Nicola G. De Donno - Poesie giovanili

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Nicola G. De Donno

POESIE GIOVANILI

nidiandoli 2



nidiandoli

2 collana diretta da Lino Angiuli Carlo Alberto Augieri Salvatore Francesco Lattarulo


Si ringraziano gli Eredi del Prof. Oreste Macrì ed il Gabinetto Scientifico Letterario “G.P. Vieusseux” di Firenze, per l’autorizzazione alla pubblicazione delle poesie conservate nel Fondo Macrì, nonché la Prof.ssa Anna Dolfi, dell’Università di Firenze, per la preziosa collaborazione.


Nicola G. De Donno

Poesie giovanili introduzione di Lino Angiuli intervento critico di Carlo A. Augieri postfazione di Daniele De Donno


Š 2015 by Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. - Lecce ISBN 978-88-7048-579-0

Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. Viale M. De Pietro, 9 - 73100 Lecce Tel e fax 0832/241131 Sito internet: www.milellalecce.it Email: leccespaziovivo@tiscali.it


Per introdurre



Ri-trovamenti

Com’è possibile che una vocazione poetica così ben attestata sin dalle prime battute ci abbia offerto solo pochi testi, qui appositamente riuniti per consentirne una lettura unitaria? Considerato il non breve né facile percorso compiuto da De Donno per approdare a quella scelta che, con un aggettivo e per intenderci, diciamo “dialettale”, questo risultato così “magro” potrebbe anche esser letto come l’esito di una sorta di rimozione involontaria operata da un autore che, per compiere la sua ‘inversione ad U’ dalla lingua italiana alla dialettale, ha finito per guadagnare e marcare una concreta distanza dalla prima stagione creativa, tutta inquadrabile nell’alveo della tradizione “alta”, quella tradizione che il giovane studente andava conoscendo e con cui si andava confrontando negli anni della propria formazione condotta tra il Liceo di Maglie e la Scuola Normale di Pisa. Dico questo perché, disturbando forzatamente Jacques Monod (Il caso e la necessità), da diverso tempo ritengo che nessuna casualità sia scevra di causalità e che, al disotto se non al di sopra dei destini individuali e senza bisogno di adottare visioni 9


metafisiche, c’è qualcosa di più grande e di sotterraneo che li segna, quei destini, dopo averli condizionati. Perciò le spiegazioni offerte dallo stesso De Donno circa le difficoltà oggettive e storiche incontrate nel tentativo di ri-trovarsi ri-trovando i reperti della sua prima produzione poetica non possono bastare a spiegare la loro “fine”1. Non mi sembra nemmeno un caso il fatto che, insieme a pochi altri “pezzi”, il primo di tali reperti, risalente ai tempi del liceo, sia stato proposto dall’autore con alcune significative varianti rispetto alla versione originale, poi emersa dal fondo Macrì2. Intanto, viene soppresso il terzo verso che fa riferimento generico alla Puglia, per riportare nel titolo un riferimento a Maglie, il che sembra attestare l’avvenuta, quasi sbandierata riappropriazione della piccola patria come orizzonte ispirativo primario; viene inoltre modificato l’ultimo verso, al fine di ridurre Vedi «Note di Storia e Cultura Salentina», XIII (2001), pp. 207-214, dove De Donno, nel presentare una piccola silloge di testi giovanili, premette loro una nota che attribuisce la scarsa consistenza numerica di quelle che chiama “poesiole” (presentate sotto il titolo Iuvenilia tantum) a una serie di accidenti e incidenti in gran parte coincidenti con i trambusti subìti a causa della guerra. 2 Sia questa composizione sia le altre provenienti dal fondo di Oreste Macrì, al quale l’autore, nella presentazione di cui alla nota precedente, afferma di averli passati a suo tempo, presentano un titolo nelle versione originale, dattiloscritta. 1

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una certa atmosfera che sa di citazione colta (non il tremolar di stelle, preceduto dalla congiunzione avversativa, bensì l’affermativo polverio di stelle); infine viene apposta la data del 1939, come per significare il precoce terminus a quo dell’avventura poetica3. Permane comunque la forma verbale «auliscono», che la dice lunga sulle letture studentesche e le frequentazioni letterarie del Nostro intorno alla fine degli anni Trenta. Evidentemente, una volta compiuto il salto verso tutt’altra concezione letteraria e tutt’altra poetica; una volta guadagnata un’equidistanza anche emotiva da quei primi passi, guardandosi indietro a qualche anno dalla morte avvenuta nel 2004, De Donno deve aver osservato con bonaria severità i frutti del proprio apprendistato, sì da aver adottato, per il titolo complessivo, l’avverbio tantum, al fine di smorzare il retrostante, nobile calco carducciano e, nel contempo, esprimere il pudore riveniente dalla tardiva riproposizione. Va detto, però, che nonostante la notevole presenza di riconoscibili modelli (escluderei comunque sia Carducci che D’Annunzio, il che già vuol dire, «Uno ne ricordo dai tempi del liceo» afferma De Donno nella già citata nota di presentazione e autocommento, a proposito di questo testo. Solo per questo testo è indicata la data. 3

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e terrei se mai presente Montale), queste prime prove manifestano non poche qualità: notevole disposizione, sicura padronanza della versificazione (ben ritmata “a botta” di sapienti endecasillabi), matura assimilazione dei modelli tradizionali, attivo confronto con le lezioni contemporanee, ricerca introspettiva carica di tensione conoscitiva. Alla luce dei successivi sviluppi, però, sembra quasi scontato affermare che altre premure, altre istanze, altri disegni si sarebbero impossessati di De Donno, altre esigenze che la Poesia o meglio la Letteratura, compagna di gioventù, non sarebbe stata più in grado di soddisfare. In tale ottica, l’importanza di questo manipolo di juvenilia consiste proprio nella possibilità che esso ci offre di verificare a quali modelli letterari, a quali offerte ispirative e, in sostanza, a quale funzione letteraria De Donno abbia dovuto/voluto girare le spalle per ingaggiare con se stesso una sfida simile a una conversione di non poco conto. Prendiamo ad esempio la condizione di “solitudine” che trasuda dai versi, classico topos di una poesia che guarda ancora a Leopardi come al caposcuola dell’intimismo lirico e fa di quella condizione una sorta di necessità gnoseologica; solitudine appena increspata dalla presenza di un tu reale o finto, che 12


costituisce l’atmosfera dominante di questa prima produzione. Di fronte all’esistenza, grazie e a causa della poesia, il poeta si sente solo con se stesso e, per disbrigare la matassa delle interrogazioni esistenziali, non può affatto fare affidamento sul “noi” che la dimensione antropologica del dialetto potrà poi garantirgli, traducendo in spinta motivazionale, persino in engagement, un profondo desiderio di riscatto culturale, un riscatto che, per altre strade, somiglia a quello cui aspirava il conterraneo Bodini allorquando decideva di sfidare i modelli dominanti e la tradizione sub specie ermetica per dare voce all’antropologia e alla visionarietà meridiana annidata nella provincia dell’impero. In altre parole, il costo richiesto dalla Letteratura e dalla poesia in lingua risultava essere troppo alto e costringeva ad esercitare una forte rimozione nei confronti di istanze più aperte e progetti più “democratici”; una rimozione che, sfruttando qualche teorema freudiano, possiamo spingerci a immaginare uguale e contraria rispetto a quella legata allo smarrimento dei testi giovanili a causa delle vicende belliche. Quale che sia la nostra riflessione sui rapporti tra caso e necessità e sulle dinamiche psicologiche, viene comunque facile pensare che la guerra, su De 13


Donno, abbia avuto un effetto ovviamente traumatico, capace di sollevare domande fondamentali, un effetto di segno analogo eppure opposto rispetto a quello subìto da poeti come Ungaretti: entrambi hanno avvertito che la parola poetica andasse depurata dall’eccesso di letterarietà e restituita alla sua verità, ma mentre l’uno ha camminato verso il polo alto della parole l’altro si è incamminato verso il basso della langue. Del resto, durante la seconda metà del Novecento, a partire dall’ingresso sulla scena letteraria della neo-dialettalità promossa da Pasolini, e ‒ direi anche a seguito dell’introduzione delle Regioni nel panorama sia amministrativo che culturale italiano ‒ non poche sono state le conversioni, totali o parziali, comunque emblematiche, a favore della lingua dialettale come “lingua della poesia” quasi antitetica rispetto a quella in lingua. In Puglia abbiamo avuto il caso di Francesco Granatiero, partito con ben quattro raccolte in lingua e poi passato in via definitiva, con diversi lavori, al dialetto pietroso e contadino di Mattinata; per la Lucania possiamo ricordare, in ordine cronologico, prima Albino Pierro e poi Assunta Finiguerra, entrambi nati poeti in lingua; in Campania c’è stato Achille Serrao, transitato da una poesia di area sperimentale ad una convinta, articolata e 14


matura produzione in lingua dialettale senza ritorno. Ma anche il Nord Italia ha registrato casi analoghi. Penso al ligure Paolo Bertolani e, soprattutto, a Cesare Ruffato, che per tutti gli anni Ottanta ha applicato la ricerca linguistica precedentemente spesa sul versante della poesia sperimentale ad una notevole produzione in lingua veneta, una produzione che ha fatto piazza pulita di ogni cascame naturalistico e bozzettistico per offrire al dialetto delle chances pluricreative di alto e profondo valore?4 A questo punto, nel caso non “casuale” del Nostro, possiamo affermare che il richiamo della terrestrità, quella terrestrità di cui l’immaginario e la cultura mediterranea, quindi salentina, sono impregnati, ha esercitato la sua prepotente forza di gravità, risucchiandolo verso quello che da tempo si chiama, con un topos ormai consolidato e abusato, “radici”. Radici non asfittiche e microterritoriali, però, bensì deposito identitario metaindividuale, fonte di approvvigionamento energetico per compiere coraggiose sfide intellettuali ancor prima che poetiche, sfide comunque affidate al lavoro sulla/ nella/ con la lingua. Accanto a quella sociolinguistica, la sfida più ardua ‒ a mio parere ‒ deve essere stata quella Non si contano gli esempi di poeti contemporanei che hanno alternato lingua e dialetto, com’è accaduto all’autore di questa nota. 4

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di mettere insieme la scelta demologica con gli studi filosofici, fino a raggiungere un risultato molto importante: superare la distinzione crociana tra poesia da una parte e filosofia (“roba grave”, per dirla con le famose parole che don Benedetto affidò al suo editore Laterza) dall’altra. La lettura di queste poesie giovanili, pertanto, si mostra utile, se non necessaria, per misurare tangibilmente la distanza che corre tra il versante in cui la Letteratura si nutre della vita piegandola ai propri rituali e quello in cui la scelta “dialettale” si evidenzia quale bisogno primario di fedeltà all’orizzonte antropologico nonché comunitario. Ancora una volta e in modo felice, viene così dimostrato che, se ci si mette in ascolto della madre culturale (junghianamente matria), essa sa indicare la strada per collegarsi con la propria voce più intima, la voce in cui l’io e il noi sanno parlarsi a tu per tu. L’“incrocio” tra gli studi pisani e la dimensione corale della salentinità ritrovata, allora, si epifanizza come un’emergenza genetica, forte e motivata perché morale e sociolinguistica nello steso tempo, in grado di promuovere una resistenza culturale e profetica contro il «livellamento […] la colonizzazione [… ] lo sfruttamento del folklore ad uso turistico e

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commerciale» e l’omologazione imperante5, il che rende preziosamente attuale la lezione di Nicola De Donno e, conseguentemente, altamente istruttiva la valutazione del manipolo di testi giovanili che offriamo qui al lettore per le deduzioni che vorrà aggiungere alle nostre. L. Angiuli

Queste ed altre notevoli considerazioni si trovano nell’importante e lucido saggio di De Donno Il dialetto salentino «poleto» e il latino rinascimentale «macheronico», pubblicato nel primo numero di «Leucadia : studi e ricerche» (1986), pp. 107-134. 5

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Indizi, residui, tracce e germi ‘aurorali’: le poesie giovanili di De Donno come paradigma generativo di immagini ‘ritrovate’

Come comprendere espressioni poetiche, scritte da De Donno giovanissimo, quali le “tenebre azzurre”, insieme con l’atto di “consolare della mia tristezza”, all’interno di un’emozione intensa, tale che “m’esulava l’anima dagli occhi”? Con quale spiegazione critica significare lo “spasimo d’azzurro/di liquida limpidità”, oppure “l’acuto soffrire dei profumi”, a cui tende il “morire coll’incenso”, a sua volta legato a un ‘per’ finale, connesso al volere (omesso nel testo, però) “dimenticare nel cuore/la piccola vita”? La poesia del poeta magliese acquista nel tempo una comprensione ritrovata, che nei testi giovanili qui raccolti non è perduta nella lettera del testo: va solo ricercata nel ‘non letterale’ ermeneutico della lettura. In effetti, con il voler comprendere, e non solo spiegare, si intende scommettere su un tipo di lettura che non si propone di commentare soltanto, né di classificare, neppure di descrivere ‘oggettivamente’ un testo. 19


Ebbene, l’animo giovanile, si sa, è interessato in particolare ad esprimere i paradigmi del proprio sé che affiorano, non ancora chiariti con le parole magmatiche della propria coscienza: che da adulta incontra, nel caso di De Donno, il ‘fuori luogo’ dell’io, il tu ed il noi della storia, con cui comprendersi per comunicare, condividere, far conto di una situazione comune, che diventa solo aspirazione, quando la storia tradisce e non traduce il desiderio di dignitosa ed equa condizione, alienata anzi in bisognosa esistenza, in gridata, mai solo sofferta, sopravvivenza. Eppure, la lotta tra scrittura e lettura, per estrarre dalla prima una non palese significazione, va intrapresa: confesso che mi piace pure sostenerla, impegnandomi in una breve riflessione sul senso ‘difficile’ in poesia, a cui è da richiamare l’impegno etico di non renderlo facile, non affidando al commento o alla perifrasi ciò che non può essere spiegato con una lingua asimbolica, ad esempio, e pure con una parola prettamente letterale, magari valutativa, ma poco interessata al voler dire aperto, molteplice e profondo della parola poetica. Il cui fine, fondamentale per la densità di una cultura, è di rappresentare, rendendosi immagine, la vita interiore, la spiritualità in rapporto alla storia, la debenedettiana “epica dell’esistenza” in risposta all’“epica della realtà”. 20


Ne consegue che pure nei dettagli la lingua della poesia è espressività ispessita, con cui il soggetto enunciatore, l’io poetante, attiva il linguaggio nel creare un contrasto, una drammatizzazione, e pure un estraniamento nei confronti del significato abitudinario, che viene invece sospeso, trasformato, addirittura spostato ad altro dal suo avere ‘già’ senso. La tensione linguistica, entro cui la lettura trova la sua verità di non estraniarsi dall’opera, traducendola magari in altra logica con parole letterali ed oggettivamente chiare, appartiene intimamente al poeta e al suo lettore, costituendo un dono irripetibile da parte del primo ed in impegno da parte del secondo a riceverlo senza perderlo, senza distanziarsene, assimilandolo addirittura come parola semipropria dentro la sua coscienza. Non esiste un testo se non in ciò che diventa testo, grazie a come una significazione viene attivata secondo processi significanti di combinazione, trasformazione e spostamento: dove c’è emozione c’è “brusio della parola”1, scarto di espressione, ondeggiamento del senso. Insomma, nel farsi testo della scrittura non c’è un prevalere della significazione già chiara, bensì da chiarire, perché autore e lettore R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988 1

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sono un’unica pratica di interpretazione: basta che la lettura diventi lo scorgere di un suggerimento, esplorato entro il residuo della parole, pure entro il vivente della lingua, che nel voler dire oltrepassa pure le regole e le pratiche con cui una cultura redige il codice della comunicazione e le convenzioni del dover ‘dire così’. La critica continua la poesia, non la interrompe, neppure la aliena nel pretendere di concettualizzarla. La lettura che auspico è complementare al linguaggio poetico; si compenetra con esso, confrontandosi con la sua ‘notte’ semantica, con la sua simbolicità, con le defezioni stesse delle immagini, pure con la grammatica con cui è ‘ordinata’ la proposizione del verso. C’è una verità imprescindibile nella lingua della poesia, a partire dal fatto che essere poeta non corrisponde a rivestire un ruolo, neppure ad adempiere un valore, bensì equivale a maturare una certa coscienza di parola, a sperimentare la profondità della lingua, non certo ridotta a strumento, né ad artificio o ad effetto comunicativo. Leggere un poeta significa incontrarlo, al fine di condividere l’attraversamento del linguaggio, delle sue scelte espressive, che non vanno commentate, né parafrasate, ma soprattutto interrogate: scopo della 22


lettura è cogliere il lato simbolico del testo, da interpretare non tramite una parola denotativa, priva di profondità e di sfondo semantico, che non tenga conto dell’infinita metaforizzazione del linguaggio poetico. La lettura critica deve essere restituita alla letteratura, pertanto l’immagine si comprende simbolicamente, con una parola interpretativa piena, capace di intrecciarsi con l’enérgheia semantica intrinseca alla parola poetica. In effetti, ogni testo artistico rinvia il lettore ad una seconda lingua, a sua volta allusione evocativa per la quale la parola acquisisce un suo sottinteso semantico, capace di permettere di parlare e di operare, di generare senso esistenziale, con cui donare esistenza alle paure, ai desideri, alle nostalgie, alle inquietudini. Che sono ‘visibili’ sin nei segni inferiori della frase, quali le figure e le anomalie semantiche, le differenziazioni, le eccezioni, le preposizioni non pertinenti alla loro funzione logica connettiva, così come le forme di trasformazione semantica delle parole, secondo la logica retorica della sostituzione, dell’ellissi, della sinonimia, dell’antifrasi, della dislocazione metonimica, della condensazione, soprattutto. Forme espressive di trasformazione del discorso, che sono visibili nel testo e significative della dram23


matizzazione rappresentativa della vita interiore, la quale va compresa nel gioco delle differenze non mimetiche della lingua poetica in relazione al senso comune, reale, fuori della dimensione estetica della parola. Ed ora, proposto un modo di leggere, ritorno con motivazione consapevole alla peculiarità espressiva, immaginante, della poesia giovanile di De Donno, che merita molta attenzione, dal momento che, come tenterò di mostrare nella presente mia breve nota riflessiva, in essa appaiono i germi ‘aurorali’ della poesia matura, le premesse significanti che preludono alle scelte di scrittura poetica, le cui tracce si riscoprono nella produzione artistica successiva. Ebbene, l’immagine simbolica con cui la poesia giovanile di De Donno esprime l’esperienza interiore dell’io poetante è strutturata, nel particolare compositivo, secondo due modalità stilistiche, che colgo nel rapporto allocutivo io-tu e nella relazione di somiglianza non inerente, dissimile, più che ossimorica, tra i due termini connessi. Allocuzione e somiglianza dissimile sono sintomi stilistici di tensione, inquietudine, conflitto; di stati emozionali dell’animo che, lungi dal costituire l’insieme negativo della soggettività, ne formano il lievito semantico più interessante, perché rappresentativo 24


di un senso dinamico, eccedente, sensibile, dialogico. Con la logica poetica della somiglianza l’io poetante esprime intimità ricordata e cercata, entro la cui tensione emozionale anche il dolore si concilia con il richiamo di una presenza evocata, con la funzione come catartica di continuare a donare forza vivente anche a chi muore, pur essendo stato privato della sua forza vitale. L’apparente senso ossimorico è palese, ad esempio, nella poesia Preghiera laica a ritratto di Antonio (p. 54), scritta per la morte del fratello Antonio, morto di tubercolosi appena ventiquattrenne, in cui al lamento rivolto come rimprovero dal poeta al Signore, per aver donato “nulla” allo sfortunato parente, perché dal “suo ramo giovane/disseccato i giorni della vita/quando ogni gemma prometteva un fiore”, pure si invoca il Signore, nelle strofe conclusive, perché conceda al morto, “a la sua tomba solo primavera,/sempre al suo ramo nuvole canore”. Da notare il significato ‘doppio’ di ramo, che, “disseccato”, rappresenta la vita tolta dal Signore; alla presenza primaverile delle “nuvole canore” si configura, invece, come immagine di vita naturale, physis, capace di donare il vivente alla tomba senza vita. Con quale intermediazione poetica l’autore risolve il contrasto binario, oppositivo, nei confronti di 25


un ‘donatore’ che nega e a cui, eppure, si continua a chiedere? Il ‘mistero’ espressivo forse si risolve, sul piano ermeneutico della significazione, se si focalizza l’attenzione sulla polisemia del Tu vocativo: dal Signore che ha tolto al Signore che dona è da considerare nella poesia il mutamento del nome, “mio Dio”. È nell’allocuzione d’intimità rivolta a Dio, sentito come “mio”, che si rende possibile una diversa accezione evocatica nei confronti del Donatore sacro: il quale, come Signore è padrone di non dare e, pure, di togliere il dono (nel nostro caso, la vita ad Antonio) senza tener conto della ‘non ragione’ umana dello strappo; come “mio Dio”, invece, l’Egli (del Signore) cede il posto al Tu del rivolgersi intimo, con cui l’arbitrio viene trasformato in alleanza ‘pregata’, in richiesta meritevole di merito, di esito. Il ramo disseccato torna a vivere accanto alla tomba vuota di vita, pieno di ciò che di vitale rappresenta il piacere che ‘fa’ vivere: la primavera, con i rami degli alberi diventati canori in quanto abitati dagli uccelli; con su il cielo tra azzurro e nuvole, segni di pioggia, di umidità teporosa, portatrice di vita, cioè di gemme che “promettono un fiore”. Mi piace cogliere, con il fine di additare la densità espressiva della poesia giovanile di De Donno, 26


le anomalie stilistiche presenti nel farsi testo della scrittura e pure le differenze contrastative con cui vengono rappresentate le dinamiche emozionali ‘significanti’ nel rendersi poetica la lingua; qualche esempio, a partire dai versi già citati all’inizio: le “tenebre azzurre”, che “poi salgono” durante i “crepuscoli lunghi a morire” nelle sere di Puglia. L’aggettivo “azzurre”, riferito alle tenebre, esprime la durata del giorno ritardata per i “crepuscoli lunghi a morire”: caratteristica del cielo pugliese, in cui indugia il confine tra luce e buio, così come è senza confine la bellezza tra umano femminile e natura, con i gelsomini che “auliscono perdutamente” e “a grappoli” nelle chiome delle “brune fanciulle”. Sembra una scena dipinta secondo lo stile impressionista per la dinamica delle cose che appaiono, mosse tutte dalla traduzione emozionale dell’insieme concorrere: “Attonita alle belle/stagna la meraviglia”, e però qualcosa muove la staticità dello “stagnare”. In effetti, al verbo, significativo di una immobilità passiva, si oppone (“ma”) il “tremolar delle stelle”, che è più in alto, con cui si esprime una dislocazione spaziale, con il ruolo semantico di differenziare, frammentare, in modo dinamico, una condizione di stasi a volte prevalente, che però viene relativizzata dal suo contrario. 27


Grazie alla dislocazione stilistica, con cui si diversifica il referente rappresentato, si ottiene l’effetto di una negatività risolvente contigua al suo ‘di là’ che, comunque, la contiene: un esempio significativo è dato dalla poesia Mi piace l’acqua oleosa dei porti (p. 60), nella quale, grazie alla distanza del “lontano”, è data al mare la possibilità di sembrare “più verde” (“Mi piace l’acqua oleosa dei porti./Lontano il mare sembra più verde”). Da notare il verbo copulativo “sembrare”, in alternativa alla copula ‘essere’ in funzione di predicato nominale: lontano il mare non è “più verde”, ma lo sembra. La differenza è profonda: essere avrebbe connoto una qualità cromatica consustanziale al mare (uso di essere in “relazione predicativa” come segno dell’affermazione di identità, più che di esistenza), mentre il sembrare presuppone l’intervento percettivo di un soggetto che vede, a cui il mare lontano sembra ‘impressivamente’ “più verde”. Nel sesto verso (“Nella bocca dei moli l’acqua è triste”) è usato invece il verbo essere per connotare l’“oleosa acqua” con un aggettivo metaforico, che non pertiene al mare, ma è di pertinenza di chi guarda: è in riferimento ad un io emozionale identificabile come “triste”, nel guardare il mare macchiato, secondo una condensazione metaforico-mitica di uomo e natura, uniti nell’atto impressivamente em28


patico del vedere, che connota una proiezione emotiva partecipe del “sembrare” verde il mare lontano dai porti e del suo “essere” ‘umanamente’ triste nella “bocca dei moli”. Prevalenza dell’occhio, fenomenologicamente partecipe di una “visibilità segreta”2, con cui si connota un’estensione più profonda della proiezione in empatia includente, in quanto l’acqua triste è paragonata agli “occhi d’uccello di gabbia/che son pieni di cielo imprigionato” (“nella bocca dei moli l’acqua è triste/come occhi d’uccello di gabbia/che son pieni di cielo imprigionato”). La metafora del “cielo imprigionato”, di cui sono pieni gli “occhi d’uccello in gabbia”, è compresa entro la comparazione tra l’acqua triste, imprigionata nella bocca dei moli, e l’uccello chiuso in gabbia: il passaggio logico attiene alla condizione di chiusura costretta, entro dove l’essere sostanziale delle cose cessa di sembrare per potersi concedere solo al suo essere-essente, esistente soltanto nel poter intrecciarsi con lo sguardo non indifferente dell’uomo. Che, quando sente nel modo dell’io poetante, facendo confluire il sembrare nell’essere, crea collegamenti contigui e comuni somiglianze, accorgendosi Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, tr., intr. e note di G. Invitto, Milella, Lecce 1971, p. 35. 2

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però di un residuo di differenziazione entro dove accade ‘qualcosa’ che infrange la staticità del sembrare, fino alla stabilità dell’essere ‘così’. Qualcosa di evenemenziale, che “viene” e smuove, si ribella, rispondendo al frammento non naturale: “E viene forte spasimo d’azzurro/di liquida limpidità”. La lettura ermeneutica, come considerato nelle pagine precedenti, è un lasciarsi suggerire pure dalla dinamica grammaticale e lessicale del significante, materialità linguistica ‘in forma’, compositiva, del senso nel suo diventare rappresentazione ‘entro’ il ‘farsi testo’ del linguaggio poetico: lo “spasimo” viene, non accade casualmente. Il verbo venire sottintende un’intenzionalità essotopica, perché non anonima, non fredda contingenza al di fuori di un giungere alla meta. Lo “spasimo” è contrazione causata da emozione: non è crampo, ma tormento che ‘parla’ da dentro la cosa in cui si manifesta, esprimendo uno strazio, uno scempio: è segno simbolico, in quanto di “grado composto”, ricevendo il significante il contenuto espressivo del significato, a sua volta designatore di un altro senso, che “può essere raggiunto solamente nella sua mira e per mezzo di questo”3. 3

P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, il melangolo,

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La polisemicità dello “spasimo” trova determinazione nell’azzurro, nel ruolo grammaticale di complemento di specificazione (“spasimo d’azzurro”), a sua volta delimitato come liquidità contenente, che il significato del lessema “limpidità” sublima e caratterizza: nello spasimo non c’è da cogliere dolore, ma moto liberatorio (in effetti, lo “spasimo d’azzurro” ridona la limpidità che “l’acqua oleosa dei porti” negava), coesistente però con il soffrire, addirittura con la morte, considerata pure come attrazione non tragica, ma transfert fusivo, per il quale il morire non è distacco, separazione, bensì unità evocatrice verso chi, attraendo, motiva la fine. La morte addirittura come identificazione con l’altro, simbolicità dell’essere altro che, attirando, assorbe. Così accade alle falene, ad esempio, che “morivano/pazze di luce alla nostra lucerna”. Il possessivo “nostra” evoca la relazione intima io-tu, a cui chiedere nel presente la certezza del ricordo (“Ricordi le falene che morivano/pazze di luce alla nostra lucerna?”): il tempo presente è ricordo narrativamente lirico di un “esulare dell’anima dagli occhi”, ossia di un essere fuori essotopico dell’anima, che non si immedesimava nella situazione di “pena nella tenebra”, di “silenzio”, di cui “la notte ci Genova 1991, p. 26.

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fasciava”, di “pallore” e di “bianco”, con cui erano connotate la “tua mano tanto pallida” e le “labbra bianche” con le quali “ti parlavo”. La spiritualità intima della poesia è ravvisabile pure nell’“animazione delle preposizioni” e nell’uso connotativo dell’aggettivo, esteso a determinare una comune appartenenza al colore pallido-bianco del non ancora morte: in effetti, “la notte ci fasciava di silenzio” (e non con il silenzio) dona modalità interiore alla notte, fatta di silenzio, pertanto vissuta come concavità silenziosa. Confesso che ho ‘praticato’ poco prima un arbitrio di lettura nell’aver trasformato in sostantivi gli aggettivi “pallido” (“la tua mano tanto pallida”) e “bianco” delle “labbra bianche”, del verso “Io ti parlavo colle labbra bianche”: in realtà, rende più intima la connessione aggettivale, contagiando con il suo cromatismo di un biancore malaticco la mano di lei che accarezzava e le proprie labbra, con cui “io ti parlavo […]/ti consolavo della mia tristezza”. E però da questa situazione di unità notturna e tenebrosa si esce grazie ad un ‘di là’, che è motivato dall’“esulare l’anima dagli occhi”, gesto ‘esule’ che unisce l’io e il tu (in effetti, nel primo verso della seconda strofa l’esulare dell’anima interessa il tu, mentre nell’ultimo verso conclusivo la ripetizione delle parole presenta soltanto la variazione 32


del pronome personale: “e m’esulava l’anima dagli occhi”): l’unione è giustificata come contiguità di corrispondenza, sorretta in forma paratattica, senza riferimento ad una eventuale logica esterna di causaeffetto, per cui la tua pena “vaniva” nella tenebra e “ti consolavo” della mia tristezza. Come si nota, lo stile prevalentemente verbale della poesia giovanile di De Donno esprime una situazione di risposta ‘agente’ alla “condizione di pena”, con l’esaltazione di un vicinato intimo di trascendenza umanamente interiore, che interessa l’anima ed il suo “esulare” dagli occhi, non più veicoli volitivi di constatazione, così come la sostanza della “limpidità”, che nel suo fluire lieve, perché liquida, è capace di ‘sentire’ ciò che è mare e non solo mare, in quanto partecipe del sentimento antropomorfico di uno “spasimo d’azzurro”. Un’altra precisazione ermeneutica va fatta, a proposito di queste poesie segnate dalla prevalenza del verbale sullo stile nominale, ed è l’uso frequente oltre che del tempo narrativo dell’imperfetto, anche del modo infinito dell’azione verbale, con cui si significa una condizione agente non sostanziale, ma esistenziale, indeterminata, in cui il morire ed il soffrire sembrano essere non effetti di un destino, bensì decisioni di un volere intimo a cui accede di sua iniziativa ‘partecipe’ l’io del poeta: 33


“Dimenticare nel cuore/la piccola vita,/per morire coll’incenso/a dolci terribili piaghe,/a un acuto soffrire di profumi”. L’intimità dell’animo, quando si affida allo stile verbale del significare, non costruisce analogie, ma situazioni ‘attive’ di risposta, entro cui ha ruolo espressivo significativo lo scambio metaforico tra uomo e natura ed il rivolgersi illocutivo del poeta, interessato a un tu intimamente interiore, come quello femminile-materno rivissuto nel ricordo, oppure quello infinito, indeterminato, che ha Dio come soggetto del rivolgersi, soprattutto nelle situazioni estreme di non comprensione intelligibile. Ne è esempio la già citata Preghiera laica a ritratto di Antonio, in cui compaiono termini densi di significato, come azzurro, limpidezza, silenzio, che rendono drammatica, ma non tragica, la disperazione per la morte del giovane fratello, comunque significata poeticamente secondo una logica affidata non al significato di una parola, bensì al significante di un avverbio composto, “almeno”, con valore ottativo. La morte contiene in sé un “almeno” di promessa, formulato come preghiera, secondo il desiderio intimo del non tutto perduto nel nulla: come se l’intimità lirica compensasse una promessa tradita (“[…] Signore, per il molto/canto promesso e il nulla che gli 34


hai dato”), e però ricordata come impegno illocutivo perché anche dal silenzio di Dio possa non scaturire la conseguenza di una sua indifferenza. La tomba può trasformarsi non in nulla, ma in “primavera” donata dal Signore, così come il “sepolto” non in cadavere, bensì in cuore accarezzato dal “caldo di mamma”: il caldo materno “carezza”, il tepore della primavera “canta”. L’intimità umana e naturale è metaforizzata come un ‘al di là’, che non significa distanza del cielo, ma vicinanza vivente di un Dio, a cui si chiede in preghiera di “concedere”, pur nella fredda tomba, i doni intimi del calore nel tempo dell’“adesso” e con la logica residua dell’“almeno”. L’intimità del cuore offre, sulla scena della rappresentazione del dramma interiore, il Tu di Dio, anche quando la ragione nel non capire vorrebbe negarlo, constatandone il silenzio a contatto del vivere ‘non’ conseguente: pascaliana ‘scommessa’ dell’esprit de finesse che ‘parla’, dal tacere ‘logocentrico’ dell’esprit de geometrie. Nella poesia giovanile di De Donno è possibile ritrovare le tracce di molte letture di poeti e filosofi, a cominciare da Foscolo, Leopardi, Mallarmé, Rilke, Pascoli, Ungaretti, Schopenhauer e tanto Pascal. Ma non è con il richiamo alle fonti che voglio conclude35


re questa riflessione: si sa, la scrittura è possibile se è preceduta dalla lettura, essendo scrivere e leggere due pratiche modellizzanti profonde. Mi preme, invece, riconoscere in questa poesia giovanile di De Donno un paradigma immaginativo, estetico, che ritornerà nell’intera sua opera poetica: ritorno non passivo, ma ovviamente rivisitato da altre letture maturate negli anni, come quelle di Marx, Gramsci e dello storicismo dialettico, con interesse antropologico. In effetti, il poeta magliese è stato lettore di C. Lévi-Strauss, E. de Martino e C. Tullio-Altan: si può considerare l’antropologia culturale base ispirativa di una possibile antropologia poetica dedonniana, a cui richiamare i molti poeti dialettali del Novecento, ben conosciuti da De Donno: in particolare, V. Giotti, D. Tessa, E. Firpo, G. Noventa, A. Pierro, P.P.Pasolini, I. Buttitta, P. Gatti, E. Caputo. Mi permetto, argomentando solo per accenni, e riferendomi a quanto prima rilevato riguardo alla poesia del poeta salentino ‘da giovane’, di riconoscere nel ‘di là’ essotopico il germe temporale della possibilità, che diventerà nelle poesie scritte successivamente sogno utopico di una società migliore da realizzare in un tempo prossimo; lo stile verbale, prevalente su quello nominale, verrà tradotto nei te36


sti dell’età matura in tensione e lotta perché l’utopia possa essere nel futuro attuata. Il tu illocutivo, inoltre, sarà dal poeta configurato con il tu-noi degli uomini presenti nella storia, insieme con i quali il poeta intenderà “ricomporre l’infranto” della “catena degli eventi”, visibile tramite lo sguardo lirico-ermeneutico della poesia come “una sola catastrofe”4. Anche la “liquida limpidità”, effetto dello “spasimo d’azzurro”, costituisce un seme immaginativo che si ritroverà come traccia augurante nel riferimento poetico ad un’etica sociale, che possa preferire all’inquinamento dell’“acqua oleosa dei porti”, alla gabbia da dove guardano occhi “pieni di cielo imprigionato”, una limpidità più verde ritornata nel mare; un cielo più azzurro con cui rimandare, far ritardare le tenebre. Un altro motivo ‘germinale’, presente nei versi giovanili, addirittura sarà alla base della scelta linguistica dell’intera opera poetica di De Donno: la poetica dell’intimità, raffigurata, in particolare, con l’immagine del “caldo di mamma che carezzi il cuore” e con quella della “mano tanto pallida” del tu materno, al quale parlano le “labbra bianche” dell’io poetante, W. Beniamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a c. di R. Solmi, con un saggio di F.Desideri, Einaudi, Torino 1995, p. 80. 4

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nel mentre “ti consolavo della mia tristezza”, determinerà la decisione di scrivere nella lingua dialettale magliese (“dialetto di Maglie nel Salento”), lingua materna del natìo, dunque lingua d’origine con cui esprimere l’identità antropologica, tutt’una con l’esistenza espressa dalla poesia dialettale, dal momento che, come scriverà il poeta in Dialettu e ppuisìa, testo raccolto in Palore (1999): “[…] ognasciu a lli dialetti,/comusìa nu mìraculu, l’è vvia,/verità, vita l’è, la puisìa:/puisìa de cose comu vinu e ppane/e ffantasticarìe […]” (“dovunque ai dialetti,/come sia un miracolo, gli è via,/verità, vita gli è, la poesia:// poesia di cose come vino e pane/e fantasticherie”)5. La scelta nasce dalla constatazione che alla lingua nazionale ormai logora (“la lingua cunzumata, nazziunale”6), il poeta deve rispondere con parole che accendano comunque un senso, capace di contenere e donare, pur nella durata di un attimo, “almeno” il sapore dell’eternità: “[…] ca a ll’àttimu se llùdune sapore//de eternità. E sse ancu su ppalore/ c’àune mmurire comu tuttu more,/ogne ucerneḍḍa è llampiune a llu scuru.” (“nell’attimo si illuminano col sapore//di eternità. E se anche sono parole/che N. G. De Donno, Palore (1988-1998). Poesie in dialetto di Maglie nel Salento, postf. dell’editore, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1999, p. 26. 6 Tiempu era, in Ivi, p. 33. 5

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hanno da morire come tutti muore,/ogni lucciola è lampione nel buio”)7. Certo, l’eternità può essere solo la densità di un percepire, così come in Leopardi lo “stormir tra queste piante”: a meno che in essa non sia compresa la memoria, soprattutto quando il tempo evenemenziale scrive fino al cuore momenti tragici come la morte di una persona cara, evento che non scorre nel fluire del tempo, perché non passa, fermando ‘di là’ pure la vita di chi rimane: “Ete ca, frate meu, cu ttie murìu/la vita mea de dopu […]” (“È che con te, fratello mio, morì/la mia vita di dopo”)8. Reincontriamo il dolore, per il tramite della memoria-scrittura presentificante della poesia, in un nuovo componimento dedicato alla morte del fratello Antonio, scritto il 26.4.1975, compreso nella raccolta mumenti e ṭṭrumenti, in cui si esprime un senso intimo di estraneamento in chi vive dopo la morte dell’altro, il quale affonda, mentre chi continua a vivere “rresta galleggiatu” (“resta a galla”)9. Come sopravvissuto, però, di un vivere alienato, spaesato, “a nn’acqua can u è mmea, senza na zzàtPalore, in Ivi, p. 27. N. G. De Donno, Ntoni, in mumenti e ṭṭrumenti, intr. di M. Corti, Manni, Lecce 1986, p. 45. 9 Ibid. 7 8

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tera” (“in un’acqua che non è mia e senza zattera”)10: il problema esistenziale più tragico per chi rimane è come ottenere la “concessione” di un “almeno”, che nella poesia giovanile Preghiera laica a ritratto di Antonio è configurata come “caldo di mamma” e primaverile ramo di “nuvole canore”. Nel poeta sopravvissuto nel tempo successivo, che sì passa come tempo dell’accadere, ma non come temporalità lirica del sentire, rimane una spitzeriana “ricreazione sentimentale” dell’avverbio “almeno”, che faccia da sfondo evocativo (oltre ogni significato determinato) nel suo sottinteso dialettale: il tepore dell’intimità materna e della natura è dato dalla parola archetipa del dialetto del paese natìo, che almeno “carezza il cuore” e “canta” nella primavera di un ramo. Da dove vedere-sentire “nuvole canore”, alternativa simbolica al naufragio del senso della lingua “nazziunale cunzumata”, priva pertanto di zattere semantiche evocative, in un’acqua “ca nu è mmea”, perché non c’è richiamo. Manca insomma l’azzurro, che faccia “almeno” ritardare le tenebre: magia dei “crepuscoli lunghi a morire”, da vivere-ricordare solamente nelle lunghe “sere di Puglia”. C. A. Augieri 10

Ibid.

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Poesie*

* Pubblicate su «Note di storia e cultura salentina», XIII, 2001.



Sera magliese d’agosto

Crepuscoli lenti a morire, poi salgono tenebre azzurre. E i gelsomini auliscono a grappoli intrecciati fra i capelli delle brune fanciulle. Attonita alle belle stagna la meraviglia nella raggiera bianca delle ciglia. Naviga in cielo, polverio di stelle. (1939)

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… Pure, amica, cos’è questa vorace

… Pure, amica, cos’è questa vorace voglia di pianto giovane, questo vento d’infanzia che carezza i miei capelli spogli di saggezza, d’un tratto nuovamente fatti morbidi da un desiderio, quasi, di dormire?

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Russia

Dolce pianura russa piana di tempo e d’erba dispogliata di segni per dolcezza, e correre delle ore come piste. Carri fioriti di bassorilievi come sarcofagi ti traversano, cui l’uomo in vetta è piano come un legno di facile pasta.

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Commiato

Cadon le stelle tutte dal mio cielo ad una ad una, finchè non è vuota la vasta solitudine che resta. Non ricordo le mani di mia madre, non ricordo il mio volto di fanciullo, non ricordo la soglia della casa dove, certo, son nato. Il mio dolore ti porterò, mio Dio che non conosco, il giorno, forse, che mi chiamerai. Ti chiederò perdono di esser nato.

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Forse la stessa luna che stasera

Forse la stessa luna che stasera ha fermato nel cielo le colline con tanta fissità che pare fiaba, naviga verso te con la sua luce, là, sulle folte balze a specchio d’acqua dove ha nido la casa che t’accoglie. Ignara tuttavia della tua carne tu respiri il tuo sonno di fanciulla col viso bianco dentro i tuoi capelli. Né conosci la gloria che si celebra sopra il tuo capo, chiara, nella notte, né sai che il lento amore della luna - dorandosi il tuo sangue come un latte più mansueto nelle care vene ti dischiude un mistero sulla fronte.

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Nell’eletta regione della piazza

Nell’eletta regione della piazza la bruma di città lascia una plaga libera, e qui le pietre somigliano carni brunite di sole, ma in tempi lontani: tre occhi di portico s’aprono. Tu sei preziosa nella veste semplice come un oggetto antico porta incisa nella sua nobiltà la giovinezza. Cos’è dunque il passato? Io ti rivedo, limpida come un’acqua, misurare i tuoi gesti nel saluto: dolcemente m’illumino al tuo fianco. Quasi non fossi più solo con la mia fronte, solo con questa pagina che attende ciò che non può colmarla, quasi presente non mi dolga in cuore 48


l’oasi soave delle care mani, felici – le conosco – sotto un cielo che irrimediabilmente mi è straniero.

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Ecco, la conosciuta

Ecco, la conosciuta forma domenicale ritornare al paese, rumorosa di bimbi e di campane: tutto di là dai vetri. Io, sempre teco, in questo vuoto solco che il tempo gocciolando mi discava e dove lungamente si dissangua. Vieni, dunque, ritorna. E chi saprà, se non sei tu, soffrire la mia morte in questo lungo, vuoto desiderio, tenére la mia fronte nelle palme come frutto maturo del dolore sofferto al mondo, chi saprà disciogliere questo circolo d’arido che chiude e il caparbio silenzio che consuma?

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O non sei piÚ chi sa trasfigurarsi l’anima in una fiamma coraggiosa, chi, spogliata di carne alla sua pena, si fa, di donna, solo trasparenza?

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Cangia più chiaro il vento sugli ulivi

Cangia più chiaro il vento sugli ulivi della mia terra magra il magro argento delle foglie e ne càlcina le pietre, barbaglio biancazzurro nell’arsura. Quale terra è più terra di misura di questa piana, secca di gramigne, d’acuti dumi e d’amarogne mente? Qui dagli scarni tufi onnipresenti nuda ed esatta si esprime la vita, ogni cosa all’essenza si conforma. In quelli trova il tempo la sua norma, fermo all’eta dei padri, che ritorna ad ogni giro nuovo di stagione come un sangue medesimo alla vita. La cupola del cielo, definita in ogni più lontana risonanza dall’eterno, geometrico, solare canto delle cicale primigenie, conchiude l’inflessibile orizzonte.

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Dove, ogni chioma d’albero è una fronte ostinata nel campo di un pensiero: una scelta e scontata fissità. Da la quale stranieri, noi domani, noi domani saremo ancora e ancora vulnerabili ancora in questo mondo. Tu, la cui carne tiepida scolora sul pelo della vita ogni giocondo soffio, tu stagno di vita animale, io, col mio corpo di povero sale, a illudermi, stillandone parole, di dar sapore d’alga a ogni rigagnolo.

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Preghiera laica a ritratto di Antonio

Se dal suo ramo giovane, Signore, hai disseccato i giorni della vita quando ogni gemma prometteva un fiore; se alla sua sete d’ali consentita dell’azzurro non fu che la speranza, più amara tanto, quanto più fu ardita; mio Dio, per ciò di lui che solo avanza a chi lo amò cantante giovinezza: la pallida ed avara ricordanza; per la sofferta, amante limpidezza del suo silenzio, aggiunto alla sua croce anche a moltiplicarne l’amarezza; per l’agonia del tempo ne l’atroce vuoto di solitudine accettato, sola compagna, e nuda, la sua croce;

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mio Dio, per ogni dono che donato non gli fu mai, Signore, per il molto canto promesso e il nulla che gli hai dato, concedi adesso almeno che, sepolto, caldo di mamma gli carezzi il cuore, vento d’infanzia gli distenda il volto nel bianco sonno: donagli, Signore, a la sua tomba solo primavera, sempre al suo ramo nuvole canore. Per noi, la nostra vita come cera consumi sull’altare quotidiano delle memorie – fin che giunga sera, e venga buio, e tu non sia lontano.

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Poesie*

Conservate nel Fondo “Oreste Macrì” (presso il Gabinetto Scientifico Letterario “G. P. Vieusseux”, Firenze). *



Ricordi le falene che morivano

Ricordi le falene che morivano pazze di luce alla nostra lucerna? E t’esulava l’anima dagli occhi, vaniva la tua pena nella tenebra. La notte ci fasciava di silenzio, più su le stelle vivevano immobili. Ricordo la tua mano tanto pallida. Io ti parlavo colle labbra bianche ti consolavo della mia tristezza, e m’esulava l’anima dagli occhi.

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Mi piace l’acqua oleosa dei porti

Mi piace l’acqua oleosa dei porti. Lontano il mare sembra più verde, più brune le grandi chiazze d’alghe. E il curvo catrame rende bianche le vele spiegate. Nella bocca dei moli l’acqua è triste come occhi d’uccello di gabbia che son pieni di cielo imprigionato. E viene forte spasimo d’azzurro di liquida limpidità che attiri a morte di polpi.

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Un grigio in vari toni pei lungarni

Un grigio in vari toni pei lungarni, vaporano le case senza riflessi nella corrente. E il fiume è silenzioso ai piloni dei ponti. Più là grigio viola di monti, grigio turchino il cielo. E le donne che passano senza rumore lungo l’argine curvo sono chiuse nella pelliccia, gelose di un lor segreto. Mi si scioglie nel cuore Pisa di questi pomeriggi, e la gamma dei grigi senza luce l’ho dentro in vero amore. Santa Maria della Spina è così piccola cosa coi suoi brividi di marmo ch’io ne sento pietà. 61


Mi sbocciava il mistero dalla bocca

Mi sbocciava il mistero dalla bocca, vago timore nell’anima dolce d’abbandonarsi a nuvole d’incenso con i ceri che ardono negli occhi e la bella Madonna trasognata d’un serto di rose. Dimenticare nel cuore la piccola vita, per morire coll’incenso a dolci terribili plaghe, a un acuto soffrire di profumi.

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Fossimo soli, lontani da tutti

Fossimo soli, lontani da tutti, tra cielo e mare candida la vela, sorgendo azzurra da oriente la sera a guardarci coll’occhio della luna. Come soave la tua mano e bianca tra i miei capelli! come, come stanca posar la testa sopra i tuoi ginocchi e navigar cosÏ tutta la notte. Tutta la grande notte armoniosa navigare cosÏ, gli occhi negli occhi, smarrito dentro al vasto plenilunio che splende calmo nelle tue pupille. Navigare cosÏ tutta la notte!

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Io vissi non so quali vite

Io vissi non so quali vite. Di continuo ne affiorano ricordi a fondo dell’anima: pullula meraviglia. Un uomo che non conosco parla sepolto nelle mie tenebre oscure parole di nebulosi passati. Barche pigre su fiumi a filo di corrente, io le ho navigate non so dove non so che barche. (Paesaggi si delineavano di climi ignoti, primitivo stupore di pupille).

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Misteriosi timori la notte mi risvegliano fuochi di bivacco selvaggi riflessi di fiamme negli occhi, e lunghe corse a piedi di velluto sotto geli di luna. Un sussulto nel sonno è un chiudersi sonoro di mascelle su urli senza voce. E talvolta in chiesa io mi smemoro in culti a orribili dei.

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Lunghi fantasmi custoditi nell’anima

Lunghi fantasmi custoditi nell’anima. Ora è il deserto e cadono silenziosi, quasi rimpianto non lasciano, stupore d’aridità infinita. Andremo coi lumi tristi della strada, misere ombre monotone rassegnate lungo i muri, senza traccia di passi. Soli, e coi lunghi fantasmi che nutrii per offrirti stecchiti fra le mani.

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Tra la gran folla delle vie rilucenti

Tra la gran folla delle vie rilucenti che specchiano incerti fanali lontano sotto i piedi, son solo più che mai. Volti chiusi nel loro giro, con vita non mia, con passato che non so, mi s’aprono come marea, timorosi di toccare la mia solitudine. Naufragio di frasi mi ronza all’orecchio. Una lucida automobile con dietro ai vetri un profilo di donna se passa con urli di sirena si porta dietro vuoto di pensieri a lungo nella sua scia. Ma è anch’essa sconosciuta.

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Quando la vita è colma

Quando la vita è colma, quando il dolore si fonde e la gioia nel cuore come vini spumanti nel calice vertiginoso, allora morire. È colma la vita s’io senta tremare il tuo braccio al mio fianco. E mugghia sulla nostra testa la massa nera dei pini, oscura materia in tempesta, tormento d’esistere. Ma più in alto il cielo infinitamente s’incurva nei tuoi occhi nei miei occhi, Simonetta.

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Chi conosce i meriggi di agosto

Chi conosce i meriggi di agosto in Puglia e il silenzio che pesa posato sui fichi? Scalzi uomini dormono a bocca socchiusa con un solo filo d’ombra sulla faccia. Pare si fermi il tempo ucciso dalle cicale. Quasi salgono nebbie di follia se si pensi a un filo d’acqua finalmente non calda.

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I fichi son chiusi di foglie

I fichi son chiusi di foglie nere pendenti come mani solitari nei campi come per crudele destino. Pesano nei meriggi sulla terra una calda ombra nera assordata di cicale. A sera se c’è la luna sono neri impenetrabili nel bianco irreale. Ma pure ti dan l’impressione che sentan richiamo lunare impetrati nello sforzo di sradicarsi d’un colpo verso l’alto. E la loro condanna desta oscura pietà.

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Crepuscoli lunghi a morire…

Crepuscoli lunghi a morire… poi salgono tenebre azzurre… sere di Puglia! E i gelsomini auliscono perdutamente, a grappoli recisi nei capelli delle brune fanciulle. Attonita alle belle stagna la meraviglia nella raggera bianca delle ciglia. Ma c’è più in alto tremolar di stelle.

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Le stagioni del mare

Inverno Il mare nero cova nel profondo tra sabbie calde valve di conchiglie: io le guardo con occhi di mollusco. Primavera Vento di mare mi pettina l’anima con penne di salsedine. Ogni onda ha una vela di schiuma: il mare è fiorito di vele. Inzuppa il vento l’apice dell’ali. Estate Il mare nel meriggio è tutto mio, deserto mare placido da spaziarci coll’anima. Solo il volo solenne dei gabbiani ha spire larghe come il mio respiro.

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Autunno Placa il mare le spiagge disertate con onde larghe piane come lingue. Passan carezze sopra i miei pensieri.

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Postfazione



Con il titolo Iuvenilia tantum, Nicola G. De Donno pubblicava, su «Note di Storia e Cultura Salentina», nove sue poesie giovanili in lingua italiana1. Di queste, una (Sera magliese d’agosto) recava in calce l’anno di conseguimento della licenza liceale (1939), sette (…Pure, amica, cos’è questa vorace; Russia; Commiato; Forse la stessa luna che stasera; Nell’eletta regione della piazza; Ecco, la conosciuta; Cangia più chiaro il vento sugli ulivi), risalenti ai mesi forzosamente trascorsi a Milano (1945)2, eraN. G. De Donno, Iuvenilia tantum, in «Note di Storia e Cultura Salentina», XIII, 2001, pp. 207-213. 2 Nella primavera 1945, De Donno era a Milano, presso la famiglia Mariano, impiegato quale segretario dell’Associazione Nazionale Combattenti. Lo stesso ruolo aveva ricoperto a Stresa (Verbano-Cusio-Ossola), nel maggio 1944, e a Gavardo (Brescia), dall’ottobre del 1

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no state «ripescate» (per usare la sua stessa espressione3) dalla corrispondenza intercorsa con l’amico normalista Edoardo Taddeo, un’altra (Preghiera laica a ritratto di Antonio) era stata composta (e riportata a corredo della tesserina funebre), in occasione della prematura, e dolorosa, morte del fratello Antonio (1950)4. La silloge costituiva porzione di una più vasta produzione poetica in lingua italiana, in parte andata perduta (anche in Russia5, nella tragica, disastrosa, ritirata dal Don6) e in parte «allora» data «in visione 1944 al marzo del 1945, dopo essere rientrato in Italia, nel febbraio 1943, dal fronte russo: qui, con il grado di sottotenente, aveva partecipato alle operazioni di guerra, aggregato al 63° Btg. AA. R.E. mobilitato. 3 N.G. De Donno, cit., p. 208. 4 Antonio De Donno (Maglie, Lecce, 12 luglio 1926 – Sondalo, Sondrio, 18 febbraio 1950), quarto figlio di Camillo Annibale e Rosa De Donno, era morto di tubercolosi, lontano dalla famiglia, dopo tre anni di cure a Roma e Sondalo (Sondrio). 5 Di tale circostanza vi è traccia nella lettera inviata da De Donno a Oreste Macrì con data 17 febbraio 1943, in cui due quaderni di poesie, persi in Russia, sono definiti «molto cari alla segretamente carezzata immagine di me. Vanità». Cfr. C. Gentile Carlotta, Nicola De Donno: documento storico e testimonianza umana, in A. Dolfi (a cura di), Lettere a Simeone: Sugli epistolari a Oreste Macrì, Bulzoni, Firenze 2002, p. 126. 6 Coinvolto nella seconda battaglia difensiva del Don del dicembre 1942 e ferito ad una gamba nel corso della conseguente ritirata, De Donno aveva partecipato, nell’impossibilità di un ricovero immediato, ai com-

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all’amico Oreste Macrì» e conservata «tra le sue carte, rimaste a Firenze»7. L’invio dei testi poetici all’amico lontano8 aveva inaugurato una consuetudine rimasta, pur con solubattimenti della sacca di Cercovo, riportando, per «fame, freddo, perdita di sangue», il congelamento di III grado agli avampiedi. «Sfuggito con pochi alla morsa dell’esercito Russo e rimpatriato» aveva subito, presso l’Ospedale Militare di Carreggi di Firenze, dapprima l’amputazione bilaterale delle falangi dei piedi (marzo 1943), e poi altra operazione chirurgica per un ascesso da congelamento, che lo aveva ridotto in fin di vita (aprile 1943). L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo aveva sorpreso nel letto del Centro Ortopedico per mutilati Putti di Bologna, dove, nel luglio dello stesso anno, aveva subito l’amputazione bilaterale dei metatarsi. Cfr. la lettera inviata da De Donno al Prof. Alessandro Perosa con data 30 giugno 1945, in M. Mondini, Generazioni intellettuali, Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918–1946), Edizioni della Normale, Pisa 2010. Gli eventi bellici e quelli successivi all’armistizio lo tennero, quasi ininterrottamente, lontano da casa e dagli affetti familiari, sino al luglio 1945. 7 N. G. De Donno, cit., p. 207. Il termine «rimaste» è correlato al fatto che il vasto e prezioso archivio di Macrì – unitamente all’abitazione, a una ricca collezione di quadri e ai quasi 17.000 volumi della sua biblioteca – erano stati oggetto di lascito ereditario in favore del Gabinetto Scientifico Letterario “G. P. Vieusseux”, Firenze. 8 Conseguita, nel 1934, la laurea in Filosofia presso l’Università di Firenze, Macrì aveva insegnato Materie letterarie dapprima al Ginnasio Inferiore delle Scuole “Pie Fiorentine” (1934-1938) e subito dopo al Liceo Ginnasio “F. Capece” di Maglie (dove, per breve tempo, aveva avuto De Donno come allievo) nonché alla Scuola media “Santafiora” di Parma, per poi assumere, a Torino, l’incarico di libero docente in Lingua e letteratura spagnola (1942), prima delle peregrinazioni legate alla guerra e al definitivo approdo all’Ateneo fiorentino.

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zioni di continuità, costante nel tempo9, a corollario di un solido, se pur dialettico (e, talvolta, acceso e contrastato) colloquio intellettuale10, con, sullo sfondo, un’antica amicizia profondamente e saldamente radicata su un comune sentire11. È stato così possibile reperire, nel Fondo Oreste Macrì (O.M. 4a. 84.10), conservato presso il Gabinetto Scientifico Letterario “G.P. Vieusseux” di Firenze, altre (rispetto a quelle già pubblicate)12 tredici poesie giovanili: [Ricordi le falene che morivano]; [Mi piace l’acqua oleosa dei porti.]; [Un grigio in vari toni pei lungarni,]; [Mi sbocciava il mistero dalla bocca,], [Fossimo soli, lontani da tutti,]; [Io Cfr. C. Gentile, cit, p. 109. «Nel carteggio De Donno-Macrì vediamo […] concentrati negli anni Settanta gli scambi di opere tra i due studiosi: assieme alla lettera dell’8 febbraio 1972 Macrì riceve infatti i sonetti dialettali di De Donno; da quel momento in poi, fino al 28 maggio 1997, il poeta magliese invierà continuamente i suoi componimenti all’amico lontano». 10 La lettera datata 10 ottobre 1994 e inviata da Macrì a De Donno ‒ poi pubblicata nel saggio Dialetto e poesia in Nicola Giuseppe De Donno in O. Macrì, Poeti del Salento, Comi∙Pierri∙Bodini∙De Donno, a cura di V. Scheiwiller, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1997 ‒ reca uno studio critico su N.G. De Donno, Lu Nicola va a lla guerra, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1994). 11 Ne costituiscono specchio e testimonianza i corposi carteggi De Donno-Macrì e Macrì-De Donno, che coprono un arco temporale di circa sessant’anni. Cfr. A. Dolfi, cit. 12 N. G. De Donno, cit., pp. 207-213. 9

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vissi non so quali vite.]; [Lunghi fantasmi custoditi nell’anima.]; [Tra la gran folla delle vie rilucenti]; [Quando la vita è colma,]; [Chi conosce i meriggi di agosto]; [I fichi son chiusi di foglie]; [Crepuscoli lunghi a morire...]; Le stagioni del mare. I tredici componimenti, riprodotti su altrettanti fogli dattiloscritti, in ragione della qualità della carta, delle caratteristiche dattilografiche e del tratto delle non poche correzioni manoscritte, appaiono databili tra gli anni del liceo (1937-1939) e quelli del primo (19391940) e secondo (1945-1946) soggiorno pisano13. Erano gli anni che concludevano e seguivano una formazione scolastica che aveva «patinato di nazionalismo» un’intera generazione, gettandola, appena ventenne, nella «fornace della guerra»14. Ed erano anche, per De Donno, anni di «letture, e più che altro di Benedetto Croce e degli ermetici, De Donno aveva vissuto a Pisa, studente della Scuola Normale Superiore, dall’autunno 1939 al dicembre 1940; la sera del 10 giugno 1940 aveva presentato al locale Distretto Militare domanda di arruolamento volontario in guerra. Dopo la parentesi della guerra era rientrato, nella stessa Scuola, nell’autunno 1945, per poi laurearsi con lode in Filosofia, il 15 luglio 1946, discutendo ‒ relatore Cesare Luporini ‒ la tesi I Pensieri di Pascal. La poesia Un grigio in vari toni pei lungarni, contiene un esplicito riferimento a Pisa. 14 N. G. De Donno, manoscritto inedito del 1978. 13

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studiati abbastanza, il primo senza guide, i secondi sotto la suggestione di Oreste Macrì (erano gli anni della sua parentesi di insegnamento al ginnasio di Maglie)»15. Letture, queste, fortemente volute nel «letargo intellettuale» del servizio di guerra16 e fedelmente praticate, per quanto possibile, anche nelle tragiche contingenze degli eventi bellici al fronte, come attestato dalla lettera dell’11 dicembre 1942, in cui De Donno informava Macrì di aver ricevuto, da Luparia, cugino di Leone Traverso, ed anch’egli sul fronte di guerra russo, molti testi pubblicati in Italia (a cui guardava con commozione, poiché «sono a me secoli di lontananza»17), confidando18, nella ingannevole quiete delle ore notturne, in una (forse più avvertita) vicinanza spirituale dell’amico lontano, N .G. De Donno, manoscritto inedito. Lettera di De Donno a Macrì del 2 agosto 1942, in C. Gentile, cit., pp. 127n. e 128n.: «Ho bisogno di libri. Dopo due anni che dormo, stanotte non posso dormire perché ho bisogno di libri. Vieni a portarmene […]». 17 Lettera di De Donno a Macrì dell’11 dicembre 1942, in Ivi, pp. 125-126. 18 Ivi, p. 125: «Caro Oreste, ora che ti scrivo annotta in questa camera, ho appena acceso il lume ed è già l’ora più mansueta e desolata, più calda e più disumana, l’ora più idonea alla cara ipocrisia delle confessioni». 15 16

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quasi «un cullarsi in un fugace attimo di dolcissima umanità sconfessata poi dalla brutalità del giorno e della guerra»19. Tra questi libri vi erano gli Ossi di seppia di Montale, che avevano suscitato in De Donno domande ed interrogativi («Perché tanto amore, ore di sangue su quella poesia, e tale profondissimo scoramento da essa, tanta sfiducia nei mezzi miei, nei fantasmi miei che pure mi parvero colorati e le loro vesti son cenci dimessi da altri al vivo contatto di una pietra di paragone?»), accompagnati dal contrasto tra la sfiducia nelle proprie capacità ed il desiderio di affermarsi come poeta («son sincero […] e realmente combattuto tra questi poli della furia e dello scoramento»), tra l’apatia e la voglia di creare, supportata sempre da «grande fede e ricerca»20. Domande ed interrogativi che avevano anche segnato i mesi sofferti delle degenze ospedaliere, e le lunghe ore trascorse immobilizzato in un letto «che è il mio mondo rettangolare – un po’ bara e un po’ ovile ove s’annidano impulsi forti a vivere»21, tra «disgusto Ivi, p. 126: «Tutta stanotte e stamane s’è cannoneggiato e abbiamo avuto in un solo battaglione trenta morti e settanta feriti». 20 Ibid. 21 Lettera di De Donno a Macrì del 11 marzo 1943, Ivi. p. 93. 19

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di vita attiva» e «frenetico desiderio di movimento e di libertà – e di amplificazioni letterarie di essa»22. Ed in risposta ai quali l’amico fedele non aveva fatto mancare la sua voce: «Purtroppo debbo confessarti che in questi ultimi anni la poesia è quasi inerte (dal ’39) […] Ma tu pensa a te e a quel che singolarmente e intimamente vali»23. Quarant’anni più tardi, quelle lettere del giovane De Donno sarebbero tornate tra le mani dell’«umile critico», che, con esse, avrebbe riletto le «notevoli»24 poesie in italiano. D. De Donno

Lettera di De Donno a Macrì del 23 febbraio 1943, Ivi, p. 127. Lettera inedita di Macrì a De Donno del 23 giugno 1943. 24 Lettera di Macrì a De Donno del 24 aprile 1982, inedita: «Sto ordinando la corrispondenza e ho messo da parte molte tue lettere e poesie in italiano, notevoli; documenti importanti per la tua biografia. Così ho fatto per Bodini e ora per Pagano, umile critico al servizio dei poeti da più di mezzo secolo». 22 23

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Notizie



Nicola Giuseppe De Donno è nato a Maglie (Lecce) il 21 marzo 1920, ed ivi è deceduto il 7 marzo 2004. Si è laureato in Filosofia a Pisa, studente della Scuola Normale Superiore. È stato docente e preside nel Liceo “F. Capece” di Maglie, la cui Aula Magna è a lui dedicata. Sono state edite tredici raccolte di sue poesie in dialetto salentino-magliese: Cronache e paràbbule (Edizioni del Centro Librario, Bari/ anto Spirito, 1972); Sìdici sunetti pe llu divorziu (Gioffreda, Maglie 1974); Paese (Capone, Cavallino 1979); Minisṭri e rriforme (Toraldo & Panico, Cutrofiano 1980); Mumenti e ṭṭrumenti (Manni, Lecce 1986); La guerra guerra (Schena, Fasano 1987); La guerra de Uṭràntu (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 87


1988); È Nnatale listessu (Congedo, Galatina 1989); Lu senzu de la vita (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1992); Lu Nicola va a lla guerra (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1994); E rritorna Natale (Congedo, Galatina 1996); Palore (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1999); Filosufannu? Cu lle vite, la Vita? Ma la Vita è scura (Grafiche Panico, Galatina 2002). Molti altri i versi, sempre in dialetto, stampati in riviste e giornali. Sue poesie sono state incluse nelle antologie: Poeti del Sud, a cura di A. Bello (Matino 1973); Oltre Eboli. La poesia, a cura di A. Motta, con interventi critici di C. A. Augieri (Lacaita, Manduria 1979); Le parole di legno: poesia in dialetto del Novecento italiano, a cura di M. Chiesa e G. Tesio (Oscar Mondadori, Milano 1984); Puglia, a cura di M. Dell’Aquila (La Scuola, Brescia 1986); Poesia dialettale dal Rinascimento ad oggi, a cura di G. Spagnoletti e C. Vivaldi (Garzanti, Milano 1991); Letteratura dialettale salentina dall’Otto al Novecento, a cura di D. Valli (Congedo, Galatina 1995, «Biblioteca di scrittori salentini», diretta da M. Marti); Rassegna della poesia pugliese contemporanea, a cura di A. Lippo (Portofranco, Taranto 1997); Dialect Poetry 88


of Southern Italy. Text and criticism. (A trilingual Antology), Legas, Brooklin NY 1997); L’interrogativo religioso nei poeti salentini contemporanei, a cura di A. Macrì Tronci (Milella, Lecce 2000), Voci del tempo. La Puglia dei poeti dialettali, a cura di S. D’Amaro (Gelsorosso, Bari 2011). È stata pubblicata, postuma, l’antologia La mia parabola (Manni, Lecce 2004), a cura di D. Valli, che raccoglie suoi sonetti scelti. Della produzione saggistica si citano: Interpretazione di Pascal (1961); Della carboneria in Maglie e nel Salento (1967); Oppressione e resistenza nei proverbi salentini di lavoro (1978); Il dialetto salentino “poleto” e il latino rinascimentale “maccheronico” (1986); Santa Cesarea Terme: dal mito dei giganti all’appalto delle sorgenti (Congedo, Galatina 1988); Indovinelli erotici salentini (Congedo, Galatina 1990); Prontuario salentino di proverbi aspri maliziosi ironici sarcastici (Congedo, Galatina 1991); 512 proverbi salent(r)ini: il numero tre nell’immaginario popolare di Terra d’Otranto (Congedo, Galatina 1994); Dizionario dei proverbi salentini (Congedo, Galatina 1995; ristampa 2005 e distribuzione in allegato a «La Gazzetta del Mezzogiorno»); Ritratto biografico di fra’ Luigi De Don89


no, mio figlio (1995); Historia delli Martiri. L’Informo otrantino del 1539 (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1996); Li cunti te la nonna. Sessantacinque racconti in dialetto salentino, corredati di traduzione italiana (Grafiche Panico, Galatina 2000); a cura di De Donno Frà Luigi Maria, Poesie, prose, itinerari (Grafiche Panico, Galatina 2001). È stato incluso nella Storia della letteratura italiana, vol. IX Il Novecento, parte II, Il secondo novecento, a cura di E. Malato (Il Sole 24 Ore, Milano 2005). Ha collaborato a numerose riviste e giornali culturali. Di alcuni è stato componente della redazione: «Rassegna Salentina», «Sallentum», «l’incantiere», «Tempo d’oggi», «Questa città», «Contributi». Gli sono stati assegnati il premio “Puglia” per la poesia satirica (Bari), il premio “Gobetti” per la saggistica (Manduria) e, postumo, il premio “Galateo” (Galatone). Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica la Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte (1986). Con deliberazione n. 12 del 10.03.2004 del Consiglio Provinciale della Provincia di Lecce, è stata a lui intitolata la Fondazione “Centro studi per la tutela e la promozione della lingua Salentina”. 90


Indice

Per introdurre Ri-trovamenti

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Indizi, residui, tracce e germi ‘aurorali’…

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di L. Angiuli

di C. A. Augieri

Poesie Sera magliese d’agosto … Pure, amica, cos’è questa vorace Russia Commiato Forse la stessa luna che stasera Nell’eletta regione della piazza Ecco, la conosciuta Cangia più chiaro il vento sugli ulivi Preghiera Laica a ritratto di Antonio

Poesie Ricordi le falene che morivano Mi piace l’acqua oleosa dei porti Un grigio in vari toni pei lungarni Mi sbocciava il mistero dalla bocca Fossimo soli, lontani da tutti Io vissi non so quali vite


Lunghi fantasmi custoditi nell’anima Tra la gran folla delle vie rilucenti Quando la vita è colma Chi conosce i meriggi di agosto I fichi son chiusi di foglie Crepuscoli lunghi a morire… Le stagioni del mare

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Postfazione

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Notizie

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di D. De Donno





Finito di stampare nel mese di settembre 2015 da Arti Grafiche Panico - Galatina per conto delle Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. - Lecce

â‚Ź 8,00


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