupo e Kieren Perrow. Tornato a Scheveningen, ha aperto il bistrot Meener Chocolat, diventato il punto di ritrovo di tutti i surfisti olandesi. In cucina, accanto al frigorifero, Boris ha sempre la sua longboard Single Fin 8.0 in legno di balsa che si è costruito. Quando finisce ai fornelli, la infila sotto il braccio, indossa la muta e va in spiaggia. Quella di Boris assomiglia alle surfboard che negli anni Cinquanta modellava il californiano Bob Simmons, l’inventore delle tavole moderne. Gli piaceva dormire nel suo pick-up, cenando con fagioli di soia in scatola scaldati su un fornellino da campeggio. Poi si alzava all’alba, prendeva la sua tavola, e se ne andava tra le onde dell’oceano, davanti alla Pacific Coast Highway.


EVENTO

RIDERS MAGAZINE

GENNAIO 2018

MOTOR BIKE EXPO VERONA

MOSCHE BIANCHE 42


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24 settembre 2017, Mugello, Tempio della velocità mondiale, in pista il massimo della lentezza, i ciclomotori a pedali. 80 partecipanti su due ruote. E dopo la parata due giri di gara vera. Miglior tempo? Circa 11 minuti al giro, il tutto sotto la pioggia. Il 20 gennaio al Motor Bike Expo di Verona ci sarà la prima esibizione del 2018 della Motozingarata ideata e promossa da Piero Pelù.

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GENNAIO 2018

M

MOTOR BIKE EXPO VERONA

osquito’s Way è pronta a ripartire per la stagione 2018 con la prima esibizione in programma sabato 20 Gennaio all’interno della fiera MBE di Verona. La Motozingarata riservata a ciclomotori a pedali, ideata dal Rocker Piero Pelù, e promossa dal direttore artistico di Virgin Radio, DJ Ringo, e dal giornalista Giovanni Di Pillo, è arrivata all’inaugurazione ufficiale della stagione 2018. Verona apre ufficialmente la terza stagione di appuntamenti per questi nostalgici che intervengono da tutta Italia ma anche dall’estero. Addirittura dall’Uruguay. Lo scorso anno, a Lignano, si è iscritto l’Uruguaiano Willi Lemes Lemesfernandez, che ha portato in aereo il suo Mosquito con lo scopo di battere il record mondiale ufficiale di percorrenza a bordo di questo mezzo. Incredibilmente il record appartiene a Ernesto Che Guevara che ha percorso 4.250 chilometri con un Mosquito Garelli nelle strade sudamericane che ha poi attraversato di nuovo con la sua Norton 500 del 1939 da lui chiamata Poderosa e poi descritto nel libro Notas de viaje e nel film I diari della motocicletta. La Mosquito’s Way è un modo diverso e

EVENTO

particolare di condividere la passione le due ruote. Dopo alcuni appuntamenti cittadini, fuorilegge e clandestini, viste le numerosissime richieste di iscrizione, è stato creato un calendario nazionale di appuntamenti ufficiali aperti a tutti i possessori di vecchi ciclomotori a pedali o rulli. Piero Pelù, DJ Ringo e Gio Di Pillo in breve tempo si sono trovati seppelliti dalle adesioni, grazie a una formula che ha richiamato centinaia di appassionati che avevano in cantina ancora il loro vecchio e rugginoso trabiccolo a due ruote e tanta voglia di condividere le stesse passioni per le moto e per la musica rock e uno spirito goliardico e giocoso. Oltre a tutti i collezionisti (e in Italia sono tanti) che finalmente hanno trovato il modo di sfoggiare tutte le loro creature restaurate in modo maniacale. Una miscela che rende uniche queste parate dove i partecipanti sanno solo il luogo e il Dress-Code obbligatorio, e sempre diverso, per ogni manifestazione. E Piero Pelù ricorda la sua corsa preferita: «La corsa più pazza del mondo l’ho creata nel 2015 per aiutarea chi si era smarrito a ritrovare se stesso attraverso la ricerca, il restauro e il riutilizzo di ciclomotori che sembravano inutilizzabili. Lo spirito della tribù dei Mosquitari vive di esperienze meccanico e umane da condividere con gioia e rock ‘n’ roll».


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GENNAIO 2018

MOTOR BIKE EXPO VERONA

16 OCEAN DAKAR

SOMMARIO & STAFF

Moreno Pisto Editor in chief Fabio Fagnani Staff Editor Elisa Anastasino Fashion Director Max Schenetti Photo Editor Stefano Temporin Art Director Stefania Freri Grafica Eleonora Dal Prà Web Editor

32 SWANK RALLY ON ICE

Laura Mandelli Redazione Alberto Cecotti Motorcycle Editor

TESTI Eleonora Dal Prà, Stefania Romani, Alberto Cecotti FOTO Marian Chytka, Marco Campelli, Enrico Salvadori, Cristiano Barni, Lorenzo Piolini PROGETTO GRAFICO

38 SURF ESTREMO IN OLANDA

Circular Agency HANNO COLLABORATO Marco Miccichè Paolo Wolf

Riders Italian Magazine è edito da Milano Fashion Library Srl Chairman Diego Valisi dvalisi@milanofashionlibrary.it Headquarter Corso Colombo 9 20144 Milano Tel. +39 02 83311200 info@milanofashionlibrary.it www.bibliotecadellamoda.it

42 MOSQUITO'S WAY

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SOMMARIO

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ISSN 1972-4136 © 2014 Milano Fashion Library Registrazione al trib. di Milano n. 96 del 20/02/2007 Per le immagini senza crediti l’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli. L’editore è a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorre nei loro confronti.

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ISSUE N° 111 IS COMING IL PROSSIMO NUMERO È DA COLLEZIONE, NON PERDERLO


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RIDERSGARAGE STAI SENZA PENSIERI

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