MIL
ANO C
AG I N P 2 3 A LC I O C I T Y > I N S E R TO S P E C I A L E •
E
30 ANNI
50 ANNI FA
100 ANNI
DELL’UNION BERLIN SENZA IL MURO
IL CATANIA DI MASSIMINO
DI GIANNI BRERA
INDICE
EDITOR IN CHIEF Simone Stenti s.stenti@soccerillustrated.eu GRAFICO Federico Achilli SOCIAL MEDIA Federica Visconti Alice Zanfardino SEGRETERIA Laura Mandelli
PENSIERI
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STORIA BRERA 100
> 06
PROSPETTIVE COLORED BOYS
> 10
TERRITORI ISTANBUL
> 14
SPECIALE MILANO CALCIOCITY
> 20
TERRITORI UNION BERLIN
> 52
PROTAGONISTI BANGLADESH DAY
> 56
MITI MASSIMINO 50
> 60
RESPONSABILE DI TESTATA Simone Marchini s.marchini@belviveremedia.com UFFICIO TRAFFICO Franca Ghetti f.ghetti@belviveremedia.com ABBONAMENTI info@belviveremedia.com
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Illustrazione cover di MASSIMILIANO MARZUCCO
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PENSIERI
EDITORIALE
Coabitazione alla Parole di SIMONE STENTI
Con un colpo a sorpresa il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha messo in vendita il Meazza: 70 milioni di euro. Quest’estate l’Atlético Madrid ha acquistato Joao Felix per 126. I 19 anni del campioncino sono stati valutati circa il doppio dei 90 della Scala del Calcio. Nonostante un prezzo a prima vista accessibile, in questo tira e molla con gli attuali inquilini, Inter e Milan, San Siro sembra davvero destinato alla demolizione. Come in tutte le vicende complesse, bisogna saper prendere le distanze dalle ragioni del cuore, altrimenti diventa inconcepibile la rinuncia a un impianto che sulle sue storiche rampe esibisce dieci Coppe dei Campioni. Il Real Madrid ha dato il via alla ristrutturazione del Bernabeu, impianto per molti versi simile al Meazza. La scorsa primavera il Cda dei Blancos ha dato l’okay a un prestito monstre di 575 milioni che lo porterà a vantare uno stadio ai confini della fantascienza. In Inghilterra, la patria delle tradizioni calcistiche, invece non ci hanno pensato un attimo a demolire gli storici Wembley, White Hart Lane e Highbury per dar spazio a impianti nuovi, più funzionali e meno impattanti su abitazioni e cittadini. A suo modo, pur senza demolire lo storico Parco dei Principi, anche a Parigi la Nazionale francese ha saputo rinunciare
alla nostalgia trasferendosi allo Stade de France. Insomma, entrambi gli schieramenti hanno ampie argomentazioni a sostegno. La questione che sembra risolta però è la condivisione dello stesso stadio per le due squadre milanesi. Comunque andrà si resterà assieme. Una fedeltà coniugale che non si registra fuori dai confini nazionali, dove invece anche a Roma, Genova e Verona si persiste a vivere sotto lo stesso tetto. Senza arrivare al parossismo londinese (vado a memoria, ma conto almeno 14 stadi nelle varie leghe), a Madrid e Barcellona non ci pensano neanche di giocare i derby sullo stesso campo. A Monaco ci avevano provato all’Allianz Arena, ma poi ci ha pensato il Monaco 1860 a implodere e a trasferirsi al Grünwalder Stadion. A Parigi il problema neanche si pone, visto che a fronte del solo PSG la capitale vanta due stadi cinque stelle. A Milano sembra invece che anche l’eventuale nuovo stadio sarà in coabitazione. Basta un solo impianto a una metropoli? Per il calcio sì, lo dimostra la storia. Ma negli stadi non si gioca soltanto a pallone. Con un impianto di proprietà, la città rischia di rimanere senza riferimenti per concerti ed eventi. Questa tuttavia non è materia per i club.
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CENTENNALE Da Peppino Meazza e Valentino Mazzola, da Pelè a Schiaffino, fino all’abatino Gianni Rivera, con cui la polemica tenne banco per un ventennio. Anche se poi ammise: «Non fosse stato grande, Rivera non mi avrebbe dato la minima noia: non mi sarei accorto di lui». A cent’anni esatti dalla sua nascita, ripercorriamo le passioni
Nella sua cinquantennale carriera di scriba sportivo, quale sarà stato il primo grande calciatore che gli si è parato dinnanzi in tutto lo splendore tecnico-atletico? Chi per primo ne avrà suscitato l’ammirazione critica ma soprattutto gli estri inventivi da gran fabulatore del «gioco più bello del mondo»? Peppin Meazza o gli uruguagi del Bologna che tremare il mondo facevano (Andreolo, Sansone, Fedullo e «testina d’oro» Puricelli)? Gli juventini dei cinque scudetti consecutivi nei primi cinque campionati degli anni Trenta (Gianpiero Combi, Rosetta e Caligaris, Luisito Monti e Mumo Orsi, Giovannino Ferrari o Renato Cesarini, altro talentuoso oriundo, marchigianoargentino, quello che anni dopo alla Juve portò El Cabezon Sivori)? O per uscir di frontiera Matthias Sindelar, il Mozart del calcio, l’incantatore di attaccanti Ricardo Zamora, l’universale György Sarosi ungherese-triestino, o infine il diamante nero brasiliano Leônidas da Silva, l’inventore dell’em bycicleta, la sforbiciata con salto mortale all’indietro? Ma negli anni Trenta, Giovanni Brera, detto Gianni, anzi Gioânnbrerafucarlo, come amava firmarsi, nato cent’anni esatti fa (8 settembre 1919) a San Zenone Po, Bassa pavese, dove il torbido Olona si getta nelle acque ancor più torbide del Gran Fiume Padano, era un giovane studente liceale a Pavia e se scriveva di calcio lo faceva soltanto sulle pagine di giornali > pg. 8
Illustrazione di MASSIMILIANO MARZUCCO
pedatorie di Gianni Brera.
Parole di GINO CERVI
I CAMPIONI DI FUCARLO GIOÂNN
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locali, o al massimo su quelle del Guerin Sportivo come cronista di partite di categorie minori accanitamente disputate su sperduti campetti della provincia tra Lombardia, Piemonte e Liguria. E all’epoca, per vedere all’opera un calciatore, l’unico modo era andare alla partita. Niente Tv, né tanto meno YouTube. A dire il vero, un fuoriclasse del football d’anteguerra il giovane Gianni l’aveva incontrato da vicino. Era Adolfo Baloncieri, alessandrino figlio di emigrati in Argentina, dove a inizio Novecento imparò l’arte del fùtbol, prima di tornare a casa a mostrare mirabilie nel campionato italiano del primo dopoguerra, con la maglia dei grigi e poi soprattutto col Torino. Terminata la carriera, Adolfo fu gran pedagogo e allevò stuoli di giovani calciatori prima coi granata (i Balon Boys) e poi a Milano, sponda rossonera. Quando Baloncieri allenava il Milan, Brera quindicenne era tra gli allievi, assieme all’amico e coetaneo Luigi Bonizzoni, poi lui stesso allenatore rossonero dello scudetto 1958-59. In una forse un poco leggendaria ricostruzione autobiografica si descrive come promettente centromediano di buona tecnica e impostazione, poco propenso al vigore atletico: insomma, lui stesso, un abatino ante-litteram. Ma Brera avrà certo potuto ammirare, da spettatore all’Arena Civica, le evoluzioni di Peppino Meazza, che celebrerà in un inarrivabile epicedio in occasione della sua scomparsa nell’agosto del 1979 dal titolo Meazza era il fòlber, primo suo pezzo su Il giornale di Indro Montanelli. «Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario». Dopo gli studi (liceo scientifico Taramelli e laurea in Scienze politiche a Pavia) e dopo la guerra passata post 8 settembre tra i partigiani dell’Ossola, Brera entra nella Gazzetta dello Sport, dove però si occupa dapprima soprattutto di atletica leggera e di ciclismo. Gli straordinari reportage sull’altrettanto strabiliante vittoria di Fausto Coppi al Tour del 1949 gli valgono l’incarico a co-direttore dalla Rosea a soli trent’anni. Il campione di football per eccellenza in quegli anninon poteva che essere Valentino Mazzola, anima e capitano del Grande Torino.
SCHIAFFINO È RIMASTO NELLA MIA MEMORIA COME UNO DEI MASSIMI FACITORI DI GIOCO MAI CONOSCIUTI: OGNI SUO APPOGGIO ACCENDEVA LA LUCE. «Era un traccagno di piccola statura e tuttavia così dotato atleticamente da strabiliare. Scattava da velocista, correva da fondista, tirava con i due piedi come uno specialista del gol, staccava e incornava con mosse da grande acrobata, recuperava in difesa, impostava l’attacco e vi rientrava spesso per concludere. Era insieme regista e match-winner». Ma Brera, a differenza di molti colleghi, approccia il tema football con inedite analisi tecnico-tattiche e per quanto riconosca l’eccezionalità della formidabile compagina granata ne indica già i difetti in una propensione al gioco d’attacco che, a suo avviso, è mal congeniale alla natura atletica e psicologica della squadre italiane. Diventa così teorico
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del «catenaccio»; ovvero di quella disposizione tattica tesa prima di tutto a contenere gli attacchi avversari, che vengono invitati a scoprirsi in difesa in modo da essere poi puniti con rapidi capovolgimenti di fronte: difesa e contropiede, gli assiomi della teoria difensivista della scuola all’italiana.
Quello a cui più sta a cuore a Brera è la geometrica armonizzazione delle distanze tra i reparti e, nei singoli, l’attitudine all’abnegazione atletica, in forma di corsa e di tenuta nel contrasto all’avversario. Chi a queste caratteristiche sa combinare anche una raffinata tecnica di base, è il suo campione perfetto. Lo è, ad esempio, Pepe Schiaffino, leader della nazionale uruguagia che Brera ammira ai Mondiali del 1954 in quella che, a suo dire, fu la più bella partita a cui avesse mai assistito: la semifinale tra la Celeste e la grande Ungheria di Puskás. Vinsero i magiari, ma in quell’occasione Brera celebrò in questo modo il Pepe. «Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto […]. Schiaffino è rimasto nella mia memoria come uno dei massimi facitori di gioco mai conosciuti: ogni suo appoggio accendeva la luce. Giocava benissimo in difesa e in attacco: quando occorreva sapeva anche goleare.» Come accadde nella finale del 1950, quando il Pepe fu tra gli artefici del Maracanazo ai danni dei brasiliani, sconfitti in casa propria dagli uruguagi. E poi, altro inarrivabile archetipo del football secondo Brera, fu Alfredo Di Stefano, tuttocampista argentino – ma di origini italiane, capresi per la precisione – che fece grande il Real Madrid tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. A proposito di «Saeta Rubia», questo il soprannome di Di Stefano, Brera ricorda un aneddoto di quando il fuoriclasse argentino giocava nei Millionarios colombiani: «Un giorno Pedernera, ineguagliato bombardiere bonaerense, vide Alfredo fare qualcosa del genere: tornare nella propria area, conquistare palla, scambiare con il mediano e chiedere triangolo, riprendere palla, correre a distese falcate verso la porta avversaria, toccare in corsa senza sbilanciarsi di un ette, chiedere di nuovo triangolo e balzare sulla palla per sparare imparabilmente in rete. […] Visto in azione quel mostro di abilità e di fondo atletico, Pedernera gli andò vicino e gli disse: Ohei ragazzolo, di questo passo tu rovinerai il mestiere a todos, e voleva dire che facendo con tanta abilità quelle prodezze, in fondo sminuiva il calcio.» Fondo atletico e tempra agonistica che non riconosceva invece ad alcuni grandi stilisti del calcio, come Rivera, con cui per quasi un ventennio accese una polemica che, onestamente, una testimonianza come le seguente rivela la parzialità della fondatezza. Brera amava Rivera e lo voleva semplicemente diverso da quello che in realtà era.
STO R I A
«Rivera era dotato di grandissima eleganza. In certe pose di attesa ricordava il David di Michelangelo. Batteva il destro con sublime nitore. Aveva il tiro forte, non potente. Non correva al recupero con la dedizione necessaria. Costruiva da lontano con efficacia rara. […] Avrò criticato Giovannino Rivera cinquanta volte e lodato cento (come minimo: ma forse sono troppo severo con me stesso). Non fosse stato grande, Rivera non mi avrebbe dato la minima noia: non mi sarei accorto di lui come non mi sono accorto di mille e mille mediocri visti in giro per il mondo. Giovannino era un po’ la mia Lesbia. Non si spaventi. Catullo, mio poeta latino preferito, aveva un’innamorata con quel nome. Come giornalista sportivo io ho avuto Giovannino: e bastava il suo minimo sgarro per infuriarmi. Avrei voluto che conservasse il suo stile armonioso e disponesse invece di un dinamismo paragonabile a quello di Mazzola padre. Avrei voluto recuperasse per giovare alla difesa come sapeva Schiaffino e anche, non dico piaggeria, il figlio maggiore del citato Valentino Mazzola. Giovannino innamorava di sé tutti coloro che, amando il calcio, non stavano a ragionarci troppo. Molti ingenui milanisti mi tacciavano di disonestà perché, elencandone i pregi, osavo anche citarne i difetti: non consideravano, ciechi com’erano, che per dire sempre quanto pensavo facevo perdere molti lettori (forse loro stessi) al mio giornale.» Per un fuoriclasse come Pelé, Brera scomodò addirittura Leopardi per descriverne l’armonia delle movenze in occasione di un suo gol al Benfica in una finale di Coppa Intercontinentale di inizio anni Sessanta. «Guardate Pelè. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull’erba: un piedino prensile l’accarezza mentre l’altro spinge: echetasovraitetti: accorreva un avversario: si è coricato come un birillo: tettiposalà: avanza un altro: piroetta; lalùna: ecco un compagno smarcato: oppure, ecco una nuova battuta di dribbling: si corica il secondo birillo: o magari no, questa volta il birillo non si corica e vince il tackle: Pelè ha sbagliato il dribbling: capita: anch’io ho dimenticato: sovr’ai tetti e dentro gli orti. Ripetizione: posalalunedì lontàn e rivèla: ora parte Pelè in progressivo. Serenognì montàgna. Correndo, senza sforzo apparente, ha fissato i bulloni in terra ed ha scaricato fulmineo la pedata: ha mirato, si è visto: mentre correva ha mirato e battuto a rete. Serenognì montàgna. Punto. Gol.» L’ultimo grande eroe della pedata a cui Brera sacrificò la sua immaginosa penna fu forse Gigi Riva, ribattezzato Rombo-di-tuono. In lui s’incarnava la sua visione eroica del calcio, la forza popolare che si afferma e diventa grande
ed eroica a dispetto delle origini umili: «Proprio io, tra i primi, l’avevo visto sbozzarsi a fatica da un ossuto traccagno del mio paese lombardo. Fasci di muscoli guizzavano imperiosi fuor dell’impianto rozzo e quasi greve. Non molti lo capirono e dovette emigrare. Lo fece bellissimo l’esercizio, peraltro scavandolo a vantaggio di prominenze decisamente michelangiolesche se non addirittura barocche. Nonché esaltarsi di questa nuova realtà della sua vita, egli era fatto cauto dal ricordo di troppe miserie vissute e sofferte a Leggiuno. Ancor oggi lo vedo sollevarsi da un bulicame confuso e informe di vittime predestinate alla fame e all’umiliazione. Si è ribellato come usano i romantici e gli eroi, troppo facilmente apparentati con quelli. Nel suo viso incavato erano scritti infiniti ricordi di dolore. Nessun pericolo ha mai potuto arrestarlo. Ha sempre considerato possibili le acrobazie più temerarie, tanto più temibili e pericolose in quanto più vicine all’arcigna durezza della terra.» Brera, dalla metà degli anni Settanta, iniziò a staccarsi lentamente dalla travolgente passione per il calcio, di cui aveva forse notato prima di altri l’inevitabile trasformazione antropologica. Si entusiasmò, riconoscendo onestamente i suoi errori critici, alla vittoria dell’Italia di Bearzot ai Mondiali del 1982, esaltandosi per la elettrica nevrilità di un campione come Marco Tardelli, centrocampista mai-morto, o per l’olimpica eleganza di Gaetano Scirea o ancora per la fantasia tutta italica di un misirizzi come Bruno Conti, detto Pelasgio. E in fondo trovando in quella vittoria la certificazione delle sue teorie di storia culturale del football, per la quale il calcio nazionale si esalta in quella forma di gioco, difensivo ma al contempo mai rinunciatario. Negli ultimi stanchi anni si confrontò polemicamente con l’eretismo podistico del Milan di Sacchi che gli sembrava quanto più alieno all’etnos pedatorio nazionale – e infatti era un ibrido batavo-italico – e trovando apprezzamenti forse solo per l’estro pragmatico e lombardo del pais Donadoni. Manca Brera, in questo centesimo anniversario della sua nascita. Non tanto, o non solo per le sue invenzioni linguistiche, per le sue aperture culturali che dalle pagine di calcio, o in genere di sport, facevano intuire altri mondi (la storia, la letteratura, la cultura materiale) e che a loro modo offrivano ai lettori spunti di nuove curiosità, a volte vere e proprie lezioni di umanesimo. Manca soprattutto per l’esempio di onestà intellettuale con cui per mezzo secolo svolse il suo lavoro di cronista, critico e narratore di quella cosa inessenziale ma irrinunciabile che è il football.
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P ROS P E T T I V E
E I FRATELLI MAGGIORI Il primo fu Fabio Liverani. Oggi tocca a Balotelli e al giovanissimo neo-citizen, Moise Kean. La storia dei colored in Azzurro è recente e per nulla comoda. Ma non saranno certo gli striscioni che recitano «Il mio capitano è di sangue italiano» a rallentare una marcia inarrestabile.
Parole di NICOLA CALZARETTA
Alla domanda politicamente corretta, Fabio Liverani risponde dritto per dritto: «Io il primo calciatore non bianco in nazionale A? Dite pure il primo di colore». Lo fa con il massimo candore e con la sua curiosa «zeppola» che lo fa scivolare sulla zeta di nazionale. Una giocata semplice, ma efficace. Un preciso piatto di prima intenzione per lanciare in verticale il centravanti, al netto di inutili barocchismi. Un tempo di gioco guadagnato e maggiori possibilità di arrivare a bersaglio. Ma sì, andiamo al cuore del problema senza coloranti artificiali, né conservanti dannosi alla salute. Liverani, figlio di padre italiano e madre somala, ha la pelle scura. Lo sa e ne è fiero. È nato a Roma, il 29 aprile 1976. Alla vigilia del suo venticinquesimo compleanno il ct. Giovanni Trapattoni, lo chiama in azzurro per un’amichevole. È il 20 aprile 2001. Fabio è il regista del Perugia di mister Cosmi e in quella sua prima stagione di A si è guadagnato le attenzioni del Trap che va detto, lo conosce dai tempi comuni di Cagliari, lui mister della prima squadra, Liverani promettente centrocampista della Primavera. Alla nazionale, in corsa per un posto per i Mondiali nippocoreani del 2002, un giocatore così fa
Illustrazioni di MASSIMILIANO MARZUCCO
comodo, visto l’infortunio di Albertini e gli acciacchi di Di Biagio. La notizia, però, non è questa. Gli aspetti tecnici, nonostante il pragmatismo del Trap, vengono messi in secondo piano rispetto alla novità cromatica relativa al colore della pelle del nuovo debuttante. Con tutte le problematiche che si trascina dietro, dagli ululati razzisti in giù per un fenomeno di intolleranza assurdo quanto purtroppo molto diffuso alle nostre latitudini, e non solo. Fabio Liverani, dunque. Primo giocatore di colore in Nazionale A. Vero. Per la precisione, primo calciatore cittadino italiano di colore in Nazionale A. Nel passato, anni Cinquanta, c’era stato un altro giocatore con la pelle scura vestito con l’azzurro della massima selezione: l’attaccante della Fiorentina Miguel Angel Montuori, dodici presenze e due reti, perfino la fascia di capitano una volta. Ma lui era un oriundo, giocatore proveniente da altra federazione calcistica (di fatto uno straniero, argentino nel caso di specie), ma che godeva della doppia cittadinanza grazie al padre italiano. Quello degli oriundi è stato un fenomeno molto in voga fino al 1962 con nomi di big quali Cesarini, Orsi, Guaita e poi Altafini,
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Sivori, Sormani. Un fenomeno riaffiorato in epoche recentissime (nella Nazionale campione del mondo del 2006, c’era l’italoargentino Mauro Camoranesi, giusto per citare il più titolato). Liverani, invece, è il primo colored boy tutto italiano della storia della selezione azzurra maggiore. La cronaca, tuttavia, impone di ricordare che nelle rappresentative giovanili, prima dell’attuale allenatore del Lecce, si erano già affacciati altri due calciatori di colore, entrambi difensori: Dayo Oshadogan, nato a Genova il 27 giugno 1976 da padre nigeriano e madre ligure (primo ragazzo con la pelle nera a giocare per l’Under 21 azzurra con Cesare Maldini commissario tecnico) e Matteo Ferrari, nato in Algeria da padre italiano e madre guineana che, fin dall’età di 15 anni, scelse di rappresentare calcisticamente l’Italia, facendo tutta la trafila delle varie Under per poi arrivare al debutto nella Nazionale A nel novembre del 2002, anche lui convocato da Giovanni Trapattoni. Fabio Liverani, quindi. Primo giocatore di colore in Nazionale A. Per una incredibile e suggestiva coincidenza debutta il 25 aprile 2001, non una data qualsiasi per la storia della nostra patria. E debutta contro il Sudafrica, paese simbolo nella lotta contro l’apartheid. I corsi e i ricorsi che il calcio, e lo sport in generale, amano regalare in ogni tempo e luogo sono ricchi di magia e suggestioni. A quella presenza, con tanto di numero 10 sulle spalle (per la cronaca, vittoria dell’Italia per 1-0), ne seguiranno soltanto altre due. Poi stop per Liverani, il primo uomo di colore sulla luna azzurra. Un passaggio rapido, una meteora nel cielo blu della Nazionale, la cui luce fiammante, però, è riuscita a tracciare una precisa linea di confine aprendo la strada ad una nuova era. Quella caratterizzata dagli italiani di seconda generazione, figli di immigrati, ma nati nel nostro territorio e quindi, con il compimento del diciottesimo anno di età, cittadini tricolori a tutti gli effetti. Anche con la pelle nerissima. Un fenomeno sociale nuovo (e tormentato)
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LIVERANI È IL PRIMO COLORED BOY TUTTO ITALIANO DELLA STORIA DELLA SELEZIONE AZZURRA MAGGIORE.
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per l’Italia, anche per quella del calcio, al pari della Germania. Una realtà consolidata, invece, per la Francia da sempre multietnica e colorata (a caso tra le figurine peschiamo quelle di Marius Tresor, libero della Nazionale del ’78; di Jean Tigana, centrocampista dei blues nel 1982 e dei campioni del mondo Lilian Thuram nel ’98 e Paul Pogba la scorsa estate). Anche l’Inghilterra è un bel pezzo avanti: il primo colored debuttò con la maglia della Nazionale maggiore nel novembre 1978 (si trattò del terzino del Nottingham Forest Viv Anderson, origini giamaicane, un giorno ne riparleremo). Fabio Liverani, si diceva. Dopo di lui, ecco altri giocatori dalla pelle nera vestire l’azzurro della Nazionale maggiore. Nel 2011 fa il suo debutto il difensore centrale Angelo Ogbonna, classe 1988, nato a Cassino da genitori nigeriani. Lo convoca il ct. Cesare Prandelli, mentre si deve al suo successore Antonio Conte la prima chiamata per l’attaccante Stefano Okaka, anche lui figlio di genitori della Nigeria e nato Castel del Lago (Perugia) il 9 agosto 1989. Prima di loro, il 10 agosto 2010, ecco il primo dei trentasei gettoni azzurri per Mario Balotelli. Il commissario tecnico è Prandelli chiamato a ridare nuova vita all’Italia dopo la tremenda delusione dei mondiali del 2010 in Sudafrica (fuori al primo turno, da campioni del mondo uscenti). Uno dei tasselli del nuovo puzzle tricolore che Prandelli intende ricostruire è rappresentato da questo colosso d’ebano, venti anni, centravanti rivelazione dell’Inter. La storia di Mario è singolare: nato a Palermo il 12 agosto 1990 da una coppia di genitori ghanesi (Barwuah il loro cognome), dopo tre anni si trasferisce nel bresciano. Qui, per le difficoltà economiche dei Barwuah e seri problemi di salute che lo affliggono, il piccolo Mario viene dato in affido ai Balotelli. È in questo ambito che il bambino si forma, stringendo sempre e più forti legami con la famiglia affidataria, e allontanandosi
progressivamente da quella naturale (con futuri strascichi polemici). Nel frattempo, cresce anche come calciatore, bruciando le tappe grazie ad un talento innato e a una struttura fisica da paura. Se ne accorge l’Inter che a 16 anni inserisce il promettentissimo attaccante di colore nel suo vivaio. L’anno dopo il mister Roberto Mancini, uno che di baby se ne intende, lo fa debuttare in Prima Squadra. L’escalation da lì è immediata. La nota stonata è che alle giocate di Balotelli in campo, molto spesso decisive e spettacolari, si accoppiano anche le variegate esuberanze del suo carattere. A 18 anni, intanto, acquisisce la cittadinanza italiana. Per lui è una svolta decisiva. «Sono italiano, mi sento italiano, giocherò sempre con la Nazionale italiana»: questo il suo voto, deciso e sicuro. Le intemperanze di una personalità complessa, però, non lo aiutano. Né aiutano quel processo di integrazione che in Italia appare ancora più faticoso, anche nel mondo del calcio. E quando viene proposta l’idea di dargli la fascia di capitano in Nazionale, la risposta maleducata, becera e cattiva - viene affidata ad uno striscione con scritto: «Il mio capitano è di sangue italiano». Adesso è la volta di Moise Kean, l’ultimo arrivato alla corte azzurra (il debutto è datato 20 novembre 2018). Classe 2000, «Mosè» è nato a Vercelli da genitori originari della Costa d’Avorio. Inserito fin da piccolissimo nelle giovanili dell’Asti, è transitato nel vivaio del Torino prima di approdare a quello della Juve. Kean è l’ultimo crack del calcio italiano. Talento puro, ha battuto ogni tipo di record in fatto di precocità. Adesso per lui si sono aperte le porte della Premier League, ottima palestra per la sua completa maturazione, anche in chiave azzurra.
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S O CC E R I L LU ST R AT E D
Il futbol e la Mezzaluna Dopo dieci anni di assenza dai palcoscenici internazionali, Istanbul è stata scelta dall’UEFA per le finali di Supercoppa Europea e Champions League, ovvero l’apertura e la chiusura di stagione. Una sorpresa inaspettata e meritata per la metropoli del Bosforo.
Parole di BRUNO CIANCI
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Fotografie di GETTY IMAGES
T E R R I TO R I
La stagione internazionale in corso, com’è noto, ha avuto inizio il 14 agosto scorso con la finale di Supercoppa Europea vinta dal Liverpool al Vodafone Park, la casa del Beşiktaş, e terminerà il prossimo 30 maggio con la finale di Champions League allo stadio olimpico Atatürk, l’impianto da settantacinquemila posti che nel 2005 fu teatro della più incredibile finale di Champions League che si ricordi: il successo ottenuto ai rigori dai Reds (ancora loro) su un Milan straripante, forse un po’ troppo sicuro di sé, al termine di una rocambolesca rimonta. Per la prima volta in sessantacinque anni di UEFA, quindi, una stagione si aprirà e si chiuderà nella medesima città, nello specifico a Istanbul. Sorprende che il massimo organo calcistico europeo abbia operato una scelta di questo tipo: già, perché nei dieci anni che hanno preceduto il derby inglese dello scorso Ferragosto, la città del Bosforo non aveva ospitato alcun match del calcio che conta, fatta eccezione, naturalmente, per qualche gara di Champions League giocata dalle squadre di casa. L’ultima finale di un trofeo UEFA disputata a Istanbul, per dovere d’informazione, era stata quella di Coppa Uefa del 2009, vinta dallo Shakhtar Donetsk di Mircea Lucescu a spese del Werder Brema, partita disputata nello stadio Sükrü Saraçoğlu, che è la casa del Fenerbahçe. Dopo di allora, e così fino alla scorsa estate, il nulla; poi, a sorpresa, il giusto riconoscimento a una città che impazzisce letteralmente per il calcio. PAZZI PER IL FUTBOL L’amore degli istanbulioti per il futbol (come lo chiamano loro) ha origini antiche ma non antichissime. Pare sia stato un gruppo di espatriati inglesi, alla fine dell’Ottocento, a disputare le prime partite di pallone in un’area non lontana da dove oggi si trova
il già menzionato stadio del Fenerbahçe SK, una polisportiva fondata nel 1907. Il «Fener» è presente in un ampio spettro di discipline sportive e fa del basketbol (la pallacanestro) il proprio cavallo di battaglia. Non a caso si tratta dell’unico club turco ad avere vinto l’Eurolega maschile, nel 2017. Gli inglesi, pur se inconsapevolmente, giocarono un ruolo importante nella storia di un altro grande club polisportivo della città a cavallo di Oriente e Occidente: il Galatasaray SK. Fondato nel 1905 su iniziativa di una élite colta e francofona di Pera, l’odierno quartiere di Beyoğlu, il club iniziò le attività vestendo casacche biancorosse e giallonere prima di adottare la celeberrima bicromia giallorossa. Lo fecero in occasione di un incontro disputato alla fine del 1908 contro la selezione dell’equipaggio di una nave da guerra di Sua Maestà Edoardo VII, il bisnonno di Elisabetta II. Da allora quelli del «Gala» non hanno più cambiato i colori sociali. La loro squadra è la più titolata in Turchia: vanta ventidue titoli nazionali (contro i diciannove del Fenerbahçe, i quindici del Beşiktaş, i sei del Trabzonspor e l’unico vinto dal Bursaspor) e per questo è l’unica a fregiarsi di quattro stelle sulla maglia. In Turchia, infatti, vengono assegnate ogni cinque campionati vinti e non già ogni dieci come in Italia. Il Galatasaray, inoltre, è l’unica squadra della Mezzaluna ad aver vinto titoli internazionali di rango, nella fattispecie una Coppa Uefa e una Supercoppa Europea, trofei sollevati nel 2000, ai tempi in cui l’allenatore era l’«Imperatore» Fatih Terim (lo stesso di oggi!), mentre le sue stelle si chiamavano Claudio Taffarel, Gheorge Hagi, Emre Belözoğlu, e Hakan Sükür. Qualcuno, di quella stagione forse irripetibile, ricorderà anche la pagina più deplorevole: l’uccisione per accoltellamento di due tifosi del Leeds, la squadra che il «Gala» incontrò in semifinale.
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Fotografie di GETTY IMAGES
S O CC E R I L LU ST R AT E D
Dal 2011 il Galatasaray gioca nel suo nuovo impianto da cinquantaduemila posti, costruito nel distretto finanziario di Maslak e collegato alla rete metropolitana attraverso la fermata di Seyrantepe. Come il precedente stadio del 1944, demolito per fare spazio a un grande progetto residenziale, anche la nuova struttura è intitolata ad Ali Sami Yen, storico calciatore e allenatore di origini albanesi; in virtù di una milionaria sponsorizzazione, però, la denominazione è stata mutata in Türk Telekom Arena. In questo stadio che sfonda letteralmente i timpani, nel 2013, la Juventus di Conte subì l’eliminazione dalla Champions League per mano degli ex interisti Mancini e Sneijder. Gli italiani, dal canto loro, scoprirono con somma sorpresa che a Istanbul può anche nevicare. Se il Galatasaray è la squadra più titolata di Turchia, la più antica è il Beşiktaş JK, club fondato nel 1903. Non solo fu la prima squadra della città, ma fu anche la prima dell’allora Impero ottomano (che cessò di esistere dopo la Prima guerra mondiale) a inserire nel proprio stemma la mezzaluna: com’è noto si tratta di un emblema turco per antonomasia, sebbene esso abbia origini preislamiche molto più antiche che lo rendono ancora più carico di mistero. Anche il Beşiktaş, la cui maglia storica è simile a quella tradizionale della Juventus, ha per simbolo un’aquila. Per questo, in occasione di alcune partite casalinghe delle kara kartallar (le «aquile nere»), si svolge un rituale che accomuna questa società alla Lazio e al Benfica: i giri di campo di un rapace ammaestrato in volo, sotto gli occhi spiritati di una folla in delirio. Qualche anno fa, uno di questi grandi pennuti, attratto
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dall’irresistibile profumo delle polpette cucinate da un ambulante al di fuori dello stadio, lasciò la struttura senza preavviso e assalì il povero venditore che, coltello alla mano, difese la mercanzia dal rapace fendendo l’aria a sciabolate. Ma le curiosità non finiscono qui. Quando nella primavera 2016 fu ultimato il nuovo Vodafone Park, che sorge nel medesimo punto in cui si trovava il vecchio stadio Ismet Inönü (in riva al Bosforo e a pochi passi dal sontuoso palazzo Dolmabahçe, una cornice che non ha eguali al mondo), il presidente della repubblica Recep Tayyip Erdoğan decise d’inaugurarlo senza pubblico, con un giorno di anticipo sui programmi, per evitare d’incorrere nei fischi e negli insulti che la calda tifoseria del Beşiktaş, storicamente affine al retaggio del padre laico della patria Kemal Atatürk (1881-1938) e del suo vice Inönü, gli avrebbe inevitabilmente riservato. CALCIO E POTERE Qualche anno dopo il Beşiktaş, anche il Kasımpaşa SK (1921), società attiva nel calcio e nella lotta, un altro sport assai popolare in Turchia, fu autorizzato a fregiarsi della mezzaluna, simbolo che è tuttora presente nello stemma sociale di colore blu. Il Kasımpaşa deve il nome al quartiere in cui il club fu fondato e in cui tuttora ha la sede sociale e lo stadio. L’impianto fu teatro nel 2011 di un due a zero dell’Italia under 21 sui coetanei turchi, con doppietta di Mattia Destro. Vanta una posizione assai centrale ma ha dimensioni modeste (solo quattordicimila posti a sedere) ed è intitolato a Recep Tayyip Erdoğan. A questo punto viene spontaneo domandarsi:
T E R R I TO R I
come mai un leader notoriamente megalomane e dotato di poteri così ampi non ha pensato di intitolarsi un impianto più grande, magari lo stadio olimpico che porta il nome di Atatürk, di cui il conservatore Erdoğan intende cancellare la memoria? La risposta è semplice: perché prima di darsi alla politica e di fondare il partito d’ispirazione religiosa AKP, «Tayyip» ha tirato i primi calci a un pallone proprio in quel quartiere, viatico verso la carriera di calciatore professionista che l’ha visto raggiungere livelli di tutto rispetto. Proveniente da una famiglia originaria di Rize, una città del mar Nero orientale, Erdoğan è nativo proprio di Kasımpaşa. Da giovane, tra le altre attività, ha lavorato come venditore di bibite e di ciambelle al sesamo, i celebri simit, ma deve al calcio e agli studi in economia e commercio una fetta delle proprie fortune. Pare che il presidente sia anche tifoso del Fenerbahçe, ma nel corso della sua lunga carriera politica è stato fotografato con centinaia di sciarpe variopinte al collo: perché per prendere voti in Turchia, innanzitutto, devi fare breccia nel cuore dei tifosi di calcio. Una squadra particolarmente vicina a Erdoğan e ai membri del suo partito è l’Istanbul Başakşehir FK. Le affinità sono riscontrabili sia nella natura delle sponsorizzazioni sia nell’arancione e nel blu delle casacche, guarda caso i medesimi colori del partito AKP. Nata per fusione nel 2014, questa squadra è divenuta in brevissimo tempo, grazie a grandi investimenti, un’importante realtà del calcio nazionale. Ha all’attivo due secondi posti in Süper Lig (la massima serie turca), piazzamenti ottenuti nel corso delle stagioni 2016-17 e 2018-19. Tra gli altri, militano oggi in questa squadra la stella Arda Turan
e tre vecchie conoscenze della Serie A: il brasiliano Robinho, lo svizzero Gökhan Inler e la «meteora» olandese Eljero Elia. Curiosamente lo stadio, modesto nelle dimensioni (conta appena diciassettemila posti a sedere), è intitolato a Fatih Terim che non è mai stato l’allenatore di questa squadra né, men che meno, è originario del distretto istanbuliota di Başakşehir, essendo nativo della remota città anatolica di Adana. A rappresentare la Turchia in Champions League non c’è il Başakşehir, che disputa l’Europa League (assieme al Beşiktaş e al Trabzonspor) nel medesimo girone della Roma. Spetta così al solo Galatasaray il difficile compito di rappresentare il Paese in un momento di grave difficoltà finanziaria e debitoria per il movimento calcistico turco. La finale dello stadio olimpico Atatürk sembra essere un miraggio, come del resto sarà per il 94 percento delle squadre che vi stanno partecipando. Per fortuna, però, c’è Istanbul, con la sua bellezza sempiterna dal fascino orientale, i suoi mille suoni e i suoi profumi di spezie, di caffè e di simit appena sfornati, a tenere alto il vessillo della Mezzaluna. E a ricordarci che nella vita, oltre al calcio, ci sono altre cose belle: come, per esempio, quella grande città a cavallo di Oriente e Occidente, già capitale di quattro grandi imperi (Romano, Bizantino, Latino e Ottomano), che a ventisette secoli dalla sua fondazione non smette ancora di emozionare.
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NOME RUBRICA
INSERTO SPECIALE
32 PAGINE STACCABILI
- ANTEPRIMA 26 SETTEMBRE -
VI ASPETTIAMO AL SOCCER CIRCUS > vedi pagina 30
valdo Casanova Illustrazione Os
ND
PER UN WEEKE
MILANO CAPITALE O I C L A C L E D
Nel 1968 Inter e Milan giocarono all’Arena Civica con un’unica maglia contro la Nazionale Militare e il Chelsea. Di quella che ad oggi è l’unica volta in cui il derby si giocò Tutti dalla stessa parte, resta questa casacca bianca attraversata dalle strisce rosse nere e azzurre. Unite insieme.
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I N S E RTO S P EC I A L E
MANIFESTO #NOISIAMOCALCIO Questo è un manifesto di valori a cui il calcio dovrebbe attenersi. Dal giocatore al tifoso, dal bambino al Presidente. Ricordando sempre che è un gioco, per grandi e piccini, che il calcio unisce e non divide, che gli unici colori che contano non sono quelli della pelle, ma solo quelli delle maglie. Il calcio è il nostro diritto ad essere bambini e ad essere felici.
IL CALCIO È GIOCO
IL CALCIO È RISPETTO E RESPONSABILITÀ
DIRETTORI ARTISTICI
Illustrazione di MASSIMILIANO AURELIO
IL CALCIO È INCLUSIONE
È rispetto degli avversari e rispetto dell’ambiente e delle nostre città. È per questo che non basta solo avere delle regole per sapere quando sia rigore o quando sia fuori gioco. Occorre avere delle regole e dei valori che ci permettano di orientarci nel mondo. E il calcio, un universo nel quale ci immergiamo ogni giorno, può diventare la nostra mappa per viaggiare nella vita.
Il calcio è il nostro diritto ad essere bambini e ad essere felici. Da grandi e da piccini.
Per chi ama il calcio l’unico colore che conta è quello arlecchino della maglia della propria squadra. Il calcio è essere una squadra. Il calcio ci insegna a vincere e perdere. Il calcio è rispettare gli avversari. Magari un giorno saranno tuoi compagni di squadra. Il campo da calcio è ovunque ci sia una pallone. Non ha limiti se non la nostra immaginazione. Il calcio è sostenibilità, ama i prati e il verde. Non ha bisogno solo di stadi e cemento e si può giocare anche per strada. A calcio possono giocare tutti. Ma a calcio non si gioca da soli. Bisogna essere almeno in due. Nel calcio le differenze si annullano. Tutto ruota intorno alla palla. Il calcio è un gioco per tutti: bambine e bambini, uomini e donne. Nel calcio ognuno è abile in qualcosa anche se diversamente.
IL CALCIO È FOLLE
Il calcio è anche il nostro diritto ad essere di parte e irrazionali. Ma solo per amore e per gioco. E solo per sostenere la propria squadra. Il calcio è contro la violenza. Il calcio non tifa contro. Il calcio ama le folle, non la follia.
IL CALCIO È NOSTRO
Il calcio è di tutti, per tutti. #NOISIAMOCALCIO
STEFANO BOERI
ALESSANDRO RICCINI RICCI
PIERLUIGI PARDO
Architetto, creatore del Bosco verticale, Presidente di Triennale Milano
Founder AC Immaginario srls, creatore del Football Fest di Perugia e di Firenze
Giornalista e telecronista Mediaset
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M I L A N O C A LC I O C I T Y
IL CALCIO NASCE IN ORATORIO A Milano CSI vuol dire Sport in oratorio. Non solo, ovvio, ma è innegabile che il cuore dell’attività sportiva di base della città e del CSI Milano risieda qui.
Lo sport in oratorio non è in crisi, come a volte si pensa nell’immaginario collettivo. Anzi, rappresenta uno dei volti belli dello sport italiano. Non servono grandi parole, basta qualche numero a dimostrarlo e Milano, in fatto di numeri, è un esempio significativo: il CSI Milano conta 630 società sportive, 2.100 squadre iscritte, oltre centomila tesserati, più di quarantamila partite in una stagione sportiva. Questi numeri fanno del CSI e dello sport in oratorio una delle realtà più significative dello sport milanese. Il punto però è che non si tratta solo di numeri: dietro alle cifre, c’è una macchina sempre attiva che produce bellezza, educazione e tonnellate di relazioni umane. I gruppi sportivi di oratorio sono vere agenzie educative che producono «bene educativo» per i ragazzi, per la comunità e per il territorio. Le esperienze di crescita che il CSI Milano offre alle società sportive sono diverse, al di là dei classici campionati e delle competizioni sportive: allenamenti integrati tra ragazzi disabili e ragazzi normodotati, la possibilità di sperimentare discipline ad alto tasso di inclusione, come il baskin, la possibilità di disputare turni di campionato all’interno delle carceri della città, o ancora proposte di un «terzo allenamento» alternativo, vissuto all’insegna del servizio in favore di fasce deboli delle nostre comunità… e via dicendo. Dall’altro lato, il CSI Milano trova nelle società sportive del territorio infinita disponibilità ad accogliere queste proposte. Attenzione, non è scontato. Immaginate la vita quotidiana di una di queste piccole o grandi società sportive: allenatori che, finita la loro giornata lavorativa, corrono sul campo a preparare l’allenamento, presidenti volontari che nella vita fanno tutt’altro e che scelgono di impegnarsi in un ruolo di grande responsabilità, mamme, nonne e nonni che terminati gli allenamenti puliscono gli spogliatoi, prima di riportare a casa figli e nipoti, dirigenti che arrivano al campo un’ora prima dei ragazzi per preparare magliette, distinte, materiale, visite mediche… eppure, tra le mille incombenze della vita di una società sportiva d’oratorio, presidenti e dirigenti scelgono di far vivere ai loro ragazzi esperienze che «vanno oltre». Che vanno oltre il campo e la crescita tecnica e sportiva, perché educano alla vita.
È innegabile: c’è un’intera città di volontari che ogni settimana spende sui campi sportivi decine di ore e lo fa gratuitamente e con infinita passione, per il bene dei ragazzi. Eppure, ecco il paradosso: Il bene ed il bello del servizio educativo delle nostre società sportive sono destinati a rimanere nell’ombra. Nessuno ne parla, nessuno conosce numeri e potenzialità, nessuno percepisce lo sforzo educativo e l’impegno attivo che queste realtà promuovono in favore della crescita umana dei più giovani. Lo sport in oratorio è destinato a rimanere la cenerentola dello sport italiano? Il CSI Milano, che tocca ogni giorno con mano tutta questa bellezza, non ci sta. Lo sport in oratorio non è lo «sport degli ultimi»: semplicemente siamo quelli a cui vincere non basta, o meglio, quelli per cui vincere non può mai essere la cosa più importante. Per noi – e per tutte le persone che spendono la loro passione sui nostri campi – vincere è un obiettivo modesto rapportato alla grande sfida di utilizzare lo sport come strumento educativo per i ragazzi e per la comunità. Tenere tutta questa bellezza educativa chiusa in cantina, lontana dai riflettori, nascosta alla gente è davvero una follia ed una scelta da irresponsabili. Ecco perché vogliamo raccontare tutto il bello del «nostro» mondo sportivo. Dobbiamo accendere i riflettori sul buono e sul bello delle società sportive. Questo patrimonio di umanità non può continuare a restare nascosto nell’anonimato. Sarà dura, ma noi ci proviamo. Noi ci crediamo. E ci credono anche gli amici di Milano CalcioCity, che hanno scelto di aprire le giornate di questo straordinario evento proprio in un oratorio. Come a dire che «il Calcio a Milano, parte anche da qui!». E poi, per chiudere con un pizzico di orgoglio «oratoriano»: Rivera, Boninsegna, Scirea, Albertini, Baresi, Bergomi… tutti nomi che ci insegnano un’importante verità: un campetto d’oratorio può riservare grandi sorprese.
MASSIMO ACHINI Presidente del Comitato di Milano CSI
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I N S E RTO S P EC I A L E
EDITORIALE MiCC
Guarda, ascolta, mangia, gioca, divertiti Uno spazio nel quartiere di San Lorenzo, tra la Basilica e le Colonne romane, fulcro dell’attività di gioco e incontro di MiCC. La piazza diventa un campo da calcio dove incontrarsi, giocare e divertirsi in collaborazione con FIGC, Quarta Categoria, Confcommercio Milano, Associazione Le Colonne di San Lorenzo Ticinese e l’Oratorio della Basilica di San Lorenzo.
Tutti insieme per raccontare il calcio e lo sport in un evento diffuso che ha come sede principale Triennale Milano e coinvolge tutta la città, con momenti pensati per famiglie, bambini e ragazzi.
Viene inoltre creato il circuito food&beverage Foodball dove ogni bar e ristorante dedica un cocktail o un piatto alla propria squadra del cuore: parte del ricavato sarà devoluto in beneficenza.
Ma a Milano CalcioCity lo sport non è solo raccontato: con il programma Play è anche vissuto e giocato, grazie a una serie di appuntamenti e attività aperte a tutti. Dal biliardino al padel, dal Subbuteo al bubble soccer, tante occasioni per provarsi sul campo e divertirsi, grazie anche al Villaggio Azzurro – Le Colonne del calcio organizzato in collaborazione con la FIGC.
Elegante club house di MiCC è la sede di Milano Fashion Library, zona Navigli, capace di trasformarsi per l’occasione in Soccer Circus, con rassegne cinematografiche, mostre fotografiche ed eventi del piacere calcistico.
IL CALCIO È RESPONSABILE, È IL NOSTRO «FOOTURO»
Dal 27 al 30 settembre, in quattro giorni di appuntamenti, più anteprime e posticipi, Milano CalcioCity si conferma il primo evento dedicato alla cultura e al gioco del calcio: parlato, raccontato e giocato, in tutte le sue forme. Nel programma Stories, dai grandi protagonisti del calcio di ieri e di oggi a chi, attraverso letteratura, giornalismo, cinema, musica e teatro, ha raccontato e racconta questo sport.
La manifestazione è prodotta da Triennale Milano e Agenzia Creativa Immaginario.
Milano CalcioCity, in collaborazione con Coldiretti, dona cinquanta alberi maturi alla città di Milano per il progetto di riforestazione urbana. Inoltre ospita «ricetta QuBì» per il contrasto alla povertà infantile. In Milano CalcioCity viene anche lanciato il progetto di mappatura dei campi da calcio (da basket, da volley) della città per un progetto di loro adozione e manutenzione. Ogni campetto è una piazza al centro di una rete sociale sulla quale costruire inclusione e integrazione. E proprio per questo progetto nasce «Calcio, un gioco senza frontiere», assieme a Fondazione di Comunità e Inter Campus. Un progetto che opera in aree critiche o in aree periferiche, in sinergia con gli interventi già sostenuti da Cariplo e Fondazione di Comunità, per creare o rafforzare le reti di persone e associazioni presenti nei territori. Il primo obiettivo è creare eventi ed attività all’interno delle comunità con la finalità di seminare e innescare meccanismi partecipativi e di innovazione sociale. Il secondo è offrire strumenti e competenze a team di persone che li rendano potenzialmente autonomi nello sviluppare azioni analoghe, formando a loro volta altre persone. Il terzo obiettivo è raccontare questi progetti e le persone
che vi partecipano attraverso strumenti social e digitali. Da qui nasce «Calcio, un gioco senza frontiere»: i campi da gioco andranno da piazzale Corvetto a Milano sino a Rozzano, Pioltello, San Giuliano, San Donato. La manifestazione, con la direzione artistica di Stefano Boeri, Alessandro Riccini Ricci e Pierluigi Pardo, farà parte del palinsesto YESMILANO e si avvale del patrocinio e del contributo, tra gli altri, del Comune di Milano e della Regione Lombardia. Oltre al supporto di Lega Serie A, Lega Nazionale Professionisti Serie B, Lega Pro e Associazione Italiana Calciatori, che promuoveranno diversi appuntamenti con tanti protagonisti del mondo del calcio, quest’anno per la prima volta la manifestazione vanta la collaborazione con la FIGC. Milano CalcioCity è stata anche inserita nell’elenco ufficiale delle manifestazioni che aderiscono alla Settimana Europea dello Sport 2019. Un’iniziativa promossa dalla Commissione Europea con l’Ufficio per lo sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri per stimolare i cittadini dell’Unione ad una corretta e consapevole attività fisica, indipendentemente dall’età o dal livello di forma.
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Le illustrazioni dell'inserto sono di Massimiliano Aurelio. Tarantino di nascita e milanese di attivitĂ , ha collaborato con The Guardian, Monocle, Rolling Stone e Campari.
I N S E RTO S P EC I A L E
EDITORIALE
Milano capitale del calcio diffuso Milano e il calcio, un legame molto stretto, un connubio che ha radici antiche e che vanta un contributo decisivo alla storia di questo sport nel mondo. L’Inter e il Milan, i loro tifosi, l’Arena civica e San Siro, certo. Ma non solo: il calcio in città è soprattutto la passione di padri, madri, figlie e figli, di nonni e nipoti, di pomeriggi giocati nei campetti degli oratori, in quelli comunali e negli impianti cittadini, dove sono numerose le squadre che disputano campionati minori e giovanili. Una passione italiana, che ogni giorno è alimentata dalle corse e dai calci di piccoli e grandi sportivi, dalle emozioni dei tifosi e dalle imprese dei loro idoli.
Illustrazione di MASSIMILIANO AURELIO
Milano e il calcio è anche vita di quartiere, coesione, rispetto reciproco: quello che spesso non si vede negli stadi delle serie maggiori lo si trova nelle partitelle tra amici, tra piccoli soprattutto. Bimbi milanesi ma di origini, culture e provenienze diverse, uniti da un pallone e due porte senza rete, avversari ma amici, compagni di squadra e di scuola. Il calcio come collante sociale, dunque, strumento di coesione e amicizia, come del resto è tutto lo sport. È per questo che Milano punta molto sulla riqualificazione delle strutture dei quartieri, oltre che sui grandi impianti. A volte basta un campo ben sistemato, un impianto accessibile per tenere viva e presidiata una strada, un quartiere.
Amicizia, rispetto e parità di genere. Il calcio è anche questo. Lo abbiamo visto con gli ultimi mondiali femminili in Francia, lo vediamo con la crescente passione femminile verso questo sport, anche a Milano. E anche qui, non solo Inter e Milan ma tante altre formazioni minori ogni giorno accolgono tante sportive. A implementare tutto questo, a sviluppare la cultura del calcio sano sono molto utili manifestazioni come Calcio City, che si svolge in questi giorni e fa di Milano la capitale del calcio diffuso, non solo città che ospita la Scala del calcio. Incontri, appuntamenti e ovviamente partite per grandi e piccoli, per vecchi e nuovi tifosi. Un evento che sposa in pieno la filosofia delle Week e delle City milanesi, le settimane a tema, durante le quali si concentrano qui professionisti e appassionati per diffondere e aprire settori specifici a tutta la città: dall’ormai classico Salone del Mobile, che ha ispirato tutto questo, a Piano City, passando per Milano Montagna, la Fashion Week o Bike City. E da oggi, Calcio City. Buona festa a tutti, buon calcio a tutti noi.
ROBERTA GUAINERI Assessore al Turismo, Sport e Qualità della vita del Comune di Milano
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I N S E RTO S P EC I A L E
IL METRONOMO NON SI FERMA MAI Dal rigore nella finale mondiale ai campi da padel, passando per lo sport-marketing e la presidenza del settore tecnico a Coverciano. I mille talenti di Demetrio Albertini. Intervista di EGLE PRIOLO
Negli anni Novanta lo chiamavano il Metronomo ed è ancora precisissimo. Sa dove vuole andare e ci va. Diretto, pochi fronzoli, idee chiare. E non avrebbe potuto essere diverso per diventare una star del Milan, il cervello della Nazionale, un rigorista rigoroso e cecchino, maestro dei calci piazzati e delle punizioni. Vicecampione del mondo a USA ’94, il primo mondiale della storia deciso ai rigori. E il primo a stampare il pallone sulla rete del Brasile fu proprio lui, Demetrio Albertini. Centrocampista di gambe e cuore, milanese doc, con i piedi cresciuti sui campi dell’oratorio prima di arrivare alle giovanili del Milan. Albertini, dal campetto di Villa Raverio al Milan degli invincibili di Fabio Capello. Tutti ricordiamo le 58 partite senza sconfitte dal maggio ’91 al marzo ’93. Ma quando scendevate in campo vi sentivate davvero invincibili? «La forza di quel gruppo era proprio di non sentirsi invincibili. Ci si preparava bene partita dopo partita. La nostra forza era quella di avere sempre il timore di perdere, di non pensare affatto di essere invincibili. E infatti la nostra celebrazione era sempre alla fine del campionato». Uno schema che si può riproporre anche nella vita? «Assolutamente sì. Anzi, è doveroso». Ancora oggi, a 25 anni distanza, i tifosi rossoneri ricordano la punizione in semifinale di Champions League che spianò la strada alla finale di Atene: 4-0 al Barcellona di Cruijff. Vincere una Champions è più bello che vincere lo scudetto? «Ci sono tanti fattori di differenza. Da una parte c’è una sfida da dentro o fuori, dall’altra pensi sempre di poter recuperare, o di essere recuperato, nel corso della stagione. Non è detto che sia più facile vincere una sola partita, ma dall’altra
ci vuole una costanza incredibile. Gli approcci sono diversi, ma è chiaro che vincere la Champions per un giocatore è un’esperienza incredibile, un riconoscimento straordinario».
ruffiano? Può essere, ma solo all’inizio. Poi diventa chiaro come sia uno sport per tutti, non classista, molto diretto e soprattutto “sociale”, conviviale. Una partita e poi una birra con gli amici».
Più di un secondo posto ai Mondiali? «Ai giovani dico sempre che nella vita si hanno belle esperienze o vittorie. Tutto poi dipende da te e da quello che potrai raccontare. Io posso raccontare di essere arrivato secondo al Mondiale, ma la vittoria è la vittoria: è questa la bellezza dello sport. Se mi si chiede di raccontarla, dirò sempre che negli USA è stata un’esperienza meravigliosa. Ma quando stavo salendo la gradinata per andare a prendere la medaglia d’argento, con la Coppa del Mondo lì che non potevo alzare, non è stato proprio bello. Ma in quanti hanno giocato un Mondiale? In quanti possono raccontare di aver segnato un rigore in finale?»
È anche presidente del settore tecnico di Coverciano, un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo, cosa significa per lei dare un contributo alle nuove leve? «Il mio è un ruolo e un contributo organizzativo, da cui soprattutto io per primo cerco di imparare, è uno stimolo a prepararsi e informarsi. Ma quello che posso dare, vorrei dare, è un impulso un po’ meno politico e più pratico. Vorrei scardinare la situazione in cui diciamo solo “siamo bravi”. Siamo bravi, ok, ma possiamo migliorare».
Ha dato molto al calcio, non solo italiano, ma con la sua agenzia di sport-marketing negli anni ha saputo ricrearsi una professionalità anche fuori dal campo... «Sì. E per il piacere di non stare mai fermo, per non essere capace forse a stare fermo. L’importante è sempre l’impegno e la passione. Sono stato fortunato nel poter fare quello che mi piaceva. Ma ad appagarmi è sempre l’impegno, le esperienze importanti. Questo è importante nella vita». Restando nelle attività extracalcistiche, dal calcio è passato al padel, con City Padel Milano. Come spiega il successo di questa nuova attività, di questa moda che impazza? «In ogni attività sportiva ci vogliono due ingredienti: competizione e soddisfazione. E il padel, da subito, dal primo giorno che prendi in mano la racchetta, li offre entrambi. È uno sport
Per chiudere, uno sguardo al campionato italiano: le milanesi sono ancora così distanti da Juve e Napoli? «Una milanese sì. L’altra si è attrezzata per avvicinarsi». Nessun margine di miglioramento per il Milan? «In questo momento no. Il miglioramento andava fatto dai singoli e poi con l’inserimento di qualcuno. Soprattutto se ci sono tre squadre, Juve, Napoli e Inter, che sono disegnate per vincere lo scudetto, con la carta di avere giocatori preparati qualitativamente per la vittoria: una può fallire, due possono fallire. Tre no».
CONFERENCE ASSOCIAZIONE ITALIANA CALCIATORI IL PRESENTE DEL CALCIO E LE CONSEGUENZE DEL FUTURO
30 SETTEMBRE | 17.30 > BASE < Via Bergognone, 34 - Milano
Fotografia di GETTY IMAGES
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M I L A N O C A LC I O C I T Y
BEPPE E GIACOMO, UNA STORIA MONDIALE L’evento di chiusura di Milano CalcioCity porta sullo stesso palco un campione del mondo e un campione di comicità.
Giacomo, un campo da calcio sembra essere una piazza in cui la gente si incontra. Anche nei suoi, nei vostri film il calcio ritorna spesso come momento di incontro. Che cos’è e cosa può essere il calcio? «Il calcio per un ragazzo è il gioco più bello del mondo. Io ho cominciato a tirare calci a una palla – male devo dire, eh! - all’età di tre, quattro anni, quando giusto si stava in piedi e si correva. E poi è diventato il gioco più bello del mondo, da praticarsi all’oratorio. Qualche velleità da professionista immediatamente frustrata verso i 15 anni e poi si è trasformato nel calcio con gli amici, la partita di calcetto e soprattutto tifo».
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Nel 1982 ha vissuto un’avventurosa partecipazione al Mondiale di Spagna. Una sua partecipazione quasi epica con finale a sorpresa. Ce la può raccontare? «Nell’82 ho avuto la fortuna di andare vedere tre partite, con l’Argentina, il Brasile e la semifinale con la Polonia. Poi, ahimè, ho mancato la finale perché ero in ferie, lavoravo all’ospedale all’epoca, avevo preso solo quattro giorni di vacanza, li ho protratti perché l’Italia continuava a vincere, ma se fossi rimasto anche per la finale sarei stato licenziato». Il resto, immaginiamo, sarà nello spettacolo. Riguardo alla sua fede, invece, in che cosa consiste essere e vivere da interista? Esiste una fenomenologia dell’interista che lo rende diverso dal tifoso di una qualsiasi altra squadra? «Cosa significhi essere interisti? Lo definisce bene la canzone Pazza Inter, che adesso mister Conte ha vietato, perché vuole cancellare questa cosa e io sono molto d’accordo. Intanto la follia di una squadra rimane sempre, ma credo che si voglia cancellare l’altalenanza dei risultati e l’incostanza e affidarsi all’irrazionalità. Comunque, l’interista è così: follemente innamorato della sua squadra».
1982, UNA STORIA MONDIALE 1 OTTOBRE | 18.30 > Teatro Oscar < Via Lattanzio, 58 - Milano
Illustrazione di MASSIMILIANO AURELIO
Giacomo Poretti, il tassello mancante per la nascita di Aldo Giovanni e Giacomo, interista da sempre, pronto a far dormire Aldo con la maglietta di Sforza «perché quella di Ronaldo era finita». Ronaldo il Fenomeno, Ronaldo quello vero, direbbero in curva Nord. E poi Beppe Bergomi, bandiera dei nerazzurri per vent’anni, campione del mondo nel 1982 con la passione per il commento sportivo. Una strana coppia, unita da un «Amala!» per l’FC Internazionale Milano. Una strana coppia che per la prima volta, durante Milano CalcioCity, porterà l’amore per il calcio sul palco del Teatro Oscar (via Lattanzio 58 a Milano) con 1982, una storia mondiale, lo spettacolo originale di e con Giacomo Poretti. Il racconto epico delle notti magiche di Spagna ’82 vissute pericolosamente da due giovani: Bergomi in campo, Giacomo in curva. È l’evento di chiusura di MiCC, in programma l’1 ottobre alle ore 18.30. Un appuntamento gratuito e molto atteso, prima del quale Giacomo decide di raccontare il suo rapporto con il calcio. E, naturalmente, con la «pazza Inter». Almeno finché si può ancora dire...
M I L A N O C A LC I O C I T Y
ACCORRETE, SOCCER CIRCUS È IN CITTÀ > MILANO FASHION LIBRARY Via Alessandria 8 - Milano
La città si tinge dei colori di Milano CalcioCity e per l’occasione debutta Soccer Circus, con quattro giorni di rassegne, mostre ed eventi dedicati al gioco più bello del mondo. Non aspettatevi tendoni a righe, però: Soccer Circus occupa l’esclusiva sede di Milano Fashion Library, 650 mq in Via Alessandria 8 (zona Navigli/ Tortona, a due passi dalla fermata della metro 2, Porta Genova), capace di trasformarsi nel luogo del divertimento calcistico.
IL PROGRAMMA DI SOCCER CIRCUS
GIOVEDÌ 26 SETTEMBRE
VENERDÌ 27 SETTEMBRE
Milano Fashion | ORE 19 Library
> Evento di inaugurazione di Soccer Circus e apertura della mostra fotografica Unexpected Hooligans. Cocktail con Chivas Sour.
Sala Cinema | ORE 18
> Presentazione del cortometraggio Footballization, documentario dagli improbabili campi da calcio nei campi profughi in Libano. > Proiezione del film Febbre a 90˚, ingresso gratuito previa registrazione (info@milanofashionlibrary.it). > Mostra fotografica Unexpected Hooligans e gaming corner in collaborazione con la Federazione Italiana E-Sports.
Sala Cinema | ORE 18.30 Sala Library | ORE 10-18
Sala Library | ORE 16
SABATO 28 SETTEMBRE
Sala Library | ORE 18
Sala Cinema | ORE 18 Sala Library | ORE 15-19
DOMENICA 29 SETTEMBRE
LUNEDÌ 30 SETTEMBRE
Sala Cinema | ORE 18 Sala Library | ORE 15-19
> Proiezione del film Maledetto United, ingresso gratuito previa registrazione (info@milanofashionlibrary.it). > Mostra fotografica Unexpected Hooligans.
Sala Cinema | ORE 17.30
> Presentazione e proiezione in anteprima del documentario Kaiser.
Sala Cinema | ORE 18
> Proiezione del film Il mio amico Eric, ingresso gratuito previa registrazione (info@milanofashionlibrary.it). > Mostra fotografica Unexpected Hooligans.
Sala Library | ORE 10-18
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> Presentazione del libro “Viaggio in Coppa d’Africa” di Calcio Africano con Alex Cizmic (www.calcioafricano.com). > Talk sul calcio internazionale con Eduardo Accorroni di Calcio8Cina (www.calcio8cina.it) e Andrea Tommasi di Calcio sovietico (calciosovietico.altervista.org). > Proiezione del film Sognando Beckham, ingresso gratuito previa registrazione (info@milanofashionlibrary.it). > Mostra fotografica Unexpected Hooligans e gaming corner in collaborazione con la Federazione Italiana E-Sports.
PROGRAMMA PLAY: GIOCHIAMO INSIEME
KICK OFF PLAY
MUNDIALITO EMILIANO MONDONICO 26 SETTEMBRE - RGP PRECOTTO Ore 17.30 - 18.30 INTER CAMPUS per TUKIKI e RGP Precotto Allenamento condiviso Il metodo Inter Campus al servizio del calcio integrato Ore 18.30 - 19.30 INTER CAMPUS per SSD MINERVA U12 femminile Allenamento condiviso. Il metodo Inter Campus al servizio del calcio femminile Ore 18.30 LE STELLE DI INTER E MILAN SI INCONTRANO IN ORATORIO Incontro con JAVIER ZANETTI, calciatore DANIELE MASSARO, calciatore FRANCESCO TOLDO, calciatore FRANCESCA ZANZI, calciatrice AC Milan
Ore 19.00 | Sala San Filippo Neri SPORT E ORATORI: DOVE NASCE LA SOCIALIZZAZIONE. Workshop a cura dell’Istituto per il Credito sportivo per illustrare a parroci, economi delle diocesi e dirigenti sportivi le soluzioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’impiantistica sportiva. Con ALESSANDRO BOLIS, Responsabile Marketing e Sviluppo Commerciale ICS Ore 19.30 - 22.00 MUNDIALITO DEGLI ORATORI Torneo maschile U14. Torneo degli oratori CSI dedicato a Emiliano Mondonico A seguire PREMIAZIONE
VILLAGGIO AZZURRO FIGC
LE COLONNE DEL CALCIO
Il mondo dell’Oratorio ospita il Mundialito di Milano CalcioCity per la prima volta dedicato al grande allenatore Emiliano Mondonico. In collaborazione con CSI e RGP Precotto, il calcio fa incontrare giovani calciatori e calciatrici con i grandi miti del calcio come Zanetti, Massaro e Toldo, promuove l’inclusione sociale e l’integrazione. Buon calcio di inizio a tutti!
Vieni a giocare con noi! Una Piazza dedicata al gioco del Calcio. In ogni sua declinazione.
27—29 SETTEMBRE - COLONNE DI SAN LORENZO Vuoi scoprire qualcosa di più del calcio? Vuoi iniziare a giocare? Partecipa ai laboratori del Settore Giovanile FIGC. Tutte le attività sono gratuite! Sei una bambina che vuole scoprire il calcio? VIENI AI PLAY DAYS FIGC Venerdì 27 | Ore 9.00 - 20.00 Introduzione al calcio di bambine e ragazze dai 6 ai 14 anni che sognano di giocare a pallone e mettere in campo le proprie abilità. Un’iniziativa per promuovere insieme l’attività femminile giovanile e favorire la relazione tra le ragazze, le famiglie e le società sportive del territorio. Sei una famiglia che vuole sfidare altre famiglie? VIENI AL FAMILY FOOTBALL FIGC Sabato 28 e Domenica 29 | Ore 9.00 - 20.00 Attività dedicate al coinvolgimento di tutti i componenti delle famiglie degli atleti e non. In programma tornei genitori-ragazzi, allenamenti e walking football per promuovere una cultura sportiva positiva. Il sabato prevista la presenza di QUARTA CATEGORIA: il primo torneo nazionale di calcio a 7 rivolto esclusivamente ad atleti con disabilità cognitivo-relazionale per un calcio integrato e inclusivo.
Non hai voglia di mettere calzettoni e pantaloncini? GIOCA INSIEME ALLA FEDERAZIONE ITALIANA CALCIO BALILLA! Sabato 28 e Domenica 29 | Ore 10.00 - 22.00 Gioco libero con gli esperti della FICB e torneo Giochi Senza Frontiere aperto a tutti. Nessuna quota di iscrizione
ENTRA IN SQUADRA | Per tutti i bambini che parteciperanno un pallone in regalo offerto dall’Istituto per il Credito Sportivo AREA GIOCO | Tornei di Subbuteo, il nuovo gioco di Carte 10 di Giochi Preziosi e animazione con foot-darts, calcio-biliardo in collaborazione con SportIT BOOKCATERING | Progetto di innovazione culturale che realizza bookshop temporanei: presente a Milano CalcioCity con una speciale selezione a tema calcio
CIRCUITO
FOODBALL Il Calcio è il nostro pane quotidiano: mangia nei ristoranti della Piazza e contribuisci a sostenere con parte del ricavato le attività dell’Associazione “I SEMPRE VIVI” in collaborazione con la Basilica di San Lorenzo Maggiore. Ecco i locali che aderiscono: •Tasca •Todos •Ralph •Farini •Wok •Fablab •Design Republic Presso la Farmacia San Lorenzo attività benefica con messa in vendita di un pallone da calcio regolamentare il cui incasso sarà interamente devoluto alla Fondazione GrandeAle ONLUS.
Hai voglia di divertirti e passare del tempo con i tuoi amici? GIOCA CON SPORTIT! Venerdì 27 e Sabato 28 | Ore 10.00 - 22.00 Domenica 29 | Ore 10.00 - 20.00 Calcio-biliardo, foot-darts e bubble soccer per giocare insieme, sfidarsi e divertirsi all’insegna del pallone in tutte le sue forme. E per tutti le nuove card Panini Calciatori Calciatori Adrenalyn XL 2019-20 e le caramelle Goleador! TORNEO MILANO CALCIOCITY 2019 Ore 19.00 – 22.00 | Campo Oratorio San Lorenzo - 28 settembre Torneo 4 VS 4 all’ombra della Basilica di San Lorenzo Maggiore con la partecipazione delle seguenti squadre: • Tasca 1 (Ass. Le Colonne del Ticinese) • Wok Team (Ass. Le Colonne del Ticinese) • A. S. Velasca (Non è un club di calcio, non è un’opera d’arte, è tutto questo insieme) • Bresso 4 (Sport, amicizia e solidarietà)
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Parrocchia di San Lorenzo Maggiore
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TORNEO CLAUDIO ABBADO Un torneo dedicato al Maestro Abbado, milanista e fondatore della squadra della Scala. Scendono dai palchi dei grandi teatri italiani ed entrano in campo musicisti e macchinisti, direttori d’orchestra e cantanti. 30 settembre | 17.00 – 21.00 | RGP Precotto PARTITE E PARTITURE – SFIDE TRA TEATRI Gruppo Calcio Teatro alla Scala Gruppo Calcio Teatro degli Arcimboldi Gruppo Calcio Teatro Lirico di Cagliari CRCS Teatro Regio Torino Full Monty Football Club Busseto In collaborazione con CSI
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PROGRAMMA STORIES: IL RA
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ANTEPRIMA MILANO CALCIOCITY W KEMIU WA UP Ore 8.30 | Palazzo Bovara WAKEMIUP | COLAZIONE DI IMPRESA Talk dedicato ai giovani imprenditori con KATIA SERRA, giocatrice e commentatrice DEMETRIO ALBERTINI, calciatore e imprenditore Modera ANDREA COLZANI, Presidente Giovani Imprenditori Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza In collaborazione con i Giovani Imprenditori di Confcommercio Milano Lodi Monza e Brianza GRUPPO GIOVANI IMPRENDITORI
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Ore 18.00 | Triennale Milano MILANO CALCIO CITY KICK OFF STORIES Lancio degli eventi Stories in Triennale con Pierluigi Pardo e ospiti Ore 18.30 |Oratorio RGP Precotto LE STELLE DI INTER E MILAN SI INCONTRANO IN ORATORIO Incontro con JAVIER ZANETTI, calciatore DANIELE MASSARO, calciatore FRANCESCO TOLDO, calciatore FRANCESCA ZANZI, calciatrice AC Milan In collaborazione con CSI Ore 19.00 | Triennale Milano TUTTE LE LINGUE DEL CALCIO Incontro con ALDO GRASSO, giornalista MALCOM PAGANI, giornalista Ore 21.00 | Triennale Milano TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE Incontro con MASSIMO MORATTI, Presidente FC Inter 1995-2014 GAD LERNER, giornalista
EXHIBIT 27-29 Settembre | Triennale Milano ESPOSIZIONE UEFA CHAMPIONS LEAGUE CUP E EUROPE LEAGUE CUP Milano è la città del calcio, la capitale del calcio italiano e soprattutto internazionale con le sue 10 Coppe dei Campioni vinte. E Milano non è solo la città che le ha vinte ma anche la città che attraverso i suoi artisti e artigiani e la ditta GDE BERTONI le ha disegnate e create. In occasione di Milano CalcioCity vengono esposte una Coppa dei Campioni, una Coppa della Europe League e i calchi con cui vengono realizzate. In collaborazione con GDE Bertoni 26-30 Settembre | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS MOSTRA FOTOGRAFICA UNEXPECTED HOOLIGANS Si può davvero mantenere classe e distinzione sugli spalti di uno stadio? Da giovedì 26 apre al pubblico la mostra fotografica Unexpected Hooligans, con ritratti d’autore scattati sulle tribune di tutto il mondo 27-28 Settembre | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS GAMING CORNER CON FEDERAZIONE ITALIANA E-SPORTS Gaming corner in cui gli ospiti di Soccer Circus possono sfidarsi con X-Box e PlayStation, in collaborazione con la Federazione Italiana E-Sports Per orari e info www.milanofashionlibrary.it A cura di:
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Ore 11.00 | San Lorenzo alle Colonne “IL CALCIO E LO SCOLAPASTA” e “IL CALCIO E IL MISTERO DELLA BICICLETTA” Incontro/lettura con MARCO CATTANEO, giornalista BILLY COSTACURTA, calciatore e commentatore In collaborazione con Salani Editore Ore 17.00 | Triennale Milano PASSIONE AZZURRA MILENA BERTOLINI, CT Nazionale Femminile PAOLO NICOLATO, CT Nazionale Maschile U21 Modera ALESSIA TARQUINIO, giornalista SKY In collaborazione con FIGC Intervengono REGINA BARESI, calciatrice CAROLINA MORACE, allenatrice Ore 17.30 | Triennale Milano DNA MILAN FILIPPO GALLI, calciatore CARLO PELLEGATTI, giornalista MICHELE MARI, scrittore MARCO MARSULLO, scrittore FRANCO ORDINE, giornalista Ore 18.00 | Triennale Milano IL SENSO DI ADANI E AMBROSINI PER IL CALCIO Incontro con MASSIMO AMBROSINI, calciatore e commentatore Sky Sport DANIELE ADANI, commentatore Sky Sport In collaborazione con SKY SPORT Ore 18.00 | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS FOOTBALLIZATION Presentazione del cortometraggio Footballization e visione di una breve anteprima A seguire PROIEZIONE DEL FILM FEBBRE A 90° A cura di Bel Vivere Media Ore 19.00 | Triennale Milano EVENTO CSI Presentazione e premiazione stagione calcio femminile in collaborazione con CSI Ore 19.00 | Triennale Milano ROSSI DI SERA Incontro con GIORGIA ROSSI, giornalista FRANCO PIANTANIDA, giornalista Ore 20.30 | Piccolo Teatro Grassi NERI MARCORÈ | “QUANDO LA VITA ERA PIENA DI GOAL” Spettacolo originale scritto da Fabio Stassi con Neri Marcorè Per informazioni, prevendita biglietti e prenotazioni: www.piccoloteatro.org. In collaborazione con PICCOLO TEATRO DI MILANO - TEATRO D’EUROPA Ore 21.00 | Triennale Milano IL MIO CALCIO LIBERO Incontro con PIERLUIGI PARDO, giornalista ALESSANDRO BONAN, giornalista Sky Sport PIERO VIETTI, giornalista
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Sala Oratorio Basilica San Lorenzo Maggiore WORKSHOP CANON ACADEMY Ore 10.00 – 13.00 | Canon Academy Junior 8/14 anni Ore 15.00 – 19.00 | Canon Academy Senior dai 18 anni in su Workshop di fotografia sportiva che prevede due sessioni, una dedicata ai ragazzi e una dedicata ai fotografi amatoriali: entrambe tenute da un docente Canon, Digital Imaging Partner di Milano CalcioCity 2019. In collaborazione con CANON ACADEMY. Prenotazione obbligatoria www.milanocalciocity.it – www.eventbrite.it Ore 16.00 | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS Talk sul calcio nel continente africano con i ragazzi di Calcio Africano, pagina specializzata che racconta il continente nero attraverso il pallone. A cura di Bel Vivere Media Ore 16.30 | Triennale Milano | SALA Y PANE, CALCIO E FANTASIA Incontro con DAVIDE OLDANI, chef ANDREA APREA, chef MARCO AMBROSINO, chef Modera DARIO DONATO, giornalista Ore 17.00 | Triennale Milano STORIE DI CALCIO “LA PARTITA. IL ROMANZO ITALIA-BRASILE” Incontro con PIERO TRELLINI, scrittore STORIE DI CALCIO “GAETANO SCIREA: IL GENTILUOMO” Incontro con DARWIN PASTORIN, scrittore e giornalista XAVIER JACOBELLI, giornalista STORIE DI CALCIO: “È FINITO IL NOSTRO CARNEVALE” Lettura di e con FABIO STASSI, scrittore Ore 17.30 | Triennale Milano GLI AUTOGOL: THE MAKING OF Incontro con il trio comico star di YouTube e social Ore 18.00 | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS Proiezione del film “Sognando Beckham” Talk sul calcio internazionale insieme ai ragazzi di Calcio8Cina e Calcio sovietico. A cura di Bel Vivere Media Ore 18.30 | Triennale Milano CRAZY FOR FOOTBALL Documentario italiano del 2016, vincitore di un David di Donatello, che racconta la storia di un gruppo di pazienti psichiatrici provenienti da tutta Italia, uniti dal sogno di partecipare ai mondiali per pazienti psichiatrici a Osaka, in Giappone... Con VOLFANGO DE BIASI, regista Ore 20.00 | Triennale Milano DNA INTER Incontro con RICCARDO FERRI, calciatore FABRIZIO BIASIN, giornalista EVARISTO BECCALOSSI, calciatore GIACOMO “CICCIO” VALENTI, conduttore MATTEO CRUCCU, giornalista Ore 21.00 | Triennale Milano DNA JUVENTUS Incontro con MASSIMO ZAMPINI, opinionista FEDERICO SARICA, giornalista LUCA BEATRICE, critico d’arte MONICA SOMMA, conduttrice
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Ore 15.00 | Triennale Milano DERBY, CAPITALE UMANO Incontro con ROBERTO BURIONI, medico e divulgatore scientifico SIMONE SPETIA, giornalista Ore 16.00 | Triennale Milano RADIO KILLED THE VIDEO STAR Incontro con FRANCESCO REPICE, radiocronista CARLO GENTA, giornalista GERMANO LANZONI, Il Milanese Imbruttito Ore 17.00 | Triennale Milano PPP, IL CALCIO – SPECIALE PIERPAOLO PASOLINI PRIMA NAZIONALE “CENTOVENTI CONTRO NOVECENTO” Prima proiezione assoluta del documentario sulla storica partita che giocarono Pasolini e Bertolucci Con ALESSANDRO SCILLITANI, regista ALESSANDRO DI NUZZO, autore LIBRO “IL CALCIO SECONDO PASOLINI” Incontro con VALERIO CURCIO, autore In collaborazione con Centro Studi Pasolini e SAS Casarsa Ore 18.00 | Triennale Milano FUORI (DI) CLASSE Incontro con FABIO CAPELLO, allenatore e volto Sky Sport ANTONIO CASSANO, calciatore Ore 18.00 | Milano Fashion Library SOCCER CIRCUS PROIEZIONE DEL FILM MALEDETTO UNITED A cura di Bel Vivere Media Ore 18.30 | Triennale Milano MARE FERMO Presentazione di un estratto del documentario di Guy Chiappaventi. Con Paolo Maggioni e due protagonisti del film Ore 19.00 | Triennale Milano NUOVO CINEMA MARADONA Proiezione del nuovo film “Diego Armando” Maradona di Asif Kapadia E incontro con CIRO FERRARA, calciatore e opinionista MASSIMO MAURO, calciatore e opinionista MARCO BELLINAZZO, giornalista ANNA MARIA DI LUCA, giornalista Sky
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ANNI SETTIMANA EUROPEA DELLO SPORT
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CAROLINA, LA PRIMA DI TUTTE Prima icona del calcio femminile, Carolina Morace ha rivestito tutti i ruoli, dal campo al microfono. Ora guarda con orgoglio la crescita di un movimento che ha ancora molti margini.
Carolina Morace, una vita spesa per il calcio giocato e raccontato. Calciatrice dagli anni Settanta al 1998 vestendo, tra le altre, le maglie di Modena, Lazio e Milan ma anche della Nazionale. Poi allenatrice, dalla Lazio al Milan, fino alla panchina più ambita, quella delle Azzurre e, all’estero, quella del Canada e di Trinidad e Tobago. Prima donna nella Hall of Fame del calcio italiano e, dopo essere stata negli anni commentatrice in diverse trasmissioni sportive, nel 2019 ha commentato per Sky Sport i Mondiali francesi di calcio femminile. Morace, come è cambiato, se è cambiato, il calcio femminile rispetto a quando giocava? «Rispetto a quando giocavo è molto cambiato, ma anche rispetto a quando ero io ad allenare la Nazionale. Una volta le giocatrici si allenavano ogni tre giorni, adesso tutta la settimana. E poi le nuove generazioni hanno guadagnato in centimetri, sono più alte. Sicuramente un fattore molto positivo». È cambiato anche l’appeal? «È sotto gli occhi di tutti. Da quando c’è Sky c’è molto più seguito. C’è più gente che segue le partite di calcio femminile».
Tutti gli eventi sono a ingresso libero e gratuito fino a esaurimento posti (a eccezione dello spettacolo Quando la vita era piena di goal). Il programma può subire variazioni indipendenti dalla volontà dell’organizzazione. Per la versione aggiornata in tempo reale consultare il sito www.milanocalciocity.it
Ed è rammaricata o orgogliosa di questo aspetto? «Assolutamente orgogliosa! È un bene che sia così. Adesso spetta alla Federazione lavorare su un progetto che faccio migliorare il livello». È stata capocannoniere dodici volte, da giocatrice ha conquistato dodici scudetti, da allenatrice ha vinto anche la Women’s Gold Cup. Che cosa consiglia alle giovani generazioni? «Non consiglio nulla alle giovani calciatrici anche se è bello che tante ragazzine si avvicinino al mondo del calcio. Ma l’importante è che arrivate ai 18 anni non smettano. È qui che deve intervenire la Federazione, è qui che deve creare un sistema per alzare il livello. Sono fiduciosa». Insieme con Milena Bertolini, attuale c.t. della Nazionale femminile, siete le uniche in Italia con il patentino per poter allenare squadre maschili. Che difficoltà ha trovato in questo ambito? «In realtà c’è anche Betty Bavagnoli, tecnico della Roma femminile... Le difficoltà? Basti pensare che in ruoli apicali attualmente non c’è gente che si è occupata di calcio femminile». Con la Bavagnoli in effetti avete allenato la Viterbese di Gaucci, quando Lucianone voleva tesserare nel Perugia due giocatrici donna, facendo leva sul fatto che nessuna norma esplicitamente lo negasse. Lucianone precorse i tempi o era una provocazione? «Come far giocare Djokovic contro Serena Williams. Era solo una sciocchezza».
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UNO STILE CHE ATTRAVERSA LE EPOCHE La Domenica Sportiva è il programma più longevo della televisione italiana, eppure non accenna ad abdicare né alla concorrenza né ai nuovi mezzi di comunicazione: «la DS ha dovuto adeguarsi ai tempi, ma il marchio rimane saldo. Merito dello stile Rai», conferma Marco Civoli.
La prima puntata fu nel 1953, da allora si apre con la conta aggiornata del numero di settimane in cui uno dei programmi più amati della storia della televisione italiana ci ha fatto compagnia. Oggi la Domenica Sportiva è nell’orbita delle 3300 puntate, probabilmente un record non solo italiano. Nata su Rai 1, dove ha risieduto per quarant’anni, ha vissuto un brevissimo periodo di crisi su Rai 3 a metà degli anni Novanta, poi la nuova giovinezza su Rai 2. Alla sua conduzione si sono alternati veri maestri di giornalismo: Enzo Tortora, Alfredo Pigna, Tito Stagno, Sandro Ciotti sono solo alcuni esempi. Come curatore e conduttore, Marco Civoli è da sempre vicino alla «DS». Civoli, nella pratica, da Tito Stagno a oggi quanto è cambiato il modo di raccontare il calcio? «È chiaro che è cambiato molto, è cambiato tutto. Se Porta a Porta è considerata la terza camera del nostro ordinamento, venti o trent’anni fa la Domenica Sportiva era la prima camera per la gestione e la visione dello sport. Prima se una squadra vinceva lo scudetto, faceva a gara per essere ospite alla DS la puntata successiva. Da un po’ di anni non è più così per tanti motivi e anche questo è segno di trasformazione. Ora quindi è diverso, ma il marchio c’è sempre, il racconto c’è sempre. E il marchio resta una garanzia».
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Tuttavia, la DS è una trasmissione storica che ha sempre guardato al futuro. È anche questo il segreto del successo, non è così? «Abbiamo sempre cercato di guardare certamente al futuro ma senza dimenticare il passato e quello che la trasmissione ha significato nel corso di questi anni. È chiaro che il mondo è profondamente cambiato, anche la DS ha dovuto adeguarsi, ma il marchio rimane saldo. È sicuramente l’appuntamento più anziano della nostra tv e si è sempre cercato di guardare oltre, di andare a scoprire quali sono gli attuali gusti del pubblico, magari cercando di catturare anche i più giovani. L’idea è ancora quella di andare a captare anche un pubblico diverso dallo zoccolo duro che negli anni si è identificato nella trasmissione, anche attraverso gli strumenti che oggi vengono utilizzati molto di più». Anche con un’interazione sicuramente diversa. «Beh, direi di sì, è inevitabile. Non ci si può sottrarre a quelli che oggi sono gli strumenti di comunicazione più usati, che ormai sono entrati a far parte della Domenica Sportiva». Rispetto a tante altre trasmissioni più urlate, la DS ha mantenuto la sua firma, il suo stile. Come lo definirebbe? «Per me deve essere sempre uno stile Rai: sereno, equilibrato,
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critico quando necessario ma composto. Abbiamo degli ex campioni del mondo e giocatori di spessore, da Tardelli a Pecci a Di Gennaro, che riflettono uno stile del calcio e uno stile di vita. E possono cambiare i conduttori o i curatori, ma lo stile e il marchio rimangono sempre quelli». Con l’ultima domanda cambiamo argomento. Nazionale maschile e qualificazioni agli Europei: il cielo tornerà mai più azzurro sopra Berlino? «Io me lo auguro. Sono passati un po’ di anni, ma è chiaro che va trovato il giusto mix, il ciclo buono, buoni giocatori. Fuoriclasse non ne abbiamo in questo momento, il calcio esprime questo attualmente: tanti buoni giocatori ma nessun Totti o Del Piero. C’è però la voglia di creare un gruppo molto coeso, senza dimenticare che la maglia azzurra è la maglia più importante che un giocatore può indossare nella sua carriera. Poi bisogna vedere: al momento la qualificazione agli Europei sembra a due passi, quindi il primo appuntamento vero sono gli Europei del 2020, però c’è il dato di fatto che dopo il periodo buio, contraddistinto dalla mancata qualificazione ai Mondiali, credo che il c.t. Mancini abbia iniziato un lavoro molto delicato, molto lungo e speriamo che inizi a dare i propri frutti».
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STADIO, MA SOPRATTUTTO STUDIO Preparazione e competenza sono l’unica ricetta di Paolo Condò per raccontare lo sport. Nel suo ultimo libro racconta cinquanta icone che hanno cambiato il calcio.
PREMIO BEST Sette Mondiali e cinque Europei, oltre a otto Giro d’Italia, dal 2010 è il giornalista italiano designato per la votazione del Pallone d’Oro: ed è solo parte del palmares della straordinaria carriera giornalistica di Paolo Condò, firma della Gazzetta dello Sport per 31 anni e dal 2015 uno dei volti più familiari e apprezzati della squadra di Sky.
Illustrazione di MASSIMILIANO AURELIO
Condò, il suo lavoro di giornalista e di scrittore l’ha portata a raccontare il calcio attraverso lo scritto e poi il video. È cambiato in questi anni il modo di raccontare il calcio? «Moltissimo, perché prima si raccontava anche a chi non aveva visto la partita, era una narrazione molto più comoda. Adesso, dall’avvento delle pay tv, invece, tu parli a chi ha seguito e ascoltato tutto, parli a milioni di persone che hanno visto partita, interviste e si sono già fatte un’idea. Al di là della loro voglia di sentirsi dire ciò che per primi pensano, e senza contare l’aspetto tifo, adesso bisogna essere ancora più preparati e competenti. Io per primo passo almeno tre ore al giorno a leggere, fare ricerche, studiare, perché non puoi farti trovare impreparato. L’errore non è concepibile». È uscito il suo ultimo libro, La storia del calcio in 50 ritratti, edito da Centauria, in cui tratteggia i ritratti appunto di figure mitiche del calcio. Chi sono questi cinquanta e perché ha scelto proprio loro? «È giusto dire genericamente figure perché ho scelto calciatori, ma anche allenatori o Rimet, l’inventore della Coppa del Mondo, e pure Pierluigi Collina, perché è giusto dare risalto anche al lavoro che in campo fa l’arbitro. Ma al di là di tutto, e lasciando fuori magari qualcuno dei miei preferiti, ho scelto chi in qualche modo, secondo me, ha innovato il mondo del calcio. Come Weah, il primo calciatore che è diventato anche presidente di uno stato, la Liberia. O Bosman, magari mediocre in campo, ma che ha fatto migliorare le condizioni dei giocatori (grazie alla sentenza che porta il suo nome, ndr). Fino a Beckham, che è diventato un’icona pop, al di là della sua bravura: ottimo giocatore, ma non è per questo che è diventato come una rockstar del pallone. Basti pensare che si pensa a lui per il ruolo del prossimo James Bond al cinema».
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Giovanni Galeone Massimiliano Allegri Marco Giampaolo con Paolo Condò
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A proposito di figure e icone, da qualche tempo è aumentato l’appeal del calcio femminile, come potrà costruirsi un’epica? Ci sono già delle icone del calcio femminile? «Per costruire un’epica serve gente che vada a vedere le partite. E già mi sembra che questo inizi ad accadere. Poi ci vogliono i risultati: le nostre squadre sono state un po’ sfortunate, per esempio nei sorteggi della Champions hanno beccato subito formazioni molto forti. Anche perché seguire una partita di calcio femminile è interessante per apprezzarne la tecnica di gioco: magari ci sarà maggiore lentezza, come poteva essere nel tennis giocato con le racchette di legno rispetto a quello con le racchette avveniristiche di adesso che ne fanno uno sport più fisico e “violento”, ma la tecnica si apprezza decisamente meglio. Icone? Abbiamo sicuramente il capitano USA, Megan Rapinoe, che ha conquistato le pagine dei giornali anche per le sue posizioni politiche. In Italia, sicuramente Carolina Morace, tra i simboli del nostro calcio». Dal suo punto di vista sicuramente privilegiato, che cosa serve adesso alla Nazionale maschile per tornare vincente? «Serve far giocare i nostri giovani di talento. Che sono tanti. E ultimamente magari lasciati a casa perché le ragioni dei club non sono le stesse della nostra Nazionale. Ma il c.t. Mancini ha fatto capire subito di voler cambiare passo». In una passata intervista, ha detto che davanti a un campionato prevedibile, con la Juve in testa e Roma e Napoli altalenanti, la vera incognita è Milano. È ancora così? «Beh, sì. L’Inter ha iniziato un percorso e lo ha portato avanti, il Milan nonostante adesso abbia una proprietà più solida non può ancora spendere quanto vorrebbe: è dentro a un tunnel e ne deve uscire».
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QUANDO LA VITA ERA PIENA DI GOAL Proponiamo un breve estratto dello spettacolo originale scritto da Fabio Stassi con Neri Marcorè che, accompagnato al bandoneón da Gianni Iorio, raccontala storia del «Mundial dimenticato», giocato nel 1942 in Patagonia da operai italiani, indios e ingegneri tedeschi.
Cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol. Patagonia, 5-19 dicembre 1942.
A Osvaldo Soriano
Di tutti i calciatori, quelle dei portieri sono le storie più belle. Glielo dicevo sempre, a Osvaldo, nella mia casa di Puerto Williams. Pulivo il banco della cucina, toglievo le bottiglie che avevamo svuotato insieme e gli ripetevo: quelle dei portieri, le più belle. Le altre sono tutte già sentite. Le spacconate dei centravanti, le trame geometriche dei registi, e poi le storie dei terzini e dei mediani che sono come storie di operai, di pendolari: storie di fatiche, di calcioni e, qua e là, di qualche colpo fortunato. Vere, commoventi, ma un po’ tristi, anche se mai quanto quelle degli arbitri o dei guardalinee. Soltanto il libero aveva storie altrettanto fantastiche, perché la sua era tutta una vita di fughe e di ritorni. Ma quel ruolo è stato abolito, non esiste più. E poi, le storie dei portieri sono un’altra cosa. Siediti che te ne racconto una. Dicevo così, a Osvaldo. E lui si sedeva, prendeva un’altra bottiglia, si accendeva una sigaretta, tirava fuori un taccuino. A quell’ora la mia casa era
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deserta e a me veniva sempre voglia di parlare. La mia casa, ah la mia casa: era bassa, di colore giallo, con una lunga terrazza sulle acque del canale, che a volte la inondavano, di notte. L’avevo comprata per istinto. Perché un posto ben nascosto bisognerebbe sempre averlo, soprattutto se si hanno trascorsi come i miei. Quel posto era coerente con tutta la mia vita, anche se non proprio a portata di mano. Metteva in ordine i pensieri. Le cose accadute. E quelle che dovevano ancora accadere. Oltre la regione dell’Ultima Esperanza e a qualche onda da Capo Horn. Vicino alla contrada degli uomini dai grandi piedi, i Patagoni, come li chiamò Magellano. In prossimità di un ghiacciaio chiamato Garibaldi. Puerto Williams. Il villaggio più a sud del pianeta. Triste, solitario y final. Era lì, nel culo del mondo, che avevo scelto di ritirarmi dal consorzio umano. Avevo alle spalle già diversi mondiali perduti e vinti, lunghe notti di tango e di milonga a Montevideo, la guerra
civile spagnola, Marsiglia, Roma, Bahia… Sapevo cos’è la dittatura, e anche la rivoluzione. Ma niente mi era rimasto più impresso di uno zingaro che suonava la chitarra senza due dita e di un ragazzino che giocava a pallone con una gamba più corta di cinque centimetri. La metrica della miseria, e del desiderio. Osvaldo mi veniva a trovare appena poteva, per sentire i miei racconti. Com’ero finito laggiù, solo per inseguire una coppa. Una stupida, piccola, meravigliosa coppa d’oro, che splendeva più della Patagonia in certe giornate. Più dei ghiacci eterni del Polo Sur. Osvaldo voleva diventare scrittore, e giornalista, e pensava che io avrei potuto aiutarlo a imparare il mestiere, visto che avevo lavorato in tante redazioni, e fondato anche un foglio ribelle, La Esperanza Perdida, che si occupava di calcio, politica e letteratura. Ma questo mestiere non si può insegnare. Forse voleva soltanto conoscermi, e rubarmi qualche storia. Qualcuno gli aveva detto che a Puerto Williams c’era un vecchio che per
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cinquant’anni aveva tentato di rubare la Rimet. E lui aveva un debole per i narratori della sventura e della disperazione. E un fiuto assoluto per i perdenti. Pazzo. È sempre stato pazzo, anche da giovane. E rotondo. Io gli dicevo comincia a metterti a dieta, e lui mi mandava a quel paese. Non era propriamente un tipo che portava rispetto ai vecchi, no. E io allora gli urlavo Gordo, se non impari a dimagrire, come pensi che potrai scrivere! Ma lui ribatteva che pure i libri sono larghi. E che anche dio doveva essere un grassone di capocomico, visto che teatrino di marionette si era inventato. Ma alla fine i magrolini scarni, nervosi e ossuti come me o come Stan Laurel o quell’altro, Buster Keaton, gli piacevano. Li amava. Nessuno più di loro, ripeteva pomposamente, aveva attaccato l’inalienabile principio della proprietà privata, in America. Ah, quanti dolci di leuche, in quelle lunghe giornate passate insieme. Sai come mi guadagno da vivere? mi chiedeva,
quando era in vena. Vuoi davvero sapere come mi guadagno da vivere? Contando le anatre nel lago della mia città. Sento ancora la sua risata. E non c’è nient’altro che ti piacerebbe fare di più? facevo io. Sì, rispondeva, mi piacerebbe scrivere racconti strampalati e malinconici, tutto qui, sono un uomo semplice. Era questo, Osvaldo. Un gatto solitario, come me. Da ragazzo, era stato anche un centravanti mancino di grande potenza. Aveva giocato nel Confluencia, la squadra del villaggio di Cipolletti – sono davvero curiosi i nomi dei paesi della Patagonia. Ma una volta, con un tiro, aveva quasi ammazzato un cane, e il senso di colpa e un brutto infortunio li avevano interrotto la carriera. Non so, un giorno la porta mi si è ristretta, mi disse una sera. Così era finito a scrivere stupidate in un giornale.
io. E intendevo nessun uomo del sud. E allora alzavamo i bicchieri, per brindarci sopra, a tutti i nostri fallimenti. Eravamo d’accordo su molte cose, io e Osvaldo. Che una società senza utopie è una società morta, per esempio. E che è meglio morire che perdere la vita. Dai, raccontamene un’altra, vecchio, mi provocava. Raccontami di Consuelo. E di quando, a Parigi, andavi a vedere la boxe con il tuo amico Ernest. E subito i ricordi mi ronzavano nelle orecchie come una marea.
QUANDO LA VITA ERA PIENA DI GOAL 27 SETTEMBRE | 20.30 > Piccolo Teatro Grassi < Via Rovello, 2 - Milano
Nessun argentino è un buon argentino se non ha un buon fallimento da raccontare, lo consolavo
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LA REGINA DI COPPE Che cosa unisce la FIFA World Cup, la UEFA Champions League, la Coppa UEFA e la Supercoppa Europea? I trofei più ambiti del calcio, hanno tutti un cuore milanese: quello della Gde Bertoni, l’azienda che li ha creati.
Nel 1971 la FIFA si trovò nelle condizioni di indire un concorso internazionale per la realizzazione della FIFA World Cup, visto che la Coppa Jules Rimet, che andava ai campioni di mondo, se l’era aggiudicata definitivamente il Brasile, vincitore per la terza volta, dopo la finale con l’Italia del 21 giugno 1970.
L’evento contribuì non poco alla notorietà del marchio Bertoni, che in seguito realizzò la Coppa UEFA e i trofei della Supercoppa Europea, dei Giochi del Mediterraneo di Algeri e dei Campionati Europei di Atletica Leggera a Roma del 1974. La scalata è cominciata. Nel 1976 l’azienda ottiene la qualifica di fornitore ufficiale per le Olimpiadi di Mosca 1980.
Al concorso partecipò anche un’azienda le cui origini di bottega artigianale risalivano all’inizio del Novecento, la Bertoni di Milano, che già nel 1960 si era aggiudicata la fornitura della medaglia commemorativa ufficiale dei Giochi Olimpici di Roma.
Qualche anno più tardi completa il cerchio dei trofei più importanti del mondo, disegnando l’agognata coppe con le orecchie, la UEFA Champions League. Oggi la GDE Bertoni è controllata da Valentina Losa, nipote di Eugenio (il capostipite) e figlia di Giorgio: «ancora respiriamo la passione che vi hanno riversato mio nonno e mio padre. Loro hanno sviluppato l’azienda come se fosse la loro bambina. Ora tocca a me farla crescere, insieme ai miei collaboratori. Essa rappresenta il mio passato, il mio presente e il mio futuro».
ESPOSIZIONE UEFA CHAMPIONS LEAGUE CUP E EUROPE LEAGUE CUP 27 - 29 SETTEMBRE | DALLE 10 ALLE 20 > Triennale Milano < Viale Alemagna 6 - Milano
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Fotografie di GETTY IMAGES
Alla FIFA pervennero 53 proposte e scelse un trofeo che raffigurava due calciatori stilizzati che, esultanti, sorreggevano il mondo. In quella scultura, la più alta istituzione calcistica mondiale individuò gli universali valori di gioia che sa regalare il calcio. Quel trofeo era stato disegnato da Silvio Gazzaniga, milanesissimo fin dal cognome, che da quel momento diventò immortale, perché una volta realizzata in oro, esemplare unico, la Coppa del Mondo di calcio non è mai più cambiata.
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REPORTAGE SUL DIO Dalle partite con i ragazzi di vita della borgata romana, all’epica sfida tra il suo cast e quello di Bertolucci durante le riprese di Salò e di Novecento pochi mesi prima della morte. Valerio Curcio in Reportage sul Dio fa un percorso di letteratura e testimonianze su Pier Paolo Pasolini per condividere una patologia assai diffusa: «il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita».
Negli scritti di Pasolini non c’è solo il calcio incontaminato giocato dai ragazzi di vita. Da profondo analista delle strutture sociologiche dell’Italia del dopoguerra sapeva e ammetteva senza reticenza che il pallone era anche lo specchio dei difetti del paese del boom economico, di quel popolo che si apriva ai consumi e da cui Pasolini si sentiva tradito. Reportage sul Dio è il titolo di un suo racconto uscito su Il giorno del 14 luglio 1963 in cui finge di commissionare a un giornalista senza pretese la storia di un giocatore di calcio che muove i primi passi nel successo. La parabola del campione viene descritta senza alcuna commiserazione dal narratore e senza alcuna commiserazione è tenuto a raccontarla il giornalista incaricato: «Un’idea simile richiede prima di tutto disonestà, poi conformismo presentato, come sempre, sotto forma di scandalismo moralistico, infine crudeltà. Oggetto di questa crudeltà, sarà appunto, Il povero Dio». Il plot viene declinato nei minimi dettagli, non senza una certa ostentazione delle competenze calcistiche dell’autore. Dall’arrivo di Juanito, calciatore-Dio proveniente da un paese del terzo mondo, alla sua rapida ascesa nel mondo dell’alta società, fino
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alla dissoluzione che subirà nella grande metropoli. Pasolini si rivolge sovente al giornalista nel corso del racconto: «Ecco il Dio – seguito da te, come si segue un “personaggio straordinario”, “buffo”, un tipo “incredibile”, ma col sommo rispetto che devi nutrire per chi ha successo – ecco il Dio alzare la pietra, scoprire il grigiore del verminaio, ed entrarvi. […] passerà su molti di quei corpicini, come in un cimitero di plastica, di neon, nella distrazione delle mille causali possibilità della vita notturna di Milano o di Roma: un’immensa sala d’aspetto, con odore di latrine, lacerante, remoto». Ma non sono gli aspetti da cronaca rosa a interessare Pasolini: «Io non punterei tanto né sul lato erotico della vita della celebrità, né sui rapporti col piccolo tifo, coi milioni di giocatori del Totocalcio. Quello che mi interesserebbe mettere a fuoco, pedinando il nostro Juanito, sono gli squarci dell’Italia industriale. […] Juanito, mettiamo, è costato 50 o 100 milioni. Chi li ha sborsati? La Società, l’Inter, il Milan, la Roma? Che rapporto c’è tra la Società e il suo presidente? Gli enormi successi delle domeniche di passione da che mani sono ammucchiati?». E in un’affermazione successiva
viene rimarcata tutta la distanza dal mondo del calcio che già allora iniziava a intraprendere la china del business: «Io, su questo, sono rimasto all’idealismo liceale, quando giocare a pallone era la cosa più bella del mondo». È proprio questo calcio «reale», poco trasparente e già molto adulterato, gestito da figure e lobby affaristiche quanto mai torbide, che Pasolini pone al centro del suo racconto con un preciso obiettivo: descrivere le contraddizioni dell’Italia di allora attraverso il crudo racconto dell’ascesa sociale di un calciatore come tanti: «Guarda un po’ cosa può succedere seguendo la piccola storia di una fulgente cometa, che presto se ne scomparirà di nuovo nel continente della sua infanzia! Una spaccatura nel connettivo del neocapitalismo italiano, e uno sguardo sacrilego alle sue superfici interne». E la conclusione del racconto ribadisce questo intento: «Io finirei qui. Non giocherei sulla caducità della gloria, lascerei Juanito sulla vetta. L’amore della Dea, l’amicizia del figlio del Presidente. Nell’illusione che tutto ciò gli spetti, che sia duraturo. Nel pieno sole della felicità sportiva, dopo una vittoria dovuta a lui: con tutta l’Italia, tifosa, neocapitalistica ed erotica, ai suoi piedi, in una domenica d’inverno».
I N S E RTO S P EC I A L E
IL CALCIO SECONDO PASOLINI 29 SETTEMBRE | 17.00 > Triennale Milano < Viale Alemagna 6 - Milano
Fotografie di UMBERTO PIZZI
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LA RICETTA DI MILANO CONTRO LA POVERTÀ INFANTILE Ricetta QuBì è il programma triennale promosso da Fondazione Cariplo che ha l’obiettivo di rafforzare la capacità di contrasto della povertà minorile a Milano, promuovendo la collaborazione tra istituzioni pubbliche e terzo settore. Milano CalcioCity affianca la Fondazione nell’individuazione di glorie e leggende del calcio che vogliano diventare Ambassador in ognuno dei 25 quartieri milanesi coinvolti. Nello specifico, il progetto verrà illustrato da Valeria Ciardiello, giornalista e consulente per la comunicazione per Fondazione Cariplo, durante l’incontro «Il calcio è responsabile: Footuro», nell’ambito del Football Social Club. Ciardiello, il calcio è un modo di stare insieme. Può essere un facilitatore per coinvolgere persone in maniera indiretta? «Assolutamente. Il calcio è da sempre il modo più semplice per stare insieme, piccoli e grandi. È un gioco dove non serve altro che una palla e uno spazio in cui farla girare. Se rifletto sulla mia esperienza professionale, negli anni in cui ho lavorato per Juventus e per RaiSport ho conosciuto e intercettato un numero impressionante di persone, le più svariate, ed era facilissimo raggiungerle usando come passe-partout il calcio. Non serve spiegarlo, vive di un linguaggio universale che con estrema facilità mette in connessione tutti. Uscendo dagli schemi più tradizionali e consolidati, mi domando spesso se possa essere utilizzato anche come motore di integrazione
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e di pace. Non escludo che possa funzionare meglio di complessi sistemi legislativi discussi e difficilmente applicabili». Il campo da calcio sembra essere un piazza in cui le differenze sociali ed economiche sembrano diminuire. Nel tessuto delle città può diventare un modo per migliorare la coesione e la crescita delle comunità. Esiste il grande stadio di San Siro, ma anche la rete dei campetti che si innervano nella città. Può essere questa una rete intorno a cui costruire socialità e innovazione sociale? «Certo. Per costruire socialità e innovazione sociale serve conoscersi, parlarsi, dialogare, confrontarsi, abbattere barriere in modo diretto e immediato. Non credo ci sia ricetta migliore del gioco del calcio. San Siro è l’espressione massima, ma per arrivarci bisogna necessariamente partire dai campetti, dalla strada, è da lì che sono arrivati (e la storia si ripete e si conferma) i più grandi campioni di calcio di tutti i tempi. Una manifestazione come Milano CalcioCity è molto intelligente. Propone un modo di intendere il sociale attraverso lo sport, il calcio in particolare, creando in tre giorni un luogo che unisce pubblico e privato, accorciando le distanze tra chi di calcio vive professionalmente e chi di calcio vive emotivamente. Ben vengano idee capaci di radicare nel territorio ambizioni, propositi, nuove volontà di crescita usando strumenti semplici e alla portata di tutti. In questo modo nessuno rimane escluso».
I N S E RTO S P EC I A L E
Il calcio femminile ha avuto un grosso successo con questi ultimi Mondiali di Francia. Può diventare uno strumento di emancipazione sociale per le donne? Può aiutare i giovani e le giovani a seguire percorsi nuovi, di emancipazione anche rispetto alle proprie comunità di appartenenza? «Sì, lo penso davvero. Come sempre per emanciparsi e abbattere reticenze consolidate serve qualcosa che muova le masse. Il calcio ha questo magico potere. Quando l’Italia vinse i Mondiali del 2006 in Germania ci siamo sentiti tutti più patriottici e orgogliosi del nostro Paese come forse mai ci siamo sentiti. Il mondo politico vacilla e fatichiamo a riconoscerci in presunti leader che non ci trasferiscono quel desiderio di speranza e di successo legato alla felicità di stare bene che invece il calcio ha nel suo DNA. Il calcio femminile è una esplosione di passione, di voglia di arrivare, di crederci, di libertà di essere ciò che desideriamo essere, senza giudizio. Da mamma di una bimba, credo che sarei felice di sapere che lei un giorno potrà giocare a calcio (se vorrà e se le piacerà), senza per questo ghettizzare la sua scelta in quanto “da maschi”. Andiamo oltre e godiamo la purezza che ogni attività sportiva porta con sé, calcio femminile compreso». QuBì è un progetto che lotta e combatte la povertà alimentare a Milano. Come si vince questa partita? «La partita si vince insieme, facendo rete e smettendo di isolarsi
o di sentirsi isolati. Ci sono moltissime persone sul territorio che si dedicano al proprio quartiere, alle persone che lo vivono, che mettono il proprio tempo a disposizione per chi è più fragile o meno fortunato. La novità che porta con sé Programma QuBì è quella di abbracciare tutti gli attori coinvolti nella lotta alla povertà minorile, creando nuove linee di azione condivise, comprendendo che la povertà non è solo alimentare ma si declina in molti altri aspetti estremamente importanti per la crescita di un bambino o una bambina, le cure mediche, l’istruzione, le amicizie, l’educazione, lo sport. Programma QuBì agisce in 25 quartieri di Milano attraverso 23 ricette elaborate dai quartieri stessi e tra gli ingredienti principali per contrastare la povertà c’è anche lo sport, c’è anche il calcio, considerato anche tra gli addetti ai lavori, “nuovo strumento di inclusione sociale”».
IL CALCIO È RESPONSABILE: FOOTURO 30 SETTEMBRE | 20.30 > BASE < Via Bergognone, 34 - Milano
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FUORI - GIOCO La Geometria della Felicità è la scienza per calcolare le dimensioni del campo da pallone. Come la Grammatica della Fantasia regola la nostra immaginazione. Lo spazio in cui si gioca a pallone è uno spazio immaginario i cui limiti e le cui dimensioni cambiano di volta in volta. Dimensioni variabili a seconda del fatto che si giochi in camera tra letto e armadio, che si giochi per strada tra auto e buche o in un parco in mezzo ad alberi o addirittura a San Siro, tempio del calcio. Dimensioni variabili a seconda della estensione della propria immaginazione e del proprio sogno. Chi nella sua vita di calciatore non è stato Baggio o non ha giocato per il Barcellona come compagno di Crujiff o di Messi? Poi siamo cresciuti. Uno è diventato Messi per davvero, ma qualcun altro, molti, vivono ancora del sogno della loro vita di campioni immaginari. E il loro campo da calcio si è trasformato in un qualche altro progetto oppure è svanito nascosto dalle mura della maturità e del lavoro. Il campo da calcio è ovunque ci sia una palla. Non ha limiti se non la nostra immaginazione. Le porte sono due giacche messe a terra, la linea laterale si allunga a dismisura a seconda del nostro fiato, le buche sono solo un avversario in più. “Macchina!” è l’urlo di pericolo maggiormente sentito durante la partita. Pericolo per i giocatori, ma soprattutto per il pallone. La durata della partita è quella del sole e del suo tramonto. Le squadre e le divise dei compagni e degli avversari sono tutte uguali. Cioè sono tutte diverse. Sembrano le divise della squadra Arlecchino. Il campo da calcio immaginario è spesso un universo che contiene storie. E’ luogo di incontro, spazio aperto
per le persone, uomini e donne, come lo è una piazza. Per molti è la stazione di un viaggio più lungo, come se fosse un pezzo di strada. Riportare il pallone in strada non è solo riscoprire l’uso di spazi urbani. Non è solo il ritorno ad un calcio che mai come oggi ha necessità di riconoscere il grado zero e di liberarsi da tutte le sovrastrutture che lo hanno reso solo business. È anche il riscoprire il proprio diritto ad essere bambino, il piacere di avere uno stile di vita sostenibile e felice. Pensare di integrare architettura, verde, vita sociale, sostenibilità, bellezza e funzionalità creando spazi reali e immaginari (pensiamo al Bosco Verticale di Boeri) è la sfida di Milano. Il verde, la strada, il calcio possono essere modi di pensare ed essere Milano. Il Maestro Abbado voleva regalare un bosco a Milano. Perché non immaginare che questi alberi possano essere parte di una partita di football? Il tempio del pallone, San Siro, è definito la Scala del Calcio: un Derby amichevole che vede uniti da un lato lo stadio con il suo campo da gioco e dall’altro un teatro con il suo palcoscenico. Milano CalcioCity è questo Derby: gioco e storie insieme. Tornare a giocare per strada e tornare ad incontrarci per raccontare storie è offrire (e regalare) spazi di sogno, di gioco, di condivisione. È creare una nuova mappa concettuale, emozionale e sentimentale della città. Ed è anche un piccolo contributo per far crescere dei cittadini migliori. E dei calciatori migliori. Nel campo da gioco più bello: la città di Milano.
Alessandro Riccini Ricci Inserto a cura di ALESSANDRO RICCINI RICCI - EGLE PRIOLO Agenzia Creativa Immaginario
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PROGRAMMA COMPLETO E TUTTE LE INFORMAZIONI SU www.milanocalciocity.it
I N S E RTO S P EC I A L E
Illustrazione di MASSIMILIANO AURELIO
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NOME RUBRICA
IN EDICOLA
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Stagione Concertistica • Musica in quota • Teatro Brillante • Teatro Ragazzi
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AGOSTO
Stagione Concertistica • Musica in quota • Teatro Brillante • Teatro Ragazzi
Concerti
Teatro Ragazzi
AGOSTO 06 Martedì ore06 18.Martedì 00 / Conchiglia ore 18.00 / Conchiglia
L’AMORE DELLE MELARANCE L’AMORETRE DELLE TRE MELARANCE I burattini di Luciano Gottardi I burattini di Luciano Gottardi
Partenza da la Ciasa de Ra Regoles
FIABE E LEGGENDE DELLE DOLOMITI
FIABE E LEGGENDE DELLE DOLOMITI I burattini di Luciano Gottardi / Escursione con spettacolo itinerante Teatro Brillante I burattini di Luciano Gottardi / Escursione con spettacolo itinerante
OTTOBRE
Alexander Girardi Hall
LA SAGRA FAMIGLIA di e con Paolo Cevoli / Daniele Sala regia
23 Mercoledì ore 20.45 / Alexander Girardi Hall
Biglietto unico 20,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo
LA SAGRA Musica FAMIGLIA in quota di e con Paolo Cevoli / Daniele Sala regia
AGOSTO Biglietto unico 20,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo Domenica ore 14.30 / Rifugio Averau
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TRIO NA FUOIA tradizionale/popolare
Musica in quota AGOSTO
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Andrea Da Cortà organetto, mandola dulcimer, clarinetto armonica, liuto tedesco, cornamusa, scacciapensieri, voce Annachiara Belli violino / Pina Sabatini chitarra, percussioni, voce
18 Domenica ore 14.30 / Rifugio Croda da Lago DUO Domenica ore 14.3NA 0 /FUOIA Rifugio Averau tradizionale/popolare
TRIO NA FUOIA 22 Giovedì ore 14.30 / Malga Peziè de Paru tradizionale/popolare
Andrea Da Cortà organetto, mandola, dulcimer, autoharp, clarinetto, armonica, scacciapensieri, banjo / Annachiara Belli violino
PIAZZA BRASS QUINTET
Andrea Da Cortà organetto, mandola dulcimer, clarinetto armonica, liuto tedesco, cornamusa, scacciapensieri, voce Annachiara Belli violino / Pina Sabatini chitarra, Francesco Perrone trombapercussioni, / Luca Perronevoce tromba / Dario Venghi corno / Alessio Brontesi trombone / Antonio Belluco tuba
18 Domenica ore 14.30 / Rifugio Croda da Lago Novità Internazionali DUO NA FUOIA tradizionale/popolare AGOSTO
19 Lunedì ore 21.00 / Alexander Girardi Hall POLO Giovedì oreMARCO 14.3musicale 0 /per voceMalga Peziè de Paru racconto narrante e orchestra di fiati
Andrea Da Cortà organetto, mandola, dulcimer, autoharp, clarinetto, armonica, scacciapensieri, banjo / Annachiara Belli violino
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PIAZZA BRASS QUINTET
testo e musica di Antonio Rossi Rovereto Wind Orchestra / Michele Vigilante narratore / Andrea Loss direttore / Alessia Bragato immagini Prima esecuzione assoluta in collaborazione con Festa de ra Bandes
Francesco Perrone tromba / Luca Perrone tromba / Dario Venghi corno / Alessio Brontesi trombone / Antonio Belluco tuba Biglietto unico 8,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo
Novità Internazionali AGOSTO
19 Lunedì ore 21 .00 / Alexander Girardi Hall MARCO POLO racconto musicale per voce narrante e orchestra di fiati
ENSEMBLE ENSEMBLE SUPER SUPER FLUMINAFLUMINA BABYLONIS BABYLONIS Musiche di A. Vivaldi, J. H. Schmelzer, A. Scarlatti Musiche di A. Vivaldi, J. H. Schmelzer, A. Scarlatti
DICEMBRE
03 Martedì ore 8.30 03 Martedì ore 8.30 Partenza da la Ciasa de Ra Regoles
OTTOBRE
SETTEMBRE 01 Domenica ore 21.00 / Basilica Santi Filippo e Giacomo 01 Domenica ore 21.00 / Basilica Santi Filippo e Giacomo Roberto Squillaci direttore Roberto Squillaci direttore
SETTEMBRE SETTEMBRE
Teatro Brillante 23 Mercoledì ore 20.45 /
Concerti SETTEMBRE
testo e musica di Antonio Rossi Rovereto Wind Orchestra / Michele Vigilante narratore / Andrea Loss direttore / Alessia Bragato immagini
04 DICEMBRE Mercoledì ore 15.30 / Cinema Eden 04 Mercoledì ore 15.30 / Cinema Eden AL TEI ENSEMBLE Canti di guerra, di vita e di dolore
AL TEI ENSEMBLE
Annachiara Belli violino / Pina Sabatini chitarra, voce / Andrea Da Cortà organetto, mandola, dulcimer, voce Sandro Del Duca flauti, voce / Mauro Canton contrabbasso Canti di guerra, di vita e di dolore In collaborazione con Ampezzo Oltrechiusa
Annachiara Belli violino / Pina Sabatini chitarra, voce / Andrea Da Cortà organetto, mandola, dulcimer, voce
Sandro Del Duca flauti, voce / / Mauro Canton contrabbasso 08 Domenica ore 18.30 Conchiglia In collaborazione con Ampezzo Oltrechiusa VOXID Vocal Pop Experience
08 Domenica ore 18.30 / Conchiglia
Maike Lindemann soprano / Diana Labrenz alto / Friedrich Rau tenore Gabriel Fuhrmann tenore / Daniel Barke basso & beatbox In coproduzione con VivaVoce International A Cappella Festival Treviso e Cortina 4US
VOXID
Vocal Popore Experience 14 Sabato 21.00 / Basilica Santi Filippo e Giacomo Maike Lindemann soprano / Diana Labrenz alto / Friedrich Rau tenore
MISSA ANGUSTIS GabrielIN Fuhrmann tenore / Daniel Barke basso & beatbox Franz Joseph Haydn / Hob.XXII:11 in re minore
Nelson Mass In coproduzione con VivaVoce International A Cappella Festival Treviso e Cortina 4US Giulia Bolcato soprano / Chiara Brunello contralto / Matteo Mezzaro tenore / Jonas Jud basso Jacopo Cacco maestro concertatore e direttore Orchestra GAV – Giovani Archi Veneti / Lucia Visentin primo violino Insieme Corale Ecclesia Nova / Matteo Valbusa maestro del coro
14 Sabato ore 21.00 / Basilica Santi Filippo e Giacomo MISSA IN/ANGUSTIS 21 Sabato ore 21.00 Alexander Girardi Hall Franz Joseph Haydn / Hob.XXII:11 in re minore RECITAL LIRICO DI NATALE Musiche diNelson G. VerdiMass e G. Puccini
Giulia Bolcato soprano / Chiara Brunello contralto / Matteo Mezzaro tenore / Jonas Jud basso Chiara Isotton soprano / Federico Brunello pianoforte Coro Cortina / Marino Baldissera maestro del coro Jacopo Cacco maestro concertatore e direttore In coproduzione con Coro Cortina Orchestra GAV – Giovani Archi Veneti / Lucia Visentin primo violino BigliettoInsieme unico 15,00 euro / acquisto presso/Info Point Cortina Corale Ecclesia Nova Matteo Valbusad’Ampezzo maestro del coro
29 Domenica ore 21.00 / Alexander Girardi Hall 21 Sabato ore 21.00 / Alexander Girardi Hall CONCERTO DI CAPODANNO Musiche di R. Strauss, J. Strauss, G. Verdi e V. Bellini
RECITAL LIRICO DI NATALE Musiche di G. Verdi e G. Puccini
Orchestra Regionale Filarmonia Veneta / Marco Titotto direttore
Biglietto unico 20,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo
Chiara Isotton soprano / Federico Brunello pianoforte Coro Cortina / Marino Baldissera maestro del coro In coproduzione con Coro Cortina
Info Point Cortina d’Ampezzo | Corso Italia, 81 | 0436.869086 | infopoint@serviziampezzo.it
Biglietto unico 15,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo Comune di Cortina d’Ampezzo Comun de Anpezo
29 Domenica ore 21.00 / Alexander Girardi Hall
in collaborazione con
CONCERTO DI CAPODANNO Musiche di R. Strauss, J. Strauss, G. Verdi e V. Bellini Orchestra Regionale Filarmonia Veneta / Marco Titotto direttore
Biglietto unico 20,00 euro / acquisto presso Info Point Cortina d’Ampezzo
Info Point Cortina d’Ampezzo | Corso Italia, 81 | 0436.869086 | infopoint@serviziampezzo.it
Comune di Cortina d’Ampezzo Comun de Anpezo in collaborazione con
S O CC E R I L LU ST R AT E D
NEL NOME DEI PADRI A trent’anni esatti dalla caduta del Muro, sembra quasi un’allegoria l’approdo in Bundesliga dell’Union Berlin, una delle poche squadre originarie dell’ex DDR. Fiera oppositrice del regime, per i suoi fans è una famiglia con cui passare il Natale o celebrarepaganamente i parenti che non ci sono più.
Parole di DOMENICO VALLI
Ci sono club che hanno maggior fama che blasone, più titoli e inchieste extracalcistiche che trofei in bacheca. Sono i club del mito, quelli che contribuiscono a rendere il calcio uno sport socialmente unico. Tra questi, il più famoso in Germania e tra i più celebri nel continente, c’è il St. Pauli, la polisportiva dell’omonimo quartiere di Amburgo divenuta Kult grazie al calcio. Un’operazione di cuore con qualche inevitabile venatura di marketing, nata negli anni Ottanta, quando al Millerntor Stadion i tifosi hanno cominciato ad adottare come stendardo non ufficiale il Jolly Roger, il teschio con le ossa incrociate dei pirati. In uno scacchiere continentale di tifoserie schierate sempre più a destra, il St. Pauli divenne un fenomeno per la sua componente fortemente di sinistra, al punto da bandire dallo stadio i tifosi con altri sentimenti politici. Relegata da anni nella serie inferiore, non partecipa però neanche questa stagione alla Bundesliga, dove al contrario debutta un altro club Kult, forse meno chic, certamente meno
Illustrazione di MASSIMILIANO MARZUCCO
noto, di sicuro altrettanto lontano dai nuovi canoni del calcio business delle SuperLeghe. Quinto club di Berlino ad affacciarsi al maggior proscenio tedesco, dopo il Tennis Borussia Berlin, il SV Blau Weiss Berlin, il Tasmania 1900 Berlin e, ovviamente, l’Hertha BSC, tocca all’Union Berlin rappresentare la capitale nella massima serie. La sua storia è intrecciata a doppio giro con la Storia. Ufficialmente la fondazione è datata 1906, in realtà la vera vita dell’Union risale a sessant’anni dopo. Il Muro da cinque anni taglia in due Berlino e ha separato gli stessi compagni di squadra. Il vecchio Stadion An der Alten Försterei è nel quartiere di Köpenick, sud-est della città. In pieno territorio DDR. L’Union Berlin diviene così una squadra della Repubblica Democratica ed è qui che cementa quel sentimento che ancora identifica i tifosi biancorossi. Nasce immediata la rivalità sul campo con la Dinamo Berlino, la squadra della Stasi, il cupo servizio segreto del Ministero della Sicurezza di Stato. > pg. 54
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S O CC E R I L LU ST R AT E D
LA STASI, LA POLIZIA POLITICA DELLA DDR, ERA CONVINTA CHE I NEMICI DELLO STATO FOSSERO TUTTI TIFOSI DELL’UNION. E da lì il sentimento di rivalità rimbalza fuori. Nel giro di poco tempo, la polizia politica è convinta che i nemici dello Stato siano tutti tifosi dell’Union. Di certo, i fan dell’«Unione di Ferro» dimostrano un inscalfibile attaccamento ai colori nonostante i risultati siano riservati tutti alla Dinamo, festeggiata da Erich Mielke, gran capo della Stasi, con dieci titoli a fila. L’Union riesce a ottenere soltanto una FDGB Pokal, la Coppa della Germania Est, nel 1968. Non a caso, in questo periodo nasce l’usanza durante le punizioni di urlare «il muro deve cadere», dove il riferimento alla barriera avversaria è un banale paravento. Gli spazi di libertà sono ristretti nella DDR e potersi recare all’Antica Falegnameria, come si chiama in italiano lo stadio biancorosso, per trovare una nicchia condivisa di blando dissenso, di autodeterminazione e qualche refolo di libertà
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in quegli anni foschi fu d’aiuto per molti berlinesi dell’Est e non se lo è dimenticato nessuno, neanche gli orgogliosi discendenti. L’Union si è tramutata così in una famiglia, con un senso di appartenenza tanto forte che per il debutto in Bundesliga i tifosi hanno portato all’Alten Försterei le gigantografie dei cari scomparsi. Madri, padri, nonni, trisavoli in dimensione poster per coinvolgerli in quella gioia che non si sono potuti permettere da vivi. Non sorprenda. In questo stadio, che prende il nome dalla vecchia casa dei guardaboschi, dove ancora i tifosi ma anche i giocatori non si vergognano ad arrivare in bici o dove i membri del consiglio scendono in strada a vendere il match-program, ogni Natale si celebra una funzione pagana che non ha pari. Qualcuno a dire il vero, sta provando a replicarla, ma questa è nata dal cuore e dalle radici dell’Union. Un rito cominciato in clandestinità il 17 dicembre 2003 da 89 fan che, per scambiarsi gli auguri di Natale, hanno pensato bene di aspettare il favore del buio e scavalcare i cancelli per farsi gli auguri in campo. Un’idea così folle che non poteva non piacere alla dirigenza del Club, che dall’anno dopo l’ha istituzionalizzata: oggi sono in trentamila che ogni 23 dicembre si ritrovano in campo e sugli spalti dell’Alten Försterei esclusivamente per scambiarsi auguri, omaggi e sorrisi. D’altronde, l’erba della Vecchia casa del guardaboschi non è mai stata considerata tabù. Nel 2014, durante la World Cup, il campo è stato messo a disposizione per vedere le partite su grande schermo. Ma dimentichiamoci l’effetto Festivalbar delle omologhe iniziative nostrane. Nessuna sgomitata per arrivare alle balaustre, nessuna maratona fisica per vedere la partita in bivacco precario. Si stava sì sul terreno di gioco, ma su comodi divani, ognuno con il suo tavolino con abat-jour per le partite in notturna e, ovviamente, la disponibilità di cisterne di birra, senza limiti alcolici, perché quando uno si sente a casa, le mattane le lascia fuori dalla porta. Un concetto di casa talmente stringente che la tribuna su cui era stato posizionato il megaschermo era chiusa da pannelli con carta da parati anni Settanta, con appesi giganteschi quadri con i ricordi più emozionanti del club. I fan dell’Unione di Ferro vivono l’appartenenza al Club in maniera così sentita, da andare oltre i risultati. Lo testimonia lo striscione «Merda, la Bundesliga!» esposto la scorsa stagione quando ormai era chiaro che la promozione sarebbe arrivata. Il timore era, ed è, che il calcio business possa compromettere l’integrità morale dell’Union. Insomma, meglio duri e puri in B che debosciati in A. La speranza, invece, è che l’Union contribuisca a ricordare agli altri il valore delle radici. Che nel calcio sono sempre i tifosi. Gli anticorpi sembrano già attivati. Non a caso nell’inno «Eisern Union», Unione di Ferro (poteva essere scritto e cantato da qualcun altro rispetto all’icona punk Nina Hagen?), ricordando le fiere origini dell’Est, si dice Wer lässt sich nicht vom Westen kaufen?, chi non può comprare l’Occidente? Per l’Union non è mai questione di prezzo.
T E R R I TO R I
Fotografia di GETTY IMAGES
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IL CALCIO SULLA VIA DELLA IUTA La Nazionale del Bangladesh occupa la 182ª posizione del ranking FIFA, ma il suo c.t., Jamie Day, vive la sfida come il coronamento di un sogno. Dopo l’accesso ai gironi di qualificazione alla Coppa del Mondo, il suo obiettivo è portare il calcio al livello del cricket.
Intervista di FRANCESCO CAREMANI
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Bexley è una piccola città a sud est di Londra, nata come una delle parrocchie del Kent e divenuta municipio nel 1935, dove ci sono più chiese che case e nella strada principale il locale cricket club. Qui, quarant’anni fa (13 settembre 1979), è nato Jamie Day, ex calciatore e oggi Commissario tecnico della Nazionale del Bangladesh. Cresciuto come centrocampista nelle giovanili dell’Arsenal, non ha mai vestito quella maglia da professionista: «Avevo davanti giocatori come Petit e Vieira, dovevo cercare un’altra strada». Bournemouth, Dover Athletic, Crawley e Welling United la squadra della sua vita, nonostante tante altre esperienze nelle serie minori inglesi. E anche la prima che guida dalla panchina, in qualità di giocatore, allenatore, per cinque stagioni, vincendo la Conference South (o se preferite National League South), l’unico alloro che può vantare fino a oggi. Nel 2015 diventa tecnico in seconda del Forest Green Rovers, club famoso per le scelte ecologiste, alla quale seguono altre panchine, tra cui un fugace ritorno al Welling United, ma nel 2018 è arrivata la chiamata che gli ha cambiato letteralmente la vita. La Federazione del Bangladesh gli ha offerto di guidare la Nazionale maggiore e poi anche l’Under 23, diventando un punto di riferimento per il Paese asiatico, dove gode di grande fama e quando esce lo fermano per strada chiedendogli autografi e selfie. Repubblica parlamentare, controllata nel XVI secolo dalla Compagnia britannica delle indie orientali, ha alle spalle una storia di divisioni, guerra, indipendenza e dittatura che porta con sé ferite mai rimarginate. Famosa per la produzione di iuta, tè, senape e per le tigri del Bengala, calcisticamente occupa la posizione numero 182 nel ranking FIFA, a pari merito con il Liechtenstein e Macao, poco prima di Sao Tome e Principe, anche se negli ultimi tempi ha guadagnato cinque posizioni. Quasi 9.500 chilometri dividono Bexley dalla capitale bengalese Dacca, quelli che Jamie Day cerca di riempire ogni giorno col lavoro per trasformare una nazione dedita al cricket in un popolo di calciofili. Guardandosi indietro, come giudicherebbe la sua carriera da calciatore? «Penso che avrei potuto giocare più a lungo ai massimi livelli, ma non ho lavorato abbastanza, però mi è piaciuto continuare nelle serie minori». E quella da allenatore, prima di arrivare in Bangladesh? «La mia carriera di allenatore, fino a ora, è stata piena di alti e bassi. Vincere il campionato con il Welling United è stata un’esperienza fantastica e di cui sono orgoglioso, poi sono seguite alcune stagioni, in altri club, che non sono state altrettanto esaltanti. Adesso, però, mi sto godendo il mio attuale ruolo di Commissario tecnico».
Perché dopo varie esperienze inglesi ha deciso di accettare la proposta della Federazione bengalese? «Ho sempre desiderato allenare una Nazionale e quando è capitata questa occasione l’ho presa al volo». Che livello di calcio ha trovato? «Ritengo che il livello del calcio bengalese sia dentro gli standard continentali, con meno fisicità». E le infrastrutture sportive? «Questa è la parte dolente e che deve, assolutamente, migliorare. Per avere una Nazionale all’altezza dobbiamo potere contare su nuove accademie per giovani calciatori. Recentemente ne abbiamo aperta una per le squadre Under 16 e 18». Qual è il suo allenatore di riferimento? «Don Howe (suo tecnico nelle giovanili dei Gunners, ndr) è quello che mi ha ispirato di più, per la sua conoscenza e l’amore per il calcio». Preferisce scegliere un modulo e adattarlo ai giocatori o viceversa? «La prima. Ho un mio stile, un modo di fare giocare le mie squadre. Poi, quando ci siamo incontrati, abbiamo lavorato insieme perché i giocatori bengalesi fossero capaci di suonare il mio spartito, adattandoci reciprocamente con un obiettivo comune: la vittoria». Come si svolgono gli allenamenti? «Come in Europa. Prima degli incontri internazionali stiamo insieme una decina di giorni, a volte in Bangladesh, a volte all’estero». Cosa è stato più difficile: fare accettare ai giocatori gli allenamenti, una dieta diversa o portare una nuova mentalità? «Quando sono arrivato ho cambiato tutto, dall’allenamento all’alimentazione, e loro l’hanno accettato con grande spirito di sacrificio. Poi da quando hanno visto i progressi dentro e fuori del campo hanno continuato senza eccepire e per questo non posso che ringraziarli». Ha già imparato la lingua o si aiuta con l’interprete? «Nello staff abbiamo sia personale locale che inglese in modo che possano tradurre quando necessario». Ci racconta una sua giornata tipo? «La giornata tipo sarebbe guardare le partite di campionato e tenere sotto controllo i giocatori per quelle future, ma non sempre questo è possibile».
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I club danno volentieri i calciatori alla Nazionale? «Sì, sono molto disponibili e ci permettono di utilizzarli sia per gli allenamenti che per le partite senza alcun problema». Ogni quanto vi radunate? «Normalmente ogni sei, otto, settimane, a seconda della disponibilità degli impianti». Lei è pure l’allenatore dell’Under 23 bengalese. «La gestione contemporanea dell’Under 23 ci aiuta a valutare i più giovani per inserirli nella Nazionale maggiore e di questo, nell’ultimo anno, ne abbiamo tratto grandi vantaggi». Quanto è seguita la Nazionale bengalese in patria? «In generale è poco seguita, forse più nel Regno Unito che qui, da amici e parenti, un po’ come me». Come è stata accolta la vittoria sul Laos negli spareggi per le qualificazioni al Mondiale 2022? «Con grande gioia. Per noi è stata speciale, perché abbiamo sconfitto una squadra forte e poi per come abbiamo giocato e ci siamo battuti, sia all’andata (0-1) che nel ritorno (0-0)». Quanto di quella vittoria è merito suo e quanto dei giocatori? «È stato un fantastico lavoro di squadra a cui tutti hanno partecipato per ottenere quel risultato. I giocatori in campo e lo staff tecnico in panchina». Quali sono stati gli ostacoli maggiori da superare? «I maggiori ostacoli sono rappresentati dalla mancanza di strutture e attrezzature, le quali potrebbero aiutarci per progredire nel lavoro e nella crescita. In questo, sfortunatamente, siamo dietro alle altre grandi nazioni asiatiche». Cosa le manca di più dell’Inghilterra? «La mia famiglia, che riesco a vedere ogni quattro, sei, settimane. Abbiamo quattro figli e per mia moglie è dura, ma è una donna molto intelligente e mi supporta continuamente».
E del calcio inglese? «Mi manca la gestione del lavoro che si può fare in Inghilterra e appena posso guardo le partite in televisione, ma attualmente sono molto contento del mio lavoro». Quali sono i pregi che si riconosce come allenatore e come uomo? «Credo di essere onesto con i miei giocatori. Inoltre, devi essere competente perché possano fidarsi di te e credere in quello che stai facendo con loro. Mi pare che, per adesso, tutto questo stia riuscendo».
QUANDO SONO ARRIVATO HO CAMBIATO TUTTO, DALL’ALLENAMENTO ALL’ALIMENTAZIONE. POI HANNO VISTO I PROGRESSI. Quanto sono pressanti i media bengalesi sulla Nazionale di calcio? «I media sono simili in tutto il mondo: bravi quando vinci e aggressivi quando perdi. Ma, in generale, con me sono stati molto buoni». Quanto pensa che possa crescere il calcio in Bangladesh? «Io penso che ci siano buoni margini, i ragazzi non mancano, ma dobbiamo intercettarli prima perché possano migliorare e perché il calcio diventi lo sport preferito di questo Paese». Crede, veramente, che possa diventare più popolare del cricket? «Sì, credo che abbia il potenziale per riuscirci, anche perché le sponsorizzazioni sportive stanno andando bene e più progrediamo più le aziende bengalesi ci seguiranno. Se cresciamo come squadra il calcio crescerà con noi e diventerà uno sport popolare pure a queste latitudini». Qual è il livello del campionato locale? «Il livello è buono, direi standard rispetto a quelli dei Paesi vicini. Ci sono alcuni ottimi giocatori e mi auguro che possano fare delle esperienze all’estero perché sono molto importanti per migliorarsi. Come hanno fatto e stanno facendo alcuni dei calciatori che abbiamo in Nazionale». Qual è la meta che si è prefissato? «Partecipare ai gironi di qualificazione alla Coppa del Mondo, questo è quello che adesso m’interessa di più». È realistico puntare a vincere il prossimo South Asian Football Federation Championship, che si giocherà in Pakistan nel 2020? «Sì lo è e credo che l’esperienza delle qualificazioni mondiali ci darà la giusta spinta per essere ancora più competitivi».
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Fotografie di GETTY IMAGES
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L’EPOPEA DI UN UOMO ANTICO E MODERNISSIMO Esattamente cinquant’anni fa Angelo Massimino prese la guida del Catania ed entrò nel cuore dei tifosi, usando a suo consumo anche le fake news. Come la più celebre sul salmone affumicato («Buono questo prosciutto peccato sappia di pesce») che in realtà non pronunciò mai.
Parole di GIUSEPPE WRZY
Illustrazione di MASSIMILIANO MARZUCCO
Cinquant’anni fa, nel 1969, iniziava l’epopea di Angelo Massimino alla guida del Catania. Non sarebbe stata la gestione più vincente della storia degli etnei, ma sicuramente quella che è rimasta maggiormente nel cuore dei tifosi e della città che ha deciso di dedicare lo stadio, il mitico Cibali, al presidentissimo. Massimino è un personaggio allo stesso tempo antico e modernissimo. Rappresenta in maniera plastica una stagione cha ha visto Catania come uno dei motori dell’economia italiana. Una stagione in cui contendeva a Bari il titolo, un po’ provinciale ma di sicuro impatto evocativo di Milano del sud. Massimino, o meglio la famiglia Massimino, vive il destino di molti figli del sud. Angelo, con la famiglia, emigra in Argentina negli anni Venti del secolo scorso. Poi rientra negli anni cinquanta, dopo avere maturato importanti esperienze nel settore edile. Mutuando un’espressione dialettale catanese si può dire che da giovane ha «mangiato molto travagghiu» e poca scuola. Una volta rientrato nella sua Sicilia si afferma nel settore edilizio.
Con orgoglio ha sempre sottolineato di avere lavorato solo e solamente con il settore privato. Una differenziazione che lo pone in un campo ben diverso rispetto ai molti costruttori che hanno fatto fortuna con i lavori pubblici a patto di compromissioni spesso drammatiche. Massimino, dicevamo è stato uomo antico e modernissimo. Nella sua modernità c’è l’essere stato oggetto di fake news, che ha in parte assecondato, e anche il creatore di meme divenuti virali e che lo saranno per sempre. Ma andiamo con ordine. Il presidentissimo del Catania è assurto alle cronache nazionali grazie alla Gialappa’s Band che ha fatto uscire alcuni personaggi legati al calcio dalla cronaca locale elevandoli al rango di macchiette nazionali. Gli interventi del numero uno del Catania alle trasmissioni delle emittenti locali etnee, traslitterati dal catanese all’italiano, erano uno dei punti di forza delle trasmissione. Spalla involontaria di Massimino era quasi sempre Andrea Lodato, oggi caporedattore de La Sicilia, che lo ospitava nella sua trasmissione Sala Stampa su Antenna Sicilia. > pg. 62
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Massimino è stato accreditato di una serie di strafalcioni, alcuni passati alla storia. Il più famoso racconta che a un matrimonio, assaggiando del salmone affumicato, avrebbe detto: «Buono questo prosciutto peccato sappia di pesce». Questa frase non l’ha mai pronunciata. «Massimino», spiega Lodato, «conosceva molte le storielle e gli strafalcioni che gli venivano attribuiti e ne rideva. Nella sua lunga permanenza in Argentina aveva avuto modo non solo di assaggiare il salmone affumicato, ma anche di conoscere molto bene aziende che lo producevano ed esportavano». Ovviamente non tutte le gaffe che gli sono state attribuite sono fake news. La frase: «I nostri tifosi ci seguono ovunque, in treno, in macchina, in nave, perfino con dei voli charleston», racconta ancora Lodato, «la disse in trasmissione. Lui rideva moltissimo delle sue battute, mentre i parenti stretti, e i figli in particolare, ne soffrivano, pensando che dessero un’idea sbagliata dell’uomo». Secondo più di un osservatore le perle più eclatanti sarebbero state pronunciate dal fratello maggiore di Angelo, Pippo, all’epoca in cui la famiglia (che comprendeva un terzo fratello, Turi, che è stato poi anche presidente e proprietario del Messina) aveva fondato la Massiminiana, squadra che, tra l’altro, ha lanciato Pietro Anastasi nel calcio professionistico. La Massiminiana è stata un’avventura che la famiglia ha intrapreso quando non riusciva a scalare il vertice del Catania e che ne testimoniò l’amore per il calcio e per il territorio etneo. Sarebbe stato il fratello Pippo a dire: «Al Catania manca amalgama? Ditemi dove gioca che lo compro» e anche la surreale «Ma perché bisogna comprare guanti solo al portiere? Qui sono tutti uguali. Li devono avere pure gli altri». Ristabilire la corretta attribuzione degli strafalcioni non significa negare che anche la prosa di Angelo Massimino fosse priva di spunti dal sapore dadaista. Nel 1983, al rientro dopo lo spareggio contro la Cremonese che aveva decretato il ritorno del Catania in Serie A parlando del futuro calciomercato disse: «faremo un grande Catania prenderemo un grande giocatore di cui Zoff sta ancora guardando il palo». Con ogni probabilità alludeva al polacco Kupcewitz, che nella semifinale di Spagna ’82 colse un clamoroso legno con un incredibile tiro da fuori.
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Il calciomercato è stato croce e delizia di Massimino e anche foriero di nuovi malevoli pettegolezzi. Le malelingue sostenevano che facesse campagna acquisti guardando le figurine Panini e non è vero. Quel che è certo è che ha coperto scelte poco felici di più di un suo collaboratore. Sicuramente aveva una certa fascinazione per i giocatori dal fisico teutonico; quindi alti, robusti e biondi. Queste caratteristiche fisiche gli ispiravano una sorta di arcaico senso di potenza e sono tra i motivi che lo hanno convinto a scommettere per un triennio su Aldo Cantarutti, puntero bergamasco alto poco meno di un metro e novanta. Nel 1983 affrontò la serie A con due nuovi innesti brasiliani, Pedrinho e Luvanor. Quest’ultimo arrivò su espresso consiglio di Gianni di Marzio, l’allenatore che aveva ottenuto la promozione, che lo aveva definito «la riserva di Zico». Alcuni errori di calciomercato li fece per un eccesso di amore e di considerazione nei confronti dei tifosi. Le cronache narrano che avesse imbastito uno scambio con l’Avellino per ottenere Juary in cambio di Ennio Mastelli, idolo assoluto della piazza che bloccò lo scambio che, a posteriori, sarebbe stato decisamente più vantaggioso per il Catania. La sua stessa scomparsa può essere letta come la conseguenza di un eccesso di amore per la squadra e la città. Massimino morì nel 1996 in un incidente stradale di ritorno da Palermo dove aveva presenziato a un’udienza del Tar, coda della sentenza con cui nel ’93 il Catania era stato cancellato da tutti i campionati perché aveva pagato la prima rata delle spettanze alla Federcalcio con un giorno di ritardo. Massimino, ormai quasi completamente cieco, non aveva percepito l’imminente impatto dell’auto e non aveva nemmeno accennato a proteggersi. Di fatto, la città, o buona parte di essa, lo considera un caduto sul campo per la causa del Catania. E non solo. Ai suoi funerali, fatto inaudito alla luce della folle (e a volte criminale) rivalità fra le due società partecipò anche una delegazione degli ultrà del Palermo. A salutare un uomo che aveva amato veramente il calcio. E il Catania.
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«AL CATANIA MANCA AMALGAMA? DITEMI DOVE GIOCA CHE LO COMPRO» NON LA PRONUNCIÒ LUI, MA IL FRATELLO PIPPO. 63